sabato 21 settembre 2013

OGGI LA REPUBBLICA NON E' NELLE EDICOLE, PER UNO SCIOPERO DEI GIORNALISTI

l’Unità 21.9.13
Nichi Vendola: «Francesco interroga la sinistra»
«Bergoglio avvicina la Chiesa e interroga anche la sinistra»
«L’intervista a La Civiltà Cattolica è straordinaria, segna un varco che si allargherà.
Il pensiero laico in confronto è afasico su povertà, pace e ambiente»
intervista di Rachele Gonnelli


ROMA Profondamente cattolico e dichiaratamente omosessuale, Nichi Vendola è molto toccato dalle parole di papa Bergoglio affidate a Civiltà Cattolica. E non solo per quanto riguarda le aperture nei confronti di gay, divorziati, donne che hanno abortito, contraccezione e tutti quei temi che nel Pontificato precedente venivano rubricati come «principi non negoziabili».
Cosa l’ha colpita di più di questa intervista pesante quanto un’enciclica. Francesco è il Papa conciliare che non si aspettava più?
«Questa intervista è veramente un documento straordinario. Ha quasi la potenza ostetrica di un parto. Inteso anche come un partire. Ci restituisce fino in fondo il senso di quel Concilio Vaticano II che aveva rovesciato la Chiesa delle tentazioni di temporalismo, la Chiesa dei prìncipi anzichè dei princìpi, restituendocela in una nuova, straordinaria avventura. La Chiesa che si fa compagna dell’umanità e che piuttosto che raccontare di un Dio che è per metà giudice e per metà boia, racconta di un Dio che danza la vita e ama l’umanità. Ma la mia impressione è che Papa Francesco vada oltre, svolga il suo compito entrando nel merito di quella missione specifica della Chiesa che spartisce con tutto il suo popolo il sapore amaro della povertà e anche il sapore dolce della speranza. Non vale isolare singole affermazioni per quanto inedite come quelle che mostrano insofferenza verso quella parte della Chiesa ebbra di scomuniche e anatemi nei confronti di specifiche tipologie di peccatori. Anche la questione dell’omosessualità è assunta non per estinguere il peccato ma per sospingere alla comprensione e alla fraternità verso il peccatore. E se permetti che il Papa cominci l’intervista rispondendo alla domanda su chi è dicendo “io sono un peccatore, un peccatore a cui Dio ha rivolto lo sguardo”, beh, già questo scendere dalle vette di un irraggiungibile potere spirituale che talvolta si copre di ipocrisia, questo andare per strada, andare incontro, è un grande scarto. Anche approssimazione è una parola molto bella, un avvicinarsi che è anche avere il senso della verità come ricerca invece che come proclamazione di dettami. E lui parla di dubbio, del valore del dubbio. Se la fede è presentata come una sorta di colonizzazione delle anime, come un destino di omologazione degli stili di vita, come dogmatica comportamentale, rischia di essere un modo di immobilizzare la vita invece che di accompagnarla. Insomma mi ha colpito tutto dell’intervista. Ad esempio quando rivendica nell’adesione alla Compagnia di Gesù l’ingrediente fondamentale per la sua formazione del discernimento».
Dice che questo non è ancora il tempo delle riforme, è il tempo del discernimento.
«Individua una triade: dialogo, discernimento e frontiera. C’è sempre stata una dimensione dinamica ma la sede con lui è il passo del pellegrino, del cercatore del sentiero. Mi ricorda davvero molto, anche nella freschezza carismatica, don Tonino Bello».
Che è stato il suo maestro, vero?
«Sì. Mi ricorda la Chiesa del grembiule, quello che si usa per lavare i piedi ai poveri».
Quando lei dice che scuote l’albero della pigrizia intende dire che questo Pontefice pone delle sfide anche alla sinistra? C’è chi addirittura lo vede come un rivoluzionario. In effetti lui parla di una Chiesa dell’oggi, quindi anche politica.
«Più preciso: dice che nel passato si individuano le tracce, nel futuro la promessa ma che Dio è nell’oggi. Dio lo avvicini nell’oggi se non rifuggi dalla tua storia sociale, dentro la comunità. L’umanità di cui parla non è un belvedere, un fotogramma della piazza, è amore ad uno ad uno. È l’etica del volto, perché Dio è in ciascuno. C’è una grande freschezza antiretorica anche nel come ha parlato della guerra, non con la tradizionale ostilità verso questa risposta catastrofica. Va oltre, fa della pace un’agenda politica e dice che la guerra c’è anche perché si vendono le armi, descrive l’oscenità della real politik. Ma credo che l’utilizzo disinvolto di categorie politiche per analizzare la complessità della Chiesa sia sempre una forzatura mondana per una vicenda che ha un altro codice interpretativo».
I detrattori lo lodano per il suo nuovo stile ma lo relegano a un soggetto quasi da marketing papale. Credi che invece ci sia una risposta opposta ai pro Life americani, alla criciata francese anti nozze gay e anche a certi nostrani Family day rispetto a una stessa realtà che sta cambiando?.
«Il suo discorso ha l’ambizione di un salto antropologico. Ci fa capire che gli integralisti sono nemici di Dio. L’integralismo non è una specialità talebana. Da noi Militia Christi o l’emittente polacca di Radio Maria passando per i movimenti di cerniera tra un modello di Chiesa ricco fondato sul consenso e il potere che li finanzia a piene mani. Lo Stato laico ha spesso abdicato al
suo ruolo e il temporalismo della Chiesa ha danneggiato la politica e anche la Chiesa. In Italia negli ultimi 20 anni ha dominato il clericalismo, la destra ha continuamente messo in discussione la legge 194 mentre in sedi istituzionali replicava gli anatemi della Chiesa ipocrita, dedita come diceva don Bello ai sacri affari. La bonifica morale iniziata da Ratzinger è stata consegnata come eredità a Bergoglio. Credo che di fronte al suo discorso di ritorno al Vangelo anche la politica deve chiedersi perché il pensiero laico oggi sia così afasico su povertà, pace, accoglienza, ambiente. Perché il Papa solo è andato a Lampedusa a raccogliere i naufraghi della cattiva globalizzazione, a convocare la piazza contro il massacro in Siria e con parole più adeguate?. Il suo nuovo universalismo cristiano spero apra gli occhi a tanti sul destino della Terra e dell’umanità».

l’Unità 21.9.13
Il no di Francesco all’aborto e all’idolatria del denaro
di Roberto Monteforte


CITTÀ DEL VATICANO «Non esiste una vita umana più sacra di un’altra come non esiste una vita umana qualitativamente più significativa di un’altra». È categorico Papa Francesco nel discorso tenuto ieri a una delegazione di ginecologi della Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici ricevuta in udienza. Anche se non si appella ai valori non negoziabili Bergoglio rilancia con determinazione la «cultura della vita» e la tutela della dignità della persona umana, in particoare quelli che più rischiano «i più poveri, sia nei Paesi in via di sviluppo, sia nelle società benestanti». Da qui è partito per rinnovare la condanna dell’aborto e dell’eutanasia. «Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente ad essere abortito ha scandito -, ha il volto del Signore, che prima ancora di nascere, e poi appena nato ha sperimentato il rifiuto del mondo. E ogni anziano, anche se infermo o alla fine dei suoi giorni ha aggiunto -, porta in sé il volto di Cristo. Non si possono scartare!».
Se nella lunga intervista a Civiltà Cattolica Papa Francesco aveva invitato adaccogliere con amore anche la donna pentita che aveva vissuto l’esperienza dolorosa dell’aborto ieri, ha ribadito il no suo e della Chiesa alle pratiche abortive. Ha chiesto ai medici cattolici di testimoniare nelle corsie degli ospedali la «cultura della vita». Non ha usato il termine obiezione di coscienza, ma ha fatto appello allo spirito missionario, al coraggio di agire controcorrente per contrastare la «cultura dello scarto» e la «diffusa mentalità dell’utile» che ha osservato «oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti e ha un altissimo costo», perché «richiede di eliminare esse-
ri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli». «La nostra risposta a questa mentalità ha scandito è un “sì” deciso e senza tentennamenti alla vita».
Per il pontefice che ieri è tornato a mettere in guardia anche gli uomini di Chiesa dall’«idolatria del danaro» che finisce inesorabilmente per portare alla corruzione, «la credibilità di un sistema sanitario non si misura solo per l’efficienza, ma soprattutto per l’attenzione e l’amore verso le persone, la cui vita è sempre sacra e inviolabile». Ha richiamato quello che ha definito il «paradosso» presente nella professione medica: «Mentre si attribuiscono alla persona nuovi diritti, a volte anche presunti, non sempre si tutela la vita come valore primario e diritto primordiale di ogni uomo». Invece «il fine ultimo dell’agire medico rimane sempre la difesa e la promozione della vita». Nell’attuale «disorientamento culturale» Papa Francesco ha rivolto un appello ai medici affinché non smarriscano la propria identità «di servitore della vita». Ai medici cattolici ha chiesto di avere il coraggio di agire controcorrente e di essere «testimoni e diffusori» di questa visione.

l’Unità 21.9.13
Ora la Chiesa italiana dovrà cambiare, e non poco
di Domenico Rosati

ex presidente delle associazioni cattoliche dei lavoratori italiani

DOPO L’EMOZIONE LA RIFLESSIONE. L’INTERVISTA DI PAPA FRANCESCO ALLE RIVISTE DEI GESUITI chiarifica in modo ormai inequivocabile il suo atteggiamento fondamentale. Contrariamente a quel che traspare da qualche entusiasmo, egli non innova, e non intende innovare, nell’insegnamento della Chiesa. In chiaro: la sua non è un’apertura... al peccato. È invece, e fortemente, una diversa considerazione del peccatore. Diversa da quella che nei secoli si è stratificata in una sequenza di condanne e di diffide, e anche scomuniche. Ora viceversa l’accento cade sull’esigenza di rifiutare la pratica dell’«ingerenza spirituale nella vita delle persone», ciò che avviene quando le libere coscienze dei singoli s’imbattono non nell’abbraccio misericordioso di un Dio che «gioisce quando perdona», ma nell’accigliata asprezza ecclesiastica di una richiesta di ossequio a una regola uniforme.
Ha ragione chi osserva che tutto questo era già scritto nel messaggio del Concilio Vaticano II. Ma è altrettanto vero che decenni di polvere hanno offuscato la luce. Tant’è che in molti s’è addirittura fiaccata l’aspettativa di vederne realizzato il disegno. La riflessione dovrà quindi concentrarsi sull’osservazione dell’impatto del ritorno evangelico di Francesco su una prassi di tipo clericale invalsa nelle comunità cattoliche e, parallelamente, su un giudizio sul mondo contemporaneo inteso come una «cosa altra», un pericolo da fronteggiare piuttosto che una realtà evolutiva in cui immergersi per decifrarla ed umanizzarla.
La questione si pone in modo diversificato nelle molteplici realtà in cui vivono i cattolici, in rapporto alle differenti storie e tradizioni. Ma se c’è un luogo in cui è presumibile che il «fatto nuovo» della pastorale francescana produrrà qualche effetto questo luogo è l’Italia. Da noi, infatti, più che altrove ha attecchito l’applicazione del metodo dottrinale-deduttivo, dai principi alla prassi, fino alla concatenazione tra principi, valori ed... emendamenti legislativi non negoziabili, previa selezione di temi sensibili rispetto ad altri reputati, arbitrariamente, meno degni di tutela.
C’è quindi da immaginare che qualcosa accadrà nella realtà cattolica italiana, a partire dall’episcopato. Ma che cosa? È scontato il fenomeno classico dell’allineamento diffuso al dettato papale, con le annesse disinvolture argomentative. Più problematico, ma più desiderabile, è un mutamento che corrisponda ad una reale assimilazione del carattere impegnativo di questa «strategia della misericordia» anche nelle sue conseguenze rispetto alla realtà sociale e politica.
È lecito domandarsi se siano in campo o possano esprimersi adeguatamente le energie necessarie per reggere un simile processo di riconversione. Perché queste possano sprigionarsi è necessario però che ad ogni livello si trovi il modo di dare diritto di parola effettivamente a tutti coloro che ne abbiano titolo e vocazione. Si ritrovi cioè quel coraggio che, ad esempio, consentì negli anni Settanta, dopo il trauma del referendum sul divorzio, di convocare un’assemblea di credenti nella quale poterono confrontarsi, senza diaframmi, i sostenitori delle due posizioni in conflitto. Tanti negli ultimi anni hanno rinunciato a parlare, tanti si sono collocati nel perimetro dell’acqua bassa. Tanti, tra i laici cristiani, hanno smesso di aiutare i vescovi a comprendere il mondo e si sono accontentati di svolgere un compito di trasmissione. Ma anche a quelli che, non senza sofferenza, hanno continuato a coltivare la speranza si rivolge oggi la provocazione di Francesco: che non credano, come dopo il Concilio, di aver ottenuto una vittoria definitiva. Reclamino lo spazio dovuto, ma poi si diano da fare ha detto: immischiarsi nella chiesa e nella società.

