lunedì 23 settembre 2013

l’Unità 23.9.13
La rivoluzione di Francesco
di Claudio Sardo


La preghiera della lotta per il lavoro è solo l’ultimo dei segni di rottura compiuti da Francesco. Segni di una profezia religiosa e laica, che evocano un futuro liberato dalle gabbie del presente.
Segni che scuotono le coscienze dei singoli, non solo dei credenti, perché la riscossa dell’uomo dagli idoli del denaro e dalla condanna delle disuguaglianze sociali è aspirazione comune di chi cerca Dio e di chi cerca l’umanità oltre se stesso. Segni che parlano di un cambiamento profondo, sociale e culturale, il quale non è iscritto in una nuova ideologia, e tuttavia vuole spezzare il giogo dell’ideologia ora dominante, quella della fine della storia, dell’impossibile fraternità degli uomini, dell’individualismo necessario, della disparità sociale come motore immobile della globalizzazione.
Quella di Francesco è una rivoluzione. E forse la parola ne riduce persino la portata. Avevamo capito dai primi gesti del Papa, dalla sua semplicità, dall’autenticità evangelica, dal suo richiamarsi continuamente a Gesù prima che alla dottrina elaborata nella millenaria storia della Chiesa, che al conclave era accaduto qualcosa di molto importante. Una Chiesa stanca e ferita dagli scandali, messa all’angolo dalla secolarizzazione dell’Occidente, incapace di fronteggiare non tanto la modernità quanto i suoi derivati, in primo luogo il sistema e il potere dell’informazione, era stata capace di un salto imprevedibile: era andata a prendere alla «fine del mondo» il nuovo vescovo di Roma. Per settimane abbiamo osservato, e scritto, di quest’uomo che rifiutava i simboli della regalità, che indicava il centro nelle periferie, anzi nelle «frontiere», che chiedeva alla Chiesa di perdonare prima di giudicare, che parlava della misericordia come cemento di una nuova identità popolare. Per analizzare quanto stava accadendo, i più hanno usato due categorie interpretative: la continuità dell’impianto teologico e il capovolgimento della prospettiva pastorale. In altre parole: nulla cambiava nella dottrina e negli insegnamenti morali della Chiesa, mentre tutto cambiava nel modo di porsi della Chiesa nel mondo, nella testimonianza della fede, nella condivisione della vita concreta. Finalmente il vento del Concilio Vaticano II spazzava via le resistenze e le paure di questi cinquant’anni.
Eppure, anche quelle categorie si sono dimostrate parziali e insufficienti. La bellissima intervista di Francesco a padre Antonio Spadaro, direttore de la Civiltà cattolica, non consente più di dividere l’ortodossia dalla prassi. Il cambio del punto di vista non lascerà indenne neppure la teologia. Se la povertà, il bisogno, la sofferenza sono il luogo privilegiato della testimonianza, se Dio vive anche nella relazione tra gli uomini e dunque l’impronta di Dio è presente ovunque, compreso chi cerca senza credere, se la fraternità vale più del giudizio morale, se il perdono è così radicale da ricostruire un percorso di liberazione dopo qualunque errore umano, il cambiamento non può esser confinato fuori dal nucleo vitale del rapporto tra fede e storia, anzi tra Dio e la vicenda dell’uomo. Ieri il Papa ha improvvisato, davanti a una folla di operai espulsi dalle fabbriche, di esodati, di giovani alla disperata ricerca di occupazione, una preghiera commovente: «Signore Dio guardaci, ci manca il lavoro. Gli idoli vogliono rubarci la dignità. I sistemi ingiusti vogliono rubarci la speranza. Signore, aiutaci a dimenticare l’egoismo e a sentire il “noi”, il “noi popolo” che vuole andare avanti. Insegnaci a lottare per il lavoro». Non bastano più neppure le categorie fin qui usate per interpretare l’evoluzione della dottrina sociale. Nell’intervista a la Civiltà cattolica Francesco riprende e rielabora un passo a lungo dimenticato della Lumen Gentium: nel senso della fede del «popolo di Dio» c’è una verità che non vale meno del dogma. È una delle espressioni più anticlericali del Concilio.
Nell’Europa, dove le culture cristiane sono alla fondamenta degli ordinamenti costituzionali democratici, quel riferimento al popolo è suonato spesso impreciso, indistinto. Ma Francesco viene dalla «fine del mondo»: e come ha detto che l’impronta di Dio è anche in chi non crede, come ha detto che il cristiano non possiede la verità terrena (semmai è posseduto da quella divina), così ha recuperato quelle parole per dire che anche attraverso la dimensione comunitaria del popolo si esprime il Dio della storia.
Il cattolicesimo democratico ha fatto della cultura della mediazione la modalità laica della sua partecipazione alla cosa pubblica e al bene comune. Nella Chiesa italiana, nell’ultimo ventennio, c’è stata una dialettica, anzi, tra cultura della mediazione e cultura della presenza, che ha messo l’accento sull’autonoma forza sociale del cattolicesimo, proprio mentre svaniva l’unità politica. Anche queste categorie rischiano ora di non servire più. Francesco tratta il vangelo come qualcosa di tremendamente più immediato e più esigente. Rispetta le mediazioni, ma non le cerca. Chiede ai cristiani di stare dove il mondo ha bisogno, ha paura, ha peccato, è senza speranza, è ai margini, è suddito di un potere nuovo e sovrastante.
Chi crede è chiamato a cambiare, e non in superficie. Ma la rivoluzione di Francesco interpella tutti. Non è soltanto l’abbattimento di una barriera culturale, anche se non sarebbe poco. Non è il «dialogo» con la modernità e con il liberalismo l’unica posta in gioco di questa partita. Non è questione per soli intellettuali. La partita vera riguarda l’uomo nel mondo di domani. Riguarda il dominio del mercato e del denaro sull’umanità degli uomini. Riguarda la crisi delle sovranità democratiche, il trasferimento dei poteri reali a entità che sfuggono alle comunità e ai popoli. Una nuova schiavitù dell’uomo è possibile. E già si esprime in una solitudine, in una crisi antropologica, di cui la dimensione «morale» fin qui insistentemente segnalata dalla Chiesa è solo una parte.
Francesco ha travolto i fragili paletti dei valori «non negoziabili» (nel senso che i principi irrinunciabili dei credenti non possono condurre alla separazione, né esonerano dalla carità). E pone la sua testimonianza a servizio di una riscossa dell’uomo e dei valori più profondi di comunità. La dimensione trascendente della politica può tornare a farsi strumento di una rinnovata conoscenza, di un cambiamento culturale, di una battaglia sociale contro le nuove schiavitù. La preghiera «Insegnaci a lottare per il lavoro» vuol dire tanto per chi crede. Ma vuol dire non meno per chi desidera battersi per un mondo migliore.

