venerdì 20 settembre 2013

l’Unità 20.9.13
Pd, accordo in bilico si tratta a oltranza
In serata posizioni ancora lontane tra bersaniani e renziani
Nodi irrisolti: data e voto sui segretari locali
Marini: «Sosterrò Cuperlo perché serve un leader ma anche una squadra»
di Simone Collini


ROMA Ormai c’è anche chi scherza sul nome del luogo che oggi e domani ospita l’Assemblea nazionale del Pd: Auditorium della Conciliazione. Sì, perché l’appuntamento che dovrà dare ufficialmente il via al congresso e indicare la data delle primarie per eleggere il nuovo segretario rischia di essere sotto il segno della lacerazione tra le diverse anime del partito.
Dopo il nulla di fatto di mercoledì, anche ieri la commissione incaricata di scrivere le regole è stata convocata e sconvocata in attesa che i contatti tra i sostenitori di Matteo Renzi che oggi sarà a Roma e di Gianni Cuperlo che incassa il sostegno di Franco Marini portassero all’individuazione di un punto d’intesa. In mattina sembrava vicino, e prevedeva l’ipotesi di far eleggere dagli iscritti i segretari di circolo e di federazione, poi le primarie aperte agli «aderenti» per il segretario nazionale in una data compresa tra il 24 novembre e il 15 dicembre, e successivamente l’elezione dei segretari regionali. Poi nel pomeriggio c’è stato un nuovo irrigidimento nei due fronti, con i bersaniani che insistendo sul carattere federale del partito hanno chiesto di far eleggere anche i segretari regionali prima del nazionale (con primarie il 15 dicembre) e i renziani che hanno chiesto la contemporaneità delle due votazioni o una data vicina tra la prima (24 novembre o al massimo 1° dicembre) e la seconda. E la riunione dell’organismo, prevista prima la mattina e poi nel pomeriggio, è slittata a dopo le nove di sera, tra i sospetti reciproci: i renziani sono convinti che i bersaniani vogliano far scivolare il congresso al 2014, magari mettendo in conto una crisi di governo che porterebbe soltanto a primarie per la premiership; i bersaniani temono che il sindaco punti ad accelerare i tempi per mantenere aperta la finestra elettorale di primavera e a fare il pieno portando quanti più renziani possibile ai vertici regionali; dalemiani e giovani turchi, che pure erano pronti a siglare la mediazione individuata la mattina, sospettano che gli altri non vogliano l’accordo per interessi contrapposti.
Così i 19 membri della commissione incaricata da Epifani di fissare le regole congressuali sono rimasti fino a tarda notte a discutere. Questa mattina sapremo se un accordo è stato trovato. In caso contrario, la trattativa andrà avanti ad oltranza fino alle cinque di oggi (ora di inizio dell’Assemblea) ma c’è anche chi non esclude che si dovrà cercare l’intesa anche a lavori avviati. E infatti il voto delle regole congressuali è stato fissato per domani pomeriggio.
È interesse di tutti non avviare il congresso con una spaccatura e siglare un’intesa. In primis, è interesse di Renzi, perché se dovesse rimanere in vigore l’attuale Statuto i tempi si allungherebbero fino al prossimo febbraio. Ed è interesse di Cuperlo, che non vuole una rottura sul fronte delle regole con Renzi, perché il sindaco avrebbe gioco facile nel vestire i panni della vittima delle macchinazioni dell’attuale gruppo dirigente. Viceversa però, come iniziano a temere dalemiani e giovani turchi, proprio per quelle ragioni rovesciate bersaniani (che vogliono tempi lunghi) e renziani (che sono convinti che a Statuto invariato sia possibile chiudere tutto per fine novembre) potrebbero essere tentati di far fallire la trattativa.
Renzi, alla vigilia dell’appuntamento, ostenta distacco e serenità parlando del «dono» di fare il sindaco: «Stai con i cittadini, ti fermano, parli, ascolti, ti criticano. Non hai scorte, né lampeggianti, ma sei in mezzo alla tua gente. Non so cosa mi riserverà il futuro, in politica come fuori dalla politica, ma sono impagabili le lezioni di vita che ti regalano le persone vere». Anche Cuperlo ostenta serenità e intanto incassa l’appoggio di Marini, che agli esponenti del Pd con cui ha parlato ha annunciato che sosterrà il deputato triestino. «Questo è il momento forse più delicato nella vicenda del Pd», ha detto ai suoi interlocutori, «serve un partito forte, rigenerato, soprattutto con solide radici nella società, non ci serve l’uomo solo al comando perché quella sarebbe la via più sbagliata». Per l’ex presidente del Senato, «serve un leader e una squadra che si dedichino a questo compito, senza pensare che si tratti dello scalino per la corsa a Palazzo Chigi». Per questo Marini ha deciso di sostenere Cuperlo, «perché ha questa stessa idea: un segretario che per quattro anni si dedichi al partito».

il Fatto 20.9.13
Nel Pd conto alla rovescia per la fine dell’esecutivo
“Governiamo con un delinquente? Lo sapevamo”, dicono i democrat, ma alzano il tiro sull’economia
Delrio: “Basta farci dettare l’agenda dal Pdl”
di Wanda Marra


Barbara Berlusconi si chiede come facciamo a governare con suo padre, se pensiamo che sia un delinquente? Il Pdl non è solo Berlusconi, ci sono una serie di provvedimenti che vanno votati e siamo in una situazione di emergenza nazionale”. Stefano Fassina, viceministro dell’Economia. “Che era un delinquente, già lo sapevamo”, ripetono Democratici di vario ordine e grado, mentre Berlusconi inaugura la nuova sede di Forza Italia, dopo l’ennesimo video messaggio ad alto contenuto “eversivo” (definizione dello stesso segretario, Epifani). La Bindi ha detto a Repubblica che dopo gli insulti è difficile rimanere al governo insieme. I colleghi di partito non la seguono su questa strada, ma si attrezzano al logoramento dell’esecutivo da un’altra prospettiva. I Democratici sono in piena campagna elettorale, che dall’altroieri sera si è spostata sui provvedimenti economici. E poi al momento sono troppo impegnati in un conclave perenne per tirare fuori le regole di un congresso, che Renzi vuole immediatamente (per poi partire da una posizione di forza all’attacco del governo) e la vecchia guardia del partito vorrebbe non fare mai. “Certo, se il governo cade subito si faranno le primarie per la premiership, non il congresso”, dice ancora Fassina. Non c’ accordo e non c’è una data per il congresso nonostante l’Assemblea che dovrebbe approvarle sia fissata per oggi pomeriggio e domani. Ieri mentre in Aula si votava l’omofobia il segretario era nella sua stanza a Montecitorio a limare la relazione per oggi. Le due questioni si incrociano e producono corti circuiti dagli esiti imprevedibili.
AL NAZARENO sono in pochi a scommettere su una lunga durata del governo. L’orizzonte viene indicato dopo la legge di stabilità o poco più in là. Ma soprattutto, il Pd di governo e non solo ha dato un avvertimento al premier: sui provvedimenti economici non c’è nessuna intenzione di cedere ai ricatti del Pdl. A questo punto l’azione dell’esecutivo dev’essere improntata a principi più di sinistra. Per dirla con Graziano Delrio (ministro renziano): “Non esiste che loro ci dettano l’agenda e noi la prendiamo”. Sulla necessità di non aumentare l’Iva è andato all’attacco Fassina, e ieri alcuni renziani (Luca Lotti in testa) si sono affrettati a diramare un comunicato per chiedere di scongiurarne il rincaro sulle prestazioni sociali.
Enrico Letta sta in mezzo. Tra un Pdl che da ora in poi alzerà sempre di più i toni e un Pd che ha tutte le intenzioni di rispondere colpo su colpo. Nessuno si può permettere di farlo cadere, per ora, ma la campagna elettorale è entrata nel vivo. E infatti ieri il premier ha voluto avvertire: “Il governo non è un punchball”. Messaggio destinato - ci tengono a precisare da Palazzo Chigi - non solo al Pdl, ma anche al Pd. Letta per ora non fa gesti di rottura, ma se il logoramento diventa ingestibile, ribadisce che la sua permanenza alla guida del governo non è obbligatoria.
INTANTO, con una lettera aperta a Europa e Unità fa sapere che “per la prima volta da quando il nostro partito è nato” non partecipa all’Assemblea. “Non parteggerò per nessuno dei candidati in campo e m’impegno sin d’ora a relazionarmi col segretario eletto, chiunque sia, con rispetto e unità d'intenti. Mi auguro che la nettezza di questa scelta metta fine a gossip e a retroscena più o meno maliziosi”. La partecipazione gli era stata richiesta, lui non ci sta a farsi tirare iun mezzo. Eppure voci insistenparlavano di un possibile terzo uomo che i lettiani, su indicazione del premier, avrebbero proposto per tentare di fermare la marcia di Matteo Renzi. Lo stesso Renzi che D’Alema sosteneva sarebbe stato il suo candidato naturale perché il capo del Governo non potrebbe permettersi di stare con il perdente. Ma è certo che i rapporti tra i due ora sono pessimi. E mentre la commissione è riunita in notturna arriva una grana inaspettata: un documento di Civati, Barca, Puppato, Bettini e Casson nel quale si rimprovera alla segreteria uno scarso impegno sul tesseramento.

l’Unità 20.9.13
Cuperlo: «Dalla sinistra un New Deal per l’Italia»
«La sfida della sinistra: un New Deal per l’Italia»
«Voglio un Pd che ritrovi pezzi della società che ha trascurato, il congresso è la nostra grande opportunità: la destra va sconfitta anche culturalmente»
di Marco Bucciantini


