mercoledì 18 settembre 2013

Repubblica 18.9.13
L’uomo moderno alla ricerca della luce
di Juliàn Carròn


CARO direttore, con un gesto insolito – una lettera spedita ala Repubblica – papa Francesco ha risposto alle domande che Eugenio Scalfari aveva sollevato nei mesi scorsi a proposito dell’enciclica Lumen fidei.Che cosa ha mosso il Pontefice? Il desiderio di «fare un tratto di strada insieme», mostrando con ciò stesso fino a che punto intende praticare per primo la «cultura dell’incontro».
Eche cosa gli consente di percorrere un tratto di cammino con chi la pensa diversamente, nel caso specifico col fondatore dela Repubblica? Il bisogno che hanno entrambi, in quanto persone, di quella luce che permette di vivere il meglio possibile da uomini. «Anch’io vorrei che la luce riuscisse a penetrare e a dissolvere le tenebre», ha risposto Scalfari all’offerta di papa Francesco.
È questo desiderio di una luce per non smarrire la strada a costituire il criterio per il dialogo tra noi uomini. Ogni esperienza del vivere è alla fin fine giudicata da questa esigenza che ci troviamo addosso e che costituisce il fondo più profondo di noi stessi. La lealtà con questo desiderio è ciò che stimola gli uomini al vero dialogo, tanto tengono alla propria vita.
L’uomo moderno ha cercato di rispondere a questa esigenza con i “lumi” della razionalità. È possibile a un uomo moderno, così fiero della sua autonomia, della sua ragione, e a un successore di Pietro mettersi in dialogo leale, non fittizio? Papa Francesco e Eugenio Scalfari ce lo hanno dimostrato. Ma ci hanno mostrato anche qual è il terreno di un autentico dialogo: non il confronto dialettico, ma l’incontro di due esperienze umane. Il dialogo è possibile, ma soltanto se ciascuno è disponibile a mettere in gioco la propria esperienza del vivere.
È su questo terreno che papa Francesco ha accettato di giocare la partita, senza mettere in campo altra “autorità” che non sia la sua personale esperienza di uomo desideroso della luce: «La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto. Senza la Chiesa – mi creda –» confessa a Scalfari «non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità».
Papa Francesco descrive, Vangelo alla mano, come sia stata possibile, fin dall’inizio del cristianesimo, la fede come una adesione ragionevole. Questa adesione poggia tutta sul riconoscimento di quella “autorità” di Gesù «che emana da dentro e che si impone da sé», che gli era stata data da Dio «perché egli la spenda a favore degli uomini». «L’originalità della fede cristiana fa perno sull’incarnazione del Figlio di Dio», che «non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri». Al contrario, continua il Papa, «la singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione». Questo significa che è possibile cogliere la verità della fede – la luce che dissolve le tenebre – solo all’interno di una relazione. Come ha osservato acutamente Salvatore Veca, «il Pontefice espone un’idea della verità fondata su una relazione. Non è certo una verità mutevole, ma è impossibile isolarla, immunizzarla da contatti esterni, scolpirla nella roccia, perché vive solo nella relazione ed è quindi per sua natura aperta» (Corriere della Sera, 12 settembre2013).Potrà mai interessare la luce della fede a un uomo che non vuole rinunciare a niente della sua ragione e della sua libertà? Non la sentirà come una costante mortificazione della propria umanità? Per dirla con Dostoevskij, «un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?».
Nietzsche accusava la fede cristiana, scrive il Papa nella Lumen fidei, di avere «sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani» (n. 2). L’enciclica non si sottrae a questa sfida, addirittura la rilancia: «Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla meta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione» (n. 3).
La luce della fede, invece, interesserà solo a chi non riduce la propria umanità e il proprio desiderio. In questo senso, è stato per me commovente vedere due persone come Francesco e Scalfari confrontarsi da uomini sulla propria strada del vivere. È in questo il valore del dialogo instaurato dal Papa, come indicazione alla Chiesa di quale sia la strada da percorrere per un vero e autentico confronto. Non è forse questo il compito dei cristiani e della Chiesa? Testimoniare che razza di luce introduce la fede nella vita per affrontare le vicende di tutti. A coloro che li incontrano spetta verificare se realmente questa luce può essere utile per illuminare la loro vita. È il rischio che ha corso Dio diventando uno tra gli uomini.
Il dialogo tra il Pontefice e il giornalista – così fuori dagli schemi soliti eppure così affascinante – è un grande aiuto alla strada che dobbiamo percorrere tutti: ciascuno, infatti, deve paragonare la propria esperienza del vivere con quel desiderio di luce – di verità, di bellezza, di giustizia, di felicità, direbbe don Giussani – che ci costituisce. Possiamo rintracciare nella nostra esperienza i segni di una risposta a quel desiderio tanto inestirpabile, che resiste e riaffiora anche sotto cumuli di macerie?
Jean Guitton diceva che il termine «ragionevole designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza». Con la lettera ala Repubblica il Vescovo di Roma ha offerto a tutti la testimonianza di questa sottomissione che fa luce sulle cose. Là dove un’umanità è disponibile a fare un tratto di strada insieme, cosa si può desiderare di più che imbattersi in compagni di cammino così?
(Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione)

Repubblica 18.9.13
Ma io diffido dell’amore universale
di Guido Cernetti


CARO direttore, nel dialogo confidenzialmente pubblico tra papa Francesco e Eugenio Scalfari, mi permetto di intervenire senza imbarazzo, anche se la mia povera opinione può risultare più di disturbo che di plauso. Di applausi tutti ne ricevono troppi. Mi dissuade dall’applaudire l’eccessiva reciproca tolleranza. Il Contrasto (Pólemos) non è “padre di tutte le cose”? Una parola moderna è ancora più forte: “Il combattimento spirituale è altrettanto brutale della battaglia d’uomini” (Arthur Rimbaud). Sulle questioni ultime, bisogna soffrire e far soffrire con le parole.
Manca il dramma, nel dialogo Papa Scalfari. Ciascuno, nel proprio dogma, si sente al sicuro. Dubito sia così, tra persone di elevata intelligenza, nel loro interno, ma non c’è rumore, nel loro scambio, di spade incrociate all’ultimo sangue. Entrambi gli interlocutori hanno in comune il soffio di una spiritualità morta, perciò il combattimento che impegnano è orfano della brutalità rimbaldiana.
Ricordo un importante fallimento di Benedetto XVI: cercò di reintrodurre con un Motu proprio la messa tridentina, perché la conciliare è stato un vero assassinio liturgico e, avendo sensibilità musicale, volle eliminare le schitarrate elettriche dai riti superstiti. Ma siamo popoli delatinizzati, urtò con un clero più dotto di informatica che di verbi deponenti. Di America Latina non so niente, ma non credo che i suoi curati e vescovi abbiano familiarità con la latinità immortale di noi rari nantes. Tuttavia la Chiesa ha più bisogno di gregoriano che di esenzione dalle tasse in Italia.
E ora tutto il carisma di papa Bergoglio si spende in ciò che sempre più allontana la Chiesa dal suo necessariamente scandaloso radicamento nel Trascendente delle origini. Quei rabbiosi straccioni senza pane della Riforma, che straziava e illuminava di grande il problema della Grazia, erano ben più veri cristiani di questi servitori del mondo incapaci di comprenderne il bisogno di assoluto che gli pesa sulla schiena di Cristoforo indicibilmente. “Solo un Dio può salvarci” lasciò detto il bravo filosofo di Friburgo, ma a volerci perdere gli Dei dimenticati sono tanti. E formidabili le ultime righe di Lutero con toda su muerte a cuestas: “Siamo dei mendicanti, la verità è questa”. Mendicanti di altro, che non sia questo mondo di perdizione, che moltiplica i nonagenari e sega le ali ai bambini. Diffido delle proclamazioni di amore universale; siamo sette miliardi di àntropi su questa nave di pazzi, e amarli, tutti in blocco, è non amare nessuno. Del resto, non tutti hanno voglia di essere inclusi nell’abbraccio universale, sebbene tutti siano mendicanti di Lutero. Ma se do amore disperato alle donne che ricevono acido muriatico in faccia, darei tutt’altro a chi le assassina a quel modo: e il Papa se la sentirebbe? Il suo amore cristiano comprende anche i massacratori di cristiani che nel mondo sono un bel numero? Ero in San Giovanni mentre il cardinal Ruini da cento altoparlanti annunciava trionfalmente che la madre di un povero prete massacrato in Anatolia, don Santoro, aveva già perdonato, così in astratto, i suoi anonimi assassini. Mi venne da dubitare che quel suo figlio lei lo amasse poco, o che il perdono le fosse stato estorto da zelatori di amore universale su mandato della Cei... Insomma, all’imitatio Christi dobbiamo, come esseri umani, veramente umani, porre dei limiti.
Certamente questo papato, non soltanto per modalità di stile più consone ai tempi, ci riserva cose strabilianti. Che una lampada si sia accesa nel grigiore uniforme dell’Oltretevere mentre l’Italia politica sprofonda sempre più in una tenebra vociferante, merita un saluto silenzioso e un’attesa inudibile.

Repubblica 18.9.13
“Inevitabile la mescolanza dei popoli per questo io dico sì allo ius soli”
Il cardinale Scola: basta recinti, più dialogo con i non credenti
intervista di Carlo Annovazzi Zita Dazzi


MILANO — Cardinale Angelo Scola, nella sua Lettera pastorale definisce «un balbettio» la voce di Milano. A due anni dal suo arrivo, che città è Milano?
«Oggi c’è chi afferma che saremmo di fronte al termine del processo di secolarizzazione. I tentativi che si sono succeduti, a partire dalla modernità, di trovare un significato comune per tutti non sono riusciti. Siamo alla ricerca di un nuovo senso. Potremmo dire di un nuovo umanesimo che deve ancora vedere la luce. La parola balbettio la uso positivamente, come una promessa».
E questo umanesimo può partire da Milano?
«A Milano, e nell’area metropolitana lombarda, ci sono germogli promettenti di un nuovo umanesimo. Il tessuto sociale documenta, in molte forme, tentativi di risposta alla ricerca di senso e di speranza per la vita, luoghi di costruzione della vita buona e di buon governo. Anzi, quest’estate davanti alloShard (la Scheggia), il grattacielo-simbolo di Londra, mi veniva in mente il più alto dei grattacieli di Milano, che in forme moderne ripropone, con la sua freccia, una guglia del nostro Duomo. E pensavo: se l’emblema della Londra contemporanea registra la figura dell’umanità di oggi, che sembra un agglomerato di schegge di verità, quello di Milano con la sua guglia lanciata verso il cielo, verso Dio, può diventare simbolo della costruzione del nuovo umanesimo che ci attende».
Perché allora l’allarme di un “ateismo anonimo”?
«Io vedo un Duomo pieno di gente, così anche le parrocchie. Milano non è Parigi, Londra o Berlino. C’è ancora un cattolicesimo di popolo. Siamo allora al riparo a differenza del resto d’Europa? No, perché c’è una sorta di “ateismo anonimo” nel senso che molti cristiani hannoperso la percezione della presenza concreta di Dio nel quotidiano».
Lei ha coniato la definizione di “meticciato” e parla spesso della nostra società plurale. Oggi è più che mai attuale il tema del diritto di cittadinanza per i bambini figli di immigrati ma nati in Italia. Che ne pensa?
«Io istintivamente sono a favore dello ius soli, però anche questo va studiato e regolamentato con grande attenzione e realismo, perché in una situazione come quella attuale, non si può sancire meccanicamente il diritto per chiunque venga in Italia, anche per poco tempo, di fare un figlio, fargli ottenere la cittadinanza, e poi andarsene».
Ma proprio qui nella diocesi lombarda c’è chi chiede leggi più restrittive sull’immigrazione e chi ritira i figli da scuola per la presenza degli stranieri.
«Il mescolamento dei popoli è un processo. E i processi non ci chiedono il permesso di capitare: avvengono. Saggezza chiede che cerchiamo di orientarli al meglio, puntando all’integrazione. È di capitale importanza però distinguere i ruoli. La Chiesa è chiamata a fare una cosa, la società civile è chiamata a farne altre, la politica altre ancora. Quando il Papa va a Lampedusa, testimonia che la Chiesa deve farsi carico del bisogno nella sua immediatezza. Arriva da noi gente che sta male: la si accoglie, la si aiuta. Poi però la politica deve fare la sua parte. Sull’immigrazione è necessaria una politica capace di interpretare e di gestire le istanze che nascono dalla società civile, compresa la paura della gente».
Come sta vivendo i primi mesi dopo l’arrivo di papa Francesco? Dialoga con i non credenti, come nella lettera inviata a Eugenio Scalfari e a Repubblica. Vuole aprire i conventi ai rifugiati...
«Il Papa, con la sua personalità e il suo stile, ha testimoniato con forza e freschezza l’essenza del fatto cristiano. Senza dubbio papa Francesco rappresenta per tutta la Chiesa — e in particolare per noi europei, stanchi e affaticati perché abbiamo portato sulle spalle il peso della complessità moderna — una provocazione salutare, una scossa, uno shock benefico. Dobbiamo tutti seguirlo. La vivacità dello stile personale e la sapienza di papa Francesco ci invitano a semplificare, ad evitare il rischio di troppa organizzazione. Mi viene in mente Michelangelo e penso al metodo con cui creava i suoi capolavori: di fronte al blocco di marmo vedeva la forma della statua e per lui scolpire era anzitutto tirar via».
Lei invita la Chiesa a «non richiudersi nei recinti» e a dialogare con il mondo, cercando un «confronto leale» anche con chi la pensa diversamente.
«Se voglio capire le ragioni di uno che non crede, devo ascoltarlo e confrontarmi, ed anche lui deve ascoltare e confrontarsi con le mie ragioni. Questo non solo è inevitabile, ma è anche l’aspetto affascinante di una società plurale. Visioni diverse si confrontano e talora si scontrano per arrivare ad un riconoscimento reciproco. Occorre superare il limite umano che si radica nel pregiudizio: se non lo faccio non sono capace di autentica critica».
Oggi il lavoro è un problema drammatico a Milano come in Italia. Come si esce da questa crisi economica?
«Non si capisce questa crisi economico- finanziaria se non inserendola nel travaglio dell’epoca in cui stiamo vivendo. La finanza ha potuto prendere certe strade proprio a causa di quella “scheggiatura” culturale di cui ho parlato. Se ci fosse stato un umanesimo unitario di riferimento, pur nella pluralità, forse certi eccessi sarebbero stati impediti. A questo punto dobbiamo avere l’umiltà e il coraggio di cambiare. La prima cosa, la più urgente, è condividere il bisogno dei giovani che non trovano lavoro e dei quarantenni e cinquantenni che lo perdono. Qui a Milano la Chiesa sta dando un contributo con il Fondo Famiglia Lavoro».
Torniamo a Milano. L’Expo può rappresentare un’occasione di rilancio?
«L’Expo è un catalizzatore, cioè un potenziale fattore di unità. Il suo tema, “Nutrire il pianeta”, è bello, ha a che fare con tutti e tre gli aspetti della vita dell’uomo: affetti, lavoro, riposo. Inoltre a noi cristiani questo tema sta particolarmente a cuore perché il centro della nostra vita quotidiana è l’Eucaristia, cioè mangiare il corpo di Cristo. Io credo che se lavoreremo bene, Milano farà sentire la sua voce in tutto il mondo mostrando il suo contributo a quel nuovo umanesimo di cui parlavamo».

il Fatto 18.9.13
Da suore e prelati bonifici milionari sui conti dello Ior
Nella relazione JP Morgan, i movimenti degli ecclesiastici
Dall’ex vescovo di Urbino che versa ai parenti 1 milione di euro, alla monaca che deposita 150mila dollari
di Marco Lillo


Suore che depositano migliaia di banconote da 100 dollari, arcivescovi che fanno bonifici milionari ai parenti e poi tante altre operazioni sulle quali la Procura non ha ritenuto di aprire indagini ma che aprono uno spaccato interessante sul rapporto tra la Chiesa e la ‘roba’ attraverso la lente dei conti IOR. Le operazioni talvolta sono state considerate ‘sospette’ dalle autorità bancarie o poco trasparenti dagli stessi istituti di credito che gestiscono le finanze dello IOR in Italia. Ma non sono state contestate dalla Procura di Roma nell’avviso chiusura indagini per i dirigenti della banca vaticana. Le mazzette di dollari e i bonifici emergono dalle carte dell’inchiesta appena chiusa con la contestazione della violazione della normativa anti-riciclaggio (un reato formale punito con una pena minima) nei confronti di Massimo Tulli e Paolo Cipriani, rispettivamente vicedirettore e direttore dello IOR, Istituto per le Opere di Religione. Agli atti dell’indagine dei pm Nello Rossi e Stefano Fava c’è per esempio la nota del-l’UIF che sviluppa la ‘segnalazione dell’operazione sospetta’, dove l’operazione in questione è quella effettuata da una suora alla Banca Prossima, filiale di via Aurelia in Roma, il 5 ottobre 2010. Quel giorno suor Graziella L. si presenta allo sportello con 15 mazzette con timbro Ior e le versa sul conto dell’Istituto delle Suore Francescane Angeline per il quale suor Graziella è delegata. Nella segnalazione della banca, poi sviluppata dal-l’Ufficio Informazione Finanziaria UIF, l’anti-riciclaggio di Bankitalia, si legge: “Il sospetto nasce dall’entità e dall’origine non adeguatamente giustificata delle somme.
NELLO SPECIFICO, la somma versata è costituita da denaro contante in biglietti da 100 dollari USA con mazzette da 100 pezzi regolarmente fascettate con timbro dello IOR. A tal proposito il soggetto esecutore del-l’operazione, una religiosa dichiarava per iscritto e su carta intestata dell’Istituto di avere prelevato allo IOR in data odierna 150 mila dollari USA e di aver versato la somma sul conto di apertura presso Banca Prossima. Tra l’altro la religiosa preannunciava, per le vie brevi, l’esecuzione di ulteriori future operazioni similari. L’entità de-le somme versate e l’impossibilità di accertare l’effettiva provenienza hanno indotto l’intermediario a inoltrare la segnalazione. L’Istituto delle Suore Francescane Angeline è una scuola e con il medesimo codice fiscale risulta censita in Cerved (banca dati delle camere di commercio, Ndr) anche la Casa Mater Dei che invece è una struttura alberghiera”.
Agli atti c’è poi il carteggio tra la filiale italiana della banca americana JP Morgan e lo IOR. Nel novembre del 2011 l’UIF della Banca d’Italia mette sotto pressione la banca americana. Più di un anno prima, a settembre del 2010, la Procura di Roma aveva sequestrato 23 milioni allo IOR (sui conti accesi presso il Credito Artigiano e la Banca del Fucino) per il mancato rispetto delle normative anti-riciclaggio. Lo IOR opera in Italia schermando i reali intestatari dei fondi giacenti sui suoi conti calderone che celano sotto-rapporti bancari conosciuti solo da alcuni funzionari di alto grado come il direttore Paolo Cipriani. Quando la Banca d’Italia e la Procura di Roma hanno imposto un cambiamento di regime alle banche italiane, il Vaticano ha spostato gran parte della sua operatività sulla Jp Morgan di Francoforte, usando la sponda della filiale di Milano. Nel novembre 2011 l’UIF arriva anche lì e chiede informazioni su 150 operazioni effettuate sul conto
JP Morgan da molti soggetti che avevano il conto allo IOR. La banca gira le richieste allo IOR che risponde con informazioni considerate insufficienti da Jp Morgan. La banca americana allora scrive ancora al ‘compliance department’ di IOR il 19 gennaio del 2012, “al fine di ottemperare più compiutamente alle Nostre responsabilità in materia di anti-riciclaggio” e chiede “ulteriori informazioni in riferimento ai seguenti pagamenti e incassi”. Segue una lista di 11 operazioni effettuate da soggetti diversi. Il 13 febbraio IOR risponde picche e Jp Morgan il 30 marzo 2012 chiude il conto.
Molte operazioni per le quali lo IOR si è rifiutato di rispondere alla Jp Morgan sono poi confluite nell’accusa contro i vertici dello IOR, Paolo Cipriani e Massimo Tulli, che poi si sono dimessi nel luglio scorso. Altre operazioni, invece, pur essendo oggetto delle richieste di delucidazioni di Jp Morgan e pur essendo rimaste senza spiegazione compiuta da parte dello IOR, non sono finite nei capi di accusa. Tra queste ce ne è una interessante per la sua dimensione economica e perché coinvolge l’arcivescovo emerito di Urbino. “Marinelli Francesco” (alto prelato) come lo definisce Jp Morgan ha eseguito tra il 27 aprile e il 18 maggio 2010 sei bonifici per complessivi un milione e 100 mila euro a beneficio dei suoi parenti Gianluca, Giuseppe, Dino Gabriele e Francesco Marinelli. Jp Morgan chiede le seguenti informazioni allo IOR sui bonifici di Marinelli dal conto dell’arcivescovo a quelli dei parenti: “Origine dei fondi e congruità con l’attività svolta ed eventuale provenienza da soggetti terzi (in caso positivo a quale titolo) ”.
LO IOR non risponde (per tutte le operazioni) e Jp Morgan chiude il conto. Non c’è’ nulla di male a donare un milione a fratello e nipoti. I prelati hanno diritto ad avere un conto allo IOR. Quindi la Procura ha ritenuto di non contestare alla dirigenza IOR alcun reato per i bonifici di Marinelli. Certo la curiosità della Jp Morgan sull’origine dei fondi e sulla loro congruità con l’attività del prelato, resta inevasa. Monsignor Francesco Marinelli allora era Arcivescovo di Urbino, carica che ha lasciato nel 2011. Al Fatto che gli chiede se ricorda i bonifici, l’arcivescovo emerito risponde: “No, non so nulla di tutto questo”.

l’Unità 18.9.13
Fabrizio Barca: «Al Pd serve un vero segretario»
«Resto un battitore libero. Sì a un segretario vero»
«Ogni candidato ha qualcosa che mi piace: l’europeismo di Pittella, la novità di Civati, la rottura di Renzi, l’impianto di Cuperlo»
intervista di Vladimiro Frulletti


