domenica 22 settembre 2013

l’Unità 22.9.13
Regole, non c’è pace nel Pd
Caos sulle modifiche dello statuto
La contrarietà dei veltroniani, di Bindi e Civati e l’assenza di numerosi delegati fa saltare l’accordo sulle regole
Le primarie restano fissate, ma non pochi ora temono nuove sorprese
di Simone Collini

ROMA Il congresso del Pd parte, con gli interventi di Gianni Cuperlo e di Matteo Renzi, poi la brusca frenata, la tensione che sale, i sospetti reciproci e la battaglia decisiva (forse) che viene rinviata alla prossima settimana. L’Assemblea nazionale, che doveva stabilire un timing per il percorso congressuale, definire le regole, approvare le modifiche allo statuto, si chiude con l’indicazione di una data per l’elezione del segretario nazionale l’8 dicembre e la presa d’atto che il congresso dovrà svolgersi così come prescritto dall’attuale carta fondamentale del Pd. «Un piccolo problema sui numeri», lo definisce Guglielmo Epifani quando si fa chiaro che non ci sono in sala delegati sufficienti per approvare le modifiche. Ma c’è anche un problema politico, per Renzi, che vede la mano di Enrico Letta e di chi nel Pd teme che il congresso possa minare la stabilità del governo (il riferimento è all’asse Bersani-Epifani-Franceschini) in questa «ennesima figuraccia». Dovrà essere la Direzione, convocata per venerdì, a discutere di come si possa quindi riuscire a rendere compatibili le procedure previste dallo statuto vigente, che richiedono tempi piuttosto lunghi, con primarie fissate tra poco più di due mesi. E la discussione non si annuncia facile.
LA VOTAZIONE FLOP
«Se c’è da parte di tutti la volontà politica di farlo si riesce», risponde Roberto Gualtieri a chi gli chiede spiegazioni al termine dei lavori. Ma è proprio su quel «se» pronunciato dall’europarlamentare, che nelle ultime settimane ha provato a far arrivare a un accordo le diverse anime del Pd presenti nella commissione congressuale, che dopo questa giornata rimangono da più parti forti dubbi. In primis, nel fronte dei sostenitori di Renzi.
Già dall’avvio dei lavori si capisce che questa Assemblea è a rischio. Degli oltre novecento delegati che ne fanno parte arrivano all’Auditorium della Conciliazione in poco più della metà. Anzi, anche sui numeri si innesca un giallo. Dall’unica votazione conclusa, quella sulle «raccomandazioni della commissione per il congresso», emerge che sono in 476 (378 a favore, 74 contrari, 24 astenuti). Poi, da una conta effettuata più tardi sul registro dei delegati arrivati dalle diverse regioni, vien fuori un altro dato: 560. Ma il problema non è solo numerico. Quelle «raccomandazioni» approvate, che prevedono tra le altre cose la fine dell’automatismo per cui il segretario è anche l’unico candidato premier del Pd, pur se non sono vincolanti (a contare è quel che dice lo statuto) sono respinte da una fetta consistente dei presenti.
Ma fin dal mattino si capisce che l’appuntamento è a rischio lacerazioni anche perché l’accordo raggiunto nella notte nella commissione congressuale non è sotto il segno dell’unanimità. La bindiana Margherita Miotto se n’è andata per protesta prima delle votazioni e il veltroniano Roberto Morassut ha votato contro. Il punto è sempre l’indisponibilità a cancellare dallo statuto, su cui invece pure i renziani avevano dato via libera, queste due righe: «Il segretario è proposto dal partito come candidato all’incarico del presidente del Consiglio».
Però i lavori dell’assemblea procedono come se nulla fosse. Intervengono i quattro candidati segretari, e subito emergono le differenti impostazioni di Cuperlo e Renzi. Il primo parla della necessità di immaginare «la società, l’economia, l’accesso ai beni, come potrebbero essere dopo la lunga stagione della destra» e dice che questo congresso non deve mettere al centro della discussione il governo. Il secondo attacca una classe dirigente responsabile di 20 anni di fallimenti (dalla «subalternità» all’agenda berlusconiana alla «lontananza tra quanto promesso e quanto poi mantenuto») e non risparmia frecciate a Letta («non è giusto dare la colpa all’instabilità politica se si sfora il 3% del rapporto deficit/ Pil, è questo dare sempre la colpa a qualcun altro che crea antipolitica»). Cuperlo vince la prova dell’applausometro (i renziani non si preoccupano, dicono che è normale considerato che questa platea è stata eletta nel 2009 insieme a Bersani segretario). Renzi gli si avvicina e lo abbraccia. È il via del congresso. Ma poi si capisce che è ancora una falsa partenza. Qualche scricchiolio inizia a percepirsi quando il veltroniano Enrico Morando interviene a difesa della coincidenza tra segretario e candidato premier e fa intendere che è pronto a presentare un ricorso se tutto non si dovesse svolgere in modo corretto e verificato. Bindi va al microfono e annuncia che su quel punto dell’automatismo, contenuto all’articolo 3 dello statuto, chiederà un voto separato. L’impegno viene mantenuto. Si mette ai voti la proposta di procedere per parti separate. La sostengono bindiani, veltroniani, delegati che appoggiano Civati. Sono una minoranza, ma determinante: se non votano le modifiche, non c’è il quorum per cambiare lo statuto. La presidenza interrompe i lavori. Viene riconvocata la commissione congressuale per cercare in extremis un accordo su quell’articolo 3. L’accordo non si trova, complice il no inatteso del lettiano Gianni Dal Moro.
Dopo un’ora riprendono i lavori. A Epifani non resta che andare al microfono e comunicare che «la commissione propone di ritirare le modifiche allo statuto che aveva avanzato all’Assemblea». Anche perché, riconosce il segretario, non ci sarebbe la maggioranza richiesta. «Il congresso sarà l’8 dicembre e la Direzione deciderà come procedere». L’appuntamento è per venerdì. Bisognerà vedere se cinque giorni saranno sufficienti per evitare nuove lacerazioni.

il Fatto 22.9.13
Democratici, caos e fuga, guerriglia continua tutti contro tutti
L’assenza di oltre 500 delegati e la lite sulle regole tra le correnti paralizzano l’Assemblea nazionale del PD
Salta l’accordo. Venerdì in direzione potrebbe essere messa in discussione anche la data delle primarie
Partono le accuse incrociate. Orfini: “Letta, Franceschini e Bersani non vogliono il congresso”
Bindi: “Se non si fa, addio partito e governo”
di Wanda Marra

Altro che primarie dell’Immacolata! Qua serve il miracolo dell’Immacolata per riuscire a farle”. La sintesi migliore dell’ennesima giornata di follia collettiva del Pd la fa Beppe Fioroni. Assemblea finita, certezze nessuna, battaglia rimandata a venerdì, in direzione.
“Sono state ritirate le modifiche statutarie. Il congresso sarà l’8 dicembre e la direzione deciderà come procedere”. Guglielmo Epifani sale sul palco che sono le due passate per dire che di 4 mesi di discussione non se n’è fatto ancora (quasi) niente.
SI CONCLUDE così una mattinata surreale. I fatti: l’Assemblea vota un documento che stabilisce la data delle primarie all’8 dicembre; ma non vota le modifiche statutarie che dovevano velocizzare e snellire il percorso, per rendere possibile quella data, nonché sancire la separazione tra segretario e candidato premier. Lo Statuto adesso è immodificabile: se Renzi viene eletto segretario, sarà l’unico candidato premier del Pd. E Letta è fuorigioco. Così un minuto dopo la chiusura iniziano le interpretazioni. Tra chi, come Francesco Sanna (consigliere del premier) commenta: “Ma vale di più lo Statuto o un voto dell’Assemblea? ”. Gli fa eco Marco Meloni, altro lettiano: “Abbiamo votato l’8 dicembre, mica abbiamo detto di quale anno”. Una battuta, che scopre la volontà di far slittare il congresso. D’altra parte, i bersaniani andavano dicendo da giorni, Nico Stumpo in testa: “Se non ci sono i numeri, allora si va con lo Statuto attuale e il congresso slitta a primavera”. Sull’altro fronte, il renziano Gentiloni - mentre avverte che l’8 dicembre non si tocca - commenta: “È un grande pasticcio: a furia di cercare cavilli per frenare qualcuno e per la paura che qualcuno diventi segretario, hanno reso la situazione ingovernabile”.
Per capire cosa è successo, proviamo a riavvolgere il nastro di una mattinata che sembrava andare in una direzione e poi finisce contro il muro.
L’Assemblea si riunisce di prima mattina. La Commissione regole, dopo gli ultimi 2 giorni di conclave permanente, è arrivata a un accordo, che prevede data, congressi regionali dopo quello nazionale e separazione tra segretario e premier. Lo illustra Gualtieri. Interviene la Bindi in persona: “I risultati della Commissione non sono consensuali e unitari: voterò contro la modifica del-l’articolo 3” (ovvero quello che stabilisce la distinzione tra segretario premier e candidato, in maniera permanente). Spiega che non si cambia la natura di un partito in un’Assemblea. Con lei i veltroniani. Se si fossero limitati a confermare la norma transitoria (quella che permise in via eccezionale a Renzi di correre contro Bersani) l’avrebbero votata tutti, spiegano. In sala si comincia a vociferare che il numero legale (476 delegati) non c’è. Intanto, parlano i candidati. Si approva il documento, con 378 sì, 74 no e 24 astenuti. Numero legale sul filo. E niente maggioranza qualificata, quella che serve per lo Statuto. I bindiani chiedono che si voti separatamente la modifica permanente e quella temporanea. La Sereni vuol mettere al voto anche questo, la Bindi si oppone, minaccia di chiedere la verifica dei numeri. Dal palco il responsabile Organizzazione, Zoggia annuncia che la Commissione si riunisce e l’assemblea si riaggiorna alle 13 e 30.
PASSANO i minuti. Chiacchiera Matteo Orfini: “C’è mezzo Pd che ha lavorato per far mancare il numero legale in assemblea, far slittare il congresso ed evitare pericoli per il governo. Sono quelli che hanno lavorato con Letta, Franceschini, Bersani. E anche Epifani: se convochi un’assemblea e poi non riesce, ci sono delle responsabilità... ”. Zoggia un paio di settimane fa aveva ammesso che bisognava considerare decaduti 200 o 300 membri dell’Assemblea. E poi non l’ha fatto. I minuti passano lenti. L’atmosfera è un po’ quella del Capranica: dall’ovazione per Prodi al tradimento. Il capo ufficio stampa del Pd, Seghetti, spiega che sì, la data c’è, ma a norma di statuto in questa situazione le primarie nazionali vanno a marzo. La riunione si scioglie. Riparte il tutti contro tutti. Bindi: “Senza congresso salta il governo e il partito”. I bersaniani danno la colpa a renziani, civatiani e bindiani. Renzi commenta che si è fatta una pessima figura, ma che la data c’è e le regole pure. Cuperlo anche spinge per l’8, senza se e senza ma. Veltroni, Bindi, i Giovani Turchi, i dalemiani e i renziani in direzione riusciranno a contrastare lettiani, bersaniani e franceschiniani, se si arriva a uno scontro? Stando ai numeri no.

il Fatto 22.9.13
Psichiatria Democratica
di Antonio Padellaro

C’è il Pd di Renzi, c’è il Pd di Letta e c’è quello di Cuperlo, ma forse non sapremo mai chi sarà il nuovo leader del Pd, poiché nel Pd hanno smarrito, oltre al senno, anche 500/600 delegati (non è uno scherzo) dati ufficialmente per dispersi. Ma si tratta di un calcolo sommario, come nella contabilità delle vittime dopo le inondazioni del Gange. Quanto al dibattito interno, il sindaco di Firenze ha parlato male del premier fingendo di appoggiarlo, mentre i supporter del premier fanno sapere in giro che preferiscono una bella scissione, piuttosto che farsi comandare dal sindaco di Firenze.
Notevole la sintesi dell’altro candidato Civati che ha esclamato: “Basta con questo atteggiamento da sfigati”.
Infine, per i cultori dell’acido lisergico, si consiglia la lettura dello statuto del Pd, che sembra scritto da un gruppo di enigmisti durante un viaggio psichedelico piuttosto intenso.
Poi c’è Sel che è il partito di Vendola, prima alleato di Bersani nelle scorse primarie Pd, poi alleato del Pd nelle passate elezioni (cosa che gli ha consentito di incamerare una buona fetta di deputati e senatori), però subito dopo avversario del Pd delle larghe intese, e domani chissà se ti va, come cantavano gli Articolo 31. Dei Cinquestelle (spesso impegnati in riunioni molto simili ad agitate terapie di gruppo) l’unica cosa sicura è che non faranno mai alleanze col Pd (né risulta che il Pd voglia fare alleanze con i Cinquestelle). Incuranti dei sondaggi sfavorevoli (chiaramente manipolati, fanno sapere) ambiscono a conquistare il 51 per cento dei voti alle prossime elezioni. Di Scelta Civica si sa davvero poco, come nell’Ottocento certe carovane che si addentravano nel deserto dei Gobi. Ogni tanto ne riemerge qualche brandello malconcio: i resti delle truppe cammellate Udc, gli sciamani di Italia Futura mentre del professor Monti si sa soltanto che vaga narrando di avere avuto in pugno l’Italia, ma poi di averla chissà come smarrita. Detto questo, ditemi voi per quale ragione al mondo, Silvio Berlusconi, sia pure da condannato, pregiudicato e decaduto, non dovrebbe tornare a vincere anche le prossime elezioni.

il Fatto 22.9.13
Contorsioni
Ecco lo Statuto, un rebus a ostacoli

Verso le 15 di ieri pomeriggio Stefano Ceccanti (non per niente un costituzionalista) rendeva noto il “cronoprogramma dettagliato per votare l’8 dicembre rispettando lo Statuto”. Già così, sembra uno scioglilingua. Se poi si dà uno sguardo a quest’oggetto del contendere il mal di testa è garantito: la direzione fa il regolamento; poi si fanno le commissioni provinciali; si procede alle candidature nazionali; poi, si fanno i congressi di circolo, le convenzioni regionali e quelle nazionali, nel corso delle quali vengono presentate le piattaforme politico-programmatiche proposte dai candidati. Sembra il gioco delle Matrioske. A questo punto si fanno le primarie per eleggere segretario e Assemblea nazionale. Finito qui? Sarebbe troppo facile. Se nessuno dei candidati arriva al 51% si va al ballottaggio. Ma non nei gazebo: tocca alla nuova Assemblea votare. Tutto chiaro, no?

l’Unità 22.9.13
Pippo Civati
«Tutti eludono il tema vero: quanto durerà questo governo?
Insultante accusare me per il mancato accordo sulle modifiche statutarie»
«Usciamo dalle secche delle larghe intese»
intervista di Maria Zegarelli

ROMA «No, questa proprio non l’accetto. Io avrei fatto saltare l’accordo? Ma se nessuno mi ha mai chiamato...». Pippo Civati è furioso.
Stefano Fassina elenca i nomi di chi ha fatto saltare tutto: Bindi, Civati e il veltroniano Morando.
«A riprova del fatto che fossi in buona fede io ho fatto un intervento non polemico, ho detto che finalmente parte il congresso e si parla di politica. Non ho parlato di regole, non ho nessuno in commissione, nessuno in segreteria, Epifani non mi ha mai chiamato. Non ho disdetto alcun accordo. Attaccano me che sono una minoranza in questa assemblea dove avrò venti amici? Tra l’altro vorrei far notare che io ho votato affinché l’Assemblea si esprimesse per parti separate sul documento... Sono insultanti».
Di fatto adesso si è arrivati a un punto morto. Tutto si risolverà in Direzione? «Forse si dovrebbero cambiare i dirigenti per essere sicuri di arrivare a un qualunque risultato. Sono quattro mesi che dico che bisognava cambiare i regolamenti ma non lo Statuto, hanno discusso per settimane e settimane per arrivare dove? Spero davvero che adesso ci si metta a lavorare per fare al più presto il congresso».
Civati, lei non è stato tenero nell’analisi del rapporto tra partito e governo. Vuole andare al voto?
«Sono critico per la partecipazione del Pd a un governo tutto politico, talmente ambizioso da voler cambiare la Costituzione mentre siamo in queste secche. Io ho posto una questione di cui gli altri candidati fanno finta di non volersi occupare: quanto durerà e perché durerà questo governo».
Crede che in realtà la partita del congresso si giocherà tutta su questo?
«A me sembra la questione centrale anche se nessuno degli altri candidati lo ammetterà mai. Gli stessi che negano di volersene occupare in realtà pensano solo a quello, lo fa Renzi che ha legittime ambizioni e lo fanno altri che stanno parlando di eventuali cadute del governo».
Per lei quanto deve durare?
«Io non ho problemi a dire che sarebbe un bene andare a votare a marzo, ragione per la quale dico anche un’altra cosa su cui sono d’accordo con D’Alema».
Cioè?
«Sul fatto che se si va a votare a marzo ha un senso parlare del candidato premier e in questo caso il più forte mi sembra Matteo, ma se si va al voto nel 2015 di cosa stiamo discutendo? Se anche Renzi dice, come ha detto, che il governo deve andare avanti, perché ci stiamo affannando a cercare un candidato premier?».
Un Pd tutto a sinistra quello che immagina lei?
«Un Pd che costruisce un’alleanza con Sel, costruendo un soggetto politico il più possibile unitario. E riapre un’interlocuzione con Landini, Rodotà, Zagrebelsky, quel movimento che io chiamo di sinistra costituzionale che si vedrà a Roma il 12 ottobre. Io ci sarò per dire che una parte del Pd è con loro».

il Fatto 22.9.13
Il duello tra Gianni & Matteo, il professorino e il battutista
di Wa.Ma.

Si abbracciano, si baciano. Si sfidano, ma non si attaccano. Gianni Cuperlo e Matteo Renzi, ognuno con il suo stile, uno raffinato e intellettuale, l’altro divertente ed efficace. Per un’ora buona ieri mattina all’Auditorium della Conciliazione sembra davvero di assistere all’apertura di un congresso. Il Pd arriva da una notte di trattativa. La vecchia guardia o non c’è (vedi d’Alema e Veltroni) oppure è in platea. Sul palco si fronteggiano i “giovani” candidati. Per primo interviene Cuperlo. Vestito scuro, camicia bianca, occhialetti. Legge un intervento immaginifico, che ha l’ambizione di tornare alla radici per guardare al futuro. “Un paio di giorni fa sulla rete è circolato un video. Una pubblicità di una compagnia telefonica che mostrava la generosità di un medico rispetto a un uomo anziano e malato che trent’anni prima gli aveva insegnato il senso del dono. Con lo slogan ‘Dare è la migliore comunicazione possibile’. Cinque, dieci anni fa i pubblicitari non avrebbero mai scelto quel messaggio. Nella coda della crisi più grave di un questo secolo ci sono anche le radici di un cambio di pensiero”. Nell’incipit c’è implicitamente tutto l’impianto del candidato che arriva dalla Fcgi e poi dai Ds: “A noi adesso spetterebbe pensare come la società, l’economia, l’accesso ai beni comuni potrebbero essere dopo la lunga stagione della destra”. Applausi. Cuperlo parla di “alternativa radicale”, accenna ai “poveri, tanti da far paura che non fanno più scandalo nemmeno in questo paese”.
CITA il Papa “che parla al telefono con chi mai nella vita avrebbe pensato di parlare al telefono col Papa”. Non si fa mancare la stoccata (a Renzi): “Non c’è qualcuno che vuol tornare a vincere e qualcuno che vuole perdere ancora. Qui dentro vogliamo vincere tutti”. E ancora, il monito (sempre a Renzi): “ll migliore di noi da solo non ce la fa”. Quindici minuti intensi, applausi continui, convinti. Ovazione finale. Poi, l’abbraccio con Renzi, che sale sul palco. Immancabile camicia bianca. Postura, espressione, toni diretti, provocatori. Immediati. A Cuperlo replica subito: “La crisi non è crisi del modello della destra. In questi 20 anni abbiamo governato anche noi. Se non siamo in grado di interpretare il cambiamento è un nostro problema”. Ci tiene a ribadire che lui stava da un’altra parte. Di nuovo se la prende col governo: “L'imu è il modello di un’assoluta miopia. Ci siamo fatti dettare l’agenda da Berlusconi, sono venti anni che glielo consentiamo”. Poi, con Letta: “Se si è sforato il rapporto deficit/Pil o si ha il coraggio di dire che quei parametri vanno messi in discussione o che rimetteremo a posto le cose con l’Imu o con un’altra cosa e rientreremo nel 3%. Non è giusto dare la colpa all'instabilità”. Gioca il ruolo che gli viene meglio, quello dell’oppositore, del corpo estraneo, che però vuole diventare premier: “Molti di voi penseranno quello che dice Berlusconi, che sono un battutista”. A Cuperlo fa una sorta di omaggio che marca la distanza, citando il verso di Rilke con cui lui intitolò un congresso Ds “Il futuro entra in noi molto prima che accada”. E gli chiede lumi. Applausi anche per lui, c’è anche chi in piccionaia continua a gridare “bravo”. Quando finisce i due si stringono di nuovo la mano. Parla Pittella, che richiama al ruolo dell’Europarlamento. E poi Civati, che guarda a sinistra del Pd. A Renzi (che ha condannato il fatto che gli operai non votano più Pd): “Non è che se gli operai non ci votano più, andremo alla corte di Marchionne”. Un’ora di dibattito. Poi si torna ai siluri di corrente.