Venticinque anni fa di lui scrivevano così: «È l’anti burocrate per eccellenza, è il politico che non viene dalle sezioni, parla con un linguaggio nuovo, è laico ma esalta il lavoro di don Ciotti. Non conosce Occhetto ma conosce Umberto Eco». Dopo tanto tempo, Gianni Cuperlo vuole difendere quell’identità, quel modo di starci, ma deve correggere quella cronaca, datata 1988, quando l’allora 27enne triestino dirigeva la Fgci, la federazione dei giovani comunisti da lui traghettata verso la sinistra giovanile. «Poi, conobbi anche Occhetto».
A 52 anni, Cuperlo ha fatto il giro delle feste del partito. Ha avuto davanti molta gente, ovviamente più del solito. Ha cercato di raccontare un cielo nuovo, rintracciando suggestioni nella storia, sua e di tutti: lo chiama «calendario civile», e si domanda come sia potuto andar perso. Sa che deve rimontare: «Sono emozionato, si è moltiplicato il pubblico davanti a me. So che devo farmi ascoltare e capire».
Adesso, l’anti burocrate che studiava al Dams rischia di passare proprio come il candidato dell’apparato, dei vecchi ex comunisti, di quella parte del partito che fa resistenza al nuovismo di Matteo Renzi. Infatti gli consigliano di trovare uno sponsor anche dall’altra filiera confluita nel Pd: Dc-Ppi-Margherita. «Sarebbe ora di rovesciare il modo di pensare. Ci aiuta la realtà: la maggioranza degli iscritti al Partito democratico non era in passato né dell’una né dell’altra parte. Vedono nel Pd il loro approdo in politica».
Però se Marini...
«È una personalità importante del centrosinistra».
Lei parla d’iscritti, gli ultimi dati sono tristissimi: 500mila tessere in meno, anche se il tesseramento è ancora in corso. «Voglio un Pd più ampio, che ritrovi pezzi della società che ha trascurato, e quindi perduto. Ma non sarà un incontro casuale, niente è dovuto. Servono forza, coraggio, visione, fantasia. Dobbiamo indicare un nostro New Deal alle persone e non può essere solo un messaggio di efficienza della politica, della burocrazia, dell’amministrazione. Non dobbiamo subire i temi degli altri: dobbiamo sconfiggere culturalmente e non solo numericamente la destra. Loro hanno rimpiazzato la politica con l’economia, cambiando drammaticamente il giudizio morale sulla disuguaglianza. Noi dobbiamo ripartire dalle persone». Loro, noi. Intanto c’è da fare un pezzo di strada insieme. E mercoledì è stata una giornata difficile per l’esecutivo. Un videomessaggio e un voto, due momenti che hanno diversamente logorato e forse colpito a morte il governo.
«Sul videomessaggio forse la vera domanda è: ma in quale altro Paese sarebbe potuto accadere? Sono passati 19 anni dalla prima cassetta di Berlusconi trasmessa a reti unificate. Era il 1994. Tom Hanks vinceva l’Oscar con la maschera di Forrest Gump, capolavoro che oggi viene trasmesso su cinema classic. E invece l’Italia è ancora qui, con una destra inchiodata al suo passato e prigioniera del suo collasso».
Sul voto?
«Un atto dovuto. I commissari hanno esaminato gli atti e ascoltato le ragioni del relatore. Poi si sono espressi. Per noi non era e non è una scorciatoia per liberarci da un avversario. È la difesa di un principio: l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge. Si tratta semplicemente di prendere atto dello status di un cittadino condannato in via definitiva da una sentenza della Cassazione». Torniamo al messaggio: Berlusconi ha parlato anche del centrosinistra. Male,come al solito. Non le sembra che manchi il minimo sindacale di lealtà per governare insieme?
«I contenuti di quel messaggio non sono nuovi, ma ciò nulla toglie alla gravità di quelle parole. Insultanti verso la sinistra e milioni di donne e uomini che la votano. Aggressive verso la magistratura e la sua autonomia. E cariche di una violenza verbale che lascia interdetti. Il punto riguarda la destra e la sua classe dirigente. Come vogliono chiudere questa lunga stagione? Rinnovando la concezione di una politica leaderistica, padronale e proprietaria oppure aprendo finalmente il cantiere di un partito europeo, contendibile, occidentale? Certo che quel discorso ha colpito anche il governo. Ma si scordi la destra di poter stare al contempo nella maggioranza e all’opposizione. È un film che abbiamo già visto e non ci sarà una replica». Qual è il ruolo, la missione e anche la fiducia del centrosinistra in questo governo? «Letta gode della nostra stima e del nostro sostegno, sta facendo cose giuste nell’interesse del Paese, da parte nostra l’appoggio non è mai stato in discussione. Ma la gravità della crisi e il dramma di milioni di persone ci chiede adesso di metter mano a un’agenda di cose da fare per sollevare chi è precipitato a terra, per dare ossigeno alle imprese e rimettere del carburante nella domanda interna. Insieme bisogna fare la nuova legge elettorale dicendo basta a ricatti e rinvii. Per me vale la formula citata spesso anche da Enrico: al governo nell’interesse del Paese ma non a qualunque costo. Ecco, non pensi la destra di scaricare su altri il peso delle loro responsabilità». Renzi ha una posizione forse più comoda, e punzecchia il governo. Lei ha un ruolo più leale e forse più ingrato.
«Non è questo il punto. Le larghe intese non sono un progetto politico, sono una parentesi che risponde a una necessità e a uno scopo. Noi con la destra non abbiamo stretto un’alleanza politica. Noi siamo lì per correggere alcune storture clamorose, ridurre diseguaglianze immorali che la destra negli anni dei suoi governi ha accentuato. In un Paese serio, dopo l’appello di Berlusconi a ridurre la pressione fiscale, qualunque giornale avrebbe dovuto pubblicare le percentuali che dicono come le tasse sono aumentate in tutti i governi presieduti da lui. Poi la sfida è ricostruire il campo largo del centrosinistra, oltre l’agenda Monti, le logiche della riforma Fornero e dentro un ripensamento di fondo del nostro modello di sviluppo, di convivenza, di democrazia. Il punto per il Pd non è se la crisi finirà, ma come ne usciremo, con quali principi e valori al centro della nostra idea del Paese». Berlusconi s’è intestato la cancellazione dell’Imu, la Confindustria chiede il blocco dell’aumento dell’Iva. E il Pd? «Intanto abbiamo trovato i soldi (e ne servivano tanti) per finanziare la cassa integrazione, e questo era decisivo per la dignità di centinaia di migliaia di lavoratori e famiglie. Sull’Iva è giusto fare ogni sforzo per evitare un aumento che deprimerebbe ancora di più i consumi e aggraverebbe la vita di tanti. Io continuo a pensare che si debbano usare razionalità e buon senso. Togliere l’Imu al 90% dei proprietari è una scelta saggia, ma l’altro 10%, e per la verità molti di più in tutta Europa, quella tassa la pagano. Anche senza essere un economista, si capisce che a fare parti uguali tra disuguali non si rafforza il principio dell’uguaglianza ma si ottiene il risultato opposto. Insomma è un’eresia chiedersi perché si devono aiutare persone che di quell’aiuto non hanno bisogno e si lascia un milione di famiglie sotto la soglia di povertà? Ma quale idea di giustizia c’è in questa logica?». «Equità»è una parola che lei ripete spesso, negli incontri pubblici.
«Certo, è una bella parola. Come giustizia sociale in un Paese impoverito e cambiato dalla crisi: sei anni senza inversione di tendenza, 8 punti e mezzo di Pil perduti, ogni punto vale 16 miliardi. Otto milioni di famiglie che hanno problemi pratici, che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena, a pagare le bollette. Noi siamo la sinistra italiana, abbiamo l’obbligo di capire e rispondere a questi problemi. Ma dobbiamo anche chiederci come sia stato possibile che tutte queste persone siano entrate in un cono d’ombra della storia dove i poveri non fanno più scandalo, né paura a chi comanda. Non disturbano, non interessano. E dobbiamo farlo aprendo lo sguardo alle potenzialità enormi che la realtà ci consegna, anche sul piano economico e culturale. Un’economia sostenibile non è solo una spolverata di fotovoltaico ma una concezione rovesciata della crescita, della politica industriale, del sistema dei trasporti, della cura del suolo. Lo stesso per quella rivoluzione digitale che sta già cambiando le nostre vite come mai avremmo immaginato. Certo che la sinistra ha senso in una logica di cambiamento, ma non c’è vero cambiamento senza i principi e i valori di una sinistra larga e ripensata».
Eppure la discussione sembra inchiodata alle date, alle regole.
«Oggi decideremo una data, tutti insieme. Non sarà occasione di divisioni. E il congresso è la più grande opportunità per questo partito, lo faremo presto e bene».
Nel suo programma c’è una citazione di Gramsci, sulla necessità di condividere il destino con chi si vuol rappresentare. «Erano le parole di un intellettuale, quando questo mestiere era allacciato alla realtà della vita, alla stanchezza, alla voglia, al dolore, alla lotta per costruire una società più giusta».
Mettiamo qualche altro nome nel Pantheon del centrosinistra.
«Vorrei un Pantheon aperto e pieno delle donne e degli uomini che partendo da culture e tradizioni diverse si sono battuti per emancipare la parte più debole delle loro società e del loro tempo. Si potrebbero citare tanti nomi, ne indico due. Quel sindacalista pugliese (Giuseppe Di Vittorio), che viaggiava fra i campi e seppe convincere i braccianti che non era un obbligo togliersi il cappello davanti al padrone. E il reverendo King, autore di quella profezia (...che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza). Cinquant’anni dopo, dallo stesso luogo nel cuore di Washington è stato un presidente di colore a ricordare quel discorso a dimostrazione che la forza della politica, a volte, sa valicare l’utopia del sogno».

Corriere 20.9.13
Pd, dieci idee per il leader che verrà
di Massimo Mucchetti


Caro direttore, il congresso del Pd interpella anche chi, come il sottoscritto, ha accettato un impegno nelle istituzioni senza avere alle spalle una militanza nel partito. Con l'assemblea di oggi il Pd concluderà la partita a scacchi sulle regole. Meno male. Per capirla, la si capiva. Ma un'introduzione troppo lunga potrebbe far temere un libro debole sul seguito. Poiché questo non sarebbe augurabile, ti chiedo ospitalità per porre, ai candidati alla segreteria del Pd, 10 punti che sfidano la cultura di governo del primo partito italiano.
Energia. Le fonti rinnovabili hanno ottenuto aiuti per oltre 170 miliardi di euro in vent'anni. Più del doppio del famigerato Cip 6. Un multiplo, a moneta costante, di tutti i fondi di dotazione assegnati a tutte le partecipazioni statali dal 1936 al 1992. Questa enorme distorsione, che ha generato pochissimi posti di lavoro, deriva dal decreto salva Alcoa, sostenuto anche dal Pd durante il governo Berlusconi. È stato o non è stato un errore blu? E siamo ora decisi a non ripeterlo e a riconsegnare agli italiani, con sgravi in bolletta, quanto di questo malloppo si possa recuperare senza violentare il diritto?
Finmeccanica. Il secondo gruppo manifatturiero italiano non può sostenere ancora turbine elettriche, treni e segnalamento ferroviario. Tre le soluzioni: vendere parte della difesa e spazio per rifinanziare questi tre settori; uscire da Ansaldo per concentrarsi e svilupparsi nel core business (c'è un'offerta della coreana Doosan per Ansaldo Energia, General Electric vorrebbe Ansaldo Sts e Ansaldo Breda ripulita); far rilevare queste partecipazioni di Finmeccanica dalla Cassa depositi e prestiti e poi negoziare le partnership internazionali e una grande intesa commerciale con Trenitalia sul trasporto regionale. Questa terza opzione imiterebbe l'esperienza francese di Alstom. Ottimo, se Cdp entrasse a condizioni di mercato. Meno buona la seconda opzione, ma ancora accettabile se venisse estesa alle tre Ansaldo la golden assets rule adottata per cedere Avio a Ge a protezione delle risorse strategiche nazionali. La prima opzione tranquillizzerebbe nell'immediato perfino il cardinale di Genova, ma poi la dura realtà dei conti farebbe scendere la notte su Finmeccanica e Ansaldo.
Privatizzazioni. Sull'esperienza degli anni 90 è in atto un ripensamento diffuso. Era ora. Ma poi? Il Pd sarà contro sempre, comunque e ovunque oppure si darà delle regole generali (il ricavato va a ridurre il debito pubblico e non a coprire il deficit corrente; si vende se il conseguente risparmio sugli interessi sarà superiore ai dividendi attesi) e particolari (ok, se le nuove proprietà daranno più chance alle imprese privatizzande e non meno).
Burocrazia. Gli alti burocrati frenano l'azione del governo, non sempre a ragione. Eugenio Scalfari propose anni fa l'abolizione del Tar del Lazio. Gli ha fatto eco Romano Prodi. Ma si potrà pure, più modestamente, vietare al giudice amministrativo, divenuto consigliere o dirigente di organi di governo, di tornare al Tar o al Consiglio di Stato.
Previdenza. Il metodo contributivo nel calcolo delle pensioni richiede un risparmio previdenziale integrativo per la terza età. I fondi pensione raccolgono un quarto del gettito potenziale. Il capitale da questi accumulato, 110 miliardi di euro, è investito per il 70% all'estero, alle imprese italiane va solo qualche bond. Vogliamo offrire ai lavoratori l'opzione di rafforzare la loro posizione Inps destinandovi quanto oggi è riserva esclusiva dei fondi pensione? A parità di condizioni, avremmo più competizione nella previdenza e più entrate pubbliche, magari per ridurre il cuneo fiscale.
Informazione. Nel 2004, Prodi accettò l'idea di dividere la Rai servizio pubblico, alimentata dal canone, dalla Rai commerciale, attiva nella pubblicità. Poi non riuscì a mantenere l'impegno. Quell'idea è ancora valida? Il servizio pubblico, utilizzando il digitale, potrebbe anche promuovere l'audiovisivo nazionale sul modello inglese di Channel 4. La Rai commerciale potrebbe andare in Borsa come public company, con o senza una golden share contro le scalate ostili, e smuovere le acque stagnanti della comunicazione.
Investimenti esteri. Possono essere un bene se, per esempio, Volkswagen ottenesse l'Alfa Romeo più un grande stabilimento Fiat, data l'agonia del marchio del Biscione. Sono un male, se l'estero viene qui per prendersi tecnologie e chiudere concorrenti. Sempre ottimo, invece, sarebbe l'investimento ex novo. Peccato sia scarsissimo. Perché? L'estero teme soprattutto l'incertezza del diritto e delle procedure. Una cartina di tornasole. La Medoilgas ha tutte le autorizzazioni per estrarre gas dal giacimento off shore Ombrina a 5 km dalla costa teatina. Ma il ministero dell'Ambiente, temendo la reazione di comitati di protesta abruzzesi, non firma: dopo la «Via» (valutazione d'impatto ambientale) vorrebbe ora introdurre l'«Aia» (autorizzazione ambientale integrata). Stiamo perdendo tempo in attesa delle elezioni regionali? Se vogliamo regole più stringenti, purché sempre nel quadro della scienza, fissiamole una volta per tutte. E per tutti.
Sindacati. Se è vero che la Costituzione è la più bella del mondo, allora applichiamo anche gli articoli 39 sulla figura giuridica dei sindacati, 40 sull'esercizio del diritto di sciopero e 46 sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa. O nonostante l'impoverimento relativo del lavoro dipendente (e non solo), ci riteniamo ancora migliori dell'Ig Metal e della Spd?
Banche. Il Testo unico bancario ha 20 anni. Ha fallito i suoi obiettivi per il Paese. Le banche non sono diventate l'architrave delle privatizzazioni. Detengono alcune partecipazioni frutto di crediti inesigibili e si cibano dei frutti ambigui della tecno-finanza. Mentre ci s'illudeva sulle virtù della Borsa ai fini dello sviluppo, le banche hanno sostituito il credito industriale con quello a breve, con il leasing e le obbligazioni da rinnovare in eterno. La gestione del risparmio fa acqua. Vogliamo ripartire dalle virtù della legge bancaria del 1936 per avviare iniziative nuove nel quadro dell'Unione bancaria europea?
Il partito. I partiti senza leader non esistono, sia che il leader derivi da elezioni o da plebisciti sia che si cinga da solo la corona grazie al carisma e/o al denaro. Ma possono esistere leader senza partiti a partecipazione democratica? Le esperienze di Pdl, M5S, Idv, Scelta civica, Lista Ingroia dovrebbero far riflettere. I partiti possono operare come puri comitati elettorali in regimi presidenziali con fortissimi contrappesi istituzionali, come negli Usa. In tali contesti perde senso anche il finanziamento pubblico. I regimi parlamentare o semipresidenziali europei si fondano su partiti organizzati, per lo più finanziati dallo Stato. Cartina di tornasole. Come si deve finanziare un partito nell'Italia di oggi, con le istituzioni che ha? Posto un dovere di trasparenza, con donazioni private di importo libero o limitato, con il finanziamento pubblico diretto attuale o con forme miste, dove quella statale sia indiretta e, dati i vincoli di finanza pubblica, comunque orientata dai simpatizzanti?
Senatore Pd
presidente Commissione Industria