Non ha ancora deciso chi sostenere al congresso, e forse non lo deciderà mai: «Voglio rimanere libero di poter fare il rompiballe sui contenuti». Ma Fabrizio Barca a conclusione del suo giro d’Italia alla ricerca del Pd che c’è (da cui ha tratto il libro, La traversata, che esce oggi per Feltrinelli), l’idea su quello che dovrebbe essere il Pd l’ha chiara. Netta separazione fra segretario e candidato premier per evitare che il partito diventi megafono del governo e quindi «inutile» nella società. E più potere decisionale a chi si impegna nel partito che a chi vota solo alle primarie. Il nodo, spiega, è come costruire una moderna forma partito. Ed è su questo punto che fin qui i «quattro candidati non hanno ancora dato garanzie».
Oltre 21mila km percorsi, oltre 10mila persone incontrate in più di 162 circoli. Il suo viaggio nel Pd ha mostrato una gran voglia di partecipazione, eppure gli iscritti sono in calo: il tesseramento è a poco più della metà dei 500mila del 2012 e meno di un terzo degli oltre 800mila del 2009. Non è strano?
«No, in tutti gli incontri c’è sempre stata una quota rilevante, tra il 30 e il 40%, di non iscritti. E di questi, molti che non avevano rinnovato la tessera e moltissimi pure che s’erano messi in coda alle primarie».
Come spiega questa caduta nel tesseramento?
«Perché non è chiara la ragione sociale per cui iscriversi. La tessera la puoi prendere per nostalgia, per un legame con un certo mondo, ma il Pd non suscita oggi sentimenti molto forti. Oppure la puoi prendere per fare qualcosa, per discutere e decidere. E questo avviene assai poco nel Pd».
Il numero sempre più basso di iscritti non dimostra che il Pd non può fare a meno di quei 3,5-4 milioni di persone che pur non avendo la tessera partecipano alle primarie? Con la sua idea di dare potere decisionale solo a chi effettivamente partecipa alla vita di partito, non si rischia di restringere il campo e rinunciare a quel patrimonio che sono gli elettori delle primarie?
«Il voto alle primarie ti costa solo un po’ di suola delle scarpe. Non è molto faticoso. Fai molta più fatica a iscriverti e soprattutto a partecipare e a lavorare in una associazione. Lo scarto col fare la fila al gazebo è profondo. E ovunque la politica che suscita partecipazione sta proprio nella possibilità concreta di incidere sul proprio destino. Non è sufficiente infilare un nome in un’urna. Ecco se hai un partito che li fa decidere si iscrivono, altrimenti è grasso che cola se quando ci sono le elezioni ti votano».
Dalla sua idea di cosa dovrebbe diventare il Pd se ne deduce che lei sosterrà Cuperlo. Sbaglio?
«Sì, si sbaglia. Tutti i quattro candidati offrono idee interessanti, ma da nessuno ho sentito ancora come costruire una forma partito moderna. Nessuno ha ancora spiegato come mettere in rete i circoli, cosa fondamentale che infatti fanno tutte le più moderne associazioni come Greenpeace. Nessuno ha detto chiaramente che il partito non è una scorciatoia per un incarico pubblico da qualche parte. Nessuno propone, come chiedono i tanti circoli che ho incontrato, che la direzione sia ridotta da 200 a 20 membri per renderla davvero un organismo che decide. Al momento in ogni candidato c’è una parte che mi piace. L’attenzione all’Europa di Pittella, le esperienze giovanili che Civati suscita e intercetta, la voglia di far saltare le posizioni di rendita di Renzi e l’impianto teorico di Cuperlo».
Quindi non ha ancora deciso.
«Non posso farlo perché non vedo impegni».
Deciderà?
«Forse. Ma il mio piccolo ruolo non è indicare un nome, ma spingere l’attenzione dei candidati su due nodi da sciogliere».
Quali?
«Come appunto si ricostruisce un partito che scateni un vero confronto di idee e che così produca pressione su chi governa. E poi con quale metodo e strategia si governa il nostro Paese. Sono venti anni che il centrosinistra ci prova e non ci siamo riusciti. È vero che paghiamo le code delle vicende passate e che la congiuntura è particolarmente difficile, ma ci serve anche un partito che voglia e sappia realizzare cambiamenti radicali. È questo che dico nel mio libro-riassunto del viaggio che ho fatto in questi mesi fra il popolo del Pd. Non essendo alla ricerca di collocazioni, mi posso permettere di fare il rompiballe».
Bersani dice che non capisce che idea di Pd abbia in testa Renzi. Lei l’ha capita? «Del sindaco di Firenze mi piace l’idea di introdurre meccanismi concorrenziali nel partito e nella società. Perché uno dei mali italiani è la difficoltà a scardinare le posizioni costituite. Ma il rinnovamento come lo vuol fare? Attraverso una gara di idee e persone per una nuova sinistra forte o calando dall’alto una nuova cordata? È questo a cui non ho avuto ancora risposta».
Un elemento determinante per stabilire quale Pd avere nel futuro è la questione segretario uguale candidato premier. Lei è per dividere le funzioni. Tuttavia i generali senza esercito, come Prodi nel 1996, durano poco.
«No l’esercito c’era. Il problema di quel governo fu una strategia troppo astratta e costruita da un’élite. Per me prima serve una strategia resa precisa e condivisa dal confronto-conflitto dentro il partito e poi ancora un partito pronto a sostenere nella società gli scossoni che inevitabilmente produrranno le scelte del governo. Perché è ovvio che quando si inizia a togliere le incrostazioni che ci sono in Italia poi l’impatto va retto. E non lo può reggere un partito-megafono del governo. Il partito cioè deve svolgere un compito non dico autonomo, ma sicuramente diverso da quello del governo. Se il segretario è anche premier il partito è solo un megafono del governo, non uno strumento della società. E così non serve a molto, neppure a chi guida il governo».
Nella sinistra europea, forse con la sola eccezione francese, il leader del partito è anche candidato premier. «Prendiamo il caso di scuola: la Gran Bretagna. Come si sa la strategia di Blair è per molti versi fallita. Però è un tentativo alto, che ha molto da insegnarci e ha retto dodici anni. E che prima di arrivare a battere i conservatori impiega sette anni di confronto, anche duro, sulle cose da fare e che per tre anni è spinto da un leader che si dedica solo al partito. L’insuccesso e la crisi del partito laburista sono anche figli della sua successiva mancata autonomia».
Oggi il Pd è al governo col Pdl. Quanto malessere ha trovato nella base democratica per le larghe intese? «Parecchio. Ma, come si vede dal libro, che ha un intero capitolo dedicato alle voci dei circoli, tutti indicano anche una via d’uscita molto pratica. Visto che ci siamo, dicono, vogliamo chiedere a questo governo di fare cose che sono più vicine alle nostre corde e più utili all’economia? Vogliamo essere come partito tanto robusti come lo è stato il Pdl con l’Imu? Questo chiedono».
Teme uno scivolone del Pd sulla decadenza di Berlusconi?
«No. La situazione è così chiara. Uno scivolone non è pensabile, anche perché se accadesse sarebbe la fine del Pd».

il Fatto 18.9.13
Fabrizio Barca. Esce oggi per Feltrinelli il suo libro “La traversata”
“Chiesi ai miei grandi vecchi se lavorare con B.”


Esce oggi per Feltrinelli il libro di Fabrizio Barca “La traversata” che raccoglie la memoria politica dell’ex ministro del governo Monti, alcuni interventi di commento e un diario del viaggio tra le sezioni del Pd. Nel libro c’è anche una lunga intervista con Stefano Feltri, di cui anticipiamo uno stralcio relativo a quando Barca lavorava come capo dipartimento al ministero dell’Economia.
Nel 2001 vince Berlusconi e all’Economia arriva Giulio Tremonti.
Tremonti pensava che fossi un consulente e che quindi me ne dovessi andare. Ma nel frattempo avevo conosciuto Gianfranco Micciché, cui era stato affidato l’incarico per l’area che avevo seguito. Dopo una quindicina di giorni mi venne proposto di riprendere l’incarico di capo dipartimento. Io spiegai qual era la strategia su cui volevo muovermi e la approvarono. Ma mi posi il problema di come potevo lavorare con un governo di cui non condividevo la matrice politica e la linea, nonostante le garanzie ricevute. E quindi mi rivolsi ad alcuni “grandi vecchi” che stimavo, tra cui mio padre, per un giudizio. In un caso ci fu addirittura una votazione: con un voto non unanime – c’era un contrario – mi diedero parere favorevole a riprendere l’incarico. E quindi accettai l’offerta di tornare al mio posto come capo dipartimento. [... ]
Pur avendo ottenuto il voto favorevole dei grandi vecchi cui si era rivolto, non le ha creato scrupoli lavorare nel governo Berlusconi in quegli anni?
Il capo dipartimento ha una figura con poteri importanti di raccordo, un ruolo misto tra politica e amministrazione. Mi sono sempre sentito pienamente responsabile delle cose di cui ero competente. Quando sei membro di un governo, alla fine sei responsabile di tutte le decisioni prese dal Consiglio dei ministri. Da capo dipartimento rispondi di ciò che ti è affidato, non del resto. È evidente che molte delle cose che faceva il governo Berlusconi mi trovavano in profondo disaccordo, ho anche partecipato a diverse manifestazioni in quel periodo, ma non c’era contraddizione. [... ]
Lei appartiene a quella parte di sinistra che riesce a parlare di politica senza nominare Berlusconi. Come mai?
Ho parlato molto di Berlusconi, anche all’estero, negli anni in cui era potente e io ero capo dipartimento. Tutti mi facevano domande. E ho sempre cercato di spiegare che bisognava separare due aspetti. Da un lato stanno la sua vita personale con la connessa, impropria, commistione con la vita pubblica; la sua scelta di non comprendere quanto un ruolo di governo richieda riservatezza e attenzione nelle scelte private; le sue vicende giudiziarie che gravano sulla vita italiana da vent’anni. Dall’altro sta il tema – completamente diverso – del perché Berlusconi ha vinto per questi vent’anni: certo, perché si avvale della sua capacità comunicativa e delle sue televisioni, ma ci sono altre ragioni. L’Italia è un paese di ceto medio, il 16 per cento delle famiglie conta almeno un membro che svolge attività imprenditoriale, una specificità tutta italiana che sia De Gasperi sia Togliatti avevano ben colto. [... ] Qual è stato il messaggio rivolto dalla sinistra italiana a questo ceto medio negli ultimi vent’anni? Una volta “passata” la tolleranza per l’evasione fiscale, per il credito facile e per certe modalità di funzionamento delle cooperative – bianche o rosse o delle banche –, per questo pezzo decisivo dell’economia italiana non è stata immaginata una nuova strategia, un ruolo, e quindi una politica. A questo popolo Berlusconi ha invece saputo parlare, con un linguaggio che non condivido, ma gli ha parlato: combinando un libertarismo estremo (che risponde alla loro pancia) con il non rispetto delle regole (che aggira la questione di uno Stato normo-centrico e arcaico). [... ] C’è poi un fastidioso cotè di critiche che se la prende con Berlusconi perché suonava e cantava sulle navi da crociera: deridere il parvenu – lo siamo quasi tutti – rivela un retropensiero aristocratico che alligna dentro la sinistra.
La traversata, di Fabrizio Barca, Giangiacomo Feltrinelli Editore Prima edizione in Serie Bianca settembre 2013

il Fatto 18.9.13
Matteo Renzi, il “nuovo” che ci aspetta
di Mauro Chiostri


Sono anni che in questo Paese si straparla sulla necessità non più procrastinabile di un cambiamento radicale della classe politica che ha imperversato in questi ultimi venti anni e che ha ridotto l'Italia nelle condizioni nelle quali versa. La cosa deprimente è rendersi conto che, dopo il fallimento di Grillo nel quale molti avevano riposto le speranze, l'unica figura che si autodefinisce “nuova” nel panorama politico attuale è il “simpatico” sindaco Matteo Renzi. Se questo sarà il “nuovo” che ci aspetta temo che la già copiosa emigrazione dal nostro Paese non potrà che aumentare.

Corriere 18.9.13
L’incontro Renzi - Veltroni a Roma
Il sindaco raccoglie l’eredità di Veltroni «Dobbiamo essere un partito cool»

di Al. T.

ROMA — Paolo Gentiloni, su Twitter, li definisce «quasi sposi». E in effetti l’incontro di ieri tra Matteo Renzi e Walter Veltroni, celebrato alla presenza dei «testimoni» Giorgio Tonini ed Enrico Morando, si può definire come un «matrimonio» politico. Il sindaco di Firenze spiega di essersi avvicinato alla politica grazie a Veltroni: «Uno dei primi libri acquistati fu “Il sogno spezzato”, di Veltroni, con i discorsi di Bob Kennedy». Ma anche di avere come punto di riferimento il discorso del Lingotto di Veltroni e la sua vocazione maggioritaria. L’ex segretario del Pd benedice la discesa in campo per la leadership di Renzi, invitandolo a essere «inclusivo». Poi spiega che il Pd è nato per essere «forza di cambiamento», che non deve lasciare «solo a papa Francesco la parola valori» e che «sta finendo il berlusconismo ma anche l’antiberlusconismo». Quanto al compito del Pd: «Il riformismo non è una passeggiata di salute». Ma per questo pensa a Renzi: «Faccio fatica a pensare alla sua premiership sganciata dalla guida del partito». Il sindaco di Firenze lancia una stoccata al governo: «La ripresa non si aggancia, si costruisce». Attacca le correnti: «Serve uno tsunami». Critica il Pd attuale: «Sembra una terapia di gruppo. Deve tornare a essere cool. Il partito “solido” è quello che ha portato gli iscritti da quota 800 mila a 250 mila». Una stoccata a Pdl e colleghi: «I primi a fare comunicati contro di me sono Brunetta e Fassina». E a Pier Luigi Bersani: «Ha detto che non voleva vincere sulle macerie. Io intanto vorrei vincere, poi penseremo a ricostruire».


Corriere 18.9.13
Pd e Pdl a un passo, M5S sotto il 20% Il primato di Renzi


MILANO — Se gli italiani andassero a votare ora, il Pd, nonostante le beghe interne, sarebbe ancora una volta il primo partito (anche se il distacco dal Pdl non arriverebbe neanche a un punto percentuale, esattamente come accadde alle Politiche di febbraio).
È quanto emerge da un recente sondaggio Ispo: le rilevazioni effettuate tra il 9 e il 10 settembre configurano un nuovo (ipotetico) emiciclo con, appunto, il Pd al 29,1%, seguito subito dopo dal Pdl al 28,2% (alle ultime elezioni presero rispettivamente il 29,5% e il 29,2%, con l’ormai noto impatto sulla governabilità che ha poi portato al governo di larghe intese). Si ridimensiona di molto, invece, l’exploit del Movimento 5 Stelle: se a febbraio aveva toccato quota 25%, irrompendo così in Parlamento, ora, secondo le risposte al sondaggio sulle intenzioni di voto, scende al 18,9%. Se si resta in ambito democrat , il successo di Matteo Renzi risulta evidente: i giudizi positivi sul sindaco di Firenze come figura trainante del partito toccano il 52% tra tutti, il 92% tra l’elettorato del Pd e il 68% tra l’elettorato potenziale dei riformisti. Seguono il presidente del Consiglio Enrico Letta (con la triade di percentuali 48, 80 e 68%), il segretario «traghettatore» Guglielmo Epifani (28, 60 e 37%) e il candidato dalemiano alla guida del partito Gianni Cuperlo (13, 26 e 10%). È Renzi il futuro segretario del Pd che vogliono tutti, sia gli elettori certi del Pd, l’80%, che quelli potenziali, il 58%: né Pippo Civati né Gianni Cuperlo o Gianni Pittella arrivano a toccare la quota del 5% delle preferenze. Il sindaco di Firenze vince anche la sfida della premiership: il 33% degli intervistati prende in considerazione l’ex rottamatore come presidente del Consiglio mentre l’attuale premier Letta si ferma al 27%. Angelino Alfano raggiunge quota 15% battendo Silvio Berlusconi che raccoglie un consenso del 12,5%, stessa percentuale dell’ipotesi di Beppe Grillo premier. Infine, il sondaggio certifica che la figura di Matteo Renzi come futuro presidente del Consiglio non conquista solo la sinistra — è preso in considerazione dall’81% dell’elettorato certo del Pd e dal 52% dell’elettorato potenziale — ma anche la destra e i pentastellati: il 21% dell’elettorato certo del Pdl e il 36% di quello potenziale ha pensato al sindaco di Firenze come nuovo inquilino di Palazzo Chigi e lo stesso hanno fatto il 23% di chi vota i 5 Stelle e il 57% di chi voterebbe il partito di Grillo.

Corriere 18.9.13
Congresso Pd, accordo vicino. Ma torna l’ipotesi scissione
I tentativi per convincere Epifani a sfidare Renzi
di Maria Teresa Meli


ROMA — La verità l’ha detta Massimo D’Alema due settimane fa: «Enrico Letta starà con Renzi, perché il sindaco vince». Lui, l’ex premier, nonché ex ministro degli Esteri, sta bene dove sta, invece: a capo di una minoranza del 30 per cento, con Cuperlo candidato segretario. Cioè alla guida di una fetta di Pd che potrebbe andare via, o restare. Il termine scissione d’Alema non lo pronuncia. I suoi sì. Però se l’ex premier punta davvero a presiedere il Parlamento europeo la scissione diventa un problema.
Già, un problema a cui gli stessi renziani pensano: pure loro non escludono che, per dirla brutalmente con uno dei grandi sostenitori del sindaco di Firenze, «i comunisti stiano fuori». Anche se, a dire il vero, la disfida interna al Pd è un po’ più complicata del match Dc-Pci, se non altro perché uno dei contendenti, ossia Renzi, con la Democrazia cristiana non ha mai avuto a che fare, a meno che non si voglia far ricadere le “colpe” dei padri sui figli.
In mezzo, nella disfida tra la ditta di D’Alema e Bersani e gli ulivisti di Renzi, c’è Enrico Letta. Anche se Dario Nardella, ex vicesindaco di Firenze, rifiuta le letture semplicistiche: «È infondato e superficiale vedere il tutto come uno scontro tra i due. Il tema politico vero è: quali sono i pro e i contro di un Pd senza guida, congelato e debole?».
Racconta però il tam tam degli amici del premier che ancora ieri, nell’incontro con Epifani a palazzo Chigi, il presidente del Consiglio abbia chiesto al segretario di scendere in campo per il bene del partito e del governo, e, soprattutto, per stoppare Renzi. Vero? Falso? Possibile che un politico di lungo corso come D’Alema abbia sbagliato la previsione e che Letta si acconci a stare con il Pd perdente? Il premier non risponde e ribadisce che non vuole entrare nella dinamica congressuale. Il segretario tace. Alle 19 e 52 gli arriva un sms di questo tenore: «Sei in lizza? Se non rispondi bisogna prenderlo come un sì?». Il messaggio resta senza risposta e la circostanza aggiunge ambiguità ad ambiguità.
Intanto si continua a litigare sulle regole. Anche se il compromesso è vicino: i segretari regionali non verranno eletti prima del leader nazionale, proprio come voleva Renzi. A meno che — è il suggerimento di Franceschini — non si trovi un accordo tra le correnti: in questo caso si possono anche fare prima. Insomma, se Renzi vuole una stampella importante nel Pd deve fare delle concessioni. Ma il sindaco non ha granché voglia di farle. Si rigira tra le mani il timing delle pratiche congressuali: il 10 novembre la convenzione nazionale, il 24 dello stesso mese il voto delle primarie, il primo dicembre l’acclamazione in Assemblea. È un iter realistico a cui anche i renziani potrebbero dire di sì, con tutto che si sfora di quasi un mese la data del 7 novembre prevista dallo statuto.
Ma altre concessioni non possono farle. Anche perché il Pd è stufo, come dimostra il fatto che in tantissimi appoggiano il documento di Goffredo Bettini che immagina un nuovo centrosinistra e non si schiera nell’attuale contesa. «Noi siamo la corrente dei disgustati», spiega, scherzando ma mica tanto, il sottosegretario Vincenzo De Luca.
Dovrà essere Epifani, ovviamente, il garante di questa mediazione, ma se il segretario diventa parte in causa, allora i termini della questione cambiano. Nel frattempo, comunque, il sindaco di Firenze si muove come uno che non teme il terzo incomodo tra lui e Cuperlo. Lo stesso fa il suo avversario, che ha già affittato una sede per il comitato elettorale a pochi metri da Montecitorio. Solo che mentre il carro di Cuperlo è ancora semivuoto, quello di Renzi appare fin troppo affollato. «Io non imbarco il vecchio: questi li scarico tutti», si sfoga il sindaco di Firenze con gli amici. In pubblico però non arriva a tanto, anche se fa capire che non è disposto ad andare avanti di compromesso in compromesso. Nemmeno sull’esecutivo Letta: «Noi — spiega il sindaco ai suoi — sosteniamo questo governo perché deve fare due tre cose importanti, e per questo lo appoggeremo fino in fondo, ma una volta che le ha fatte, o che è palese che non riesce a farle, la parola deve tornare alla politica...».

il Fatto 18.9.13
L’assalto alla Carta ha un documento
Presentato il testo dei 33 saggi (rimasti)
Per la riforma: governo parlamentare del premier
di Sandra Amurri


Il documento di modifica della Costituzione stilato dai 33 saggi nominati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dopo il ritiro nello scorso weekend in un hotel di Francavilla a Mare è stato presentato ieri a Palazzo Chigi dal ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello Pdl e da Luciano Violante Pd. Documento che ora dovrà essere sottoposto all'approvazione del governo e del Parlamento. E come si augura Quagliariello “arriverà in aula per la prima delle quattro letture a fine primavera 2014”. Nel Paese dove la normalità è straordinaria, Quagliariello e Violante ripetono più volte che il compito loro assegnato è stato consegnato con un mese di anticipo rispetto alla scadenza dell'11 ottobre “lavorando anche di notte” precisa Violante e “gratuitamente” sottolinea Quagliariello. “Non vi è stata piena condivisione su tutti i punti, ma la commissione doveva illustrare al Parlamento le varie soluzioni e non decidere, cosa che spetterà al Parlamento”, ha spiegato ancora Quagliariello che alla domanda cosa ne pensa delle 438 mila firme raccolte dal Fatto in difesa della Costituzione, risponde: “Non ne condivido le ragioni, le riforme sono necessarie, la Carta ha bisogno di manutenzione” come se si fosse logorata per l'eccessivo utilizzo, mentre attende ancora di essere applicata. Ha bisogno di essere “ammodernata” come ha detto Enrico Letta, precisando che “cambiarla nella seconda parte non vuol dire sfasciarla” in quanto “un sistema con due Camere che hanno esattamente gli stessi compiti, e una legge elettorale che dà maggioranze diverse, non può funzionare, è una follia”. E l'urgenza, secondo Violante, è dettata dalla “gravissima crisi economica che ci impone di attrezzare le Istituzioni. Il Paese deve competere con altri Paesi con sistemi più efficienti” conclude senza mai mettere l'accento sulla crisi morale che attraversa i partiti, la politica, le Istituzioni che, come recita l'art 54, secondo comma, della Costituzione, “i cittadini chiamati a svolgere funzioni pubbliche devono adempierle con disciplina e onore”. Una modifica riassumibile in 7 punti ha poi spiegato Violante: “Il governo nascerà dalle urne, il premier sarà forte in un Parlamento forte, i deputati verranno drasticamente ridotti, da 630 a 450 i deputati e da 315 a 120 i senatori; il procedimento legislativo sarà semplificato, verrà ridotto il ricorso al decreto legge, più potere ai cittadini: circa 200 mila le firme necessarie per presentare una proposta di legge e 70 mila per il referendum finale propositivo”. Il sistema elettorale suggerito dai saggi è simile a quello per l'elezione dei sindaci. Secondo turno ballottaggio se al primo turno nessuna forza politica o coalizione raggiunge la soglia del 40% per alcuni, del 50% per altri. La novità, sottolinea Violante, sta nella “coerenza tra forma di Stato, di governo, Parlamento e potere dei cittadini. Un meccanismo che finora non si è potuto avere”.