Repubblica 23.9.13
Il senso della fede e del dialogo
di Massimo Cacciari


In che cosa consiste il valore di un dialogo “sincero e rigoroso”? Nel trovare un reciproco adattarsi delle posizioni? Minimi comuni denominatori? Ragionevoli mediazioni? No certo. Esso consiste nel pervenire alla massima chiarezza della distinzione – e nel riconoscerne la necessità. Posso pensare infatti di “conoscere me stesso” soltanto attraverso l’ascolto e lo studio dell’altro da me. Papa Francesco fonda questo “metodo” su due aspetti, profondamente connessi, della fede cristiana.
Questa fede è appesa alla Croce, in ogni istante essa è chiamata a rinnovarsi, poiché in ogni istante dubita di sé: “Credo, adiuva incredulitatem meam”. Nel modo più radicale in Agostino: sempre il credente si interroga addirittura se non appartenga nel suo fare concreto agli Anticristi. Per l’altro aspetto, più propriamente teologico, la Verità che questa fede testimonia non può essere intesa come assoluta. Papa Francesco ha ragione – ma in che senso? Dio Amore, Theos Agape, in quanto appunto Agape, si è absolto dal suo essere semplicemente Uno, assolutamente Uno. È in sé Relatio. Deus Trinitas. Il dogma dell’incarnazione, come già Giovanni lo concepisce, vede l’evento storico, l’apocalisse del Figlio come ab aeterno presente nella Realtà di Dio. Ciò significa che la non-assolutezza della sua Verità non può che essere intesa come il carattere proprio e paradossale della sua stessa assolutezza.
È l’Eterno che nell’incarnazione si manifesta e assume in sé il temporale stesso: divino-umanità. Tra la non assolutezza delle “verità” storiche e la non-assolutezza della Verità cristiana vi è, dunque, l’abisso, il salto. La Relazione non annulla affatto la trascendenza, poiché sta in Dio. E, inoltre, la teologia deve chiedersi: tutto il Divino si incarna? che cosa indica la “persona” dello Spirito? forse proprio la dimensione sempre
avvenire, sempre non dum, mai riducibile alla immanenza della relazione, del Deus-Trinitas?
La fede di papa Francesco è perfettamente cristocentrica. Fondamentale ricordarlo: il cristiano si chiama cristiano perché incontra Gesù e lo crede il Figlio, non perché creda in Dio. Anzi, potremmo dire che il cristiano crede in Dio soltanto perché il Figlio ne ha fatto,ne è, la esegesi. Il confronto fede ragione intorno alle “dimostrazioni” dell’esistenza di Dio, non riveste più alcun interesse. Ma ciò lo rende ancora più difficile e drammatico. Perché Gesù chiede essenzialmente non di essere creduto come il Figlio (“chi credete che io sia?”), ma di essere seguito in ciò che fa.E ciò che fa esige un amore perfetto come quello del Padre celeste. Amore esigentissimo, sovra-umano, che si manifesta in pieno nelle Beatitudini,in tutte le parabole del Regno, così come nel “date a Cesare” citato da papa Francesco – che nessun Padre e nessun Dottore ha mai interpretato come si trattasse di una tranquilla distinzione di “ruoli”: a Cesare appartiene la moneta che porta la sua effigie e basta –e il cristiano se ne libera perché corpo, mente e anima appartiene al Signore.
Scalfari intuisce che intorno al problema del “perdono” ruota la quintessenza della paradossalità di questa fede (opposta a ogni superstitio). Perdonare significa donarsi integralmente. Ma questa misura del dono non può essere concepita che “per grazia”. Occorre tenerlo per fermo per non cadere in puro pelagianismo. Su questo papa Francesco ha forse un poco “glissato”. È evidente, infatti, che non ha alcun senso pensare che Dio non “perdoni” chi non crede. Non credere non è assolutamente peccato. Poiché la fede è gratia. Chi non crede non pecca affatto – e tuttavia, è necessario aggiungere, in base a questa fede non può ritenersi salvo. Questo è il “vino forte” – qui di nuovo si apre l’abisso tra diverse forme di vita – e nessun ponticello può essere gettato per superarlo.
Che cosa di questa fede interessa essenzialmente il non credente? Che cosa lo interroga, lo inquieta, è per lui assolutamente da pensare? Proprio la sua paradossalità – o, meglio, il fatto che il suo estremo paradosso non produca una prospettiva gnostica, non dia vita a una “chiesa degli eletti”, superbamente separata dal “popolo”, dal “laico”. Il paradosso è qui il sale della terra.È chiamato a tenere in vita il cammino di tutti. Ma il cammino è uno, il Cristo, e la vita vera è quella nel segno dell’Eterno, a sua immagine, nel segno della sua Verità: Croce e Resurrezione. Il non credente è chiamato, cioè, a pensare il carattere escatologico di questa fede: come è possibile vita autentica che non sia in ogni suo istante chiamata a render conto di sé come all’ultimo? Intorno a questa radicale idea di responsabilità ci interroga questa fede.
Ma allora sulle “cose ultime” non è possibile “passar oltre”, come si trattasse di aspetti ancora “mitologici”, in quanto tali di ostacolo nel dialogo con “la cultura moderna di impronta illuminista”. L’attesa del “ritorno”, della Parousia del Figlio, dovrebbe essere considerata essenziale, ora come alle origini. Perché, dopo la sua venuta e le sue parole, continuiamo a fare le opere del male, anche quando vediamo il bene? Perché il Figlio è venuto e il mondo continua a non seguirlo? Non è uno scandalo questo? La fede cristiana può essere sale della terra soltanto nella misura in cui continuamente lo grida, senza compromessi o adattamenti col Principe di questo mondo…Eppure, sì, essa è tutta incarnata – e perciò deve anche, ogni volta, trovare le forme della relazione col secolo, “secolarizzarsi”. Il paradosso: affermare il più profondo inter-esse col mondo senza mai, neppure per uno iota, appartenervi.
Soltanto, inoltre, su questo contesto escatologico è possibile impostare rigorosamente il dialogo con l’ebraismo. Non basta certo ricordare con Paolo (chiedendo sempre perdono per tutti i peccati commessi contro la sua parola…) che quella radice è sempre santa e che fedele rimane sempre l’amore di Dio per Israele. La differenza radicale col messianismo giudaico deve essere pensata. L’ebraismo non sta alle origini, ma, probabilmente, alFine dell’Evo cristiano. Può forse il cristianesimo intendersi se non alla luce della mancata “conversione” di Israele? Ma riconoscere tale “rifiuto” è o no necessario per il cristiano? Non è forse esso che rende impossibile “adattarsi” a questo mondo, che è ancora waste land, il mondo delle tribolazioni e delle distruzioni? Non è “ebraico”, nella sua essenza, il punto di vista che condanna ogni “trionfalismo”, ogni fede “assicurata”? Non sono le domande e provocazioni di senili illuminismi e positivismi che dovrebbero inquietare questa fede, ma quelle dei Dostoevskij, dei Nietzsche, dei Kierkegaard – domande emerse dal suo seno stesso così come da coloro che hanno profetizzato meglio di qualsiasi altro il mondo attuale della in-differenza, il mondo che fa guerra ininterrottamente nel momento stesso che proclama come idea unica, pensiero unico “pace e sicurezza”, il mondo che nel segno della “rete” che tutto avvolge e omologa sulla superficie deride per tutti i mercati chi cerca Dio o chi si ostina a pensare “le cose ultime”, o chi si interroga su come sia sopportabile una vita non in cammino alla Verità.

Repubblica 23.9.13
Quel cammino in comune alla ricerca del vero bene
Così cattolici e laici in nome della coscienza possono cercare insieme il vero, il bene e il giusto
L’11 settembre il Papa risponde a Scalfari su Repubblica con una lunga lettera su fede e laicità
Le domande di Eugenio Scalfari e la risposta di papa Francesco aprono prospettive diverse al dialogo
Il presupposto è che nessuno ritenga di possedere da solo le soluzioni e che si senta in grado di imporle
di Gustavo Zagrebelsky