l’Unità 20.9.13
Quando Marx vide Berlusconi
di Michele Ciliberto


Ci sono cose ai confini della realtà, nel regno della fantasia e dell’immaginazione. L’unico modo per decifrarle è mettersi sullo stesso piano: quello della favola.
Naturalmente, come ogni favola seria, anche questa vuole fare riflettere. Leggiamone qualche pagina.
Ormai stanco di stare sempre a dormire e attratto dalla partita tra Napoli e Borussia, il vecchio Marx si era deciso a lasciare per qualche ora Highgate, e non se ne era pentito: aveva visto una bella partita. Fra un tempo e l’altro aveva gettato, per caso, uno sguardo su una televisione, ed era rimasto assai incuriosito: chi era quel vecchio attore, che con voce stentorea invitava gli italiani a ribellarsi, alzando minaccioso un dito per dare più forza alle sue parole? E perché invocava il liberalismo come via maestra da seguire? E se questa era la via da seguire, come mai se la prendeva in quel modo con i giudici? Il potere giudiziario non era uno dei tre poteri fondamentali in uno Stato di diritto? E quella critica contro l’invadenza del fisco, delle tasse? Non era una delle grandi conquiste moderne e liberali tassare ciascuno in proporzione a quanto guadagnava?
Con le mani nella barba, Marx non si raccapezzava, e vecchio amante di Shakespeare non capiva perché quel signore mal truccato e triste continuasse a recitare così male, gesticolando in modo ridicolo.
Curioso per natura, Marx decise di andare la mattina dopo in biblioteca. Lesse molti giornali e rimase stupito. Quel vecchio signore era stato condannato con sentenza definitiva a quattro anni di carcere, dopo essere stato presidente del Consiglio e aver fondato uno dei maggiori partiti italiani. E nelle sue parole, come in un vecchio film dell’horror, tutto era rovesciato: i giudici erano dei pregiudicati; il delinquente, in senso tecnico, si era trasformato in giudice, pronto, se avesse avuto finalmente il consenso, a riformare lui la magistratura, come aveva già cercato di fare altre volte. Seduto dietro una grigia scrivania, e circondato di foto e di trofei, quel vecchio era uno degli uomini più ricchi al mondo, ma invitava, come un Masaniello, il popolo alla rivolta. Estremista per natura e per cultura, si era messo a fare l’apologia del liberalismo, che era imperniato sulla divisione dei poteri e sul principio della fiscalità equamente condivisa. E, come se il tempo si fosse fermato, aveva inveito contro il socialismo realizzato che era sparito dalla scena da vari decenni...
Ma che era successo, e come mai quello che diceva era ascoltato, commentato e perfino lodato? Cos’era accaduto perché un vecchio e triste attore avesse ancora un certo consenso? Era dunque possibile rovesciare in quel modo «apparenza» e «realtà» togliendo ogni significato alle parole?
Marx era stupito e deluso: lo aveva spiegato proprio lui, un secolo e mezzo prima in suo libro come nascesse quella malattia e come curarla. Certo, i topi lo avevano ormai rosicchiato quel testo: il diavolo sapeva il suo mestiere, ma l’essenziale era rimasto intatto, e a disposizione di tutti. Lo riprese in mano si chiamava L’ideologia tedesca e si mise a rileggerla: «La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale... Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, della religione, della metafisica, ecc... Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo processo deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico... Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza... Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale... Separate dalla storia reale queste astrazioni non hanno assolutamente valore...».
Era tutto chiaro, o almeno avrebbe dovuto esserlo; si capiva chi era e cosa rappresentava quel vecchio attore, quale fosse il suo ruolo sulla scena del mondo e della vita. E invece era come se quelle parole non fossero mai state scritte, e quell’analisi non fosse mai stata sviluppata. Eppure, era una chiave importante per capire la storia degli uomini, e farla scendere dal cielo in terra. Tutta fatica sprecata. Deluso e scontento, Marx decise di tornasene a casa, di riprendere a dormire ad Highgate. Fuori c’era troppo rumore, e avvenivano cose incomprensibili.
Il vecchio barbone aveva ragione sia di essere deluso; sia di rimettere quelle pagine sullo scrittoio: andrebbero rilette, ogni mattina, quando si fa colazione.

l’Unità 20.9.13
Ma quale via giudiziaria!
Viva il socialismo!
di Emanuele Macaluso


Ieri ho letto una dichiarazione di Barbara Berlusconi rivolta al Pd che dice: «Se veramente considerano Berlusconi un delinquente perché hanno fatto con lui gli ultimi due governi?».
La domanda potrebbe essere rovesciata: «Perché Berlusconi fa un governo con chi lo considera un delinquente?» Per la verità i dirigenti del Pd non usano un linguaggio sprezzante nei confronti del Cavaliere, anche se dicono e operano affinché le istituzioni prendano atto di sentenze della Cassazione (cioè definitive) e se ne traggano le conseguenze previste dalla legge.
Tuttavia, prescindendo dal linguaggio usato nei confronti di Berlusconi, non c’è dubbio che due recenti sentenze della Cassazione pongono un problema politico ai partiti che sono al governo. Infatti si tratta di sentenze emesse non da un pm, ma da più tribunali della Repubblica, sino alla Cassazione, e un governo che opera in un regime democratico deve solo rispettare quelle sentenze. Sentenze che coinvolgono il leader del Pdl e quindi acuiscono la contraddizione che caratterizza il governo Letta. Ma non ne giustifica la fine, se non si dà una risposta alle cause che hanno provocato l’emergenza: la legge elettorale, la crisi economico-sociale, la necessità di riforme che rendano più agibile il sistema politico come propone la commissione presieduta dal ministro Quagliariello.
E la giustizia? Il mio ragionamento non ignora l’attacco furibondo alla magistratura che Berlusconi ha ripetuto nel suo discorso trasmesso attraverso un video di cui si è tanto parlato nei giornali di ieri. In questi ultimi giorni ministri e dirigenti del Pdl, dopo avere attaccato i magistrati che hanno emesso sentenze di condanna al Cavaliere (da ultimo quella sulla Mondadori) chiedono una «riforma della giustizia» con una incomprensibile correlazione tra quelle sentenze e le riforme. Una «riforma» punitiva.
La campagna berlusconiana impedisce un confronto serio, rigoroso sulle riforme necessarie. Recentemente, presentando un libro sulla giustizia, due procuratori che hanno una storia di rigoroso impegno contro la criminalità, Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone, hanno affrontato il tema con una visione anche autocritica che dovrebbe interessare le forze politiche che vogliono realizzare riforme incisive e largamente condivise. Io non conosco le idee che ha la Boccassini in materia, ma ricordo ancora una volta che Giovanni Falcone espresse più volte il convincimento che razionalmente il sistema accusatorio richiede la separazione delle carriere, garantendo l’autonomia dei giudici e dei procuratori.
Sul tema i radicali hanno indetto un referendum. E come tutti i referendum abrogativi di pezzi di una legge non si garantisce un testo che dia una risposta complessiva alle questioni che la riforma pone. Ma se il Parlamento tace, il referendum, ripeto, va, a mio avviso, votato. Ma non c’è riforma che in questo campo reggerà, se la politica non riacquista forza, credibilità e autorevolezza. Da più parti è stato criticato il ruolo supplente della magistratura negli anni di Tangentopoli e successivamente. È inutile ricordare i fatti che sono incontrovertibili. Ma lo squilibrio è dovuto alla debolezza della politica e al suo discredito. Se qualcuno pensa che la politica acquisisce forza e autorevolezza con atti come quelli messi in opera da Berlusconi e da chi lo segue nelle sue intemerate contro i magistrati, si sbaglia. E mettere mano a leggi con l’ambizione di riequilibrare il rapporto tra politica e magistratura, con questa vocazione accrescerebbe il discredito della politica. Debbo dire che nel Pd sul tema giustizia dicono solo parole di generico sostegno alla magistratura senza una posizione autonoma e argomentata.
Ma c’è di più. Io non so se l’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria ed esponente di spicco del Pd, reggerà al giudizio dei giudici. Quel che vedo è il fatto certo che una professoressa di filosofia, ex presidente della Regione, era stata collocata alla guida di una società pubblica specializzata nella costruzione di strade ferrate per l’alta velocità. Una cosa va subito detta: il Pd non ha reagito accusando i magistrati. Tuttavia, osservo: con queste nomine (gli esempi in tutte le Regioni sono moltissimi) non si colpisce la credibilità della politica? Insomma, se non c’è una svolta reale e visibile nei comportamenti delle forze politiche, non ci sarà il necessario riequilibrio tra il potere giudiziario e quello politico.
P.S. I cinque anziani giudici di Cassazione che hanno confermato la condanna a Berlusconi e che vediamo continuamente in tv sono stati indicati dalla stesso Cavaliere come combattenti della «via giudiziaria al socialismo». Finalmente il socialismo ha ritrovato una via e una guida giovane, forte e soprattutto proletaria. Viva il socialismo!

il Fatto 20.9.13
Mps e non solo
Amato, quelle domande che lo fanno infuriare
di Luca De Carolis


Vietato fare domande al dottor Sottile. O meglio, certe domande. Il neo-giudice della Consulta Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio e di quasi tutto il resto, si è infuriato con l’inviato di La Gabbia, programma de La 7, che gli chiedeva conto delle sue pensioni da 22 mila euro lordi. E che gli citava le intercettazioni con l’ex presidente del Monte Paschi di Siena, Mussari, a cui Amato nel 2010 chiedeva di mantenere “immutata” la cifra (150mila euro) della sponsorizzazione di Mps per un torneo del Circolo Tennis Orbetello, del quale l’ex premier era presidente e di cui è tuttora socio. Il giornalista era andato a cercare Amato proprio al circolo, senza successo. E allora lo ha agganciato alla presentazione di un libro di Angelo Bolaffi, a Capalbio. Accompagnato dalla consorte, Amato ha risposto ai primi quesiti. Poi ha scelto il silenzio di fronte alle domande su pensioni, vitalizio e intercettazioni. Nel filmato trasmesso mercoledì, il giudice cambia espressione, saluta con la mano e s’infila in sala.
FINITA la presentazione, il cronista torna alla carica. Amato è secco: “Non le rispondo”. La scorta si frappone. Il giornalista insiste: “Lei prenderà tanti soldi col nuovo incarico, e ha già una pensione molto alta. Perché è stato nominato proprio lei? ”. Amato, rosso in viso, si ferma, ed esplode: “Io la posso denunciare in procura per le falsità che ha detto sinora”. Replica: “Lei non prende 31 mila euro di pensione? (in realtà sono 22 mila più vitalizio di 9 mila, non cumulabile con l’incarico di giudice, ndr) ”. Amato è stentoreo: “Nossignore, lei sta dicendo cose false, basta”. Ultima obiezione: “E dell’intercettazione con Mussari, che mi dice? ”. Nessuna risposta. Amato sale sull’auto e se ne va, con il suo disappunto. Il Fatto ha raccontato la sua telefonata nel 1990 alla vedova di un dirigente socialista, accusato di aver preso una tangente di 270 milioni per la pretura di Viareggio, in cui la invitava “a tirarsi fuori da questa storia, senza andare a fare un’operazione che va a fare quello non è lui, ma è Caio, quello non è lui ma è Sempronio”. Insomma, a non fare nomi. Al circolo del tennis di Orbetello è passato anche il Fatto, due giorni fa. Bel posto, circondato dal verde e dalla laguna. Niente rumori molesti, solo il vociare dei giocatori e il rimbalzo delle palline. I campi sono cinque, perfetti. Un socio racconta: “Amato viene ogni 15 giorni, di solito gioca in doppio assieme a un altro signore. L’altra coppia è composta dalla moglie e dal custode del campo”. Il Circolo ha 127 iscritti, che pagano 120 euro all’anno: ossia poco. Il socio ammette: “Prima il Monte dei Paschi ci dava una buona mano. Ora andiamo avanti con i soldi dai tornei. Qui sono passati tanti giocatori importanti: la Schiavone, la Pennetta, Volandri”. E di politici ne vengono tanti? Sorriso: “Questo è un bel posto: e piace”.