il Fatto 18.9.13
Corte Costituzionale
Oggi il professore giura da giudice con l’ermellino
I “consigli” intercettati nel 1990 imbarazzano ancora l’ex tesoriere Psi
“Non fare nomi, niente frittate”, fu il consiglio di Amato alla vedova di un socialista da poco defunto
L’Amato dalla Casta difeso a colpi di “non so”
Parlamentari in fuga: i pochi che rispondono dicono di non aver sentito l’intercettazione
Dal Pd al Pdl: tutti pro Dottor Sottile
di Emiliano Liuzzi


La casta si stringe attorno a Giuliano Amato. Lo fa nella maniera che le viene più naturale: far finta di ignorare se ci sia o meno un problema. Ieri in Transatlantico solo a nominare l'intercettazione che ha scatenato un polverone attorno a colui che è stato ex vice segretario del Psi ed è un ‘ex’ di una lunga serie di altre cose, come primo ministro e pluri-candidato al Quirinale, la risposta è unanime: “Non ho ascoltato fino in fondo la registrazione della telefonata”. Lo dice Matteo Richetti del Pd, Laura Ravetto del Pdl. Ne ignora l'esistenza Mariastella Gelmini. Si limita a uno “stimo Amato” incondizionato Pier Ferdinando Casini. Poi nelle stanze delle commissioni tempo appresso alla questione ne hanno perso, ne parlava Rosy Bindi, ma non solo.
La questione è datata 1990, ma non cambia niente rispetto all'attualità. Da una parte c'è Giuliano Amato, dall'altra la vedova di un senatore del Psi, morto quattro anni prima, Paolo Barsacchi. Dì lì a breve sarebbe iniziato il processo e la linea difensiva degli imputati, tutti pezzi da novanta di un partito ancora lontano da Mani Pulite, è quella di scaricare la responsabilità sul morto. Dunque non perseguibile. Amato, che allora è vice di Craxi, non si mantiene alla larga da una posizione quanto meno discutibile. Chiama la vedova del senatore e le chiede quali siano le sue intenzioni processuali. Vuole evitare (lo dice Amato nell'intercettazione che il fat  toquotidiano.it   ha riportato integralmente, ma lo dicono anche i giudici nel motivare la sentenza) che si vada incontro a una frittata. E per frittata dei giudici – intende un coinvolgimento del partito stesso in quella che fu una delle piccole antenate di tangentopoli.
Oggi Amato, con questa telefonata nel curriculum, va a giurare come giudice della Corte costituzionale. Si è sbarazzato in fretta e furia, appena saputo del riconoscimento di Napolitano, di incarichi superflui, come la presidenza dell'Istituto Sant'Anna di Pisa. Giurerà, perché un passo indietro il dottor Sottile non lo ha mai fatto. Ha attraversato più mareggiate di una scogliera, figuriamoci se lo spaventa una telefonata del 1990. Anche se lo compromette, perché nella sostanza cerca di istruire il testimone di un processo. “Non ho fatto niente”, scrive Amato in una lettera a Repubblica. “Ha fatto poco”, spiega la casta. Uno dei difensori a testa bassa di Amato è il senatore Carlo Giovanardi: “Le intercettazioni”, dice al Fatto, “sono tutte pilotate e pilotabili. Bisogna vedere cosa Amato intendesse. “È una telefonata di 20 anni fa, Amato non venne indagato”. Di prescrizione, anche morale, parla Angelo Napoli. Chi non ne vuol neppure sentir parlare è Fabrizio Cicchitto, anche lui grande traghettatore nelle mareggiate: P2 e Psi sono quelle più conosciute. Figuriamoci se gli fa paura un'intercettazione di un suo ex compagno di partito: “Bisogna vedere il contesto di quella telefonata”. Dunque? “Dunque non dico niente”. Sufficientemente stizziti i dalemiani, il leader della corrente più longeva del partito ha già detto “non scherziamo, Amato non si discute”. Tace anche Gianclaudio Bressa, bellunese, ex Democrazia cristiana. Dice di non leggere il Fatto Quotidiano, dunque di non sapere niente. Peccato che la notizia sia stata riproposta anche su altri quotidiani e al Tg de La7 di Enrico Mentana. Niente da fare: “Non so nulla, non dico nulla”.
Parla, e assai, Alessandra Moretti, parlamentare del Pd senza peli sulla lingua. “Partiamo dal presupposto che la nomina è prerogativa del presidente della Repubblica, e non ci è data facoltà di interferire. Non sarebbe corretto. Amato ha tutti i crismi per quella carica, anche se il Movimento 5 stelle è contrariato e lo accusano di essere un pensionato d'oro. La telefonata? Fa riferimento a un periodo molto caldo. Ma se i giudici hanno scritto che Amato voleva evitare una frittata per me vale quello che hanno scritto i giudici nella sentenza”.
Tiepido Luis Orellana, senatore del Movimento 5 stelle, nonostante il capogruppo abbia chiesto le dimissioni di Amato, lui quella parola non la pronuncia, in linea con gli altri: “L'atteggiamento tenuto da Amato in quella telefonata è criticabile”. Tutto qui? “Dovrebbe godersi la meritata pensione”. Ermete Realacci, invece, va dritto alla questione, e tiene l'atteggiamento di Felice Casson: “Io quella telefonata non l'avrei fatta”. Per aggiungere: “La telefonata è molto lontana nel tempo, sicuramente Giuliano Amato ha agito più da vicesegretario del Psi che da giudice della Corte costituzionale”. Oggi si giura. E il dottor Sottile, come lo chiamava Eugenio Scalfari, giurerà. 33 mila euro al mese che vanno a coronare una carriera non ancora finita. Già, visto che se dovesse cadere il governo Letta c'è già chi è pronto a proporre un Amato ter.

il Fatto 18.9.13
Voto palese, ecco il precedente che fa paura al Pdl


VOTO SEGRETO scelta obbligata dal regolamento? Non fu così per Giulio Andreotti nel ‘93, quando il Senato dovette esprimersi sull’autorizzazione a procedere richiesta dalla magistratura di Palermo. Giovanni Pellegrino, al tempo presidente della Giunta per le Immunità, ha trovato un precedente che smentisce la tesi di chi, soprattutto nel Pdl, sostiene che il voto segreto sia un obbligo imposto dal regolamento di Palazzo Madama. Nel caso di Andreotti si utilizzò il voto palese, senza nessuna riforma delle norme parlamentari. Pellegrino racconta che, su richiesta di Spadolini, la Giunta per il Regolamento acconsentì a sospendere il voto segreto. Sulle pagine de L’Unità, Pellegrino ha chiesto a Pietro Grasso di estendere quel precedente all’applicazione della legge Severino sulla decadenza.

il Fatto 18.9.13
Il voto su B.
Gotor e l’arte di nascondersi dietro un dito
di Pino Corrias


A forza di rosicchiare centimetri di senso, di pudore e di legalità a questa morente democrazia, un tempo abitata da politici dotati almeno di opinioni, Silvio B. è riuscito a prosciugare l’intero corpo vivente dei parlamentari democratici, fino a ridurli alla perentoria brevità di un dito indice, come ultima sede dell’onore. L’indice della mano sinistra. Il solo che ogni senatore dovrà introdurre nella buca del voto elettronico in quel momento supremo, quando si saprà se il Condannato di Frode Fiscale ha il diritto oppure no di continuare a rappresentare il popolo italiano, indossandone i privilegi di casta fino al punto di non ritorno della sua impunita permanenza. Oltre la quale sarà quell’altro dito a esibirsi, il dito medio del Condannato. Ma stavolta in segno di trionfo, rivolto a noi che guardiamo e che qualche volta votiamo.
Dovrebbe far sorridere, ma invece atterrisce, che a inventarsi questo elogio del dito indice garante di ogni compromessa lealtà sia un atleta del pensiero come Miguel Gotor, sofisticato analista di carte remote, ma peculiari, che Aldo Moro ha lasciato a noi posteri dalla sommità del suo imperdonabile delitto, ricaduto goccia a goccia (come aveva previsto) sulla intera Nazione, già allora imprigionata da una ipocrisia di larghe intese che non ha più smesso di soffocarla.
ARCHITETTA GOTOR una intera sequenza di gesti e di intenzioni. E cioè che il buon senatore democratico introduca l’indice sinistro, con una certa lentezza nella buca del voto. Che schiacci con decisione il solo pulsante che espellerà B. dai velluti della Repubblica. Che i fotografi inquadrino dall’alto la scena. E che a garanzia dell’elettore, le foto vengano postate nel comune universo della Rete, rese visibili come prova provata, visto che ormai le parole hanno smesso di contare, chissà perché, tipo quelle pre-elettorali che recitavano il mantra del “mai e poi mai con Berlusconi”. Che poi si è visto con quante dita sono state stracciate.
Sarà pure un caso, ma il Gotor di cui sopra era l’autore di quel mantra. L’astro nascente di quella stessa campagna elettorale durante la quale non solo esibiva la sua intelligenza guantata, ma pure quella del suo capo, l’allora segretario Pier Luigi Bersani che fra i molti lo scelse come spin doctor, riuscendo a perdere nell’urna non solo l’Italia, ma pure Bettola, dove un tempo era nato con tutte e dieci le dita.
E se gli antefatti sono fatti, si dovrà aspettare con una certa cautela l’esito del prossimo voto in aula, sapendo di quante doppie strategie si nutra la politica specie quando diventa guerriglia parlamentare. Non escludendo, dice il Gotor, che Grillo “dirà a 20 dei suoi di votare per B. perché vuole sputtanarci, farci esplodere”. Rischio non remoto, in effetti, al quale trovare un colpevole preventivo da mettere al-l’indice. Peccato solo che a nessun Gotor venga mai in mente quanto sarebbe più onorevole smetterla di vivere perennemente nascosti dietro un dito – sia pure l’indice, così prossimo al medio – e avere il coraggio liberatorio di una pedata.

Repubblica 18.9.13
Il fascino della melma
di Barbara Spinelli


NON è escluso che sarà la forza coercitiva della magistratura a destituire Berlusconi senatore: il 15 ottobre quando si applicherà la sentenza e il condannato sceglierà fra domiciliari e servizi sociali.
E il 19 ottobre quando la Corte d’appello fisserà la durata dell’interdizione dai pubblici uffici, da uno a tre anni. Solo quella forza emetterà parole in sintonia con gli atti. Vociante, ma in sostanza afona, la politica starà forse a guardare. Come sempre.
Se la politica perpetuerà l’inerzia, non resterà che lo scadenzario giudiziario, a disintossicare le istituzioni da chi ha frodato o corrotto. Assieme alla stampa indipendente, che però non è un potere dello Stato, la magistratura s’erge come torre eremitica, attorniata dal vasto deserto che è la politica. Quest’ultima si sarà nervosamente agitata, avrà senza fine gesticolato, prima a viso scoperto in Giunta, poi a viso coperto in aula, ma senza costrutto. Avrà abdicato, scrive Vladimiro Zagrebelsky in un magistrale articolo: avrà «trasferito potere e responsabilità ai giudici, salvo poi aggredirli per le conseguenze che ne derivano» (La Stampa, 11 settembre).
La vera patologia italiana è questa, ed è antica. È da quasi trent’anni (il pool antimafia nacque nell’84, sette anni prima di Mani Pulite) che la politica mostra di non possedere gli anticorpi necessari a espellere le sue cellule malate. O meglio non vuole attivarli: cocciuta, imperterrita. Sylos Labini spiegò bene, il 14 maggio 2002 su questo giornale, la natura del morbo. Lo chiamò immunodeficienza acquisita: «Il grado di civiltà di un paese, come lo stato di salute di una persona, dipende in primo luogo dagli anticorpi: quando diventano insufficienti, compare l’Aids». Aggiunse che «lo sviluppo del capitalismo moderno è sostenibile solo nel rispetto di regole severe», e che una democrazia muore se con tutte le sue componenti (giustizia, libera informazione, separazione dei poteri) non dà vita a un sistema di anticorpi.
Il fascino della melma. Difficile descrivere altrimenti la politica italiana, se ancor oggi i costumi sono quelli di trent’anni fa: incapacità di ripulire le proprie stanze prima che intervenga la mano del guardiano della legge (magistrato, polizia), e con perentorietà cogente spazzi i pavimenti, chiuda le porte da chiudere. È un’incapacità che i parlamentari rischiano di reiterare: e non tanto quelli che oggi voteranno nella Giunta delle immunità sulla decadenza di Berlusconi, ma soprattutto i senatori che sanciranno o no, in seduta plenaria, non visti, i decreti della Giunta.
La legge Severino è chiarissima, e più dura ancora delle imminenti decisioni giudiziarie: la decadenza dei condannati s’applica immediatamente, e non sarà «inferiore a sei anni, anche in assenza della pena accessoria» (interdizione). Proprio per questo si cincischia, ci si acquatta. Immobilizzare le larghe intese è il pensiero fisso di gran parte dei politici (Quirinale in testa): talmente fisso, totalizzante, che il ricordo del reato si perde per strada, con i precetti della legge Severino. Per questo sarebbe cosa buona se la politica agisse non solo presto, ma con voto palese. Non è astrusa la richiesta di 5 Stelle, dopo il tradimento dei 101 parlamentari Pd che hanno demolito Prodi.
Il disfacimento raggiunge l’acme quando si parla di grazia, o di commutazione della pena da detentiva a pecuniaria (solo il politico straricco può permetterselo). Tutto si confonde ed evapora, il delitto per primo, quando le parole vengo-no distorte dagli eufemismi che addolciscono il reale, o dai disfemismi che lo intenebrano: quando al posto di impunità si dice agibilità, o quando la giustizia è chiamata plotone di esecuzione.Daranno un altro nome anche alla grazia. La ribattezzeranno chissà come: stabilità, responsabilità, prudenza. Apparirà saggezza, graziare un pregiudicato che lasci il Senato prima che il Parlamento si pronunci. Senza ammettere alcunché, il frodatore sarà incensato come nobile e statista.
Poco importa a quel punto la domanda che ci rimarrà in mano, pacchetto mai spedito. Perché la grazia, se il reato è grave e il condannato s’ostina a negarlo, ritenendolo nient’altro che frutto di nefasti conflitti tra magistrati e politica? Come giustificare una clemenza verso chi ha non solo evaso il fisco ma corrotto magistrati (come è stato definitivamente sancito ieri dalla sentenza della Cassazione per il lodo Mondadori), e figura come uomo sospettato di scalare il potere prezzolando parlamentari? Il senatore De Gregorio ha ammesso di aver ricevuto da Berlusconi 3 milioni di euro (2 in nero) per passare dall’Idv alla destra e accelerare la caduta del governo Prodi nel 2008. In nome di che concedere la grazia, se non per premiare l’abdicazione della politica schermandola da poteri terzi?
La melma persistente ha i suoi vantaggi. Lasciare che siano i giudici e non il Parlamento sovrano a estromettere il condannato accolla alla magistratura l’intera, indivisa responsabilità. O meglio la colpa, secondo Vladimiro Zagrebelsky: «Il golpe giudiziario sarebbe denunziato, la soggezione della politica alla magistratura sarebbe lamentata (ad alta o a bassa voce, con lo stile di ciascuno), la Politica si terrebbe al riparo».
Il partito-Mediaset si propone precisamente questo, da quando nacque vent’anni fa: oggi urge salvare il soldato Berlusconi, ma lo scopo perseguito dal ’93 è creare le basi di un’altra politica, finalmente messa al riparo da controlli esterni. Stabilità e governabilità, anelate dagli anni ’70, furono nei ’90 idoli di Forza Italia. Di qui l’assalto a una Costituzione ricca di anticorpi, troppo influenzata dalla Resistenza: «dalle temperie della guerra fredda», è scritto nella relazione introduttiva – firmata il 10 giugno da Letta, Quagliarello, Franceschini – alla legge sulla revisione della Carta. Non si tratta solo di neutralizzare la separazione tra potere esecutivo, legislativo, giudiziario. Si tratta di scaricare ogni onere sulla magistratura: in modo che sempre si sovraesponga, ma in solitudine; e più facilmente sia tramutabile in vittima espiatoria. I veri giustizialisti sono i demiurghi di questa strategia del ragno, che avviluppa la preda esaltandone il ruolo minaccioso.
Paolo Borsellino vide questo pericolo con disperata lucidità, quando operava nell’antimafia a Palermo. Quattro anni dopo l’istituzione del pool, il 26 gennaio ’89 a Bassano del Grappa, indicò la patologia di una politica che non si emenda mai, a meno di non esser trascinata in giudizio: «Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia. C’è un equivoco di fondo. Si dice che il politico che ha avuto frequentazioni mafiose, se non viene giudicato colpevole dalla magistratura è un uomo onesto. No! La magistratura può fare solo accertamenti di carattere giudiziale. Le istituzioni hanno il dovere di estromettere gli uomini politici vicini alla mafia, per essere oneste e apparire tali». Se il politico non sa giudicare se stesso, è «perché si nasconde dietro lo schermo della sentenza».
Siamo ancora a quel bivio, nonostante il sacrificio o l’onestà testarda di tanti servitori dello Stato. Il politico restio a giudicare se stesso non disdegna il primato dei calendari giudiziari: così può continuare a fingersi eletto del popolo senza accusare il Parlamento sovrano. Somiglia – tutti noi somigliamo – all’uomo di campagna di Kafka, appostato davanti alla porta della Legge. Per anni il guardiano gli nega l’accesso; anche se fa capire che potrebbe entrare, se davvero volesse. Poco prima di morire, con un filo di voce, l’uomo chiede perché nessuno, all’infuori di lui, ha tentato in tanti anni di farsi strada. Il guardiano urla, per farsi sentire dal morente: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta. A te solo era riservato l’ingresso. Adesso vado e la chiudo».

il Fatto 18.9.13
La Ue ordina: torni l’Imu Valanga d’insulti su Rehn
Arriva a Roma il commissario europeo a dare indicazioni per la legge di bilancio
Gasparri: “Questo figuro non è gradito, se ne vada a casa”
di Stefano Feltri


Piano piano ci stanno arrivando anche deputati e senatori: da quest’anno la politica economica la decide la Commissione europea e quando il commissario Olli Rehn dice che l’Imu non andava abolita, non è solo una polemica culturale. Colpa del two pack, il pacchetto di due regolamenti europei (che quindi si attuano senza bisogno di leggi italiane) che da quest’anno è in vigore: la legge di stabilità va scritta tra Palazzo Chigi e ministero del Tesoro entro il 15 ottobre, poi va spedita a Bruxelles. La Commissione la esamina ed entro il 30 novembre emette un verdetto: se la bozza non rispetta il patto di stabilità e crescita (cioè se il deficit supera il 3 per cento del Pil e non ci sono tagli al debito), i commissari chiedono allo Stato membro di riscriverla. Tutto questo prima che la legge sia entrata in Parlamento. È in questo contesto che ieri è arrivato a Roma il commissario Rehn, il rigido finlandese che per predicare austerità gira con uno staff ridotto al minimo (solo due persone) e una sola auto di servizio, in cui si stipano in cinque persone.
Davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato esordisce con una metafora che gli costerà qualche polemica: “La Ferrari, come l’Italia, incarna una grande tradizione di stile e capacità anche tecnica, ma per poter vincere bisogna avere un motore competitivo, bisogna essere pronti a cambiare, adeguarsi”. Poi, peggiorando la situazione, evoca il ritorno a Maranello del suo connazionale Kimi Raikkonen, “spero sia fonte di ispirazione per l’Italia”. L’Italia forse assomiglia più a una Panda che a una Ferrari, ma l’idea che ora al volante ci sia un finlandese è corretta. Cioè lui, l’ex calciatore Olli Rehn, con il suo inglese gutturale e monocorde e le sue idee senza sfumature. Al ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni e al Parlamento ha ribadito un messaggio semplice: quando a maggio la Commissione ha fatto uscire l’Italia dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo, ha dato anche alcune raccomandazioni. Fare riforme strutturali e spostare il carico fiscale dai “fattori produttivi” (capitale e lavoro) a immobili e consumi. L’Italia ha fatto l’opposto. “L’abolizione dell’Imu sulla prima casa va nella direzione opposta rispetto alle raccomandazioni del Consiglio Ue. La service tax, invece, se configurata bene potrebbe essere coerente con le nostre indicazioni”, dice Rehn. Che spiega inoltre che Saccomanni gli ha garantito che il “fiscal gap”, cioè il mancato gettito, verrà coperto rispettando i principi europei. Quindi, si immagina, tassando gli immobili attraverso la service tax.
ALTRIMENTI, dice il commissario minaccioso, “sono ben note le conseguenze per chi non rispetta il patto di stabilità”. Cioè il ritorno sotto procedura d’infrazione. Certo, tagliare e tassare avrà un impatto recessivo, il Pil rischia di scendere ancora: problemi nostri dice Rehn. Che si attira una nota polemica del Movimento 5 Stelle: “Ma chi è Olli Rehn per venirci a dettare la politica economica in casa? Un tecnocrate non eletto da nessuno che ci racconta che la stabilità in sé è un valore da difendere”. I grillini ignorano (chissà, forse volutamente) le basi giuridiche che legittimano Rehn a dettarci la politica di bilancio. Ma la frase da loro contestata, in effetti, va oltre il pur ampio mandato del commissario. In un passaggio del suo intervento, infatti, Rehn dice: “Affinché la fiducia di investitori e consumatori cresca, facendo ripartire la domanda interna, la stabilità politica è cruciale”. Il Pdl è pronto alla guerra per difendere l’abolizione dell’Imu e con Maurizio Gasparri saluta così le indicazioni di Rehn: “É ora di finirla con i caporali digiornata come questo Olli Rehn, un signor nessuno che viene in Italia a fare il supervisore”. Perfino il supereropeista Gianni Pittella del Pd, vicepresidente del Parlamento europeo, attacca: “Il commissario riconosca il suo fallimento e si dimetta subito per manifesta incapacità”.
Se gli eurocrati vogliono entrare sempre di più nella politica nazionale devono prepararsi, questo è il clima.

il Fatto 18.9.13
Siena, la crisi Mps blocca l’assalto alla massoneria
Stefano Bisi. Il giornalista senese, proposto dai “Fratelli” toscani alla carica di Gran Maestro del Grande Oriente, è stato costretto alla resa. La banca non ha più la forza di prima
di Daniele Martini