Lo stato laico è un aspetto della secolarizzazione, cioè del rovesciamento della base di convivenza tra gli esseri umani: dalla trascendenza all’immanenza; dall’eternità al
saeculum; da Dio agli uomini; dalla Chiesa alle istituzioni civili. Questo rovesciamento ha investito tutti gli aspetti delle relazioni sociali e quindi anche le relazioni politiche. La città degli uomini s’è resa autonoma dalla città di Dio.
La secolarizzazione, tuttavia, non significa affatto poter fare a meno d’una dimensione trascendente della vita collettiva. Senza una forma di trascendenza, non c’è società possibile. Ci sarebbe soltanto collisione d’interessi in conflitto. La società secolarizzata ha posto il rapporto tra istituzioni civili e fedi religiose in una luce diversa da quella che, per secoli, l’ha illuminato. La scena non si è affatto semplificata. La questione resta aperta, e le discussioni mai sopite ne sono la prova. Thomas Mann ha espresso questo rapporto mobile con l’immagine dello scambio della veste: «Significherebbe disconoscere l’unità del mondo ritenere religione e politica due cose fondamentalmente diverse, che nulla abbiano né debbano avere in comune, così che l’una perderebbe il proprio valore e finirebbe per essere smascherata come falsa qualora si potesse dimostrare che in essa vi è traccia dell’altra […] In verità religione e politica si scambiano per così dire le vesti […] ed è il mondo nella sua totalità che parla, quando l’una parla la lingua dell’altra».
Ciò che, invece, è chiaro è che la secolarizzazione ha scalzato la Chiesa dal monopolio della funzione culturale unificatrice ch’essa, nei secoli, ha preteso di occupare: la gerarchia è stata sostituita da patti, espliciti o impliciti, esclusivamente orizzontali. Il contrattualismo e il convenzionalismo sono le teorie politiche di questa concezione.
Non esistono più sovrani di diritto divino; il governo delle società non è per grazia di Dio, ma per volontà del popolo o della nazione. Noi siamo immersi in questa visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, d’un punto di riferimento comune che stia sopra ciascuno di noi? Di una forza culturale che c’induca ad atteggiamenti solidaristici, ci muova a obiettivi comuni, promuova atteggiamenti, se non amichevoli, almeno non ostili tra chi riconosce la propria appartenenza a una cerchia d’individui che, insieme, formano unità? La dimensione puramente intersoggettiva dei rapporti è sufficiente a creare legami nella vita concreta d’individui che, per lo più, non si sono mai incontrati, faccia a faccia? L’esigenza di qualcosa che li trascende, in cui si possa convergere, è permanente, anche se il modo di soddisfarla è vario nel tempo.
Quest’esigenza, che ci pervade in misura più o meno intensa a seconda delle circostanze storiche, nasce dal fatto che la società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, tra persone che si conoscono reciprocamente. È, invece, un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono parti d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Questa è la questione decisiva per ogni vita sociale: “senza conoscersi personalmente”. Come può esserci società, tra perfetti sconosciuti? Qui entra in gioco “il terzo” astratto, il punto di convergenza trascendente.
Più si risale indietro nel tempo, più risulta difficile distinguere tra istituzioni religiose e istituzioni civili. Jan Assmann, il sapiente studioso del posto delle religioni nell’Antichità, ha mostrato questo intreccio, affascinante per un verso, terribile per un altro. Per molti secoli, il terzo astratto si è rappresentato come il Dio, o gli Dei, della religione ufficiale, vigente in ciascuna delle società umane. Si tratta della cosiddetta “religione civile” o, meglio, della religione in funzione d’unità sociale. Nella tradizione classica, lareligio civilis,cioè il culto dovuto aipropri dei, assurgeva a fondamento della virtù repubblicana, quella virtù che induceva i singoli ad anteporre all’interesse individuale il bene comune, il bene della res publica, e li disponeva ad atti di dedizione ed eroismo, testimoniati nelle historiae della Roma repubblicana.
Facciamo un salto nel tempo. Nell’“allons enfants de la Patrie” della Marsigliese c’è già tutta l’essenza del problema moderno della religione civile: la Patrie era il nuovo terzo; i citoyens erano i suoi figli, i suoi enfants: dunque fratelli tra loro; i patriotes erano i nuovi credenti che si riconoscevano tra loro per mezzo dei loro simboli politici, dopo aver abbattuti quelli teologici dell’AnticoRegime. Nel 1789, si trattava della Patria. Nel 1793-1794, in pieno disfacimento della Francia rivoluzionaria, il “terzo” cambia natura, si cristallizza. L’asse su cui stava la Patria si riposiziona e si “teologizza”. Compare la Dea Ragione, con i suoi templi, spesso chiese profanate, con i suoi riti e i suoi officianti. Il 7 maggio 1794, un decreto sulle feste repubblicane istituisce il culto dell’Essere Supremo, voluto da Robespierre in persona e da lui stesso celebrato, l’8 giugno, avvolto in un manto azzurro, al campo di Marte sotto la regia di J.L. David. La vecchia religione e il vecchio Dio erano stati uccisi, ma se ne tentava una risurrezione deista, per tenere insieme una società in disgregazione. Quella cerimonia, artificiosa e ridicola perfino agli occhi di molti giacobini, era però segno di qualcosa di molto poco ridicolo, anzi di terribile. L’Essere supremo, evocato come il “terzo” della fase terminale della Rivoluzione, ne diventava l’onnipotente protettore che tutto giustificava. Sotto il suo sguardo tutelare, due giorni dopo la celebrazione, entrava in vigore laLegge di pratile, la legge che porta al colmo il regime del terrore giacobino, in nome dell’ossimoro formulato da Robespierre stesso: “dispotismo della libertà”. La vicenda rivoluzionaria è rivelatrice. “Il terzo”, quando si prospetta sulla scena, è, all’inizio della storia, un fattore di liberazione. Ma, in seguito, ciò che è stato liberatorio può trasformarsi in strumento d’oppressione morale, quando perde la sua autonomia, subordinandosi alle ragioni e agli interessi del potere e diventando propaganda e imbonimento e, perfino, “terrore”.
In un saggio del 1967, dal titoloLa formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, il costituzionalista cattolico tedesco Ernst Wolfgang Böckenförde ha formulato un “motto” che oggi è diventato quasi una parola d’ordine per chi propugna l’esigenza di ricollocare la religione alla base della politica, nell’interesse non tanto della religione, quanto della politica stessa. È il motto della cosiddetta post-secolarizzazione: «Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della libertà».
Cerchiamo di comprendere. Ogni regime politico si basa su un principio dominante, una “molla”, una “passione” che alimenta l’ethos pubblico che lo fa muovere. Ed è nella natura delle cose, anche politiche, che questo principio primo – nel nostro caso, “l’amore per la libertà”, tenda a rendersi assoluto, con ciò realizzando non la perfezione ma l’inizio dell’autodissoluzione. Non c’è ragione per escludere che ciò valga anche per qualunque forma di governo, compresa la democrazia basata sulla libertà. Se essa alimenta la pura e integrale libertà, cioè l’egoismo senza freni e correttivi altruistici, realizzando integralmente la sua “molla” individualistica, sprigionerà anch’essa la forza autodistruttiva d’ogni regime che voglia rendersi assoluto.
La denuncia teorica,circa l’incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri presupposti di stabilità, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società occidentali che, per diversi aspetti, è una ripresa drammatizzata di quella diffusa nell’Europa del secolo scorso, tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare se stesse», secondo la vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di natalità, l'invecchiamento delle generazioni e la chiusura alla vita e al futuro; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di senso e anima e dotate di ambizioni smisurate; l’edonismo e l’idolatria del denaro associato al potere. Benedetto XVI, calcando la mano, ha introdotto un’espressione sorprendente e, almeno a prima vista, perfettamente contraddittoria: la “dittatura del relativismo”. Sarebbe una “dittatura” che «lascia il proprio io solo con le sue voglie » (espressione che ricalca le più crude formule di condanna usate nei confronti del liberalismo del primo ‘800). Su questo humus s’innesta una nuova proposta del magistero cattolico come forza salvifica generale, anzi universale, valida al di sopra delle divisioni pluralistiche della società. Ovviamente, una proposta di questo genere, in quanto formulata quasi come offerta di protettorato etico da parte del magistero cattolico, contraddice la libertà e l’uguaglianza delle coscienze individuali: due aspetti irrinunciabili dello “stato liberale secolarizzato”. Essa sottintende la condanna del relativismo, che è invece l’essenza dell’uguale libertà; pretende l’esistenza di materie eticamente “non negoziabili” nelle quali il legislatore civile debba porsi al servizio delle concezioni della Chiesa; comporta disuguaglianza tra le confessioni religiose, a favore del primato di quella cristiano-cattolica a detrimento di tutte le altre, per non dire delle visioni del mondo atee. Queste – secondo un’espressione terribile, anch’essa di Böckenförde – sarebbero destinate a «vivere come nella diaspora». In altri termini, la cittadinanza piena sarebbe appannaggio dei soli cattolici, e lo Stato assumerebbe, ancora una volta, la veste confessionale.
Il Concilio Vaticano II ha tentato una “conciliazione” del cattolicesimo con il “mondo moderno”, espressione sintetica per dire: col pluralismo etico e politico. L’invito ai cattolici a impegnarsi in re civili a fianco dei non cattolici, con spirito di collaborazione e autonomia di giudizio era chiaro. Così come chiaro era l’inibizione d’usare l’autorità della Chiesa per sostenere posizioni politiche (“non osino” invocarla a proprio vantaggio). Sappiamo come sono andate le cose, soprattutto nel nostro Paese. Questa indicazione, peraltro non priva di zone d’ombra, è stata oscurata, messa in disparte, a vantaggio d’una presenza molto accentuata della Chiesa nella vita politica, per affermare le proprie verità.
Ora, il pendolo sembra oscillare dall’altra parte. La gerarchia, con i suoi abusi, le sue pompe, le sue ricchezze, la sua arroganza, pare lasciare il passo a un atteggiamento diverso che riscopre la parte del Concilio Vaticano II che, per mezzo secolo, è stato oscurato (non abrogato: nella storia della Chiesa nulla è mai abrogato definitivamente). Uno spirito diverso da quello del passato spira nei primi atti e nelle prime parole del papa attuale, Francesco.
Nella Enciclica Lumen fidei (n. 34), troviamo scritto risultare «chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti». E, nella lettera a Eugenio Scalfari, pubblicata su questo giornale l’11 settembre scorso, il Papa indica la necessità di «cercare […], le strade lungo le quali possiamo, forse, incominciare a fare untratto di cammino insieme». Non si dovrebbe parlare, per il Papa, «nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione».
In ogni spirito che s’ispira alla laicità e, al contempo, crede all’utilità, anzi alla necessità che forze morali possano unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a «reimpostare in profondità la questione» suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene, il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà. Il vero, il bene, il giusto possono dipanarsi nella storia, senza mai, però,raggiungere la pienezza. Le tappe del cammino sono i giudizi che gli esseri umani pronunciano “in coscienza”. Per i credenti, la pienezza ci sarà, ma non ora, in “questo” tempo; per i non credenti, l’idea stessa d’una raggiungibile “pienezza” è senza significato. Tuttavia, non è affatto privo di significato l’operare insieme per combattere la menzogna, il male, l’ingiustizia. Tutti siamo nella dimensione del contingente: i credenti, nella fede di poter sempre umilmente procedere verso il bene; i non credenti, nella convinzione di poter sempre provvisoriamente combattere il male. Il terreno per operare insieme, per fare un cammino insieme, è aperto. Una chiosa, però: il Papa, rispondendo a Scalfari, parla di “tratto di cammino”. Questa espressione non è priva d’ambiguità: dove si colloca, e chi decide dove si colloca la fine del “tratto”? E che cosa accadrà, allora? Su questo, un chiarimento da parte di coloro che si protendono la mano sarebbe necessaria.