Repubblica 20.9.13
l neorelatore Stefàno: subito un accordo fra i gruppi per consentire la deroga al regolamento
“Ora in aula serve trasparenza voto palese come per Previti”
di Liana Milella


ROMA — «Sì al voto palese in aula ». Come si decise per Previti nel 2007, anche se lui si presentava dimissionario. Lo dice Dario Stefàno, il presidente della giunta per le elezioni del Senato, a poche ore dalla auto-nomina a relatore sull’affaire Berlusconi. Che esprime «massimo rispetto per le decisioni della magistratura», visto che «siamo in uno Stato di diritto».
Che succede con lei, uomo di Sel, come relatore? Una svolta a sinistra? Vendola al potere? Una nuova minaccia per Berlusconi?
«Magari fosse così semplice. Una cosa è la battaglia politica, che mi vede impegnato tutti i giorni in Senato, in piena sintonia col partito e il nostro elettorato, altro è un compito istituzionale, che deve restare scevro da condizionamenti politici».
Perché si è auto scelto?
«Ci ho riflettuto a lungo, pur avendo ricevuto molteplici sollecitazioni. È consuetudine che il presidente riferisca direttamente sul caso, per cui mi sono convinto che la soluzione più istituzionale fosse quella di assumere questo ruolo. Sarà più facile riuscire a mantenere sereno il confronto, ma pure sottrarlo a eventuali dinamiche di governo».
In giunta c’è una maggioranza “diversa”, Pd-M5S-Sel-Sc. Il governoregge?
“Dovrebbe dirlo chi lo sostiene. Sotto il profilo costituzionale, non c’è alcun nesso tra la procedura in giunta e i meccanismi fiduciari dell’esecutivo. Per dirla fuori dalle formule: se pure il governo dovesse cadere domattina, la procedura della giunta – per legge – non si arresterebbe».
La giunta lavora ma tutti pensano al voto segreto in aula. Lei che ci dice? Berlusconi compra o non compra?
«Guardi, a costo di sembrarle ingenuo, continuo a credere alla solidità di una convinzione che ogni senatore dovrebbe maturare in coscienza e non per appartenenza partitica. Se così è, non credo cambi molto tra voto segreto o palese».
Favorevole a cancellare il voto segreto?
«Sono in ballo esigenze diverse: da sempre il voto riguardante iparlamentari avviene a scrutinio segreto, ma è pur vero che l’attuale contesto storico chiede la massima trasparenza nelle decisioni. Sarei soddisfatto se, come avvenne nella seduta della Camera del 31 luglio 2007 per Previti, vi fosse un accordo unanime fra i gruppi per consentire in deroga il voto palese».
Prima Mediaset, poi Mondadori. Nelle carte dei giudici Berlusconi è sempre il dominus delle sue imprese, quindi anche dell’illegalità. Lei che idea si è fatto?
«Ho letto gli atti con molta at-tenzione. Per mia cultura, poiché siamo in uno Stato di diritto, va espresso massimo rispetto per le decisioni della magistratura. Sempre».
Il video. Che effetto le ha fatto mentre la giunta doveva decidere? Un colpo basso? Un’interferenza? Il grido del naufrago? O solo un film già visto?
«Non ho mai votato Berlusconi, sono un parlamentare eletto nelle liste di Sel: le mie valutazioni sono alquanto scontate. Parallelamente però, da presidente della giunta, devo dire di non essermi sentito coinvolto, anche perché il video non fa alcun riferimento al nostro lavoro».
La gente si chiede: è possibile che per far decadere dal Senato uno che per legge non ha diritto di starci si perdano tre mesi?
«So bene cosa pensano i cittadini, ogni giorno ricevo centinaia di email. E so anche bene che il 9 settembre ci si aspettava la decisione della giunta. Ma occorre essere realistici: il relatore Augello ha presentato 71 pagine di relazione, meritevoli di approfondimenti. A soli 9 giorni da quella data, la giunta ha votato. Rispettando quell’”immediatamente” della legge Severino. Non era affatto scontato».
Berlusconi si è difeso nel processo con il fior fiore degli avvocati. Che senso ha, adesso, che venga a difendersi pure in giunta? Da cosa? Dai magistrati o da voi?
«Il senso è tutto nella legge, che certo oggi non invento io. Il contraddittorio è un principio sacro, senza che ciò significhi che gli interessati debbano sfuggire alla fermezza del collegio».

il Fatto 20.9.13
Il rettore Frati va in pensione ma pretende di tenersi la poltrona
Indagato er lesioni colpose e colpito dall’ennesimo scandalo, non molla
di Chiara Paolin


Lo scorso agosto Serenella Bendia, 55 anni, è morta. Era malata di cancro, ma la prima volta che ha pensato di non farcela davvero è stato quando le hanno somministrato un farmaco cui solo dieci giorni prima era risultata allergica. Succedeva nel reparto di oncologia del-l’ospedale Umberto I, a Roma. La signora fu salvata per miracolo, il primario e la sua assistente vennero indagati per lesioni colpose.
Il primario era Luigi Frati, rettore della Sapienza e ivi docente, direttore scientifico all'Irccs Neuromed di Pozzilli (istituto accreditato al sistema sanitario nazionale della regione Molise), nonché presidente dell'Accademia nazionale di medicina. Uno che, dissero all’epoca i testimoni, nel reparto di oncologia non si vedeva mai pur incassando regolarmente lo stipendio.
Oggi la notizia è che Luigi Frati andrà in pensione il primo novembre, ma ha già chiesto al ministro dell’Istruzione di poter restare lì al suo posto, a fare il rettore anche da pensionato. L’ha scritto in una mail inviata a tutti i dipendenti: “Responsabilmente, ho firmato il decreto rettorale che ha disposto il mio pensionamento definitivo (da professore) con il prossimo 31 ottobre (rimanendo in carica come Rettore, a norma di legge, per un ulteriore anno) ”.
A NORMA DI LEGGE mica tanto, dice il sindacato dei medici Csa Cisal che ha chiesto al ministro Maria Chiara Carrozza di evitare l’occupazione a vita della poltrona. Certo, per Frati, stare alla Sapienza è come stare a casa: ha tantissimi amici entusiasti della sua gestione e soprattutto l’intera famiglia arruolata in sede (moglie docente, figlia docente, figlio diventato primario in cardiochiurgia). Poco conta se la gestione dell’ateneo continua a collezionare tonfi clamorosi: come rivelato ieri da Repubblica, l’ultimo concorso a cardiochirugia ha promosso i soliti noti, fra cui un giovane che s’era adattato a far da autista al suo prof pur di ben figurare.
Ebbene, nemmeno stavolta il Magnifico rettore dell’università più grande d’Europa ha fatto una piega. Neanche due righe dettate alle agenzie di stampa per dire che verranno accertate tutte le responsabilità. Perché vergognarsi? Le ultime uscite pubbliche di Frati sono state splendide, cioè l’annuncio del-l’iscrizione gratis per le famiglie il cui secondo figlio frequenti la Sapienza, e poi un interessante incontro con il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, sul femminicidio.
Dunque, rapporti istituzionali ottimi con il governo in carica nonostante i fardelli giudiziari. L’accusa di lesioni colpose ai danni di Serenella Bendia, finita in coma per un medicinale sbagliato, pende sull’onore di Frati: la procura di Roma non ha mai chiesto l’archiviazione, l’Ordine dei medici ha sospeso il prof. E anche se Frati, quando parla con i colleghi, si dice sicuro di uscire indenne dalla vicenda, c’è chi è convinto che le accuse possano virare sull’omicidio colposo.
“IO SO SOLO CHE ho presentato esposti a raffica e nessuno mi ha ancora chiamato” spiega Antonio Sili Scavalli, remautologo e sindacalista Fials appena licenziato dall’Umberto I “per aver screditato la struttura” denunciando ai giornali inefficienze e irregolarità. Ad esempio quella sul già ricercatore - a 28 anni - e poi primario - a 35 anni - Giacomo Frati, figlio di Luigi. Esposti a Procura e Corte dei Conti per sapere se esista o no incompatibilità tra il ruolo di rettore e quello di primario nella stessa struttura; e se sia stata davvero una buona idea, per i costi della sanità pubblica, creare un’unità tutta nuova a cardiochirurgia, quella affidata al giovane Frati, addestrato nella struttura periferica di Latina.
Il fatto è che quando ti chiami Frati il coraggio non ti manca, nè perdi tempo frequentando prestigiose università all’estero: dalla giovinezza all’età pensionabile, il posto giusto per te è La Sapienza di Roma. Alla faccia del ministro Carrozza che settimana scorsa, inaugurando l’anno scolastico, incitava i giovani: “Siate ribelli e rivoluzionari! ”.

il Fatto 20.9.13
Lafontaine, il ritorno
Nel nome di Oskar la coalizione di sinistra, sorpresa nelle urne tedesche
Il volto della sinistra dura e pura pronto all’ennesimo ritorno sulla scena
di Mattia Eccheli


Berlino La sinistra travagliata tedesca ha il volto di Oskar Lafontaine, già esponente di spicco della Spd, già primo ministro del Saarland, già candidato cancelliere (perse nel 1990 contro Helmut Kohl), già fondatore del movimento Lavoro e Giustizia Sociale - Alternativa Elettorale (Wags) e già presidente della Linke, il partito (molto) di sinistra nato nel giugno del 2007 dalla fusione della sua iniziativa politica e con quella del Pds, l’ex sinistra dell’Est.
Il suo maggior successo risale al 1998 quando, in veste di segretario della Spd, contribuì alla vittoria della coalizione rosso-verde portando Gerhard Schröder alla cancelleria e diventando ministro delle Finanze. Poi il divorzio, appena un anno dopo, con le dimissioni da ogni carica e l'addio al partito per “dissapori” con lo stesso Schröder e divergenze sulla linea politica. Lafontaine ha ammesso di aver creduto negli anni ‘80 alla grande truffa: che i bassi salari potessero aiutare a combattere la disoccupazione. L'esecutivo rosso-verde tedesco di Schröder varò una serie di provvedimenti per liberalizzare il mercato del lavoro, spalancando probabilmente le porte al rilancio della Germania.
Nella vita di Lafontaine quella dalla Spd è stata una delle tante separazioni. Alle spalle ha già 3 matrimoni, l'ultimo dei quali è finito nel 2013, ovvero 2 anni dopo l'annuncio della sua relazione con la 43enne ex europarlamentare Sahra Wagenknecht. Ventisette anni più anziano, Lafontaine condivide la stessa passione per la politica con Sahra, che siede al Bundestag dove, naturalmente, rappresenta la Linke. Con vigore e determinazione, sollecitando un salario minimo decente, il blocco del caro affitti e una diversa distribuzione della ricchezza. Ma anche l'altro giorno in tv ha dovuto sentirsi ripetere dal segretario Spd Sigmar Gabriel: “Avete ipotizzato l'uscita dall'euro e avete due anime: la sera non si sa se confermate quello che è avete deciso la mattina”. Eppure una eventuale coalizione rosso-rosso-verde potrebbe avere i numeri per governare.
Giusto nei mesi scorsi lo stesso Lafontaine e Gregor Gysi, avvocato e candidato alla cancelleria si erano duramente confrontati nel corso dell'assemblea di partito evocando la scissione.
Lafontaine è ormai un moschettiere solitario. Che ne ha per tutti, anche in questa campagna elettorale vissuta da gregario ma che non gli impedisce di definire non troppo intraprendenti i sindacati, “disumano” il programma della Spd e “comprati” gli altri partiti, a eccezione della Fdp contro la quale è ancora più duro. Il cattolico Lafontaine ha un fratello gemello e non ha mai conosciuto il padre, morto in guerra. Ha superato un tumore.
Il partito, molto radicato nell'ex Germania Est, con 76 deputati è la 4a forza delle 5 rappresentate al Bundestag. Nel 2009 era arrivato a sfiorare il 12%. Nei sondaggi ora è lontano: oscilla attorno al 9%. In campagna elettorale così come al Bundestag lo scontro è quasi più con i possibili alleati (Spd e Grüne) che con la coalizione di centro destra (Csu/Cdu e Fdp).
Si è fatto da parte, anche se anima ancora i comizi. Ma non è uno dei volti che la Linke spende, anche perché più impegnato nel consigliare la compagna per la quale egli è “il grande amore della mia vita”. Wagenknecht, separata dal marito, non ha escluso di sposare Lafontaine. Per il 70enne sarebbe il 4° sì: una parola che nella vita privata gli risulta più facile da pronunciare che in quella politica.

l’Unità 20.9.13
Una pistola per Kant
Discutere di filosofia e sparare in nome di Kant
di Carlo Sini