La Stampa 22.9.13
I sospetti dei quarantenni: è una trama Bersani-Letta
Orfini: “Hanno provato a far saltare tutto, non ci riusciranno”
di Carlo Bertini
qui

La Stampa 22.9.13
La doppia platea dei Democratici
Cuperlo punta tutto sulla rassicurazione e convince, il sindaco è preoccupato di non spaventare troppo
E Renzi non riesce a sedurre i notabili
di Federico Geremicca

L’ultima obiezione, in ordine di tempo, mossa a Matteo Renzi dai maggiorenti del Pd, riguarda - è storia nota - il fatto che non sarebbe chiara l’idea di partito che il sindaco di Firenze avrebbe in testa. Ieri, finalmente, Renzi è andato alla tribuna dell’Assemblea nazionale e nessun dubbio, ora, è più possibile. Sì, la sua idea di partito è sfuggente, quantomeno vaga: magari per la semplice ragione che considera il partito fattore non essenziale per l’obiettivo da raggiungere. Ecioè una piena vittoria elettorale con lui stesso candidato a Palazzo Chigi.
Può piacere o non piacere ma ora il quadro è chiaro, e una scelta «informata» del tutto possibile: non foss’altro perché, immediatamente prima di Renzi, alla tribuna c’era andato Gianni Cuperlo. Nonostante il bon ton e gli apprezzamenti di maniera, tra i due corre la stessa differenza che c’è tra il giorno e la notte: e gli elettori che l’8 dicembre si recheranno alle urne per le primarie (se la data sarà rispettata...) hanno di fronte un bivio che più chiaro non si può. Da una parte c’è la rottura con tutti i modelli del passato: dalla forma partito ai temi da coltivare, fino alle strategie di comunicazione; dall’altra, quel che un tempo si sarebbe definito «rinnovamento nella continuità», cioè il ripartire da quel che si è, cambiando quel che va cambiato. Senza personalismi e senza rivoluzioni.
Se questo è il profilo (ed il progetto) dei due maggiori candidati in campo per la guida dei democratici, non può sorprendere il fatto che nella sala mezza vuota dell’Auditorium della Conciliazione, Cuperlo sia risultato più convincente del suo competitor. Più convincente e più rassicurante. Il filo del ragionamento svolto di fronte alla platea di dirigenti Pd - una sorta di veniamo da lontano e andiamo lontano - ha avvolto come in un caldo bozzolo le avanguardie di un partito scosso dalla mancata vittoria del febbraio scorso e intimorito dalla possibile rottamazione prossima ventura. Il richiamo alle tradizioni, alle radici e alla solidità organizzativa che sarebbe indispensabile per vincere, ha convinto i più. «Serve un partito», ha concluso Cuperlo: Renzi pensa più o meno il contrario.
È la solita faccenda dell’«uomo solo al comando», metafora usata di frequente per contestargli un «difetto» che il sindaco di Firenze - naturalmente - non ritiene affatto tale. Un uomo solo al comando, nell’idea dell’ex (?) rottamatore è la fotografia della politica così come si è trasformata dagli Anni 80 e 90 ad oggi, forti leadership, messaggi semplificati, decisioni rapide ed il partito concepito un po’ come cinghia di trasmissione e un po’ come cassa di risonanza delle intuizioni del leader. Può non piacere, naturalmente, e infatti a molti non piace: ma davvero non si può più dire che «quel che vuole Renzi non si capisce affatto».
Al contrario: si capisce talmente bene, che l’Assemblea del Pd non ha accolto con entusiasmo l’intervento di Matteo Renzi, e lo stato maggiore del partito - è storia nota - gli ha dichiarato fin da subito - intendiamo fin dalle primarie dell’autunno scorso - una guerra senza quartiere (salvo poi sfaldarsi dopo i ripetuti e dolorosi traumi post-elettorali). E forse è stata proprio la consapevolezza di giocare «fuori casa» che ieri ha condizionato il sindaco di Firenze, imprigionandolo in un intervento che è parso preoccupato soprattutto di non spaventare ulteriormente quel che un tempo si sarebbe definito il «corpo del partito».
Ma l’idea, il progetto di Renzi non ne è uscito mutilato: quel che si doveva intendere, infatti, s’è inteso. Né è cambiato il suo modo (sgradito ai più) di parlare alle platee Pd: «noi» e «loro» - quasi a marcare una diversità, se non proprio una estraneità - e addirittura il «signori, non pensiate che...», quasi fosse di fronte ad un consesso di architetti, di odontotecnici o di commercialisti.
Il giorno e la notte, appunto. Da una parte il migliore tra gli allievi di Massimo D’Alema, dall’altra un puro esempio di post-ideologismo. In qualunque elezione, Cuperlo farebbe il pieno tra gli elettori del centrosinistra, mentre Renzi ne perderebbe un bel po’ per strada ma sfonderebbe nel campo avverso. Il bivio è chiaro. Il Pd deve soltanto scegliere. Senza più alibi, ipocrisie e ora incomprensibili giochi al rinvio.

Corriere 22.9.13
Dietro la sfida cresce il malumore per le larghe intese
E scatta l’alleanza Renzi-Cuperlo per cambiare la classe dirigente
di Maria Teresa Meli

ROMA — Nell’assemblea dell’assurdo può capitare anche questo: che i due principali contendenti si scontrino senza farlo direttamente. Uno dei duellanti, addirittura, non è nemmeno presente. L’altro non fa neanche parte del “parlamentino” del Pd, benché prenda la parola lì dentro.
Enrico Letta e Matteo Renzi si fanno la guerra a distanza, per interposta persona, anzi, per interposte persone. Ieri la battaglia l’ha vinta il sindaco di Firenze, anche se non giocava in casa, perché l’assemblea è composta dai quadri e dall’apparato del partito. Però aveva dalla sua due alleati d’eccezione. Il primo è Gianni Cuperlo, che proprio come lui, vuole pensionare (e, in alcuni casi prepensionare) i protagonisti del “patto di sindacato” che sta reggendo ancora il Partito democratico. E infatti i due candidati, pur parlando linguaggi diversi e immaginando Pd opposti, hanno offerto l’immagine di quello che potrebbe essere il partito del futuro: composto da una classe dirigente giovane e che, comunque, nulla ha a che fare con chi ha partecipato alla precedente gestione. «E’ nato un nuovo partito, chi ancora fa resistenza ne prenda atto», dice il segretario della Campania Enzo Amendola, rivolto alla vecchia guardia.
Il secondo alleato di Renzi nel duello con Letta è il malumore del Pd di fronte a un governo che elettori e iscritti sopportano con sempre maggior fatica. Non è un caso che Renzi, che in una platea come quella perde la gara dell’applausometro con Cuperlo, abbia ricevuto il battimani più convinto e più forte quando ha sparato contro le larghe intese: «Ho l’ambizione di voler governare da solo non a rimorchio di qualcun altro». Del resto l’aria che tira dalle parti del Pd la si era notata anche il giorno prima. Quando Guglielmo Epifani aveva detto: «Che sia tra un anno o meno vogliamo tornare alle urne con una riforma elettorale».
Il “timing” non è esattamente quello voluto dai lettiani. E non potrebbe esserlo. Epifani si rende perfettamente conto che il Pd è a disagio e spiega ai suoi: «Dobbiamo avere il coraggio di sfidare Berlusconi, di dirgli che o accetta le nostre proposte o si va a casa». In realtà un po’ tutti nel partito la pensano così. Per questa ragione Renzi non ha difficoltà in quel consesso a vincere la sfida con Letta sul fronte del governo.
Ma tra i due è guerra anche per le regole e per il Congresso. I lettiani, che si alleano con i bersaniani, non lo vorrebbero l’8 dicembre. Lo lascia intendere un fedelissimo del premier, Marco Meloni, che se la prende con Renzi per la sua insistenza: «Lui vuole tenersi aperta una finestra elettorale». Cosa che, ovviamente, il premier non vuole. Perché quella finestra coinciderebbe con il suo addio a palazzo Chigi e con l’investitura del sindaco come candidato a palazzo Chigi. I lettiani poi hanno lottato fino all’ultimo per la modifica dello Statuto, con lo scopo di ottenere che il segretario non sia automaticamente il candidato del partito alla presidenza del Consiglio. Cosa che, di fatto, escluderebbe Letta da qualsiasi possibile futura corsa.
Ma anche questa volta hanno subito una sconfitta: lo Statuto non si tocca. Per loro quello era un punto irrinunciabile. Tanto che l’ambasciatore del premier nella Commissione che doveva decidere le regole, Gianni Dal Moro, si è opposto a qualsiasi mediazione. Alla fine persino il bersaniano Davide Zoggia aveva ceduto, ma Dal Moro si è imposto facendo mancare l’unanimità. Ragion per cui l’assemblea è finita malamente senza un voto sullo Statuto, rimandando all’esterno l’immagine di un partito in preda al caos. Un altro punto per Renzi, che ottiene la data del Congresso e il mantenimento di uno Statuto che salvaguarda il partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria perché fa coincidere le figure del segretario e del candidato premier. «Che figuraccia che hanno fatto», sorride il sindaco, mentre parla con i suoi. E per spiegare il motivo di quel largo sorriso basta ascoltare quello che dice Paolo Gentiloni: «Neanche se lo facevano apposta riuscivano a organizzare a Matteo uno spot elettorale come questo: la confusione che hanno creato testimonia che per salvare il Pd c’è bisogno di qualcuno che, come Renzi, vuole rivoluzionare questo partito».

Corriere 22.9.13
In scena il talk show senza copione di un partito anarchico
di Antonio Polito

Qual è il male oscuro del Pd? Quale demone del masochismo lo induce a mostrare in pubblico sempre la sua faccia peggiore, fatta di caos e divisione? E come può sperare di convincere gli elettori a farsi dare le chiavi dell'Italia se non è in grado di badare a se stesso?
Sono le solite domande. Ma uno se le deve rifare dopo aver seguito il talk show dell’assemblea nazionale del partito, convocata per prendere la fatale decisione sulle regole del congresso e alla fine incapace di prenderla, al punto che il segretario Epifani ha dovuto rifugiarsi in corner e rinviarla ancora. Anche le risposte possibili sono le solite. La prima dice che il Pd è dilaniato dal correntismo, si può ormai dire dal frazionismo perché i polli di Renzi e i tacchini di Bersani da tempo si comportano come se non fossero più nello stesso partito. Ammirati da tanta furiosa dialettica, alcuni commentatori ne deducono che il Pd è l’unico «partito vero» che ci sia rimasto. Se è così lo preferiremmo finto. Un’altra risposta è che per il Pd la democrazia interna è diventata «la bottiglia che ti ubriaca anche se non l’hai bevuta», per dirla con Lucio Dalla. La sua vita è del tutto sregolata e anarchica dal lunedì al venerdì, e poi si pretende che il sabato rientri nel formalismo giuridico più asfissiante: basti pensare che ieri il patatrac è avvenuto per mancanza del numero legale. La terza risposta possibile è che il conflitto di personalità è più cruento che in un partito personale. Anche Alfano e la Santanchè si odiano, ma quando vanno nell’ufficio del capo devono sorridersi. Nel Pd l’ufficio del capo non c’è. E dovrebbe essere ormai chiaro che l’assenza di autorità non è un tratto di superiore civiltà, è piuttosto la condizione primordiale della guerra di tutti contri tutti descritta da Hobbes. Ma queste spiegazioni, ancorché vere, sono tutte parziali, e pure sommate non fanno una risposta. Ciò che davvero lacera e consuma il Pd è una radicale diversità di opinioni sulla propria funzione, sulla missione che è chiamato a svolgere, sul servizio che deve rendere all’Italia. Infatti tutto l’arzigogolo intorno alle regole, la data del congresso, il modo di svolgerlo, il candidato segretario e/o il candidato premier, gira intorno alla seguente domanda: il Pd sostiene il governo che guida, vuole assicurargli lunga vita e pieno successo, così da ripresentare Letta alle prossime elezioni e vincerle? O il Pd considera già fallito il governo che guida, si sente in campagna elettorale e dunque non vuole perdere terreno nel gioco tattico col Pdl a chi l’attacca di più, così da presentare Renzi alle prossime elezioni e vincerle? Il Pd è ancora al governo o già all’opposizione? Deve pensare a salvare l’Italia o a salvare se stesso? Il dilemma è ieri apparso chiaro nel dibattito. Renzi, il quale aveva accettato il ricatto dei big sulle modifiche allo statuto pur di strappare una data (l’8 dicembre) che almeno teoricamente tenesse aperta una finestra elettorale, ha usato parole molto dure con Letta. Se non sai tenere il 3% di deficit, che ci stai a fare? E perché, se non ce la fai, dai la colpa a me e a Berlusconi, additati come responsabili dell’«instabilità politica»? Un argomento oggettivamente forte, e che nelle prossime settimane può diventare sempre più forte. Ma anche pericoloso, perché lo stesso Renzi lo ha condito della suggestione, mai prima ventilata nel Pd, di liberarsi di quel vincolo del 3%. Un approccio molto «berlusconiano» al problema italiano, e che fa tremare al pensiero di una eventuale campagna elettorale giocata, da una parte e dall’altra, alla vigilia del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea, di nuovo ai margini dell’Europa.

Repubblica 22.9.13
Sulle modifiche allo Statuto si giocano i veri rapporti di forza prima del congresso. Le paure del Sindaco di Firenze
di G. C.

Data, premiership e segretari regionali la battaglia per controllare il partito
ROMA — Il diavolo, com’è noto, si nasconde nei dettagli. E nel labirinto di regole e emendamenti, il Pd mette in palio l’anima. Talmente chiaro che la posta in gioco fosse alta, che dal mese di giugno con cadenza quasi settimanale si è riunito il “comitatone” per le regole del congresso democratico: 19 membri di tutte le correnti. Scontri e accuse di trabocchetti da parte dei renziani ai bersaniani, soprattutto di volerlo fare slittare il congresso al 2014 per salvaguardare Letta. La data, il ruolo del segretario e il controllo regionale del partito. Sono stati questi i tre punti su cui si sono spaccati i democratici.
L’accoro era fatto ma poi salta tutto. Margherita Miotto, bindiana, e Roberto Morassut in nottata avevano già perso le staffe e dato l’alt alla modifica delle modifiche, quella che derubrica il leader a semplice segretario del partito, non più candidato a Palazzo Chigi.
Sarà questo il casus belli che fa saltare tutto. Lo solleva Rosy Bindi. Lo pone il bindiano Luigi Marinucci chiedendo in Assemblea una votazione per parti separate della modifica di Statuto. La questione non è da poco: se non si cambia lo Statuto, non si fanno le primarie per il premier quando si tornerà al voto. E infatti Renzi, in pole per la segreteria, vuole lasciare le cose come stanno. «Ci stiamo facendo del male...»: avverte Gianni Cuperlo. Alla notizia dell’impasse Matteo Renzi, seduto in platea, chiede chiarimenti. È circondato da un capannello a cui si aggiungono il ministro Dario Franceschini e il lettiano Gianni Del Moro. «Tranquillo, lo rassicurano». «Vabbene, ma fatemi capire», insiste lui.
Stesso discorso per la data delle assise. L’Assemblea si arrende. Ha votato solo una “Raccomandazione” nella quale è indicata la data (l’8 dicembre), l’obolo per le primarie (due euro) e la lista unica che sosterrà i candidati alla guida del partito. Ma lo Statuto resta invariato. Ma rischia di essere solo un appuntamento indicativo. Da ratificare almeno nella direzione. Lo slittamento è il peggior nemico del sindaco di Firenze. Rinviare l’appuntamento in primavera sarebbe la sua sconfitta.
E infatti i sospetti partono subito. Matteo Orfini, portavoce dei“giovani turchi” e sostenitore della prima ora di Cuperlo, non ne fa neppure mistero: è Pierluigi Bersani il maggiore indiziato di volere fare slittare a chissà quando il congresso. E di giocare di sponda con il premier Letta, che avrebbe lo stesso interesse. L’ex segretario, lasciando l’Assemblea, dichiara: «Sì, quella data decisa per il congresso è un’indicazione, deciderà la direzione di venerdì come si procede...». I bersaniani si indignano e negano su tutta la linea. Cuperlo taglia corto: «Ho fiducia piena in Pierluigi, escludo qualunque sua mossa per la chiarezza delle posizioni che ha sempre mantenuto». I renziani non vogliono neppure sentire l’ipotesi di slittamento. «Se qualcuno vuole rimandare il congresso si assuma le sue responsabilità - contrattacca Bindi - Se qualcuno vuol far saltare il banco non dia la colpa a me». Le tensioni diventano resa dei conti. Beppe Fioroni spiega perché prima di febbraio è onestamente impossibile tenere le primarie. La sindrome dei traditori ritorna.
E poi resta il nodo dei congressi locali. Se non cambia lo statuto si eleggono prima i segretari regionali, quelli che controllano la struttura in “periferia” e guidano la formazione delle liste. Renzi non vuole. Teme di perdere il controllo del partito se e quando diventerà segretario.

Repubblica 22.9.13
Eugeni Scalfari, nel suo articolo di oggi, a proposito del Pd

Il Pd è sempre più alle prese con i suoi problemi interni: l’assemblea che doveva deliberare alcune modifiche di statuto e mettere il timbro sull’accordo tra le varie correnti già raggiunto, è saltata perché all’ultimo momento è mancato il numero legale. Ne è nata una “cagnara” poco decorosa che Epifani ha tentato di superare ma con scarsi risultati. Queste continue schermaglie tolgono a quel partito la possibilità di risollevarsi e ristrutturarsi. Da elettore democratico Renzi non mi sembra molto adatto alla carica di segretario, ma se questa è l’opinione della maggioranza mi pare più che giusto che essa abbia modo di manifestarsi.
A parte queste osservazioni il Pd per quanto riguarda lo scenario nazionale, reagisce nel solo modo possibile: denuncia la manovra berlusconiana e il pericolo che essa rappresenta per il Paese ma, dal canto suo, si preoccupa anch’esso di tracciare un programma gradito agli elettori se e quando si dovesse andare al voto: non meno tasse ma distribuite in modo diverso, più progressivo sui redditi e sui patrimoni più alti, una redistribuzione del reddito che faccia diminuirele diseguaglianze e rilancilavoro e produttività.
Questo è anche il programma di Letta ma la differenza è nei tempi di realizzazione. Letta procede con lentezza secondo il Pd. Deve accelerare il passo, rispettare gli impegni europei ma passare al trotto se non al galoppo, e se il Pdl lo impedisse, allora meglio andare alle urne.
La maggioranza dei simpatizzanti Pd è su queste posizioni e Renzi le cavalca con abilità. Vuole vincere il Congresso per attuarle e riesce ad avere l’appoggio non soltanto della parte più moderata del suo partito, ma anche di quella riformista e perfino della sinistra. È di questi giorno l’appoggio del sindaco di Milano, Pisapia, che fu candidato di Vendola.
Renzi è un torrente in piena. Ciriaco De Mita in una recente intervista alCorriere della Seraha dato di Renzi una perfetta definizione: i torrenti nel nostro Paese hanno una forza che tutto travolge nelle stagioni in cui sono in piena; poi, quando arriva l’estate, vanno in secca. Renzi è in piena se si voterà nei prossimi mesi, ma se dovesse aspettare un paio di anni andrà in secca e la sua forza sarà molto diminuita. Diverso – ha detto De Mita – è l’andamento dei fiumi: procedono più lentamente con una velocità più o meno costante ma ampliando il loro letto sempre di più fino a quando sboccano al mare.
Fin qui De Mita. Ritengo molto appropriata la sua immagine, dove Renzi è il torrente e Letta il fiume. Capisco chi oggi sostiene il primo, purché non impedisca a Letta di fare il suo percorso nell’interessedel Paese. Ove questo accadesse lo fermino o saranno corresponsabili delle conseguenze.

l’Unità 22.9.13
L’Anm denuncia «la campagna di delegittimazione»
di C. Fus.

ROMA «I magistrati sono stati bersaglio di attacchi e insulti sempre più numerosi e violenti, fino a giungere ad una campagna organizzata di delegittimazione». Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, sceglie parole durissime davanti ai suoi colleghi del comitato direttivo centrale riuniti ieri mattina al sesto piano della Cassazione. Sabelli è stato in questi due anni non semplici per la magistratura un leader moderato e istituzionale, come ha sempre chiesto il presidente Napolitano, che dei magistrati è il numero uno. Ma ora la misura è colma anche per lui. Gli attacchi quotidiani del centrodestra che forse non faranno più notizia ma sono come la goccia d’acqua che alla fine scava il sasso. E poi, nelle file della magistratura, anche le reazioni del Pd sono giudicate spesso deboli, per non parlare delle dichiarazioni di un ex collega come Violante che parla di un «Csm sbilanciato», «basta con l’autogestione» e di «responsabilità diffuse». Gli stessi interventi del presidente della Repubblica, che qua e là tirano le orecchie anche ai magistrati, vengono poi ampliate e deformate nella polemica giornalistica quotidiana.
Se, dopo 50 giorni di attacchi (dal 1°agosto, giorno della sentenza che ha condannato Berlusconi), venerdì s’è fatto sotto con un comunicato durissimo il vertice del Csm (vicepresidente Vietti, procuratore generale Ciani, primo presidente Santacroce), ieri ha alzato la voce, dicendo basta, il vertice del sindacato delle toghe per cui è in corso «una campagna organizzata di delegittimazione». Intendendo che non è più solo Berlusconi il nemico.
L'Anm, si legge in un documento approvato a larga maggioranza «ha sempre reagito con forte senso di responsabilità, senza spunti polemici e sovraesposizioni personali, alla campagna organizzata di delegittimazione che in modo sempre più insistente colpisce la magistratura evocando una contrapposizione inaccettabile rispetto all’esercizio della giurisdizione».
L’Anm, continua il documento, «ha sempre contribuito alla discussione sulle riforme con proposte e iniziative destinate a realizzare i principi costituzionali sulla giustizia e i magistrati tutti hanno collaborato attivamente all’attuazione delle riforme già varate. Proseguiremo costruttivamente in questo atteggiamento, perché la magistratura, nell’adempimento dei propri compiti istituzionali, non è e non può essere impegnata in alcuna contrapposizione». Parole destinate anche al Colle che venerdì aveva chiesto basta contrapposizione tra politica e giustizia. Poi l’appello finale, al Paese, con cui i magistrati chiedono «rispetto, a tutela dello Stato di diritto, per il ruolo e la collocazione della magistratura».
Solitudine, preoccupazione, rabbia. Sono i sentimenti diffusi tra le toghe di ogni corrente. A cui dà voce anche un giudice finora silente, per quanto assai esposto e più volte attaccato, come Alessandra Galli, figlia di Guido, il giudice istruttore ammazzato dai terroristi di Prima Linea nel 1980. È stato, anche, il presidente del collegio della Corte d’Appello a Milano che ha confermato in secondo grado la condanna nel processo Dititti tv. Contro di lei era partita, come da copione, la solita campagna di delegittimazione.
«Siamo stati lasciati soli davanti a questi attacchi e si pretende anche il silenzio assoluto» ha detto il giudice prendendo la parola al Comitato direttivo. Galli ha denunciato un «circolo vizioso» che da una parte mette il bavaglio alle toghe, da cui si pretendono «atteggiamenti costruttivi» mentre altri tengono comportamenti «che sono fuori dallo stato di diritto». Restare zitti, ha concluso, crea «una falsa costruzione della realtà poi difficile da smontare».

il Fatto 22.9.13
La risposta dei magistrati al Colle: “Lasciati soli”
La denuncia di Alessandra Galli, Presidente d’Appello nel processo Mediaset
Venerdì Napolitano aveva parlato di “conflitto politica-giudici”
di Antonella Mascali

L’ultima strigliata alle toghe del presidente Giorgio Napolitano ha provocato la fine dell’idillio con l’Associazione nazionale magistrati, che aveva voluto ingoiare in silenzio il rospo del ricevimento al Quirinale di una delegazione del Pdl, all’indomani della marcia sul Tribunale di Milano. Ieri il consiglio direttivo all’unanimità (un solo astenuto) ha approvato un documento in cui si chiede rispetto per i magistrati e si ribadisce che non hanno condotto una battaglia contro la politica. Durante il dibattito la dura risposta al Capo dello Stato di Alessandra Galli, presidente del collegio d’appello del processo Mediaset-Berlusconi: “C’hanno lasciati soli. Ci vogliono imbavagliati”. Secondo Galli, non si dice invece “cosa debbano fare gli altri” che si contrappongono ai “principi di diritto”.
VENERDÌ SCORSO Napolitano si era lamentato per “il perdurante conflitto magistratura-politica” e, invocando la riforma della giustizia, aveva esortato le toghe ad avere atteggiamenti “meno difensivi e più propositivi”. Le critiche sono arrivate due giorni dopo il videomessaggio di Silvio Berlusconi che aveva parlato di “via giudiziaria al socialismo”. “Chiediamo rispetto, a tutela dello Stato di diritto, per il ruolo e la collocazione della magistratura - si legge nel documento dell’Anm - La magistratura, nell’adempimento dei propri compiti istituzionali, non è, e non può essere impegnata in alcuna contrapposizione”. Quanto all’appello di Napolitano a essere “sobri”, “equilibrati”, “assolutamente imparziali” e con il senso del “limite”, l’Associazione risponde, nella sostanza, che di fronte alle calunnie berlusconiane è stata fin troppo sobria: “L’Anm ha sempre reagito con forte senso di responsabilità, senza spunti polemici e sovraesposizioni personali, alla campagna organizzata di delegittimazione che colpisce la magistratura nel suo complesso e i magistrati impegnati nella trattazione di delicati processi, evocando una contrapposizione inaccettabile rispetto all’esercizio della giurisdizione”. A proposito della supposta linea “difensiva” rispetto alle riforme della giustizia, ribatte: “L’Associazione ha sempre contribuito alla discussione sulle riforme con proposte e iniziative destinate a realizzare i principi costituzionali sulla giustizia e i magistrati hanno collaborato attivamente all’attuazione delle riforme già varate, con spirito di servizio e senso del dovere... ”.
Il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli rileva i danni delle larghe intese con il condannato Berlusconi protagonista: “La situazione contingente continua a condizionare le riforme, dopo i danni prodotti dalla stagione delle leggi ad personam”.
La giudice Galli ha denunciato la solitudine delle toghe denigrate. Lei stessa è stata dileggiata per la sua storia personale: è figlia di Guido Galli, il magistrato ucciso nel 1980 a Milano da Prima Linea. “Non riesco ad accettare la costante denigrazione del lavoro di mio padre e ora mio”, aveva detto nel 2010 al Quirinale durante la giornata della Memoria. Gli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo, nei mesi scorsi si sono spinti a scrivere nella richiesta di trasferimento del processo a Brescia (bocciata dalla Cassazione) che “i tragici fatti personali certamente inficiano la serenità di giudizio” di chi ha “pesantemente criticato l’operato di Berlusconi”.
GALLI rivendica: “La magistratura ha tenuto un profilo del tutto corretto e anche fenomeni di sovraesposizione mediatica, che possono esserci stati, sono diminuiti. Ma non si può chiedere il silenzio assoluto. Di fronte ad attacchi che non trovano risposte in nessuna sede, si impone la necessità di spiegare. Bisogna rompere questo circolo vizioso. C’è chi manifesta le critiche prima che vengano depositate le sentenze e nel frattempo noi dobbiamo tacere e vedere descritta una situazione completamente diversa dalla realtà”.
Poi, senza citarlo, risponde al capo dello Stato: “Ci chiedono di imbavagliarci, c’è una lesione forte del nostro diritto. Ci invitano a essere costruttivi per la pacificazione e non si dice invece cosa debbano fare gli altri che adottano comportamenti fuori dai principi di diritto”.