l’Unità 21.9.13
La vita di don Giussani scomoda anche chi lo ha seguito
di Eugenio Mazzarella

filosofo cultore di Heidegger e del rapporto religione-filosofia

UNO SPACCATO DELLA STORIA D’ITALIA DAGLI ANNI ’50 AD OGGI, E DELLA STORIA DELLA CHIESA, la Vita di don Giussani di Alberto Savarona, presentata a Milano in un'affollatissima Università Cattolica. Vita che spiazza non poco chi l'avvicini senza pregiudizi affidandosi, con Savorana, alle fonti, ai documenti, ai testimoni, ma soprattutto a don Giussani stesso. Un Giussani che esorbita da molti dei cliché che l’hanno accompagnato a lungo. Il giovane docente che lascia il seminario per farsi «cappellano degli studenti», e l’avversario del ‘68, che si rifarà con gli interessi; il suscitatore di impegno laicale e vocazioni e il delicatissimo amico di tanti; il Giussani che balza sulla sedia leggendo Pasolini «unico intellettuale cattolico italiano»; e quello che ricorda a un amico spagnolo, che per la sua vicinanza a Cl finirà in galera sotto Franco, e che propone di vivere «per Cristo e per i poveri», che «Cristo viene prima», se no «diventiamo solo marxisti».
E qui siamo al punto di Giussani, e di tutta questa Vita di don Giussani: Cristo, il filo che mette in armonia persino gli ossimori. D’altro canto è l’ultimo Giussani in questo punto a farsi in mezza riga la sua autobiografia: «È la vita della mia vita, Cristo».
Quando nel '54 entra al Berchet ha un’idea chiarissima della situazione della Chiesa. Un cattolicesimo oscillante tra devozione parrocchiale e convenzione sociale, un associazionismo in crisi, una cultura cattolica intimidita dalla modernità, chiusa nei suoi circuiti, succube dell’avanzante cultura laica e marxista; e quando si apre ansiosa di mostrare una ragionevolezza della fede per depotenziamento della sua pretesa pubblica ed esistenziale, snervata della sua intrinseca razionalità.
Giussani invece è convinto che non sono le ragioni della fede a essere irrazionali, ma la ragione moderna «rattrappita» in puro spirito «positivo» a essere irrazionale. Un punto che sarà di Ratzinger, e spiega la loro ininterrotta vicinanza: la «superstizione illuministica» della modernità dell'incomunicabilità tra ragione e fede, di cui ha parlato in questi giorni Francesco.
Mettere in movimento il carisma di Cristo alla sua Chiesa, la fede in Lui, nel calore di una trasmissione personale così come l’aveva ricevuto, ritrovare l’autorità della tradizione nel carisma, nel fatto-principio che l’ha istituita, Cristo che ti cambia la vita, Dio che si fa carne, pertinente alle esigenze fondamentali dell’uomo, fu la grande intuizione di Giussani, per rispondere nella Chiesa alla crisi delle istituzioni e dell’autorità nella società del ‘900. Un’intuizione cui darà piena accoglienza e riconoscimento la Chiesa di Wojtila e di Ratzinger. C’era in questo una «febbre» di vita cristiana, che certo poteva urtare, e Giussani lo sapeva. Fino ad essere tacciata di integralismo, anche nella Chiesa. Integrità della vita cristiana, piuttosto, era per Giussani. Un versetto di Matteo «Non si accende una lampada per metterla sotto il moggio» potrebbe dir molto dell'idea di presenza cristiana nel mondo di Giussani. Nella capitale riserva però che, nel mondo, sei prima di Cristo, e poi del mondo.
A Giussani è presentissimo fin dagli inizi il rischio nella Chiesa, anche nella sua creatura, il Movimento, del venir meno di questa capitale riserva critica, che sei prima di Cristo. L’insofferenza di Giussani all’istituzionalizzazione associazionistica, culturale, intellettuale del movimento, e alla tentazione «politica», emerge in questa Vita come una costante: nel ’75 dopo una riuscitissima assemblea al Palalido, sconcerta chi si compiace, con un tranchant «E io che c’entro col movimento?». In un raduno del ’93 tronca la discussione «Della vostra compagnia io me ne infischio» e va via; lasciando basiti gli universitari, tanto da dover spiegare l’indomani che non intendeva poi mandarli a quel paese, ma si trattava di una correzione fraterna. Il tema, centrale, attiene alla preoccupazione costante in Giussani, e negli anni della malattia più viva, della custodia del carisma ricevuto, della sua salvaguardia dal rischio di una mondanizzazione dove nella vita del Movimento il segno della liberazione non fosse una comunione personale con Cristo, che si proietta nel mondo, la preoccupazione di un andare insieme al Destino, ma piuttosto quella del destino del Movimento. Scenario in cui alla fine si finisse per lavorare all’opera di se stessi piuttosto che all’opera di un Altro, che lui aveva iniziato sui banchi del Berchet. Il testimone passato agli Spagnoli, a chi aveva spalancato le porte a Cl, all’opera di un Altro, la scelta di Carron, attiene a questa tutela del carisma dai rischi di una mondanizzazione, che chiuda più strade di quante crede di assicurarsene. Un lascito che ha il tono di un bilancio, e insieme il vincolo di un indirizzo.

ALTRI ARTICOLI DA IL FATTO, CORRIERE ECCETERA A PROPOSITO DI GIORGI BERGOGLIO, DETTO FRANCESCO
QUI DI SEGUITO VERSO LA FINE DELLA RASSEGNA STAMPA DI OGGI

il Fatto 21.9.13
Partito decaduto. Va in scena il reality delle mummie
Epifani propone la data delle primarie: l’8 dicembre, festa dell’Immacolata. I renziani: una forzatura
Assemblea senza accordo, trattativa sul filo. Oggi parla Matteo
di Wanda Marra


Allora... mentre venivo qui ho riflettuto... ho pensato che dobbiamo uscire da quest’Assemblea con una qualche chiarezza sul congresso... e allora dopo aver parlato con la vicepresidenza faccio una proposta al partito: fissiamo la data delle primarie nazionali per l’8 dicembre”. Guglielmo Epifani sul palco in stile contorto lancia le primarie dell’Immacolata. Dalla platea arriva un brusio. Di protesta, di sconcerto. Matteo Renzi seduto in alto, in disparte, nell’Auditorium di via della Conciliazione ride. “Come si decide una data, senza che ci sia un accordo? ”, commenta dopo il fedelissimo Luca Lotti.
È IL MOMENTO più basso di un’assemblea surreale, convocata u per decidere le regole del congresso del Pd, che è arrivata alla sua prima giornata senza la quadra dopo mesi di riunioni. Unico intervento programmato, quello del segretario. La relazione di Roberto Gualtieri è rimandata, perché lo stesso Gualtieri è in riunione permanente da due giorni con gli altri membri della commissione per chiudere una trattativa estenuante. I renziani volevano il congresso prima e adesso parlano di una “forzatura”, i bersaniani il 15 dicembre. Bisognerà vedere oggi se la proposta tiene. I flash dal-l’Assemblea la dicono tutta. Prima dell’inizio Pier Luigi Bersani e Piero Fassino si producono in una discussione davanti a tutti, con l’ex segretario che richiama l’altro - ora renziano - a ragionare sul bene dei Democratici. La riunione inizia con un’ora di ritardo: sono tutti al Nazareno o al telefono. Finalmente parte l’Inno nazionale. Quel che resta della presidenza scandisce “Fratelli d’Italia”: Epifani, Sereni e Scalfarotto (i vicepresidenti), Misiani, Sassoli e Zanda. Vertici futuri e passati sono altrove. Bersani in prima fila. La Bindi, presidente dimissionaria, sugli spalti che concede interviste. L’ex vicesegretario Letta ora a Palazzo Chigi, che alla fine ha deciso di non venire, nonostante gli avessero chiesto in tutti i modi di introdurre la riunione. Si dichiara neutrale, ma il suo uomo in segreteria si è speso per il 15 dicembre. E plurime voci vogliono che stia ancora cercando di convincere Epifani, magari in ticket con Barca, a correre contro Renzi. Al posto di Cuperlo. E Matteo Renzi, che come al solito arriva per ultimo. Prima si mette in piedi, accanto al palco, un piede dentro, uno fuori dalla sala. Poi siede in sala, in alto. Lontano da tutti i maggiorenti del partito. Ascolta, mentre Epifani fa un lunghissimo intervento per dire che governare col Pdl è molto difficile. “Non vogliamo fare come con Monti”. Quando tuona contro gli accordi correntizi nessuno applaude. Quando, dopo quasi un’ora, finisce, Renzi, che si sposta verso i suoi e fa due chiacchiere con uno dei consiglieri del premier, Francesco Sanna.
SUL PALCO sale un indignatissimo delegato Paolo Cosseddu: “Mi sembra di assistere a una puntata di “Ai confini della realtà”. Sono venuto qui un giorno in anticipo per sentirmi dire che la commissione congresso sta ancora lavorando?". Renzi si limita a un “no comment” (interviene oggi) e alla battuta: “Credevo che si dicesse Giocondo non Joe Condor”. La Sereni, chiudendo, avverte che oggi si vota. Ma in realtà non c’è neanche il numero legale: presenti ieri circa 300 i delegati, ne servono 476. Commenta Paolo Gentiloni: “La questione è sempre la stessa. Stanno cercando di capire come far votare un po’ meno gente e come limitare il potere di Renzi nel partito”. Tradotto, è ancora tutto aperto, dalla tempistica dei segretari regionali (che dovrebbero essere eletti dopo quello nazionale, ma dopo quando?), alle modalità di voto, alla separazione tra segretario e candidato premier. I renziani si preparano a dare battaglia, anche se in pochi pensano che alla fine faranno saltare il tavolo. Il sottotesto è: “Tanto vinciamo comunque”. Matteo in serata va a Otto e mezzo. “Pare che abbiano deciso per l’8 dicembre. Era meglio prima, Basta che non sia Natale”. Alle domande risponde genericamente. Chi dovrebbe votare? “Tutti coloro che vogliono. Non ci dovrebbero essere restrizioni”. Notare il condizionale. Un film già visto, il finale si annuncia diverso.

FIGURE
SEGRETARIO E CANDIDATO PREMIER
I bersaniani le vogliono separare. I renziani chiedono che il segretario sia automaticamente candidato alle primarie per la premiership

TEMPI
I SEGRETARI REGIONALI
I renziani chiedevano che si eleggessero insieme ai segretari regionali, i bersaniani sono disposti a mediare per farlo dopo. Rottura sul quanto dopo

APERTURA
LA PLATEA DI CHI PUÒ VOTARE
I renziani vorrebbero che votassero tutti, come le altre volte. Ma tutto sta nel vedere le procedure di registrazione (e la quota) richieste

Corriere 21.9.13
Il labirinto prossimo venturo
di Ernesto Galli della Loggia


La gravità della crisi italiana non sta nell'inadeguatezza sia pur grave di questo o quel partito. Sta nella condizione di evidente provvisorietà che caratterizza l'intero sistema politico a causa della natura aleatoria e instabile di tutti i principali partiti. I cui retroterra culturali, alleanze, leadership e programmi, appaiono, potenzialmente in continua quasi incontrollabile evoluzione.
Lo si vede bene oggi quando con ogni probabilità ci stiamo avvicinando a una svolta della legislatura, dovuta al fatto che l'attuale «strana maggioranza» — sottoposta com'è alle tensioni prodotte da un lato dalla procedura di espulsione di Berlusconi dal Senato, e dall'altro dall'aggravamento dei conti pubblici, che rende sempre più insostenibile la contemporanea cancellazione dell'Imu e il mantenimento al 21 per cento dell'Iva — non sembra in grado di resistere ancora a lungo.
Ma se la crisi del governo Letta getterà il Pdl/Forza Italia nella più totale incertezza, in balia dell'altalena di ire e di resipiscenze di Berlusconi, dei suoi cambiamenti di umori e di progetti, anche il destino del Pd non lascia presagire prospettive molto rassicuranti.
Se Letta venisse costretto alle dimissioni in seguito al ritiro dei ministri della Destra, il cammino che si aprirà davanti ai Democratici sarà infatti tutto in salita. Esclusa l'ipotesi di elezioni anticipate, che Napolitano non vuole, o si aprirà la crisi ovvero il presidente del Consiglio tornerà alle Camere per cercare una nuova maggioranza. In entrambi i casi — essendo fuori gioco una riedizione delle «larghe intese», così come, auspicabilmente, di qualche pasticcio a base di «volenterosi» e transfughi di varia provenienza — il Pd dovrà rivolgersi a Sel e ai 5 Stelle. Come sei mesi fa: solo che questa volta è probabile che ci sia una spinta a concludere positivamente che allora invece fu assai minore o mancò del tutto, perché forse (sia pure molto forse) stavolta i grillini almeno un appoggio esterno finiranno per darlo.
Si aprirà però a questo punto, per il Pd, uno scenario tra i più scomodi: essere il cuore di una coalizione di governo tutta orientata a sinistra, prevedibilmente alle prese con continui fremiti movimentistici, esposta a sollecitazioni di tono e segno estremistico. Che non sarà davvero facile governare senza consumarsi in polemiche, ultimatum, scontri e armistizi, che verosimilmente renderanno la vita della coalizione stessa quanto mai precaria, povera di risultati apprezzabili (se non peggio: è facile immaginare quello che ne penseranno a Bruxelles o a Berlino), e destinata concludersi con nuove elezioni anticipate (diciamo entro la primavera del 2015).
Una competizione elettorale con la Destra e con il Centro che vedrebbe comunque i Democratici in una situazione scomodissima. E oltremodo contraddittoria. Nessuno, è vero, è oggi in grado di leggere nella sfera di cristallo delle vicende congressuali e delle relative lotte interne del Pd, ma che ne resterebbe del «partito a vocazione maggioritaria» dopo dieci mesi — un anno di governo Pd-Sel-5 Stelle? E che ne sarebbe a quel punto dell'immagine politica di Matteo Renzi, della sua credibilità e del suo appeal su settori elettorali non di sinistra, alla guida di un partito siffatto? In conclusione un semplice dubbio: già alla fine del 2011 il Partito democratico sbagliò clamorosamente a non chiedere le elezioni anticipate dopo la fine ingloriosa del governo Berlusconi; non capiterà che tra poche settimane sia destinato a ripetere il medesimo errore?

Corriere 21.9.13
Il gioco deli ultimatum tra gli alleati nemici
di Aldo Cazzullo


Renato Brunetta e Rosy Bindi, all’insaputa l’uno dell’altro, hanno detto la stessa cosa.
Con un governo di larghe intese, sarebbe del tutto normale. Purtroppo, il capogruppo alla Camera del Pdl e l’ex presidente del Pd si sono trovati d’accordo non nel sostenere, ma nel minacciare il governo. Letta cadrà se aumenta l’Iva e non difende Berlusconi, dice l’uno. Letta cadrà per colpa di Berlusconi, sostiene l’altra.
Ed è solo l'ultima coincidenza di una lunga serie. Che nuoce non solo all'esecutivo, ma al Paese. Sono ormai quasi due anni che l'Italia è retta da una maggioranza composta da destra e sinistra e fortemente voluta da un capo dello Stato apprezzato da larghissima parte dell'opinione pubblica e delle forze politiche, che non a caso l'hanno rieletto. Viviamo insomma una circostanza irripetibile, che mette in difficoltà gli apparati propagandistici di Pd e Pdl, a disagio con le rispettive basi elettorali, ma rappresenta anche una grande opportunità per fare riforme istituzionali ed economiche che i due schieramenti, quando sono stati al governo da soli, non sono riusciti a varare o a consolidare.
Finora questa occasione non è stata colta. A parte lo scossone iniziale, con la riforma delle pensioni e la discesa dello spread (ma anche un pesante inasprimento fiscale), il bilancio è magro. Continuiamo ad avere troppi parlamentari, troppo pagati, troppo lenti nelle decisioni, non scelti dagli elettori: un impasse che si può superare solo con un grande lavoro comune in Parlamento. La situazione delle imprese e del lavoro resta critica, e richiede un governo nel pieno delle sue funzioni.
Ma come può un esecutivo lavorare con profitto se ogni giorno i principali esponenti dei partiti che lo sostengono — da ultimo ieri il segretario pd Epifani — ne prevedono o ne minacciano la fine? Lo stillicidio delle profezie di sventura e degli ultimatum costringe Letta a una navigazione a vista, giorno per giorno: il contrario di quanto occorrerebbe in un momento drammatico della storia dell'Italia e dell'Europa, con una ripresa di là da venire e una grave crisi di autorevolezza della politica (in cui continua ad affondare il coltello il leader del partito più votato alle ultime elezioni, Beppe Grillo, che annuncia a un giornale tedesco che l'Italia dovrebbe «ristrutturare il debito»).
A fare la voce grossa è in particolare il Pdl. Ma in realtà — come confermano gli umori registrati ieri all'assemblea romana — sono soprattutto settori del Pd a volere la crisi. Berlusconi scatena ogni giorno i suoi estremisti, ma sa bene che la caduta di Letta non risolverebbe uno solo dei suoi problemi giudiziari, e ha tutte le convenienze a tenersi un esecutivo che non può fare nulla senza di lui. La tattica, già sperimentata con Monti, è far sopravvivere il governo prendendone le distanze sui provvedimenti impopolari. Invece il Pd, per quanti rinvii o bizantinismi possa inventarsi la nomen- klatura, sta per finire nelle mani di Renzi, che ha tutto l'interesse a votare prima possibile (Quirinale permettendo). All'evidenza, l'opportunità rappresentata dalle larghe intese non è eterna. La maggioranza è ancora in tempo a fare le riforme che rendano la politica meno costosa e più efficiente; il governo ha davanti una serie di urgenze, a cominciare dal taglio delle tasse sul lavoro senza ricadere nelle — costose — sanzioni europee. Ma non si può fare nulla senza che venga ripristinato un minimo di lealtà reciproca. Servirebbe una moratoria delle profezie e delle minacce. E l'abolizione di una frase — «staccare la spina» — di cui francamente non se ne può più.