il Fatto 23.9.13
Pace, integrazione e diritti, l’unico leader che ne parla
Quel messaggio di Bergoglio che scuote i laici
di Ferruccio Sansa


“Non ardeva forse il nostro cuore quando Egli lungo la via ci parlava”. A molti credenti, ascoltando i messaggi di Francesco, vengono in mente le parole dei discepoli di Emmaus. Ma Bergoglio lancia un messaggio altrettanto forte ai laici.
A volte basta un uomo. Una persona sola può cambiare le cose. Ce lo ha mostrato Francesco che in pochi mesi sembra aver mutato il volto della Chiesa. E ci ha ricordato il peso - e la responsabilità - di un individuo nel mondo in cui vive. Certo, lui è Papa, direte, ma ognuno di noi può tentare nel proprio orizzonte: famiglia, lavoro, città. Ecco, abbiamo smesso di credere in noi stessi, questo forse è il primo messaggio di Bergoglio.
“Non ardeva forse il nostro cuore quando Egli lungo la via ci parlava”. A molti credenti, magari, vengono in mente le parole dei discepoli di Emmaus leggendo la bella - e molto umana - intervista del Papa a Civiltà Cattolica. Pensano a Qoelet: “C’è un tempo per piangere e uno per l’allegria”. Ecco, dopo gli affarismi dello Ior, la vergogna della pedofilia, i vari Bertone e Bagnasco che flirtavano con il neopaganesimo di Berlusconi ora possono ritrovare la speranza, che, come dice il Papa, “non è uno stato d’animo del-l’uomo”, ma una virtù teologale. Possono ritrovare slancio nella fede, che non è agganciata alle sorti della fin troppo umana Chiesa di Roma, ma è comunque - di nuovo citiamo Francesco - questione di popolo. Impegno collettivo oltre che individuale. Ma forse le parole di Bergoglio possono dare un segnale altrettanto forte ai laici: non parole che arrivano da un Dio, ma comunque un messaggio da ascoltare. Perché la Chiesa è una voce importante nella vita civile e anche il laico ha il dovere di ascoltarla insieme con le altre. Perché laicità non significa confinare l’uomo a una dimensione materiale. “Aborto, matrimonio omosessuale e contraccettivi... non è necessario parlarne in continuazione”, dice il Papa. Ma soprattutto: “La Chiesa si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti”. E ricorda il dovere primo di pensare agli ultimi: “Bisogna partire dal basso”.
Non dovrebbe ardere il cuore un poco anche ai laici - almeno ai progressisti - sentendo queste parole? Da quanto tempo non sono in bocca a un leader politico? Berlusconi, Monti, Letta, Napolitano, ma anche quell’Europa con tanta burocrazia e poca anima, da quanto tempo ci riempiono la testa di economia, finanza, spread e pil. Ma noi non siamo solo questo. In sei mesi Francesco è stato a Lampedusa, ha parlato ai giovani di Rio, ha usato parole di vicinanza per gli omosessuali. Ha fatto sentire una voce potente contro la guerra. Bergoglio, come il pontefice francescano del visionario libro “Roma senza papa” di Morselli, ha cambiato il volto della Chiesa. Queste sono le domande anche per i laici: non possiamo cambiare anche noi l’Italia e l’Europa? Perché abbiamo rinunciato a essere un popolo?

il Fatto 23.9.13
Assisi, il Poverello patrono del business
di Alessandro Ferrucci