Corriere 22.9.13
L’Anm contro gli «attacchi». Il giudice Galli: noi lasciati soli
di Virginia Piccolillo

ROMA — «Ci chiedono di imbavagliarci e ci hanno lasciati soli». È durissima Alessandra Galli, che ha presieduto il collegio giudicante della Corte d’appello di Milano nel processo Mediaset a Silvio Berlusconi. Parla di fronte al comitato direttivo dell’Anm dove l’amarezza è palpabile, a tre giorni dal videomessaggio con il quale il suo imputato, condannato in via definitiva a 4 anni per frode fiscale, ha tuonato contro la «magistratura politicizzata». E all’indomani dell’invito del capo dello Stato a essere «meno difensivi e più propositivi sulle riforme». Alessandra Galli è esplicita: «C’è una lesione forte del nostro diritto. Ci invitano a essere costruttivi per la pacificazione e non si dice invece cosa debbano fare gli altri che adottano comportamenti fuori dai principi di diritto». «La magistratura — prosegue il giudice — ha tenuto negli ultimi tempi un profilo del tutto corretto e anche fenomeni di sovraesposizione mediatica che in passato possono esserci stati sono diminuiti. Ma non si può chiedere il silenzio assoluto alla magistratura. Di fronte ad attacchi che non trovano risposte in nessuna sede, si impone la necessità di spiegare: bisogna rompere questo circolo vizioso. C’è chi manifesta le proprie critiche prima che vengano depositate le sentenze e noi dobbiamo tacere, aspettare il deposito delle motivazioni e nel frattempo vedere descritta una situazione completamente diversa dalla realtà».
Un’amarezza condivisa. Il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, stigmatizza gli attacchi alle toghe, «diventati sempre più numerosi e violenti, fino a giungere a una campagna organizzata di delegittimazione». Ed Ezia Maccora, di Md, ottiene la quasi unanimità su un documento che contiene due punti fermi. Le toghe chiedono il «rispetto, a tutela dello stato di diritto» ed evidenziano che «la magistratura, nell’adempimento dei propri compiti istituzionali, non può essere impegnata in alcuna contrapposizione». «Vogliamo le riforme, ma nel rispetto dei principi della Costituzione — aggiunge Sabelli, alludendo al ddl Nitto Palma — mentre la situazione contingente continua a condizionare le riforme dopo i danni prodotti dalla stagione delle leggi ad personam».
Immediate le polemiche e la controreplica del pdl Nitto Palma: «O si trova una legittima punizione per le dichiarazioni dei magistrati prive di equilibrio o niente lacrime di coccodrillo».

Repubblica 22.9.13
L’Anm: riforme condizionate dalla stagione delle leggi ad personam. Il Pdl: attaccano Napolitano
“Campagna di delegittimazione contro le toghe”

ROMA — Gli attacchi alla magistratura sono «diventati sempre più numerosi e violenti, fino a giungere a una campagna organizzata di delegittimazione». Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha aperto così il comitato direttivo centrale che ha deciso di convocare il congresso a Roma dal 25 al 27 ottobre. Concetti che sono stati poi formalizzati in un documento votato praticamente all’unanimità che ruota su due punti: Il primo è la richiesta per le toghe di «rispetto, a tutela dello stato di diritto». Il secondo punto ribadisce che «la magistratura, nell’adempimento dei propri compiti istituzionali, non è non può essere impegnata in alcuna contrapposizione». Passaggi che sembrano essere risposte sia al videomessaggio di Silvio Berlusconi che all’intervento di Giorgio Napolitano che invitava a spegnere il conflitto tra politica e giustizia.
L’Anm replica anche all’esortazione del capo dello Stato Napolitano ad essere «meno difensiva e più propositiva» sulle riforme» e Sabelli dice: è stato un po’ un convitato di pietra nella riunione del organo direttivo dell’Associazione magistrati. Sabelli non elude il tema di fondo e dice: «Vogliamo le riforme, ma nel rispetto dei principi della Costituzione». E commentando il disegno di legge del senatore Pdl Nitto Palma, che prevede nuove fattispecie di illeciti disciplinari per i giudici, osserva che «la situazione contingente continua a condizionare le riforme dopo idanni prodotti dalla stagione delle leggi ad personam».
Affermazioni che il Pdl critica con forza. «L’Anm usa le polemiche di Berlusconi per polemizzare a sua volta con il presidente Napolitano», dice Fabrizio Cicchitto. Secondo il deputato berlusconiano. «l’Anm fa di se stessa una descrizione angelicata» e «non può descrivere una situazione inesistente quasi che nel corso di tutti questi anni non ci sia stata una partecipazione in prima linea della struttura associativa e di singoli magistrati sia sulle questioni riguardanti la riforma della giustizia, sia anche vicende più propriamente politiche». Anna Maria Bernini parla di «inaccettabile replica al Colle» e Sandro Bondi aggiunge: «I giudici rispettino le leggi e il Parlamento»

il Fatto 22.9.13
Avanti con le larghe intese per scassinare la stanza 138
di Furio Colombo

C’è un equivoco nel messaggio al Paese a reti unificate di Silvio Berlusconi, che ha sentito il bisogno di celebrare in modo estroso la sua condanna definitiva a quattro anni di reclusione, con esclusione dai pubblici uffici, per colossale e ingegnosa frode fiscale. Non lo dico per antiberlusconismo, di cui pure mi si può sospettare, ma per una necessità professionale di chiarezza. Infatti, l’equivoco ha deviato un poco anche il monito presidenziale, che ha rimproverato equamente due presunte parti in conflitto, senza notare che si trattava di un criminale e dei suoi giudici. Può essere utile ricordare brevemente.
Il condannato, apparso su tutte le reti, ha definito i giudici impiegati che dovrebbero obbedire e invece gli sono stati gettati contro dai “comunisti” del partito dell’odio. Ma ecco l’equivoco. È evidente che coloro che perseguitano Berlusconi e coloro che vogliono governare con lui, al punto da obbedirgli anche se in apparenza presiedono il governo, non possono essere le stesse persone. Se i giudici fossero politici, lo assolverebbero subito per permettergli di governare insieme ai suoi presunti persecutori. È vero che i famigerati “comunisti” non lo hanno mai politicamente battuto (o meglio, due volte, ma con Prodi in testa). Ora può, proprio lui, dimenticare, benché in tarda età, che proprio i “comunisti” hanno chiuso perentoriamente la bocca a chi stava provando a fare davvero opposizione (i “girotondi”, Sylos Labini, Antonio Tabucchi, L’Unità tra il 2001 e il 2007)?
Il fatto è che “le grandi intese” con Berlusconi (“da non demonizzare, da non criminalizzare, da non chiamare regime, stando, per favore, alla larga dalla malattia infantile dell’antiberlusconismo”) sono cominciate subito dopo Prodi e continuate sempre, nelle commissioni e in aula, fino a votare insieme leggi come “il pacchetto sicurezza” contro gli immigrati o il trattato di fraterna amicizia perenne con la Libia di Gheddafi.
MA VI PARE che chi vota insieme alla Lega e poi – all’unanimità (tranne due Pd e i Radicali) per Gheddafi (compreso l’esborso di una immensa cifra da cui ci ha salvato soltanto la loro rivoluzione) manderebbe i giudici a perseguitare Berlusconi? Egli lo dice perché persino lui si rende conto che altrimenti il suo rabbioso lamento apparirebbe (lo è) del tutto privo di senso.
Ma questo modo di mettere le cose (fingendo, creduto fino in alto, che la condanna sia parte della lotta fra politica e giustizia) lo protegge da una domanda che certo lo infastidisce: nel Paese in cui così tanti e così volentieri gli hanno ceduto e continuano, per prudenza, a cedergli, perché solo i giudici hanno mantenuto il loro impegno costituzionale, e lo fanno persino se sono autorevolmente sgridati? Ammettiamolo, questa domanda per Berlusconi è un tormento, ed è necessario trasformarlo in complotto. Berlusconi ci riesce sulla base di due fattori ignoti in altri luoghi e sistemi politici del mondo. Il primo è che un uomo, che dovrebbe essere già detenuto, parla al Paese. Il secondo è la protezione giornalistica che lo scorta.
Esempio. il giorno dopo il violentissimo attacco ai giudici che “hanno posto fine alla democrazia”, un importante commentatore politico ha scritto: “Berlusconi ha dato una grande lezione di realismo” (Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 19 settembre). Ma sullo stesso giornale, appena un mese dopo la pesante condanna definitiva (15 settembre) lo scrittore e critico Gian Arturo Ferrari aveva anticipato alcuni argomenti che gli sembrava utile fornire agli italiani: “Quella in corso su Berlusconi è semplicemente una guerra, ricompaiono i cappi al collo, le esecuzioni e i relativi plotoni. (...) Ma dietro il fango, lo sfregio, dietro l’indecenza c’è qualcosa di ancora più preoccupante. Il nostro futuro”. Ancora pochi giorni più indietro (12 settembre) il Corriere della Sera aveva pubblicato un editoriale di Michele Ainis in cui troviamo la chiave di tutto. Perché il condannato si vendica sui giudici ma non sui politici, dopo avere detto che la sua condanna è politica? Perché certi politici vogliono a tutti i costi governare con il condannato? Il fatto è che le due parti stringono insieme la chiave della stanza 138, dove hanno depositato qualcosa che è caro a entrambi, Ecco, nelle parole di Ainis, che è un apprezzato giurista, la spiegazione del thriller: “Il finimondo è un numero a tre cifre, 138, agitato come un altolà da quanti si oppongono al disegno di riforma e vedono un grimaldello per forzare la serratura della Costituzione. Sicché è guerra alle regole, tanto per cambiare (notare l'esasperazione, ndr). Infatti l’art. 138 detta le procedure per correggere la Carta.
DOV’È LA FERITA alla legalità costituzionale? “Un modo per dire che Stefano Rodotà, decine di altri giuristi, certo dello stesso livello e competenza di Ainis, e centinaia di migliaia di cittadini celebri e ignoti che hanno offerto le loro firma per salvare la Costituzione dai lavoretti in comune con il condannato e la sua gente, sono solo dei guastafeste male informati e mal guidati. Anzi, come dice testualmente Ainis con una stupefacente capriola, “sono i conservatori”. Ma in questo modo sappiamo che stanno fingendo di governare insieme per cambiare insieme la Costituzione. E diventa chiaro perché, proprio adesso, “dobbiamo continuare” (si chiama “stabilità”): interrompere adesso il governo vuol dire – certo per il Pd – perdere tutto: le riforme, stranamente e ostinatamente volute insieme a Berlusconi, a Santanchè, a Cicchitto, a Brunetta, perdere la faccia, perdere la fiducia degli elettori, che non hanno mai chiesto né voluto una riforma della Costituzione (non “con loro”). E andare al voto con il Porcellum. Resterà qualche dubbio sulla qualità del gioco politico della presunta opposizione a Berlusconi. E dei giocatori.

l’Unità 22.9.13
Stefano Rodotà: «Né con lo Stato né con le Br? Non è mai stato il mio pensiero»
Il costituzionalista si dice «sconcertato» e parla di strumentalizzazione delle sue parole
«La violenza in democrazia non è mai legittima»
intervista di Rachele Gonnelli

ROMA «Sono sbalordito», questo dice Stefano Rodotà di fronte alle polemiche suscitate dalle sue parole a margine di un convegno a Torino del Forum dell’acqua pubblica.
Com’è andata?
«Si parlava di beni comuni. Una giornalista mi ha avvicinato per rivolgermi una domanda a proposito delle dichiarazioni dei due brigatisti che chiedevano al movimento No Tav uno scatto politico-organizzativo. La mia è stata una risposta rapida. Assolutamente chiara per qualunque persona intelligente. Ho detto che erano deprecabili ma comprensibili. Deprecabili. Mi pare una considerazione molto semplice ma che escludeva la possibilità di interpretare comprensibili come giustificabili. Poi ognuno ha anche la propria storia personale. In passato sono stato rimproverato per aver sposato convintamente la linea della fermezza». Qualcuno ha interpretato il suo pensiero sulla scia del vecchio adagio: né con lo Stato né con le Br.
«Lo trovo inammissibile. Ho sempre ritenuto che la violenza, in un Paese democratico, non sia mai da considerarsi legittimata. Volevo semplicemente dire che bisogna capire l’humus e la storia delle Br per intendere quel messaggio. Era come dire: cosa vi aspettate dalle Br?».
Se la domanda le fosse posta ora troverebbe una parola meno equivocabile rispetto al comprensibile?
«Certo: prevedibile. Magari la mia risposta sarebbe anche più articolata. E comunque già in mattinata sono intervenuto per non lasciare nessun dubbio. Pertanto sono strumentali anche le altre dichiarazioni di chi ha detto, dopo la precisazione, che ho fatto una retromarcia e che questa non rassicura del tutto. Non dirò che sono amareggiato, però sono sbalordito».
È che sui No Tav, sul loro diritto alla resistenza, c’è un gran dibattito nel quale sono intervenuti intellettuali come Erri De Luca e altri.
«Appunto. Proprio perché il dibattito è così scottante, attuale e grave prima di fare una dichiarazione bisognava accertare la sostanza effettiva di quanto ho detto. Chi impersona temporaneamente le istituzioni, deve essere consapevole della responsabilità che ha. Chi mi ha attaccato personalmente non è un qualsiasi passante ma il vice presidente del Consiglio. Una aggressione violenta e una strumentalizzazione grave, sostanzialmente diffamatoria».

il Fatto 22.9.13
Tav, Alfano guida l’assalto a Rodotà
Il vicepremier strumentalizza una dichiarazione del costituzionalista sulle uove Br
Critico anche il Pd
di Maria Gabriella Lanza

Mantenere la calma quando si parla di Tav sembra impossibile. A scatenere una nuova bufera, questa volta è stato Stefano Rodotà. “Le affermazioni delle nuove Br in cui auspicano che il movimento No Tav faccia un passo avanti nella loro lotta sono deprecabili, ma comprensibili e non devono contribuire a derubricare la realizzazione dell’opera a una mera questione di ordine pubblico”, ha detto il professore e giurista commentando le parole dei brigatisti Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi. “In Italia dovremmo prendere atto di quanto sta avvenendo a livello internazionale e riaprire una riflessione politica più ampia sull’infrastruttura, a maggior ragione in un momento di fibrillazione sociale molto forte, in cui non sarebbe giustificabile un impiego consistente di capitali in un’impresa che rischia di rimanere sospesa”.
SECONDO RODOTÀ, il decreto con cui la Francia ha dichiarato di pubblica utilità i lavori del cantiere Tav non dà certezze sul finanziamento dell’opera ed è “un sostanziale rinvio della Torino-Lione, che può apparire come una rinuncia a costruire la parte francese della linea”.
Tanto è bastato per suscitare l'indignazione di Pdl e Pd. L'attacco più duro arriva dal ministro dell'Interno, Angelino Alfano: “Le affermazioni di Rodotà sono gravissime, inquietanti. Le condanno duramente e mi auguro che le rettifichi. Non possiamo dare un millimetro di vantaggio alle nuove Br. Pensiamo che le parole in questi momenti pesino come pietre”. Pronta la risposta di Rodotà: “Ho detto che le esternazioni delle Br sono inaccettabili. La mia storia politica è totalmente estranea al terrorismo rosso. Sono stato frainteso: non volevo giustificare nessuno, anzi dico che quelle sono minacce e vengono da un mondo che continua a comportarsi come ha sempre fatto. Ogni manifestazione violenta ha da parte mia il più assoluto dissenso”.
Tutto inutile: impossibile fermare il coro di sdegno contro il candidato del Movimento 5 Stelle alla presidenza della Repubblica. L’ex governatrice del Lazio, Renata Polverini: “Speriamo che Rodotà faccia ammenda perchè proprio un intellettuale come lui non può ignorare gli errori fatti negli anni Settanta, quando una parte della sinistra non seppe tracciare subito un solco invalicabile con le Br”. Critiche pesanti anche nel Partito Democratico. Emanuele Fiano, presidente forum Sicurezza e Difesa del Pd, attacca: “Rodotà ci ripensi e corregga le sue parole. Niente di quello che dicono i terroristi può essere comprensibile. La storia delle Br ce l'ha insegnato e ce lo dicono le decine e decine di vittime innocenti, tra magistrati, operai, semplici cittadini e forze dell’ordine. Noi difendiamo il diritto al dissenso democratico e pacifico, ma nessuno potrà mai portarci a considerare ammissibile la violenza. Chi non accetta questo ragionamento, la legittima”.
NEI GIORNI SCORSI lo scrittore Erri De Luca e il filosofo ed europarlamentare dell'Idv Gianni Vattimo erano stati duramente attaccati per la solidarietà dimostrata nei confronti di chi protesta contro la linea Torino-Lione. Senza mezzi termini, De Luca aveva affermato: "Un intellettuale deve essere coerente e mettere in pratica ciò che sostiene. Per questo, anch'io ho partecipato a forme di sabotaggio in val di Susa". Vatti-mo, invece, è stato convocato in procura a Torino dopo che i magistrati hanno aperto un'inchiesta sulla sua visita in carcere ai due militanti No Tav arrestati ad agosto per detenzione di armi, Davide Forgione e Paolo Rossi. “Cattivi maestri” li ha definiti il procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli: “In questo modo si rievocano le tensioni dei lontani anni Settanta e si fomentano animi già di per sè agitati ed influenzabili”, ha affermato.

Corriere 22.9.13
Il difficile equilibrio tra tutele e diritti
Omofobia, legge alla deriva con due questioni da chiarire
di Michele Ainis

La legge sull'omofobia è un vascello alla deriva da tre legislature. Adesso ha superato lo stretto della Camera, ma il Mar delle tempeste si trova al largo del Senato. Perché il voto di Montecitorio riflette il premione di maggioranza incassato dal Pd, mentre a Palazzo Madama i numeri funzionano a rovescio. E perché le questioni aperte sono ancora molte, in questa legge che introduce un'autonoma fattispecie di reato (l'omofobia), estendendo inoltre alle discriminazioni causate dall'orientamento sessuale un'aggravante già prevista per le discriminazioni razziali o religiose.
Ne ha parlato il Parlamento? Anche troppo. A leggerne i verbosissimi verbali, t’imbatti nello spettro di Voltaire, di Lacan, di Freud. Inciampi negli emendamenti dell’avverbio (sette: da «espressamente» a «inequivocabilmente»). Rimbalzi dall’elogio del telefono (Di Salvo: «A voi le associazioni gay non vi telefonano, fatevi delle domande») all’autoelogio del proprio partito (Romano). Vieni trafitto da un appello all’«algida razionalità» (Sisto), un altolà contro lo «psicoreato» (Pagano), un allarme sul matrimonio omosessuale (che c’entra?). Scopri che il testo originario s’inerpicava in avventurose distinzioni fra «identità di genere» e «ruolo di genere», attribuendo dignità legislativa alle emozioni. T’accorgi che il testo approvato crea viceversa una zona franca per le organizzazioni politiche, religiose, culturali: dunque non puoi discriminare i gay se sei da solo, puoi farlo quando siete in tanti. Infine ti rassegni all’incoerenza, d’altronde è ormai una bandiera nazionale. Quella di Scelta civica, che vuole restringere la legge Mancino del 1993 ma intanto ne allarga l’applicazione. O dei 5 Stelle, campioni del voto palese, che in questo caso chiedono lo scrutinio segreto.
Però al sodo le questioni sono due, e chiamano entrambe in causa un dubbio di legittimità costituzionale. Primo: l’articolo 21, che tutela ogni manifestazione del pensiero. Non è forse un reato d’opinione quello di cui dovrà rispondere chi offende i gay considerandoli deviati? Secondo: l’articolo 3, che ospita il principio d’eguaglianza. Perché mai sarebbe meno grave mollare un ceffone a tua zia eterosessuale anziché a tua cugina lesbica?
Sul primo punto la risposta non è troppo complicata. Non è vero che le parole siano sempre inoffensive: talvolta diventano proiettili. Come scrisse il giudice Holmes nella sua più celebre sentenza, la libertà d’espressione non può certo proteggere chi gridi senza motivo «al fuoco» in un teatro affollato, scatenando il panico. E incitare alla violenza contro i gay (perché è di questo che si tratta) significa commettere violenza. Una violenza più occulta, più vigliacca; ma non meno devastante. Semmai è il secondo punto a devastarci le meningi. Come si giustifica una tutela speciale per i gay? Risposta: perché sono soggetti deboli, perché scontano sulla loro pelle un pregiudizio. E allora perché non anche i barboni, le prostitute, i ragazzi down, gli anziani?
Ecco, qui s’affaccia un rebus senza soluzione. O meglio, la soluzione è cangiante nel tempo e nello spazio. Dipende dalla sensibilità sociale, e quest’ultima spesso dipende dalla cronaca nera. Ma la reazione in ultimo s’affida alle virtù terapeutiche del diritto, alla sua funzione pedagogica. Non a caso la diffamazione d’un omosessuale ora diventa procedibile d’ufficio. Insomma, per una volta in Italia c’è una legge che ha fiducia nella legge. Chissà se è ben riposta.
Michele Ainis

il Fatto 22.9.13
Mafia pugliese
La donna del boss: “Bisogna uccidere i loro bambini”
A Bari la guerra tra cla per il controllo del territorio non risparmia nemmeno i più piccoli
E l’odio sbarca su facebook
di Antonio Massari