Corriere 21.9.13
Sulla data non c’è rottura ma spunta l’ombra del premier
Dai bersaniani l’ipotesi che Letta possa correre per la leadership
di Maria Teresa Meli


ROMA — La verità, tanto per cambiare, la dice Matteo Orfini: «Se Renzi non accetta il Congresso l’otto dicembre, allora vuol dire che si scivola a febbraio. Infatti Bersani, Franceschini e Letta spingono per mandare le cose per le lunghe e se non c’è l’accordo ottengono il loro scopo».
E’ questo il motivo per cui il sindaco di Firenze, che avrebbe voluto le assise prima, che fino a una manciata di giorni fa, anche in Tv, ripeteva la data del 7 novembre, si accontenta della proposta di Epifani. Tra l’altro gli è venuta meno la sponda di Gianni Cuperlo. Se avessero resistito insieme avrebbero potuto insistere per tenere il Congresso il primo dello stesso mese, ma così non è stato. E ora Renzi spiega ai suoi: «Non rompo sulla data. E’ vero ci saranno meno persone alle primarie perché ci sono due giorni di festa, ma io da ora in poi voglio solo parlare di politica non di regole, di date...».
Insomma, il primo cittadino del capoluogo toscano non sprizza certo gioia da tutti i pori, ma accetta la data offertagli da Epifani perché teme che altrimenti i suoi avversari tentino di rinviare il tutto a chissà quando. E non solo i suoi avversari, perché anche chi ha pubblicamente detto di sostenerlo, poi, in commissione congressuale, ha dato istruzioni ai suoi di frenare sui tempi. Forse colpa del fatto che Renzi non ha nascosto tropo i suoi pensieri sui tanti che accorrevano in soccorso al presumibile vincitore: «Io non imbarco il vecchio, io questi li scarico tutti».
Ma il tentativo di mettere all’angolo Renzi, l’ultimo disperato sforzo per impedire che si impossessi del partito, non si è consumato esclusivamente nell’offensiva sulla data del Congresso. I bersaniani — e non solo loro a dire il vero — hanno minacciato di nuovo la possibilità che Enrico Letta possa contendere premiership e leadership a Renzi. E questa volta la loro minaccia è apparsa a tutti più concreta. Nessuno, infatti, nella sala che accoglie questa due giorni dei lavori dell’Assemblea nazionale del Pd, è disposto a scommettere sulla durata a oltranza di questo governo. Non dopo che Guglielmo Epifani dal palco ha annunciato che il Partito democratico, questa volta, non farà come fece con Monti, «non sosterrà da solo il governo per responsabilità».
Un orecchio attento come quello di Goffredo Bettini, mentre ascoltava il segretario, ha captato le novità di quel discorso: «Non collima con quello del governo». E, del resto, lo stesso Enrico Letta ormai continua a ripetere a tutti i suoi interlocutori nel Pd che lui non rimarrà a «oltranza», che non «farà la fine dell’ultimo Monti, lì a prendere botte da Berlusconi». Dunque nella sala dell’auditorium della Conciliazione gli esponenti del Pd non escludono che alla fine possa essere il premier stesso a rompere con il centrodestra, guadagnandosi a quel punto sul campo i galloni per candidarsi alla premiership.
Voci, dubbi, tensioni e paure avvolgono tutto l’universo del Partito democratico. Mentre Renzi parla con un fedelissimo di Letta, Francesco Sanna, per capire quali siano le vere intenzioni del premier (operazione che gli riesce impossibile, vista la ressa di giornalisti e fotografi), un altro candidato alla segreteria, Pippo Civati coltiva altri sospetti. Riguardano l’otto dicembre. Secondo lui non sarà nemmeno questa la data definitiva: «Vedrete — dice a qualche amico — che i cattolici chiederanno di spostare giorno, di non fare le assise all’Immacolata. E si scivolerà al 15...».
Strana assemblea, questa del Pd. Con la platea che rumoreggia e ridacchia quando parla Epifani. Con Walter Veltroni assente, perché a Rimini. E con Massimo D’Alema dato in partenza per New York, ma avvistato alla Camera giusto ieri da un ex deputato. Con un ex segretario, Pier Luigi Bersani, che non vuole mollare la presa. E con poco più di trecento delegati presenti, mentre a occupare le poltrone che sarebbero rimaste vuote ci hanno pensato i molti invitati.
In un’atmosfera surreale, in cui qualcuno invoca per il Pd la soluzione «Zabriskie Point», l’esplosione totale, persino i leader e i maggiorenti del partito sembrano coltivare solo incertezze. Tutti tranne uno dei grandi assenti. Ovvero sia D’Alema, che qualche giorno fa, in quel di Bruxelles, spiegava sicuro: «Andare a votare nel 2015? Ma no, noi per quella data abbiamo un importantissimo appuntamento internazionale, l’Expo, e non possiamo arrivarci in campagna elettorale o con una crisi di governo, quindi il governo andrà oltre...».

Corriere 21.9.13
Registrazioni e sondaggi. Berlusconi studia il sindaco di Firenze: non reggerà
Il leader pdl prepara la campagna elettorale: è solo un battutista, alla lunga stanca
di Francesco Verderami


Lo osserva, lo compulsa, lo vede e lo rivede nelle sue performance in tv. E naturalmente lo testa, in modo maniacale. Forse avrà commissionato più sondaggi lui su Renzi dello stesso Renzi. E sebbene il sindaco di Firenze svetti nei report di ogni istituto di ricerca, Berlusconi è convinto che non vincerà: «L'ho studiato, è solo un battutista che alla lunga stanca».
Sarà perché l’hanno preso per matto molte volte nel suo partito prima di doversi ricredere, sarà perché alla fine il capo è sempre il capo, ma nel Pdl in molti iniziano a credere all’ultima profezia del Cavaliere, secondo cui per Renzi il destino si è ribaltato, e al contrario di un anno fa stavolta trionferà nel Pd ma perderà nel Paese.
Forse servirebbe Esopo per raccontare questa conversione di Berlusconi, che pure era rimasto colpito dal giovanotto, capace di sbaragliare nella sua città il potente apparato della «ditta» e conquistare la poltrona di palazzo Vecchio. In effetti un principio di infatuazione ci fu, lo riconosce il Cavaliere, ricostruendo la storia del famoso pranzo di Arcore con l’esponente democratico: «Lo volli incontrare perché mi aveva incuriosito, e pensavo potesse essere una persona su cui investire. Scoprii invece che era solo un ambizioso». O forse l’uva era posta troppo in alto, se è vero che — subito dopo la vittoria di Bersani alle primarie del Pd — il leader del centrodestra disse che «la porta per Matteo è sempre aperta».
Di certo la versione dell’appuntamento offerta da Berlusconi è diversa da quella che a suo tempo fornì Renzi, crocifisso per anni dai suoi stessi compagni di partito per il rendez vous riservato con «il nemico», che pure a maggio gli sbarrò la strada per palazzo Chigi, preferendogli Enrico Letta per le larghe intese. E ora che il governo inizia a vacillare, e tutti si tengono pronti in vista eventualmente delle urne, l’ex premier è tornato ad applicarsi sul rottamatore che promette di asfaltare il centrodestra e intanto cerca di asfaltare i suoi rivali nel Pd.
Renzi è più di una minaccia, è un pericolo, il timore nelle file dei berlusconiani è che davvero riesca a sfondare nel loro territorio. E chissà se Berlusconi dissimuli per nascondere la sua preoccupazione, visto che persino Signorini — potente direttore del mondadoriano Chi — si è invaghito del sindaco di Firenze. In pubblico, cioè nelle riunioni riservate, il Cavaliere invita però alla calma, perché — a suo dire — «per ogni voto che Renzi cercherà di prendere al centrodestra ne perderà due a sinistra». La sua tesi sarà il frutto dei sondaggi, magari confortati da una chiacchierata con D’Alema, comunque il capo del Pdl ritiene di essere nel giusto.
La sua analisi si fonda sul fiuto ma anche — così dice — sui numeri, parte dal presupposto che il potenziale candidato premier sia vissuto nella pubblica opinione come una personalità divisiva, «anche nel suo stesso campo», e che la campagna elettorale — quando sarà — lo costringerà a muoversi nel recinto retorico della sinistra, vincolato dalla base e dalle strutture che sono la cinghia di trasmissione del consenso democratico. A quel punto — secondo Berlusconi — Renzi dovrà scegliere se indossare il giubbotto di Fonzie o la tuta di Cipputi. La cosa curiosa è che ne parla e si comporta come dovesse essere ancora lui a sfidare l’avversario, un dettaglio che non è sfuggito ad alcuni dirigenti del Pdl, preoccupati che i falchi si trasformino in sirene e lo convincano di potersi ancora presentare all’appuntamento delle urne.
Non è dato sapere se davvero il Cavaliere coltivi questa idea, sicuramente non sottovaluta il competitore, tanto da avere portato avanti un piano in gran segreto, per porre un argine al tentativo di invasione del suo campo. Così, oltre alle centinaia di pagine che fotografano Renzi e il suo rapporto con gli italiani, Berlusconi sta facendo testare una serie di personalità esterne alla politica, da lanciare quando verrà il momento delle urne, così da dimostrare che il centrodestra non è solo composto dall’apparato di partito, ed è capace di attrarre i famosi «uomini del fare».
Nel frattempo tiene Renzi nel mirino, e ripete che «è solo un battutista». Chissà se in cuor suo teme di dover assaggiare l’uva e di scoprirne il sapore aspro della sconfitta. Per ora osserva le mosse del Pd, il modo scomposto con cui si approssima al congresso, e che — secondo i suoi amatissimi sondaggi — sta dando agli elettori l’impressione di un partito dove si litiga per spartirsi un bottino che si ritiene già dato per scontato, come se stessero già apparecchiando il pranzo per palazzo Chigi. Dimentica le risse nel suo partito Berlusconi, che è stato costretto a parlare (anche) per non far sentire i piatti che si rompono nel retrobottega del Pdl.

Corriere 21.9.13
«Pd e Pdl, lo scarto è inferiore a un punto»

Cala la fiducia degli italiani nel governo Letta, un crollo di 4 punti rispetto alla scorsa settimana (il dato ora è al 25%). A rivelarlo è un sondaggio Swg per la trasmissione di Rai3 «Agorà»: la causa della flessione sarebbe da individuare nel rischio di una crisi di governo. Nelle intenzioni di voto degli italiani, invece, risale il Pd (al 28,5%), che supera il Pdl. Il partito di Silvio Berlusconi ha una lieve flessione (-0,3%), fermandosi al 27,7%, a meno di un punto dai democratici. Perde oltre due punti il Movimento 5 Stelle (-2,2%), che scivola sotto la soglia del 20% (18,3%). Secondo il 40 percento degli italiani, in caso di voto anticipato, Matteo Renzi non riuscirebbe nel tentativo di «asfaltare» Berlusconi, tuttavia per quasi la metà degli elettori (49%) il sindaco di Firenze riuscirebbe ad asfaltare Beppe Grillo.

La Stampa 21.9.13
Domani si aprono le urne
Sondaggi, ancora in calo verdi e liberali la Linke punta a diventare terzo partito
Gregor Gysi Nato nella Ddr, avvocato 65 anni è una delle figure di punta della Linke


Stamane Angela Merkel terrà il suo comizio di chiusura della campagna elettorale, ma a giudicare dagli ultimi interventi è difficile che ne scaturiscano sconvolgenti novità. Negli ultimi sondaggi diffusi ieri, una giornata dominata dai numerosi appelli ad andare a votare, a partire da quello formulato dal presidente della Repubblica Joachim Gauck, il suo partito è dato al 39,5%. I liberali, secondo le indagini più recenti (Allensbach) raggiungerebbero il 5,5%: abbastanza per continuare a stare in Parlamento, non abbastanza per confermare la coalizione di governo uscente. Sempre secondo il sondaggio, l’alleanza rivale tra Spd (27%) e Verdi (9%) non raggiungerebbe il 36%, contando anche la Linke (9%) si arriverebbe al 45%. Ed è proprio in quest’ultimo dato che si nasconde il secondo possibile effetto a sorpresa nel voto di domenica.
Del primo si è parlato molto nei giorni scorsi: è il possibile ingresso al Bundestag del partito anti-euro AfD: nell’indagine Allensbach di ieri era dato al di sotto della soglia di sbarramento, al 4%, ma alcuni sondaggi lo hanno issato oltre, al 5%. Il secondo effetto inatteso di una campagna elettorale che si è animata solo nell’ultima settimana, sull’onda della batosta dei liberali e del trionfo della Csu alle elezioni in Baviera, ma anche dello scandalo pedofilia che ha travolto i Verdi, potrebbe essere lo storico sorpasso della Linke. Il sondaggio Allensbach li dà testa a testa, al 9%, ma qualcuno scommette che dalle urne potrebbe uscire una sonora sconfitta per i Grünen e un risultato che premi il partito della sinistra radicale, facendolo diventare il terzo partito del Bundestag. Ma intanto, infastidito dalla mania dei sondaggi, che per la prima volta non si fermerà neanche la domenica del voto, il presidente del Bundestag Lammert ha detto che «il rischio è quello di scambiare i risultati delle indagini con quelle delle urne».

La Stampa 21.9.13
Twitter nel mirino
Turchia il pianista Say condannato per blasfemia
di Marta Ottaviani


La Turchia punisce ancora il pianista di fama internazionale, Fazil Say. Ieri il tribunale di Istanbul ha condannato per la seconda volta il musicista per blasfemia a 10 mesi di carcere. Say aveva ricevuto una sentenza identica nel il primo processo che lo aveva visto imputato per lo stesso reato lo scorso maggio. I suoi avvocati avevano però ottenuto che il processo fosse annullato e venisse rifatto. Ieri, inesorabile, il verdetto.
L’artista paga per aver inviato tramite Twitter nell’aprile dello scorso anno alcuni commenti che hanno urtato la sensibilità degli utenti più conservatori della rete. In realtà Say ha semplicemente retwittato i versi del poeta Omar Khayyam postati da un suo follower, ma questo non ha alleggerito la sua posizione.
In uno di questi messaggi si ironizzava su un richiamo alla preghiera islamica durato solo 22 secondi, dicendo che forse il muezzin lo aveva accorciato per tornare dalla sua donna o ad una bottiglia di liquore. In un altro, quello che ha provocato le ire di chi lo ha denunciato, ci si chiedeva se il paradiso descritto da alcune interpretazioni più moderate del Corano, con fiumi di vino e vergini, fosse un bar o un bordello.
Noto per il suo orientamento laico e l’opposizione al governo di Erdogan, Say aveva dichiarato che non aveva mai avuto intenzione di offendere nessuno. Il musicista non andrà in carcere in quanto incensurato, ma la sua condanna ha avuto un’eco enorme nel Paese. Non solo. La condanna per un utilizzo improprio di Twitter solleva nuovi dubbi sulla libertà di espressione nella Mezzaluna, da tempo sotto la lente di ingrandimento di Bruxelles.