Da quando il Monte si è schiantato, a Siena non ne va più bene una. Non girano più quattrini, la squadra di calcio è capitombolata dalla A alla B con un debito di 70 milioni di euro e per di più senza la rete di protezione di mamma banca. Quella di pallacanestro non può più esibire sulle magliette il logo Mps, che voleva dire soldi, perché tutte le sponsorizzazioni targate Montepaschi sono vietate dal decreto sui Monti bond. Mentre la Fondazione, affidata alla grintosa vicepresidente della Confindustria, Antonella Mansi, deve rinunciare alla parte della simpatica Befana che con i suoi regalini faceva tutti felici. Per non parlare degli sciccosi premi di un tempo, ormai un ricordo. Come il Paolo Frajese, consegnato nel 2008, con Berlusconi al governo, a Gianni Letta alla presenza delle più alte autorità cittadine, tutte Pd, a cominciare da quelle bancarie, ovviamente.
PERFINO LA MASSONERIA senese non è più quella che fu, onnipresente e onnipotente. La prima volta che ha tentato di rialzare la testa dopo lo scandalo è stata immediatamente risospinta indietro con perdite. È successo questa estate quando ha provato a scalare la carica più alta, quella di Gran Maestro del Grande Oriente, intendendo piazzare il suo rappresentante, Stefano Bisi, al posto di Gustavo Raffi che dovrà lasciare la prossima primavera.
Insieme al potere bancario, a quello universitario e a quello politico, rigorosamente esercitati in stile bipartisan, il potere massonico era uno dei fili d'oro del “groviglio armonioso” senese, il più avvolgente di tutti, quello che legava gli altri in un unico ordito. A Siena la massoneria vincente da anni si identifica proprio con Bisi, capo del collegio dei Maestri venerabili della Toscana. Giornalista di professione, Bisi è il caporedattore del Corriere Senese, giornale locale che vende poche migliaia di copie, ma molto ambito, soprattutto dal Pdl, così come risulta dalle intercettazioni di Daniela Santanchè. Un tempo la testata era di proprietà del Monte, dei cementieri umbri Barbetti e delle Coop, ma poi fu trasferita sotto l'egida degli Angelucci grazie anche all'interessamento proprio della Santanchè. Il 25 marzo 2010, per esempio, la “pitonessa” telefonò al presidente del Monte, Giuseppe Mussari, pregandolo di ricevere Giampaolo Angelucci, cliente della banca con la Tosinvest che di lì a non molto sarebbe diventato anche editore del Corriere Senese. Finché ha potuto, il Monte si è mostrato assai benevolo con la Santanchè riservando pingui contratti a favore della sua concessionaria di pubblicità. Nell’era del Montepaschi imperante, Bisi era così in simbiosi con la banca e il suo potere da poter sussurrare scelte, strategie e nomine a Mussari, sicuro di essere ascoltato. E Mussari, d’altra parte, si faceva coinvolgere volentieri dallo stesso Bisi e dal Collegio toscano del Grande Oriente partecipando da riverito ospite ai convegni massonici sui temi più disparati, compresi quelli economici e creditizi. E si mostrava riconoscente a Bisi concedendo un bel po’ di pubblicità al giornalino on line Siena News fondato dal portavoce di Mussari, David Rossi, morto suicida nei giorni più duri dello scandalo, e di cui lo stesso Bisi è direttore.
A Siena tutti sanno che Bisi fu determinante per la scelta del presidente del minuscolo aeroporto di Ampugnano, che poteri locali e Monte, uniti come un sol uomo, volevano trasformare da scalo inesistente a centro grande e trafficato. Per concretizzare il sogno, Bisi sostenne Enzo Viani, ex dirigente del Monte in pensione, ma soprattutto fratello massone della loggia fiorentina Lando Conti, tessera numero 884.
Proprio per gli oscuri traffici intorno ad Ampugnano, sei mesi fa Viani e Mussari sono stati rinviati a giudizio e Viani è stato anche punito dalla giustizia massonica, sospeso a tempo indeterminato con il decreto 331, il primo caso dopo lo storico repulisti della P2. Poi, però, Viani è stato confermato alla guida di Urbs, la società immobiliare e finanziaria che tiene i cordoni della borsa massonica.
PER SOSTENERE la candidatura di Bisi a Gran Maestro, un gruppo di suoi fan guidato dal vice dello stesso Bisi, Moreno Milighetti, ha preso un'iniziativa assai poco in sintonia con la coltivata riservatezza massonica, una “lettera aperta ai Fratelli Maestri” in stile campagna elettorale classica, un volantino in cui si illustra il candidato come un qualsiasi politico a caccia di preferenze, con un elenchino di buoni propositi in cui si dice che Bisi è pronto a “fare squadra” massonica perché si considera “Fratello tra i Fratelli”.
Il Gran Maestro Raffi non ha affatto gradito la scapigliata missiva e l’ha fulminata con una circolare affidata alla firma del Gran segretario, Alberto Jannuzzelli. Una fucilata fin dalla prima riga: “Si diffidano i Fratelli ad astenersi dall’utilizzo di lettere aperte, trasmesse anche via email, per promuovere future candidature, chiedendo adesioni”. Minacciosa la chiusa: “Poiché tali comportamenti delegittimano l’attuale Gran Maestranza, non verranno tollerati ulteriormente”. Orfana del Monte, la massoneria senese ripiega sconfitta.

il Fatto 18.9.13
Agrigento, ville vip nella riserva Unesco
La Procura indaga sulle 20 case con piscina di Scala dei Turchi
Una sarà della Prestigiacomo
di Giuseppe Lo Bianco


Sul costone roccioso più suggestivo della costa agrigentina, la Scala dei Turchi, una parete di candida marna a picco su spiagge di sabbia finissima, candidata per la sua bellezza a diventare patrimonio mondiale dell’Unesco, rispunta l’incubo cemento: gli scheletri edilizi con doppia elevazione sono diventati tre e una villetta bianca, con gli infissi azzurri, è già stata definita: “È quella dell’ex ministro Stefania Prestigiacomo”, sostiene Marcello La Scala di Mareamico, che la settimana scorsa, insieme a Lega Ambiente, Wwf Agrigento e altre associazioni ambientaliste ha chiamato a raccolta i cittadini davanti al municipio di Realmonte per denunciare l’ennesimo scempio. Una manifestazione che ha suonato la sveglia anche alla Sovrintendenza ai Beni ambientali, che il giorno dopo, in autotutela, ha bloccato i nuovi lavori, dopo che la Procura di Agrigento ha aperto un fascicolo sulla vicenda. In questo paradiso naturale in contrada Canalotto le ruspe della società immobiliare Co.Ma. E. R. di Sebastiano Comparato vanno avanti da circa due anni, ma nessuno si era accorto di nulla fino a quando, a sporcare le immagini da cartolina scattate dal mare, sono spuntate le doppie elevazioni in una lottizzazione di oltre 60.000 metri quadri che prevede la realizzazione di 20 ville con piscina e ogni altro comfort, già prenotate, oltre che dalla Prestigiacomo, secondo il sito di informazione Grandangolo, anche dall’allenatore della Fiorentina Vincenzo Montella e dall’attore Teo Mammuccari. Per capire meglio come sia stato possibile rilasciare tutte le autorizzazioni necessarie, e soprattutto verificarle una per una, l’assessore regionale all’Ambiente Mariella Lo Bello ha promesso l’invio di un paio di ispettori. “Occorre tenere alta l’attenzione – dice l’assessore – per evitare che investimenti privati possano aumentare i già esistenti rischi idrogeologici di quella parte del territorio agrigentino. Se la situazione è così come appare dalle foto pubblicate su Internet dal-l’associazione Mareamico Agrigento non e’ da escludere un nuovo caso Scala dei Turchi”.
E SULLE RUSPE piazzate sulle falesia hanno puntato i propri riflettori anche i deputati del movimento 5 Stelle che hanno annunciato di avere iniziato una verifica al piano regolatore, risalente al 1976, e agli elenchi delle concessioni edilizie rilasciate dal 2007 a oggi dal comune di Realmonte, al quale il presidente della commissione ambiente del-l’assemblea regionale, Giampiero Trizzino (M5S) ha chiesto la trasmissione di tutti gli atti. Ci sarà da spiegare, tra l’altro, se il sindaco allora in carica, l’ingegner Vincenzo Farruggia, autore del rilascio delle concessioni sia la stessa persona che compare nel-l’elenco dell’impresa appaltatrice di Siracusa, quale direttore dei lavori. In questa stessa zona, a giugno, le ruspe erano entrate in azione per abbattere un ecomostro, uno scheletro edilizio realizzato nel 1989 che secondo alcuni imprenditori sarebbe dovuto diventare un albergo. Ed era stato il procuratore aggiunto di Agrigento Ignazio Fonzo, che ha rivitalizzato una serie di sentenze definitive di demolizione di edifici abusivi mai eseguite, ad intimare alla Scatur, la società proprietaria dell’immobile, a demolirlo, restituendo la scogliera alla sua naturale bellezza.

Corriere 18.9.13
Bologna
Il bando burocratico a «Padre» e «Madre»
di Pierluigi Battista


La mania del «politicamente corretto» predilige la guerra delle parole, piuttosto che la riforma delle cose. Adora il simbolo, non la realtà. Vuole imporre per decreto una preferenza ideologica, non una soluzione concreta. Il Comune di Bologna, rivaleggiando
con quello di Venezia per il primato del fanatismo delle parole, vuole bandire con un editto ogni riferimento al «padre» e alla «madre» negli atti pubblici,
vuole desessualizzare la genitorialità, vuole ribadire che ogni parola della consuetudine
e del buon senso può essere un pretesto di discriminazione.
Non dire, sottrarre, rendere tutto neutro, asettico, burocratico, irreale. Surreale.
Dicono al Comune di Bologna che non vogliono introdurre la dizione «genitore 1 o genitore 2» suggerita dal Comune di Venezia e parzialmente fatta propria dal ministro Kyenge, ma solo perché non si vuole introdurre una gerarchia tra due genitori, mica per il ridicolo in sé che quella dizione contiene.
Si vuole soltanto trasformare la realtà nel lessico legnoso della modulistica burocratica. Chi davvero può sentirsi offeso se viene fatta menzione delle espressioni «padre» e «madre»: solo chi è posseduto da una sindrome della dittatura lessicale che spiana tutto ciò che è vico e accidentato in un'unica formula bianca, incolore, insapore, inesistente. Come se chi non si riconosce nelle definizioni di «padre» e di «madre» dovesse sentirsi discriminato e perseguitato. E allora? Visto che concretamente non si fa nulla per dare una nuova veste giuridica alle coppie dello stesso sesso, visto che la politica è incapace di modificare le cose che non vanno con la saggezza delle leggi, si decide di imboccare la scorciatoia della distorsione lessicale. Non discriminare con i fatti le coppie omosessuali e i bambini che si dovessero trovare in una situazione familiare con due «genitori» dello stesso sesso, è una politica sacrosanta, che merita anche discussioni, controversie, conflitti.
Distorcere il linguaggio facendo prendere la mano dall'oltranzismo ideologico, usare i funzionari della modulistica per imporre un linguaggio che non tutti vogliono digerire, è invece solo un atto di prepotenza. Impotenza politica e prepotenza lessicale si compensano perfettamente. La madre di tutte le sciocchezze: sempre che si possa dire ancora madre.

Corriere 18.9.13
Zucchero, sale e previsioni del tempo I mille settori delle Regioni imprenditrici
Crescono le società partecipate: 403. Voragine da 149 milioni in Campania
Il Lazio al terzo posto, con 27 aziende e un indebitamento monstre di 10 miliardi 302 milioni, pari a 1.854 euro per ciascuno dei residenti nella regione
di Sergio Rizzo


ROMA — Per i magistrati contabili è stata la classica fatica di Sisifo. Nonostante gli sforzi, nemmeno loro sono riusciti a tracciare i contorni esatti della incredibile galassia delle società regionali. Qualcuno, la Regione Sardegna, semplicemente non ha fornito i dati. Qualche altro, la Sicilia, li ha spediti incompleti: senza le cifre del personale. Soprattutto, nel rapporto sulla finanza regionale appena pubblicato dalla Corte dei conti, manca ciò che sta a valle delle società regionali, quel magma indistinto e ribollente di controllate e collegate delle controllate, partecipazioni, consorzi. Nonostante ciò, lo scenario resta impressionante: anche perché segnala come la ritirata del pubblico dall'economia sia per ora una vana speranza. Sardegna esclusa, le società delle Regioni sono 403, nove in più rispetto alle 394 del 2012: senza contare, ovviamente, quelle di secondo e magari anche terzo livello. Per avere la percezione di quanto sia esteso quel magma, si consideri che la Finlombarda, holding della Lombardia, ha 11 partecipazioni. E pressoché ogni Regione ha almeno una situazione del genere. Perfino il piccolo Molise, la cui finanziaria regionale ha un portafoglio di ben 15 partecipazioni. Quattro in più rispetto alla stessa Lombardia.
In testa c'è la Sicilia, con 33 società di primo livello, alcune delle quali avviate alla liquidazione dalla nuova amministrazione. Appena tre di meno ne ha la Campania, seguita dall'Emilia Romagna (28), dal Lazio e dalla Calabria (27). La gamma è completissima: società di trasporto, imprese di servizi, aziende culturali, ditte di marketing… Ce n'è per tutti i gusti. Chi ama il dolce apprezzerà lo Zuccherificio del Molise. Chi ama il salato, invece, preferirà l'industria salina Italkali, controllata al 51 per cento dalla Regione siciliana. Non mancano poi le sigle capaci di trarre in inganno anche i più esperti. La Sma, Sistemi per la meteorologia e l'ambiente Campania, per esempio, ha ben poco a che fare con le previsioni barometriche. È una società che si occupa del servizio antincendi. Con 678 dipendenti, quasi 10 milioni di perdite nel 2011 e un patrimonio negativo per 6 milioni. Il sito internet illustra il contesto nel quale è nata dieci anni fa: «Venne costituita a seguito delle iniziative regionali volte alla stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili». Fatta la premessa, se ne decantano i risultati raggiunti, spiegando che la superficie media percorsa dal fuoco si è ridotta fra il 2002 e il 2011 da 3,68 a 1,83 ettari a incendio. Anche se il numero degli incendi, nell'ultimo decennio, è stata di 3.290 l'anno contro i 2.049 del decennio precedente all'esistenza della Sma. L'amento è del 60,5 per cento.
E che dire dell'Astir? Trattasi di un'altra società campana che si occupa di smaltimento di rifiuti, con 481 dipendenti, messa in liquidazione un paio d'anni fa causa «paralisi» dell'attività, dopo aver accumulato nel solo 2010 perdite per oltre 24 milioni. Nonostante questo, nell'aprile di quell'anno, quando era già con l'acqua alla gola si è provveduto all'assunzione di 38 persone con procedure, ha scritto il liquidatore nella sua relazione, «in violazione delle norme di evidenza pubblica e del patto di stabilità». Quindi in seguito licenziate: gli è andata male. Destino diametralmente opposto a quello toccato ai 60 dipendenti transitati senza colpo ferire da Sviluppo Italia a Sviluppo Campania, società controllata dalla Regione e affidata a un giovane dal curriculum impressionante. Si chiama Alessandro Gargani, incidentalmente figlio dell'irpino Giuseppe Gargani, europarlamentare dell'Udc, ex deputato, ex sottosegretario, transitato in precedenza a Forza Italia e prima ancora nell'Ulivo: proveniente dalla Dc di Ciriaco De Mita, dove era capo della segreteria politica.
Con quei 60, i dipendenti delle società regionali campane risulterebbero 2.349. Ma si capisce quanto i dati limitati agli organismi di primo livello siano bugiardi tenendo conto che le imprese di trasporto pubblico possedute dall'Ente autonomo Volturno, il quale nella lista della Corte dei conti non risulta avere alcun dipendente, pagano circa 4 mila stipendi. E si va ben oltre quota 6 mila. Da aggiungere al personale regionale: circa 7 mila unità. Da sole, le imprese pubbliche della Regione ora governata da Stefano Caldoro avrebbero così più dipendenti di tutte quelle delle Regioni a statuto ordinario.
Di certo, stando almeno ai dati della magistratura contabile, le società campane sono quelle con i conti più complicati, se è vero che in due soli anni, il 2010 e il 2011, hanno perduto 149 milioni di euro. Un buco addirittura più grande di quello accumulato nello stesso periodo da tutte le imprese di tutte le Regioni italiane censite dalla Corte dei conti: circa 143 milioni.
Proprio per le carenze di informazioni, in alcuni casi decisivi come nel caso della Sardegna e dei dipendenti delle imprese pubbliche siciliane (che non dovrebbero comunque essere meno di settemila), nonché a causa delle difficoltà di delineare il perimetro esatto delle società regionali, è problematico valutarne l'impatto preciso sui conti degli enti proprietari.
Il documento ci offre però un interessante metro di giudizio per misurare lo stato di salute. È quello dell'indebitamento. A fine 2012 le Regioni italiane (senza Sardegna) avevano debiti per 47 miliardi e 774 milioni. Ovvero, qualcosa più di 800 euro per ogni cittadino italiano. Ma con differenze enormi. Basti dire che il nuovo governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha ereditato un indebitamento monstre di 10 miliardi 302 milioni, pari a 1.854 euro per ciascuno dei residenti nella sua Regione. Conto quarantacinque volte più salato di quello (41 euro) che teoricamente incombe su ogni trentino . Una bella torta, con sopra la gradevole ciliegina di 2 miliardi 158 milioni di derivati. Che non rappresentano nemmeno il record assoluto considerando che la Campania, con 5 miliardi 713 milioni di debiti, ha 4 miliardi 580 milioni di derivati, pari all'80,1 per cento del totale. Mentre la Puglia è a quota un miliardo 740 milioni, l'89 per cento addirittura dei quasi due miliardi di debiti che ha in pancia.

l’Unità 18.9.13
Scandalo pedofilia, i Verdi tedeschi in picchiata
Una vicenda dell’81 fiacca gli alleati della Spd
Centro destra e sinistre testa a testa nei sondaggi
di Paolo Soldini


La macchina del fango funziona pure in Germania. A pochi giorni dal voto, i Verdi si trovano al centro di uno scandalo che rischia di metterli seriamente in difficoltà. Jürgen Trittin, che guida il partito insieme con Katrin Göring-Eckart, è accusato di aver avuto in passato un atteggiamento favorevole alla pedofilia e giornali e siti della destra gli si sono avventati contro. In realtà la colpa di Trittin, che lui stesso ha riconosciuto, è di aver firmato come redattore responsabile nel 1981, quando il movimento dei Verdi era ai primissimi passi e raccoglieva spinte estremistiche di ogni tipo, un programma elettorale per il comune di Gottinga in cui, tra l’altro, si sosteneva la depenalizzazione dei rapporti sessuali senza violenza tra adulti e minori. Gli stessi candidati riconobbero l’errore e ritirarono la proposta e l’intero movimento prese immediatamente le distanze. Da allora in poi il partito dei Verdi è sempre stato in prima linea nella lotta contro la pedofilia.
Trittin, quando hanno cominciato a comparire sui giornali le prime ricostruzioni dell’evento, ha sostenuto di non ricordare neppure di aver firmato quel programma e, per dimostrare la propria buona fede, ha incaricato uno storico di ricostruire i fatti. È stato proprio questi, Frank Walter, a ritrovare il documento e anche le successive autocritiche. In ogni caso l’esponente verde ha ammesso di aver sbagliato, non solo all’epoca ma anche nei giorni passati quando, di fronte alle accuse, non ha reagito immediatamente.
I dirigenti della Spd, che è alleata con i Verdi nella corsa alla cancelleria, hanno preso le sue difese e hanno criticato la campagna di diffamazione. Peer Steinbrück, il candidato alla cancelleria della coalizione rosso-verde che ha tenuto durante la campagna elettorale molte manifestazioni insieme con il leader verde, si è detto assolutamente certo della sua onestà intellettuale. Altrettanto hanno fatto non solo gli esponenti dei Grünen, ma anche la maggior parte dei commentatori politici. Qualcuno ha anche sottolineato l’analogia della violenta campagna anti-Trittin con metodi di diffamazione politica consueti in altri paesi ma fino ad oggi sconosciuti in Germania.
L’esitazione con cui Trittin ha reagito, però, rischia di costare cara a lui e al suo partito. La campagna scandalistica pare aver avuto un effetto immediato sui sondaggi, in cui i Verdi risultano da qualche giorno in calo. Pure se a spiegare le loro difficoltà c’è stato anche quello che essi stessi hanno definito un «errore di comunicazione» in materia di fiscalità.
Nel loro programma non avrebbero chiarito abbastanza che la tassa patrimoniale proposta non riguarda i redditi dei contribuenti medi. Il calo dei Verdi è compensato solo in parte dall’incremento della Spd.
Secondo gli ultimissimi sondaggi, il centro-destra e le sinistre (Spd, Verdi e Linke) sarebbero esattamente pari al 44%.
I liberali, però, sarebbero sotto la fatidica soglia del 5% necessaria per avere rappresentanza nel Bundestag e non starebbe funzionando la loro forsennata caccia ai secondi voti degli elettori cristiano-democratici. Ieri anche Helmut Kohl, cui i dirigenti liberali si erano rivolti con speranza, li ha delusi invitando gli elettori della Cdu a dare tutti e due i voti al loro partito.

il Fatto 18.9.13
I russi e la morale di Kant, disputa filosofica con sparatoria
di Marco Filoni


Chissà se Hannah Arendt avesse in mente qualcosa del genere quando, in una delle sue ultime lettere, scriveva al suo maestro e amante di gioventù Martin Heidegger un accenno sul “carattere d’attacco della filosofia”. L’altro giorno in un pub russo quella che era iniziata come dotta disquisizione su Kant fra due giovani avventori è finita a pistolettate e uno dei due all’ospedale. Poi dicono che la filosofia serve a diventare saggi. Alla faccia di una delle regole del filosofo, l’oggettività sine ira ac studio. In fila per farsi spillare una birra i due scoprono una comune passione per il filosofo della Critica della ragion pura: ecco allora che scatta la gara a chi la sa più lunga. E a quanto pare uno dei due, non riuscendo a imporre la sua supremazia con la dialettica, ha ben pensato di far valere le sue ragioni con la pistola. Fortunatamente ad aria compressa, che sparava pallini di gomma. Ma abbastanza da mandare all’ospedale il suo rivale kantiano.
Il pensiero russo è sempre stato rissoso: basti leggere Dostoevskij e le superbe descrizioni delle dispute teologiche piuttosto accese che finivano quasi sempre in baruffa.
La cosa bizzarra è che sia stato proprio Kant la scintilla: il filosofo classico per eccellenza, la cui opera è sinonimo di sistema, rigore e serietà. Non molto differente dalla sua vita, austera e monotona. Al punto da meritare un famoso aneddoto: i concittadini di Königsberg regolavano gli orologi al passaggio del filosofo, tanta la perfetta e ossessiva sincronizzazione delle sue passeggiate.
EVIDENTEMENTE uno dei due giovani russi deve aver voluto interpretare Kant con le parole del suo più grande interprete e successore: Hegel. Commentando la pretesa del-l’uomo a far innalzare immediatamente la sua coscienza al sapere, Hegel definisce questo processo “il colpo di pistola” dell’intuizione.
Ecco, probabilmente complice qualche bicchiere di troppo il giovane russo deve aver capito male questo passaggio e lasciata da parte l’intuizione s’è ricordato del solo colpo di pistola.