Bari. “Adesso io posso e tu no”. Amore, morte e malavita nel tempo di facebook. Un post che in fondo è un epitaffio: Giovanna pubblica la foto in cui bacia Vitantonio. E commenta: “Adesso io posso e tu no”. Ed è vero: Giuseppina non può più baciarlo, suo marito, Giacomo Caracciolese. Il boss rampante del rione San Pasquale è stato ucciso – secondo le accuse – proprio da suo marito: Vitantonio. Non è sufficiente l’omicidio. Non basta. Gli uomini si sparano alla testa, ma le donne mirano al cuore: “Adesso io posso e tu no”. Vitantonio uccide Giacomo con una pistola, Giovanna ferisce Giuseppina con un post: “Adesso io posso e tu no”.
“È dai bambini che dobbiamo iniziare”
“Ancora per poco – dice Giuseppina alla cognata – anche lei sarà come me”. Giuseppina e Giovanna, l’una è già vedova, l’altra lo sarà, perché è solo questione di giorni. E in quei giorni Giovanna attraversa il rione in auto, con il figlio di Vitantonio, che ha appena due anni, quando incontra Donatella, la sorella del boss ammazzato. Donatella la ferma e sputa verso il bambino. “E io proprio in faccia a quello ho sputato (…) quella faceva con la mano: il bambino! ”, racconta a Giuseppina, che le risponde: “Tu, quando dicevi il bambino, dovevi dire: ‘è proprio da quelli che dobbiamo iniziare... il cognome vostro non deve esistere più”. Pochi giorni dopo: trenta colpi di kalashnikov e Vitantonio che muore sul colpo. Siamo a maggio di quest’anno: l’odio non viaggia solo su facebook. Impregna la città: “È dai bambini che dobbiamo iniziar”. E Bari si spaventa, sì, ma in fondo, come sempre, tira a campare. Trenta colpi di kalashnikov. È soltanto una, tra le scene d’odio, in questa città che sprofonda in tante guerre di mafia.
“Hai finito di fare il signore”
Si spara tra la gente. In pieno giorno. A ridosso dei mercati. All’uscita da un bar. “Adesso hai finito di fare il signore” dice Vitantonio – secondo i testimoni – a Giacomo Caracciolese prima di esplodere il colpo di grazia allo zigomo. È il 5 aprile. E Giacomo scappa: un killer lo colpisce con un proiettile alla spalla. Lui continua a correre.
Altri tre proiettili nella schiena. E lui continua a correre. Poi l’altro killer. Alla sua destra. Altri tre proiettili in corpo – e sono sette – ma lui continua a fuggire. Finché l’ottava esplosione non lo colpisce al volto. E cade. Vitantonio si avvicina e gli spara sullo zigomo: “Hai finito di fare il signore”. I due avevano litigato poche ore prima. La vendetta è rapida. L’“adesso io posso tu no” dura la miseria di 44 giorni. Il 19 maggio una Fiat Bravo color bronzo con un lampeggiante sul tetto si avvicina al bar Elena del rione San Paolo. È domenica. Giorno di prime comunioni. Il piazzale è affollato di gente e c’è appena stato un viavai di bambini. Vitantonio è lì con due amici. L’auto con il lampeggiante parcheggia in doppia fila. Ma a bordo non ci sono due poliziotti. Nicola Fumai e Antonio Moretti si avvicinano da due lati opposti, uno dietro il gazebo dinanzi al bar, l’altro dietro un bidone per la spazzatura. Il primo alza il braccio, lo stende, imbracciando un kalashnikov: la raffica di trenta colpi colpisce Vitantonio, che viene sbalzato verso la serranda di un negozio di caldaie, il secondo sicario spara dall’altro lato, con la pistola, ed è una strage: muoiono anche Antonio Romito e Claudio Fanelli, amici di Vitantonio, che non erano i veri obiettivi dei killer. Ucciso Giacomo, ucciso Vitantonio, il rione Pasquale ora è un regno senza re. Per gli omicidi di Giacomo e Vitantonio, le indagini della dda e della squadra mobile di Bari, hanno portato nei giorni scorsi a 8 arresti. Ma guerra chiama guerra. E in questa città, spartita per rione, il vuoto non è contemplato: il San Pasquale potrebbe diventare il regno di qualcun altro. I Mercante – Diomede? O gli Strisciuglio? Gli Strisciuglio – decimati dagli arresti di giugno – sono in difficoltà persino nella loro roccaforte, il San Paolo, mentre sono stabili a Carbonara. Gli altri clan – in questo borsino della mala – non intendono combattere: la città vecchia resta salda nelle mani dei Capriati e a Japigia nessuno discute la supremazia dei Parisi. A San Girolamo c’è tutta un’altra battaglia.
L’altra faida
Il controllo del territorio non c’entra niente. È faida pura. Odio tra famiglie. L’ultimo morto ammazzato è del 28 agosto: Felice Campanale, 67 anni, già scampato ad altri attentati. Poche ore dopo un’auto passa sotto la casa del clan rivale, i Lorusso, e spara contro l’abitazione. Il figlio di Campanale, Leonardo, è in carcere da tempo: non ha potuto partecipare al funerali del padre. Gli è stata vietata persino una visita al cimitero. Odio. Faide. E soprattutto soldi e potere. Ogni rione, ogni feudo di mafia, qui si nutre di estorsioni e cocaina. E di riciclaggio.
“Il sindaco faccia lo sceriffo, ai miei clienti ci penso io”
C’è crisi, i commercianti annaspano, i mafiosi comprano: in contanti. Il centro di Bari è una grande vetrina. C’è Prada che apre una boutique in via Sparano e c’è coda all’inaugurazione. E poi i curiosi che visitano Chanel. Lo struscio nelle vie pedonali. La borghesia barese da sempre ama apparire. Vestiti e auto. C’è chi è alle pezze eppure, vedendosi negare un finanziamento per acquistare un’auto di lusso, non esita a chiedere il prestito – con la complicità della concessionaria – all’usuraio. L’importante è apparire. Bari – da sempre – è anche questo. E poi l’usura dilaga e divora le famiglie. La cocaina è alla portata di tutti. Ci sono pusher che riforniscono ragazzi e adulti, a tutte le ore del giorno e della notte, ingrossando le tasche dei mafiosi. E i mafiosi investono. Quando – nel 2011 – il sindaco Michele Emiliano emana un’ordinanza per regolamentare la movida nel borgo antico, la Gazzetta del Mezzogiorno intervista i gestori di pub e ristoranti. Francesco Quarto dice alla cronista: “Il sindaco facesse lo sceriffo, che a tutelare i miei clienti, ci penso io”. La cronista non può immaginare che Quarto è una sorta di reggente dello storico clan Capriati. Lo sa bene, invece, la squadra mobile che lo intercetta da tempo. E Quarto s’innervosisce quando scopre che la cronista l’ha definito “titolare” del ristorante: s’innervosisce perché lui non compare mai, non ha reddito e, quando ce l’ha, dichiara sempre una miseria. In questi vicoli stretti e torti, un tempo, si combattevano gli Strisciuglio e i Capriati, mentre i Parisi restavano a guardare, quando erano gli anni Novanta e il loro quartiere, Japigia, era una piazza di spaccio più fiorente di Scampia. Poi l’antimafia ha incastrato tutti i capi. Ed è iniziata una lenta, apparente tranquillità, che invece ora mostra il suo volto: la mafia a Bari s’è riorganizzata. E non ci volevano tanti morti ammazzati per capirlo. Certo, ci voleva una certa fantasia, a immaginare che s’insediasse anche la mafia georgiana dei “ladri in legge”. È la mafia divenuta famosa con il film di Salvatores Educazione siberiana.
Una guerra internazionale
Il figlio di Rezo, nel carcere di Tblisi, non si taglia la barba dal gennaio del 2012, da quando a Bari è stato ucciso suo padre. “Lo farà solo quando si sarà vendicato – dice un testimone ai poliziotti della squadra mobile – e il clan di Kutaisi ha deciso di avallare la sua richiesta di vendicare personalmente la morte del padre”.
Quando Rezo viene ammazzato a pochi passi dalla stazione, nel pieno centro della città, i suoi amici al telefono commentano: “Ha vissuto tutta la vita come un ladro, rubando, faticando sempre per strada, manteneva nove persone in carcere, era uno dei nostri e aveva la vita come la nostra”. I russi da sempre passeggiano per le strade della città. Il patrono di Bari e il loro santo per eccellenza: San Nicola. La sua basilica è da secoli un segno di dialogo tra est e ovest: entri e ammiri l’altare cattolico, scendi e ammiri la cripta ortodossa, e ogni fedele sceglie dove pregare. Il dialogo tra Rezo e Maka era iniziato proprio lì, in quella chiesa, quando la donna lamenta che i “l a- dri in legge”, quelli in Grecia, stavano esagerando con le imposizioni. Maka lavora in un’a g e n-zia di spedizione, invia i pacchi degli immigrati georgiani, ma i “ladri in legge” della Grecia hanno alzato le pretese: non vogliono più 50 centesimo a chilo, ma pretendono un euro e venti, e vuole che Rezo interceda per mitigare la tangente. Rezo non è un “ladro in legge”, perché a suo tempo rifiutò questo alto grado, ma è comunque un mafioso rispettato: acconsente. E pretende di intascare una tangente personale. Poi però Maka decide di aprire un’altra agenzia, proprio di fronte alla prima, sempre nel centro di Bari. Scoppiano i diverbi. Rezo accoltella il suo fidanzato e minaccia un altro uomo, Kvicha, che vede spianarsi un’opportunità: se uccide Rezo può far carriera, spiega un altro testimone, “perché–come gli aveva promesso Lasha – con la vendetta sarebbe divenuto ‘ladro in legge’”. E la vendetta arriva il 6 gennaio 2012: Rezo è nella “sua” agenzia. Ha voglia di fumare. Chiede all’impiegata una sigaretta e l’accendino. Ed esce sul marciapiedi. Maka è dentro la sua agenzia. Kvicha la chiama al telefono, lei esce, lui chiede: “Ma questo è Rezo? ”. “Sì”, risponde lei. E mentre è ancora al telefono arrivano gli spari. Rezo muore sul marciapiedi. Maka rialza la testa e vede un uomo biondo che s’avvicina e le sorride e poi porta il dito della mano destra sulla bocca per dirle: “Stai zitta”.

l’Unità 22.9.13
Socialdemocratici
La lunga rincorsa di Peer Steinbrück
«C’è la possibilità di uno scenario simile al 2005: una maggioranza rosso-rosso-verde»
In un mese di campagna elettorale, lo sfidante ha acquistato fiducia
Dopo il 23% raggiunto 4 anni fa la Spd salirebbe al 28% per alcuni oltre il 30%
di Gherardo Ugolini

Noi tedeschi abbiamo una grande responsabilità nel mantenere unita l’Europa» e dobbiamo «tornare ad essere un buon vicino per i Paesi nostri vicini», cosa che l’attuale Governo Merkel «ha messo in dubbio». Il Peer Steinbrück che l’altra sera, nel comizio di chiusura della campagna elettorale tenuto nella berlinese Alexanderplatz, pronunciava con voce roca e tono veemente queste parole era un’altra persona rispetto a quello che un mese fa aveva iniziato la corsa alla cancelleria. Allora pareva un candidato senza chance, poco comunicativo, bloccato dall’ansia di sbagliare. Ma giorno dopo giorno ha acquistato sicurezza e perfino un po’ di spavalderia. Soprattutto dopo il confronto televisivo con Frau Merkel, nel quale ha prevalso sia pure di poco, Steinbrück si è reso conto di poter rivaleggiare alla pari con l’avversaria. Anzi, di avere ottimi argomenti da contrapporre a quelli della Kanzlerin in carica. I militanti e i simpatizzanti si sono rincuorati, hanno recuperato un po’ della fiducia perduta e pian piano anche le percentuali dei sondaggi hanno preso a salire schiodandosi da quota 23%, la percentuale che era stata raggiunta quattro anni fa e che sembrava destinata ad essere ribadita anche stavolta. Ora l’asticella è risalita al 27-28%, secondo alcuni addirittura oltre il 30%, cifre più consone alla vicenda storica e alla forza tradizionale del più vecchio partito d’Europa, che proprio quest’anno ha festeggiato i 150 anni di vita.
Nelle ultime settimane di campagna elettorale alla Spd e al suo candidato premier è riuscito quello che per tutta la legislatura non era stato possibile: rovesciare il quadro idilliaco della Germania di Angela Merkel, mettere il dito nella piaga nelle ferite aperte di quel «Modell Deutschland» che non è fatto solo di efficienza, stabilità e successo economico, come la propaganda di Cdu e Csu va raccontando. Certo, l’export va a gonfie vele, la disoccupazione è bassa e il Pil continua a crescere, ma c’è anche un’altra faccia della medaglia. Quella dei sei milioni di tedeschi che vivono in condizioni di semi-povertà, quella dei 7,5 milioni di precari a 450 euro al mese (i cosiddetti mini-job), quella delle aree depresse nelle regioni dell’ex Ddr. Steinbrück non ha perso occasione per sottolineare l’iniquità sociale e la poca solidarietà presente nel welfare tedesco. Soprattutto si è deciso a smontare il teorema merkeliano secondo il quale i tedeschi hanno il diritto-dovere di imporre agli altri Paesi dell’UE ricette di liberismo e rigore come precondizione per accedere agli aiuti finanziari. «Sotto il governo Merkel abbiamo dimenticato il significato della parola solidarietà» ha tuonato il candidato socialdemocratico ricordando come «in passato ci sono stati momenti in cui siamo stati noi ad aver bisogno di aiuto e l’abbiamo ricevuto» e invocando un piano Marshall per le economie afflitte dalla crisi del debito. L’idea di abbandonare la politica rigorista del Fiscal compact, o per lo meno di correggerla con forme di condivisione del debito europeo, è diventata un leitmotiv degli interventi di tutti i leader Spd nelle piazze come nei dibattiti televisivi.
La mobilitazione degli ultimi giorni è stata notevole con la riscoperta perfino della campagna porta a porta come non si faceva da anni. Tra i militanti che l’altra sera affollavano Alexanderplatz per la manifestazione di chiusura serpeggiava molta fiducia. Certo, tutti sanno che la Spd non vincerà le elezioni e che assai difficilmente si avrà una maggioranza rosso-verde al Bundestag, se non altro perché i Grünen sono stati indeboliti da una strumentale campagna diffamatoria sulla questione pedofilia. Ma un conto è prendere il 23% e un altro il 30%. Senza contare quel terzo di elettori incerti che deciderà solo all’ultimo dove mettere la croce sulla scheda. Steinbrück ha fatto il possibile per intercettare questo elettorato d’opinione, conscio che altre volte l’esito delle elezioni si è giocato sul filo di lana. Si pensi al 1976 quando la Cdu di Kohl mancò per 300mila voti la maggioranza assoluta e la cancelleria andò a Helmut Schmidt. Oppure al 2002 quando Schröder prevalse in rimonta su Stoiber per appena 6000 voti.
I risultati delle elezioni non sono dunque scontati, e comunque saranno un termometro per misurare lo stato di salute dell’intera sinistra tedesca. Con la possibilità che si determini uno scenario simile a quello del 2005, ovvero la possibilità di una maggioranza rosso-rosso-verde (Spd, Grünen e Linke). Allora Schröder piuttosto che allearsi con il partito della Sinistra preferì dar vita alla Grosse Koalition con Merkel cancelleria. Otto anni dopo le cose potrebbero andare nello stesso modo, almeno secondo quanto dichiarato da Steinbrück. Ma la base del partito non sarebbe per nulla contenta di lasciare Merkel in sella pur di non allearsi con la Linke. Molti auspicano che si apra un confronto tra i due partiti della sinistra tedesca, i cui programmi (tassa patrimoniale, aumento dell’aliquota fiscale per i più ricchi, salario minimo, riforma di pensioni e sanità) sono molto più vicini di quanto non si pensi. A 24 anni dalla caduta del Muro e dopo l’uscita di scena di Lafontaine non è forse l’ora di sdoganare il partito di Gregor Gysi confrontandosi sui contenuti anziché inchiodarlo irrimediabilmente all’eredità della dittatura comunista-orientale? C’è da scommettere che dopo il voto si aprirà la discussione.

il Fatto 22.9.13
Il paradosso a sinistra
Peer Steinbrück e il sacrificio del candidato Spd
di Matia Eccheli

Peer Steinbrück, il candidato “antipatico” della Spd e già ministro del governo di Grande colazione presieduto da Angela Merkel, è riuscito a risalire nei sondaggi. Forse è stato in grado di mobilitare il popolo dei delusi, degli arrabbiati, di quelli che hanno salari bassi, che pagano affitti alti e che sono stufi di vedere i ricchi diventare sempre più ricchi. Forse è riuscito a convincere buona parte degli indecisi a votare per lui: un terzo degli aventi diritto scioglierà le riserve nel seggio. Rispetto a solo dieci giorni fa, quando l'esito sembrava praticamente certo, e cioè un nuovo governo tra Cdu/Csu e i liberali della Fdp, socialdemocratici e Verdi potrebbero almeno riuscire a evitare quest'ipotesi. Perché i liberali sono sempre pericolosamente in bilico attorno alla soglia del 5%, dalla quale sono rimasti lontanissimo una settimana fa in Baviera, tradizionalmente ostica. Secondo alcuni istituti di analisi, se la coalizione rosso-verde imbarcasse anche la Linke, sembrerebbe esserci lo spazio per un esecutivo di cambiamento (un punto percentuale di differenza). Una vera “rivoluzione” per la Germania moderata. Ma la Spd ha ripetutamente escluso (e con vigore) qualsiasi intesa con la Linke. Da giorni si rincorrono le ipotesi di una riproposizione della Grande Coalizione: anche in questo caso gli interessati respingono nella maniera più assoluta. Ma, conti alla mano, sembra essere l'unica possibile per guidare la locomotiva d'Europa nel momento più delicato. Nei giorni scorsi erano circolate anche congetture piuttosto precise. La Merkel diventerebbe cancelliera e guiderebbe un esecutivo di cui farebbe parte anche la Spd. Che avrebbe nel segretario Sigmar Gabriel l'uomo forte, anche in virtù di un miglior rapporto personale con la donna più potente del mondo. In questo scenario, Steinbrück verrebbe sacrificato sull'altare della governabilità. Dal punto di vista della credibilità sarebbe un “inciampo” clamoroso per i due partiti, oltre che uno strappo nei confronti dei propri alleati storici.
IN DEMOCRAZIA contano i numeri, è vero, ma non solo. In teoria, un “ribaltone” per un governo di socialdemocratici, comunisti e verdi sarebbe possibile. Ma i mercati ne sarebbero poco meno che atterriti: sulla "Bibbia" economica-finanziaria Handelsblatt, è intervenuto addirittura l'editore Gabor Steingart per spiegare perché la Spd non sarebbe all'altezza di governare e perché Steinbrück è “invotabile”. Ma c'è da chiedersi se una nazione può mandare all'opposizione un partito che viaggia attorno al 40% dei consensi.
Il ricco Baden-Württenberg, tradizionale roccaforte democratico-cristiana, ha dimostrato che si può. Ma nel Land si era votato nel 2011 a ridosso di Fukushima e l'affluenza era stata fortemente influenzata anche dall'intransigenza sul progetto di interramento della stazione di Stoccarda. L'Unione della Merkel era scivolata al 39% e i liberali al 5%. I Grüne erano lievitati del 12%, assorbendo anche la flessione della Spd (-2%): con 3 punti di margine, la coalizione verde-rossa (il movimento ecologista è il secondo partito dopo la Cdu) aveva sfrattato quella giallo-nera. E per la prima volta un verde, Winfried Kretschmann, era divenuto governatore di un Land. Ma nel Banden-Württenberg la Linke non aveva sottratto che pochi voti al centro sinistra, non superando lo sbarramento del 5%. Oggi, a livello federale resta da capire quanti consensi gli euroscettici di Alternative für Deutschland riusciranno a ottenere, drenando fra i conservatori. In caso di sostanziale pareggio la Grande coalizione è una scelta praticamente obbligata perché i due partiti maggiori non hanno alleati sufficiente “forti”.

Corriere 22.9.13
Schulze: «Gli intellettuali sono scomparsi. Non pongono più domande fondamentali»
Lo scrittore venuto dalla Ddr si pronuncia a favore dei neocomunisti della Linke
di Mara Gergolet

DALLA NOSTRA INVIATA BERLINO — Mai come stavolta gli intellettuali tedeschi sono stati zitti, in disparte. Ingo Schulze no. Quello che Günter Grass ritiene il miglior scrittore tedesco, il letterato che ha sempre pensato che alla vita pubblica si partecipa (discutendo con chi la pensa diversamente) da quando prendeva parte alle manifestazioni del lunedì a Lipsia che portarono al crollo della Ddr, questa volta dice che voterà «i miei nemici della Linke». Perché, sostiene, la sinistra «di governo» deve capire di dover parlare con la sinistra.
Lei si è pronunciato, tanti intellettuali no. Crede che esista una smobilitazione della cultura tedesca, un fallimento collettivo come dice Habermas?
«Naturalmente ci deve essere la possibilità di potersi pronunciare. A molti, che lo farebbero, non è mai arrivato l’invito, manca la piattaforma. Ma la depoliticizzazione della società si nota anche presso gli intellettuali. Perfino Habermas non è più in grado di porre delle questioni fondamentali. Credo che stavolta avrebbe aiutato se i socialdemocratici e i verdi fossero stati disposti a parlare con la Linke: così, invece, resta solo la scelta tra un governo Merkel con i liberali e un governo Merkel con i socialdemocratici».
In campagna elettorale si è parlato di pedaggio autostradale per gli stranieri, non di Europa. Perché l’Europa non è stata un tema?
«La politica degli stipendi bassi ha danneggiato una grossa parte della popolazione tedesca, ma anche gli altri Stati europei. La Germania ama immaginarsi come un soccorritore degli altri in caso di bisogno — solo che in campagna elettorale questo è piuttosto uno svantaggio. Naturalmente, si sarebbe dovuto parlare della democratizzazione dell’Unione europea, della sua legittimazione attraverso la cittadinanza, ma questo agita domande fondamentali, perciò tutti si sono tirati indietro».
Questa sembra una campagna elettorale profondamente nazionale. Stiamo tornando ai tempi in cui ogni politica è solo nazionale?
«Si vota per un Parlamento nazionale, ma naturalmente i temi nazionali si possono pensare ormai solo come temi internazionali, si tratti di economia, dello scandalo spionaggio, di politica estera. Però l’influenza dei cittadini, attraverso l’esercizio del voto, sulla politica europea a malapena esiste. L’Europa non ha né un governo democraticamente eletto, né un’opposizione democraticamente eletta. Il Parlamento di Strasburgo può, nel migliore dei casi, dire “no”. Decidono i commissari nominati a Bruxelles».
Perché Angela Merkel è così amata da elettori che non sono i tradizionali sostenitori della Cdu?
«Questo bisogna chiederlo a chi la vota. Io non ne ho mai avuto la tentazione. Molto dipende anche dal modo di parlarne e scriverne dei media. Merkel impersona la depoliticizzazione della società. È così poco connotata che chiunque può leggere in lei quello che più gli piace».
Però ha fatto alcune riforme (il diritto all’asilo, le quote) che una volta erano temi della Spd. La cancelliera è di sinistra? O la Spd ha perso il monopolio sui suoi argomenti?
«La Spd, purtroppo, mette dei confini netti a sinistra, ma non a destra. Chi viene dall’Est pensa che sia ovvio avere gli asili. Con la svolta energetica (il no al nucleare, ndr ) la cancelliera ha fatto finalmente una cosa giusta — solo, è da vedere in che modo riuscirà a portarla a temine. In questo modo però, come diciamo noi, ha tolto il vento alle vele della Spd, li ha privati dei loro argomenti».
Si parla molto di «grande coalizione». Pensa che sarebbe la fine della Spd?
«Non la fine della Spd, ma alla lunga il partito sarebbe molto indebolito. Purtroppo, i socialdemocratici combattono ancora la guerra fredda, come fanno anche Merkel e i cosiddetti liberali. Ma 23 anni dopo la riunificazione della Germania si dovrebbe essere pronti a parlare con tutti i partiti in Parlamento. Non c’è certo bisogno di essere d’accordo. La Spd e i Verdi, invece, paralizzano la loro stessa politica con la completa esclusione della Linke. Questo rende difficile vedere delle vere alternative in campagna elettorale. La Spd sarà pronta ad andare con la Linke al più presto tra quattro anni. Ma allora saranno probabilmente già troppo deboli per ottenere una maggioranza».