Corriere 21.9.13
La «jihad del sesso» Prostituirsi in Siria nel nome di Allah
Il dramma delle «volontarie» tunisine
di Francesco Battistini

Jihad al-nikah
‘‘L’espressione significa «guerra santa del sesso» e indica il «matrimonio jihadista»: un’unione con i combattenti islamici che può durare poche ore e che nasconde stupri e prostituzione. Donne dai 14 anni in su sono chiamate, in nome della fede, a dare piacere ai jihadisti e a prolungare la loro stirpe

Sei, le hanno trovate l’altro giorno. Rinchiuse nel bordello d’una periferia siriana, al Kassir. Per terra i materassi, i preservativi e le scatole di viagra, la biancheria e lo squallore. Sul pianerottolo, il viavai di tanti aspiranti martiri che in attesa di premiarsi con le vergini del paradiso, tra una battaglia e l’altra, si consolavano con le schiave tunisine. Due sono incinte. Chissà di chi. Gli hezbollah le hanno consegnate ai soldati di Assad. I soldati le hanno interrogate. «La nostra missione qui è nel nome della jihad al-nikah», hanno risposto le ragazze: la guerra santa del sesso consigliata da qualche imam salafita, prestare il corpo ai miliziani in Siria per garantirsi la salvezza eterna. Qualcuna piangeva, però. E chiedeva di tornare a casa. «Chiederemo a Damasco di ridarcele — ha detto ieri il ministro dell’Interno di Tunisi, Lofti Ben Jeddou, esponente della maggioranza islamista di Ennahda, davanti a un Parlamento ammutolito —. Molte di loro hanno avuto rapporti sessuali anche con venti, trenta, cento mujaheddin. È una vergogna che va avanti da mesi. E noi restiamo in silenzio, senza fare nulla».
Tornano. Non sono più sole: avranno un bambino da crescere. Sono solissime: nel Maghreb rurale, nei villaggi del Sud tunisino, una madre senza uomo è solo una prostituta. Le jihadiste del sesso stanno diventando una piaga in Tunisia, il Paese che offre più volontari alla guerra contro Assad: il 40 per cento dei guerrieri di Allah viene da qui, la scorsa primavera il governo ha bloccato seimila giovani pronti a morire per la Siria, come tanti già fecero per l’Afghanistan e l’Iraq. I maschi in cerca di gloria sono in genere sotto i 35 anni, biglietto di sola andata, via Libia o Turchia: secondo un rapporto Onu, pagati con soldi del Qatar. Famose in Tunisia le immagini, riprese dalla telecamera dell’aeroporto d’Istanbul, d’una moglie che al «gate» supplicava il marito fondamentalista di non imbarcarsi per Damasco. Lo scorso giugno, è partito pure un viaggio della speranza: avvocati e familiari in volo per la Siria e per convincere i ragazzi a ripensarci.
La macchina della jihad è ben oliata. Il reclutatore tunisino, Abu Jihad, è un veterano dell’Afghanistan che combatteva coi talebani già prima dell’ 11settembre. Finora, però, organizzava comitive perlopiù maschili. Da febbraio, dopo una fatwa attribuita allo sceicco saudita Mohamed al-Arifi che invitava le giovani tunisine a partire pure loro (non per combattere, ma per allietare le ore dei valorosi jihadisti), qualcosa è cambiato. L’Islam prevede che sia solo il padre a trasmettere la religione: su questa base, i predicatori convincono ragazze di famiglie povere, minorenni e spesso analfabete, che sia giusto rischiare anche gravidanze indesiderate. «Molti di loro — spiega Al Hadi Yahmad, esperto di gruppi islamici nordafricani — hanno spinto donne anche siriane a sposare i miliziani per qualche ora: all’uomo è concesso di consumare, prima di ripudiarle». E così, quella che all’inizio sembrava una leggenda, viene ora confermata (per la prima volta in maniera così dettagliata) dai vertici di Ennahda, dai dossier su tredici prostitute bambine che avrebbero raccontato la loro esperienza al fronte, da siti e tv. Spunta la testimonianza d’un marito costretto al divorzio, dopo l’improvviso addio della giovane moglie partita per la guerra. E gira in replica continua quella dei genitori di un’adolescente di 17 anni, Rahmahat.
Lei è tornata e loro sono felici, dicono. Poi tacciono un attimo. E aggiungono: «Non la riconosciamo più».

Corriere 21.9.13
«Noi, donne arabe vittime dell'integralismo Ma la falsa cultura di Internet non ci aiuta»
di Cecilia Zecchinelli


Rita El Khayat è nota per molti motivi nel suo Marocco, dove è nata nel 1944 e ancora vive e lavora «tra un viaggio e l'altro», e nel mondo. Psichiatra, antropologa, giornalista, docente (anche a Milano), poliglotta ed esperta di arte e letteratura, è autrice di 38 libri tradotti in varie lingue, dal celebre Le monde arabe au féminin del 1985 alle raccolte di poesie e ai saggi sulla follia, fino al primo romanzo erotico arabo al femminile, La liason, pubblicato con pseudonimo vent'anni fa. A cui si aggiunge la Lettera di una donna a un giovane monarca, scritta nel 1999 al neo-incoronato Mohammed VI, in cui da suddita raccomandava al suo re (anche questa una novità) il bene dei marocchini e ancor più delle marocchine. El Khayat è infatti conosciuta soprattutto per il suo impegno costante ed energico sul fronte dei diritti sociali, quelli delle donne arabe in testa. «Sono femminista, certo, tutte le donne normali lo sono dato che non godono ancora dei loro diritti», precisa al telefono da Casablanca. «E questo è vero non solo nel mondo arabo, la questione è globale». Infatti, anticipa El Khayat, a Torino Spiritualità, dove il 25 settembre aprirà i lavori dedicati quest'anno al «valore della scelta», non parlerà di arabi e arabe. «E nemmeno di Siria: ma di spiritualità, di amore e di pace. Temi forse utopistici. Ma io non mi arrendo, riguardano tutti: come psichiatra ho trattato migliaia di casi, di ogni fede e Paese. Per tutti la scelta deve essere la stessa: la pace». Non a caso, dal 2008, El Khayat è candidata al Nobel per la Pace. «Lo stesso — precisa — già assegnato a Obama che ora vuole aggiungere in Siria nuovi morti ai già tanti causati da Assad».
Eppure, parlando di scelte, in Occidente molti pensano che l'Islam non ne offra molte ai suoi fedeli, in particolare alle donne. A Torino forse aspettano che lei parli di questo.
«I tre monoteismi, se presi alla lettera, sono uguali. Prima delle riforme anche l'ebraismo e il cristianesimo davano un ruolo inferiore alla donna. E nel mondo islamico, cosa che molti in Occidente ignorano, tra il 1910 e il 1960 c'è stata una rivoluzione modernista a livello di pensiero e riforme sociali. Il problema è che negli ultimi decenni c'è stata una regressione in tutto il mondo. Il livello dell'istruzione pubblica è crollato, l'arte è commerciale e i media violenti, trionfano la mediocrità e il consumismo. Preferivo quando un vestito durava 10 anni ai continui acquisti di abiti confezionati magari da "schiavi", come le 3 mila lavoratrici morte in una fabbrica in Bangladesh».
Lei però ha spesso denunciato la particolare regressione dei Paesi musulmani.
«Certo, le società musulmane sono partite da lontano ed è più facile ora che regrediscano velocemente, che emerga l'islamismo integralista. Siamo stati colonizzati dalle Filippine al Marocco. Io stessa alle elementari a Rabat non sono stata curata per la scogliosi a differenza delle mie compagne francesi perché ero solo una "piccola araba", e ne soffro ancora. Ma oggi la vera piaga del mondo arabo è l'analfabetismo. Siamo gli ultimi al mondo dopo l'Africa, che però si muove in fretta, e le donne sono 3 volte più analfabete degli uomini. Perfino votare così non ha senso, sono voti comprati o suggeriti da altri. Finché tutti, e tutte, non saranno istruiti e potranno accedere alla giustizia non saremo mai come gli altri Paesi».
E le Primavere arabe? La rivoluzione di Facebook?
«Le Primavere sono un'invenzione dell'Occidente che non capisce niente del mondo arabo. Ce ne sono state altre, ignorate: tra i berberi 40 anni fa, in Algeria. Se nel 2011 i regimi sono caduti è perché erano malati, marci. E la cultura di Internet è basata sul nulla, dietro non ha un pensiero forte, una struttura. L'ho detto anche a una nota blogger di Tunisi in una conferenza: battere frasi sgrammaticate sulla tastiera non basta, passare dall'analfabetismo a Facebook non serve. Si deve approfondire il pensiero, discutere, lavorare sul serio».
Eppure, anche tra le arabe, molte voci libere sono emerse.
«Certo, abbiamo perfino l'egiziana Magda che appare nuda su Internet o la Femen tunisina a seno scoperto. Come abbiamo la Miss Mondo musulmana, totalmente velata. Ma tra questi due estremi, che esistono anche altrove come è normale, c'è tutto il resto della società. Quelli che io definisco i Nip, Non Important Person, antitesi dei Vip. È a loro che penso quando parlo di scelte, di pace, di giustizia. Ci vorrà tempo, 10 o forse 20 anni, perché l'intero mondo si risollevi da questa fase negativa e il diktat culturale e politico degli americani finisca. Ma sono fiduciosa. Anche per la società araba: da medico, penso che stia soffrendo di una febbre adolescenziale. Non è ancora pronta, ma vuole crescere in fretta».

l’Unità 21.9.13
L’anniversario
In ricordo di Laura
Oggi a Roma un convegno sull’opera in carcere di Lombardo Radice
di Stefano Anastasia


A cento anni dalla nascita la Casa internazionale delle donne ricorda il suo impegno a Rebibbia come volontaria appassionata.
«Insegnare in carcere? scrisse è una splendida sofferta attività di autoeducazione»

«FATE TUTTI PRESTO, PRESTO». COSÌ LAURA LOMBARDO RADICE CHIUDEVA LA SUA LETTERA APERTA INDIRIZZATA AL DIRETTORE GENERALE DEGLI ISTITUTI DI PENA, Nicolò Amato, dalle colonne de La Repubblica nel giorno di ferragosto di ventisette anni fa. «Il mio amico – e tanti altri come lui – non possono più aspettare, e anche la civiltà della democrazia non può più aspettare».
Neanche due mesi e in Gazzetta ufficiale sarebbe arrivata la legge che prese il nome di Mario Gozzini, quel caparbio senatore della Sinistra indipendente che volle riprendere l’accidentata strada della decarcerizzazione dopo gli anni dell’emergenza anti-terrorismo. Fecero presto, ma durò poco. Qualche anno e saremmo finiti nel precipizio da cui non riusciamo a uscire, di quel sovraffollamento carcerario che soffoca la dignità dei detenuti e del nostro Paese.
«Fate tutti presto, presto», dovremmo tornare a dire con Laura, che a molti di noi, molti anni fa, insegnò l’utilità del volontariato in carcere, l’importanza di «lavorare con gli invisibili», come si intitola la giornata che la Conferenza del volontariato della giustizia, Antigone, Arci solidarietà e Ora d’aria hanno voluto dedicarle nel centenario della nascita, oggi, 21 settembre, alla Casa internazionale delle donne di Roma. Laura conosce il carcere prima della guerra, quando il fratello Lucio e l’amico Aldo Natoli – giovani cospiratori antifascisti vengono arrestati e portati a Regina Coeli. Scopre così «quell’altra città» che si affollava in vicolo della Penitenza, nella consegna dei pacchi e delle lettere ai familiari incarcerati: «Una folla multiforme, inquieta, spesso grama, che noi non avevamo mai visto nella sua molteplice composizione». Uomini e donne semplici cui dedicherà il suo impegno politico e di insegnante nei quarant’anni seguenti, fin quando – accidentalmente – torna in carcere, nei primi anni Ottanta, per assistere a una rappresentazione dell’Antigone di Sofocle. Ne viene folgorata, ci trascina anche il compagno di una vita, il marito Pietro Ingrao. Inizia lì, per Laura ormai in pensione, l’impegno da insegnante volontaria a Rebibbia: «Uno straordinario mezzo per scoprire se stessi». «Si disilluda chi crede che insegnare in carcere sia una bellissima attività caritativa» – scriverà su Paese sera – «è invece una splendida, sofferta, attività di autoeducazione».
«Fate tutti presto, presto», torniamo a dire con Laura, sospesi sul baratro della prossima sanzione dell’indecoroso stato delle nostre prigioni: solo un anno di tempo ci ha dato la Corte europea dei diritti umani perché si ponga fine allo scandalo delle condizioni di vita cui costringiamo decine di migliaia di detenuti. A nulla sono valsi, finora, i ripetuti moniti del Presidente Napolitano e giustamente, da più parti, si invoca un provvedimento di amnistia-indulto che possa dare respiro alle nostre carceri e ai loro ospiti coatti. Molto ci aiuterebbero alcuni dei referendum radicali e le proposte di legge di iniziativa popolare avanzate dall’associazionismo. Tutte cose da fare e da fare presto. Ma non c’è riforma che possa cambiare durevolmente le cose se non c’è partecipazione e se non c’è condivisione, se quelli di fuori non scoprono «quell’altra città» che si affolla, oggi come allora, in vicolo della Penitenza.
Ecco il senso di un incontro sul volontariato in carcere oggi, a (quasi) trent’anni dalla legge Gozzini e dalle speranze che essa animò in persone come Laura Lombardo Radice e in tanti operatori penitenziari, per nulla convinti che la giustizia debba necessariamente coincidere con l’inflizione di una sofferenza, che la pena non possa fare a meno del carcere, che il carcere debba sempre assomigliare a se stesso.

Lavorare con gli invisibili

Dalle 10 alle 13 e 30, oggi, alla Casa internazionale delle donne, si ricorda Laura Lombardo Radice, in particolare a proposito dell’impegno da lei profuso, negli ultimi anni della sua vita, nel carcere romano di Rebibbia. A organizzare l’incontro sono la Conferenza del volontariato della giustizia, Antigone, Arci solidarietà e Ora d’aria.
Educatrice per vocazione, Laura era già andata in pensione dalla scuola. Si inizia con un video: «Antigone in carcere», 1984, segue la figlia Chiara che ne farà un «ritratto» e la lettura di testi della stessa Laura sulle sue esperienze del carcere, quello di Regina Coeli, dove fu rinchiuso il fratello Lucio, e quello di Rebibbia, dove si è impegnata, oltre che all’incontro con i reclusi, per l’approvazione e l’applicazione della legge Gozzini. Poi gli interventi di chi ha lavorato con lei ed è tuttora impegnato alla realizzazione degli obiettivi di reinserimento nella società che, nel nostro sistema giuridico, dovrebbe essere l’obiettivo della pena.
Alessandro Margara parlerà della «riforma del 1975 e la legge Gozzini», ci saranno le testimonianze di Salvatore Buzzi, Germana Vetere, Sergio Creglia, Angiolo Marroni, Carmen Bertolazzi, Simonetta Matone.
L’intervento di Nicolò Amato si intitola «Un carcere senza chiavi». Edoardo Albinati, scrittore e professore a Rebibbia interviene su: «Studiare (e insegnare) in carcere,ieri e oggi», Stefano Anastasia: «Dalla Gozzini a oggi, cosa è cambiato». Elisabetta Laganà: «Il volontariato in carcere». Coordinano: Assunta Borzacchiello e Sergio Giovagnoli.