Repubblica 18.9.13
Pechino dice no a calcio, tennis e golf, passioni dei nuovi borghesi L’antica arte marziale imposta nelle scuole in nome della tradizione
Cina, obbligo di Kung Fu contro gli sport stranieri
di Giampaolo Visetti


PECHINO La Cina vuole restare cinese e per riuscirci assesta un altro duro colpo all’Occidente: arti marziali obbligatorie a scuola, per piegare il mito di basket, football e perfino dell’ex borghese tennis. Dopo decenni di assalti, respinti dai rivoluzionari di Mao attraverso l’imposizione del proletario pingpong quale sport delle masse rosse, Pechino cede alla tentazione del ritorno alla grandezza imperiale. L’amministrazione generale del Wushu, termine che in mandarino indica gli antichi combattimenti a corpo libero, ha proposto che il Kung Fu entri tra le materie insegnate negli istituti primari e secondari. Il ministero dello Sport si è spinto più in là, augurandosi che acceda addirittura alla valutazione dell’esame per l’accesso all’università. Chi risulterà scarso nei combattimenti zen ideati nel tempio di Shaolin 1500 anni fa, non potrà diventare un colletto bianco.
E’ un altro pezzo di contro-rivoluzione, ma non paragonabile ad un calcio obbligatorio nelle scuole britanniche, o a un test di pallone per poter frequentare giurisprudenza a Cambridge: per i giovani cinesi l’imposizione dell’ora di Karate non è infatti una buona notizia. Tutti adorano i film con Bruce Lee, Jet Li e Jackie Chan ma se dal divano bisogna passare ai fatti non c’è partita. La generazione dei figli unici non ci pensa nemmeno, a confrontarsi con la disciplina delle arti marziali. Molto sudore, soldi e fama zero, come con la lotta greco-romana in Italia.
Per sgranchirsi i muscoli i “piccoli principi” scelgono, senza tentennare, gli spettacoli satellitari con cui trascorrono la sera: l’Nba americana, la Premier League inglese, la terra rossa del Roland Garros e addirittura gli ultra-capitalisti green dei golf giapponesi. Miti globali, sogni di successo, un po’ di footing e tanto merchandising da centro commerciale. Un fisico smarrimento d’identità, eccessivo anche per l’immagine riformista della leadership comunista, tacitamente impegnata a seppellire il Grande Timoniere. Così, per riportare i suoi eredi sulla retta via dell’Oriente, Pechino inaugura la repressione sportiva e si appresta ad imporre ad allievi e professori una delle rare leggende cinesi capace di far innamorare proprio quell’Occidente di cui teme la seduzione.
Per la nuova super-potenza del pianeta il recupero delle tradizioni secolari cancellate dalla rivoluzione, così da contendere agli Usa anche l’egemonia culturale, non è solo un cedimento nazionalista. Dietro l’obbligo di Kung Fu, trapela una scelta politica più sofisticata. I media di Stato, colto l’ordine delle autorità, esaltano il Wushu quale simbolo della Cina del futuro per la capacità di «rivelare il segreto di vincere smettendo di combattere». Un miliardo e mezzo di adepti delle arti marziali, icona di una forza equilibrata, controllata e tranquilla, sono la risposta che i signori della Città Proibita intendono contrapporre alla violenza e alla competitività esasperata trasmesse dalla civiltà euro-americana.
«Il Kung Fu — ha detto il famoso maestro Lang Rongbiao al Quotidiano del Popolo — è una filosofia che esclude il combattimento come soluzione, mentre richiede mente e cuore pacifici». Grazia e silenzio, il contrario dello sport quale sfida assordante, passione da occidentali senza più traguardi.

La Stampa 18.9.13
Il killer di Washington psicopatico con licenza
«Sentiva le voci». Aveva precedenti per aggressione e «grilletto facile»
In Marina Alexis era stato sottoposto a procedimenti per insubordinazione
Il 34enne era in cura da anni ma poteva entrare ovunque armato
di Maurizio Molinari


Aaron Alexis aveva avuto problemi con la giustizia nel 2004, 2008 e 2010

Il killer autore della strage al Navy Yard soffriva di malattie mentali e si sottoponeva a trattamenti medici ma gli venne mantenuto l’accesso a installazioni militari.
A descrivere il vulnus nel sistema di sicurezza della Us Navy sono alcuni dottori del ministero dei Veterani, spiegando che Aaron Alexis «ha seri problemi mentali, inclusi paranoia e disturbi del sonno» fino ad ammettere di «ascoltare voci nella testa». Le cure più intense risalgono ad agosto ma da allora la Marina gli ha mantenuto il «permesso di sicurezza» grazie a cui accedeva a basi militari come il quartier generale di Washington dove ha ucciso 12 persone prima di essere abbattuto.
A rendere ancora più evidente il vulnus nel sistema dei controlli della Us Navy c’è il fatto che Alexis è un ex militare che nel 2004, 2008 e 2010 ha avuto problemi con la giustizia - da Seattle a Fort Worth in Texas - per «comportamenti aggressivi» e «grilletto facile». I parenti attribuirono tali comportamenti a uno stress post-traumatico che Alexis avrebbe maturato a Ground Zero, quando dopo l’11 settembre 2001 partecipò da volontario ai soccorsi ma i referti medici non indicano una causa precisa per le «malattie mentali» che lo portarono a dover lasciare l’Us Navy nel 2011, pur insignito di decorazioni come la medaglia per la «guerra globale al terrorismo».
Da allora ha lavorato come contractor civile in un’azienda di forniture elettroniche per la Marina e tali mansioni gli hanno garantito l’accesso all’edificio 197 del Navy Yard, uno dei più protetti del comando della Us Navy. Il metodo di assegnazione di tali permessi ai contractor era stato contestato in agosto da un rapporto dell’Ispettorato del Pentagono - sulla base di 52 violazioni negli ultimi dieci anni - e ora conferma la sua inaffidabilità, riproponendo più in generale gli interrogativi posti dal caso di E d w a r d Snowden, fuggitoall’estero con i segreti della sorveglianza elettronica, per la facilità con cui dipendenti civili hanno accesso a installazioni militari.
Le malattie di Alexis sono al centro delle indagini dell’Fbi perché, come ammette il sindaco di Washington Vincent Gray, «ancora non c’è il movente di questa tragedia». A essere esclusa è l’ipotesi che abbia avuto dei complici, come ipotizzato nelle ore seguenti l’attacco. Il presidente Barack Obama ha ordinato le bandiere a mezz’asta in omaggio alle 12 vittime, comprese fra i 46 e 73 anni: dal veterano Michael Arnold che sognava di costruirsi un aereo leggero all’analista finanziaria Kathleen Gaarde. Sul fronte politico la strage ripropone la disputa sul controllo delle armi: la senatrice Dianne Feinstein promette di riprendere la battaglia per il bando di quelle automatiche ma sul fronte opposto la lobby delle armi imputa il massacro ai «videogame violenti» che Alexis amava vedere. «Era un bambino di 13 anni nel corpo di un 34enne» riassume il titolare del ristorante thailandese dove il killer ha lavorato, appassionandosi al buddhismo.

Corriere 18.9.13
Il killer della base navale Usa era affetto da disturbi psichici
Il Pentagono: rivedere le norme di sicurezza nel mondo
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Molti la chiamano la «golden card», perché può portare denaro. Un nomignolo con il quale indicano la «clearance», l’autorizzazione a lavorare per la sicurezza o la difesa, trattando anche informazioni riservate. Aaron Alexis, 34 anni, responsabile del massacro al Navy Yard, aveva la «golden card», nonostante un passato e un presente con tante macchie. L’aveva ottenuta grazie a controlli superficiali e alla mancanza di condanne. Del resto oggi negli Usa circa 5 milioni di persone hanno l’autorizzazione e quasi 1,4 milioni possono maneggiare informazioni top secret. Come Edward Snowden, il dipendente a contratto che ha beffato l’Nsa.
Nella storia del killer non mancano certo i segnali d’allarme. Tre arresti per aver usato armi da fuoco in modo pericoloso o atteggiamenti violenti: nel 2004, nel 2008, nel 2010. Otto provvedimenti disciplinari durante il servizio militare nella riserva della Marina dal 2007 al 2011. Piccole infrazioni e comportamenti gravi, quali l’insubordinazione e l’abbandono del posto. Tanto è vero che la Navy lo vorrebbe congedare «con disonore», invece gli concede quello con «onore» — procedura più breve — pur di liberarsene. Però gli mantiene due onorificenze per il suo servizio. Ma sopratutto non pone il veto quando Alexis rientra come contrattista.
Altri allarmi su Aaron emergono anche dalla vita privata. A volte «perdeva la testa» con attacchi di rabbia furiosa. Lui dava la colpa all’undici settembre sostenendo di aver partecipato come soccorritore dopo l’attacco alle Torri a New York (ma non c’è la prova di questo). Soffriva di stress post-traumatico, è la versione del padre. Il fattore rabbia torna anche nella descrizione dei suoi amici a Fort Worth, Texas. «Era gentile — giurano — faceva meditazione e frequentava un tempio buddista, però ogni tanto esplodeva». Dava un mano come cameriere in un locale tailandese di un suo conoscente che spiega: «Esagerava con i complimenti verso le clienti e poi portava sempre una pistola, anche quando serviva ai tavoli. Temeva che qualcuno gli portasse via le sue cose». Una volta a casa giocava con videogame violenti fino all’alba.
Come per altri assassini di massa, Alexis inizia a deviare in modo netto. A dicembre, dopo un viaggio di lavoro in Giappone, appare «incavolato di brutto». Racconta che non lo hanno pagato secondo gli accordi e non nasconde di «avercela con il governo». Ha problemi di soldi, è «insoddisfatto della vita», non riesce a dormire, «sente delle voci» e per questo si rivolge a due ospedali per veterani. Nessuno mette insieme gli elementi inquietanti. I suoi datori di lavoro affermano di essere stati all’oscuro, segnalano che Aaron, in giugno, ha superato i controlli previsti dai quali è spuntata solo una multa. In teoria ci sono tre entità, una società privata e due uffici del Pentagono, che dovrebbero vigilare sull’assunzione. Non lo fanno. Oppure hanno dato l’ok prima di aver completato l’esame, procedura non inusuale per incarichi di livello medio-basso.
A luglio, Alexis si trasferisce a Washington per il nuovo impiego come tecnico di computer nel Navy Yard. Forse è allora che studia il suo raid. Ai primi d’agosto è in un albergo di Rhode Island e chiama la polizia denunciando di «essere seguito... Queste persone possono trasmettere delle vibrazioni al mio corpo attraverso il forno a microonde». È chiaramente «fuori». Gli agenti segnalano l’incidente alla Marina, ma in apparenza non accade nulla. Si avvicina il momento dell’attacco.
Poche settimane fa, in Virginia, affitta e prova un Ar-15, copia di un fucile d’assalto. Vorrebbe comprarlo, forse il commerciante gli dice no, però gli vende un fucile a pompa. Con quell’arma compie una strage senza movente. Fa tutto da solo. Non ci sono complici, certifica l’Fbi. L’uomo entra in auto senza essere perquisito in quanto ha la «clearance», sinonimo di garanzia. Alle 8.20 di lunedì, Alexis, che ha ricevuto una medaglia al valore per la lotta al qaedismo anche se non ha mai partecipato a missioni rischiose, diventa un terrorista. All’interno del palazzo spara con fucile e una pistola soprattutto sui civili, i suoi colleghi.
Ora, dopo il massacro, arriva l’ordine di misure severe a protezione delle basi in tutto il mondo, ci si chiede se la procedura per la «golden card» non vada rivista, si ridiscute di pistole e disturbi mentali. Una cantilena già sentita.

Repubblica 18.9.13
Aaron, l’eroe confuso dell’11 settembre che annegò nel sangue i suoi fantasmi
Il killer di Washington era stato tra i soccorritori alle Torri gemelle
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON — Sentiva le “voci” che gli sussurravano nella mente, Aaron che ha terrorizzato Washington. Gli parlavano sempre più insistenti, sempre più imperiose, fino a ordinargli di entrare nel comando della US Navy e scaricare su 12 innocenti il fucile Remington a pompa che si era da poco comperato. Aveva chiesto aiuto, appena un mese fa, Aaron Alexis, il tecnico informatico della Hewlett Packard assunto a contratto dalla Marina americana e da poco trasferito in un albergo di Washington da commessi viaggiatori e residente temporanei, il Residence Inn, quando le voci si erano fatte più aggressive, ma nessuno gli aveva dato retta. Non gli amici, non i parenti a Brooklyn, e non poteva parlarne con i superiori, per non perdere quel rettangolino magnetico di plastica, il “badge”, con il quale è entrato lunedì mattina nel Centro di Comando e Controllo nell’Arsenale, edificio 197, per uccidersi, dopo avere ucciso. E far tacere per sempre quelle maledette voci.
Gli psichiatri che avrebbero subito riconosciuto i sintomi del suo disturbo, avrebbero probabilmente attribuito lo slittamento nell’abisso di questo gentile, timido, ragazzone afro alto un metro e ottantacinque, capace di estrema gentilezza e di collere furiose, alla PTDS, alla sindrome traumatica da combattimento, anche se Aaron in guerra non era mai stato. La sua guerra privata era stata combattuta dentro di lui, non fuori, e il trauma che aveva segnato la sua sconfitta era scattato nella tarda mattinata dell’11 settembre 2001, quando era corso verso Manhattan, sfidando la corrente umana nel panico che fuggiva dall’isola, per dare una mano, per aiutare i soccorsi al World Trade Center.
Quei dodici civili, molti seduti nella caffetteria dell’Arsenale della Marina per l’ultimo caffè alle 8 prima di sprofondare nella routine dei loro uffici, sono forse altri morti da mettere sul conto del 9/11.
A modo suo, il ragazzone nato a New York 34 anni or sono, e sballottato fra Brooklyn, Seattle, Fort Worth, Washington, riservista per quattro anno dopo essere stato congedato per “trasgressioni disciplinari”, aveva cercato di combattere e di vincere la battaglia contro se stesso. Si era infatuato del buddhismo, della promessa di pace interiore che il Siddhartha Gautama promette ai discepoli. Per avvicinare e carpire il segreto di quella riconciliazione con la vita si era fatto amico di Nutpisit Suthamtewakul, un thailandese proprietario di un ristorante che nel nome aveva il programma, «La Ciotola Felice», conosciuto nel tempio che aveva cominciato a frequentare. Aveva cercato di imparare il thai e praticare gli insegnamenti del Buddha, anche se, intervistato oggi, Nutpisit ammette che loro meditazioni finivano spesso in grande bevute di birra. Sempre Heineken, la sua preferita.
Ma qualche vocina già doveva bisbigliare nella testa di Aaron enon erano i suggerimenti della più mite, della meno militante delle grandi religioni. Periodicamente, accadevano piccoli incidenti, episodi che apparivano senza grande importanza, ma che oggi suonano come sintomi chiari. Era svelto con i pugni, sferrati sul naso dopo discussioni accese. Aveva sparato colpi contro il soffitto del suo appartamento in affitto a Fort Worth, nel Texas, convincendo la polizia texana, sempre molto tollerante con chi maneggia schioppi e pistole, che erano partiti accidentalmente.
A Seattle, aveva scaricato un’arma contro l’auto di un operaio che, disse lui, «gli aveva mancato di rispetto», «rispetto» essendo quello che più di ogni altra cosa un giovane afroamericano pretende e domanda. Eppure la Marina non aveva esitato a offrirgli un contratto attraverso la Hewlett Packard e a dargli quel pass, quel “badge” con il quale alle 8 del mattino è entrato, in una divisa paramilitare, con una borsa dove teneva i pezzi del suo fucile a pompa, cal.12. Altra prova, come fu il soldato Bradley Manning, che i criteri di selezione delle forze armate Usa, e di coloro che amministrano server, software e computer, stanno diventando molto approssimativi.
Alla fine, le voci lo hanno spinto verso i gabinetti dell’edificio, dove Aaron si è chiuso in una toilette, ha assemblato il Remington a pompa, il fucile possente reso celebre da dozzine di film e telefilm, è uscito su un balcone che sovrastava il terrazzo della caffetteria e ha sparato a volontà sugli avventori sotto, fino a quando, come voleva, polizia militare e agenti di Washington lo hanno ucciso senza che lui resistesse. “Suicide by police” si chiama, suicidarsi attraverso il fuoco degli agenti, per chi non ha forza di farlo da solo. Sopra di lui hanno sbattuto pale di elicotteri per ore alla ricerca di fantomatici “commando” creati dal panico e dalla confusione, una capitale è precipitata nell’ansia, scuole e stadi sono stati chiusi e sgombrati, il presidente ha dovuto commentare, si sono mosse le solite, inutili discussioni sull’America a mano armata, chiedendosi come sia possibile che un uomo sofferente di gravi disturbi mentali possa attraversare un fiume, raggiungere la vicina Virginia e comperare un cannone portatile come il fucile a pompa cal. 12 con munizioni.
Mentre si sperperano miliardi per effimere operazione di sicurezza e per sequestrare bottigliette d’acqua negli aereoporti. Aaron Alexis, stragista, aveva ricevuto una decorazione al valore per la sua parte nella “Guerra al Terrorismo”.

Repubblica 18.9.13
Dì qualcosa di sinistra /13
L’intervista a Ilvo Diamanti e il sondaggio di Repubblica.it concludono la serie sui concetti chiave per definire oggi l’identità del mondo progressista
Lavoro, equità, uguaglianza il nuovo lessico per costruire il futuro
di Tiziana Testa


«È vero, il lavoro vince, ma non stacca le altre opzioni. E in generale c’è una grossa dispersione nelle risposte. Segno che manca un’identità definita». Ilvo Diamanti guarda il risultato del sondaggio sulle parole della sinistra, arrivato ai 65mila voti su Repubblica.it. Rilegge i dati e scuote la testa: «Non c’è il cleavage, la frattura identitaria, che divide la società sul piano politico», dice da politologo. «Lo vediamo anche nelle nostre ricerche: 7 italiani su 10 dichiarano senza difficoltà di essere di destra o di sinistra, ma poi non sanno riempire di contenuti queste due definizioni».
Va bene, la parola lavoro non stravince nel sondaggio. Ma ha avuto il 10 per cento dei voti, tra una trentina di diverse opzioni. Quanto c’entra la crisi?
«Sicuramente ha un peso. Ma conta di più la storia. Il lavoro ha a che fare con la tradizione della sinistra: per il suo legame con il movimento operaio, per la sua radice laburista. Il problema è che oggi lavoro vuol dire tutto e niente, non solo perché manca ma perché può essere nero, precario, intermittente. Una volta era fonte di reddito, ma anche di riconoscimento e di gerarchia sociale. Era collegato a una comunità reale. Oggi non è più così. Anche per questo la sinistra ha tanti consensi tra i pensionati».
In seconda posizione la parola “equità”, col 7 per cento. Preferita anche a “uguaglianza” (terzo posto). E sono tanti i voti per “redistribuzione”. C’è una forte componente socioeconomica nelle risposte.
«In parte è vero, ma si tratta di parole comunque diverse. “Uguaglianza” è più radicale ed ha le sue radici nella rivoluzione francese. “Redistribuzione” ha a che fare con lo Stato sociale, con la socialdemocrazia, che mira a ridurre le diseguaglianze, attraverso l’intervento pubblico, attraverso le riforme. Certo, tutto questo richiama uno dei compiti storici della sinistra: fare i conti con il mercato, controllare e ridurre le sue conseguenze inegualitarie sul piano sociale. Ma attenzione a non usare troppo le lenti del passato. Oggi ci sono soprattutto impiegati pubblici e pensionati, nella base della sinistra. Gli operai da tempo guardano altrove. Mentre c’è un’attenzione crescente per la parola “merito”. Io l’avrei inserita nella rilevazione. Il merito è egualitario perché è alternativo ai privilegi ereditari, alle chiusure corporative, alle caste».
“Laicità” prende il 6 per cento. E questo nonostante la popolarità di Papa Francesco, anche a sinistra…
«Non mi stupisce. La laicità è una delle componenti da cui nasce la sinistra. Mi sembra sorprendente invece il 2 per cento per la parola “Resistenza”. Significa che è scomparsa dalla memoria, forse perché è stata troppo mitizzata e poco coltivata come esperienza e come valore. E poi mi colpisce il 3 per cento per “democrazia”. E il 4 per “Bene comune”: era il marchio dell’alleanza alle ultime elezioni, ora sembra dimenticato. Insomma, la sinistra ha tante parole perché ha tante anime. È Stato ma anche mercato, innovazione ma anche conservazione, lavoro ed equità ma anche legalità. E soprattutto negli ultimi 20 anni è stata troppo gregaria rispetto alla cultura berlusconiana».
A proposito, la libertà non è nelle prime posizioni. Una parola “scippata” dalla destra?
«Sì, e non solo perché Berlusconi l’ha scelta come parola chiave. Anche perché ha dipinto gli avversari come la casa delle illibertà, il campo dei comunisti».
Per tutta la durata del sondaggio “legalità” è stata tra il quarto e il quinto posto. Tanti voti anche per la parola “moralità”. La sinistra per molti è diventata una specie di deontologia civica? E anche questo ha a che fare con il berlusconismo?
«Inevitabilmente. Anche in altri paesi vicini, Francia e Germania, i magistrati hanno perseguito e talora condannato uomini politici importanti, capi di Stato e di governo. Ma qui i problemi giudiziari del Cavaliere sono diventati la questione che paralizza la politica. Anzi: il Paese».
Insomma, se avessimo aggiunto tra le parole anche “antiberlusconismo” ci sarebbe stato un picco di voti?
«Sì, berlusconismo e antiberlusconismo sono concetti che hanno ancora molta presa, sia tra i favorevoli che tra i contrari al Cavaliere. Dividono la politica e gli italiani. Hanno inquinato la cultura politica e creato anche confusione. Non a caso molti antiberlusconiani non riuscirebbero mai a definirsi di sinistra. Ma votano a sinistra. Per disperazione».
Solo l’un per cento per la “pace”. Cos’è successo alla sinistra che scendeva in piazza con le bandiere arcobaleno?
«Il pacifismo è solo una componente della sinistra,storicamente spesso minoritaria. Basti pensare al Mussolini socialista e interventista della prima guerra mondia-le, a Obama e Hollande rispetto alla questione siriana, all’interventismo umanitario degli anni Novanta».
In bassa classifica anche sogno, coraggio, cambiamento. L’ottimismo non è virtù coltivata a sinistra?
«È così anche perché negli ultimi venti anni l’ottimismo è stato usato da chi era al governo come argomento contro gli avversari definiti pessimisti, disfattisti, in una parola comunisti. Ma certo è anche l’espressione di una sinistra senza passato e incapace di immaginare un futuro».
E invece, qualche segnale positivo?
«Mi colpisce il 5 per cento che ha votato per “dignità”. Per me dignità vuol dire potersi alzare al mattino e guardarsi allo specchio, dritto negli occhi, senza abbassare lo sguardo. Non so se significhi essere di sinistra. Ma sogno un futuro vissuto con dignità da tutti, in cui questa parola possa essere un valore condiviso».
(13. Fine)

La Stampa 18.9.13
Kalashnikov il mitra è uguale per tutti
La straordinaria storia dell’uomo che ha creato l’arma diffusa nel mondo in 75 milioni di esemplari
Dall’Urss ai guerriglieri, ai terroristi, alle mafie
Semplice e affidabile, capace di sparare anche dopo essere stata nel fango e nella sabbia
di Anna Zafesova


Il kalashnikov AK-47 (dalle iniziali di Avtomat Kalashnikova, realizzato nel 1947) spara 600 colpi al minuto. In alto il suo inventore, Mikhail Timofeevich Kalashnikov, nato nel 1919, 17° di 19 figli