La Stampa 22.9.13
Pechino manda i corrotti alla gogna tv
Giro di vite del presidente Xi Jinping: nel mirino nemici politici, il clan Bo Xilai e aziende straniere
I ricchi iniziano ad avere paura: le compere si fanno solo on line o oltre confine
di Ilaria Maria Sala

Oggi la corte di Jinan emette la sentenza a carico di Bo, l’ex dirigente del Partito accusato di omicidio

Che cosa succeda davvero all’interno del Partito comunista cinese nessun osservatore è mai stato in grado di dirlo. L’apparato è opaco anche nei momenti migliori, ma è chiaro che la presidenza di Xi Jinping, in carica da marzo, ha portato con sé un «nuovo corso» che sta dando veri scossoni al sistema. La campagna contro la corruzione, oggi proposta in modo decisamente vigoroso, ha già portato a cambiamenti nei consumi. Dopo anni di sfarzi vistosi da nuovi ricchi, i cinesi dal portafoglio rigonfio scoprono il lusso sottotono e lo shopping online, e fanno spese appariscenti solo oltre confine.
Dentro la campagna contro la corruzione però, come già in altre edizioni meno veementi della stessa, rientra anche altro: si mormora che quella che è nota come «la gang del petrolio», per esempio, ne stia facendo le spese perché non è nelle grazie del nuovo Presidente.
Così, anche un uomo come Zhou Yongkang, ex direttore della China Petroleum Corporation (Cnpc) e che per dieci anni è stato il capo supremo della Sicurezza, sembra oggi sotto inchiesta, e molti suoi protetti sono indagati. Fra questi c’era il già silurato Bo Xilai (oggi c’è il verdetto del suo processo), ma anche Jiang Jiemin, successore di Zhou alla Cnpc e ora rimosso dalla Commissione di supervisione e amministrazione delle Aziende di Stato (fra cui per l’appunto i colossi del petrolio), e almeno altri sette «suoi» uomini che coprivano posizioni meno elevate. Che qualcosa andasse storto per Zhou si intuiva già dallo scorso anno, quando il Congresso del Partito decise di diminuire il numero di persone che siedono al Comitato Permanente, escludendone l’incaricato alla sicurezza. Zhou, pronto alla pensione, non ne era toccato, ma era sotto di lui che l’apparato di sicurezza era aumentato a dismisura, diventando uno Stato nello Stato.
Una «purga», dunque, in cui Xi decide di neutralizzare tutti gli uomini di Bo Xilai, con l’arma della campagna anti-corruzione. Oppure, Xi fa sul serio, e davvero vuole colpire «tanto le mosche che le tigri», come ha detto qualche mese fa, in un discorso contro la corruzione.
Ma questa campagna politica avviene in tandem con la rinnovata lotta contro la libera espressione, con intensificate censure online e un giro di arresti di rappresentanti della società civile che raggela.
La stampa nazionale, poi, amplifica il più possibile quando a farne le spese sono anche le aziende straniere: come i grossi gruppi farmaceutici – Glaxo Smith Kleine, Bayer, Sanofi – accusati di aver corrotto, e da martedì, anche la Danone. Contro quest’ultima, l’accusa di aver distribuito bustarelle negli ospedali per far sì che i medici consigliassero alle nuove mamme di allattare i neonati con latte in polvere prodotto dalla sua Dumex. Altri gruppi internazionali sono stati indagati per la qualità dei loro prodotti alimentari. Davide Cucino, presidente della Camera del Commercio Europea a Pechino (che conta 1700 soci), osserva che «nel periodo iniziale delle recenti inchieste, i nostri soci hanno avuto la percezione che l’implementazione fosse sproporzionatamente diretta verso le società straniere, soprattutto per il grado di copertura da parte dei media cinesi. Tuttavia dobbiamo essere obiettivi, nei giorni scorsi sono state avviate procedure investigative nei confronti di un buon numero di società domestiche nei settori dell’agroalimentare, farmaceutico e petrolchimico. La Camera condanna ogni forma di corruzione ed è in favore degli sforzi compiuti dal governo cinese nel combatterla, a patto che essi rientrino all’interno di un contesto normativo certo».
In alcuni casi, anche ad alcuni stranieri è stata riservata la gogna televisiva (come è avvenuto con il blogger Charles Xue) che ha inquietanti echi da Rivoluzione culturale: è stato il caso di Peter Humphrey, direttore di ChinaWhys, un’azienda di consulenza, accusato di aver rivenduto dati personali ad agenzie commerciali, che ha dovuto fare un’umiliante autoaccusa pubblica teletrasmessa, in manette e con la giacca arancione dei carcerati.
Che Xi faccia sul serio e si voglia sbarazzare dei nemici, o soddisfare una popolazione nauseata dagli eccessi dei corrotti, i metodi messi in atto fanno soffiare un vento freddo su tutta la Cina.

Corriere 22.9.13
Le miliardarie rosse scalano le classifiche. Cinesi le donne più ricche
Sono metà delle «top» mondiali, 3 fra le prime 10
di Guido Santevecchi

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Sono cinesi metà delle miliardarie più ricche del mondo. E tre donne della Repubblica Popolare si piazzano tra le prime dieci della classifica di imprenditrici e finanziere alla guida di gruppi con la maggior capitalizzazione. Il conto lo ha fatto la «Hurun Rich List 2013» di Shanghai, una sorta di bibbia del capitalismo privato in Cina.
Nella classifica dei miliardari internazionali (in dollari), nessun maschio cinese entra tra le prime dieci posizioni. Qual è il segreto del successo «rosa-rosso»? Rupert Hoogewerf, presidente di Hurun, dice che la grande avanzata delle donne nella seconda economia del mondo, dimostra come «l’ambiente per il business è equilibrato in Cina». Poi aggiunge una sua teoria: uno dei motivi è l’odiata «legge del figlio unico» che permette alle donne cinesi di avere più tempo per dedicarsi anima e corpo agli affari, mentre le occidentali debbono interrompere per il secondo, magari il terzo bambino; e poi il sistema cinese dei nonni, che si curano della crescita del bimbo.
Stiamo parlando di miliardarie, non di semplici donne in carriera, ma il giudizio ha comunque un suo interesse. Interpretazioni sociologiche a parte, per tornare ai numeri, la Cina ha oggi 315 miliardari (tra maschi e femmine), continuano ad aumentare nonostante il rallentamento della crescita del suo Pil: nel 2013 si sono aggiunti altri 64 nomi rispetto ai calcoli del 2012.
La donna più ricca della Cina è Yang Huiyan, 32 anni e 51 miliardi di yuan, pari a circa 6,5 miliardi di euro. La Lista di Hurun precisa che 34 delle prime 50 miliardarie in classifica sono self-made: un dato non sorprendente, visto che il Partito comunista ha permesso l’iniziativa privata e ha scoperto che «arricchirsi è glorioso» solo con Deng Xiaoping, meno di trent’anni fa.
La signora Yang, che si è laureata negli Stati Uniti, però non è proprio una self-made woman: ha ricevuto dal padre nel 2007 il controllo del gruppo immobiliare di famiglia, il Country Garden del Guangdong. Ma lo ha saputo guidare con mano sicura, visto che nell’ultimo anno gli asset si sono apprezzati del 60 per cento.
La Cina comunque può vantare anche la donna più ricca del mondo ad essere venuta su dal niente: si chiama Chen Lihua, 37 miliardi di yuan (quasi 5 miliardi in euro), ha 72 anni e un bell’impero nell’edilizia commerciale a Pechino. Chen ha sorpassato un’altra cinese, Wu Yajun, 49 anni: Wu però sconta il divorzio dal marito che a novembre dell’anno scorso le è costato oltre 3 miliardi, vale a dire il 29 per cento del pacchetto azionario della sua Longfor Properties. Una spartizione legittima, dato che la società l’avevano fondata insieme ai tempi in cui si amavano. Così ora lui, il signor Cai Kui, con la sua quota è entrato in classifica tra i miliardari di Hurun. Wu non se l’è presa per il declassamento: ha fatto sapere che non essere più prima le toglie il fastidio di essere sempre citata per i suoi soldi. La sportiva Wu peraltro si può consolare con altre citazioni: «Forbes» l’ha collocata tra le 50 più influenti del pianeta, resta al 299esimo posto tra i ricchissimi e nel tempo libero siede a Pechino tra i deputati del Congresso Nazionale del Popolo. In questa veste politica non è un’eccezione: sono 153 i miliardari cooptati nell’Assemblea nazionale, che peraltro ha un valore consultivo, visto che le decisioni sono prese dai magnifici sette del Comitato Permanente del Politburo. Comunque è una riprova della contiguità e commistione tra potere politico ed economico a Pechino.
Nelle stanze segrete del Partito comunista e dello Stato (che poi sono la stessa cosa) le signore sono invece una rarità: solo due tra i 25 membri del Politburo.
Le cinesi sono eccellenti negli studi e stanno conquistando posizioni di vertice nel management aziendale: sono il 51 per cento nei ruoli senior, secondo la società Grant Thornton di Chicago. In questa statistica il balzo in avanti è stato apparentemente prodigioso: l’anno scorso le dirigenti erano il 25%.
Le miliardarie cinesi hanno anche un altro primato sui colleghi uomini: sono più giovani, con un’età media di 48 anni rispetto ai 52 dei maschi.
Abbiamo parlato di miliardi e potere: ma poi ci sono le lavoratrici normali, e per la stragrande maggioranza di loro la diseguaglianza di genere in Cina è ancora grave. E il gap salariale invece di colmarsi si allarga: le lavoratrici dipendenti nelle città cinesi guadagnavano il 78 per cento dei colleghi maschi nel 1990. Ora sono scese al 67 per cento.

l’Unità 22.9.13
«La battaglia di Roma» stralci di vita quotidiana dalla capitale occupata
Dalle Fosse Ardeatine alla razzia del Ghetto nel libro di Fracassi il racconto della città in mano ai nazisti
di Gianni Borgna

È UN SEGNO DEI TEMPI SE L’ANNIVERSARIO DEI 70 ANNI DALLA FIRMA DELL’ARMISTIZIO CON GLI ALLEATI (CASSIBILE, 3 SETTEMBRE 1943), e del suo annuncio ufficiale il successivo 8 settembre, sia passato abbastanza in sordina, senza particolare enfasi e particolari celebrazioni. Eppure si tratta di una data cruciale nella storia dell’Italia contemporanea. La fine della guerra accanto ai tedeschi, la fuga del Re a Brindisi, la dissoluzione dell’esercito, la scelta di alcune divisioni (in particolare i granatieri di Sardegna e i lancieri di Montebello) di battersi lo stesso contro i nazisti, dall’Eur all’Ostiense a Porta S. Paolo, al fianco di migliaia di civili (scelta che diede inizio alla Resistenza europea), sono altrettanti momenti fondativi della nostra storia recente.
Tutto ruota attorno alla mancata difesa di Roma, che ancora oggi, a distanza di tanti anni e nonostante la mole di studi che sono stati prodotti sull’argomento, resta uno dei grandi misteri italiani. È noto, infatti, che gli Alleati avevano predisposto un piano per uno sbarco in forze a sud di Roma e per far convergere sulla capitale una divisione americana aviotrasportata che si sarebbe dovuta unire alle truppe italiane. La scelta del Re e di Badoglio di abbandonare la città non riesce a spiegare tutto. Essi avrebbero potuto anche prendere tale decisione in modo ordinato, delegando la difesa della capitale agli alti gradi dell’esercito, dal momento che le nostre forze, più quelle degli alleati, obiettivamente sovrastanti, avrebbero potuto agevolmente respingere qualunque attacco tedesco. Le cose, come è noto, andarono diversamente, dando vita a una delle pagine più dolorose e umilianti della storia italiana, oltre a esporre la capitale alla lunga notte dell’occupazione nazista, che avrà i suoi culmini più tragici nella deportazione degli ebrei (di 1.022 ne torneranno soltanto quindici, tra cui una donna e nessun bambino) e nel massacro delle Ardeatine.
Per alcuni storici quei giorni decretarono la «fine della Patria»; ma parrebbe più congruo pensare che furono invece l’inizio di una Patria vera, che né le classi dirigenti prefasciste né tanto meno il fascismo erano riusciti veramente a creare. Per la prima volta – a parte alcuni importanti episodi del Risorgimento – donne e uomini di tutte le età e di tutte le classi sociali si unirono contro l’invasore riuscendo a tenere testa a uno degli eserciti più forti del mondo.
Come ho già accennato, su tutta questa problematica si è scritto moltissimo, da saggi storiografici come il celebre Chi difende Roma? di Melton S. Davis a L’Italia tradita di Ruggero Zangrandi a un libro splendido, anche dal punto di vista letterario, come Roma 1943 di Paolo Monelli. Ad essi oggi si affianca la ricerca di Claudio Fracassi (La battaglia di Roma, Mursia, 18 euro), che ha prima di tutto il merito di uno stile avvincente, quello che si dovrebbe usare nelle scuole per appassionare i giovani alla storia. E invero Fracassi, pur non essendo in senso stretto uno storico di professione, è uno dei nostri migliori divulgatori di storia, capace di farti sentire costantemente nel vivo degli avvenimenti. Ma non si ferma qui l’importanza del suo libro. Essa è dovuta almeno ad altri due fattori, che rendono la sua opera originale rispetto alle precedenti. Il primo è la descrizione accurata e a tratti vivida della vita quotidiana della città, che, nonostante tutto, continua ed è fatta di cose che si ripetono anche in giorni tra i più duri e tragici. Tra queste, la presenza numerosa dei romani, soprattutto borghesi e piccolo-borghesi, alle proiezioni cinematografiche e agli spettacoli teatrali, quanto mai effervescenti, questi ultimi, malgrado tutto, con Totò e la Magnani che, fidando ma solo in parte sulla diversità della lingua, si permettevano il lusso di irridere i tedeschi sempre presenti in massa ai loro show. L’altro elemento di novità è l’analisi approfondita delle posizioni spesso diverse, quando non contrastanti, dei tedeschi, i quali non formavano un blocco compatto, ma spesso (e anche di fronte a snodi cruciali, dalla razzia nel Ghetto al modo di reagire all’attentato di via Rasella) si divisero anche in modo clamoroso; anche se, va detto, a prevalere alla fine fu quasi sempre la posizione più dura e spietata. Dopo nove terribili mesi Roma venne liberata il 4 giugno 1944. Fu non solo la prima capitale europea a insorgere contro i tedeschi ma anche la prima a riconquistare la libertà.

l’Unità 22.9.13
Porte aperte a Rebibbia
La legge Gozzini e la nascita del volontariato laico
AlI’incontro per ricordare Laura Lombardo Radice
la denuncia delle associazioni: «Dimenticata la stagione delle riforme che hanno reso l’Italia più civile e solidale»
di Jolanda Bufalini

ROMA SI RESPIRA ARIA DI UN ALTRO TEMPO, NELLA CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE DI ROMA, DOVE, PER RICORDARE LAURA LOMBARDO RADICE a 100 anni dalla nascita, si parla del suo volontariato di professoressa, già in pensione, dal 1983, nel carcere di Rebibbia. Un tempo troppo breve di riforme, ricorda Niccolò Amato, allora direttore del Dap, fra le quali c’è la legge Gozzini, approvata il 25 luglio 1975, che rese più umane le pene detentive collegandole alla rieducazione e all’integrazione con la società. Stagione troppo breve di riforme, che non hanno fatto in tempo a sedimentare il sentimento condiviso di un’Italia più civile e rispettosa dei diritti umani. Il mondo del volontariato e gli alti funzionari dello Stato, che hanno messo in pratica i principi costituzionali della legge Gozzini, aprendo il mondo dei reclusi alla scuola e alle università, alle attività cooperative, al teatro, al cinema, alla poesia e all’arte, denunciano, come fa Stefano Anastasia, il ritorno indietro, il roll back nelle condizioni di vita carcerarie: «Anche allora il carcere era una discarica sociale ma calmeriata dal principio universalistico di accesso ai diritti». La scommessa, dice Niccolò Amato, era riuscire a dare risposta «a una domanda molto dolorosa». La sicurezza «è un obiettivo irrinunciabile» ma lo Stato non può rinunciare all’obiettivo di risocializzare, «il muro di cinta del carcere ha un portato ideologico, la società ghettizza lì dentro una parte di sé, dei propri problemi. Noi cercammo di rompere questo muro». Il dilemma fra sicurezza e socialità non si risolve con il singolo detenuto ma contando sulla solidarietà della comunità carceraria. L’ex direttore del Dap racconta come si venne a capo della rivolta scoppiata nel carcere di Porto Azzurro: «Voi forse non avete nulla da perdere ma pensate al danno che state facendo a migliaia di altri detenuti».
UN LAVORO UTILE
In quel tempo breve di riforma, la professoressa in pensione Laura Lombardo Radice si offrì rievoca aprendo il convegno, Chiara Ingrao «di fare un lavoro utile, che per lei era ciò che sapeva fare meglio. Utile, infatti, non erano i soldi, il potere, la notorietà». Merito di Chiara, Celeste, Bruna, Renata e Guido, le figlie e il figlio di Pietro Ingrao e Laura, che hanno letto brani scritti dalla madre, è avere acceso un riflettore attraverso Laura sulle vite di molte donne che hanno concretamente migliorato con il loro lavoro il paese. Vite sensate, cioè ricche di senso. Al convegno c’è Germana Vetere, allieva di Laura negli anni Cinquanta e, poi, volontaria lei stessa a Rebibbia. C’è Carmen Bertolazzi che organizzò il circolo Arci a Rebibbia (un lungo cammino fino all’Orso d’oro 2012 ai fratelli Taviani per «Cesare deve morire»). Si ricorda Leda Colombini, scomparsa da poco. Ricorda Carmen Bertolazzi che quando cominciarono, e il primo interlocutore istituzionale fu Angiolo Marroni, «in carcere c’era solo il volontariato cattolico e le uniche figure femminili dentro le mura erano le suore. Che potesse esserci un volontariato di sinistra era una cosa strana» e, quella attività pionieristica, ha cambiato la sinistra ed era, nell’idea di Laura «utile alla collettività intera».
Laura scoprì l’umanità carceraria nel dicembre del 1939, quando furono arrestati il fratello Lucio e Aldo Natoli. Imparò allora il rito dell’attesa per la consegna del pacco natalizio. Conobbe una «bambina da anno zero, le gambe magrissime, la vestina azzurra e i calzini corti; la ragazza che aveva salito lo scalone per sposarsi in carcere, quella che aveva abortito in un lago di sangue». Lasciando il vicolo della Penitenza, attraversato il ponte verso via Giulia, Laura guardò con occhi nuovi quella città «in maschera» rispetto «a quella vera appena lasciata». È sorprendente pensarci ora ma la riforma delle carceri si faceva in tempi di terrorismo. Simonetta Martone ricorda che, al carcere di Firenze, dove cercò di cambiare le cose, «venni sospettata di simpatia per le Br e, per fortuna, fui salvata dall’aver vinto il concorso in magistratura».
Edoardo Albinati, scrittore che da 20 anni insegna a Rebibbia, apprezza di Laura le parole brusche, «l’esperienza in carcere non è una scampagnata umanitaria». Racconta le difficoltà di insegnare in quell’universo «eterogeneo». «I detenuti non sono un gruppo svantaggiato come gli anziani». Soffrono ma sono persone che «hanno inflitto sofferenza». Alcuni di loro esprimono « potenza, magnetismo, fascino». E la frustrazione dell’insegnante è nello scoprire che proprio «il più intelligente» è quello che, uscito, ci ricasca: «Un carico di eroina, un po’ di soldi che mi servono per ripartire, è l’ultima volta». La soddisfazione è quando, in quell’ambiente angusto pieno di umanità «ribollente», si crea, «anche solo per pochi istanti, quella corrente elettrica che passa attraverso le teste, e le intelligenze si misurano con un teorema matematico, con un sonetto di Cavalcanti».