Corriere 21.9.13
L'irrinunciabile coraggio di dare un senso alla vita
I giovani, Giobbe e l'esigenza che ci porta al futuro
di Carlo Sini


Sembra che una minaccia del nostro tempo, che specialmente si riscontra tra i più giovani, sia la mancanza di passioni e il diffondersi dell'indifferenza. Tutto è oggi troppo semplice, da un lato; dall'altro è incredibilmente complesso. I giovani in particolare hanno tutto e non hanno niente. Dispongono di cose, occasioni e libertà che gli anziani, nel tempo loro, non avevano: ma si tratta di una ricchezza più apparente che reale; qualcosa che si lega all'universo dei consumatori e alla logica delle merci e del mercato. Se invece si fa sul serio, ai giovani quasi nulla è davvero richiesto e offerto: non si sa quasi che farsene di loro, quando in gioco è il lavoro e la realizzazione di una vita. Nessuna meraviglia allora se, come si dice, non sanno scegliere: gli studi, il lavoro, le compagnie, le amicizie, gli amori, persino gli svaghi: vanno a rimorchio del caso e delle mode più superficiali. Privati del futuro, vivono alla giornata. Perciò riflettere oggi sul valore della scelta è una questione essenziale. E forse, ancor prima, è importante riflettere sulla scelta come tale: come accade la scelta? Che cosa davvero la promuove?
Assegnare il peso e la responsabilità della scelta unicamente al soggetto individuale e alla sua buona o cattiva volontà è sicuramente inadeguato e anche ingiusto. Prima di scegliere, infatti, in certo modo si è scelti. Nessuno può scegliere ciò che è del tutto assente o del tutto lontano dalle sue possibilità e dalle sue esperienze concrete. Qui c'è una responsabilità eminentemente «economica» da parte della società, in quanto a pochi è in generale offerto molto e a molti pochissimo; per esempio l'accesso reale alle esperienze della grande cultura. E poi nessuno può scegliere se non avverte una forte tensione intorno a sé rivolta alla approvazione di certe scelte rispetto ad altre; per esempio un giudizio collettivo che avvalora, non solo a parole, la dedizione e la passione per finalità socialmente nobili, generose e costruttive. Qui si rivela una responsabilità eminentemente «morale» della società: dalle famiglie alla scuola e al mondo dell'informazione, che troppo spesso esalta e privilegia, anche solo come degni di notizia, i comportamenti più spregiudicati ed egoistici. Quindi non basta scegliere: ci vogliono condizioni che, quanto meno, invitino alla scelta e promuovano e premino certe scelte rispetto ad altre.
Però la scelta come momento individuale resta indubbiamente importante. Dal celebre libro di Giobbe, che tante riflessioni ha ispirato, ricavare una lezione significativa è forse possibile. Di fronte alle immeritate sventure Giobbe, come fanno tutti e per esempio i suoi amici, è tentato di ricavare da esse un giudizio: che non c'è giustizia nel mondo, che non c'è senso nelle azioni buone e nella vita e che se un Dio c'è, il suo comportamento è incomprensibile, dal momento che i giusti e gli ingiusti sono ugualmente sottoposti ai mali del mondo e ai beni della fortuna, senza provvidenza alcuna rispetto ai più meritevoli. Giobbe però, proprio nel suo lamentarsi, non perde l'esigenza di un senso e la speranza che una scelta che lo avvalori sia infine vincente. La sua lezione si potrebbe rendere con una sentenza alla William James. Essa insegna che la volontà di credere nella esistenza di un senso della vita e della mia vita è un fattore del suo avverarsi: un fattore non secondario, anzi decisivo e irrinunciabile. Perciò è opportuno non perdere il coraggio, proprio quel coraggio che oggi sembra far difetto: il coraggio di scegliere e di lasciarsi scegliere da ciò che una volta ci ha toccato, che ha suscitato una luce e una speranza, il senso di una possibilità sia pur remota e problematica; il coraggio di tentare anche contro le apparenze più avverse e scoraggianti. La realtà in cui viviamo non è già fatta senza di noi; se noi siamo in una certa misura fatti da essa, anche però la facciamo, perché senza la nostra azione, senza la nostra scelta o il rifiuto di scegliere, non avrà il futuro che avrà. Almeno questo dipende da noi.

il territorio più spinoso, oggi, è quello dell'identità
Corriere 21.9.13
Imparare scegliere
Tra religione, amore e vita sociale
L'identità mobile dell'uomo di oggi che fatica a prendere una direzione tra vecchie regole e nuove libertà
di Roberta Scorranese


«Meaning», ossia «Significato». È la parola che campeggiava, a grandi scritte al muro, in una celebre serie di installazioni (anni Sessanta) dell'artista americano Joseph Kosuth. Niente forma, niente significato: l'opera d'arte è il significante ed è l'occhio dello spettatore a darle il senso. In pratica: a scegliere che cosa vederci. La serie condensa una delle arterie vitali del pensiero novecentesco: la scelta, il libero arbitrio. Un tema complesso che attraversa la nona edizione di Torino Spiritualità, dal 25 al 29 settembre.
Cinque giorni di incontri, spettacoli e lezioni su quello che Georges Perec chiamava «il problema di scegliere, il problema di tutta la vita». E Antonella Parigi, direttrice del Circolo dei Lettori e della rassegna, chiarisce: «Come sempre, diamo voce a una spiritualità laica: si va dalla discussione filosofica al confronto interreligioso». Proprio mentre sta per finire un anno storico per la Chiesa cattolica, segnato dalla scelta di un papa che, melvillianamente, ha detto «preferirei di no». Ratzinger ha incrociato laicismo e confessionalità, sfiorando Aristotele, che non parlava di «scelta», bensì di «proairesis», «preferenza»: intendeva che, sì, siamo liberi ma le possibilità sono determinate.
E il ventaglio delle possibilità religiose si moltiplica e si interseca con altre visioni: «Elias Chacour, arcivescovo della più grande comunità israelo-palestinese — spiega Parigi — inaugurerà l'edizione, insieme con la scrittrice turca Esmahan Aykol, (teorica del movimento di piazza Taksim, ndr) e la psichiatra marocchina Rita El Khayat, studiosa della condizione femminile nel mondo islamico; abbiamo l'intellettuale di origine egiziana Tariq Ramadan e il priore di Bose, Enzo Bianchi». Ci sarà anche un'altra, potente, voce della nostra ricerca teoretica, Luisa Muraro, che chiosa con acume: «Il punto è questo: che scelta ci può essere in un tempo in cui tutto sembra possibile, ma quasi nulla lo è?». È forse l'infinita gamma delle possibilità ad annullare la forza dell'arbitrio? E come fare per ristabilire quell'«autorità simbolica» (come la chiama Muraro) e laica, che orienti le scelte, dia loro nerbo?
Anche in amore (ne discuterà il filosofo Vito Mancuso). Perché nella capitalizzazione dei sentimenti il libero arbitrio assume un valore fondante. Così come nelle disposizioni sulla salute: scegliere di non vivere più perché la sofferenza schiaccia il valore della vita è lecito o è un atto di «hybris», superbia? Scegliere di interrompere un processo vitale con l'aborto è una conquista o una battaglia di retroguardia? «Temi altissimi — commenta Parigi — che affrontiamo con lezioni e passeggiate spirituali ma anche con l'arte». Spettacoli teatrali, per esempio: gli «Esercizi di stile» di Queneau e le Variazioni Goldberg di Bach (tra le maggiori «scelte» stilistiche mai compiute) si incontrano in un concerto spettacolo con Filippo Timi e Ramin Bahrami. «L'étranger», reading con Fabrizio Gifuni, riflette sul tema dell'altro e dell'incontro (ogni incontro è una scelta, come ci hanno insegnato narratori quali Proust e Balzac).
Ma forse il territorio più spinoso, oggi, è quello dell'identità. Siamo davvero la persona che abbiamo scelto di essere? Ne parla la filosofa ungherese Agnes Heller, una che, sopravvissuta all'Olocausto, ha radicalizzato la teoria dello scontro tra soggettività e potere. Il tema è attualissimo. Lo si può estendere, metaforicamente, fino a farlo sconfinare nella cronaca: quanto è giusto che, a dettare legge nella politica economica di un Paese, sia un organismo sovranazionale, limitando la scelta dei singoli individui? Ne parleranno, nei Percorsi Esperienziali, anche personaggi come Matthew Fox, l'ex frate domenicano espulso dall'ordine nel 1993 per aver scritto un libro («In principio era la gioia») con accenni paganeggianti. E, nell'atteso ciclo di lezioni, ne discuteranno studiosi come Recalcati, Torralba e altri, in conversazioni su Giobbe.
La scelta, insomma, si evolve. Lontana dall'allegoria limpida di Annibale Carracci, che aveva rappresentato Ercole al bivio tra Vizio e Virtù. Oggi vizi e virtù si attraversano a vicenda e si interrogano come in uno specchio. Il libero arbitrio cresce e supera se stesso, arrivando a paradossi della vita contemporanea, in cui, per esempio, da un lato ci si lamenta per la scarsità di privacy e, dall'altro, si regala la propria immagine (con il suo patrimonio emotivo) ai social network. «Io non so più parlare», scriveva Rimbaud. Oggi scriverebbe «Io non so più scegliere»?

Corriere 21.9.13
Le regole per lo stress «buono» che allunga la vita delle cellule
Gli studi degli Usa: la fatica è salutare se si crede in quel che si fa
di Mario Pappagallo


VENEZIA — Stress positivo e stress negativo. Non solo geni, non solo organi e cellule, ma anche mente e psiche. Le espressioni del cervello non solo in chiave biologica. Tutti elementi che, interagendo, giocano un ruolo fondamentale nella ricerca dei segreti della longevità. In realtà ancora ignoti, come se una nebbia avvolgesse gli scienziati alla ricerca dell'elisir di lunga vita. I numeri uno tra questi esploratori si sono confrontati a Venezia dove è in corso la nona Conferenza mondiale The Future of Science, tradizionale appuntamento organizzato dalla Fondazione Umberto Veronesi, la Fondazione Giorgio Cini e la Fondazione Silvio Tronchetti Provera. Ogni anno cambia il tema, i «Segreti della longevità» è quello dell'edizione 2013.
Sala Arazzi della Fondazione Cini, isola di San Giorgio Maggiore, ventisette relatori tra ricercatori biomolecolari, biologi, psicologi, neuroscienziati, antropologi, evoluzionisti, nutrizionisti, sociologi, demografi, economisti. Tanti giovani presenti, forse coinvolti dal tema di scoprire come restare giovani anche quando l'anagrafe dirà il contrario. Unico assente l'ideatore Umberto Veronesi. Lui avrebbe potuto dire molto in materia, ma è stato bloccato a Milano dai postumi di un piccolo intervento a tre vertebre.
Hanno aperto i lavori Giovanni Bazoli, presidente Fondazione Cini, Marco Tronchetti Provera, presidente Fondazione Silvio Tronchetti Provera, Kathleen Kennedy Townsend, vicepresidente The Future of Science, Chiara Tonelli, professore di Genetica dell'università degli studi di Milano.
La lettura magistrale è stata affidata a Howard Friedman, psicologo dell'università della California a Riverside. Perché la chiave psicologica? Perché resta ancora la più oscura. Un esempio, tra i tanti, emerge dalla relazione del Nobel Elisabeth Blackburn che sottolinea come una gestante stressata (un lutto o una perdita di lavoro legata alla maternità, per esempio) mette al mondo un figlio con un'aspettativa di vita più bassa. I telomeri dei cromosomi — il patrimonio genetico che si trasmette nella replicazione cellulare — del nascituro sono più corti e oggi è noto che la lunghezza di questa componente cellulare è sinonimo di una vita più o meno lunga. Il telomero ripara i danni cellulari: se i danni sono riparati non ci sono malattie. E il 20 per cento degli ultracentenari muore di «vecchiaia», non di malattia.
Ma quello che è nuovo è che i telomeri dipendono anche dalla psiche. Il perché è tutto da studiare, ma l'analisi di migliaia di persone seguite fin dalla nascita (o poco dopo) racconta una storia in cui longevità o morte precoce dipendono da scelte o non scelte di vita. Amore, utilizzo del cervello, niente scheletri nell'armadio (come si suol dire) allungano la vita. Cioè, non si sa come né perché, la psiche attiva meccanismi biologici non di sola subitanea efficacia. I 125 anni di vita media «scritti» nei geni si raggiungono (ed è possibile) se non si odia (e si ama), si vive in stress positivo (per esempio fare un lavoro che piace o che gratifica, con vacanze regolari e senza vivere sempre connessi ai gadget tecnologici), se si pratica una religione con convinzione e senza sentirsi obbligati. Ma non solo, mangiare ciò che piace realmente e non cosa è indotto consumisticamente. Ecco il punto: lo stress negativo, e invecchiante, è quando si fa ciò che non piace ma è richiesto da altri. Dal datore di lavoro alla cosiddetta società civile, dalla religione ai genitori. Insomma, sintetizza Friedman, «la longevità dipende dall'essere coscienti in positivo di ciò che si fa». Per scelta e non per obbligo. E ancora: un anziano muore senz'altro prima se relegato nel nulla, strappato da una vita sociale stimolante. Giocare a carte nel bar o giocare a bocce preserva, se non allunga, la vita. Giovanni Scapagnini, università del Molise e ricercatore in campo neurologico, conferma: «Non c'è nulla di più misterioso, e anche di più affascinante, di ciò che il cervello e le sue espressioni non misurabili (stress positivi, amore, interessi cognitivi, ira e odio in negativo) riesce a fare sul corpo». Segreti di longevità: geni, restrizione calorica (mangiare meno), vivere positivo, niente proteine animali (o poche, e limitate a ciò che la natura dona — ed è molto — senza uccidere animali), attività fisica (ma non agonistica e stressante). E amore in tutto ciò che si fa, dal lavoro a te stesso e a ciò che si mangia.