Ad Assisi l’accoglienza non prevede neanche la possibilità di andare al bagno gratis. Se uno ha la sfortuna di un bisogno impellente deve sperare nella fortuna di avere sessanta centesimi brevi manu, altrimenti è inevitabile affidarsi a una preghiera per impietosire il responsabile della toilette costruita sotto il piazzale inferiore della Basilica di San Francesco. Niente da fare. Al pellegrino gli spicci vengono donati da un benefattore.
Soldi, incasso, business, questa è la formula vincente nel paese del Poverello. Basta camminare per le vie, inerpicarsi per le salite, prendere fiato nelle discese, leggere i prezzi (mediamente alti) fuori da negozi, bar, agenzie immobiliari, società specializzate in pellegrinaggi per capire che dello spirito evocato in questi mesi dal papa, fatto di carità, profilo basso, accoglienza, c’è veramente poco: qui è anche impossibile trovare un punto di appoggio per mangiare il proprio, tutto è organizzato per obbligare il forestiero a usufruire dei servizi locali. E spendere. Ancora peggio se prendiamo alla lettera le parole pronunciate la settimana scorsa da Francesco: “Che i conventi siano aperti ai bisognosi, non siano alberghi”. Bussiamo alla Casa di Santa Brigida, gestita dalle suore Svedesi: la struttura è stata restaurata magnificamente, nel totale rispetto della tradizione umbra, con mattoncini a vista, legno alle finestre, una rara vista sulla vallata e su Santa Maria degli Angeli. “Buongiorno vorrei sapere se avete posto a metà ottobre per un gruppo di venti fedeli”. “Mi dica i giorni esatti”, risponde una suora di colore, modi bruschi, una vaga inflessione tedesca. “Dal 14 al 16, o anche dopo, a seconda della disponibilità”. In silenzio prende il registro delle presenze. Sfoglia. Riflette, gioca con la matita. Poi sentenzia: “È tutto pieno fino a novembre. Per caso nel gruppo ci sono bambini o molto anziani? ”. “Cosa, scusi? ”. “Sì, i bambini causano confusione, mentre gli anziani creano problemi, meglio se li sistemate in una struttura più centrale. Non siamo attrezzati per gli ospiti disabili”. “Bene, qual è il prezzo? ”. “65 euro la pensione completa, 55 la mezza. Guardi che le stanze hanno ogni comfort, compreso il bagno privato. Aspetti, le do la brochure”.
La parola magica è “offerta”
Riprendiamo il cammino. A cinquecento metri in linea d’aria incontriamo la Casa di Accoglienza di Santa Elisabetta d’Ungheria, sul portone un semplice campanello e indicazioni su orario e giorno. “Se abbiamo posto per trenta persone? Ne accogliamo fino a sessanta”, illustra una laica davanti a un bancone con sopra una lunga serie di portachiavi a forma di croce in legno. “Quanto costa una stanza? No, qui si va a offerta... comunque 55 euro a notte”. Ecco la parola magica: offerta. Ad Assisi ogni ordine ha la sua struttura, ogni ordine negli anni ha conquistato il proprio spazio per marcare una presenza in uno dei luoghi di maggior pellegrinaggio al mondo. Ogni ordine accoglie, ma solo a pagamento, un pagamento mascherato “da offerta”. Un frate da quindici anni presente nella cittadina ci dà il buongiorno, ma in stile don Abbondio preferisce evitare la pubblicazione del suo nome di battesimo: “Non vorrei avere problemi con gli altri fratelli. Comunque sì, qui funziona così, qui è business. Cosa? Lo so, non è bello, abbiamo perso completamente la via indicata da Francesco e con l’escamotage dell’offerta alcune strutture possono usufruire di benefici fiscali, come la tassa sull’immondizia o l’Imu. Ad Assisi oltre a San Francesco, si ringrazia anche un altro beato: ‘San Terremoto’”. Anno 1997: un sisma sconquassa Marche e Umbria. Danneggiate anche Foligno, Nocera Umbra, Preci, Sellano. E, appunto, Assisi dove muoiono in diretta televisiva quattro persone tra tecnici e frati, impegnati nella verifica dei danni. Le immagini del crollo vennero riprese da un cameraman di Umbria Tv, in quel momento presente all’interno della basilica. “Per la ricostruzione sono giunti miliardi su miliardi, tanti, più i fondi stanziati per il Giubileo del 2000 – spiega l’ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale – in ambo i casi parliamo di finanziamenti pubblici che hanno reso Assisi quello che è oggi, con qualche stortura o facilitazione a favore dei frati”. Per scoprire a cosa si riferisce l’ingegner Marcucci, dobbiamo tornare virtualmente ai bagni sotto la Basilica, quella struttura è al centro di un contenzioso tra l’ordine religioso e la stessa Assisi: la piazza è del Comune; i frati ci realizzano dei locali a spese dello Stato, “poi con un atto arbitrario modificano a loro nome l’intestazione catastale precedentemente intestata al Comune di Assisi – continua Marcucci – il Comune fa ricorso contro questa procedura, per la quale si arriva in Cassazione. Peccato che in campagna elettorale il sindaco ha promesso di risolvere la faccenda e di rinunciare al ricorso”. In sostanza l’amministrazione ha regalato ai frati la piazza inferiore e i suoi bagni “e poi vada a fare un salto al negozio sotto la Basilica, ogni tanto si dimenticano di battere lo scontrino”, sollecita di nuovo il nostro “don Abbondio”. Cartoline, ovvio. Crocefissi in tutte le forme, misure, materiali. San Francesco ovunque, Francesco anche. Calendari, tazze, ma anche vino, liquori, rossetto per le labbra, saponi e prodotti di cosmesi come il gel struccante alla calendula. A noi lo scontrino lo fanno con altri scatta la dimenticanza.
“Professore, professore! ” urla un signore dall’aspetto modesto per le vie di Assisi, si rivolge a un cinquantenne dalla camminata impegnata. “Professore per caso sa dove posso dormire questa notte? Sono disposto a pagare, anche se come al solito non ho grandi disponibilità”. Il professore: “Ora ho fretta, ci penso, ma queste sono giornate difficili, con il prossimo arrivo del papa è tutto pieno”. Chi chiede aiuto si chiama Gabriele, viaggia con un paio di buste di plastica piene, si definisce un colpito dalla crisi, quindi senza lavoro. Si arrangia, magari fa qualche lavoretto per i conventi, consegna la posta. “Ma ricevere aiuto qui – racconta – è oramai impossibile”. Stesso refrain, simili racconti da Angela Serracchioli, bolognese di origine, da otto anni impegnata ad Assisi e autrice di una guida del pellegrino: “Non esistono posti dove si offrono pasti ai poveri. Da nessuna parte. Ma lo sa quanti pellegrini ho visto aggirarsi per la città stupiti e affranti perché nessun convento li ha voluti ospitare? Una volta ho rifocillato anche un frate argentino... ”.
Prezzi bassi, alti benefici
Direzione suore Alcanterine. Hanno un palazzo centrale, dietro un vicoletto buio, chiuso, nascosto, ecco il portone. Dietro c’è una struttura bellissima, luminosa, curata, con un ampio chiostro. Di lato è organizzata la cucina, le suore sono impegnate a impiattare il pranzo. “C’è posto per una trentina di pellegrini a metà ottobre? ”. “Aspetti controllo”. Solito registro delle presenze. “Tutto pieno fino a novembre, ma dopo c’è posto. Il costo è di 55 euro per la pensione completa, abbiamo anche la cappella”. Sul loro sito è scritto: “L’offerta del nostro servizio intende rispondere alla necessità di tutti coloro che, oggi sempre più numerosi, bussano alla nostra porta”. A quanto pare è vero, rispetto ai “numerosi”.
“Per noi albergatori tutto questo è un problema: loro hanno oggettivamente costi molto ridotti, anche solo di personale – interviene Fabrizio Leggio, proprietario dell’hotel Windsor Savoia – Le do un solo dato per farle capire: il costo vivo per ogni mia stanza è di quasi 40 euro. In sostanza non ho quasi più margine”. Ma nella zona non c’è solo il caso-Assisi. A tre, quattro chilometri, nella vallata, a Santa Maria degli Angeli sorgono due strutture di gran lusso, la “Domus paci” e il “Cenacolo francescano”. La seconda in particolare è stata data in gestione a una società straniera previo un generoso affitto annuale. Così, come recita la pubblicità, tra uno snack, una passeggiata, un’escursione, magari la lavanderia, un drink per rilassarsi è possibile vivere “la splendida atmosfera del luogo con gli ampi spazi verdi che invitano alla riflessione e garantiscono un soggiorno perfetto, adatto alle esigenze di tutti i target di clientela (religiosi, turisti, uomini d’affari, famiglie, gruppi, meeting) ”. Turisti, religiosi e uomini d’affari. Anche perché “vicino all’albergo vive una comunità di Frati Minori disponibili a rispondere alle esigenze spirituali e morali dei pellegrini e degli ospiti”. Insomma, pacchetto completo. L’importante è pagare, anche qui ad Assisi. SUORE DI SANTA BRIGIDA DI SVEZIA NIENTE BAMBINI E DISABILI
Struttura che affaccia sulla vallata e su Santa Maria degli Angeli. Una suora dell’ordine spiega: “Niente bambini perché fanno troppa confusione, i troppo anziani creano problemi”. Poi la brochure specifica che non “ci sono strutture dedicate ai disabili”. È quasi sempre tutto pieno, al costo di 65 euro per la pensione completa.

il Fatto 23.9.13
Da Lourdes a Helsinki: viaggi di fede
di  Ma. Fil.


LOURDES, SANTIAGO DE COMPOSTELA, Medjugorje, Gerusalemme, Fatima. Ma anche i meno noti Avignone e Czestochowa. Per rimanere qui in casa nostra: Assisi, il convento santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, Loreto, Cascia, Roma. Per gli spirituali più esotici (e danarosi) c’è poi l’affascinante “via dei missionari”, ovvero Cina, Madagascar, Tibet ed Etiopia. Il “c a t a l o go” (così chiamato dagli stessi promotori) dei pellegrinaggi è ampio. E soprattutto è un fenomeno che non conosce crisi. La via preferenziale è l’Opera Romana Pellegrinaggi, appartenente al Vicariato di Roma e quindi organo della Santa Sede. Si legge nel sito: “Abbiamo accompagnato e accompagniamo migliaia di pellegrini alle radici della storia del cristianesimo. Grazie alla sua esperienza, la sua attività e il suo servizio rappresentano un modello unico di riferimento per chiunque voglia scoprire la bellezza e la profondità del pellegrinaggio e del cammino”. E sia. I più gettonati sono gli “Itinerari biblici” (soprattutto la Terra Santa) oppure i Santuari Mariani. C’è il depliant che spiega tutto. Per un “pellegrinaggio classico nei luoghi della Salvezza”, ovvero una settimana in Palestina, ci vogliono 1.240 euro. Salvo alta stagione (50 euro in più) o la scelta della camera singola (300 euro in più). Più economico andare a Lourdes o a Fatima (600 euro per 5 o 6 giorni). E così via, fino alla Polonia “fra i ricordi di Giovanni Paolo II”. C’è poi ancora qualche novità dell’anno: la Russia con San Pietroburgo e Mosca, “due città simbolo della devozione ortodossa”, poi i gioielli del Baltico (Stoccolma, Riga, Helsinki, Tallinn) alla scoperta “della fede e della bellezza del Nord” (e vada per la bellezza, ma la fede in questi luoghi bisogna proprio cercarla bene). Per finire con un costoso soggiorno (2800 euro) in Messico “alla scoperta della tradizione e della fede del popolo messicano”.