La Stampa 22.9.13
In un quadro di Schiele il grido silenzioso della Grande Guerra
Il pittore austriaco riesce a esprimere tutta l’angoscia e la miseria di quel tempo, ma anche la tenerezza di cui sono privati gli uomini al macello nelle trincee
di Guido Ceronetti

Da qui all’anno prossimo non mancheranno certo uscite di libri sulla guerra 1914-1918, cuore nero della storia dell’uomo sulla terra, e del secolo XX motore, matrice e freccia indicativa: Al Nulla. Tutte le direzioni. Non so se avranno molti lettori, perché l’Abisso fa paura a vederselo spalancato e a scoprirlo segnale non impallidito di futuri ignoti. Intorno a me la superficialità cresce come l’alga maligna, e un simile passato richiede profondità di profondità. Da cui ti sguscierà via dalle mani. Chiarire è ricominciare a chiarire.
Se n’è fatto più di un racconto, e non c’è storiografia che valga, di fronte al narrare di chi c’era e alle evocazioni disarmate del patito vissuto. Arriveranno ancora chissà quante opere storiografiche: però continua la ristampa del romanzo All’Ovest niente di nuovo, la guerra vista dalla parte tedesca in Francia, che uscì nella Germania prenazista nel 1929 (fu messo al bando e bruciato nelle piazze dall’inquisizione nazionalsocialista, l’autore fece in tempo a fuggire) e stampato in Italia da Mondadori nel 1931, tradotto da Stefano Jacini, un futuro ministro democristiano oggi dimenticato. (E tuttora lo trovi negli Oscar Mondadori). Lo lessi tra 1943 e 1945 e l’ho riletto tutto, con enorme trasporto, settant’anni dopo, in edizione francese (Stock, 2009). L’autore, Erich Maria Remarque, andò volontario al fronte nel 1914 insieme ad altri compagni di liceo, trascinati ad arruolarsi dal loro insegnante. Tutti diciottenni, entusiasti, e saranno calati in un inimmaginabile inferno: la linea di fuoco dei trinceramenti, scuola di assassinio. L’ultimo sopravvissuto, a pochi giorni dall’armistizio (è lui l’Io narrante), in un giorno di calma su tutto il fronte, si aggiungerà, vittima insignificante, al conto spaventoso delle vittime. Spero di aver l’occasione, grazie al Museo del Cinema di Torino, di vedere il film che ne fece in America, già sonoro, Lewis Milestone nel 1930.
(Dall’ultimo capitolo). La guerra per la Germania è persa, ma si può davvero credere che «per quelli di fronte» sia vittoriosa? «Siamo magri e affamati. Il nostro rancio è così immangiabile e fatto di tanti surrogati, da farci ammalare tutti. Gli industriali, in Germania, si sono arricchiti, ma a noi qui la dissenteria brucia gli intestini. I cespugli formicolano ininterrottamente di clienti accovacciati. Alla gente delle retrovie bisognerebbe mostrarle, queste figure color terra, giallastre, miserabili e rassegnate, questi corpi piegati in due, il sangue esausto per le coliche, in grado per lo più di guardarvi sogghignando e dire con labbra tremanti per i dolori: - A che serve tirarsi su di nuovo i calzoni…».
Il suono della prima linea, i limiti della voce umana nel ricordo di un altro combattente. «Tutt’attorno a me c’è un gran fuoco di sbarramento… Il tiro si allarga, insieme al pericolo che sto correndo… Da qualche parte una voce implora aiuto. Chiudo gli occhi, vinto dal terrore, e mi domando: com’è possibile che una voce umana possa emettere simili suoni?» (la sottolineatura è mia). E’ disperato, il berlinese Alfred Wolfsohn, di non poter portare soccorso a quella voce – un suono che da quel momento cambierà la sua vita.
Più forte, più penetrante della furia delle artiglierie è il gemito umano che si spegne. Scoperta in se stesso la capacità di ritrovare quel gemito e di estendere oltre i limiti il suono della sofferenza umana, quell’ex combattente dedicherà la sua restante vita all’educazione dell’urlo, del lamento, per un teatro di vocalità pura (il Roy Hart Théâtre, tra Londra e Parigi). Canto, grido, stridori, onomatopee, tutto quel che serve a svuotarsi le trippe del suono possibile secondo una disciplina finalizzata alla scena, anche questo lavoro di attori si può farlo discendere dalle topografie di martirio della guerra di Quattordici, terribile Incompiuta…
Un’altra avventura del suono accadde a un pensatore amico di Simone Weil, paralizzato a vita da una pallottola nel 1918. Joe Bousquet ricorda nitidamente di aver udito, quando venne colpito, prima del dolore, un terrificante grido. Ma era caduto senza emettere nessun grido. Dei suoi compagni di trincea nessuno aveva gridato. Da dove proveniva quel grido? Da lui stesso, penso, ma da un Io interiore, dal suo corpo eterico ferito in quello stesso istante, da quel che nella vita normale sembra non esserci perché muto.
«… asserviti ai capricci del Crimine, stravaccati dentro i visceri della terra di Francia, straziati campi» (Isaac Rosenberg: Break of Day in the Trenches; altro poeta caduto, fronte occidentale, 1918). E qui, per i rintanati, il malessere si concentra nell’orecchio, dice Jünger in Tempeste d’acciaio, tra mille rumori, l’orecchio cerca di distinguere quello che porta la morte. Le sole voci di conforto, nel cuore dell’orrore, racconta Remarque, sono i bisbigli dei soldati amici nella trincea vicina: «Valgono più della mia stessa vita, quelle voci; sono più che voci materne, più forti della paura; non c’è niente al mondo che vi possa meglio proteggere… Io non sono più che un pezzettino di esistenza isolato nel buio… vorrei sprofondare la mia faccia dentro quelle voci, le loro parole so che mi sosterranno» (cap. IX). Il rivelarsi, in quelle voci tra i fischi di morte, della solidarietà preistorica dell’uomo, infinitamente solo sul pianeta antropofago, in echi di caverne.
Trovi in una pittura di Egon Schiele, l’ Abbraccio, alla Galleria Austriaca di Vienna concentrata e squadernata tutta la miseria e l’angoscia del mondo. È un amplesso di amanti, e la data: 1917, ne fa la corrispondenza visionaria del grido che tanto si impresse e trasferì in Alfred Wolfsohn sulla linea di fuoco. Ma c’è qualcosa in più, nel grido silenzioso degli amanti di Schiele, segnati dalla fame che nel quarto anno di guerra faceva strage a Vienna: lo struggimento di una illimitata tenerezza. Tra le parti sessuali dei due corpi nudi c’è una distanza di mezzo metro, la stretta magica è di collo-testa-mani, e ne emana, come un grido estremo, il bisogno dell’uomo di sprofondare interamente nelle primordiali acque femminili.
Ma agli uomini delle trincee è tolto, negato tutto. Sprofondano nel nulla. Prodigio se li rischiarano, nel buio, i bisbigli, le bestemmie, la prossimità vocale dei commilitoni.
Egon e Edith morirono entrambi negli ultimi giorni della guerra. La febbre Spagnola li uccise, quasi contemporaneamente, il 28 e il 31 ottobre 1918.
Molto più eloquente l’arte di Schiele nel 1917, del trittico di Dresda La guerra di Otto Dix, tra i più sfruttati nelle illustrazioni: la sua intrinseca volgarità, la sua protesta ovvia, vuota di pietas vera, me lo rendono francamente abbominevole. Anticipa il realismo socialista dell’abbrutimento staliniano. Dora Zweifel, un enigma. Racconta un fante d’eccezione, il grande scrittore Pierre Mac Orlan: «Fu a Carency, la prima volta che mi lasciai cadere in una trincea tedesca. Al di sopra dell’entrata di un riparo molto confortevole, tutti noi del quinto battaglione potemmo vedere un’ammirevole testa di ragazza, una testa che pareva scolpita da Despiau. Sotto la sculturina si poteva leggere un nome: Dora Zweifel. Non ho dimenticato quelle due parole, punto di partenza per me di un enigma rimasto indecifrato». Vuoi crederlo? Anche per me. Questo ricordo lo trovai in un articolo di Mac Orlan pubblicato sul Figaro Littéraire dedicato al cinquantenario (agosto 1964) della Grande Guerra. Conservo quel numero nelle cartelle del mio archivio non tecnologico, lo utilizzo dopo mezzo secolo, forse, per la prima volta. «La presenza di quel delizioso volto di gesso ci apparve in un clima eccezionale, di rovente violenza, di catastrofi, di sterile malinconia». Di inaudito, aggiungo, indecente martirio di grandi nazioni, nella padella di succulenti ideali umani.
Tuttavia, sì, credo di aver capito chi fosse, che cosa significasse Dora Zweifel nella trincea tedesca abbandonata.
E’ diventato luogo comune dire, scrivere che si è «in trincea» riferendosi a fatti e comportamenti di perfetta banalità. Sconsiglio dall’usare quell’espressione di bestemmia. Non può valere come metafora. L’uso proprio è l’unico adeguato.
Novembre 1918. A Strasburgo passata nuovamente di mano, l’armata francese vittoriosa prepara la sua entrata trionfale. La disciplina tedesca è andata in pezzi, i soviet dei soldati comandano agli ufficiali, tutti si affrettano ai treni del ritorno, verso un’appena proclamata Repubblica. Nel caos dell’ospedale militare il tenente Becker, inchiodato alla carrozzina, riceve l’ultima visita dell’infermiera Hilde, stata sua amante, pronta a partire. Singhiozza, la supplica di restare. – Sono finito… - L’infermiera si apre la blusa e gli ficca in bocca i seni, che lui inonda di lacrime. Lei riprende la valigia e sparisce per sempre. (Dalla tetralogia Novembre 1918 di Alfred Döblin, Einaudi 1982).
Forse il nome segreto di quell’infermiera era Dora Zweifel.

La Stampa 22.9.13
12 capolavori del Museo d’Orsay da martedì in mostra a Palazzo Pitti

Dal martedì 24 settembre fino al 5 gennaio 2014 Firenze ospiterà nella Reggia di Palazzo Pitti una preziosa rassegna di pittura impressionista. 12 capolavori dal Museo d’Orsay saranno esposti nel Salone da Ballo del Quartiere d’Inverno della Galleria d’arte moderna. Lo straordinario evento è frutto di uno scambio fra i due importanti istituti museali francese e italiano. Infatti il Museo d’Orsay, nel segno della reciprocità, ha prestato i 12 capolavori impressionisti a seguito dell’importante contributo della Galleria d’arte moderna che ha reso possibile la realizzazione a Parigi, presso il Museo de l’Orangerie dal 10 aprile al 22 luglio scorsi, della mostra “I macchiaioli des impressionistes italiens?” Due Degas, due Monet, due Cézanne, due Renoir, due Pissarro, un Fantin Latour oltre ad un’ opera di Paul Guigou in mostra potrebbero suggerire ulteriori strade di studio e ricerca tese a mettere in luce alcune possibili contaminazioni tra le due culture francese e toscana, che possono aver costituito un punto di riferimento essenziale anche per le esperienze del nostro Novecento.

Corriere Salute 22.9.13
Per l'Arte Medica serve cultura
di Luigi Ripamonti

La medicina è una scienza o un'arte?
Dilemma antico. L'unica risposta possibile probabilmente è: tutte e due. E da sempre.
Nelle prossime pagine si propone la vicenda della biblioteca di Galeno, celeberrimo medico dell'antichità. E si pone l'accento sulla sua sterminata collezione di opere di letteratura e filosofia.
Galeno, possiamo azzardare, precorre una necessità ben ravvisabile oggi. In un'epoca in cui il progresso delle scienze spinge sempre di più verso la specializzazione esasperata non sorprende che si rimanga particolarmente impressionati quando
un medico, magari iperspecializzato, si rivela anche un "umanista", nel significato che in genere si attribuisce a questo termine, cioè un amante della letteratura e della cultura più in generale.
Questo tipo di medico non di rado colpisce anche per la sua capacità di capire e percepire il malato nel suo insieme, di metterlo a suo agio, e, alla fine, spesso, di curarlo meglio.
È qui che si realizza lo scarto fra la sola scienza e l'arte medica, che della prima sa farsi intelligente e responsabile interprete. La medicina senza solide basi scientifiche non è arte ma solo pericolosa improvvisazione. Se però queste fondamenta ci sono, la professione può evolvere in arte tanto più facilmente quando più è corroborata, oltre che da una spiccata sensibilità, anche da una profonda cultura generale. Ciò è ancora più importante in un mondo che si sta tramutando sempre di più nella propria rappresentazione, fatta di immagini, dati, comunicazioni virtuali. In questa transizione servono medici umanisti, capaci di ricordare e rispettare dell'uomo la "concreta" dignità (uomo e umanista vengono da humus=terra).
C'è da augurarsi che l'esercito di pretendenti di quest'anno alle facoltà di medicina ne sia consapevole, e non dimentichi la lezione di Galeno, che non leggeva solo tomi di anatomia, ma (anche) di filosofia, storia, letteratura, logica. E magari speriamo che lo tengano presente anche gli estensori dei test di selezione di ingresso nei prossimi anni.

Corriere Salute 22.9.13
I Classici ispirarono Galeno
di Armando Torno

Sotto il titolo Nuovi scritti autobiografici, è uscita presso l'editore Carocci una raccolta di brevi opere dell'antico medico e filosofo Galeno (pp. 304, 19). Dotato di un sapere vastissimo, resta legato agli imperatori Marco Aurelio e Commodo, che ebbe tra i suoi pazienti; ma tra essi figurano anche gladiatori, intellettuali, cittadini romani. Il volume è stato tradotto, commentato e ha un'introduzione di Mario Vegetti, che a suo tempo curò un'ampia raccolta di testi di Galeno per i «Classici» Utet. Egli stesso ricorda il significato di «nuovi» che figura nel titolo: «Sono quattro brevi trattati di cui possediamo soltanto ora il testo greco integrale, grazie al ritrovamento nel 2005 da parte di Pietro Belli di un manoscritto di scritti galenici a Salonicco». Tra essi ha una notevole importanza L'imperturbabilità. Racconta la resistenza morale di Galeno dinanzi alle enormi perdite che egli subì a causa dell'incendio di Roma del 192 d. C., nel quale andò distrutta buona parte della sua ricca biblioteca. Ma proprio le caratteristiche di questa raccolta emergono dalle pagine ora pubblicate da Carocci, in cui si trovano anche i due scritti L'ordine dei miei libri e I miei libri.
Vegetti, insomma, ci presenta la biblioteca di Galeno; o quanto è possibile oggi conoscere. In essa era custodita l'enorme massa dei suoi scritti oltre ad opere di altri autori, tra i quali il Corpus Hippocraticum e i commenti dei medici antichi ad esso. Poi vi erano i testi di altri celebri anatomisti: Erofilo, Erasistrato, Ateneo. Erano presenti molti filosofi: Vegetti evidenzia che tra le letture del celebre medico non mancava tutto Platone (nota: «probabilmente era un'edizione dei dialoghi che è la stessa da noi utilizzata»), né Aristotele con i suoi trattati biologici, certamente l'Etica nicomachea e gli ardui libri di logica, ovvero l'Organon. Aveva anche un'opera, nota Vegetti, dello stesso Aristotele sulle piante: si tratta di un testo perduto. Ma poi c'erano tutto quanto scrisse lo stoico Crisippo, del quale abbiamo soltanto frammenti (ricavati in buona parte dalle citazioni di Galeno) ; inoltre Teaofrasto, del quale possedeva le opere di logica e di botanica. Tra gli altri autori, evidenzia Vegetti, «c'erano la Storia di Tucidide, tutta la commedia e la tragedia greca (oltre Aristofane, egli citava molti altri autori comici)». Galeno aveva inoltre grandi raccolte di ricette per comporre farmaci che potè conoscere in ogni parte del mondo greco. Si trattava di scritti preziosi tanto che, ricorda Vegetti, «egli scambiava con altri medici queste ricette; ovviamente una delle sue ne valeva due o tre di un collega». Dobbiamo immaginare una biblioteca grandissima: non va dimenticato che soltanto i suoi scritti occupavano settecento rotoli di papiro. Di ogni testo egli ne fece realizzare altre due copie: una destinata alla sua villa in Campania e l'altra era per la biblioteca di Pergamo. Un particolare che rivela la sua grande ricchezza: il numero di copie va moltiplicato per il costo del papiro, che era alto. Siamo dinanzi a qualcosa di unico nel mondo antico. Colpiva soprattutto l'ampiezza degli argomenti che in codesta raccolta erano conservati. «Galeno soltanto — ci confida Vegetti — aveva questi interessi trasversali. Di solito i filosofi leggevano altri filosofi, i letterati si occupavano dei concorrenti che scrivevano cose simili alle loro e i medici sovente si occupavano solo di opere di medicina. Galeno era una eccezione e leggeva direttamente i testi classici, in un'epoca che aveva diffuso il ricorso ai manuali e ai compendi, i medesimi che offrivano praticamente riassunti e una conoscenza indiretta». Una biblioteca che era anche un formidabile strumento di lavoro: trattati logici, epistemologici ed etici aiutavano Galeno a «concepire meglio la sua attività terapeutica». Stiamo parlando inoltre di un'epoca nella quale si era già sviluppato un commercio libraio attivo. Vegetti ricorda che le opere di Ippocrate, il cosiddetto Corpus Hippocraticum, «era un patrimonio di biblioteche o di circoli medici chiusi», mentre gli scritti di Galeno si diffondono rapidamente sul mercato, tanto più che circolavano sia falsi che plagi. Nella raccolta di Carocci si mette in evidenza come lo stesso Galeno abbia riconosciuto una falsificazione in vendita sul banco di un libraio. E infine va aggiunto che le opere ora pubblicate in italiano ebbero a suo tempo anche un compito pratico: redigere il catalogo degli scritti autentici del celebre medico, per combattere appunto plagi e patacche. Galeno ebbe la cattiva idea di sistemare provvisoriamente tutti i libri in un deposito protetto sulla via sacra, al Palatino. Lo fece per preservarli dai furti durante la sua assenza da Roma, dovuta alle vacanze.
Malauguratamente questo sito, dove gli interessati affittavano delle stanze, fu distrutto da un incendio che ridusse in cenere anche le altre grandi biblioteche pubbliche del Palatino (ve n'erano almeno tre grandi). Per Vegetti quelle fiamme causarono «una catastrofe culturale, perché si persero sia gli originali che le copie della ricca biblioteca». Galeno riuscì a rimettere insieme una parte dei suoi scritti, «quelli che erano già stati diffusi, venduti, distribuiti». Ma in quella perduta c'è «qualcosa che lui ha riscritto in parte, come il Trattato sulla Composizione dei farmaci e il Trattato sulle procedure anatomiche. Altre opere spariranno, fra le quali vale la pena ricordare, nota il curatore, «un grande lessico della commedia antica in 48 libri, nel quale Galeno spiegava tutti i termini dei comici di epoca classica». Vegetti aggiunge un'ultima curiosità: «Uno scritto dal titolo Sulle mie opinioni distingue le teorie di cui Galeno diceva di essere scientificamente convinto da quelle che riteneva degne di scetticismo, quale per esempio l'immortalità dell'anima». Il medico di Marco Aurelio, non a caso, chiarisce Vegetti, «seguiva Aristotele, contro Platone, nel considerare che l'anima costituisse l'insieme delle funzioni di un corpo vivente e non fosse separabile da esso. L'immortalità è una concezione teorica di Platone e della sua scuola, ma nella filosofia antica non era condivisa né dagli stoici, né dagli epicurei, meno che mai dagli scettici o dallo stesso Aristotele». Galeno portava a compimento una delle tendenze dominanti nella scienza e nella filosofia della sua età: «Consolidare, ricomporre sistematicamente il sapere». Per questo ebbe bisogno di una biblioteca formidabile. Per il medesimo motivo la sua medicina guardava la realtà e non invocava gli dei.

Corriere Salute 22.9.13
Aristotele era il suo riferimento ma non lo «subiva» come altri

Si può parlare, a proposito della medicina di Galeno, di «ragionevole scetticismo». Vegetti nota che questa caratteristica «non gli impedisce però di nutrire qualche certezza anche nel campo della teologia e della psicologia». In altre parole, l'antico medico è «almeno sicuro» che il mondo, e in particolare gli esseri viventi, siano retti da «un disegno provvidenziale che ne assicura l'ordine immanente e ne consente una spiegazione teleologica (appare poi indifferente ascrivere questo disegno agli dèi stessi o alla "natura")». Non crede nell'immortalità dell'anima; tuttavia è certo che essa sia divisa in tre parti, «o centri motivazionali», come riferisce Platone nel IV libro della Repubblica (nel Timeo, invece, la localizza somaticamente). Di più: scrive Vegetti che per Galeno l'anima «una volta insediata in un corpo, è solidale con esso, sia nello svolgere le sue funzioni, sia nel subirne gli influssi patologici, risultandogli in questo senso completamente "asservita"». Insomma un equilibrato scetticismo che «risulta perfettamente compatibile con l'antidogmatico eclettismo di Galeno, che non va affatto concepito come un bricolage di opinioni». Più vicino ad Aristotele che a Platone («nonostante preferisca tacere questa affinità», sottolinea Vegetti), non è comunque un seguace passivo del filosofo, come accadrà per molti uomini di scienza dei secoli successivi: egli sa che l'errore capitale di Aristotele è il cardiocentrismo. Questo non gli impedisce di valorizzare temi aristotelici nella sua etica, come quello della «moderazione passionale».