È un vecchietto piccolino, con gli zigomi marcati e gli occhi piccoli di quei russi che portano nei geni il ricordo dei tartari, un po’ sordo ma con portamento marziale, e forse anche un po’ svanito. Sembra uno di quei pochi veterani rimasti, tanto onorati dalla propaganda quanto dimenticati da autorità e parenti, che passano la giornata sulle panchine a giocare a scacchi. È difficile riconoscerlo, anche perché il suo volto è diventato pubblico solo quando era ormai anziano, nonostante con il suo ingegno avesse cambiato il mondo più di Steve Jobs, anche se non altrettanto in meglio. Se fosse nato dall’altra parte della Cortina di ferro sarebbe diventato miliardario, ma lui risponderebbe che solo grazie al socialismo un autodidatta come lui, che aveva appena fatto le medie, è potuto diventare un uomo importante, con il petto che non riesce a contenere tutte le medaglie sulla sua uniforme di generale. Molti non sanno nemmeno che esiste, pochi sanno che è ancora vivo, ma in tutte le lingue del mondo si conosce il suo nome, scritto con la minuscola, perché ormai non è una persona, è un oggetto: il kalashnikov.
I numeri sono da far invidia a qualunque multinazionale: sulla Terra ci sono in circolazione circa 75 milioni di suoi mitra, oltre ad almeno 100 milioni di versioni più o meno contraffatte dello storico AK-47, in pratica un fucile su 5, prodotti in almeno 30 Paesi e in dotazione a una cinquantina di eserciti. È stato il giocattolo preferito di soldati, mafiosi, ribelli, terroristi, comunisti e islamisti, narcobaroni e guerriglieri, un’arma talmente simbolica da finire sulle bandiere e sugli stemmi nazionali, dal Mozambico a Timor Est ai vessilli gialli di Hezbollah, creata da un signore che adora «la pesca, la caccia e le donne» (in questo ordine) e passava il tempo libero a casa, a riparare tubature e combattere i roditori, come racconta il giornalista francese Oliver Rohe nel suo La mia ultima invenzione è una trappola per talpe, in uscita da Add editore.
Un’invenzione e un inventore che hanno due storie parallele: di fama planetaria la prima, quasi sconosciuto, anzi, per anni un segreto di Stato ambulante, il secondo. Mikhail Timofeevich Kalashnikov, classe 1919, 17° di 19 figli di contadini deportati in Siberia perché per quanto poveri avevano terra di proprietà e quindi erano «kulaki», i nemici di classe. Un segreto che l’uomo-simbolo della supremazia sovietica ha tenuto nascosto per decenni, come il fatto di essere scappato dal confino falsificando i timbri per i documenti, il suo primo successo in tecnologia. Portandosi dietro la paura di venire smascherato, senza però mai mettere in dubbio il sistema che aveva devastato la sua famiglia: alla morte di Stalin ha pianto in pubblico, e resta un fedele tesserato del Pc.
Una biografia romanzata, che racconta la storia di Kalashnikov e del kalashnikov, un esempio di come un uomo può cambiare la storia quasi per caso. Un contadino con il pallino della tecnologia, poi un soldato dell’Armata Rossa che scrive di notte poesie sulle ragazze, che sopravvive per miracolo al suo carro armato nel 1941, e in ospedale ascolta i feriti della fanteria che si lamentano dei loro fucili. In un’epoca di guerre corpo a corpo, dove a decidere l’esito non erano i droni e l’elettronica, ma le masse umane gettate nel tritacarne della trincea, il calibro, la precisione, la semplicità d’uso potevano valere la vita. Con lo Sturmgewehr, il primo vero fucile d’assalto, i tedeschi facevano il tiro a segno contro i sovietici, e il sergente Kalashnikov decise di inventare l’arma giusta. La completò nel 1947 (da cui il nome ufficiale, AK-47, Avtomat Kalashnikova ), battendo al concorso governativo i migliori ingegneri. Le malelingue dicono che aveva anche copiato le loro idee, o che addirittura fosse stato un prestanome, ma resta il fatto che il Cremlino scommette sul contadino-prodigio di soli 28 anni.
Il kalashnikov viene usato per la prima volta nel 1956, nella rivolta in Ungheria, e diventa uno degli strumenti con il quale viene scritta la storia del ’900. Inventata da un soldato, è l’arma perfetta per i soldati, semplice – il corso per imparare a usarla è di appena 10 ore e i bambini-soldato africani ci mettono ancora meno – e affidabile, capace di sparare anche dopo essere stata nel fango e nella sabbia. Con 600 colpi al minuto e precisione a lunga gittata è l’arma dei poveri, e se mr. Colt, come dicevano gli americani, ha reso eguali gli uomini che Dio aveva creato, Kalashnikov ha reso uguali i popoli, fornendo anche ai più arretrati e sperduti della Terra qualcosa con cui sfidare i potenti. Facilmente riproducibile – nei mercati afghani vendono AK-47 prodotti artigianalmente da maestri analfabeti, e in Africa spesso costa una cinquantina di dollari, meno di una capra – è ideale per le guerre civili e le rivolte. Rohe ne segue la trasformazione da «feticcio politico» dell’anticolonialismo a simbolo dei peggiori massacri e genocidi. È stato il più grande successo del made in Urss, «più della vodka, del caviale e dei romanzieri suicidi» diceva il protagonista di Nicholas Cage in Lord of War. Il prodotto perfetto, globale, che non ha mai saziato la domanda di mercato, imitato più delle borse di Louis Vuitton, generatore di un indotto planetario e capillare, al punto che gli americani lo compravano dai cinesi per rifornire i mujaheddin afghani che sparavano ai russi, armati ovviamente di kalashnikov anche loro.
Un’invenzione che avrebbe potuto fruttare miliardi, ma non è mai stata brevettata. Il suo autore non si è mai posto il problema: dal governo sovietico aveva avuto il massimo possibile, perfino una casetta dove abitava con l’adorata moglie e i quattro figli. I padri della bomba atomica hanno avuto rimorsi, ma lui che ha permesso la morte di molti più innocenti non si è mai apparentemente posto un dubbio morale, anche se diceva che avrebbe preferito inventare un tagliaerba e che era colpa dei nazisti se si era messo a progettare armi. Quando gli hanno fatto notare che il kalashnikov veniva usato dai terroristi aveva risposto soddisfatto: «La sanno lunga, anche loro preferiscono le armi più affidabili». Trovava normale che i bambini russi a scuola dovessero imparare a montare e smontare il suo mitra (in 18 e 30 secondi rispettivamente per il massimo dei voti).
Kalashnikov ha perso l’udito in poligoni da tiro, a collaudare versioni sempre nuove del proprio gioiellino, che con il suo design essenziale, il caricatore a forma di virgola e i materiali grezzi è riconosciuto in tutto il mondo. Sopravvissuto al regime di cui era simbolo, nel nuovo capitalismo russo è finalmente diventato un «brand»: appena un mese fa Vladimir Putin ha rinominato la fabbrica di Izhevsk, dove ha lavorato per tutta la vita, «Consorzio Kalashnikov». Intanto il ministero della Difesa ha smesso di acquistare gli AK-47 per i suoi arsenali. Ma a quanto pare, a Mikhail Kalashnikov nessuno ha avuto il coraggio di dirglielo.

La Stampa 18.9.13
Nella Siria dei miei carcerieri tutti lo benedicono
di Domenico Quirico


«È il mio fratello, il mio padre, il mio amico. Mi aiuta a sopravvivere, a essere un uomo…». Come funziona il kalashnikov, la bestia che nella Siria di oggi anfana a ogni passo, me l’ha insegnato uno dei miei carcerieri, un ragazzo che i compagni chiamavamo «il piccolo». Che gioia per l’ingegner Kalashnikov! In Siria, dove i fili della vita sembrano spezzati per sempre, dove si mangia il pane nel dolore, tutti, banditi e idealisti, ribelli e soldati, partigiani di un dio inesorabile e atei, tutti benedicono la sua invenzione maledetta: non un arnese costruito per battersi, per insanguinarsi, ma un oggetto vegeto e lindo. Questi moribondi vi si gettano, se lo stringono al petto, lo guardano con il cielo negli occhi.
«A mille metri posso ferire, a ottocento con una pallottola esplosiva non do scampo..». È semplice, il kalashnikov: una leva, in alto, ed è in posizione di sicurezza; la abbassi a metà, colpo singolo; ancora uno scatto ed è la raffica che non dà scampo. Ho stretto in pugno un Kalashnikov rubato ai miei sequestratori: mi è parso di essere diventato, per magia, paesano della guerra, di poter parlare come Orlando con Durlindana sul pietrone di Roncisvalle. Ingegner Kalashnikov, nella tenebra paurosa, fuggendo verso la libertà, la tua orrenda invenzione mi ha stregato: solo per un attimo.

La Stampa 18.9.13
Straniero in patria l’irrequieto Ginzburg
Morì in carcere per le torture subite dai tedeschi con cui rifiutò di collaborare
Dalla Francia una biografia di Leone, intellettuale raffinato e scomodo, tra le anime dell’azionismo torinese
di Mirella Presti


Fronte alta, spaziosa, occhiali larghi, bocca sensuale che faceva colpo sulle ragazze. Abbigliamento non da fighetto o da letterato azzimato bensì un po’ casual, con il nodo della cravatta sempre allentato. Un macinatore. Un bulldozer. Preciso. Attento e bulimico, Leone Ginzburg. «Leone era lento e insaziabile», dirà Norberto Bobbio. Ma non di cibo, di cultura. A incrementare il perenne senso di irrequietezza, di fame di relazioni, conoscenze e amicizie, contribuiva il sentirsi ai margini, straniero in patria. Doppiamente emarginato: «come ebreo e come russo», come disse lui stesso. Nel 1931 Ginzburg ottenne la cittadinanza italiana ma nel 1938 le leggi razziali lo depennarono dai ranghi della cittadinanza italiana. È questo solo uno dei tanti, complicati tasselli che compongono la personalità di uno fra i più noti antifascisti del nostro Paese ma la cui breve esistenza è stata scarsamente studiata: a colmare il vuoto, arriva ora Vita di Leone Ginzburg. Intransigenza e passione civile (in uscita da Donzelli, pp. 154, euro 18,50) della biografa francese Florence Mauro.
La saggista parigina, di padre piemontese, autrice di cinema e televisione, mentre si avvicinano i 70 anni dalla scomparsa (il 5 febbraio 1944) dell’intellettuale attivo nel gruppo di «Giustizia e libertà» e fondatore del Partito d’azione, sta portando a termine anche un film documentario, utilizzando, come nel libro, una ricca messe di corrispondenze private, documenti d’archivio, appunti, lettere. Secondo l’autrice era un personaggio scomodo, Ginzburg, per il suo radicalismo e la sua intransigenza. Proprio per questo corre il rischio di essere completamente dimenticato mentre invece dovrebbe essere recuperato anche per i più giovani come un’immagine-antidoto, come «un contrappunto», scrive la biografa, «alla cattiva qualità della storia presente».
La Mauro ha ripercorso i luoghi ginzburghiani, partendo da Torino dove Leone, che era nato a Odessa nel 1909, arrivò dopo vari soggiorni a Roma, Viareggio (qui fin da piccolo cominciò a sentire forte l’attrazione per l’Italia) e Berlino. Frequentò l’affollato e vivacissimo liceo classico Massimo D’Azeglio ed ebbe come compagni pezzi da novanta della cultura, Cesare Pavese, Bobbio, Giorgio Agosti, Massimo Mila. È poi approdata a via Arcivescovado, sede della giovane casa editrice fondata dall’elegante e imperioso Giulio Einaudi, a cui l’instancabile traduttore (da Anna Karenina alla Sonata a Kreutzer di Tolstoj), l’ideatore di collane, lo scrittore di racconti e di saggi (prefazioni a La figlia del capitano di Puškin e a tante opere di Dostojevskij) diede il suo fondamentale apporto. Sempre sulle tracce di Leone, la Mauro ne ha ripercorso le passeggiate sul lungo Po nelle giornate di sole con la scrittrice Natalia Levi (dopo essersi sposati, nel 1938, avranno tre figli, lo storico Carlo, l’economista Andrea, entrambi nati a Torino, e la psicoanalista Alessandra che Natalia dà alla luce a l’Aquila). La biografa è poi sbarcata sui verdiprati dietro la casa di Pizzoli in Abruzzo dove Ginzburg fu segregato come «prigioniero civile di guerra» al momento dell’entrata dell’Italia nel conflitto.
«Libero pensatore» di famiglia ebraica, Leone portava il cognome di Fëdor Nikolaevic Ginzburg che non era il suo vero padre. La madre Vera Griliches, mentre era in vacanza in Toscana, aveva avuto una breve relazione con Renzo Segré, fratello dell’amatissima istitutrice dei bambini nati dal matrimonio con Fëdor Nikolaevi. Che Leone fosse veramente tale, un re della foresta solitario e orgoglioso, emerse fin da quando aveva circa dieci anni e già compilava i Ricordi di un giornalista in erba lasciando tutti stupefatti. Trasferitosi con la famiglia a Berlino a 12 anni circa dedicava suoi scritti a Dante e a Mazzini e leggeva tutti i giorni un quotidiano per documentarsi sulla situazione della penisola. Cittadino del mondo da un punto di vista culturale, anche nell’avventura editoriale fu assai particolare. Persino al confino di Pizzoli dove si sentiva abbandonato e depredato di tutto, non si risparmiava i contrasti con Pavese o con Einaudi avendo la forza di ingaggiare scontri sulle norme tipografiche dell’ Erasmo di Huizinga o del Giocatore di Dostojevskij. Ma il suo rigore non era solo redazionale. Nel dicembre del 1932 aveva ottenuto la libera docenza in letteratura russa. Quando gli fu chiesto di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, come avevano fatto tanti professori, se ne andò a insegnare in un liceo e rinunciò a una brillante carriera. Poi si gettò nella cospirazione e proprio per i dissensi sulla lotta nei confronti della dittatura, fu etichettato come «moralista» nel Diario dell’amico e collega einaudiano, Giaime Pintor (di cui quest’anno ricorrono i 70 anni dalla scomparsa, avvenuta il 1° dicembre mentre tentava di raggiungere le fila dei partigiani). Nel luglio 1943, subito dopo la caduta del regime, Ginzburg finalmente poté riprendere contatto con il gruppo dirigente del Partito d’azione. Ma questo gli costò la vita. Le ultime tappe del pellegrinaggio della Mauro sono a via Basento, nella Capitale, dove Ginzburg dirigeva L’Italia libera, il foglio dei combattenti azionisti e, uscendo da quel «sottosuolo» o scantinato della clandestinità, venne arrestato, portato a Regina Coeli e torturato fino alla morte dai nazisti. Si spegneva così il ruggito del Leone che non si era mai rassegnato a niente, men che mai alla perdita della sua identità: «Le lascio immaginare il senso di malinconia e di rabbia», aveva comunicato a Benedetto Croce, «che mi dà il continuare a essere considerato straniero nel mio paese».

Repubblica 18.9.13
Per Amos Oz la Torah è come Woody Allen ALLEN
Esce il saggio dell’autore israeliano su scrittura e identità ebraica
di Susanna Nierenstein


Non è questione di deserti, tribù, cromosomi, sangue e soprattutto non di Dio e di religione, a dire chi sono gli ebrei, a dare corpo al continuum dell’ebraismo, a farne una nazione: è solo in virtù dei suoi testi, tutti, dalla Torah, giù giù fino alle gag di Woody Allen. La tesi è niente meno che di Amos Oz, il grandissimo autore israeliano che, insieme alla figlia cinquantatreenne Fania Oz-Salzberger, docente di storia all’Università di Haifa, ha scritto un saggio in uscita oggi con Feltrinelli, Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica(trad. Elena Loewenthal). E se da un lato l’enunciazione ricalca un già detto (chi non ha presente la dicitura “il popolo del Libro”?) dall’altro ha un sapore decisamente provocatorio, perché sembra voler escludere l’Onnipotente, Mosè e le Tavole della Legge dall’essenza del-l’ebraismo. Anche se poi, a ben vedere, pagina dopo pagina sembra di essere nel bel mezzo di un pilpul (dal verbo pilpel, condire, speziare), una disputa tradizionale sui significati di questo e quel passo del Deuteronomio, o di una derashà, una dissertazione rabbinica. Il metodo non è molto diverso.
La premessa per i due Oz sono le loro credenziali, “siamo ebrei israeliani laici”, altre volte dicono “atei”, non solo perché in loro non c’è un barlume di fede, ma perché ogni volta che in Israele sentono un richiamo alla religione, lo percepiscono come un’intimazione reazionaria contro di loro, cittadini liberali. Ma, sottolineano, questo per un ebreo secolare, a differenza di altri non credenti, non significa rifiutare la propria tradizione, la propria cultura e storia. Anzi. Contraddittori, inquieti, come due buoni ebrei devono essere, è proprio in queste radici che in realtà gli Oz cercano la conferma della loro teoria un po’ blasfema.
E non solo perché scelgono con convinzione l’ebraico e Israele come fondamentali documenti d’identità – la Bibbia la sentono e la vedono come un’opera letteraria ineguagliabile per quanto è stata in grado di incidere un codice di leggi e di stabilire un’etica sociale tanto convincenti – ma perché il
Tanakh(l’acronimo con cui si designano i testi sacri dell’ebraismo) porta con sé due tratti fondamentali dal loro punto di vista di fieri laici. Primo, il binomio genitore figlio, generazione dopo generazione: una coppia universale che nell’ebraismo diventa obbligo a insegnare ai giovani la parola scritta fin da tenerissima età, a leggere e scrivere, NON a ripetere, fatto più unico che raro nell’antichità – e che conforta gli Oz nell’idea che gli ebrei dipendano innanzitutto dai testi. Secondo, la natura del rapporto maestro allievo: perché il bravo allievo è colui che critica giudiziosamente il suo maestro offrendo una nuova e migliore interpretazione, che interloquisce, pone domande scomode e non. Un criterio che è confluito nella Mishnah e nel Talmud, un passaggio dall’oralità alla scrittura che ha partorito autori dopo autori, dai maestri della Mishnah, detti Tannaim, agli Amoraim, i saggi del Talmud, a cui seguirono i Savoraim, d’epoca post-Talmudica, e poi i Gheonim, fioriti a partire dall’VIII secolo, i Rishonim del Tardo Medioevo, gli Acharonim (testualmente “gli ultimi”) dal XVI sec. in poi. E quel che venne dopo, i Mendelssohn dell’Illuminismo ebraico, e più tardi Gershom Scholem, Franz Rosenzweig, Martin Buber, Emmanuel Lévinas? «pensatori che appartengono alla tradizione ebraica di studio, miticamente e testualmente inaugurata al Sinai da Mosè, che fu il primo dei maestri». Una catena dove gli Oz mettono anche Heine e Freud, Marx e gli omonimi fratelli (sic!), Einstein e Arendt, Herman Cohen e Derrida. Trasmettere parole dunque, «dove Dio è solo una di queste», così dicono i due. Mentre la storia, quella di Abramo, Mosè, Giosuè, David, Golia, Salomone, la grande Assemblea... è avvolta nel mito, quel che è certo è invece che dal I millennio a. C. «gli israeliti avevano un concetto di nazione imperniato sulla memoria testuale». Una biblioteca, un’accademia, in cui fare domande, e dissentire è d’obbligo.
Ecco, è il dissenso l’elemento – il gusto, la necessità ebraica del contrasto, origine di quella famosa chutzpah, sfrontatezza ebraica – che i due non si stancano di sottolineare. L’ebraismo incorpora il disaccordo, due ebrei tre opinioni, ricordate?: narra il Talmud che il grande rabbì Eliezer, discepolo dell’ancor più grande Jochanan Ben Zacchai che fuggì dalla Gerusalemme assediata, divenuto maestro a sua volta, si ritrovò isolato in una disputa rabbinica su una regola alachicha: per dimostrare che il Signore gli dava ragione iniziò a spostare miracolosamente muri e alberi; niente da fare, gli altri non cedevano. Eliezer allora chiamò Dio che intervenne parlando dal cielo e l’appoggiò, ma gli altri rabbini risposero tranquillamente: la regola “non è in cielo”; e Dio fu sconfitto, così come i miracoli di Eliezer. Come reagì il Signore? Rise, dice il Talmud. Secondo gli Oz, questa, insieme a tante altre, è la dimostrazione che la Torah è ormai, e già allora, un dominio umano, che la maggioranza può avere la meglio sull’Altissimo, e che, già nel I secolo si passava dalla profezia alla esegesi, alla molteplicità della lettura.
Oz vuole il diritto a ereditare i testi, scegliendo, mettendo da parte ciò che non gli torna, senza nessuno che gli dica che non è un buon ebreo. Diciamo che nel farlo usa, insieme a sua figlia, davvero una buona dose di chutzpah, – con grande erudizione, è chiaro – perché estromettere la religione dalla storia dell’ebraismo ha del paradossale, anche se non si crede. Così come, in fondo, mettere Torah, Talmud, Agnon, Lévinas nello stesso cesto insieme a Woody Allen, Mel Brooks e Michael Chabon... per la loro comune devozione alle parole... mah, è ardito, ardito ma non impossibile per la tradizione dialettica dell’ebraismo. Già, il saggio è ricco, fluente, arguto, colto, pare proprio d’essere a una lezione di Talmud-Torah.

IL LIBRO Gli ebrei e le parole di Amos Oz e Fania Oz-Salzberger (Feltrinelli pagg. 240 euro 20)

Il Giornale 18.9.13
Serve il coraggio di Pound per salvare tutto il mondo
Contro le sette sorte all'ombra di Wall Street (e di chi la occupa), il poeta insegnò che il contrario del mercato non è la democrazia, ma il tempio
di Pietrangelo Buttafuoco
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il Giornale 18.9.13
Quei nipotini di Marx nemici della scienza e amici dell'apocalisse
Un tempo erano progressisti ma oggi rifiutano le conquiste della modernità perché espressione della "società borghese"
di Giampietro Berti

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La Stampa TuttoScienza 18.9.13
L’evento
A Venezia la conferenza sui segreti della longevità


Viviamo sempre più a lungo, ma non sempre in salute: la longevità, con le sue luci e le sue om­bre, si è trasformata in uno dei fenomeni più si­gnificativi della nostra era e sempre di più pro­durrà cambiamenti profondi, sia dal punto di vi­ sta sociale e culturale sia da quello medico­scien­tifico. Si trasformano i ruoli e i tempi di ogni età della vita, aprendo scenari ancora da esplorare, compresi quella della ricerca avanzata. nAlla longevità ­ ai suoi numerosi segreti e ai problemi che apre ­ è dedicata la nona edizione della Conferenza Mondiale «The Future of Scien­ce», che riunirà sull’isola di San Giorgio, a Vene­ zia, da domani al 21 settembre alcuni dei maggio­ ri esperti mondiali per discutere i temi­ chiave le­gati all’allungamento della vita. nIl meeting «I segreti della longevità» ­ orga­nizzato dalle fondazioni Umberto Veronesi, Gior­gio Cini e Silvio Tronchetti Provera ­ analizzerà una vasta serie di aspetti, da quelli evolutivi e geneti­ci a quelli ambientali, fino alle prospettive diagnosti­ che e terapeutiche. Nelle prime tre pagine di «Tutto­ scienze» una serie di articoli anticipa alcune delle scoperte più interessanti discusse a Venezia.
Iscrizioni e informazioni: www.thefutureof­science.org e info@thefutureofscience.org.