Il mondo, si sa, è bello perché è vario ma la cosa, talvolta, va in là parecchio. In Grecia delle persone assistono a una partita di calcio in un bar; l’immancabile discussione prende una piega politica e un gruppo di neonazisti prende un coltello.
A farne le spese è un malcapitato, ucciso per strada, che non la pensava come loro. Morire per una discussione politica, nata forse dall’eccitazione del tifoso, è certamente un avvenimento poco comune, oltre che grave per segnalare un clima di crescente disagio sociale e di intorbidamento della vita di un Paese.
Tuttavia nessun confronto è possibile con l’episodio capitato lunedì notte a Rostov sul Don, nella Russia europea. Qui due giovani di 26 e 28 anni, entrambi appassionati lettori di Immanuel Kant, sono in coda a un chiosco di alcolici. Parlano delle opere del grande filosofo dell’illuminismo tedesco, pare dapprima pacatamente; poi però incappano nella dialettica trascendentale e qui si accalorano, al punto che uno dei due tira fuori una rivoltella scacciacani e spara in testa all’altro, mandandolo all’ospedale, sia pure per una ferita non grave. Qui siamo al Guinness dei primati: quando mai una discussione sul mite e saggio Kant, mente tra le più universali e moralmente ammirevoli, ha suggerito di passare da un ragionamento alle vie di fatto?
Nella dialettica trascendentale, seconda parte della Critica della ragione pura (1781), Kant esamina le pretese della ragione umana di fronte ai grandi problemi tradizionali della metafisica. In sintesi e un po’ liberamente: esiste Dio? Il mondo è una congerie di fatti casuali oppure ha un senso e uno scopo finale? L’anima dell’uomo è libera e immortale, oppure è totalmente condizionata? In generale Kant vuole mostrare che a queste domande non possiamo dare una risposta definitiva e «scientifica»; d’altra parte, continuare a porsele equivale a segnalare un’esigenza insopprimibile, per la quale la Critica della ragione pratica mostrerà, nella dottrina morale, una soluzione appunto pratica, ovvero etica. Si tratta certo di questioni appassionanti, ma che si arrivi a spararsi addosso per sostenere in proposito un punto di vista sembra davvero, e come minimo, un’assurdità. Forse il chiosco dei liquori, l’ora notturna, il carattere russo, notoriamente focoso, chissà...
Vorrei però aggiungere che, se si ricorda il passato, venire alle mani per i filosofi non è del tutto una novità. Segnalo due episodi. Il primo ha come teatro la Sorbona, l’università di Parigi, negli anni 70 del 1200. Qui la condanna delle opere di Aristotele emessa dal vescovo Stefano Tempier scatena la controversia tra maestri secolari e maestri ecclesiastici, sostenitori i primi delle cosiddette arti minori e i secondi delle arti maggiori, cioè della teologia, alla quale tutti gli altri saperi si sarebbero dovuti sottomettere. Ne nascono episodi continui di proteste e violenti disordini, tra gli studenti e gli stessi maestri, che talora non si trattengono dal suonarsele sode.
Il secondo episodio riguarda ancora Aristotele; ora però la contesa non nasce dalla esigenza di inserire la filosofia aristotelica nel novero dei saperi cristiani; al contrario, si tratta di opporre ad Aristotele la nuova filosofia della natura di Bernardino Telesio. Nascono varie dispute in giro per l’Italia e nel 1573 a Venezia, studenti delle due scuole (quella telesiana e quella aristotelica di Padova), dopo intensissime discussioni, vengono, pare, alle mani.
Due episodi che suscitano forse qualche nostalgia nei vecchi professori di filosofia: tempi nei quali la filosofia era sulla cresta dell’onda; le sue battaglie erano l’avanguardia del processo politico e del progresso del sapere. E oggi? Oggi le cose sono tanto mutate che una contesa fisica per difendere una tesi filosofica è solo una stravaganza che fa notizia per la sua ridicola assurdità e per l’inevitabile stupore che suscita. Immagino però che Kant redivivo preferirebbe in fondo così. Usare la violenza per sostenere una tesi filosofica è proprio il contrario di tutto l’insegnamento kantiano. La filosofia non si basa necessariamente sull’amore, come la dottrina cristiana, ma certamente si fonda sull’amicizia condivisa e questa a sua volta sull’amore della verità: non risulta che la verità segnali la sua presenza grazie ai lividi, alle contusioni e agli occhi neri.

Repubblica 20.9.13
Il maestro riluttante
Cari professori, non fate gli psicologi
Oggi gli insegnanti per supplire al mestiere di genitori rischiano di mettere da parte l’amore per il sapere
Ma l’ora di lezione resta vitale per la formazione dei ragazzi
di Massimo Recalcati


In queste settimane che la Scuola riapre le sue porte auguro che ogni insegnante ritrovi il senso del suo lavoro – bistrattato e umiliato economicamente e socialmente – come uno tra quelli più decisivi nella formazione dell’individuo. Auguro loro di saper ritrovare passione nello spiegare una poesia di Ungaretti, le leggi della termodinamica, la deriva dei continenti, una lingua nuova, la bellezza formale di una operazione di matematica o di un teorema di geometria. Auguro che la loro parola riesca a tenere vivi gli oggetti del sapere generando quel trasporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il vero antidoto per non smarrirsi nella vita.
Nel nostro tempo la scuola di ogni ordine e grado sembra ridotta ad un “esamificio”. L’impeto della valutazione vorrebbe imporre scansioni dell’apprendimento uguali per tutti. Sempre più si sta imponendo una scuola che il “sogno” di un recente ministro della pubblica istruzione codificava con le tre “i” (impresa, inglese, informatica), cioè una scuola fondata sul principio di prestazione. Il nostro tempo non coltiva l’ideale di una scuola autoritaria e disciplinare. Non è più il tempo dove – secondo una tristementenota metafora botanica – l’allievo è assimilato ad una vite storta e l’insegnante ad un paletto diritto e ad un filo di ferro capace di raddrizzarne la stortura. Il conformismo attuale non è più morale ma cognitivo. Il nostro tempo non concepisce più l’allievo come una vite storta, ma come un computer vuoto. L’apprendimento è il riempimento del cervello di file seguendo l’ideale di un travasamento potenzialmente illimitato di informazioni nella sua memoria. All’illusione botanica si è sostituita quella tecnologico- cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’istituzione che non a quella degli allievi. Attualmente un’altra illusione ha fatto capolino. È l’illusione dell’insegnante-psicologo che possiamo sintetizzare con il racconto che ho udito fare da un professore di liceo ad un recente convegno sulla scuola al quale ho partecipato. Questi si vantava nel suo lavoro quotidiano di lasciare da parte i contenuti dei programmi ministeriali per dedicarsi a cogliere i segni di disagio esistenziale dei suoi allievi raccogliendo le loro confidenze più personali. Mettere da parte lo studio di Aristotele, di Spinoza o di Hegel per dare voce alla sofferenza dei ragazzi della quale, com’è noto, i programmi didattici si disinte-ressano. Quale nuova pericolosa illusione si annida in questo atteggiamento? L’amore per il sapere – che dovrebbe animare ogni insegnante – lascia il posto ad una supplenza diretta del mestiere del genitore. Mentre l’informatizzazione cognitivista della scuola esalta un sapere senza vita, questa nuova ondata psicologista sembra invece esaltare la vita senza sapere. Si tratta di due facce della stessa medaglia accomunate da una stessa fondamentale dimenticanza: l’importanza dell’ora di lezione nel promuovere l’amore verso il sapere come condizione per ogni possibile apprendimento.
Lo scandalo del professore di liceo che ha abusato del suo ruolo per coltivare relazioni sessuali con le sue allieve minorenni è ancora caldo. In quel caso si è trattato di una distorsione, o se si preferisce, di una deviazione di quello che gli psicoanalisti chiamano “transfert”. Di cosa si tratta? La sua matrice si trova nel gesto di Socrate narrato nel Simposio di Platone. Agatone, l’allievo, si siede vicino al maestro coltivando l’illusione che il suo cervello sia un contenitore dentro il quale Socrate dovrebbe versare il liquido del suo divino sapere. È l’illusione che abita ogni scolastica dell’apprendimento. Essere un recipiente passivo che il sapere del maestro può riempire sino all’orlo. Ma Socrate si nega ad Agatone. Non accontenta la sua aspirazione ad essere “riempito”. Negandosi alla domanda ingenua di Agatone – “travasa in me il tuo sapere” – Socrate cerca di mettere in movimento il suo allievo (transfert significa “trasporto”, “sentirsi trasportati”) distogliendolo dall’illusione che conoscere significa riempirsi passivamente il cervello di nozioni già esistenti e possedute da qualcuno. Il gesto di Socrate è controcorrente rispetto ad ogni idea scolastica del sapere ed è il motore di ogni forma di apprendimento autentico. Svuota il maestro di sapere affinché l’allievo si metta in movimento – si senta trasportato –verso il sapere, affinché nasca nell’allievo un desiderio autentico di sapere.Il gesto di Socrate è innanzitutto un gesto di sottrazione; anch’io non so quelloche tu non sai, non perché sono ignorante, ma perché so che è impossibile possedere tutto il sapere, perché il sapere stesso non può mai costituire un tutto. Il compito di un insegnante è quello di generare amore, transfert erotico, sul sapere più che distribuire sapere (illusione cognitivista) o mettere tra parentesi il sapere occupandosi della vita privata degli allievi (illusione psicologista) perché l’alternativa tra la vita e il sapere è sempre sterile.
Sull’importanza vitale dell’ora di lezione mi si permetta un ricordo personale. Da ragazzo frequentavo alla fine degli anni Settanta le aule disadorne di un Istituto agrario specializzato in coltivazione di serre calde situato nell’estrema periferia di Milano. Alcuni dei miei compagni finirono sperduti in India, altri costeggiarono pericolosamente il terrorismo, altri ancora sono stati ammazzati dalla droga. Eravamo in quell’Istituto un manipolo di cause perse. Cosa mi salvò se non un’ora di lezione, se non una giovane professoressa di lettere di nome Giulia Terzaghi che entrò in aula stretta in un tailleur grigio rigorosissimo parlandoci di poeti con una passione a noi sconosciuta? Cosa mi salvò se non un’ora di lezione? Se non quella passione sconosciuta che Giulia sapeva incarnare? Questa storia non è solo la mia ma è la storia di molti. Cosa ci salvò se non quel desiderio di sapere che si propagava dalla forza della parola dell’insegnante capace di scuoterci dal sonno? Non è forse questo quello che la scuola burocratizzata della valutazione e della informatizzazione sospinta rischia di dimenticare? Non è forse l’ora di lezione che può rimettere in movimento le vite scuotendole dall’inerzia di un sapere proposto solo come un oggetto morto? Auguro a tutti gli studenti di ordine e grado di incontrare la loro Giulia.

l’Unità 20.9.13
Benvenuta Raiteatro
Dopo la campagna de l’Unità ieri il primo passo ufficiale: Rai5 sarà trasformata
di Luca Del Frà


È UNA DELLE PIÙ IMPORTANTI SCOMMESSE CHE NEGLI ULTIMI ANNI LA RAI SI TROVA AD AFFRONTARE, la creazione di un canale dedicato allo spettacolo dal vivo: il cambio della guardia ai vertici di Rai 5 avvenuto l’altro ieri, con il ritorno di Pasquale D’Alessandro, stavolta come direttore, e la nomina di Paola Malanga come vicedirettore comporterà anche un cambio di missione della rete.
Malgrado il nome di Rai 5 resti, nei fatti nasce Rai Teatro, dedicato alle arti del palcoscenico, appunto come il teatro ma anche l’opera, la danza, il balletto, la performance, la musica dal vivo.
La proposta era stata lanciata da Franco Scaglia durante un convegno alla Fondazione Di Vittorio e ripresa da l’Unità per una campagna stampa che aveva messo a confronto le opinioni di creatori, artisti, operatori, politici e trovato l’attenzione e l’appoggio del ministro Massimo Bray e del direttore generale della Rai Luigi Gubitosi.
Oggi che la nostra campagna trova un riscontro, mentre ancora non sono chiare le linee che avrà la neonata rete, merita ricordare l’esigenza che ci ha mosso: in un periodo in cui il ricatto della crisi economica mortifica la politica, la democrazia, i diritti, la Rai doveva finalmente tornare a svolgere il suo ruolo di servizio pubblico in uno dei settori più devastati del nostro paese, la cultura e in particolare le attività culturali.
Niente affatto secondaria è la considerazione che la nascita di un canale televisivo dedicato allo spettacolo dal vivo comportasse una serie di impegni e prove non da poco: in primis la funzione che la rete è chiamata a svolgere, se insomma deve essere un contenitore di programmi, oppure proporsi anche come coproduttore di spettacoli e iniziative, esattamente come accade con Rai Cinema, che figura tra i produttori di Sacro Gra, Leone d’oro al Festival di Venezia. Verso quest’ultima ipotesi, di certo la più innovativa e ambiziosa, sembra spingere la presenza di Malanga che arriva proprio da Rai Cinema.
La collaborazione tra televisione e teatro può portare a risultati di straordinario interesse, come ci ha spiegato il regista e drammaturgo Romeo Castellucci, ricordando la diretta sul canale franco-tedesco Arte per il suo spettacolo ispirato alla Commedia di Dante al Festival di Avignone, in seguito divenuto anche un film. Ma occorre sottolineare che «gli spettacoli di innovazione nel nostro paese sono i più trascurati sia dalle istituzioni sia dall’universo mediatico», come ha spiegato Fabrizio Grifasi, direttore del Romaeuropa Festival. E se il nascente canale dedicato al palcoscenico della Rai prestasse attenzione alla ricerca, ne trarrebbe giovamento anche la scena più tradizionale, da tempo arenata nelle secche di una stanca ripetitività.
Dunque non pochi i temi che si troverà sul tavolo il neo direttore D’Alessandro, che peraltro proprio Rai 5 aveva fondato quando era direttore del settore innovazione della Rai e avrà il compito di riplasmarla.
Occorrerà trovare giusti equilibri tra teatro di parola, musicale, danza, trasmissioni tematiche e di divulgazione. Si parla di un cartellone con 28 spettacoli per il 2014, obiettivo di non facile realizzazione e che dovrebbe imporre anche un investimento da parte della Rai in questa nuova iniziativa.
Sarà un bene anche dedicare risorse a colmare le differenze tra il mezzo televisivo e l’esibizione dal vivo: «Tra i suoi compiti questo nuovo canale dovrebbe avere quello di inventare un modo originale di guardare al teatro, che in modo chiaro e netto faccia capire che è qualcosa di diverso dall’esperienza dal vivo, con qualcosa inevitabilmente in meno ma anche con qualcosa in più», spiega Maurizio Roi, vicepresidente dell’Agis e presidente di Ater.
Questo è un nodo centrale nell’era dello streaming, cioè della possibilità – a pagamento o no – di vedere via internet spettacoli dal vivo da tutto il mondo. Dalla Filarmonica di Berlino, che ha l’intera stagione on line su abbonamento, ad Arte live web del canale franco-tedesco dedicato alla cultura, fino alle nostrane esperienze delle Orchestra Sinfonica della Rai e di quella di Santa Cecilia, nonché del Festival Romaeuropa via Telecom, l’offerta si sta repentinamente ampliando. E dunque una televisione dedicata al palcoscenico deve essere pronta a un’offerta qualitativamente diversa, più cosciente e intrigante, non a una ripresa dello spettacolo.
Nei prossimi giorni si riunirà un tavolo di esperti, per tracciare le linee del futuro palinsesto di Rai 5: naturalmente seguiremo i primi passi della neonata rete.