il Fatto 23.9.13
Furbi et orbi
Roma, la via crucis del pellegrino
di Diletta Parlangeli


Servono buoni santi in paradiso, per essere pellegrini a Roma. Se si considera che le stime di Adoc di marzo scorso descrivevano 16 milioni di fedeli l’anno - il 40% dei quali stranieri - con un incremento dell’effetto “Anno di Fede” più “nuovo Papa” del 20% sul flusso totale, le dimensioni del business sono più che chiare. E ogni occasione è buona per fare nuovi affari. Come quella delle suite di lusso che Propaganda Fide ha affidato alla Bucardo s. r.l. Come già raccontato da Il Fatto, la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli ha dato alla società fondata nel 2008 la gestione di suite in sette palazzi della Capitale, tutti in strutture di prestigio e centralissime, a prezzi concorrenziali (350 euro) rispetto alla media. E proprio ora che Papa Francesco invita a non trasformare i conventi in alberghi, ma a darli ai rifugiati, viene fuori che Propaganda Fide nel-l’aprile scorso ha stipulato un contratto con la Bucardo, i cui amministratori sono stati coinvolti in un’inchiesta napoletana riguardante l’appalto Sistri. Accordo per la gestione di residenze meravigliose, donate negli anni Trenta.
La gestione dell’”economia del pellegrino”, tra organizzazioni di matrice ecclesiastica e non, non riguarda solo gli alloggi. Riuscire a sopravvivere alla visita di San Pietro e dintorni senza incorrere in truffe e prezzi gonfiati è un’operazione che richiede attenzione, se non meditazione.
UNO DEI GRANDI CLASSICI è il giro in autobus attraverso i luoghi della fede. Li organizza, tra gli altri, l’Opera Romana Pellegrinaggi, che ha anche delle agenzie di distribuzione come la Cooperativa il Sogno. Già da un sito all’altro cambiano i nomi delle offerte e dei prezzi, anche se di poco. Tanto per fare un esempio, il giornaliero che consente “l ’accesso ad entrambi i percorsi Open Bus Roma Cristiana per 24 ore a partire dalla prima timbratura”, sul sito romaguide.it   costa 19 euro, mentre sulla pagina ufficiale Openbus dell’Orp, 20 euro (nella sezione norme e condizioni del sito sono considerate tutta una serie di ipotetici cambiamenti e revisioni dei prezzi dovuti ad altrettante variabili). Un capitolo a parte riguarda il trattamento riservato alle persone con disabilità: “Portatori di handicap, Orp non è attrezzata alla cura ed assistenza di pellegrini con problemi di natura fisica o mentale. Questi pellegrini saranno accettati solo se assistiti da accompagnatori qualificati”.
La fermata più pericolosa per truffe e raggiri, resta proprio piazza San Pietro con le sue zone limitrofe. “Le guide abusive sono sotto gli occhi di tutti – si sfoga Claudia (nome di finzione), guida autorizzata – è pieno di persone che offrono visite senza avere l’autorizzazione provinciale, e nessuno fa niente. Sono ovunque, persino alla fermata della metro, si fanno trovare all’uscita con i biglietti. Come fanno ad averli, visto che non possono uscire dalle strutture preposte? E perché in Basilica i visitatori devono per forza acquistare 1.50 euro di audioguida, nonostante siano già guidati da noi, quando è l’hanno già dovuta prendere ai Musei Vaticani? ”.
Mentre le sue domande fanno il giro del colonnato, basta restare 3 secondi da soli in piazza per essere assaliti dalle guide forlocche. Un minimo di accento americano - simulato, peraltro - e si viene braccati all’istante: “Ti facciamo fare il tour saltando la fila. Guarda, dentro è affollato, e si rischia di aspettare 4 ore, davvero” “Vado a sentire il mio ragazzo e torno, mi lasci il volantino? ” “No, non ci credarai, ma li contano – dice lui sempre in inglese, mostrando il flyer con scritto “vaucher” – non posso lasciartelo”. Poco più avanti, un altro illustra un tour fantasmagorico. Stessa trafila: “Vado a sentire il mio ragazzo e torno, ma quanto costa? ” “Sono 50 euro, ma ti faccio lo sconto studente, quindi 40”.
Insomma, il prezzo del tour delle opere di fede, contrattato come quello del rosario colorato pochi passi più in là “se ne prendi due ti faccio 5 euro”, dice l’ambulante. Abbiate fede.

il Fatto 23.9.13
Mille miliardi di immobili solo in Italia
Nel cuore del Vaticano proliferano gli acchiappa-turisti


IMMOBILIARE VATICANO Secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore, che cita il gruppo immobiliare Re, “circa il 20% del patrimonio immobiliare in Italia è in mano alla Chiesa”. Un patrimonio che non si ferma alla sola capitale dove ci sono circa 10mila testamenti l'anno a favore del clero e dove i soli appartamenti gestiti da Propaganda Fide – finita nel ciclone di alcune indagini per la gestione disinvolta di alcuni appartamenti – valgono 9 miliardi. La Curia vanta possedimenti importanti un po' ovunque in Italia e concentrati in Veneto e Lombardia. Secondo l’Agenzia del Territorio , il valore del patrimonio immobiliare italiano ammonta a 6.400 miliardi di euro. Su questa base il valore di proprietà della Chiesa è di circa mille miliardi di euro. Valore che raddoppia se si aggiungono i circa 700 mila immobili complessivi posseduti all’estero.

il Fatto 23.9.13
Santi e mendicanti
“Caro Francesco, ti rivelo un segreto”
di Marco Vichi