Repubblica 22.9.13
La mia Atene ha smarrito la via
di Petros Markaris

Atene assomiglia a un malato che soffre di Alzheimer. La città gradualmente perde la sua memoria, ma anche la sua forma presente. Questa perdita di memoria ha colpito soprattutto i quartieri cittadini della piccola e media borghesia. Quasi ogni giorno, passo per la via principale che attraversa i quartieri abitati dal ceto medio — Odos Patision — la via dello shopping per questi ceti. Ora, un negozio su due è chiuso e le vetrine sono tappezzate di poster, annunci di affittasi e di varia natura.
Se mostrassi a un residente di Odos Patision uno dei negozi vuoti e gli chiedessi che cosa vendeva quel negozio, mi guarderebbe in totale passività e tirerebbe a indovinare: «Abbigliamento?» o «Scarpe?». Que-sto perché quasi tutti i negozi in Odos Patision vendevano abbigliamento e calzature. Dopo tre anni di recessione, la memoria di Atene si cancella. I cittadini non ricordano.
Un mese fa è uscito un mio nuovo libro intitolato Atene in una gita.Il libro descrive un viaggio a bordo del vecchio metrò di Atene, che tutti conoscono come “il tram”, dal porto del Pireo fino all’elegante quartiere di Kifisià. Le ventiquattro fermate di questa linea offrono al viaggiatore l’opportunità di conoscere la storia pressoché completa della stratificazione sociale di Atene. Mi ha colpito che molti lettori non conoscevano, né ricordavano molte delle cose descritte nel libro. Mentreascoltavo le loro domande, io stesso mi chiedevo, a metà tra il dubbio e la rabbia: «Ma come è possibile che io, l’immigrato, arrivato ad Atene nel 1964, conosca la città meglio della gente del posto?».
Sebbene questa perdita di memoria sia peggiorata con la recessione, essa affonda le sue radici nell’epoca della ricchezza virtuale. A metà degli anni Ottanta, i residenti di questi quartieri se ne andarono, perché non volevano, così affermavano, respirare l’aria inquinata del centro di Atene, né essere disturbati dal rumore e dal traffico congestionato. Era un semplice pretesto. Il reale motivo era che volevano vivere da nuovi ricchi, poiché tali si sentivano. Nei quartieri centrali restavano solo i pensionati e alcuni artisti e intellettuali, che non volevano o potevano lasciare le proprie abitazioni, sia per motivi economici, sia perché erano affezionati al centro della città. Quando giunse la prima ondata di immigrazione, all’inizio degli anni Novanta, questi quartieri erano pronti ad accoglierli. Oggi, molti dei vecchi residenti di queste zone ritengono che gli immigrati siano il motivo per cui questi quartieri sono stati “declassati” e il valore dei loro immobili è crollato. Sono favole. Gli immigrati si sono insediati in queste zone perché le case erano libere e gli affitti erano bassi.
La preponderante presenza di immigrati ha trasformato il centro di Atene, dominato una volta dalla piccola e media borghesia, in un focolaio di razzismo. La responsabilità principale di questa situazione va attribuita allo Stato greco e all’amministrazione comunale di Atene. Poiché, in generale, lo Stato e, più precisamente, l’amministrazione comunale non sono stati in grado, in tutti questi anni, di elaborare una politica che affrontasse il grave problema dell’immigrazione in città, questi quartieri, negli ultimi anni, sono diventati terreno fertile per il movimento neonazista Alba Dorata. Gli anziani e i pensionati hanno paura degli immigrati e i neonazisti li hanno presi sotto la loro ala protettrice: li accompagnano in banca a ritirare, in tutta sicurezza, la pensione; di notte dormono nelle loro case o appartamenti. Gli anziani che abitano in questi quartieri così si sentono protetti e i neonazisti di Alba Dorata sono diventati ai loro occhi i “bravi ragazzi” che li proteggono.
La mia passeggiata preferita ad Atene è nella città vecchia, quella che oggi viene definita il centro storico di Atene. L’espressione “centro storico” non si limita solo ai resti archeologici dell’antica Atene, cioè l’Acropoli e l’antico cimitero di Keramikos, ma si riferisce anche all’area più datata dell’Atene moderna, che fu costruita dai Bavaresi nella pri-ma metà del XIX secolo. Molti di questi edifici neo-classici sono opera di architetti tedeschi. Per esempio, Ernst Ziller, progettò il Teatro Nazionale e le Poste Centrali, mentre il Palazzo Reale, attuale sede del Parlamento, è opera dell’architetto di corte del Regno Bavarese, Friedrich von Gärtner. Dopo la fine dell’occupazione bavarese, il centro storico iniziò una fase di declino, finché venne definitivamente abbandonato al suo destino e divenne una zona di alberghi economici, officine per la riparazione di automobili e lavorazioni meccaniche.
Il recupero del centro di Atene si deve a una famosa attrice che più tardi divenne ministro della cultura: Melina Mercouri. Fu la prima a capire che era necessario salvare gli edifici e i palazzi dell’epoca bavarese, che rappresentavano un pezzo della storia più recente di Atene. Ciononostante, i primi a penetrare il ghetto del centro furono i piccoli teatri. Poiché vi erano molte abitazioni vuote e gli affitti erano bassi, questi ultimi si insediarono in questa zona. Inizialmente, gli ateniesi si chiesero quali spettatori fossero disposti ad andare a teatro in questa zona degradata e in alcuni punti persino pericolosa della città. Malgrado ciò, ai teatri fecero seguito i bar dei giovani e alcuni ristoranti. Poi cominciarono a vedersi per strada le pellicce accanto alle giacche a vento economiche e le Mercedes insieme ai motorini. Fu necessario, però, aspettare le Olimpiadi del 2004 perché il centro storico recuperasse la sua bellezza passata. Questo è stato uno dei pochi aspetti positivi che ci ha lasciato quel periodo di splendore e di sprechi. La parte più bella di questa zona, secondo me, coincide con la passeggiata che inizia del tempio di Teseo e prosegue parallela all’Acropoli. Camminando, si trova sulla destra la collina delle Ninfe, sulla sinistra l’Acropoli e quando si giunge al termine del percorso, ci si trova davanti alle colonne del tempio di Zeus Olimpio. La crisi e le sue conseguenze hanno fatto una deviazione e hanno lasciato intatto questo pezzetto di Atene. In generale, il centro storico non presenta grandi differenze rispetto a come era prima della crisi. Se oggi si notano più immigrati in giro, ciò non è dovuto a un aumento della loro presenza, bensì al fatto che girano per le strade, cercando, scoraggiati, un lavoro.
Ho avuto la fortuna di viaggiare parecchio nella mia vita. Non conosco nessun’altra città che la notte cambi così radicalmente volto come Atene. Non sarebbe eccessivo affermare che gli ateniesi vivono in due città: un’Atene diurna e una notturna. Forse i cittadini di Atene sopportano pazientemente l’inferno delle giornate nella loro città, con l’aria inquinata, il rumore, le vie congestionate dal traffico, perché sanno che non appena cala la notte, avranno la possibilità di trascorrere alcune ore nel paradiso delle notti ateniesi. Non fraintendetemi però, non mi riferisco qui alla vita notturna di Atene, alle osterie, ai ristoranti e alle discoteche. Questi si trovano in tutte le città dell’Europa meridionale. Parlo di un’altra città. L’oscurità della notte copre il suo brutto volto diurno e gli edifici di cattivo gusto risalenti al periodo del “miracolo economico” greco, che non è stato tuttavia un miracolo dell’edilizia. In mezzo a tutto quello che la crisi ha cancellato, c’è anche questo paradiso notturno. Dalle nove di sera, le strade del centro sono vuote, si vedono file di taxi che attendono invano i passeggeri. Molte osterie e ristoranti sono aperti solo il sabato. Le vie con i bar dei giovani, invece, sono affollate anche in settimana. Tuttavia, i ragazzi stanno seduti sul marciapiede davanti al bar, con bottiglie di birra acquistate dai chioschi per strada, ascoltando la musica proveniente dall’interno del locale.
I quartieri che non dormono la notte sono quelli tradizionali della piccola e media borghesia in centro. Qui però non si diverte nessuno, regna la paura. Ogni sera, questi quartieri diventano un campo di battaglia: una sera è il partito neonazista che va a caccia di immigrati; un’altra notte sono le gang di immigrati che si disputano aree urbane per lo spaccio di stupefacenti. Ogni sera la polizia è impegnata in una vana lotta su entrambi i fronti. Ho due amici che abitano nel quartiere di Agios Panteleimon, il più violento del centro. Uno è un musicista, l’altro un critico cinematografico. Entrambi mi ripetono la stessa cosa: è impossibile vivere in questo quartiere. Ma, nonostante tutto, entrambi si rifiutano di andarsene, come del resto molti artisti e uomini di cultura. Tentano di rendere il quartiere più vivibile, organizzando iniziative culturali e allestendo centri per la promozione della cultura.
È il loro modo di combattere l’Alzheimer che tuttavia, come è risaputo, è una malattia incurabile.

Repubblica 22.9.13
Fine dell’evoluzione?
Attenborough, decano della divulgazione, sostiene che la specie umana ha smesso crescita e selezione
Ma la polemica infuria. Secondo alcuni, invece, il fenomeno è aumentato
di Marco Cattaneo

Fra i motivi dell’accelerazione i nuovi ecosistemi colonizzati e le migrazioni dell’ultimo secolo
Altri ancora sottolineano al contrario un processo involutivo dovuto alla vita sedentaria

Penso che gli esseri umani abbiano smesso di evolversi». Buttata lì così, sembra una provocazione da non prendere troppo sul serio. Ma se la provocazione arriva per bocca del naturalista e decano della divulgazione scientifica in materia di biologia evoluzionistica, Sir David Attenborough, ha tutto un altro sapore. E, come è prevedibile, solleva un vespaio. «Se la selezione naturale», ha dichiarato Attenborough in un'intervista aRadio Times, «è il principale meccanismo dell'evoluzione, allora noi abbiamo fermato la selezione naturale. Lo abbiamo fatto da quando siamo in grado di crescere il 95-99 per cento dei nostri figli fino all'età riproduttiva. Siamo la sola specie che abbia messo un freno alla selezione naturale, di propria vo-lontà».
Non è la prima volta che l'idea della fine dell'evoluzione umana si affaccia nel dibattito scientifico, ma fino a oggi era rimasta confinata agli esperti. Già qualche anno fa c'era chi sosteneva che la nostra evoluzione si fosse fermata con la colonizzazione del pianeta, ovvero quando le popolazioni umane avevano raggiunto i quattro angoli della Terra; in quella fase avevano mantenuto relazioni a sufficienza perché non si verificasse più l'isolamento che è una condizione essenziale per la nascita di nuove specie. Ma l'evoluzione non è solo speciazione, per usare un termine tecnico. Tanto che Henry Harpending e John Hawks, dell'Università del Wisconsin, hanno rilevato che da 5.000 anni a questa parte si è modificato almeno il 7 per cento dei nostri geni. Mentre Parvis Sabeti, ad Harvard, ha scoperto prove di cambiamenti recenti del nostro patrimonio genetico, che hanno aumentato le possibilità di sopravvivenza e riproduzione degli individui.
Secondo Peter Ward, paleontologo e astrobiologo dell'Università di Washington a Seattle, la velocità della nostra evoluzione potrebbe essere addirittura aumentata, negli ultimi 10.000 anni. E la causa di questa accelerazione sarebbe la diversità degli ecosistemi che abbiamo colonizzato, insieme ai cambiamenti delle condizioni di vita portati prima dall'agricoltura e poi dall'urbanizzazione. Nell'ultimo secolo, poi, c'è stato un ulteriore cambiamento: con l'aumento dei flussi migratori, molte popolazioni che vivevano relativamente isolate sono entrate in contatto con gli altri gruppi. «Mai prima d'ora», sostiene Ward, «il pool genico umano ha affrontato un rimescolamento tanto vasto tra popolazioni locali che erano rimaste separate».
Attenborough sembra invece aver fatto sua la tesi di Steve Jones, genetista gallese del prestigioso University College di Londra: «Per la nostra specie, le cose hanno smesso di migliorare o di peggiorare», sostiene Jones. Una resistenza ereditaria a malattie come l'Hiv potrebbe ancora conferire un vantaggio per la sopravvivenza, ma oggi è la cultura, non l'eredità genetica, il fattore che decide se i singoli vivono o muoiono. Per questo, concorda Attenborough, «fermare la selezione naturale non è poi tanto importante o deprimente, come potrebbe sembrare, perché il nostro processo evolutivo è culturale».
D'altra parte, c'è anche chi la vede in maniera ancora più negativa. Secondo un altro punto di vista, infatti, l'evoluzione genetica continua, ma in direzione opposta. La vita sedentaria, con l'indebolimento dell'apparato scheletrico, per esempio, è uno dei fattori che potrebbero renderci meno adatti alla sopravvivenza, in senso darwiniano. Ma ci sono altri fenomeni che potrebbero favorire un'evoluzione al contrario: per esempio molti di coloro che frequentano università e dottorati ritardano la procreazione, mentre i loro coetanei non laureati fanno figli prima. Qualcuno sostiene dunque – con un'equazione un po' ardita – che se i genitori meno intelligenti facessero più figli, allora l'intelligenza sarebbe diventata uno svantaggio darwiniano, e la selezione naturale potrebbe sfavorirla. Ma in questo caso, an-che se contro di noi, la selezione continuerebbe implacabile la sua azione.
Il partito che respinge la tesi di Attenborough è decisamente il più nutrito. Tra i più agguerriti c'è Ian Rickard, antropologo evolutivo dell'Università di Durham, che dal sito del Guardian non ha esitato nemmeno un giorno a bocciare senza mezzi termini l'ipotesi di Attenborough. «Così avremmo “messo un freno” alla selezione naturale?», si chiede. E risponde: «La risposta breve è “no”». Ma poi argomenta, precisando che non c'è nessuna specie sul pianeta che si sia liberata delle forze della natura, né si vede come sarebbe possibile. Riconosce ad Attenborough e a Jones che per l'azione della selezione naturale è necessario che ci sia variazione. Che alcuni individui prosperino più di altri. Ma anche se tutti sopravvivessimo fino alla stessa età, la variazione ci sarebbe comunque. «La selezione naturale», chiosa, «non si cura della sopravvivenza». E snocciola tutta una serie di esempi in cui la selezione naturale ha esercitato la sua forza occulta in tempi anche recenti, da punto di vista evolutivo. Per concludere: «La lezione che dobbiamo trarre da questa diversità globale (delle popolazioni umane, N.d.r.) non è che gli esseri umani divergeranno in specie differenti; dobbiamo invece riconoscere che l'impredicibilità delle cose umane significa che ciò che sappiamo ora della selezione naturale in atto è completamente inutile a lungo termine». Considerazione condivisa da Catherine Woods, dell'Università di New York, secondo la quale l'umanità sta certamente evolvendo, ma «non necessariamente come ci aspettiamo».
Ma c'è anche una nuova scuola di pensiero, per quanto minoritaria, che vede in prima fila Daniel McShea e Robert Brandon, della Duke University, secondo la quale le strutture complesse degli organismi potrebbero essersi evolute soprattutto grazie alle mutazioni casuali, anche senza il soccorso della selezione darwiniana. Insomma, una cosa è certa. Se pure l'evoluzione umana per selezione naturale si fosse fermata, di sicuro il dibattito continuerà a lungo a infiammare la comunità scientifica.

Repubblica 22.9.13
Pievani: “Il motore è la cultura. Ma Darwin non poteva prevederlo”
intervista di Elena Dusi

Stiamo piegando ai nostri bisogni l’ambiente. Finora è andata bene Ma si sentono i primi scricchiolii
L’homo sapiens sta cambiando le regole del gioco di questo pianeta a un ritmo sostenutissimo

Per il filosofo della scienza, mai come ora il mondo sta sviluppandosi in modo tumultuoso. E la trasmissione non genetica delle informazioni diventa prioritaria
«Se evoluzione vuol dire cambiamento, mai come in questo periodo il mondo si sta evolvendo in maniera tumultuosa». Telmo Pievani, uno dei più importanti studiosi di scienze dell’evoluzione, professore di Filosofia delle scienze biologiche all’università di Padova, prova a smentire la tesi di Sir David Attenborough sedendosi momentaneamente nello spazio. «Mettiamoci a osservare la Terra da lontano. Vedremo un’unica specie che sta frammentando ogni tipo di habitat, esercitando una pressione fortissima sul pianeta che abita. Dall’introduzione dell’agricoltura, 10mila anni fa, l’uomo è considerato responsabile dell’estinzione del 40-45% delle specie».
Ma Sir Attenborough si riferisce all’evoluzione dell’uomo. Non trova che stia quanto meno rallentando?
«Il suo ragionamento parte dalla premessa che l’evoluzione coincida con la selezione naturale soltanto. Dal momento che la selezione naturale agisce debolmente su di noi, l’evoluzione sarebbe finita o quasi. Ma questo sillogismo è semplicistico. Non tiene conto di altri fattori, come la cultura. L’evoluzione non si è fermata, bensì procede con altri mezzi, in parte diversi da quelli descritti da Darwin nell’Ottocento».
Dove possiamo vedere l’evoluzione all’opera oggi attorno a noi?
«Il cambiamento agisce a tre livelli. Il primo, microscopico, è quello dei geni, che si trasformano di solito a ritmi molto lenti. Poi c’è un livello intermedio: gli organismi, che sfruttano la loro plasticità e variabilità per adattarsi all’ambiente. Infine c’è il livello macroscopico, che in questo momento sta avanzando più impetuosamente degli altri due. Riguarda le specie e gli ecosistemi del pianeta, su cui l’uomo sta esercitando la sua pressione enorme, soprattutto dall’inizio della rivoluzione industriale. L’azione di Homo sapiens sulla biodiversità è paragonabile all’impatto di un grosso asteroide. Nel 2011 Nature si chiedeva se la nostra specie avesse innescato la sesta estinzione di massa. La risposta era: ancora no, ma ce la stiamo mettendo davvero tutta perché questo avvenga».
Sir Attenborough distingue fra evoluzione naturale e cultura. Voi biologi la vedete diversamente?
«Darwin era attento al ruolo della cultura nella vita dell’uomo, ma la sua teoria non era ancora pronta a inglobare l’evoluzione culturale in quella naturale. L’integrazione è avvenuta molto più tardi, a opera soprattutto del genetista italiano Luigi Luca Cavalli-Sforza. Oggi la cultura è accettata come uno dei fattori che più contribuiscono all’evoluzione dell’uomo, e non solo. Gli scimpanzé e altri primati sono in grado di inventare nuove strategie, ad esempio, per spaccare i gusci dei frutti, e di insegnarle sia agli altri membri del gruppo che alle generazioni successive. La cultura è proprio questo: trasmissione non genetica di informazioni. Si tratta di uno strumento formidabile, con cui le specie acquistano flessibilità e si adattano agli ambienti più diversi».
Più che adattarsi, l’uomo non sta modificando il suo ambiente?
«Attraverso la cultura la nostra specie sta piegando ai suoi bisogni la nicchia in cui è immersa. Ma l’ambiente non è mai inerte, e reagisce alle sollecitazioni. Se pensiamo all’entità dei nostri interventi, possiamo dire che fino a oggi ci è andata bene. Le conseguenze sono state limitate, la biosfera tutto sommato ci ha ben tollerato. Ma ora gli scricchiolii iniziano a farsi sentire. Gli ecosistemi sivstanno impoverendo oltre misura, e non mi riferisco solo al pericolo di estinzione dei panda. Il rischio più grande ci arriva dalla perdita della microfauna, dal fatto che gli habitat non sono più in grado di rigenerarsi. A risentirne sono per esempio il riciclo dell’acqua, i suoli che si impoveriscono, così come l’impollinazione delle piante. Perfino il sistema immunitario, nei paesi industrializzati, non incontra più i microrganismi che era stato programmato per combattere. Da qui, secondo molti scienziati, nascerebbe il boom di allergie e malattie autoimmuni».
Più che evoluzione, questa sembrerebbe un’involuzione.
«Il problema è il cosiddetto “gap dei tempi”. Mentre i ritmi dell’evoluzione naturale sono generalmente molto lenti, Homo sapiens sta cambiando le regole del gioco di questo pianeta a un ritmo sostenutissimo. In cinque-sei generazioni la biosfera ha sopportato uno stravolgimento radicale. Quando in passato il pianeta ha subito delle catastrofi, ha sempre avuto il tempo di risollevarsi. Oggi invece il cambiamento corre così rapidamente da non lasciare alla biosfera il tempo di recuperare. Questi problemi erano ancora marginali all’epoca vittoriana di Darwin. Il nocciolo della sua spiegazione è confermato oltre ogni dubbio, ma la sua teoria era diversa da quella che abbiamo oggi, con continue revisioni ed espansioni. È il bello della scienza».
Ci sono dei passaggi della nostra storia che l’evoluzione non riesce a spiegare?
«Uno soprattutto: l’intelligenza. L’esplosione delle capacità del nostro cervello è qualcosa che la teoria dell’evoluzione al momento non sa spiegare. Non sappiamo cosa sia successo».

Repubblica 22.9.13
“Una politica senza religione” di Giovanni De Luna
Politica e religione sconfitte dal mercato
di Simonetta Fiori

La credibilità d’una classe politica si misura dalla sua capacità di costruire una “religione civile”? Se è vero questo assunto, su cui si regge il nuovo argomentato saggio di Giovanni De Luna, se ne ricava un giudizio sconsolato sul presente. E verosimilmente sul futuro. Mai come negli ultimi decenni la politica italiana ha dato prova di un vuoto colossale di valori e simboli, di principi, regole e memorie, anche “tradizioni inventate”, capaci di toccare le menti e i cuori dei singoli individui. Un deserto che ha contrassegnato non solo la “destra berlusconiana” millantatrice di un illusorio benessere e la “destra di Monti”, appiattita sul “culto dello spread”, ma anche quella «costellazione di feudi assetati di potere» in cui si è risolto il Partito democratico. Né si salva un nuovissimo attore come Grillo, artefice di un albero genealogico affollato di “morti per caso”, subalterno al “paradigma vittimario” della seconda Repubblica fondato sul dolore e sul lutto. Non c’è più “religione” nella politica italiana, dove per “religione” De Luna intende non certo una fede confessionale o una concezione sacralizzata del potere, ma «la costruzione di uno spazio pubblico di appartenenza e di cittadinanza». E una politica che non produce simboli, ammonisce lo storico, «si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente».
Ma le classi dirigenti italiane sono mai state capaci di costruire una proposta forte di valori civili ed etici? Qui interviene lo sguardo lungo dello studioso che ripercorre una vicenda accidentata fin dalle origini della storia nazionale. Se nell’Italia liberale il progetto di “fare gli italiani” fu compromesso dal trasformismo, sotto il regime di Mussolini le cose andarono anche peggio. E nel lungo dopoguerra i due più grandi partiti, pur svolgendo una preziosa opera di «alfabetizzazione politica di masse spoliticizzate», continuarono a opporre religioni diverse e contrapposte. Anche il rilancio della Costituzione, negli anni Settanta, viene giudicato da De Luna «un’occasione mancata», spazzata via da una smisurata dilatazione dei partiti nello spazio pubblico. Fino alla “mutazione genetica” della stagione successiva, con la trasformazione delle forze politiche «in un ceto poco differenziato sul piano dei valori e molto intraprendente sul piano delle carriere». È qui che comincia quella “politica esangue”, “senz’anima”, destinata a soccombere soprattutto “nelle fasi di discontinuità”, quando le viene richiesto di produrre una nuova tradizione capace di confrontarsi con un panorama radicalmente modificato.
Alla “carestia morale” della politica nell’ultimo ventennio è corrisposta una Chiesa cattolica sempre più ingombrante, celebrata come «unico collante capace di tenere insieme gli italiani». Un progetto egemonico che ha trovato un pericoloso concorrente in una religione non meno pervasiva e potente, che è quella incarnata dal mercato. Alla “religione dei consumi”, che contamina la stessa fede cattolica (il mercimonio intorno a padre Pio) e invade territori di sua appartenenza come la vita e la morte, il sesso o i processi di formazione degli adolescenti,sono dedicati gli ultimi densi capitoli, con efficaci descrizioni di cimiteri trasformati da “luogo di lutto” a “luogo delloisir”.«Incalzati dal mercato», annota De Luna, «laici e cattolici sono oggi come due eterni duellanti, impegnati in uno scontro che prosegue sempre più stancamente: esausti e incapaci di accorgersi che il terreno del duello è cambiato e che stanno per essere sconfitti entrambi».
Vie d’uscita? La ricostruzione di De Luna, non priva di accostamenti inediti, approda a un epilogo malinconico. Esauriti i partiti di massa, nell’era del web e dei nuovi media, l’unica tradizione politica che gli italiani sono stati capaci di conservare è il populismo. Non una grandissima eredità. Sulla quale – conclude lo studioso – urge un leopardiano esame di coscienza.