La Stampa TuttoScienza 18.9.13
Com’è speciale il cervello Può non invecchiare mai
di Umberto Veronesi


Una delle maggiori novità scientifiche degli ultimi anni è che il nostro cervello non invecchia. O, meglio, può non invecchiare mai. Abbiamo scoperto che esistono delle cellule staminali cerebrali in grado di rigenerare i neuroni perduti, rendendo il cervello plastico e potenzialmente rinnovabile per tutta la vita. Questo significa che, anatomicamente, non esiste un decadimento cerebrale, salvo in presenza di malattie specifiche; anzi, con il tempo aumentano le sinapsi, le strutture che permettono i collegamenti fra neuroni e, quindi, negli anni si può perdere la memoria, ma la capacità logica e creativa rimane e continua a svilupparsi.
Molti hanno capito l’impatto sociale enorme di questa nuova conoscenza, a livello giuridico, lavorativo, educativo, ma non tutti l’hanno collegata al dibattito in corso in tutto il mondo sulla longevità. Nella nostra cultura, infatti, l’invecchiare è un processo fisico che riguarda pressoché esclusivamente il corpo. Infatti ci affanniamo a mantenerci in forma con ore di palestra e percorsi di fitness, ma raramente ci impegniamo a tenere in esercizio la mente. Eppure la storia non ci risparmiato esempi di artisti e pensatori che hanno dato il meglio di sé in età avanzata: pensiamo a Chagall nella pittura, a Montale e Vicente Alexander nella poesia, o a De Oliveira nel cinema. Non ho dubbi che i più grandi segreti della longevità sono quindi nella mente. Mi danno ragione le due regole di Okinawa, l’arcipelago fra il Giappone e Taiwan che rappresenta l’area più longeva del mondo.
La prima regola è lo «ishokudoghen»: il cibo è una medicina. La popolazione di Okinawa è vegetariana (consuma frutta, verdura, soia e i suoi derivati, pesce e alga konbu) e consuma il il 30-40% di calorie in meno rispetto alle aree geografiche occidentali. Questo conferma gli ultimi dati sulla restrizione calorica: una riduzione media del peso corporeo intorno al 7% è in grado di incidere significativamente sul rischio cardio-metabolico e tumorale e di ridurre la possibilità di contrarre il diabete tipo 2. Quindi chi mangia poco e vegetariano vive più a lungo e in buona salute. Ma la vera particolarità di Okinawa è lo «yuimaru», che indica il senso di appartenenza e la consapevolezza di giocare un ruolo importante per la famiglia e la comunità. Significa, in sintesi, che la longevità è un valore e gli anziani sono rispettati e onorati per la loro saggezza ed esperienza.
Credo che la lezione di Okinawa sia che ciò che più conta per una longevità attiva è avere una motivazione forte per tenere il cervello vigile e produttivo e penso che la persona anziana dovrebbe avere il diritto di avere dei doveri: mantenere cioè non solo un’attività, ma anche la responsabilità. Per questo trovo che il pensionamento obbligatorio sia profondamente ingiusto e lo paragono ad una ghigliottina. Un fatidico giorno scende la lama sul collo e la persona socialmente non esiste più. Mi rendo conto, del resto, che dal punto di vista lavorativo bisogna lasciare spazio alle nuove generazioni e che esistono implicazioni economiche complesse da considerare; tuttavia è urgente sollevare il dibattito sul ruolo attivo degli anziani, perché l’aumento dell’età media della popolazione mondiale pone un problema enorme ai sistemi di welfare dei Paesi occidentali. Nel 2008 le persone al mondo con più di 60 anni erano 766 milioni. Nel 2030 saranno un miliardo e 400 milioni. La Commissione Europea prevede che entro il 2050 il tasso medio europeo di «dipendenza» degli anziani sarà attorno al 50%: se oggi ci sono circa quattro persone in età attiva per ogni persona over 65, nel 2050 saranno solo due. Nel nostro Paese gli over 65 sono circa 11 milioni, di cui il 30%, quindi 3 milioni, sicuramente potrebbe ancora lavorare e quindi continuare a creare ricchezza per se stessi e per la collettività. Per questo, se un tempo le politiche per gli anziani erano focalizzate essenzialmente sulla risposta ai bisogni, oggi l’accento si pone sul rispetto dei diritti e sulla valorizzazione delle risorse mentali, fisiche, sociali ed economiche della longevità.

La Stampa TuttoScienza 18.9.13
E dalle sinapsi nuove promesse
Complessità. Sono le sinapsi a rendere il cervello una delle strutture più sofisticate
Un universo di proteine da cui strappare nuove cure
di Seth Grant

University of Edimburgh

Una delle ricette più famose mai create è nata in una piccola cucina dell’Ospedale di Abbiategrasso per i malati cronici, il Pio Luogo degli lncurabili. Qui, nel 1873, il giovane medico Camillo Golgi aggiunse una serie di sostanze chimiche a sottili nastri di tessuto cerebrale e poi li osservò al microscopio. Vide così, per la prima volta, com’è fatto davvero il cervello.
C’era un gran numero di cellule nervose e ognuna aveva lunghi ed esili rami, mentre su ogni ramo c’erano centinaia di piccole foglie. Quelle foglie, che gli scienziati chiamano oggi sinapsi, sono il punto dove le cellule nervose si connettono ad altre cellule nervose.
Oltre un milione di miliardi di sinapsi rendono il cervello umano una delle strutture più complesse dell’Universo. Senza sinapsi non potremmo imparare o ricordare o eseguire qualsiasi comportamento per quanto semplice. Sono parti vitali della macchina del cervello. Invecchiando, però, le perdiamo.
Che cosa succede, quindi, al cervello con l’età e come possiamo rallentare o addirittura impedire il declino dei nostri processi mentali? Negli ultimi anni gli scienziati hanno dato nuovo impulso a queste domande, concentrandosi proprio sulle sinapsi. Armati di nuovi metodi per esplorare le molecole, le hanno analizzate, rivelandone ogni singola proteina o porzione.
Proprio come Golgi si sorprese del gran numero di sinapsi nel cervello, oggi i ricercatori si sono stupiti nel trovare molte più proteine sinaptiche del previsto. Questa scoperta ha prodotto una specie di «stele di Rosetta», consentendo di collegare i processi dell’invecchiamento ad alcune delle domande fondamentali sul cervello: qual è l’origine e qual è l’evoluzione del cervello? Come si sviluppano le funzioni mentali più elevate? Perché gli esseri umani soffrono di tante malattie cerebrali?
Oggi sappiamo che, quando le proteine delle sinapsi non lavorano più in modo corretto, possono verificarsi più di 130 diverse malattie cerebrali. Alcune delle proteine difettose causeranno l’Alzheimer o il morbo di Parkinson, mentre altre provocheranno disturbi più comuni come schizofrenia, autismo e depressione. La ricerca su queste proteine sinaptiche, quindi, sta fornendo agli scienziati un modo del tutto nuovo di sviluppare farmaci per il trattamento di tutte queste malattie.
Ma, prima di tutto, perché gli esseri umani soffrono di così tante patologie cerebrali e hanno così tante proteine sinaptiche? Queste domande sono state affrontate dai biologi evoluzionisti.
Proprio loro hanno elaborato un nuovo e sor­prendente modello per spiegare l’evoluzione del cervello.
E’ noto che i primi animali multicellulari ­ meduse e vermi ­ comparvero 600 milioni di anni fa. Prima, nei mari, c’erano solo esseri unicellulari e batteri. Si è scoperto che, quando le proteine sinaptiche comparvero per la prima volta, fu proprio in que­ sti antichi animali monocellulari: le utilizzano per controllare il proprio comportamento, monito­rando l’ambiente sia per il cibo sia contro i possibi­li pericoli. Ma come hanno fatto gli esseri umani a sviluppare i comportamenti complessi e le funzio­ni mentali più elevate che ci distinguono da que­ste semplici creature? La risposta sembra sempli­ce: abbiamo un numero più alto di queste protei­ne e queste sono contenute in miliardi di sinapsi. Il fatto spiega anche perché soffriamo di tante ma­lattie cerebrali. Tutte queste proteine in più pos­sono degenerare e provocare diverse malattie.
Ecco perché l’universo delle sinapsi è uno dei più emozionanti (tra l’altro sta cambiando anche gli approcci della psichiatria e della neurologia): in futuro si capirà come le loro molecole cambiano con l’età e queste scoperte porteranno enormi be­nefici.
(Traduzione di Carla Reschia)

La Stampa TuttoScienza 18.9.13
Siamo programmati per esistere, non per morire
Dai tempi ancestrali al presente, che cosa svelano le leggi dell’evoluzione
Successo epocale. La vita media continua ad allungarsi: chi nasce oggi ha buone possibilità di superare la soglia fatidica dei 100 anni
di Tom Kirkwood

Newcastle University

Dal momento in cui il genere umano ha preso coscienza della vita e della morte, è stato naturale chiedersi: perché dobbiamo morire? Durante gran parte della storia umana la morte è stata precoce, a causa d’infezioni, incidenti, fame e altre calamità. Adesso, invece, viviamo in un mondo in cui la vita è diventata così sicura che la maggioranza degli esseri umani muore per un’intrinseca incapacità dell’organismo di sopravvivere o - in altre parole - per gli effetti del processo d’invecchiamento.
La domanda, quindi, ora è diventata: perché dobbiamo invecchiare? Ed è una questione che dev’essere affrontata nel contesto dell’evoluzione biologica.
Capire perché, e come, si evolve l’invecchiamento, infatti, è di grande importanza per studiare i molteplici e complessi meccanismi che influenzano il corso della vita in tarda età. Abbiamo bisogno di decifrare il meccanismo dell’invecchiamento per scoprire i motivi per cui la longevità umana continua a crescere e anche per capire dove questa realtà ci porterà e per migliorare le condizioni di un crescente numero di anziani.
Fino a tempi recenti l’idea dominante era che l’invecchiamento fosse programmato come una necessità biologica. La natura ha bisogno di un modo - si diceva - per sbarazzarsi degli animali vecchi e fare posto alle nuove generazioni. Anche se si tratta di un concetto popolare, la scienza ci dice che è quasi sicuramente sbagliato. Nel mondo naturale è raro che un animale sopravviva fino alla vecchiaia e, quindi, non c’è alcuna necessità di un meccanismo di morte per liberarsi degli esemplari che altrimenti potrebbero restare in circolazione troppo a lungo.
In realtà, sembra che i nostri organismi siano programmati per la sopravvivenza, non per la morte. Ma la sopravvivenza è costosa. Richiede che si investano molte energie per riparare le migliaia di difetti che ogni giorno si presentano nelle nostre cellule e nei nostri organi. Nei tempi ancestrali, quando l’aspettativa di vita era molto più breve, l’evoluzione doveva risolvere un problema piuttosto diverso: quanto dovrebbero investire i geni nella sopravvivenza del singolo individuo piuttosto che nel generare nuove vite? La stessa energia non può essere utilizzata due volte e, quindi, si devono fare delle scelte.
La risposta a questa domanda fondamentale è che per il genoma umano ancestrale aveva senso investire in una manutenzione sufficiente per tenere il corpo in buone condizioni per circa 40 anni, quando c’era una buona probabilità di essere ancora vivi e si potevano generare bambini. Una manutenzione a un livello più alto sarebbe stata inutile: gli incidenti possono uccidere anche un corpo in perfetta forma. E, allora, oggi invecchiamo perché i nostri geni hanno scelto lo specifico percorso evolutivo di investire solo in modo limitato nel mantenimento del corpo individuale, il «soma».
Le implicazioni di questo concetto di corpo «usa e getta» sono importanti. In primo luogo ci dice che invecchiamo in seguito al graduale e costante accumulo di migliaia di piccoli difetti nelle cellule e nei tessuti. In secondo luogo stiamo scoprendo che il processo è più malleabile di quanto eravamo abituati a pensare. Molti fattori, tra cui dieta e stile di vita, hanno un impatto sulla velocità con cui si accumulano nuovi danni. La cattiva alimentazione, o uno stile di vita malsano, causano danni extra ai nostri «sistemi», mentre una dieta e un’esistenza sani lavorano nella direzione opposta. Un terzo aspetto è che l’invecchiamento comincia presto: anche se i segni esteriori dell’età possono non manifestarsi prima dei 40-50 anni, l’accumulo di errori che ci porta verso la vecchiaia inizia ancora prima della nascita. Le radici di un invecchiamento sano stanno non solo nel modo in cui viviamo l’età adulta e la terza età, ma anche nei nostri primi anni. Non è mai troppo tardi per mettere in atto cambiamenti che possono fare la differenza, ma non è mai nemmeno troppo presto.
La scienza non fornirà una cura miracolosa in tempi brevi. Il processo dell’invecchiamento è immensamente complicato e c’è ancora molto da scoprire sui fattori di rischio correlati all’età. Se nella medicina di oggi la maggior parte delle condizioni patologiche che i medici devono affrontare sono quelle in cui l’età è l’elemento più significativo, per ora solo una piccola parte della ricerca è collegata alla biologia del processo dell’invecchiamento. Ma è una realtà che di sicuro cambierà, perché gli scienziati stanno cominciando a capire che il mistero dell’invecchiamento - in passato considerato un tema troppo difficile per un’indagine seria - è diventato finalmente un campo di studio affrontabile.
La buona notizia è che siamo già in grado di spiegare perché s’invecchia: il raddoppio della vita media, che si è verificato nei Paesi ad alto reddito negli ultimi due secoli, è probabilmente il nostro più grande successo. L’obiettivo, ora, è sfruttare al massimo quest’opportunità senza precedenti. Traduzione di Carla Reschia

IL SITO : WWW.NCL.AC.UK/IAH/STAFF/ PROFILE/TOM.KIRKWOOD

La Stampa TuttoScienza 18.9.13
Intervista a Luigi Fontana
“È la dieta povera l’elisir di lunga (e sana) vita”
Tra topi e umani, le sorprese dei test di laboratorio
di Gabriele Beccaria


Luigi Fontana Geriatra è professore di medicina alla Washington University di Saint Louis e all’Università di Salerno
IL SITO : HTTP://GERIATRICS.IM.WUSTL. EDU/FACULTY/FONTANA.HTML

La vera domanda - dice Luigi Fontana, professore all’Università di Salerno e alla Washington University di St. Louis - è questa: è possibile vivere una lunga vita senza ammalarsi? Chi non è uno scienziato può tradurla così: si può morire in tarda età ma sani? La risposta è sì. E la formula si chiama «restrizione calorica». Professore, come la spiegherà al meeting di Venezia? «La restrizione calorica - che non significa malnutrizione! - è l’intervento più potente per allungare la durata della vita. Ci sono dati schiaccianti, almeno nei modelli sperimentali».
In pratica? «Se a un topo di laboratorio si riduce l’introito calorico del 3040%, l’animale vive fino al 50% in più: è come se la nostra esistenza si allungasse a 140-150 anni. Il fatto straordinario è che le cavie sono più sane e hanno una riduzione di tutte le patologie, dal diabete alle malattie cardiovascolari, fino al cancro».
E quindi perché si muore? «Semplicemente perché il cuore smette di battere». Lei sostiene che queste scoper­ te hanno un doppio aspetto: sia biologico sia economico­sociale. «In Italia il 21% delle persone ha oltre 65 anni e con il Giappone siamo una delle popolazioni più anziane. E tra 10 anni saliremo al 33%. L’80% di questi ultrasessantacinquenni ha una malattia cronica e il 50% ne ha due o più, come disturbi cardiovascolari, tumori, diabete, demenza. E’ una situazione insostenibile, se si pensa che già oggi quasi l’8% del prodotto interno lordo viene speso per la Sanità».
Come si può rimediare? «Ridisegnando le politiche sanitarie in modo che si arrivi a 70 anni in buona salute, visto che si dovrà lavorare almeno fino a quell’età. Oggi il sistema è curativo: si va dal medico quando si sta male. Ma così non può più funzionare. Se ne deve affiancare un altro - di tipo preventivo - in cui si insegnino comportamenti alimentari e stili di vita sani e corretti».
Anche con la coercizione? «No. Basta l’insegnamento. Perché la gente fa poco esercizio e non sa mangiare. Apre il frigorifero e si nutre con gli stessi cibi a cui è stata abituata da genitori e amici. Ecco perché bisogna creare strutture dedicate in cui imparare come e cosa fare: ci vuole una nuova concezione della medicina». In cosa consiste esattamente la restrizione calorica? «Nel mangiare cibi ricchi di nutrienti, ma poveri di calorie vuote: si dovrebbe adottare una dieta mediterranea, ma un po’ più sofisticata, in cui a piccole dosi di latticini e carne magra si affiancano grandi varietà di verdure e frutta, eliminando i dolciumi e aggiungendo pesce, cereali integrali, legumi, noci e semi».
E che cosa si ottiene? «Gli individui che la seguono, e che fanno un adeguato esercizio fisico, presentano un profilo cardiovascolare fantastico. A 70-80 anni hanno la pressione di un ragazzo, mentre il 90% degli italiani sopra i 50 anni ha già una preipertensione e il 50% è iperteso. Chi comincia la restrizione calorica in giovane età, invece, riduce il rischio di infarto del miocardio e di ictus - le prime due cause di morte - pressoché a zero. Anche il rischio cancro è basso, sebbene al momento non siano ancora disponibili marcatori chiari che permettano di elaborare previsioni per ognuno».
C’è un modello a cui ispirarsi? «Purtroppo no. In auge c’è ancora quello tradizionale, in Italia come negli Usa».
E come lo si può inventare? «Si deve ridisegnare il sistema sanitario e universitario, seguendo un approccio multidisciplinare, in cui la missione sarà quella di sviluppare ricerche e iniziative legate alla promozione della salute dell’individuo e della tutela dell’ambiente, oltre che dello sviluppo ecosostenibile».
E l’inquinamento? «Abbiamo già disponibili molte delle conoscenze che permetterebbero una vita sana in un mondo pulito, ma una visione riduzionistica e arretrata ha impedito finora lo sviluppo di tutte queste opportunità». L’Italia potrebbe davvero con­ quistare la leadership nella lot­ ta all’invecchiamento? «Dobbiamo chiederci se vogliamo diventare un’altra Cina o se concentrarci sulle attività scientifiche, industriali e di servizio legate alla salute. Sono un mercato e un business gigantesco».

La Stampa TuttoScienza 18.9.13
Intervista al neurofisiologo Marcello Massimini
“Il numero che sa misurare l’Io”
Nasce il “coscienziometro”: dall’epilessia al coma, tante applicazioni cliniche
di Nicla Panciera


Marcello Massimini è ricercatore in fisiologia umana all’Università di Milano
IL LIBRO : «NULLA DI PIÙ GRANDE» (CON GIULIO TONONI) BALDINI &CASTOLDI

Il grande mistero della scienza di cui tutti abbiamo esperienza diretta - la coscienza - è ora misurabile in modo oggettivo. A dirlo è una teoria scientifica, verificabile sperimentalmente, che ha già prodotto un primo «coscienziometro». Una novità per le neuroscienze, un’insieme di discipline dove, a fronte dell’enormità di dati raccolti, le teorie sistematiche tardano ad arrivare. Marcello Massimini, lei è neurofisiologo all’Universi­ tà di Milano e con Giulio To­noni, professore di psichia­tria all’Università del Wisconsin, dove dirige il «Center for sleep and con­sciousness», ha appena scrit­to il saggio «Nulla di più gran­ de», dedicato proprio ai vo­stri studi: ci descrive questa nuova teoria della coscienza? «La teoria che ci guida parte dalla semplice osservazione delle proprietà fondamentali dell’esperienza soggettiva che è, allo stesso tempo, straordinariamente ricca di dettagli e assolutamente unitaria. L’idea di fondo è che anche il substrato fisico della coscienza debba essere un sistema straordinariamente differenziato e unitario al tempo stesso». La definizione del fenomeno­ coscienza è il punto di parten­za per la sua individuazione? «La coscienza è un fenomeno graduato, prodotto internamente dal cervello anche quando questo è isolato dal mondo esterno, come quando sogniamo. Un problema concreto e urgente si pone, in particolare, per chi “è chiuso dentro”, vale a dire i pazienti privi di canali di comunicazione sia in entrata - perché le lesioni cerebrali sono così estese da compromettere la capacità di sentire, vedere e capire - sia in uscita, perché incapaci di muoversi. In questi casi, non ci resta che andare alla ricerca di una misura oggettiva». Si tratta di un approccio scientifico per indagare un fe­nomeno soggettivo? «Vogliamo determinare il livello di coscienza, non i suoi contenuti. Ragionare in termini quantitativi è necessario per qualsiasi misura che deve essere calibrata e validata». Quindi, basta misurare la complessità delle interazioni tra neuroni? «Sì, ma non è così semplice. Noi abbiamo bussato alla porta del cervello e siamo rimasti in ascolto dell’eco prodotto. In pratica, abbiamo registrato con un elettroencefalogramma la risposta del cervello a una perturbazione magnetica eseguita con la “Tms”, la stimolazione magnetica transcranica. In un soggetto cosciente si registra un eco complesso, come la sinfonia di un’orchestra in cui gli strumenti si integrano alla perfezione. Nel sonno, nell’anestesia e nel coma questo miracoloso equilibrio tra diversità e unità è invece perduto». E come si passa da una teoria fino a un «coscienziometro»? «Abbiamo tradotto la complessità della reazione cerebrale in un numero, l’indice di complessità perturbativa (“Pci”), e l’abbiamo validato su soggetti sani, temporaneamente non coscienti per ragioni fisiologiche (durante il sonno) o farmacologiche (sotto anestesia). Abbiamo quindi applicato la scala così ottenuta ai pazienti usciti dal coma, con vari livelli di coscienza: dagli stati vegetativi fino ai “lockedin”, passando per gli stati intermedi che sono quelli di minima coscienza (in gergo “Mcs”). I risultati, appena pubblicati sulla rivista “Science Translational Medicine”, sono robusti: i valori di “Pci” danno luogo a due distribuzioni separate nel caso di soggetti coscienti e non coscienti». E’ questa la prima validazione empirica della teoria? «Esattamente. In soggetti di sicuro incoscienti “Pci” non è mai maggiore di 0.3. Se, invece, in un paziente vegetativo ottengo un valore superiore a 0.3, è improbabile che il soggetto sia incosciente. “Pci” è un indicatore affidabile della presenza di coscienza e può essere usato come guida per nuove strategie terapeutiche per la riabilitazione. Il valore numerico ha un fine clinico, non è un’arida riduzione della coscienza. Anzi, se la teoria che cerchiamo di validare è corretta, la coscienza è l’unica cosa davvero irriducibile nell’Universo che conosciamo».
Altre evidenze? «Uno studio su pazienti anestetizzati con la ketamina, che disconnette completamente dal mondo esterno ma che procura potenti allucinazioni. Alti valori di “Pci” sarebbero un’ulteriore conferma». Qual è il vantaggio evoluti­ vo della coscienza secondo la vostra teoria? «Integrazione e differenziazione permettono la massima adattabilità: vuol dire capacità di mettere insieme le cose per capire il contesto. Un bel vantaggio evolutivo!». Quali saranno le ricadute per le neuroscienze? «Negli ultimi 20 anni la coscienza è stata associata al livello di attività e alla sincronizzazione delle onde cerebrali, ma nessuno dei due criteri si è rivelato affidabile. Pensiamo a una crisi epilettica, dove entrambi sono elevati, ma dove non c’è traccia di coscienza. Ma la ricaduta più importante è un’altra».
Quale? «Ci accingiamo a spendere centinaia di milioni con progetti come lo Human Brain Project e la Brain Initiative, mirati a descrivere il funzionamento dei neuroni. Ma, se non avremo una teoria che ci aiuta a capire come fanno questi neuroni a dare luogo a un soggetto che vede e sente, saremo sempre come gli astronomi antichi: occupati a descrivere minuziosamente i movimenti dei corpi celesti, ma del tutto ignari se tali movimenti obbediscano a una legge generale».