l’Unità 20.9.13
Una vittoria collettiva della cultura per la cultura
di Stefania Scateni


RAI5 SI RIMODELLA E DIVENTA IL CANALE DELLA TELEVISIONE PUBBLICA INTERAMENTE DEDICATO ALLO SPETTACOLO DAL VIVO. IN PRATICA, NASCE «RAI TEATRO»: una vittoria per la cultura italiana, ma anche una grande vittoria de l’Unità. È infatti questo giornale che per tutto il mese di agosto ha fortemente sostenuto una battaglia perché la televisione pubblica ricominciasse a onorare la propria missione, quella di fare cultura, tutelarla e sostenerla. È di ieri sera la decisione del consiglio di amministrazione della Rai di ridefinire linea e vocazione di Rai 5, modellandola sull’idea di un canale che diffonda e sostenga concretamente, attraverso la coproduzione con strutture pubbliche e private, spettacoli di qualità, e che contemporaneamente valorizzi il repertorio del variegato teatro dal vivo che le Teche Rai hanno conservato come memoria storica.
Il canovaccio della nuova Rai 5 è il progetto di «Rai Teatro»: aiutare la produzione teatrale ad affrontare la crisi economica e culturale in cui si dibatte da anni, e al tempo stesso segnare un momento di svolta nell’indirizzo della tv di Stato, farla tornare al suo ruolo di servizio pubblico che da anni sembra aver dimenticato. In che modo? L’idea fu lanciata da Franco Scaglia, dirigente televisivo di lungo corso e oggi presidente del Teatro di Roma. Facendo tesoro dell’esperienza di Rai Cinema che ha sostenuto e continua a sostenere il cinema italiano ha immaginato un canale televisivo che non solo mandi in onda spettacoli dal vivo, ma sia anche co-produttore di teatro, opera, balletto, danza contemporanea, performance e concerti.
È un’idea che circolava da qualche tempo in rete, ripresa da l'Unità, che ha dimostrato la fattibilità concreta del progetto, coinvolgendo addetti ai lavori, politici e vertici della Rai. Le numerose adesioni non si sono limitate al semplice appoggio, ma sono state anche propositive, fino alla decisione del ministro Bray e dell’amministratore delegato Rai Gubitosi di aprire un tavolo operativo per valutare un rilancio del teatro italiano. Dopo trent’anni di televisione pubblica schiacciata da quella privata, mortificata dalla concorrenza verso il basso della tv commerciale, dopo trent’anni di tv spazzatura, è un bel segnale di cambiamento.
Oggi è un buon giorno. Va festeggiato.

l’Unità 20.9.13
Radio Tre in trasferta a Matera per raccontare la cultura
di Riccardo Valdes


DA OGGI A DOMENICA SI SVOLGERÀ LA TERZA EDIZIONE DI MATERADIO, LA FESTA DI RADIO3. Nel 2011 è stata raccontata la città e il suo territorio; l`anno scorso invece sono stati esplorati i legami con l`Europa. Quest`anno l’obiettivo è una sfida: quella di una cultura che diventa volano per la crescita del nostro Paese. «Materadio sarà una specie di grande lente di ingrandimento sulla politiche per la cultura in Italia». spiega il direttore di Radio3 Marino Sinibaldi -. «Già il nostro slogan (La cultura contro la paura) indica una possibilità e un auspicio: considerare quello che si fa per un museo, una biblioteca o una città d`arte non una spesa (e tantomeno uno spreco) ma un investimento sul futuro di questo paese».
Matera, città candidata a capitale europea della cultura per il 2019, stupirà di nuovo il pubblico di Radio3 con lo straordinario palcoscenico dei Sassi che ospiteranno anche quest`anno i programmi in diretta. Ma c`è di più: il fatto che a Matera nei giorni del Festival convergeranno i rappresentati della numerose città italiane candidate a capitali europee per la cultura del 2019 offrirà la possibilità di conoscere quello che nel territorio si fa e si immagina nel campo delle iniziative pubbliche per la cultura.
Tra gli ospiti Massimo Bray, Oscar Farinetti, Raffaele Cantone, Ascanio Celestini, Funkoff, Francesco Rosi, Quintorigo, Quartetto di Venezia e molti altri.
Tra gli appuntamenti da segnalare quello di stasera alle 22.30 in piazza San Giovanni ritrasmesso da Hollywood Party: l’omaggio a Francesco Rosi che ha un rapporto privilegiato con la città di Matera, dove ha girato i suoi film C'era una volta (1967), Cristo si è fermato a Eboli (1979) e Tre fratelli (1981). In virtù di questo legame professionale e sentimentale, Matera gli attribuisce la cittadinanza onoraria. In occasione dell’evento il maestro Rosi ripercorre con il regista Roberto Andò già suo assistente giorni passati insieme sul set materano.

Repubblica 20.9.13
Repubblica il quotidiano più letto per la diciannovesima volta


MILANO — Sono stati pubblicati i dati della nuova indagine Audipress sulla lettura dei quotidiani e dei periodici in Italia. Repubblica si conferma, per la 19° volta (dalla rilevazione 2004) il quotidiano di informazione più letto in Italia, con 2.835.000 lettori, e aumenta il vantaggio sul Corriere della Sera (2.709.000). Repubblica, nel periodo cumulato dei due cicli (dal 7 gennaio al 24 marzo e dal 2 aprile al 7 luglio 2013) ha confermato esattamente la stessa readership della precedente edizione, mentre il quotidiano di Via Solferino è calato del 2%. La forbice tra i due principali quotidiani si è pertanto allargata da 70.000 a 126.000 lettori. Tra i principali quotidiani, La Stampa cala dello 0,4% a 1.378.000 lettori, Il Messaggero -2% a 1.205.000, Il Sole 24 Ore migliora del 6,2% a 963.000.
Complessivamente, si registra un lieve calo dei lettori in Italia: quotidiani -1%, settimanali -3,4%, mensili -2,4% (a parità di testate). I dati delle testate periodiche si riferiscono a tre cicli temporali: dal 17 settembre al 16 dicembre 2012, dal 7 gennaio al 24 marzo 2013, dal 2 aprile al 7 luglio 2013. Anche tra i settimanali vengono dati positivi per il Gruppo Espresso. Affari&Finanza incrementa del 6,1% e conferma la leadership tra i settimanali economici con437.000 lettori; Il Mondo cala a 95.000 lettori (-12,8%), +4,2% Milano Finanza a 298.000 lettori. Il Venerdì conferma i suoi 2.029.000 lettori, mentre D è in forte crescita (+9%) a 982.000, e tallona Io Donna che perde il 5% a 1.047.000. L’Espresso, pur perdendo il 6,7% dei lettori, si conferma leader a 2.077.000, e amplia il vantaggio sull’inseguitore Panorama, che perde l’8,8% a 1.708.000 lettori. Tra i quotidiani locali del gruppo Espresso, La Nuova Venezia accresce del 37,9% i lettori, la Gazzetta di Mantova +15,8%, Il Mattino di Padova +10,2%, La Nuova Ferrara +7,8%, Il Piccolo +2,3%, Messaggero Veneto +2,0%.

La Stampa 20.9.13
La modernità della fede
di Franco Garelli


Solo un popolo giovane che nutre grandi speranze e non è oppresso dalle incrostazioni della storia, può comprendere il senso e la ricchezza dell’intervista al Papa. Un’intervista tipica di un’alta figura che non ha nostalgia del passato, guarda con fiducia alla condizione umana, non riflette i giudizi negativi sulla società contemporanea perlopiù sin qui espressi dal magistero della Chiesa, non ritiene che la fine di un mondo coincida con la fine del mondo. Il Papa venuto «quasi dalla fine della terra» continua a seminare un messaggio di speranza, forte della consapevolezza che l’annuncio del Vangelo ha molto da offrire anche alle donne e agli uomini del nostro tempo. Non è affatto detto che la modernità avanzata sia la tomba del cristianesimo, come molti studiosi e anche molti uomini di Chiesa hanno per molto tempo preconizzato o temuto.
Dall’intervista emerge comunque un Papa avvertito dello sconquasso che la sua presenza sta provocando nella Chiesa di Roma, consapevole che il suo stile di governo e di presenza pubblica produce sconcerto in varie aree della cattolicità. Come quando ammette che alcuni ambienti cattolici gli rimproverano di non parlare molto o di non stigmatizzare a sufficienza quel disordine morale sotteso alla pratica dell’aborto, al matrimonio omosessuale, all’uso dei metodi contraccettivi. O quando ammonisce la Chiesa a non cercare sempre delle soluzioni disciplinari ai molti problemi della cristianità e dell’epoca attuale, perché dietro un esagerato ricorso alla sicurezza dottrinale si cela più la difesa del passato perduto che la speranza del futuro.
Ovviamente il pontefice intende tranquillizzare tutti i fedeli, anche quelli che hanno difficoltà a comprendere il nuovo che avanza e si preoccupano per un vertice della Chiesa che predica più la prossimità umana che le verità di fede. Di qui il curioso passaggio nell’intervista in cui Francesco si professa come «figlio della Chiesa», per cui tutti i punti fermi della dottrina morale e sociale sono assai noti e non in discussione. Ma, ammonisce il Papa, l’insistere troppo su questi aspetti rischia di creare un solco invalicabile con la coscienza di quanti non sono necessariamente sintonizzati con la proposta cristiana. Occorre rispettare i diversi cammini, le diverse tappe di maturazione di ognuno. Soprattutto occorre che la Chiesa prima di soffermarsi sulle questioni morali riscopra che la sua missione prioritaria è quella di «curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli».
Ecco il nucleo del messaggio della lunga intervista di Francesco. La Chiesa deve ritornare alla sua vocazione missionaria, concentrarsi sull’essenziale, su ciò che «scalda il cuore», proprio come ha fatto Gesù con i discepoli di Emmaus. Se non riscopre il necessario – continua il pontefice – la Chiesa corre il rischio di farsi rinchiudere nelle piccole cose, di essere percepita più come un’agenzia di precetti che come una fonte di misericordia.
Oltre ai contenuti semplici ma efficaci, ciò che colpisce in questa ultima esternazione di Francesco è la conferma di un linguaggio sin qui inusuale per un Papa, a cui il mondo (anche cattolico) non era abituato, perché ci consegna un’alta figura che si esprime più nella conversazione che nei discorsi ufficiali, più nell’incontro a tu per tu che nella lezione. Un linguaggio che lo porta a descrivere la Chiesa come «un ospedale da campo dopo una battaglia»; che considera gli omosessuali come dei «feriti sociali», in quanto avvertono che la Chiesa li ha sempre condannati; che auspica che la questione della donna nella Chiesa non si risolva con una soluzione da «machismo in gonnella»; che ammonisce i ministri ad essere pastori e non chierici di Stato; che invita a «non ridurre il seno della Chiesa a un nido protettore della nostra mediocrità». E ancora, un Papa che al suo confratello gesuita che all’inizio dell’intervista osa chiedergli «chi è Jorge Mario Bergoglio? », non esita a rispondere: «un peccatore, al quale il Signore ha guardato». Francesco, dunque, che ammette i suoi limiti umani (di cui fa cenno in vari passaggi), che sembrano derivargli dall’essere il pastore di un gregge di cui condivide la sorte e la speranza di redenzione.
Molti altri passaggi di questa storica intervista gettano un’ulteriore luce sull’idea che il Papa ha della Chiesa e sugli indirizzi per il suo rinnovamento.
Come quando contrappone la «fede laboratorio» alla «fede cammino», ad indicare che occorre affrontare le sfide del nostro tempo (sia di tipo religioso che etico) dentro il contesto in cui esse si presentano, più che in astratto e «a tavolino». O nei brani assai interessanti sull’esigenza di collegialità nella Chiesa, sulla necessità che il centro e le periferie della Chiesa «camminino insieme», sull’urgenza di realizzare la sinodalità a tutti i livelli; riconoscendo che è il popolo di Dio (nelle sue varie espressioni) in cammino nella storia il soggetto della Chiesa.
E’ difficile dire quanto l’insieme della cattolicità sia in sintonia con un Papa che continua a stupire per la semplicità dei suoi messaggi e per il suo linguaggio inedito.
Certo le Chiese giovani sembrano essere più avvantaggiate al riguardo, mentre in Occidente (e in particolare nella vecchia Europa) la fatica risulta maggiore, per la difficoltà di uscire da schemi e consuetudini antiche. Qualche anno fa la situazione religiosa di alcuni Paesi europei sembrava adeguatamente descritta dallo slogan «Forza della religione e debolezza della fede». Oggi Papa Francesco pare evocare l’idea contraria, in cui la fede può avere il sopravvento sulla religione.