C’era una volta un mendicante che si chiamava Francesco. In una bella mattina d’inverno apparve in piazza San Pietro con una busta in una mano e un vecchio bastone nell’altra. Salì umilmente la scalinata che portava alla basilica, a testa bassa, cercando di non disturbare la gente che andava e veniva. Varcò la soglia della chiesa, si bagnò la punta delle dita nell’acqua santa e si fece il segno della croce, inginocchiato a terra come gli antichi pellegrini. I turisti, armati di macchine fotografiche e di Iphone, lanciavano un’occhiata divertita a quel pittoresco personaggio italiano e gli facevano una foto. Lui ricambiava con un sorriso. Prese a vagare sui pavimenti decorati della basilica, osservando distrattamente le colonne attorcigliate, i soffitti a cassettone, le volte dorate, i marmi multicolori, gli altari, i capitelli, le statue... Ma in realtà stava cercando un prete, e non per confessarsi. Si guardava intorno con pazienza, sempre pronto a farsi di lato per non essere d’intralcio alla gente. Dopo un po’ vide un giovane sacerdote che discorreva piacevolmente con due belle donne, davanti a una statua della Madonna che teneva tra le braccia con tenerezza il cadavere del suo povero Figlio. Si avvicinò, ma non troppo, e si mise ad aspettare con pazienza. A un certo punto gli si parò davanti un tipo in divisa, ma non doveva essere un poliziotto.
“Guardi che non può stare in chiesa vestito in questo modo. ”
“Perché? ”
“Venga... ” sussurrò con decisione l’uomo in divisa, facendo un cenno in direzione dell’uscita.
“Mi scusi, ma questa non è una chiesa? ”
“Certo che è una chiesa... Intanto mi segua, parliamo là fuori. ” Non si azzardava a toccare il mendicante, era troppo sudicio, e puzzava da vomitare.
“La chiesa è la casa del Signore” disse lo straccione.
“La prego, mi segua. ”
“Gesù ama i poveri... ”
“Insomma devi andartene” sussurrò duramente l’uomo, che stava perdendo la pazienza. In quel momento il sacerdote finì di discorrere con le due donne, e prima che se ne andasse il mendicante gli corse incontro più veloce di una lepre, inseguito dal guardiano. “Padre, ho bisogno di parlare con lei” disse con la testa china. Il sacerdote indietreggiò appena, sorpreso e imbarazzato. Arrivò il guardiano, ansimando per l’agitazione “Non sono riuscito a trattenerlo” disse, con aria mortificata. Prese l’intruso per un braccio, rassegnato a doversi sporcare le mani per trascinarlo fuori. “Vai pure, Anselmo... Ci penso io... ” disse il sacerdote, che voleva evitare scene sgradevoli di fronte a turisti di tutto il mondo. “Va bene” disse il guardiano, contento di non doversene più occupare. “Ha un minuto per me? ” disse il mendicante. “Ho un po’ fretta... Ma mi dica... ” “Ecco... Vorrei parlare con il Papa. ” “Cosa? ” disse il sacerdote, sorridendo. Doveva trattarsi di un matto. “Non abita qui, Papa Francesco? ” chiese il mendicante, preoccupato. “Sì, ma... ” “Sa che anche io mi chiamo Francesco? ” “Ne sono felice... Adesso però devo andare... ” Non sapeva più cosa dire, e poi non era abituato a parlare con persone di quel tipo. “Allora mi accompagna lei dal Papa? ” “Ma si rende conto di quello che mi sta chiedendo? ”
“In che senso? ”
“Come può pensare di poter parlare con il Papa? ”
“Come sarebbe? Io ho assolutamente bisogno di parlarci, devo dirgli una cosa importantissima! ”
“Dica pure a me, farò in modo di fargli avere il suo messaggio” disse il prete, per toglierselo di torno.
“No no no, devo parlare con lui. È importantissimo, mi creda. ” “Ma lei non può entrare in Vaticano... ” “Facciamo così: dica al Papa che io lo aspetto qua. ”
“Cosa devo fare per farle capire che... ” Ma non poté finire la frase. Il mendicante si lasciò andare in ginocchio, alzò le braccia al cielo e si mise a gridare più forte che poteva...
“Voglio parlare con Papa Francescooo! Voglio parlare con Papa Francescoooo! ” Continuava a ripetere questa frase, e in meno di un minuto una folla di turisti si radunò intorno a lui. Il prete era smarrito, non sapeva che pesci pigliare. “La prego, smetta di urlare... ” “Voglio parlare con Papa Francescooo! Voglio parlare con Papa Francescoooo! ” Accorsero dei guardiani, ma quando cercarono di afferrare il matto la folla si mise nel mezzo per difenderlo. Successe un parapiglia, e il prete corse via balbettando... Avvertì il vescovo... che avvertì il cardinale... e alla fine la notizia arrivò alle orecchie del Papa... e il Papa finalmente arrivò. “Cosa devi dirmi, figliolo? ” disse, mentre una folla immensa osservava la scena. Il mendicante si alzò in piedi, e fece capire al Papa che voleva parlargli in un orecchio. Il Papa si piegò in avanti. Ascoltò. Dilatò gli occhi. Scosse il capo.
“Il diavolo... ” sussurrò.
Assisi
Un pomeriggio d’inverno, appena fece buio, due mendicanti incappucciati e vestiti di stracci apparvero come per incanto nella periferia della cittadina. Camminavano fianco a fianco, in silenzio. Non avevano bisogno di parlare. Erano in missione per conto di Dio. Entrarono nella basilica di San Francesco, e salutarono come un vecchio amico il giullare che portava la parola di Gesù nelle strade del mondo, che parlava alla Natura, che amava gli ultimi... Il santo poverello che aveva rinunciato alle proprie ricchezze per vivere in letizia. E il Santo si palesò, sussurrando con gioia: “Era da tanto tempo che aspettavo questo momento. ”
I due mendicanti tornarono sulla strada, e si avventurarono nel centro di quella bella cittadina che per merito del Santo poverello riusciva a vivere nel lusso. La gente si voltava a guardarli, alcuni con disprezzo, altri con pietà. Ma loro non se ne curavano. Erano in missione...
Si fermarono di fronte a un bellissimo albergo che aveva l’aria di un convento... Anzi, era proprio un convento a cinque stelle. I due si scambiarono un’occhiata d’intesa, poi entrarono con passo deciso nella hall.
“Siamo due poverelli diretti a Roma, avremmo bisogno di un pagliericcio per posare il capo... ”
Il portiere sbiancò, e la sua mano corse a qualche pulsante nascosto.
“Non possiamo pagare, ma pregheremo per voi. ”
Il portiere era sbalordito, non riusciva nemmeno a parlare.
“Non è forse questa la città di San Francesco? ” Apparvero tre giganti, brutti e cattivi come quelli delle fiabe, che “accompagnarono” i due pazzi fuori dalla porta... E fu a quel punto che uno dei due mendicanti si tolse il cappuccio. “Sono Papa Francesco... ”

il Fatto 23.9.13
Il diario immaginario dei vigili in bici di Marino
Ignazio, nun ce porta’ dar Papa in bici, te prego
di Silvia Dai Pra’


All'inizio mi piaceva pure: ogni mattina andare a pijà er sindaco con la bici e poi scortarlo giù, fino al Campidoglio, scivolando lungo via del Corso ancora vuota e salutando col campanello quelli dei cassonetti. Facevamo pure le deviazioni, se c'era bel tempo: “A Ignà, me lo fai vedere il Pantheon? O Piazza de Spagna? ”; “Me fai buttare 'n occhio sulla vetrina di Bulgari? ”, e lui che ci guardava strano, che mica lo sa che vuol dire svegliarti la mattina con la finestra che si affaccia sul Raccordo.
Certo, a volte Ignazio non si regolava, ci diceva: “e mo' annamo da Napolitano”, e ci toccava fare la salita del Quirinale, tra gli autobus, sotto il sole cocente, con la gente incattivita perché c'ha il fijo davanti a scola che l'aspetta. Però, poi, lui saliva dal presidente e noi restavamo lì, a guardare la città più bella del mondo liquefarsi sotto i nostri occhi, e ci mettevamo a gridare: Roma è nostra!, manco fossimo Er Dendy e Er Freddo. Anche se poi Sabrina, la mia collega, mi diceva: “A Cì, tira giù quelle braccia. Puzzi”, e la poesia finiva di colpo.
Poi, un giorno, il sindaco arriva e ci fa:
“Annamo da Papa Francesco”.
“In macchina, vero Igna? ”
“Macché. In bicicletta”.
Mi' madre non c'ha dormito la notte. Diceva che gli dovevo parlare, convincerlo, almeno, prima di arrivare da sua santità, a fermarsi in un bar e andare in toilette per rinfrescarsi: che dal Papa con le ascelle pezzate manco Ali Agca ha mai pensato di annarci.
Ma lui c'ha fatto vedere le foto di Francesco in metropolitana: e che figura ci faceva, lui, ad andarci in auto blu? Poi pareva un politico come tutti gli altri. Che poi, io mica gliel'ho detto: ma, la sera, quando torno a casa in macchina sulla Prenestina, tra la gente spiaccicata nei tram, con le facce peggio che al Circo Massimo quando se doveva spogliare la Ferilli, mica ce l'ho mai visto, Papa Francesco.
Poi un giorno Ignazio arriva e dice che si va all'Alessandrino: “Sindaco, ma lei l'ha mai vista la Casilina? ” gli chiedo io; “Partiremo a un'ora in cui non c'è troppo traffico” mi risponde lui. “A' Ignà” gli dico. “Sulla Casilina non esistono le ore senza traffico. É imprevedibile. La Casilina è femmina”, ma mi pento subito, che non si fanno battute così a un sindaco di sinistra, che poi va a finire che mi mandano a Boccea, a guardà Priebke.
Ci mettiamo un'ora. Quando arriviamo, mi butto per terra e comincio a respirare, coi polmoni a pezzi, uguale a quando lavoravo a Porta Maggiore, che il dottore dopo una radiografia mi aveva regalato “E' facile smettere di fumare se sai come farlo”, a me che non l'ho mai fumata, una sigaretta. Al ritorno, è pure peggio, perché è calato il buio, e la gente non lo vede chi siamo, e non si sporge più dai finestrini per farci le foto col telefonino, anzi, se si sporge è per gridarci “ma va' a morì ammazzato”, che per loro siamo solo quattro bici che bloccano la strada nell'ora di punta: all'altezza di Torpignattara, sul caschetto del sindaco arrivano pure un paio di monete, ma mica perché è lui, eh, a spregio, solo per il gusto di colpire il ciclista (ps e Papa Francesco manco oggi ci sta, sul trenino della Roma-Giardinetti).
Quando raggiungiamo il Campidoglio, io e Sabrina ci diamo un cinque, ci sentiamo un po' Messner, anzi, di più, che la Casilina avanti e indietro in bici, neanche lui l'ha mai fatta: solo Ignazio non è felice, e sta lì, a guardare i Fori, e il Colosseo, le luci dei lampioni e delle auto, immobile, con la faccia di chi l'ha appena capito, di che città è diventato sindaco. Allora vado lì e me l'abbraccio forte, che, oh, ve lo dico: è tanto un bravo ragazzo. Poi ci annusiamo e saliamo su a cambiarci le camicie, che sì, questa volta ce n'è proprio bisogno.
*Silvia Dai Pra’, vive a Roma dove è insegnante. Ha pubblicato tra l’altro “Quelli che però è lo stesso” (Laterza)