La Stampa TuttoScienza 18.9.13
Le parole si ascoltano e si imparano già nel pancione della mamma
di Paola Mariano


I bebè ascoltano e imparano parole e suoni già nel grembo materno e, dopo la nascita, ricordano e riconoscono quelle stesse parole udite in utero. È la scoperta di un gruppo del­ l’Università di Helsinki in uno studio pubblicato sulla rivista «Pnas». Già di recente un altro lavoro uscito sulla rivista «Acta Pediatrica» aveva dimostrato che il processo di ap­prendimento del linguaggio inizia due mesi prima di nascere e, infatti, appena nati, i piccoli sono già in grado di distinguere tra i vocaboli della loro madre lingua e quelli di un idioma stra­niero. E tuttavia gli scienziati finlandesi, capitanati da Eino Parta­nen, hanno fatto di più, con un test condotto su 33 gestanti. È stato chiesto a 17 delle 33 donne di ascoltare, a partire dalla 29ma settima­na di gravidanza, una serie di parole inventate come «tatata» o «tato­ta», registrate su un Cd. Le parole erano ripetute da 50 a 71 volte al giorno, in accenti e tonalità differenti. Le gestanti dovevano poi ripe­tere l’esercizio d’ascolto fino al parto. Dopo la nascita e dopo i test per il controllo dell’udito, i ricercatori hanno quindi fatto ascoltare ai 33 bebè le parole registrate, osservando le loro reazioni con un elettroe­ncefalogramma. Si è così scoperto che i bimbi che avevano già ascol­tato le parole quand’erano nella pancia della mamma reagivano mol­to più intensamente ed elaboravano meglio quegli stessi suoni: un  segno inequivocabile che ricordano di averli già uditi. I risultati sug­geriscono che il cervello del feto è capace di prestazioni straordinarie e che, proprio grazie a questa forma di apprendimento prenatale, co­nosce una serie di cambiamenti strutturali che potrebbero anche influenzare l’acquisizione del linguaggio durante l’infanzia.

La Stampa TuttoScienza 18.9.13
Intervista all’urologo Vincenzo Mirone
Se cala il desiderio un pronto soccorso per le crisi sotto le lenzuola
Coppie a rischio Sono gli uomini i più restii ad affrontare i problemi di sesso
di Fabio Di Todaro


Vincenzo Mirone è professore di Urologia all’Università Federico II di Napoli

È una novità assoluta, almeno in Europa, ideata per la coppia: a partire dalla camera da letto. L’idea di un «pronto soccorso» per lui e per lei nasce con l’obbiettivo di risolvere i problemi sotto le lenzuola, spesso causa di dolorosi fallimenti. In questi casi - è opinione degli esperti - le colpe non sono mai condensate da una sola parte. Ci sono responsabilità ripartite tra l’uomo e la donna e quindi occorre aiutare entrambi.
Così, a partire dall’autunno, negli ospedali italiani nasceranno i dipartimenti della «salute sessuale della coppia»: subito a Napoli ed, entro l’anno, a Palermo, Roma, Firenze e Milano. Si comincerà dalle grandi città e non è un caso, dato che «lo stress e la crisi economica sono tra le prima cause di questi disturbi - spiega Vincenzo Mirone, ordinario di urologia all’Università Federico II di Napoli -. Queste condizioni mettono in discussione il ruolo dell’uomo, fuori e dentro la coppia. Se aggiungiamo la diffusione di modelli sessuali “facili” e di una pornografia soft a cui risultiamo sempre esposti, è chiaro perché spesso si riducano il desiderio e le capacità sessuali».
I numeri danno l’idea dell’ampiezza del fenomeno. Secondo la Società italiana di urologia, infatti, sono poco meno di 16 milioni gli italiani che soffrono di disturbi sessuali, equamente ripartiti tra uomini e donne. I primi lamentano eiaculazione precoce e disfunzione erettile, mentre nelle donne è l’anorgasmia la «spia» più diffusa, seguita dal vaginismo e da un generale calo del desiderio. Le responsabilità sono prima di tutto imputabili a due molecole: il cortisolo e le endorfine, gli ormoni contrari al sesso per antonomasia. L’alterazione dell’asse ipotalamoipofisi-gonadi, infatti, ha una duplice ripercussione, legata al sesso: il testosterone cala e il ciclo mestruale risulta alterato. «Quando l’uomo soffre di eiaculazione precoce, la sua compagna quasi certamente avrà problemi di anorgasmia - prosegue Mirone -. Chi avverte questo disturbo riconosce la profonda insoddisfazione del partner e teme il fallimento della relazione. Eppure, nel 90% dei casi, non affronta il problema e trascura l’efficacia delle soluzioni esistenti». Trattamenti psicologici in primis, visto che i farmaci finora testati non hanno garantito rimedi definitivi.
L’obiettivo del progetto, condiviso dalla Società di urologia e dall’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), è coinvolgere soprattutto gli uomini, più restii ad affrontare esplicitamente il problema. A sentire gli esperti, l’abolizione della leva obbligatoria, in questo senso, ha delle responsabilità. Fino a 10 anni fa, infatti, la visita in caserma rappresentava il primo momento in cui i ragazzi si confrontavano con la propria sessualità: a viso aperto. Senza quel passaggio si è persa una parte importante del percorso di educazione sessuale, oltre che un primo «step» di controllo. Conferma Antonio Chiantera, primario ginecologo alla casa di cura Villa dei Fiori di Mugnano e segretario nazionale Aogoi: «Oggi le donne, in un caso su due, devono fare i conti con la difficoltà o l’impossibilità nel raggiungere l’orgasmo, con dolori durante i rapporti e con un calo del desiderio che spesso riguarda entrambi i partner. Nascono così i sempre più diffusi matrimoni “bianchi”, in cui il sesso è il grande assente. Non avere una buona salute sessuale comporta difficoltà nella relazione che possono esasperarsi fino alla violenza: talvolta i maltrattamenti entro le mura domestiche possono essere provocati dalla frustrazione dell’uomo, che non sa come gestire il suo disturbo e reagisce con l’aggressività e la rabbia».
Una vita sessuale poco appagante provoca spesso la fine della relazione, perché uno dei due partner è portato a cercare soddisfazione altrove. Ecco perché un dialogo schietto e profondo sui propri dubbi e sui propri problemi è la base da cui far sbocciare nuovamente la passione sotto le coperte.

Repubblica 18.9.13
Quelli che non dormono mai
di Massimo Vincenzi


NEW YORK Il sogno americano è un incubo rimpicciolito dalla Grande Depressione e pure il sonno segna il suo minimo storico, con l’ultima ricerca del Centers for Disease Control and Prevention, l’istituto della salute Usa, che fotografa una nazione nevrotica, ad occhi aperti nel cuore della notte, incapace di riposare senza ricorrere ai sonniferi. La cifra è un record storico: li usano nove milioni di persone con un aumento in dieci anni del 7,6 per cento. Un dato empirico, impreciso per difetto, perché non tiene conto della maggioranza nascosta che ricorre a medicinali per i quali non serve la ricetta (che non sempre sono più blandi): qui gli appassionati sono oltre 15 milioni, ma le statistiche si basano sull’intuizione.
Monya ha 45 anni, i capelli biondi quasi bianchi e fa la gallerista nel Lower East Side, dove si stanno spostando molti imprenditori dell’arte stritolati dai prezzi di Chelsea. Lisa supera di poco i 50 e fa l’insegnante in una scuola del Queens.

È da poco passata l’alba di una fredda domenica mattina di settembre, loro sono nella sala d’attesa di un Duane, la catena di farmacie dove è possibile trovare un dottore quasi a qualsiasi ora. In questa, un isolato sopra Times Square, il medico arriva anche nei giorni di festa e l’attesa è lunga: «Io sono passata dall’Ambien al Lunesta, mi fa stare meglio soprattutto non ho mal di testa il giorno dopo», «No, io no: l’Ambien non lo mollo per niente al mondo. Sono qui anche se a casa ho due scatole ancora intatte, il pensiero di finirlo mi toglie il sonno».
La battuta involontaria non fa ridere nessuno. L’insonnia è “l’epidemia del nuovo Millennio”, come viene battezzata. Le due donne sono lo specchio perfettodella ricerca, l’identikit del consumatore infatti è femmina (il 5 per cento contro il 3 per cento dei maschi), di razza bianca (il 5 per cento contro il 2,5 per cento degli afroamericani e il 2 dei latinos) e con una buona istruzione (i laureati vincono su tutte le altre categorie). La notte è infinita per il 48 per cento degli americani, per il 22 per cento è un disturbo cronico. Non va meglio in Europa dove un inglese su nove dichiara di dover ricorrere ad aiuti chimici, lo stesso per il 20 per cento dei francesi. In Italia i farmaci della famiglia delle benzodiazepine (ansiolitici, sonniferi e sedativi vari) sono nella lista dei più gettonati largamente davanti persino al Viagra. Nel 2012 la spesa è stata di 9 euro a persona e ogni giorno vengono consumate 53,7 dosi ogni mille abitanti con un dato in lenta ma inesorabile crescita. Anche qui difficile fare calcoli precisi ma gli esperti danno per assodato che ne fa un uso regolare un italiano su dieci. Nella top ten dei medicinali più venduti negli Stati Uniti ci sono tre noti sonniferi per un girod’affari di oltre 16 miliardi di dollari: «È la cultura della pillola», secondo una fortunata definizione.
Ana Krieger è un medico che lavora al Weill Corner Center di New York, alWall Street Journalspiega: «I problemi legati alla mancanza di sonno sono molto più diffusi di quanto i numeri ci spieghino. Molti non ne parlano, cercano soluzioni empiriche oppure sono rassegnati con conseguenze gravi». Le cause sono diverse. Ci sono quelle note: la caffeina, le sigarette, l’alcol, la poca attività fisica, il troppo peso. Ma ci sono fattori nuovi che emergono dagli ultimi studi. Un’inchiesta di The Salon racconta come la depressione (una delle spine notturne) non sia mai stata così diffusa come in questo periodo. Gli psicofarmaci negli ultimi venti anni hanno avuto un boom del 400 per cento, 1 americano su 76 soffre di problemi mentali, nel 1987 il rapporto era di 1 a 184. La definizione coniata da un team di psicologici ha il dono della sintesi: è colpa “della delusione di massa”, abbiamo alzato troppo l’asticella delle nostre aspettative, vogliamo sempre di più e così ogni giorno sbattiamo l’anima contro gli spigoli di una vita complicata, mai all’altezza delle speranze. Così perdiamo il sonno.
L’altra causa è la Grande Crisiche negli ultimi cinque anni ha stravolto non solo l’economia ma anche la natura stessa della società: «La generazione dei cinquantenni adesso è la più colpita. Sono come fette di carne in mezzo ad un panino, da una parte hanno genitori anziani con aspettative di vita più lunghe ma bisognosi di assistenza. Dall’altra ci sono i figli che non trovano più lavoro e rimangono in casa anche dopo aver fatto l’università. Inoltre vedono il loro reddito calare e il futuro è un’immagine tutt’altro che felice. Questo diventa stress, ansia, paura che trasformano il riposo in una tortura», sostiene in un dibattito televisivo su Fox-News Yinong Chong uno degli studiosi che ha condotto la ricerca del Cdc.
Infine paghiamo la dipendenza dai dispositivi elettronici. Un sondaggio della Potter’s Herbal, un colosso dell’erboristeria inglese, mostra che il 44 per cento delle persone usa il tablet a letto, il 14 per cento consulta le e-mail e i messaggini prima di addormentarsi e il 18 per cento tiene lo smartphone in carica sul comodino: «Il modo perfetto per non prendere mai sonno. La nostra attenzione viene continuamente stimolata sia sotto il profilo visivo con le loro luci, sia per quanto riguarda la capacità di comprendere quello che leggiamo. Il nostro cervello accumula energia e non si spegne mai», sostiene Ana Krieger.
I numeri non sono innocui. Le associazioni di specialisti Usa davanti a queste cifre lanciano l’allarme e aprono un nuovo inquietante capitolo: «La verità è che i sonniferi servono a poco, anzi i loro effetti sono spesso più dannosi che utili», dice all’Huffington PostDaniel Kripke dell’University of California a San Diego. Nel 2012 autore di uno studio molto contestato dalle grandi case farmaceutiche: «Tutti pensano che l’insonnia abbia effetti negativi sulla salute ed in parte è vero, ma se si mettono in relazione le varie ricerche si scopre che le colpe sono delle medicine prese per evitarla». Sotto la sua lente sono passate 33mila cavie e i risultati lasciano spazio a pochi dubbi: tra i consumatori abituali aumenta il rischio di ammalarsi di cancro sino a cinque volte di più e le ore di sonno guadagnate sono irrisorie. Inoltre le prestazioni del giorno dopo sono messe a repentaglio da perdita di memoria, difficoltà comportamentali, una ipersensibilità alle allergie, guai respiratori: cresce persino il numero di incidenti stradali. Ma quel che è peggio aumenta la depressione, ovvero il rimedio che diventa la causa del male: «È un cortocircuito vizioso dal quale dobbiamo uscire». In questi giorni si muove anche la Food and Drug Administration che ottiene di abbassare le dosi di alcuni sonniferi e invita a scrivere istruzioni sempre più chiare ed esaustive sulle loro confezioni.
«Quando un mio paziente viene da me e mi chiede aiuto, come prima cosa io faccio di tutto per dissuaderlo dall’iniziare a prendere sedativi»: dice Nancy Collop, presidente dell’American Academy of Sleep Medicine, che aggiunge: «Dobbiamo sforzarci di spiegare loro che adesso ci sono tanti altri rimedi più validi e meno pericolosi». La pubblicistica per “dormire bene” è la nuova moda cult, gli scaffali delle librerie sonopieni di manuali, su internet c’è una giungla di siti. L’Huffington
Postha pubblicato un piccolo vademecum la settimana scorsa e per giorni è stato l’articolo più cliccato. Le contromisure vanno da quelle tradizionali (bagni caldi, letto rifatto di fresco) a quelle più innovative come lo yoga, una ginnastica speciale per rilassare i muscoli e l’aromaterapia.
Sono le undici, il vento ha spazzato le nuvole, adesso è una bellissima giornata di sole ancora estivo. Monya aspetta che la nuova amica Lisa esca dallo studio del medico anche lei con la magica scatoletta: «Fanno male? Non lo so e francamente non mi importa. A me fa peggio svegliarmi angosciata alle due del mattino. Per anni ho provato i consigli della nonna e pure quelli degli esperti. Tutto inutile, non c’è abluzione o incenso che mi aiuti e quando sei lì, da sola, puoi solo sperare che il tempo passi in fretta e che domani vada meglio».

Repubblica 18.9.13
I prigionieri dell’insonnia, il mondo non dorme più
Tra ricordi, passeggiate e internet noi che viviamo più degli altri
di Gabriele Romagnoli


Scrivo la traccia di questo articolo alle 4 del mattino. Mi sono addormentato a mezzanotte e svegliato all’una. Nel sogno ha suonato il campanello di una porta che non esiste. Sono andato ad aprire ed era buio nella mia camera. Ora so che resterò sveglio fino a domani. Altre volte l’ora di sonno arriva all’alba. Non saprei che cosa scegliere. È un disturbo ciclico, va a folate di tre-quattro mesi, poi riprendo a dormire, ma so che non durerà. È cominciato molto tempo fa, quand’ero bambino. Non so se fossi precoce, raro o se capitasse anche ad altri. Non ne ho mai parlato con nessuno, e forse nessun altro lo mai fatto. Nelle notti d’estate e primavera mi rivoltavo nel divano letto e, a un certo punto, mi fissavo nel pensiero dell’eternità. Lì, il cuore e il cervello si spaurivano e non c’era più speranza di acquietarli. L’avessi rivelato, temevo mi avrebbero (ri)portato dallo psicologo di quartiere, che aveva un nome da orco disneyano, quindi spaventosamente credibile a quell’età. Oggi sono venuto a patti con l’eternità: penso che, almeno, sarà un lungo sonno.
In notti come questa compongo formazioni di calciatori (schierate con il 4-3-3) che cominciano con la stessa iniziale, scovo undici titoli di film con la “P”, o altrettanti cantanti con la “V”. Ho abbandonato il libri di filosofia per le pagine di sport e spettacoli, ma non ho trovato il modo di staccare la corrente a quel campanello che suona alla porta che non c’è.
Ne ho parlato con alcuni specialisti. Queste le principali diagnosi. Una: sei stressato. Dalla nascita? Non ci credo. E poi non c’è corrispondenza tra i momenti più complicati della mia esistenza e l’insonnia. Anzi, il rapporto, è curiosamente e inversamente proporzionale: peggio va e meglio dormo. Due: siccome hai capito che nel sonno hai prevalentemente incubi, cerchi di evitarli non dormendo. Bella teoria, lo ammetto, una specie di matrioska interpretativa. Ma ho letto una frase molto lucida a questo proposito. Stanel romanzo di Osvaldo Soriano “L’ora senz’ombra”. Dice: “Anche l’insonnia ha i suoi incubi, porte che si aprono e da cui non entra nessuno, e io lì, su una sedia a rotelle, più vecchio del mondo, ad aspettare che qualcuno venga a svelarmi la verità”. Anche l’insonnia ha i suoi incubi. Solo che si chiamano ricordi, rimozioni, rimpianti. In ogni caso, nessun rimorso. Tre: hai problemi di fegato. Esiste una corrispondenza, pare, tra le due cose.
Rimedi sperimentati? Categoria blandi: tisane, cardo mariano, astinenza da alcol, indumenti caldi, coperte lievi, doppi cuscini, animali da compagnia, compagnia. Solo l’ultimo ha, sporadicamente, funzionato. Categoria medi: melatonina, bagni bollenti, autoipnosi. Nessun effetto. Categoria massimi: sonniferi. Risultato incompatibile con il “sonno chimico”, troppo “artificiale”, troppo “nero”. Si è riaperta la scatola cinese e sognavo che non riuscivo a dormire.
Ora, sapendo che il fenomeno è ciclico e non cronico, la scelta è: affrontarlo ai fianchi anziché di petto. Approfittare della libertà concessa dalle scelte di vita per confonderlo con il jet lag e altri espedienti. Viaggiare. Scambiare il giorno con la notte. Sveglio alle due cucino la cena che ho saltato, mando mail che lasciano perplessi i destinatari per l’ora di spedizione (ma come viene loro in mente di verificarla?), guardo improponibili film su Sky Cinema (ai responsabili della programmazione: abbiate cuore per chi vi fa audience fuori dall’ora di punta). A dieci anni scivolavo silenziosamente in salotto e cercavo Tele Capodistria. Ora ho una scelta più vasta, ma la qualità non è cresciuta altrettanto. La vera grande rivoluzione per gli insonni è internet: un locale aperto 24 ore e popolato da una folla non necessariamente insonne. Qualcuno ha semplicemente un diverso fuso orario.
E poi c’è il mondo, là fuori, sempre disponibile. Ho provato a passeggiare, nelle notti d’inverno. Le strade, prima che arrivi l’alba, sono punteggiate di ectoplasmi silenti. Il loro alibi è un cane, che si trascina al guinzaglio smentendo di aver mai avuto voglia o necessità di uscire. La loro colpa non è trasparente quanto la pena. Non c’è possibile grazia, soltanto la consolazione di aver vissuto, innegabilmente, di più.

Repubblica 18.9.13
Confessione shock di Bertolucci “È vero, ho ferito Maria Schneider”
A Parigi rivela i dettagli della “scena del burro” in “Ultimo tango”
di Silvia Fumarola


ROMA Quella scena, vissuta come una violenza, ha perseguitato Maria Schneider tutta la vita. Oggi Bernardo Bertolucci ammette: «Sì, sono stato colpevole per la Schneider, ma non potranno portarmi in tribunale per questo». È la confessione shock del regista durante la masterclass alla Cinémathèque Française di Parigi, che fino al 13 ottobre gli dedica una retrospettiva. Bertolucci si è soffermato sulla lavorazione diUltimo tango a Parigi(1972) svelando come nacque la scandalosa “scena del burro” tra la Schneider e Marlon Brando, a suo tempo censurata (in Italia il film finì al rogo), motivo della rottura tra lui e l’attrice. «L’idea è venuta a me e a Brando mentre facevamo colazione, seduti sulla moquette. A un certo punto lui ha cominciato a spalmare il burro su una baguette, subito ci siamo dati un’occhiata complice» ha raccontato Bertolucci «Abbiamo deciso di non dire niente a Maria per avere una reazione più realistica, non di attrice ma di giovane donna. Lei piange, urla, si sente ferita. E in qualche modo è stata ferita perché non le avevo detto che ci sarebbe stata la scena di sodomia e questa ferita è stata utile al film. Non credo che avrebbe reagito allo stesso modo se l’avesse saputo».
Alla domanda se comportarsi così sul set con gli attori oggi sarebbe moralmente inaccettabile, ha risposto ironico di «non appartenere all’oggi». Poi è tornato serio: «Sicuramente Maria avrebbe avuto bisogno di essere protetta dopo, ma pensavo già a un altro film. Sono cose gravi ma è anche così che si fanno i film: le provocazioni a volte sono più importanti delle spiegazioni».
La Schneider, scomparsa nel 2011 a 58 anni, ha raccontato di essersi sentita umiliata, sfruttata solo come un corpo sul set diUltimo tango.La sua vita è stata tormentata: la droga, un tentativo di suicidio. «Mi sono sentita un po’ violentata da Brando» confessò al Daily Mailnel 2007 «Quella scena non era prevista. Mi sono arrabbiata ma non ho potuto dire di no. Avrei dovuto chiamare il mio agente o il mio avvocato perché non si può obbligare un attore a fare qualcosa che non è nella sceneggiatura. All’epoca ero giovane, non lo sapevo. Marlon mi disse: “Maria, non ti preoccupare, è solo un film”, anche se sapevo che quello che faceva non era reale, ho pianto lacrime vere. Mi sono sentita umiliata e un po’ violentata, sia da lui che da Bertolucci. Dopo la scena non mi consolò».
Nella sua “lezione di cinema” Bertolucci ha spiegato: «È anche in questo modo che si ottiene un certo clima, non saprei come altrimenti. Maria aveva vent’anni. Per tutta la vita è stata rancorosa nei miei confronti perché si è sentita sfruttata. Purtroppo succede quando si è dentro un’avventura che non si comprende, lei non aveva i mezzi per filtrare quello che le succedeva. Forse sono stato colpevole ma non potranno portarmi in tribunale per questo». Solo dopo la morte della Schneider, Bertolucci ammise per la prima volta che avrebbe voluto «chiederle scusa».