Corriere 21.9.13
Il problema è l’omofobo, non il gay. I pregiudizi degli psicologi italiani
di Elena Tebano


Non c'è cura o terapia capace di trasformare un gay in eterosessuale, esattamente come non c'è cura o terapia che potrebbe far diventare omosessuale chi non lo è. Eppure la metà degli psicologi italiani sarebbe disposta ad aiutare un paziente gay a «cambiare» il suo orientamento sessuale, se questi fosse a disagio. Il dato, sconcertante, emerge da una ricerca sugli iscritti agli ordini degli psicologi di Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Piemonte e Puglia. E dà bene la misura di quanto bisogno d'informazione ci sia, anche all'interno della comunità scientifica. Proprio per colmare questo vuoto, l'Ordine del Lazio ha redatto Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali, che saranno presentate oggi alla Biblioteca nazionale di Roma. Ieri, l'Ordine degli psicologi ha deciso di divulgarle: «Vogliamo che diventino uno strumento a disposizione di chiunque faccia psicoterapia, gli psicologi non sono di per sé esenti dal pregiudizio». Nel caso dell'assistenza psicologica agli omosessuali, c'è spesso anche un problema di mancata formazione. «La maggior parte degli psicologi italiani ha studiato su manuali in cui l'omosessualità non era trattata, oppure era considerata una patologia o un disturbo dello sviluppo, invece che una variante naturale della sessualità umana», conferma lo psichiatra Vittorio Lingiardi: «Ma se la psicologia per molti anni ha considerato che il problema fosse l'omosessualità, ora ha capito che invece il problema è l'omofobia». E infatti il titolo del convegno di oggi è proprio Omofobia sociale e interiorizzata: come curarla. «La domanda che, come terapeuti, ci dovremmo porre non è "come mai questa persona è 'diventata' omosessuale?", ma "perché questa persona sente 'sbagliatà la sua omosessualità?". È una domanda che si può rivolgere all'intera società», dice Lingiardi. Un interrogativo che riecheggia su tutt'altro piano quelli suscitati l'estate scorsa dal suicidio di un adolescente romano e rimanda al dibattito delle ultime settimane intorno al progetto di legge sull'omofobia.

il Giornale 21.9.13
A mano armata Nel nome di Kant e Austen
di Pier Francesco Borgia

qui


il Fatto 21.9.13
Le confessioni. Io, Francesco il peccatore
La Chiesa secondo Jorge Bergoglio in un’intervista a “Civiltà Cattolica”: l’infanzia, gli errori, i divorziati, gli omosessuali, la musica e il cinema


TRE INCONTRI ad agosto per sei ore totali e poi, nell’ultimo numero di “Civiltà Cattolica”, una rivista dei gesuiti, padre Antonio Spadaro ha riportato il lungo colloquio con il gesuita eletto Papa. Jorge Bergoglio non si è sottratto alle domande più insidiose sulla fede, sui precetti e neppure sul dialogo con gli omosessuali e i divorziati o le donne che hanno abortito. In un percorso fatto di citazioni colte e commossi ricordi, Francesco ha raccontato il suo arrivo a Roma, da uomo che non si dice ottimista, ma buon coltivatore di speranze. Di seguito vi proponiamo gran parte del testo integrale pubblicato dalla rivista cattolica.
È lunedì 19 agosto. Papa Francesco mi ha dato appuntamento alle 10:00 in Santa Marta. Io però eredito da mio padre la necessità di arrivare sempre in anticipo. Le persone che mi accolgono mi fanno accomodare in una saletta. L’attesa dura poco, e dopo un paio di minuti vengo accompagnato a prendere l’ascensore. Nei due minuti ho avuto il tempo di ricordare quando a Lisbona, in una riunione di direttori di alcune riviste della Compagnia di Gesù, era emersa la proposta di pubblicare tutti insieme un’intervista al Papa. Avevo discusso con gli altri direttori, ipotizzando alcune domande che esprimessero gli interessi di tutti. Esco dall’ascensore e vedo il Papa già sulla porta ad attendermi. Anzi, in realtà, ho avuto la piacevole impressione di non aver varcato porte. Entro nella sua stanza e il Papa mi fa accomodare su una poltrona. Lui si siede su una sedia più alta e rigida a causa dei suoi problemi alla schiena. L’ambiente è semplice, austero. Lo spazio di lavoro della scrivania è piccolo. Sono colpito dalla essenzialità non solamente degli arredi, ma anche delle cose. Ci sono pochi libri, poche carte, pochi oggetti. Tra questi un’icona di San Francesco, una statua di Nostra Signora di Luján, Patrona dell’Argentina, un crocifisso e una statua di san Giuseppe dormiente, molto simile a quella che avevo visto nella sua camera di rettore e superiore provinciale presso il Colegio Máximo di San Miguel. La spiritualità di Bergoglio non è fatta di “energie armonizzate”, come le chiamerebbe lui, ma di volti umani: Cristo, san Francesco, san Giuseppe, Maria. Il Papa mi accoglie col sorriso che ormai ha fatto più volte il giro del mondo e che apre i cuori. Cominciamo a parlare di tante cose, ma soprattutto del suo viaggio in Brasile. Il Papa lo considera una vera grazia. Gli chiedo se si è riposato. Lui mi dice di sì, che sta bene, ma soprattutto che la Giornata Mondiale della Gioventù è stata per lui un “mistero”. Mi dice che non è mai stato abituato a parlare a tanta gente: “Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse”. Gli dico che è vero, e che si vede, e che questo colpisce tutti. Si vede che, quando lui è in mezzo alla gente, i suoi occhi in realtà si posano sui singoli. Poi le telecamere proiettano le immagini e tutti possono vederle, ma così lui può sentirsi libero di restare in contatto diretto, almeno oculare, con chi ha davanti a sé. Mi sembra contento di questo, cioè di poter essere quel che è, di non dover alterare il suo modo ordinario di comunicare con gli altri, anche quando ha davanti a sé milioni di persone, come è accaduto sulla spiaggia di Copacabana. Prima che io accenda il registratore parliamo anche d’altro. Commentando una mia pubblicazione, mi ha detto che i due pensatori francesi contemporanei che predilige sono Henri de Lubac e Michel de Certeau. Gli dico anche qualcosa di più personale. Anche lui mi parla di sé e in particolare della sua elezione al Pontificato. Mi dice che quando ha cominciato a rendersi conto che rischiava di essere eletto, il mercoledì 13 marzo a pranzo, ha sentito scendere su di lui una profonda e inspiegabile pace e consolazione interiore insieme a un buio totale, a una oscurità profonda su tutto il resto. E questi sentimenti lo hanno accompagnato fino all’elezione. (...) Poco prima dell’udienza che ha concesso ai gesuiti della Civiltà Cattolica il 14 giugno scorso, il Papa mi aveva parlato della sua grande difficoltà a rilasciare interviste. Mi aveva detto che preferisce pensare più che dare risposte di getto in interviste sul momento. Sente che le risposte giuste gli vengono dopo aver dato la prima risposta: “Non ho riconosciuto me stesso quando sul volo di ritorno da Rio de Janeiro ho risposto ai giornalisti che mi facevano le domande”, mi dice. Ma è vero: in questa intervista più volte il Papa si è sentito libero di interrompere quel che stava dicendo rispondendo a una domanda, per aggiungere qualcosa sulla precedente. (...) È chiaro che Papa Francesco è abituato più alla conversazione che alla lezione.
Perché i cardinali hanno scelto Bergoglio
Ho la domanda pronta, ma decido di non seguire lo schema che mi ero prefisso, e gli chiedo un po’ a bruciapelo: “Chi è Jorge Mario Bergoglio? ”. Il Papa mi fissa in silenzio. Gli chiedo se è una domanda che è lecito porgli... Lui fa cenno di accettare la domanda e mi dice: “Non so quale possa essere la definizione più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore”. Il Papa continua a riflettere, compreso, come se non si aspettasse quella domanda, come se fosse costretto a una riflessione ulteriore. “Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: ‘Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato’”. E ripete: “Io sono uno che è guardato dal Signore. Il mio motto Miserando atque eligendo (guardò con misericordia e lo scelse, ndr) l’ho sentito sempre come molto vero per me”. Il motto di Papa Francesco è tratto dalle Omelie di san Be-da il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: “Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi”. E aggiunge: “Il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando”.
Papa Francesco continua nella sua riflessione e mi dice, facendo un salto di cui sul momento non comprendo il senso: “Io non conosco Roma. Conosco poche cose. Tra queste Santa Maria Maggiore: ci andavo sempre”. Rido e gli dico: “Lo abbiamo capito tutti molto bene, Santo Padre! ”. “Ecco, sì – prosegue il Papa –, conosco Santa Maria Maggiore, San Pietro… ma venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio”. Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi. “Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo”. E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: “È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: ‘No, non me! No, questi soldi sono miei! ’. Ecco, questo sono io: ‘Un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi’. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice”. Quindi sussurra: “Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto”.
Le origini di un gesuita
Comprendo che questa formula di accettazione è per Papa Francesco anche una carta di identità. Non c’era più altro da aggiungere. Proseguo con quella che avevo scelto come prima domanda: “Santo Padre, che cosa l’ha spinta a scegliere di entrare nella Compagnia di Gesù? Che cosa l’ha colpita dell’Ordine dei gesuiti? ”. “Io volevo qualcosa di più. Ma non sapevo che cosa. Ero entrato in seminario. I domenicani mi piacevano e avevo amici domenicani. Ma poi ho scelto la Compagnia, che ho conosciuto bene perché il seminario era affidato ai gesuiti. Della Compagnia mi hanno colpito tre cose: la missionarietà, la comunità e la disciplina. Curioso questo, perché io sono un indisciplinato nato, nato, nato. Ma la loro disciplina, il modo di ordinare il tempo, mi ha colpito tanto”. “E poi una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta: quando sono stato eletto, abitavo per sorteggio nella stanza 207. Questa dove siamo adesso era una camera per gli ospiti. Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito distintamente un “no”. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri”. Mentre il Papa parla di missione e di comunità, mi vengono in mente tutti quei documenti della Compagnia di Gesù in cui si parla di “comunità per la missione” e li ritrovo nelle sue parole. Che cosa significa per un gesuita essere Papa? Voglio proseguire su questa linea e pongo al Papa una domanda a partire dal fatto che lui è il primo gesuita a essere eletto Vescovo di Roma: “Come legge il servizio alla Chiesa universale che lei è stato chiamato a svolgere alla luce della spiritualità ignaziana? Che cosa significa per un gesuita essere eletto Papa? Quale punto della spiritualità ignaziana la aiuta meglio a vivere il suo ministero? ”. “Il discernimento”, risponde Papa Francesco. “Il discernimento è una delle cose che più ha lavorato interiormente sant’Ignazio. Per lui è uno strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo più da vicino. Mi ha sempre colpito una massima con la quale viene descritta la visione di Ignazio: Non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est. Ho molto riflettuto su questa frase in ordine al governo, ad essere superiore: non essere ristretti dallo spazio più grande, ma essere in grado di stare nello spazio più ristretto. Questa virtù del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla posizione in cui siamo ci fa guardare sempre l’orizzonte. È fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. È valorizzare le cose piccole al-l’interno di grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio”. “Questa massima offre i parametri per assumere una posizione corretta per il discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo “punto di vista”. Per sant’Ignazio i grandi princìpi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo, di tempo e di persone. A suo modo Giovanni XXIII si mise in questa posizione di governo quando ripeté la massima Omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere, perché, pur vedendo omnia, la dimensione massima, riteneva di agire su pauca, su una dimensione minima. Si possono avere grandi progetti e realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che risultano più efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi”.
Gli insegnamenti e la crescita
“Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio, pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare”. “Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa. Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte”.
Il discernimento è dunque un pilastro della spiritualità del Papa. In questo si esprime in maniera peculiare la sua identità gesuitica. Gli chiedo quindi come pensa che la Compagnia di Gesù possa servire la Chiesa oggi, quale sia la sua peculiarità, ma anche gli eventuali rischi che corre. “La Compagnia è un’istituzione in tensione, sempre radicalmente in tensione. Il gesuita è un decentrato. La Compagnia è in se stessa decentrata: il suo centro è Cristo e la sua Chiesa. Dunque: se la Compagnia tiene Cristo e la Chiesa al centro, ha due punti fondamentali di riferimento del suo equilibrio per vivere in periferia. Se invece guarda troppo a se stessa, mette sé al centro come struttura ben solida, molto ben ‘armata’, allora corre il pericolo di sentirsi sicura e sufficiente. La Compagnia deve avere sempre davanti a sé il Deus semper maior, la ricerca della gloria di Dio sempre maggiore, la Chiesa Vera Sposa di Cristo nostro Signore, Cristo Re che ci conquista e al quale offriamo tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica, anche se siamo vasi di argilla, inadeguati. Questa tensione ci porta continuamente fuori da noi stessi. Lo strumento che rende veramente forte la Compagnia decentrata è poi quello, insieme paterno e fraterno, del ‘rendiconto di coscienza’, proprio perché la aiuta a uscire meglio in missione”. Qui il Papa si riferisce a un punto specifico delle Costituzioni della Compagnia di Gesù nel quale si legge che il gesuita deve “manifestare la sua coscienza”, cioè la situazione interiore che vive, in modo che il superiore possa essere più consapevole e accorto nell’inviare una persona alla sua missione. “Ma è difficile parlare della Compagnia – prosegue Papa Francesco –. Quando si esplicita troppo, si corre il rischio di equivocare. La Compagnia si può dire solamente in forma narrativa. Solamente nella narrazione si può fare discernimento, non nella esplicazione filosofica o teologica, nelle quali invece si può discutere. Lo stile della Compagnia non è quello della discussione, ma quello del discernimento, che ovviamente suppone la discussione nel processo. L’aura mistica non definisce mai i suoi bordi, non completa il pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto. Ci sono state epoche nella Compagnia nelle quali si è vissuto un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che mistico: questa deformazione ha generato l’Epitome Instituti”. (...) Per il Papa, durante questo periodo nella Compagnia le regole hanno rischiato di sopraffare lo spirito, e ha vinto la tentazione di esplicitare e dichiarare troppo il carisma. Prosegue: “No, il gesuita pensa sempre, in continuazione, guardando l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro. Questa è la sua vera forza. E questo spinge la Compagnia ad essere in ricerca, creativa, generosa. Dunque, oggi più che mai, deve essere contemplativa nell’azione; deve vivere una vicinanza profonda a tutta la Chiesa, intesa come ‘popolo di Dio’ e ‘santa madre Chiesa gerarchica’. Questo richiede molta umiltà, sacrificio, coraggio, specialmente quando si vivono incomprensioni o si è oggetto di equivoci e calunnie, ma è l’atteggiamento più fecondo. Pensiamo alle tensioni del passato sui riti cinesi, sui riti malabarici, nelle riduzioni in Paraguay”. “Io stesso sono testimone di incomprensioni e problemi che la Compagnia ha vissuto anche di recente. Tra queste vi furono i tempi difficili di quando si trattò della questione di estendere il ‘quarto voto’ di obbedienza al Papa a tutti i gesuiti. Quello che a me dava sicurezza al tempo di padre Arrupe era il fatto che lui fosse un uomo di preghiera, un uomo che passava molto tempo in preghiera. Lo ricordo quando pregava seduto per terra, come fanno i giapponesi. Per questo lui aveva l’atteggiamento giusto e prese le decisioni corrette”. Il modello: Pietro Favre, “prete riformato”. A questo punto mi chiedo se tra i gesuiti ci siano figure, dalle origini della Compagnia ad oggi, che lo abbiano colpito in maniera particolare. E così chiedo al Pontefice se ci sono, quali sono e perché. Il Papa comincia a citarmi Ignazio e Francesco Saverio, ma poi si sofferma su una figura che i gesuiti conoscono, ma che certo non è molto nota in generale: il beato Pietro Favre (1506- 1546), savoiardo. È uno dei primi compagni di sant’I g n a-zio, anzi il primo, con il quale egli condivideva la stanza quando i due erano studenti alla Sorbona. Il terzo nella stessa stanza era Francesco Saverio. Pio IX lo dichiarò beato il 5 settembre 1872, ed è in corso il processo di canonizzazione. Mi cita una edizione del suo Memoriale che lui fece curare da due gesuiti specialisti, Miguel A. Fiorito e Jaime H. Amadeo, quando era superiore provinciale. Una edizione che al Papa piace particolarmente è quella a cura di Michel de Certeau. Gli chiedo quindi perché è colpito proprio dal Favre, quali tratti della sua figura lo impressionano. “Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…”. (...)
Quando si è giovani si sbaglia per irruenza
Quale tipo di esperienza di governo può far maturare la formazione avuta da padre Bergoglio, che è stato prima superiore e poi superiore provinciale nella Compagnia di Gesù? Lo stile di governo della Compagnia implica la decisione da parte del superiore, ma anche il confronto con i suoi “consultori”. E così chiedo al Papa: “Pensa che la sua esperienza di governo del passato possa servire alla sua attuale azione di governo della Chiesa universale? ”. Papa Francesco dopo una breve pausa di riflessione si fa serio, ma molto sereno. “Nella mia esperienza di superiore in Compagnia, a dire il vero, io non mi sono sempre comportato così, cioè facendo le necessarie consultazioni. E questa non è stata una cosa buona. Il mio governo come gesuita all’inizio aveva molti difetti. Quello era un tempo difficile per la Compagnia: era scomparsa una intera generazione di gesuiti. Per questo mi son trovato Provinciale ancora molto giovane. Avevo 36 anni: una pazzia. Bisognava affrontare situazioni difficili, e io prendevo le mie decisioni in maniera brusca e personalista. Sì, devo aggiungere però una cosa: quando affido una cosa a una persona, mi fido totalmente di quella persona. Deve fare un errore davvero grande perché io la riprenda. Ma, nonostante questo, alla fine la gente si stanca del-l’autoritarismo. Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e a essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova. Ecco, no, non sono stato certo come la Beata Imelda, ma non sono mai stato di destra. È stato il mio modo autoritario di prendere le decisioni a creare problemi”. “Dico queste cose come una esperienza di vita e per far capire quali sono i pericoli. Col tempo ho imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo anche attraverso i miei difetti e i miei peccati. Così da arcivescovo di Buenos Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: ‘non si consulti troppo, e decida’. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I Concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del Conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale”. Rimango sul tema della Chiesa e provo a capire che cosa significhi esattamente per Papa Francesco il “sentire con la Chiesa” di cui scrive san-t’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali. Il Papa risponde senza esitazione partendo da un’i m m agine. “L’immagine della Chiesa che mi piace è quella del santo popolo fedele di Dio. È la definizione che uso spesso, ed è poi quella della Lumen gentium al numero 12. L’appartenenza a un popolo ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in questa dinamica popolare”. “Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina. Ecco, questo io intendo oggi come il “sentire con la Chiesa” di cui parla sant’I g n a-zio. Quando il dialogo tra la gente e i Vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi”. “È come con Maria: se si vuol sapere chi è, si chiede ai teologi; se si vuol sapere come la si ama, bisogna chiederlo al popolo. A sua volta, Maria amò Gesù con cuore di popolo, come leggiamo nel Magnificat. Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del ‘sentire con la Chiesa’ sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica”.
La classe media del Signore
Il Papa, dopo un momento di pausa, precisa in maniera secca, per evitare fraintendimenti: “E, ovviamente, bisogna star bene attenti a non pensare che questa infallibilitas di tutti i fedeli di cui sto parlando alla luce del Concilio sia una forma di populismo. No: è l’esperienza della “santa madre Chiesa gerarchica”, come la chiamava san-t’Ignazio, della Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del popolo di Dio”. “Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana. C’è una classe media della santità di cui tutti possiamo far parte, quella che di cui parla Malègue”. Il Papa si sta riferendo a Joseph Malègue, uno scrittore francese a lui caro. In particolare alla sua trilogia incompiuta. Alcuni critici francesi lo definirono “il Proust cattolico”. “Io vedo la santità – p r o-segue il Papa – nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con coraggio”. “Questa Chiesa con la quale dobbiamo “sentire” è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità. E la Chiesa è Madre – prosegue –. La Chiesa è feconda, deve esserlo. Vedi, quando io mi accorgo di comportamenti negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che mi viene in mente è: “ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio, quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia, leggo una storia di vita, di fecondità”. Papa Benedetto XVI, annunciando la sua rinuncia al Pontificato, ha ritratto il mondo di oggi come soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede che richiedono vigore sia del corpo, sia dell’anima. Chiedo al Papa, anche alla luce di ciò che mi ha appena detto: “Di che cosa la Chiesa ha più bisogno in questo momento storico? Sono necessarie riforme? Quali sono i suoi desideri sulla Chiesa dei prossimi anni? Quale Chiesa ‘sogna’? ”. Papa Francesco, cogliendo l’incipit della mia domanda, comincia col dire: “Papa Benedetto ha fatto un atto di santità, di grandezza, di umiltà. È un uomo di Dio”, dimostrando un grande affetto e una enorme stima per il suo predecessore. “Io vedo con chiarezza — prosegue — che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso”. “La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: ‘Gesù Cristo ti ha salvato! ’. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il confessore, ad esempio, corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o troppo lasso. Nessuno dei due è misericordioso, perché nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente ‘questo non è peccato’ o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate”. “Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. (...) ”. “Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio”. Raccolgo ciò che il Santo Padre sta dicendo e faccio riferimento al fatto che ci sono cristiani che vivono in situazioni non regolari per la Chiesa o comunque in situazioni complesse, cristiani che, in un modo o nel-l’altro, vivono ferite aperte. Penso a divorziati risposati, coppie omosessuali, altre situazioni difficili. Come fare   una pastorale missionaria in questi casi? Su che cosa far leva? Il Papa fa cenno di aver compreso che cosa intendo dire e risponde. “Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono ‘feriti sociali’ perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile. Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: ‘Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola? ’. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell’uomo. Nella vita, Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta”.
Le donne più importanti dei Vescovi
“Questa è anche la grandezza della Confessione: il fatto di valutare caso per caso, e di poter discernere qual è la cosa migliore da fare per una persona che cerca Dio e la sua grazia. Il confessionale non è una sala di tortura, ma il luogo della misericordia” (...) Chiedo: “Quale deve essere il ruolo della donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile? ”. “È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del ‘machismo in gonnella’, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. (...) ‘Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa”. (...) “Che cosa ha realizzato il Concilio Vaticano II? Che cosa è stato? ”, gli chiedo. “Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta”. (...) “Quel che ho detto a Rio ha un valore temporale. C’è infatti la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi”. “Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa”. (...) “Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primerea. Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo leggiamo nei Profeti. Dunque, Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. È relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale” (...) Dobbiamo essere ottimisti? “A me non piace usare la parola ‘ottimismo’, perché dice un atteggiamento psicologico. Mi piace invece usare la parola ‘speranza ’ secondo ciò che si legge nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei che citavo prima. I Padri hanno continuato a camminare, attraversando grandi difficoltà. E la speranza non delude, come leggiamo nella Lettera ai Romani. Pensa invece al primo indovinello della Turandot di Puccini’, mi chiede il Papa. (...)
Mozart, Caravaggio e gli sposi di Maznoni
Rimango colpito dalla citazione della Turandot per parlare del mistero della speranza. Vorrei capire meglio quali sono i riferimenti artistici e letterari di Papa Francesco. Gli ricordo che nel 2006 aveva detto che i grandi artisti sanno presentare con bellezza le realtà tragiche e dolorose della vita. Chiedo dunque quali siano gli artisti e gli scrittori che preferisce; se c’è qualcosa che li accomuna… “Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È quella che si chiude con il verso Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso. Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro I Promessi Sposi tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro: ‘Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti…’. Anche Gerard Manley Hopkins mi è piaciuto tanto”. “In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano. Ma anche Chagall con la sua Crocifissione bianca…”. “In musica amo Mozart, ovviamente. Quell’Et Incarnatus est della sua Missa in Do è insuperabile: ti porta a Dio! Amo Mozart eseguito da Clara Haskil. Mozart mi riempie: non posso pensarlo, devo sentirlo. Beethoven, mi piace ascoltarlo, ma prometeicamente. E l’interprete più prometeico per me è Furtwängler. E poi le Passioni di Bach,. Il brano di Bach che amo tanto è l’Erbarme Dich, il pianto di Pietro della Passione secondo Matteo. Sublime. Poi, a un livello diverso, non intimo allo stesso modo, amo Wagner. Mi piace ascoltarlo, ma non sempre. La Tetralogia dell’Anello eseguita da Furtwängler alla Scala nel ’50 è la cosa per me migliore. Ma anche il Parsifal eseguito nel ’62 da Knappertsbusch”.. “Dovremmo anche parlare del cinema. La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e AldoFabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori che ci portavano spesso al cinema”. “Comunque in generale io amo gli artisti tragici, specialmente i più classici. C’è una bella definizione che Cervantes pone sulla bocca del baccelliere Carrasco per fare l’elogio della storia di Don Chisciotte: “i fanciulli l’hanno tra le mani, i giovani la leggono, gli adulti la intendono, i vecchi ne fanno l’elogio”. Questa per me può essere una buona definizione per i classici”. (...) Alla fine chiedo al Papa di raccontare la sua esperienza. “È stata una cosa un po’ rischiosa. Dovevo fare in modo che i miei alunni studiassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di leggere García Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa, e durante le lezioni io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi. Ovviamente i giovani volevano leggere le opere letterarie più “piccanti”, contemporanee come La casada infiel, o classiche come LaCelestina di Fernando de Rojas. Ma leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e passavano ad altri autori. E per me è stata una grande esperienza. (...) Alla fine ho deciso di far leggere a Borges due racconti scritti dai miei ragazzi. Conoscevo la sua segretaria, che era stata la mia professoressa di pianoforte. A Borges piacquero moltissimo. E allora lui propose di scrivere l’introduzione a una raccolta”.
Per gentile concessione di “Civiltà Cattolica”