Corriere 20.9.13
il Ruolo delle Donne il Primato del Vangelo
Fine dell'«Ingerenza Spirituale» nella Vita delle Persone
di Luigi Accattoli


La novità di papa Francesco l'avevamo negli occhi ma fino a ieri non c'era la parola per dirla, ora l'abbiamo ed è questa: prima il Vangelo e poi la dottrina. Quel primato è affermato con chiarezza nell'intervista alle riviste dei Gesuiti e può essere interpretata come una parola d'ordine mirata a superare vecchi bastioni, perché — dice Bergoglio — è tempo di «aprire nuovi spazi a Dio», partendo dalla certezza che egli è «in ogni vita umana» e dunque anche in quella dell'omosessuale, del risposato, del tossicodipendente.
Il Papa ne tira anche due o tre applicazioni al governo della Chiesa che — dice — dovrà andare nella direzione della collegialità, del decentramento, delle donne: debbono esservi donne dove si decide, afferma con nettezza.
L'intervista affronta una dozzina d'argomenti ma il cuore è lì, nel primato da attribuire alla predicazione del Vangelo e non ai «piccoli precetti», alle tante «dottrine», alla ricerca esagerata della «sicurezza dottrinale». Il singolo argomento anzi, poniamo il tema scottante dell'omosessualità, come tutti gli altri, il Papa lo svolge a partire da quel principio. E solo leggendo così le sue risposte le capiremo.
Ecco dunque la Chiesa che predica il Vangelo anche all'omosessuale e cerca di vederlo come lo vedrebbe Cristo: «Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l'esistenza con affetto o la respinge condannandola?». È la stessa risposta — se vogliamo — che il Papa aveva dato ai giornalisti sull'aereo tornando da Rio de Janeiro il 29 luglio: «Chi sono io per giudicare un gay?». Ma ieri ha aggiunto: Dio ci ha «resi liberi», la Chiesa ha la sua pedagogia sull'uso della sessualità ma non ha il diritto di compiere alcuna «ingerenza spirituale» nella vita delle persone.
Occorre sempre rispettare — afferma Francesco — il «mistero dell'uomo». Come per l'omosessuale così per i divorziati risposati, così per le donne che hanno abortito, anche per le vite distrutte «dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa». Queste non sono revisioni di regole o dottrine, precisa il Papa: «Il parere della Chiesa lo si conosce e io sono figlio della Chiesa». Come a dire che neanche il Vescovo di Roma può mutare quel «parere».
Ma ciò che il Papa argentino si ripromette di fare è più di un aggiustamento dei precetti, è di «trovare un nuovo equilibrio» tra la predicazione del Vangelo e l'annuncio delle dottrine: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi», non è possibile «rinchiudere la Chiesa in piccoli precetti». Per parlare davvero all'umanità di oggi, ai tanti feriti della vita, è necessario «un annuncio di tipo missionario, che si concentra sul necessario, sull'essenziale», e cioè sulla «proposta evangelica» che deve essere «più semplice, profonda, irradiante».
Nell'insieme dell'intervista Francesco elenca tutti gli input avversi alla sua veduta evangelica, tesa a soccorrere l'uomo ferito e ad accompagnarlo con misericordia: il martellamento dei precetti nella vita pubblica, la tendenza degli uffici di Curia a trasformarsi in «organismi di censura», il lamento «su come va il mondo barbaro», l'ostinazione a «recuperare il passato perduto». Dopo l'elenco, ecco le parole severe con cui il Papa delle periferie enuncia la sua diagnosi: seguendo una tale «visione statica e involutiva» la fede «diventa un'ideologia tra le altre».
Da dove viene a Francesco l'idea di cercare un «nuovo equilibrio» dove il Vangelo sia sulla scena e la sua applicazione alla morale, alle leggi, alla politica sia un momento successivo e minore? Questa opzione era nella scelta «pastorale» del Vaticano II e ha ispirato le sue riforme. In Italia è stata interpretata come «primato dell'evangelizzazione» e come «scelta religiosa». La provenienza di quell'idea è dunque autorevole ma la sua applicazione ha già incontrato resistenze ed è verosimile che il forte rilancio che si propone di farne papa Francesco possa dare il via alla contestazione del suo insegnamento all'interno della Chiesa.

Corriere 20.9.13
«La Chiesa non sia ossessionata da divorzio, gay e aborto»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite... E bisogna cominciare dal basso». Resterà nella storia, l'intervista che papa Francesco ha concesso a padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica. Sei ore di colloquio in tre giorni, 29 pagine pubblicate in contemporanea da altre 16 riviste della Compagnia di Gesù nel mondo. E, al centro, la preoccupazione formulata a Rio de Janeiro, parlando della gente che scappa dalla Chiesa come nel Vangelo i discepoli si allontanano verso Emmaus: «Siamo ancora una Chiesa capace di scaldare il cuore?». L'esortazione a cambiare «atteggiamento», la «prima riforma» da compiere. Una Chiesa «Madre e Pastora», prima che maestra. Che accompagni le persone come Gesù i due discepoli smarriti di Emmaus. Anziché pensare al «colesterolo», e insistere «sempre» e anzitutto sui principi non negoziabili, bisogna tornare all'essenziale, il kerygma, l'annuncio del Vangelo: «La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: "Gesù Cristo ti ha salvato!"». Omosessuali, divorziati, donne che hanno abortito. Il Papa parla a tutti coloro che si sono sentiti «feriti» da una Chiesa che deve riscoprire «le viscere materne della misericordia». E discorre di tante cose, anche dei suoi gusti artistici: Dostoevskij e Hölderlin e i Promessi sposi, La strada di Fellini, la Magnani e Fabrizi, Mozart e Puccini, Caravaggio e Chagall. Ma soprattutto dispiega l'idea di una Chiesa vicina e aperta a tutti. Che non scambia la fede con la «certezza totale» che «non va bene». Perché «se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente». Non è «relativismo», dice. Ecco le parole di un Papa che chiede una «conversione», la metànoia che in greco viene dal verbo metanoein e significa «cambiare mente», modo di pensare. Ciò che diceva Ignazio di Loyola: «E siano spesso esortati a cercare Dio nostro Signore in tutte le cose...».
Omosessuali e divorziati
La Chiesa è «la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate», dice Francesco: «Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità». E quando padre Spadaro gli chiede dei «cristiani che vivono in situazioni non regolari per la Chiesa o complesse» e parla di divorziati risposati e coppie gay, spiega: «A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo». E ancora: «La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l'ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile. Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l'omosessualità. Io allora le risposi con un'altra domanda: "Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l'esistenza con affetto o la respinge condannandola?". Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell'uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Accompagnare con misericordia».
Riforme. «Mai stato di destra»
Francesco spiega che «le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, vengono dopo» e non avvengono a «breve» perché c'è bisogno del «tempo del discernimento» per «un cambiamento vero, efficace». Dice che da giovane lo consideravano «ultraconservatore» perché decideva troppo in fretta. «Ma non sono mai stato di destra». E spiega che i dicasteri vaticani non devono «diventare organismi di censura».
Cambiare atteggiamento
Ma «la prima riforma deve essere quella dell'atteggiamento». Si guardi ai lontani: «Invece di essere solo una Chiesa che accoglie, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n'è andato o è indifferente. Chi se n'e andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese, possono portare a un ritorno».
L'aborto. «Misericordia, non tortura»
«Questa è anche la grandezza della Confessione: valutare caso per caso, discernere qual è la cosa migliore da fare per una persona che cerca Dio», spiega Francesco: «Il confessionale non è una sala di tortura, ma il luogo della misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare meglio che possiamo. Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L'aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?».
Temi etici
L'essenziale è annunciare il Vangelo: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna farlo in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione». E poi «una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza». Bisogna «trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l'edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte». È dalla «proposta evangelica» che «poi vengono le conseguenze morali».
Donne al vertice della Chiesa
«Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna», dice Francesco. «Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l'autorità nei vari ambiti della Chiesa».
«Io, peccatore» e Caravaggio
«Quel dito di Gesù verso Matteo. Così sono io», dice il Papa citando la Vocazione del Caravaggio. «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi: “no, non me!". Significa che identifica Matteo non nell'uomo con la barba, secondo tradizione, ma nel ragazzo in fondo: «Questo sono io: "un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi". È quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice».

il Fatto 20.9.13
L’intervista con il Papa dolce
di Marco Politi


Una Chiesa ospedale da campo dopo una battaglia... capace di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli (con) la vicinanza, la prossimità”. Ciò che credenti e non credenti hanno intuito da subito la sera del 13 marzo, quando Francesco si rivolse a loro dicendo “buona sera”, papa Bergoglio lo esplicita in una improvvisa e lunga intervista alla rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica. Un colloquio di 30 pagine a tutto campo che rappresenta il manifesto di governo del pontefice argentino: il primo che preferisce definirsi prete e vescovo. Che non porta le scarpe color porpora. Che insiste nel proclamare che Dio anzitutto è misericordia.
“È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite – spiega nell’intervista a padre Spataro – poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso”. La Chiesa, spiega, tante volte si è fatta rinchiudere in piccoli precetti, dimenticando che il primo annuncio è: “Gesù Cristo ti ha salvato! ”. Né rigorismo né lassismo, ma una Chiesa “Madre e Pastora” che si fa carico delle persone. La Chiesa di Francesco non ha la testa rivolta all’indietro. Le lamentele, afferma, non hanno “mai, mai” aiutato a procedere. “Le lamentele su come va il mondo ‘barbaro’ finiscono... per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa”. No, non è questa la via.
Francesco vuole una Chiesa che non sta rinchiusa nei recinti della tradizione decadente, ma è capace di affrontare ogni situazione. “A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono ‘feriti sociali’ perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo”. Bergoglio ha le idee molto chiare sul fatto che il prete deve calarsi nell’esistenza delle singole persone. Il confessionale, chiarisce, non deve essere considerato una sala di tortura, ma il luogo dove si aiuta il fedele a camminare in avanti. Dio, ribadisce, è in ogni vita, anche in quella più disastrata, “si può e si deve cercare Dio in ogni vita umana”. Non deve forse curarsi il sacerdote di una donna, che dopo un matrimonio fallito e anche un aborto, ora “è risposata e serena con cinque figli… e, pentita di avere abortito, vorrebbe andare nella vita cristiana?
NON È UN PAPA che parla ex cathedra. Parte definendosi un “peccatore al quale il Signore ha guardato”. Un peccatore… “e non è un modo di dire, un genere letterario”. Confessa di essere stato nella sua prima esperienza di governo – come provinciale dei gesuiti – brusco, autoritario, troppo decisionista al punto di “avere seri problemi ed essere accusato di essere ultraconservatore”. Ciò gli ha provocato, ammette, anche una grande crisi interiore. “Non sono stato uno stinco di santo come la beata Imelda (espressione argentina ndr) – ci tiene però a precisare – ma non sono mai stato di destra”.
Del suo essere gesuita Francesco mette in risalto il “discernimento”, la capacità di analizzare e soppesare e capire la realtà. Perciò ritiene che le riforme debbano essere frutto di una intensa consultazione e vadano fatte in maniera non affrettato. Chi pensa di avere tutte le risposte a tutte le domande, ammonisce, “è la prova che Dio non con lui…è un falso profeta”.
È molto concreto il papa argentino in questa intervista-manifesto. Le donne, promette, devono essere presenti “nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti… anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa”. I dicasteri della curia romana devono essere strumenti di aiuto per il papa e i vescovi invece di “diventare organismi di censura”. Perché trattare in Vaticano i casi di presunte deviazioni dottrinali? “Credo che debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma”. I dicasteri della curia (mai nominata come “istanza” simbolica) siano “mediatori, non intermediari o gestori”.
Nel governo della Chiesa universale, anticipa il papa, c’è bisogno di attivare meccanismi reali di consultazione, anche cambiando il modo di lavorare del Sinodo dei vescovi attualmente troppo “statico”. Attivare la “sinodalità” (cioè il governo collegiale del pontefice con i vescovi) è anche un modo per rilanciare i rapporti con la Chiesa ortodossa a partire dal documento importante negoziato dal cardinale Kasper nel 2007 a Ravenna, in cui le Chiese ortodosso riconoscevano il primato del vescovo di Roma ma esigevano una reale gestione collegiale nelle questioni riguardanti la Chiesa universale. Bergoglio vuole anche proseguire la riflessione sul ruolo papale, il cosiddetto “ministero petrino”, come già auspicato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut Unum sint.
Nell’appartamento papale, soggiunge, non è voluto andare proprio perché è un “imbuto” dove si entra con il contagocce, mentre lui vuole stare a contatto con le persone. Racconta molte cose anche di sé e dei suoi gusti Bergoglio nell’intervista, dalle sue letture – Hoelderlin, Borges, I promessi sposi li ha letti tre volte – ai suoi pittori e musicisti preferiti: Caravaggio e Mozart.
MA SOPRATTUTTO il colloquio del tutto libero esprime il suo enorme impulso a comunicare con i contemporanei. Con tutti. Così come sono. Gli piace uno dei prini compagni di san-t’Ignazio: il beato Pietro Favre. Per i suoi tratti diretti: “Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…”.
In controluce Bergoglio sente Favre come il modello a cui un papa del XXI secolo dovrebbe ispirarsi. Secco il giudizio sulle dibattute questioni etiche: “Il parere della Chiesa lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione”.
Non c’è spazio in questo programma per i restauratori. “Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro – ricorda il papa – allora non trova niente”. Tradizione e memoria devono aiutare ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi. “Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla ‘sicurezza’ dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante”.
È il de profundis per la lobby conservatrice, che impose Ratzinger nel 2005, e che si è annidata in tanti uffici della curia e tante diocesi nel mondo.