Repubblica 22.9.13
Alberto Asor Rosa
Critico e ora anche romanziere l’intellettuale si racconta
“I miei ottant’anni di uomo del Novecento fra letteratura, politica e la mediocrità di oggi”
intervista di Antonio Gnoli

Alberto Asor Rosa, nato a Roma nel 1933. Saggista, critico letterario e scrittore, è professore emerito di Letteratura Italiana presso la Sapienza di Roma

Da una trentina d'anni, o poco meno, Alberto Asor Rosa vive in una bella casa a ridosso del Vaticano, nei pressi di quelle mura sulle quali il Papa ricavò in tempi antichi un passaggio, o meglio un camminamento, che lo conduceva a Castel Sant'Angelo mettendolo al riparo dagli invasori. Oggi a invadere sono i turisti. Sciamano su Borgo Pio, e nei dintorni, entrano nei negozi di cianfrusaglie e di oggetti sacri, assaltano baretti e ristoranti. Al quinto piano - dove sediamo su due poltroncine di un salotto accogliente - giunge lo strazio di una fisarmonica: «È sempre così, intorno all'ora di pranzo, in questa stagione di tavoli all'aperto e di canzoni atroci. Mi rassegno, che debbo fare? Poi, per fortuna, la sera tutto si attenua, si spegne, si svuota. Qui la movida non è ancora arrivata», dice il professore che domani compirà 80 anni. E lo dice con la preoccupazione, e i dovuti scongiuri mentali, di dover assistere a una nuova invasione. Sul tavolo scorgo Racconti dell'errore, il suo ultimo libro: «Sei storie su altrettanti personaggi ai quali le cose sono andate diversamente da come immaginavano che dovessero andare», precisa come se avesse un termometro fra le labbra che misura la temperatura delle parole.
E a lei, come sono andate le cose?
«Non mi lamento. A parte qualche acciacco, sono qui».
Pensa di aver realizzato ciò che si prefiggeva?
«Diciamo che ho navigato sempre nello stesso mare, anche se mutavano le correnti e, a volte, necessitavano imbarcazioni diverse. Certo, non mi sarei aspettato che alla fine della mia vita sarei passato da storico e critico della letteratura a narratore».
Una sorpresa perché?
«È come saltare dall'altra parte della barricata».
In un certo senso un tradimento?
«No, una trasformazione. E poi, non immaginavo che non fare più il professore fosse così bello».
E la politica?
«La politica cosa?».
È ancora bella?
«È soprattutto mediocre, come tutto ciò che oggi siamo costretti a subire. Per me la politica fu un impegno ineludibile, ma filtrata dalla mia vocazione intellettuale e culturale».
Vocazione, all'inizio, estrema e radicale.
«Neanche tanto. E comunque erano altri tempi. Si discuteva, anche accesamente, in seno alla sinistra e in particolare al Pci. C'era un nuovo soggetto politico, la classe operaia, che era difficile includere nello schema ideologico del Pci di quegli anni. Segnalai, sommessamente, la presenza di questo fatto anche nell'ambito della letteratura, invitando i responsabili a ripensare certe coordinate culturali».
Quando dice 'schema ideologico' allude da un lato, a Gramsci e allo storicismo allora imperante e dall'altro alle sue conseguenze, cioè al populismo e al neorealismo letterario?
«Alludo a tutto questo. E al fatto che la gran parte degli scrittori e dei poeti sembrava scontare l'assenza di una forte, moderna e avanzata cultura borghese. Quando uscì nel 1965 Scrittori e popolo, Muscetta e Salinari - depositari nel partito dell'idea sacra di cosa dovesse essere la letteratura italiana - mi fecero a fette».
È vero che qualche anno dopo Carlo Muscetta provò a censurare un suo lavoro per una collana che egli dirigeva?
«È un'altra storia che, tra l'altro, mise a rischio la mia carriera accademica. Avevo scritto un ampio saggio sulla cultura della Controriforma, sottolineando l'importante novità rappresentata dalla cultura dei gesuiti. Muscetta lo lesse e si rifiutò di pubblicare il volume, che avrebbe contenuto il mio saggio, dedicato al Seicento. Sembrava un rullo compressore. Si creò una situazione assurda. Tanto più che nel frattempo era uscito il volume sul Settecento. Alla fine Vito Laterza, l'editore, trovò la soluzione. Carlo, gli disse, tu scrivi una prefazione in cui dici che non sei d'accordo. E fu così che il volume venne dato alle stampe».
Accennava alla carriera accademica. Come è stata?
«Lunga. Per dieci anni ho insegnato nelle scuole medie superiori, prima a Tivoli e poi a Roma. E per 40 anni all'università. Credo di essermi divertito».
Divertito? Io ricordo che sui muri dell'università di Roma c'era scritto: «Asor Rosa sei un palindromo».
«E mica c'era scritto 'sei un cretino'. Eravamo alla fine degli anni Sessanta. Un gruppo studentesco, per essere precisi, fece scendere dal tetto del rettorato lo striscione con sopra scritta quella frase. Il palindromo, come sa, è quando uno legge la stessa parola o frase anche al contrario. Perciò si voleva intendere che se da una parte ero un 'rivoluzionario', dall'altra mi rifiutavo di dare il 30 garantito a tutti».
Ma forse c'era anche il fatto che la consideravano un 'barone' di sinistra. Si è mai riconosciuto nell'immagine di uomo di potere?
«Non la metterei in termini così diretti. Diciamo che in caso  necessità ho usato nei riguardi degli altri le stesse armi di potere che gli altri volevano usare nei miei confronti. Me la sono cavata abbastanza bene. E poi, sa, quando si sta aggrappati alla 'zattera della Medusa', e l'Università è stata anche questo, il primo pensiero è sopravvivere».
Nel suo mondo sembra prevalere sempre il conflitto.
«Oggi molto meno. E comunque non ho mai rinunciato nella mia esistenza a praticare l'arte della mediazione. Ho suscitato un certo scandalo quando di recente mi sono definito 'un radicale moderato'».
Anche Montale si scandalizzò per le sue posizioni sulla letteratura e la poesia e le dedicò dei versi molto ironici.
«Ah, li ricordo perfettamente: 'Asor nome gentile, il suo retrogrado, è il più bel fiore...'. Ce l'aveva con me per il fatto, palesemente infondato, che io subordinavo il giudizio sulla forma poetica a valutazioni di tipo ideologico. In quegli anni pubblicavo un saggio su Thomas Mann che andava nella direzione esattamente opposta. Un paio d'anni dopo incontrai casualmente Montale e gli chiesi perché aveva scritto quella poesia. Lui mi guardò fisso e disse 'non lo so più'».
«L'elemento scatenante rimase chiuso nella sua fortezza mentale».
Lei, invece, ha dato l'impressione in questi anni di volerla aprire la sua 'fortezza' .
Il teorico Asor Rosa ha lasciato il posto al biografo che si racconta. Cos'è: l'intellettuale di sinistra che ha fallito e ripiega su se stesso?
«Non riesco a pensare che le mie delusioni politiche e civili siano un fallimento dell'intero sistema. Mi ripugnerebbe il pensiero di lasciare ai miei nipoti un mondo segnato dalla catastrofe».
Intende dire che la catastrofe è solo personale?
«Viviamo anche dentro a delle piccole catastrofi personali. In questo momento il senso che mi muove verso l'esterno non è dettato né dalla prudenza né dall'opportunismo, ma dal pudore».
Il pudore o la paura di sbagliare?
«Se ci si misura con l'esterno c'è sempre la possibilità dell'errore. Ma non può essere - non deve essere necessariamente - un impedimento. Semmai, la paura per me è stata un sentimento diverso».
«Non so come spiegarlo: un'esperienza fisica che aveva a che fare con il buio. Parlo degli anni della guerra. C'era l'oscuramento legato ai bombardamenti. Ero un bambino e avevo un reale terrore del buio. Ricordo che una sera non riuscivo ad avanzare nel corridoio buio di casa. E fu allora che mia madre energicamente mi spinse. Rompendo così il senso di smarrimento che mi attanagliava. È una sensazione che ho superato lentamente, ancora oggi il buio mi sembra una situazione poco affidabile».
Sono sempre le madri che ci mettono in salvo?
«O almeno ci provano. A me quella spinta corrispose all'altra che sempre mia madre mi diede per farmi valere nelle questioni scolastiche».
Doveva primeggiare?
«Sì e ho speso lacrime e sangue. Per dieci anni non ho fatto altro che pensare a questo. Solo quando varcai la soglia della facoltà di lettere sentii che non avevo più voglia di gareggiare. Nascevano le prime amicizie intellettuali. Sostituii l'aggressività e la competizione con la stima».
E prima non aveva amici?
«Ne ho avuti anche al liceo. Ci svagavamo, andavamo a ballare, e talvolta anche in qualche casa di tolleranza. Erano relazioni pratiche senza ulteriori coinvolgimenti».
Ma non le accadeva di innamorarsi?
«Tra il liceo e l'università si delinearono le prime amicizie femminili. Non mi innamoravo con facilità, ma con trasporto suicida sì. Voglio dire che l'elemento femminile rovesciava le basi del mio sistema di vita. L'amore mi destabilizzava».
Meglio la solitudine?
«No, anche se l'ho vissuta. Ero figlio unico di due genitori in profondo disaccordo tra loro. E a me, in quella situazione, non capitava spesso di rompere la mia solitudine».
A proposito di percorsi interiori lei ha dedicato un intero libro a suo padre e sua madre. La scrittura esorcizza il dolore?
«No, è stato soprattutto un gesto di liberazione. Per molto tempo ho avvertito un debito nei loro confronti. E scrivere di loro ha significato pagarlo. Da allora, ho un rapporto più autentico e libero con la loro memoria».
È vero che da giovane ebbe una crisi mistica?
«Sono stato molto credente fino a 15 anni. Andavo spesso in Chiesa e sentivo forte un rapporto diretto con Dio. Invece di odiare il mondo pensavo che fosse più bello amarlo».
E dopo, che accadde?
«Persi la fede. Compresi che possono esistere altri momenti - più ragionevoli e adottabili - rispetto a quelli suggestivi proposti dalla religione. Oltretutto, i miei 15 anni coincisero con il 1948. Quell'anno la Chiesa scatenò una grande campagna contro il comunismo e i suoi simpatizzanti».
E lei si trasferì dalla Chiesa cattolica a quella comunista?
«Con l'altra 'chiesa' ho avuto poco a che fare. Mi iscrissi alla Federazione giovanile comunista nel 1952, ne uscii nel 1956 dopo i fatti di Ungheria».
Giulio Einaudi, anni dopo, l'avrebbe soprannominata 'Asor Rosé'.
«Mi giunse voce, visto che non la pronunciò mai in mia presenza. Con Einaudi ebbi un rapporto singolare. Fui introdotto in casa editrice da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti. Arrivando dalla provincia romanesca, nelle lambiccate stanze torinesi di via Umberto Biancamano, gli dovetti sembrare un alieno. Poi diventammo molto amici e negli ultimi anni in maniera profonda. Era un uomo straordinario. Apparteneva a quell'alta borghesia piemontese che pensava di poter fare qualunque cosa gli passasse per la testa».
Italo Calvino è stato, forse, lo scrittore più rappresentativo di quella casa editrice. E vorrei che concludessimo questa chiacchierata tornando alla letteratura, dalla quale tanti anni fa lei era partito con Pasolini e l'ha conclusa con Calvino. Sono stati i due modelli letterari dell'Italia della seconda metà del secolo scorso?
«Di più: due modelli inconciliabili. Qualsiasi operazione critica non può prescindere dalla loro presenza. Personalmente ho ritenuto che Pasolini fosse eccessivamente impregnato del fattore sensoriale: senso e sesso, ingredienti per me letterariamente inaccettabili. Mentre in Calvino ho visto prevalere la ragione e la fantasia, che è la combinazione con cui io nel secondo Novecento ho intercettato le cose narrativamente più accettabili, alcune delle quali straordinarie».
Si sente ancora un uomo del Novecento?
«Totalmente. A me è parso un secolo straordinario. Pieno di potenzialità e di promesse. E, quasi nella stessa misura, di smentite e disillusioni. Comunque, attraversato da una vitalità che rischia di non avere questo secolo in cui finirò i miei giorni».
Lo dice con una certa rassegnazione.
«Ma no, semplicemente vorrei che mi fosse risparmiato il degrado, la prepotenza e l'ottusità. Non credevo che sarebbero stati gli ingredienti principali di questa nuova alba».

Repubblica 22.9.13
Derisione di Noè di Giovanni Bellini
Nell’umiliazione di Noè ubriaco c’è una Pietà di Cristo alla rovescia
di Melania Mazzucco

Il vecchio giace disteso a terra nella vigna, la testa scomodamente posata su un sasso, le braccia scomposte nel sonno. Dorme, stordito dall’ebbrezza. Nella tazza scivolata in primo piano resta solo un dito di vino rosso. Un panno gli incornicia il corpo ma, per effetto della luce, proprio il colore di quello fa risaltare la sua bianchiccia nudità. Un grappolo di uva nera matura, i pampini e i tralci del filare, che quasi assedia il vecchio, sono tutto ciò che resta del paesaggio. Non c’è infatti spazio: le figure sono compresse nell’inquadratura stretta, come sospinte in avanti. Le loro mani formano un dinamico groviglio che li incatena l’uno all’altro e svela il loro legame. In posizione dominante, un uomo barbuto col ceffo da carnefice tenta di scostare il panno, ghignando scopre i denti. L’uomo a sinistra e il giovane a destra coprono pudicamente il sesso del vecchio. Riescono a celarlo agli spettatori. Ma l’uomo barbuto l’ha visto e i suoi occhi lo fissano ancora. Il figlio ride della nudità del padre.
Giovanni Bellini non ha quasi mai dipinto storie, né profane né religiose (o solo di malavoglia). Nulla dall’Antico Testamento. Ha dedicato le sue duecento tavole e tele all’adorazione triste della Madonna col Bambino, ai silenzi assorti di Sacre Conversazioni immerse in paesaggi simbolici, al dolore straziato degli angeli che sorreggono il Cristo Morto. Ha seminato santi sulle pale d’altare delle chiese di Venezia, paesaggi e allegorie per tradurre visivamente complessi messaggi mistici. Ha dipinto dozzine di vecchi. I solenni vecchi di Bellini sono formidabili come le sue celebrate Madonne. Sacerdoti con barbe a fuso, progenitori eroici e nudi come Giobbe, intellettuali immersi nella lettura come san Girolamo, notabili come Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, ruvidi apostoli come san Pietro, frati domenicani e sovrani laici come i dogi Barbarigo e Loredan. Eppure, anche se questo vecchio ricorda il Padre eterno e ha la barba bianca di Giobbe, non somiglia a nessuno di essi. E anche il quadro è solitario. Le opere di Bellini, elegiache, commoventi, chiedono meditazione e contemplazione, trasmettono malinconia, spiritualità, incanto. Questa, invece, sarcasmo e vergogna. E’ un’immagine spietata, senza misericordia. E’ il quadro di un vecchio, sulla vecchiaia.
Bellini lo ha dipinto intorno al 1515 — l’ultimo anno della sua vita. Ne aveva più di ottanta. Non era stato un genio precoce,anzi. Innovatore nella tradizione, aveva assimilato lentamente suggestioni di altri pittori (Mantegna, Piero della Francesca, Antonello da Messina) ed elaborato uno stile personale che fondeva ricchezza cromatica e limpidezza di forme solo intorno ai quarant’anni. Forse non per caso, solo dopo la morte del padre — Jacopo Bellini, pittore e capo della bottega in cui svolse il suo apprendistato col fratello Gentile. Aveva saputo guadagnare rispetto, ammirazione, e infine gloria, denaro, potere. Nel 1506 era ancora il migliore di Venezia, secondo Dürer. Poteva permettersi di rifiutare di lavorare sulle idee degli altri — fossero pure i marchesi di Mantova — e scegliersi da sé i soggetti, in cui “vagare a sua voglia” con la fantasia. Negli ultimi anni affrontò temi profani, per lui nuovi — perfino una donna nuda. Insomma, nel 1515 era finalmente libero.
Padre della pittura veneziana, regnava da più di quattro decenni (era pittore di stato dal 1484). I suoi figli di sangue erano già morti. Ma i suoi allievi e figli artistici scalpitavano: Tiziano, Sebastiano del Piombo, Lotto, erano ansiosi di prendere il suo posto. Chissà se qualcuno, per detronizzarlo, aveva sobillato il Fusco, professore e umanista che in versi lo diffamò come pederasta. Decrepito, amava ancora dipingere. Si guardava curiosamente attorno, avido di aggiornarsi e rinnovarsi. Il suo stileestremo era giovane.
Il soggetto del quadro — non si sa per chi dipinto e per quale scopo, e contesto — èLa derisione di Noè. Narra la Genesi che il padre dell’umanità si inebriò e rimase nudo (nella tenda, abolita da Bellini), e il figlio Cam lo vide. I buoni figli Sem e Jafet lo coprirono col suo mantello e distolsero lo sguardo. Svegliandosi, Noè maledisse la stirpe di Cam, profetizzandone l’eterna schiavitù. Predicatori e teologi assegnavano allo sconcertante episodio un messaggio gerarchico. La società è come una famiglia. I figli (i sudditi) devono obbedienza e rispetto al Padre (qualunque cosa faccia). Identificavano nei figli di Cam i ribelli, gli eretici, i sovversivi. Il tema non aveva precedenti pittorici. Ma i veneziani lo conoscevano dai mosaici di San Marco e dalle sculture sulla facciata di Palazzo Ducale. Bellini — pittore colto — conosceva le implicazioni politiche della nudità di Noè e della derisione di Cam. Ma è altro che lo interessa.
Il corpo del vecchio è disteso in orizzontale sulla superficie del quadro. Come la Venere (di Dresda), che Giorgione (e Tiziano) avevano appena dipinto. Anche lei ha gli occhi chiusi, e si offre inerme al nostro desiderio. Ma Noè ha da offrire solo la sua carne pallida, flaccida, cascante. La barba folta e però incapace di vestirlo, un capezzolo grinzoso, membra inoffensive. L’umilia-zione, la perdita di dignità. La bellezza di Noè è la miseria della carne. A differenza dei corpi dei figli, masse rifinite a larghe pennellate, quello del Padre è dipinto con sottili veli di colore e con la tecnica dello sfumato, in modo che sembra sfocarsi davanti ai nostri occhi. Ciò ci costringe a guardarlo più intensamente — a ripetere, in un certo senso, lo sguardo beffardo di Cam.
Allora questo strano quadro, un incubo evocato dai fumi del vino — tanto perturbante e alieno dal cliché di Bellini che fu per secoli assegnato ad altri, fra cui Tiziano — pare una dissacrazione. Della famiglia e della sua stessa pittura. Il pittore della stasi, del silenzio e della musica angelica conclude con una parabola amara piena di gesti e rumore. Nell’esegesi, la derisione di Noè prefigura quella di Cristo. Il quadro può essere letto come una Pietà alla rovescia. Al posto del Figlio morto, c’è il Padre. Al posto della Madonna c’è Cam. Al posto di Giovanni evangelista e Maddalena, i buoni figli di Noè. Nel mondo caotico e sovvertito, quale a ogni vecchio pare il proprio tempo, risuona la sconcia risata della gioventù. La vecchiaia, anche quella di un pittore che è ancora il re di Venezia, è questa irrimediabile fragilità di ossa e coscienza, questo appannamento smemorato, questo sonno inquieto nella penombra meridiana.

Derisione di Noè di Giovanni Bellini (1515) olio su tela 103x157 cm Musée des Beaux-Arts Besançon

Repubblica 22.9.13
Torino Spiritualità
Scegliere. Diritto e dovere
Dalla vita quotidiana alla ricerca del significato dell’esistenza, la capacità di prendere decisioni ci consente di mettere ordine in noi stessi e nel mondo. Da mercoledì prossimo filosofi e teologi danno vita a un grande dibattito. Per ridare valore a uno strumento fondamentale di libertà
di Paolo Griseri


Non c’è vita senza scelta. Di questi tempi, quando molti sembrano guidati dal precetto opposto, quello di un’esistenza basata sull’idea del galleggiamento evitando con cura ogni decisione che possa creare scontento, il tema scelto dagli organizzatori di Torino Spiritualità, “Il valore della scelta”, appare quasi una provocazione. Eppure, proprio perché scarsamente praticata, almeno in casa nostra, la scelta è di gran moda, come tutto ciò che è raro: «Credo che ciascuno di noi consideri la scelta in modo positivo. Ci piace pensare di poterla fare anche se nella quotidianità viviamo di compromessi», dice Antonella Parigi, fondatrice della manifestazione torinese.
La scelta come atto di coraggio dunque. Quando il modello culturale attribuiva al maschio la titolarità della forza, i francesi finirono per indicare la scelta con un sostantivo maschile. E così è ancora oggi. Con risultati paradossali come nel titolo, tradotto, di un famoso film americano: Le choix de Sophie, per indicare la decisione coraggiosa e drammatica di una donna. L’italiano ha avuto la saggezza di scegliere un sostantivo femminile.
E ha avuto ragione. Lo dimostrano i punti di frattura che agitano il mondo di oggi fuori dalla provincia italiana. Non per caso il dibattito di apertura al Teatro Regio porta sul palco due donne, una scrittrice turca, una delle voci delle proteste di piazza Taksim, e un’antropologa impegnata nella difesa dei diritti delle donne nell’islam arabo. Proprio la religione è una delle pietre dello scandalo nella scelta. Le fedi mono-teiste, con il loro dio totalizzante e geloso, rischiano di mettere in contrapposizione l’individuo con la comunità, la libertà con la fede e la fedeltà. Un rischio che le donne pagano in prima persona nelle società islamizzate di oggi. Ma è lo stesso rischio che si è corso fino a non molti anni fa nel mondo cristiano. Il programma dell’edizione di quest’anno di Torino Spiritualità propone due ex illustri: il teologo Leonard Boff, che ha già tenuto la sua lezione magistrale in anteprima, e Matthew Fox, frate e autore del libro scandalo In principio era la gioia. Un ex francescano e un ex domenicano: per una volta, grande ironia della storia, accomunati nella scomu-nica. Per aver avuto il coraggio di testimoniare le loro idee senza timori reverenziali. Così come farà vent’anni dopo, con altrettanto coraggio e grande clamore, il loro accusatore di un tempo, il cardinale Joseph Ratzinger. Anch’egli, oggi, un ex per scelta.
«Il coraggio di scegliere è il coraggio di mostrare se stessi, di rischiare in pubblico, di esporsi al giudizio degli altri», suggerisce Antonella Parigi. La scelta della coerenza con se stessi, quella di Giobbe, è il filo conduttore di quattro lezioni sulla figura del personaggio biblico ingenerosamente indicato dalla tradizione come esempio di pazienza. In realtà la pazienza di Giobbe è la pazienza di chi sa sopportare le conseguenze del proprio coraggio, di chi non scende a compromessi per lisciare il pelo all’opinione comune. La capacità di sopportare, di mettere nel conto le conseguenze delle proprie scelte e accettarle. È quella che oggi, con un orrendo termine alla moda, si chiamerebbe resilienza. È l’esercizio più difficile, più ancora di quello di andare controcorrente, di scegliere un gesto clamoroso. Come non affrontare in questo discor-so sulle decisioni che si pagano in prima persona, il tema della scelta in politica? Questione scottante in epoca di larghe intese e di maggioranze innaturali ma, si dice, inevitabili. Nel mondo della politica, si sa, tutto, o quasi tutto, ha il suo rovescio. La coerenza e il compromesso si scambiano i ruoli.
E può anche capitare che la scelta più radicale si trasformi nel contrario del coraggio, nella fuga dalle responsabilità, nella dittatura della pancia che non cerca soluzioni ma insegue il facile applauso, la manciata di voti che ti garantisce visibilità senza sporcarsi le mani. In questo mondo di significati cangianti la scelta delle parole è essenziale, spesso determina la sostanza, come sottolinea nel suo libro lo scrittore Lorenzo Pregliasco che ne discuterà con Ezio Mauro, direttore diRepubblica.
Fuori dalle ansie dell’Occidente, nelle culture che privilegiano la dimensione individuale rispetto a quella dei grandi movimenti collettivi, la scelta è soprattutto un atto di coraggio verso se stessi, la capacità di guardarsi dentro, in quel retrobottega che tendiamo a non mostrare in pubblico. L’accettazione delle scelte sbagliate, il sentiero dell’evoluzione personale che ciascuno è chiamato a percorrere, sono altrettanti punti di riflessione ancora abbastanza inconsueti nel nostro mondo tutto imperniato sul fuori da sé. Sarà interessante ascoltare l’intervento di Lama Khyimsar Rinpoche, direttore del centro studi tibetani in Gran Bretagna, mentre Swami Veetamohananda, presidente del Centro Vedantico di Gretz, vicino a Parigi, riflette sul sentiero dell’evoluzione personale suggerito dalla saggezza dei Veda.
Quello del Tibet sarà un approccio destinato a rimanere alternativo ai modelli dell’Occidente o c’è una possibilità, e quale, di contaminazione?
Con cento occasioni di incontro, la nona edizione della manifestazione torinese si presenta dunque particolarmente ricca. Sarà impossibile seguire tutti gli appuntamenti. Gli organizzatori, volutamente, non hanno scelto: «Noi offriamo opportunità di riflessione», spiega Antonella Parigi. Ancora una volta, scegliere tocca a noi.