il Fatto 21.9.13
Conservatori delusi
Ma c’è chi teme l’argentino rivoluzionario
di Marco Politi


L’intervista-terremoto di Francesco è destinata a lasciare tracce profonde. Muri di pregiudizi abbattuti. Crepe in vecchie strutture. Macerie tra i fautori dell’“ingerenza spirituale” nella vita delle persone, che Francesco esclude. Lucidamente, seppure a malincuore, il Foglio – organo ufficiale degli atei devoti – registra il tramonto dei “principi non negoziabili” di Benedetto XVI. “Lettera morta”, commenta sconsolato: l’intervento di Bergoglio “ribalta il paradigma cattolico ratzingeriano”. Sono avvisaglie di malumori, già esplosi sui siti cattolici tradizionalisti, e che arriveranno a manifestarsi anche tra quei prelati che sempre hanno giudicato il Concilio una falla pericolosa nella cattolicità costantiniana e controriformista. Imbarazzato sul da farsi, il Giornale relega l’evento nelle ultime pagine. Puzza troppo di rivoluzione.
AL FONDO hanno ragione i falchi della retroguardia. Il manifesto programmatico di Francesco segna una rottura con il pontificato precedente e l’intransigenza dottrinale di Giovanni Paolo II. La Chiesa, che pontifica ex cathedra, non è quella del papa argentino. La sua Chiesa va incontro agli uomini e alle donne contemporanei senza l’impaccio di una visione angusta dei precetti. In questo senso risulta persino riduttivo riassumere il nerbo dell’intervista nelle frasi su gay, divorziati e aborto. La riforma cui tende Bergoglio è molto più ampia. Stamane salta il cardinale Piacenza, potente prefetto della Congregazione per il Clero, ratzingeriano di ferro. Il primo effetto della vicenda è di risvegliare chi, nella Chiesa, su certe questioni, si era imposto il silenzio o era troppo timido. Il clima mutato si riflette nelle parole di Lucetta Scaraffia, editorialista dell’Osservatore Romano, che attacca le “parole sbagliate, vecchie, rigide, sterili” usate spesso dalla Chiesa in tema di matrimonio.
Ora tocca agli episcopati far fruttare i semi gettati dal papa. La Cei, nel suo linguaggio e nella sua ‘politica’, appare completamente disorientata. Di colpo le barricate del passato sono obsolete. Rigenerarsi è l’imperativo. Ma è molto faticoso.

La Stampa 21.9.13
La nuova visione
Il «camminare insieme» del Papa
di Enzo Bianchi