Repubblica 20.9.13
Francesco: “La mia chiesa è come un ospedale da campo” Apertura su gay, divorzio e aborto
Il papa si racconta in un’intervista a “Civiltà Cattolica”
di Marco Ansaldo


LA CURIA E IL SINODO
«I dicasteri romani sono al servizio del Papa e dei Vescovi: meccanismi di aiuto. Quando non sono bene intesi corrono il rischio di diventare organismi di censura. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Dai fratelli Ortodossi si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale».
LA DONNA
«È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”. La sfida oggi è riflettere sul posto specifico della donna ».
I PROMESSI SPOSI.
Bergoglio si sofferma a lungo sulle sue passioni artistiche. La letteratura con Dostoevskij, Hoelderlin, Cervantes, Borges, Manzoni. «Ho letto I Promessi Spositrevolte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo». La pittura: Caravaggio e Chagall. La musica: «Mozart mi riempie. Beethoven mi piace ascoltarlo, ma prometeicamente. E poi lePassioni
di Bach. A un livello diverso, non intimo allo stesso modo, amo Wagner». Il cinema: «La stradadi
Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi».
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Nel nuovo numero deLa Civiltà Cattolica
rivista diretta dal gesuita Antonio Spadaro 29 pagine di intervista
CITTÀ DEL VATICANO — «Vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia». Dove ci vogliono cambiamenti e riforme». Ma non subito, perché questo «è il tempo del discernimento ». Soprattutto, «non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e metodi contraccettivi».
Dopo la lettera indirizzata al fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, Papa Francesco mette a segno un altro colpo mediatico. E concede la sua prima intervista al direttore de La Civiltà Cattolica, gesuita come lui, padre Antonio Spadaro. Un colloquio lungo oltre 6 ore, svolto in 3 giorni alla fine di agosto, saltando dall’italiano allo spagnolo, e che si dipana in 30 pagine della rivista. Un testo zeppo di novità e di spunti interessantissimi. Bergoglio parla di sé personalmente e di come intende procedere nel suo pontificato. Ecco una sintesi della conversazione.
UN PECCATORE
Chi è Jorge Mario Bergoglio? «Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo. Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato. Sono un indisciplinato nato».
IL CONCLAVE
Francesco rivela a Spadaro che quando si rese conto di rischiare l’elezione, il mercoledì 13 marzo a pranzo, sentì scendere su di lui una profonda e inspiegabile pace e consolazione interiore, insieme a un buio totale. Questi sentimenti lo accompagnarono fino all’elezione.
«Ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere».
RIFORME
«Molti pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento efficace. E questo è il tempo del discernimento. Diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario».
MAI STATO DI DESTRA
Da superiore provinciale della Compagnia di Gesù «il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ma non sono mai stato di destra».
CONSULTAZIONI REALI
«I Concistori, i Sinodi sono luoghi importanti per rendere vera e attiva la consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del Conclave. Il popolo è soggetto. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere».
CURARE LE FERITE
«Vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. I ministri del Vangelo devono saper dialogare. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. Io vedo la santità nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati».
GAY, ABORTO E DIVORZIATI
«A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Dio nella creazione ci ha resi liberi. Una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito, si è risposata e vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Cosa fa il confessore? Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto».
NO A TROPPA DOTTRINA
«Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, ciò che appassiona e attira di più. Dobbiamo trovare un nuovo equilibrio, altrimenti l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte».

Repubblica 20.9.13
Fede e laicità
Ma la vera sfida è la difesa dei nuovi poveri
di Hans Küng


PAPA Francesco sta dando prova di coraggio civile, e non solo per la sua intrepida visita alle favelas di Rio. Ha accolto l’invito a un dialogo aperto con i critici non credenti, rispondendo a uno dei più eminenti intellettuali italiani, Eugenio Scalfari. Delle dodici domande di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 11/09/2013) tuttora aperte, a mio parere la quarta, sul tema di una guida riformatrice della Chiesa, riveste un’importanza particolare. Gesù ha sempre affermato che il suo regno non era di questo mondo. «Date a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio». Ma troppo spesso la Chiesa cattolica ha ceduto alla tentazione del potere temporale, che ha soppiantato la sua dimensione spirituale. Dunque Scalfari chiede: «Il papa Francesco rappresenta finalmente la prevalenza della Chiesa povera e pastorale su quella istituzionale e temporalistica? ».
ATTENIAMOCI ai fatti: fin dall’inizio papa Francesco ha rinunciato alla pompa e allo sfarzo pontificio, ricercando invece il contatto spontaneo col popolo. A fronte dei numerosi scandali finanziari e dell’avidità di molti ecclesiastici, ha avviato con decisione una riforma dello Ior e dello Stato pontificio, postulando una politica di trasparenza in campo finanziario.
Ora però, nella sua opera riformatrice il papa dovrà affrontare una prova decisiva. Il papa di tutta la Chiesa cattolica non può trascurare il fatto che anche altrove vi sono gruppi umani afflitti da altre forme di “povertà”, che anelano a un miglioramento della loro condizione. Si tratta soprattutto di persone che il papa avrebbe la facoltà di aiutare in maniera anche più diretta degli abitanti delle favelas, di cui sono innanzitutto responsabili gli organi dello Stato e la società nel suo complesso.
L’ampliamento del concetto di povertà si ravvisa già nei Vangeli sinottici. Il Vangelo di Matteochiama beati i “poveri in spirito”, mendicanti davanti a Dio nella consapevolezza della loro povertà spirituale. E intende dunque, allo stesso modo dei rimanenti testi delle Beatitudini, non solo i miseri e gli affamati, ma tutti coloro che piangono, emarginati e oppressi, vittime di ingiustizie, respinti, degradati, sfruttati, disperati: Gesù chiama a sé non solo i derelitti e i bisognosi nel senso esteriore del termine (Luca) ma anche chiunque soffra nel proprio intimo la pena e l’afflizione (Matteo) , compreso anche il peso della colpa. Si moltiplica così a dismisura il numero e le categorie dei poveri bisognosi di essere aiutati.
In primo luogo, i divorziati, che in molti Paesi sono milioni; e quando, come spesso accade, hanno contratto un secondo matrimonio, sono esclusi dai sacramenti della Chiesa per il resto della loro vita. Data la maggiore mobilità, flessibilità e liberalità della società di oggi, ma anche in conseguenza della crescente longevità, è assai meno facile che un rapporto di coppia duri per l’intera esistenza. Anche a fronte di queste più difficili circostanze, il papa continuerà certamente a insistere sull’indissolubilità del matrimonio; ma questo precetto non dovrebbe più essere inteso come condanna apodittica di tutti coloro che avendo fallito non possono sperare in una remissione. Ed è proprio in nome della compassione postulata da papa Francesco che si dovrebbero ammettere ai sacramenti i divorziati risposati, purché lo desiderino veramente.
In secondo luogo, le donne: milioni di donne che in tutto il mondo sono vilipese a causa dell’atteggiamento della Chiesa sui temi della contraccezione, della fecondazione artificiale e dell’aborto, e spesso vivono la loro condizione con animo angosciato. Quanto al divieto papale della fecondazione «artificiale», a osservarlo è soltanto una piccolissima minoranza, mentre per lo più le donne cattoliche la praticano senza alcun rimorso di coscienza. Infine, l’aborto ovviamente non va banalizzato, e men che meno adottato come metodo di pianificazione delle nascite; ma le donne che scelgono di abortire meritano comprensione e compassione.
In terzo luogo, i preti costretti a rinunciare al sacerdozio per aver contratto matrimonio: sono decine di migliaia, nei cinque continenti. L’abolizione dell’obbligo del celibato costituirebbe la misura più efficace per ovviare alla catastrofica crisi delle vocazioni sacerdotali che ha colpito il mondo intero, col conseguente tracollo dell’attività pastorale. Oltre tutto, il mantenimento dell’obbligo del celibato renderebbe impensabile un’altra auspicabile innovazione: quella del sacerdozio femminile.
Tutte queste riforme sono urgenti e dovrebbero essere discusse innanzitutto in seno alla commissione dei cardinali. Papa Francesco si trova oggi davanti a una serie di decisioni difficili. Finora ha dato prova di grande empatia e sensibilità per le afflizioni di tanti esseri umani, dimostrando in più occasioni un considerevole coraggio civile. Queste sue qualità gli consentono di prendere decisioni necessarie e determinanti per il futuro su questi problemi, che in parte attendono una soluzione ormaida secoli.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Corriere 20.9.13
Il filosofo (ateo) e il cardinale
di Armando Torno


Il libro di Giulio Giorello La lezione di Martini. Quello che da ateo ho imparato da un cardinale (Piemme, pp. 114, 12) è la testimonianza di un antico dialogo. O meglio, di un lungo colloquio tra un filosofo della scienza (Giorello è l'erede della cattedra di Ludovico Geymonat) e un cardinale; il primo un non credente che ribadisce senza requie la sua scelta lontana «da ogni chiesa», il secondo un vero principe di quella cattolica. Tra i due non ci furono soltanto parole. L'ateo regalò alcuni dubbi a sua eminenza e il porporato, da par suo, ha seminato qualcosa dentro il filosofo.
L'incontro nacque per iniziativa di Bruno Forte, oggi arcivescovo di Chieti-Vasto. Forse è meglio non indicare una data precisa, limitiamoci a dire che correvano gli anni Novanta e Martini legava il suo nome e la sua missione alla cattedra dei non credenti. Il cardinale aveva espresso il desiderio di confrontarsi con il mondo dell'impresa scientifica, giacché era attento agli aspetti recati dalle trasformazioni tecnologiche (quelle della medicina in particolare). Un particolare, questo, che si coglie nel primo capitolo del libro di Giorello, «Energia e coraggio»; anzi, nell'analizzare alcuni discorsi di sua eminenza, l'ateo che insegna filosofia ammette: «Martini ci ha offerto uno splendido esempio di credente che nella stessa audacia del linguaggio ha saputo dare nuova vita al non credente». Il cardinale, in altri termini, guarda a una disciplina che pone sfide nuove con le quali il cristiano dovrà confrontarsi, ma non si dimentica di scrutare oltre gli orizzonti della fede per cogliere le ragioni della grande trasformazione in atto. Milano gli offre un ambiente ideale. Giorello è un appuntamento inevitabile.
Il secondo capitolo racconta gli incontri per le due cattedre dei non credenti alle quali Giorello ha collaborato. Martini allora lanciò una sfida a coloro che non avevano fede e soprattutto ai cristiani: invitò i primi a far conoscere le loro ragioni del rifiuto di Dio, ai secondi ricordò che in ognuno di noi c'è una scintilla di ateismo che può contaminare. Giorello parla di «un coinvolgente scambio di idee e di sentimenti». Lavorò con il cardinale alla scelta dei temi e dei personaggi che sarebbero dovuti intervenire. Martini, sottolinea, «non aveva intenzione di ridurre l'iniziativa a una mera contrapposizione di due "partiti" sociologicamente identificabili e magari l'uno contro l'altro armato»; sua eminenza voleva semplicemente aprire un dibattito senza la pretesa di avere ragione o di ricavarne strategie apologetiche. Si rivolgeva con umiltà ai non credenti.
E molti di essi, tra i quali c'è Giorello, si accorsero che anche l'ateismo è un'idea abitata da infiniti dubbi e comunque non deve prevalere sul corpo e sulla mente dei credenti (o di coloro che si considerano tali). Insomma, qualcosa di purificato dall'imposizione agli altri. L'ateo deve saper dialogare e non chiudersi nel dogma di negazione. Martini dal canto suo cercò in quegli incontri e nelle teorie fisiche e biologiche che vi venivano esposte qualcosa che contrastava con la sua fede. La metteva alla prova. Per fortificarla.
Il terzo capitolo ricorda che l'idea scientifica ha ampliato la concezione di pluralismo di Martini. Giorello può sostenere questa tesi perché il suo confronto con il cardinale, cominciato con la cattedra dei non credenti, è proseguito sino agli ultimi tempi. Lo andò a trovare all'Aloisianum di Gallarate, dove si era ritirato, e dove quegli antichi discorsi non riuscivano a chetarsi. Martini parlò del libro di Giorello Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo (Longanesi) e tra i due il dialogo riprese.
Non entreremo nei particolari, ma è certo che «la lezione» del cardinale continua. Lo testimonia un filosofo che ha rifiutato la fede in Dio. E che osserva nelle pagine finali del suo libro: «Martini mi ribadiva che noi tutti, credenti o non credenti, se amiamo lo sforzo di pensare (quello che una grande tradizione filosofica chiama intelletto) è alla libertà che si finisce col tornare, senza la quale non c'è né vera fede né autentica ragione».