monaco, priore di Bose

«Chi è Jorge Mario Bergoglio? », «Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore». Così si presenta papa Francesco.
Esentiamo subito che questo suo dire non è retorica ma espressione della verità: la verità di chi è stato umiliato dal peccato e lo confessa ai fratelli come propria vera identità davanti a Dio. Un’operazione di autenticità per nulla facile. Per questo i padri del deserto dicevano: «Chi riconosce il suo peccato è più grande di chi risuscita un morto! ». Bergoglio – la domanda riguardava l’uomo Jorge Mario, non ancora il Papa – si riconosce dunque uomo debole e fragile, peccatore, che tuttavia confida nell’amore di Dio, dono che non necessita di essere meritato.
Questa prima risposta fornisce la chiave d’ingresso all’intera intervista concessa ad Antonio Spadaro. Ed è sull’essere confratelli gesuiti che i due interlocutori prendono slancio nel dialogo, perché papa Bergoglio è un gesuita in tutte le sue fibre: non a caso i riferimenti presenti nell’intervista sono quasi tutti a uomini della Compagnia di Gesù. I santi Ignazio e Francesco Saverio, il beato Pietro Favre, i teologi de Lubac e de Certeau – un patrologo tra i più raffinati e un teologo tra i più acuti della modernità – poeti come Hopkins, uomini carismatici come padre Arrupe, che io stesso ho conosciuto come un santo che ha saputo vivere anche le umiliazioni da parte di Giovanni Paolo II in un’obbedienza estrema e rappacificata. Da questa appartenenza alla tradizione gesuita, sgorga l’attenzione di papa Francesco per il discernimento, operazione spirituale indispensabile su cui hanno indagato i padri monastici orientali e che è stata ripresa da Ignazio di Loyola come uno dei punti capitali dell’itinerario di sequela del Signore nel mondo e nella storia. Ho sempre detto – e l’ho scritto nella regola per la mia comunità – che chi presiede abbisogna di saldezza, discernimento e misericordia come carismi indispensabili per il suo ministero di unità. Papa Francesco appare saldo come una roccia, ben fondato su Cristo, e impegnato a discernere per governare con sapienza. Quanto alla misericordia, basta vedere quanto ha fatto in questi sei mesi di papato e quanto ribadisce nell’intervista: ha perdonato e continua a perdonare, a costo di non far emergere le urgenze di riforma della curia e della chiesa. Nelle sue omelie mattutine a Santa Marta ammonisce e rimprovera, anche con durezza e passione, quanti condividono il governo della chiesa, gli «uomini di chiesa», ma contemporaneamente annuncia il perdono e lascia al loro posto i vari collaboratori.
Papa Francesco mostra di non avere e di non volere un programma prefissato di pontificato, ma di essere deciso a percorrere la strada dell’adesione alla realtà che gli si presenta giorno dopo giorno, cercando nel Vangelo le scelte da inverare. Dalla sua esperienza personale cerca di trarre istruzione per non ripetere errori commessi in passato: così confessa che nel suo esercizio di giovane provinciale della Compagnia, zelante e con poca esperienza, ha governato in modo piuttosto autoritario. Anche per questo motivo, Bergoglio sente la consultazione «reale, non formale» come una grazia e un aiuto: ascoltare gli altri, ascoltarli in profondità, raccogliere i pensieri di tutti e poi fare discernimento per poter decidere nella preghiera, sotto la guida dello Spirito santo, per quanto è possibile a un uomo che si esercita nell’obbedienza alla parola di Dio e nella retta intenzione.
Rilevate queste sfaccettature sull’uomo, il cristiano e il vescovo Bergoglio, che dire della chiesa di papa Francesco? Egli proviene da una chiesa giovane, dall’altro capo del mondo rispetto a Roma, dalla periferia geografica rispetto a un centro ultramillenario. È il primo papa non europeo e questo dato è molto più decisivo di quanto potessimo presumere. Nella mia vita ho già conosciuto sette papi, con quante differenze tra loro, soprattutto tra i papi del concilio e il primo Papa straniero dopo secoli, Giovanni Paolo II. Già allora c’è stato un profondo mutamento nell’esercizio del papato e, di conseguenza, nell’indirizzo della chiesa, ma con Bergoglio il mutamento è ancora più profondo. La sua appartenenza a una delle giovani chiese di cui nell’intervista dice che «sviluppano una sintesi di fede, cultura e vita in divenire», dunque hanno una visione «diversa da quella sviluppata dalle chiese più antiche». Sono chiese giovani, che hanno forza, che guardano al futuro, che sentono la loro emersione come una grazia e una possibilità di mostrare con frutto un nuovo cristianesimo dopo secoli di sofferenza, povertà, soggezione all’occidente. Ma papa Francesco sa anche che nelle antiche chiese c’è una riserva di sapienza di cui certamente vuole tenere conto.
Comunque, giovane o ricca di anni, la chiesa è un «ospedale», immagine presente nella regola di Benedetto, dove l’abate è ammonito a ricordarsi che la comunità è composta di persone malate, fragili, deboli, bisognose di essere ascoltate, curate, custodite, «miserate», per riprendere il «miserando» del motto episcopale di Bergoglio. Ecco perché per papa Francesco la «prossimità» è una postura fondamentale: il prossimo non esiste in sé, il prossimo esiste quando ognuno di noi decide di rendere l’altro suo vicino, facendosi egli stesso prossimo, «più vicino». Bergoglio conosce bene questa verità evangelica, e sa anche come manifestarla con gesti e parole efficaci.
Da tutto questo emerge una visione precisa di chiesa. Non solo una chiesa che conosce il primato della misericordia – aspetto del quale tutti si sono già accorti e sul quale molto è già stato detto, anche dopo l’intervista – ma anche una chiesa sinodale, una chiesa nella quale camminare insieme, fare «synodos», strada insieme: fedeli, presbiteri, vescovi e papa. Nell’intervista papa Francesco lo spiega con chiarezza: la sinodalità come metodo di vita e di governo della chiesa. Nessuna rinuncia al ministero petrino, ma questo dev’essere collocato – come aveva abbozzato il Concilio Vaticano II – nella sinodalità episcopale e quindi nella sinodalità di tutta la chiesa. Non sono novità assolute, perché chi ha memoria ricorda per esempio la lettera pastorale «Camminare insieme» del cardinale Pellegrino. Quante somiglianze tra quell’arcivescovo di Torino e papa Francesco! Penso anche all’invito rivolto ai religiosi perché diano le loro case agli immigrati... Padre Pellegrino da quell’appello ricevette molta diffidenza soprattutto da parte di religiosi e religiose che non apprezzarono affatto la sua esortazione.
Nell’intervista non ci si sofferma sulle contraddizioni già incontrate e che certamente aumenteranno e accompagneranno costantemente il ministero di papa Francesco. Non vorrei apparire foriero di malaugurio, ma evangelicamente quando un cristiano – e tanto più un papa – innalza il vessillo della croce, non come arma contro i nemici ma come cammino di sequela del Signore, può solo andare incontro a incomprensioni e contraddizioni, in una solitudine istituzionale pesante e faticosa. Non può essere diversamente, perché così è accaduto a Gesù e chi lo segue fedelmente, prima o poi si ritrova nella medesima situazione. C’è un famosissimo quadro di Rembrandt: un Pietro vecchio in carcere, a terra, con un’espressione di sofferenza sul volto e le mani incatenate che però sono incrociate per pregare. È un Pietro che anche in carcere sembra cantare l’«Erbarme dich» della Passione secondo Matteo di Bach, nel piangere il suo essere peccatore. Il successore di Pietro sappia che, come sta scritto negli Atti degli apostoli così anche oggi, «mentre era in carcere, una preghiera saliva incessantemente a Dio da tutta la Chiesa per lui».

Corriere 21.5.13
Francesco, i miei dubbi e le mie certezze
La misericordia del Papa che accetta il mondo così com'è
di Vittorio Messori

Credo che stia capitando a molti: la lettura della trentina di pagine della Civiltà Cattolica con l'intervista a Francesco sembra chiarire loro chi sia davvero e che intenda fare colui che ama definirsi «vescovo di Roma». Una Roma che pur confessa di non conoscere, al di là di alcune famose basiliche. Perché nasconderlo?

Molti, nella Chiesa, erano perplessi per uno stile in cui sembrava di avvertire qualcosa di populista, da sudamericano che in gioventù non fu insensibile al carisma demagogico di Peròn.
Gli scarponi ortopedici neri; la croce solo argentata; l'abito papale e i paramenti liturgici talvolta trascurati; l'andare a piedi o in utilitaria, comunque sul sedile anteriore; il rifiuto dell'alloggio pontificio, della villa di Castel Gandolfo, della scorta; i bambini baciati in piazza; le telefonate fatte di persona qua e là; il parlare a braccio, a rischio di equivoci; l'esigere subito il tu dall'interlocutore; certe reazioni emotive, per foto e storie trovate sui giornali. Per quanto mi riguarda (e per quanto poco importi, ovviamente), tutto questo disturbava certo snobismo intellettuale da cui fui contagiato in quasi vent'anni di scuole torinesi, per giunta pre-sessantottarde. Con questo stile «all'argentina», contrastava certa schizzinosa «retorica dell'antiretorica» appresa da quei miei maestri di austerità e di understatement subalpini. Ci sono stati mesi recenti in cui mi rallegravo per il buon momento di sobrietà, di rigore, di profili volutamente bassi: per Papa, un professore emerito bavarese, per presidente del Consiglio, un altro professore emerito della Bocconi, l'equivalente nostrano d'una delle Grandes Écoles parigine. Per completare la Triade, al Quirinale avrei sognato un Luigi Einaudi ma, in mancanza, m'accontentavo della serietà e della discrezione di Giorgio Napolitano, egli pure non sospetto di cedimenti a sentimentalismi e retoriche.
Insomma, io pure ero tra i perplessi. Sia comunque chiaro: come mi è capitato altre volte di ricordare, in una prospettiva cattolica ciò che conta è il Papato, è il ruolo — che gli è attribuito dal Cristo stesso — d'insegnamento e custodia della fede; mentre non ha rilievo teologico il carattere del Papa del momento, cui si chiede solo la salvaguardia dell'ortodossia e la guida della Chiesa tra i marosi della storia. Non vi sono, qui, indici di gradimento personale, il credente segue ed ama ogni pontefice, «simpatico» o meno che gli sia, in quanto successore di quel Pietro cui Gesù affidò la cura del Suo popolo. Ma ecco ora l'intervista al più antico periodico non solo cattolico ma italiano, al quindicinale fondato ben 163 anni fa. Un gesuita, padre Antonio Spadaro, a colloquio — sul giornale dei gesuiti — col primo pontefice gesuita della storia. Un giocare totalmente in casa, dunque. E non a caso. In effetti, leggendo, si comprende come la strategia del Papa che ha voluto chiamarsi Francesco non sia affatto caratteriale ma sia in realtà nella tradizione migliore dei figli non del Poverello, bensì d'Ignazio. Il carisma dei discepoli del guerriero basco fu il comprendere che il mondo va salvato così com'è, ci piaccia o no; che l'utopia cristiana deve sempre confrontarsi con la realtà concreta; che non deve scandalizzare l'amara concretezza di Machiavelli, per il quale gli uomini sono quelli che sono, non quelli che vorremo che fossero. È a quest'uomo, non a uno ideale e inesistente, che va proposta la salvezza portata dal Cristo.
La fortuna dei gesuiti, il loro successo in remote missioni e al contempo alla corte di re e imperatori (un successo che li portò poi alla soppressione del 1773 per mano, guarda caso, di un Papa francescano), quella fortuna fu il frutto di un carisma che lo stesso Bergoglio indica nel «discernimento». Quello che i nemici della Compagnia chiamarono «ipocrisia», «opportunismo», «mimetismo» e i giansenisti «lassismo» e che invece, spiega lo stesso papa Francesco, «è la consapevolezza che i grandi princìpi cristiani vanno incarnati secondo le varie circostanze di luogo, di tempo, di persone». L'evangelizzazione sia flessibile e tenga conto della debolezza umana, «il confessionale non sia una camera di tortura», per usare le parole testuali di Bergoglio. È proprio ciò che ispirò quella casistica che, per i rigorosi, tutto sembrò accettare e giustificare e contro la quale furono scagliate le Lettere provinciali di Blaise Pascal. Lettere che costituiscono un capolavoro letterario ma un infortunio teologico per quel genio, pur straordinario e, ammesso che importi, assai amato da chi qui scrive. Malgrado le esagerazioni (condannate poi dalla stessa Compagnia, prima ancora che dalla Chiesa) avevano ragione i gesuiti: la misericordia, la comprensione, le raffinatezze se non le acrobazie dialettiche per non escludere nessuno dalla comunione ecclesiale, furono e sono mezzi di apostolato ben più efficaci che l'arcigna severità, il legalismo scritturale e canonico, il moralismo implacabile, l'ortodossia usata come un randello. I rigoristi sono ossessionati dall'aut aut — o questo o quello — mentre i gesuiti tentarono, sempre e dovunque, di praticare un et et — sia questo che quello — che permetta al maggior numero possibile di creature di Dio di raggiungere la salvezza eterna. Fu l'intransigenza di altri ordini che portò alla disastrosa rovina dell'inculturazione del Vangelo tentata dalla Compagnia in Asia, in America, in Africa e che solo il Vaticano II doveva riscoprire e valorizzare.
È da questo desiderio di convertire il mondo intero, usando il miele ben più che l'aceto, che deriva una delle prospettive più convincenti tra quelle confidate dal Papa al confratello: il ritrovare, cioè, la giusta gerarchia cristiana. I decenni postconciliari hanno visto, nella Chiesa, lo scontro sulle conseguenze da trarre dalla fede: politiche, sociali e, soprattutto, morali. Ma della fede stessa, della sua credibilità, del suo annuncio al mondo, ben pochi sembrano essersi preoccupati. Ben venga, dunque, il richiamo del Vescovo di Roma: si ri-evangelizzi, annunciando la misericordia e la speranza del Vangelo. Il resto seguirà. Non vi è, nelle sue parole, alcun cedimento sui cosiddetti «princìpi non negoziabili» in materia etica. Ma vi è, giustamente, l'insistenza sulla doverosa successione: prima la fede e poi la morale. Prima convochiamo, accogliamo e curiamo i feriti dalla vita e poi, dopo che avranno conosciuto e sperimentato l'efficacia della misericordia del Cristo, diamo loro lezioni di teologia, d'esegesi, d'etica. Una sfida, forse un rischio? Papa Francesco fa capire di esserne consapevole ma di essere soprattutto consapevole dell'aiuto, che non potrà mancare, di Chi lo ha scelto, pur lontano com'era dall'attenderlo e dal desiderarlo.

Il Foglio 21.9.13
Il Papa discerne meglio la mira: "No all'aborto e all'eutanasia"

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il Fatto 21.9.13
“Repubblica” oggi in sciopero, previsti 81 esuberi


I GIORNALISTI di Repubblica entrano in sciopero. Il no secco ricevuto dall’editore, Carlo De Benedetti, di rivedere il piano di ristrutturazione che prevede 81 esuberi alla luce dell’esito positivo del Lodo Mondadori, non è piaciuta ai redattori di Largo Fochetti . Così ieri l'assemblea dei giornalisti di Repubblica , “esaminati gli esiti dell'incontro fra Cdr e azienda del 19 settembre, ha ritenuto irricevibile il piano di ristrutturazione proposto dall'editore che prevede 81 esuberi fra i giornalisti. Ha proclamato pertanto uno sciopero per la giornata di oggi. Il giornale dunque non sarà in edicola domani. sabato 21 settembre. Il sito Repubblica.it   non sarà aggiornato. L'assemblea ha anche affidato al Cdr un pacchetto di ulteriori 10 giorni di sciopero e ha deciso lo sciopero delle firme dei giornalisti di Repubblica ”.
Nei giorni scorsi la Corte di Cassazione, confermando la sentenza dell'Appello, aveva condannato la Fininvest di Berlusconi a versare 494 milioni (350 milioni al netto delle imposte) alla finanziaria della famiglia torinese.

il Fatto 21.9.13
Giornali. I lettori ancora in calo. “Il Fatto” cresce


Si attenua l'emorragia di lettori di quotidiani. Secondo i dati dell'azienda di rilevazione Audipress relativi al primo semestre del 2013 (da febbraio a luglio), la perdita complessiva è stata dell'uno per cento (da 21.005.000 a 20.790.000), dopo che nel periodo analogo del 2012 il calo era stato del 5,1% a febbraio e del 6,7% a maggio. Il podio dei quotidiani più letti rimane invariato, con La Gazzetta dello Sport (3.678.000 lettori) davanti a Repubblica (2.835.000) e Il Corriere (2.709.000). Di questi tre però nessuno ha fatto registrare un incremento, con il quotidiano romano stabile e i due giornali di Rcs in lieve flessione rispetto alla precedente rilevazione (Corriere -2% e Gazzetta -1,7%). Tra i pochi segni positivi, spiccano quelli de Il Fatto Quotidiano (+6,4%) grazie soprattutto alla crescita tra il pubblico femminile, quello de Il Sole 24 Ore (+ 6,2) e quello di Libero (+8,8%). Pur in mancanza di dati sui flussi, sembra ragionevole ipotizzare che la crescita del quotidiano diretto da Belpietro sia avvenuta a spese de Il Giornale (-7,7%). Per quanto riguarda il numero assoluto di lettori, giù dal podio si trovano nell'ordine Corriere dello Sport, La Stampa e QN Resto del Carlino, che si conferma davanti a Il Messaggero.
Per quanto riguarda i siti web, Repubblica si conferma leader incontrastato, seguito da Gazzetta e Corriere della Sera. Dietro Il Sole 24 Ore e, appaiati, La Stampa e Corriere dello Sport. A breve distanza segue Il Fatto Quotidiano, che si conferma il quinto quotidiano di informazione più letto del web.
Una curiosità: l'unico quotidiano italiano ad avere più lettrici che lettori è Il Piccolo di Trieste.