La Stampa 23.9.13
La guerra di successione che cambia il Pd
di Elisabetta Gualmini


Non è successo nulla di traumatico in casa Pd. Quello che viene dai più raccontato come l’ennesimo atto di una commedia da teatro dell’arte, con tanto rumore per nulla, è in realtà l’avvio di una fase nuova.
Il Congresso è iniziato, i candidati sono in campo e si sta consumando un passaggio del tutto fisiologico, per quanto disseminato di resistenze e insidie, tra vecchio e nuovo. Tra il precedente «patto di sindacato», ormai ridotto a minoranza intenta a resistere, disperatamente, con commi, cambiamenti delle regole in corsa, gabole regolamentari, e gli aspiranti leader che riempiono i tendoni delle feste. Chi suona le campane a morto forse non ha capito (o fa finta di non capire) che il Pd è vivo e vegeto. Nei grandi partiti le battaglie tra le oligarchie decadenti, quelle per dirla con Nietzsche non sufficientemente sagge da uscire di scena al tempo giusto, e chi vuole sostituirle, sono strazianti e sanguinose. Mai una passeggiata. Figurarsi se c’è da farsi impressionare per i modi ordinariamente confusi con cui è stata gestita l’Assemblea del Pd.
Qualcuno potrà pensare che hanno avuto la meglio Rosy Bindi ed Enrico Morando, intervenuti con veemenza per dire che lo statuto non è materia per scambi di basso profilo e convenienze di breve termine. La prima citando De Gasperi (sono democristiano perché la Dc serve al paese), per spiegare che la coincidenza tra segretario e candidato premier identifica la missione di un partito nato per governare l’Italia. Altri, i quarantenni del partito, addirittura sospettano una trappola Bersani Letta per bloccare tutto. Ma sta di fatto che l’esito dell’assemblea è chiaro: lo statuto è rimasto com’era e la data delle primarie è l’8 dicembre. E anche per i più navigati inventori di trabocchetti sarà ora complicato cambiare il corso delle cose.
Anche perché, nel frattempo, Cuperlo, Renzi, Civati, si sono presi la scena. Con tre visioni diverse. Tre modi di concepire la sinistra e le sue parole d’ordine, alternativi, ma tutti e tre plausibili.
Cuperlo è perfetto, come sempre. Spietato nel cercare le parole esatte, colte, mai scontate. La sua è una sinistra antropologica, più che ideologica, che vorrebbe contrapporre una «visione alternativa della persona e della democrazia» a quella del nemico di sempre: la destra neo-liberista che con la sua agenda avrebbe portato alle nefandezze della globalizzazione e a crescenti disuguaglianze. Così, almeno, tocca corde profonde dei delegati, cercando il cuore della contrapposizione tra «noi» e «loro», quando dice che non c’è cambiamento vero senza il coraggio e la profezia della sinistra.
Renzi è più scomposto, ma decisamente più dinamico. Parla con la chiarezza sfrontata di sempre. Ricordando che la crisi dell’economia e della politica non sono solo colpa di modelli astratti proposti dalla destra, che la virtù della politica si misura con le soluzioni date ai problemi, con la capacità di innovare e creare qualità sociale, benessere, si lascia rapidamente alle spalle ogni logica amico-nemico, qualsiasi ideologia manichea. Parla di una sinistra che non ha paura di rompere tabù, di considerare parte del proprio vocabolario parole come merito e opportunità, visti come motori dell’uguaglianza.
Civati poi può dire quello che gli altri possono solo pensare. Ad esempio riguardo alle contraddizioni su cui si regge il governo delle large intese. Chiede il ritorno alle urne, perché non è accettabile l’alibi della mancanza di alternative, riportando il pensiero più profondo di una base che lui, globetrotter delle feste democratiche, instancabilmente frequenta. La sua è la sinistra movimentista e radical che sogna il partito unico con Nichi e costruisce ponti verso gli infatuati di Grillo. Immagina un partito «razionale e comprensibile», che metta al centro la partecipazione deliberativa dei simpatizzanti e degli iscritti, con tutti i mezzi disponibili; soprattutto dei giovani persi per strada che «guardano con gli occhi da fuori» le logiche di palazzo.
Tre aspiranti leader, tutti e tre cool, nel loro genere. Che hanno cominciato a confrontarsi sul serio, con proposte diverse, senza (così almeno pare) finti unanimismi e vischiosi accordi sottobanco. A cos’altro serve un congresso di partito? Tanto più se ha la forma innovativa, sui generis, aperta e giustamente focalizzata sugli «interpreti», oltre che sulla «linea», che hanno voluto i fondatori?

il Fatto 24.9.13
La capriola
Epifani mette le lancette indietro di 24 ore
di Wanda Marra


L’ennesimo giorno dopo del Pd è all’insegna di toni tenuti apparentemente più bassi. Dopo il momento delle accuse, arriva quello delle mani alzate, delle dichiarazioni di innocenza. L’Assemblea che doveva decidere il regolamento del congresso è fallita senza riuscirci; il cambio di Statuto a cui si era lavorato non è stato fatto (e dunque il segretario resta candidato premier), la data dell’8 dicembre è stata rimessa in discussione un minuto dopo l’annuncio di Epifani che la ribadiva dal palco. Dita puntate soprattutto su Letta (che avrebbe fatto saltare l’accordo per rimandare il congresso ed evitarsi un Renzi segretario), Bersani (che non vuole cedere il potere che ancora ha nel partito). Ma anche su Epifani, reo di non aver garantito la buona riuscita dell’incontro.
COSÌ ieri premier e segretario corrono ai ripari. Si sentono in mattinata. Prima, da Palazzo Chigi fanno filtrare un’indicazione: Letta ha ribadito ad Epifani la volontà di restare fuori dal dibattito congressuale. Non solo: smentisce i retroscena vari in cui si sarebbe lasciato andare a commenti. Evidentemente, il presidente del Consiglio ha mal sopportato di essere passato - soprattutto attraverso le mosse del suo uomo in segreteria, Dal Moro - come quello che ha voluto affossare l’accordo. Ma c’è anche un altro punto, che si chiarisce a sera. Stavolta attraverso le dichiarazioni di Epifani. Primo: “La data delle primarie non cambierà”. Si racconta che il segretario abbia preso parecchio male il fatto di essere stato sconfessato dopo essersi esposto a confermare l’8 dicembre. Ma soprattutto: “Credo che si troverà il modo perché si rispetti anche quello che volevamo affermare, cambiando lo Statuto: e cioè che il segretario non sarà automaticamente anche il leader della coalizione”. A bocce ferme, se Renzi vince il congresso, Letta non può candidarsi alla premiership. Ma come lo Statuto non può cambiarlo solo l’Assemblea? Il colloquio tra capo del Governo e segretario democratico si è incentrato soprattutto su questo. E Epifani illustra la soluzione: “I candidati sottoscrivano il documento in cui si dice che non ci dev’essere automatismo tra le due figure. Così finisce il tormentone regole”. Davvero così facile? Per stasera, intanto, è stata riconvocata la Commissione regole. Quella che deve trovare una quadra da qui a venerdì. Sarà una settimana di attivismo furibondo delle correnti. Con i renziani, Cuperlo, Giovani Turchi, dalemiani, bindiani, veltroniani, civatiani pronti a difendere la data dell’8 dicembre a spada tratta. Basteranno?

La Stampa 23.9.13
E la squadra di Letta avvisa: la premiership non è già decisa
Epifani conferma la data. I fedelissimi del premier pronti a dare battaglia a Renzi
di Antonio Pitoni


Il giorno dopo, Matteo Renzi, che il 5 ottobre terrà a Bari la convention (stamane sarà a Omnibus La7) per il lancio della sua campagna congressuale, sceglie la via del silenzio. «L’8 dicembre bisogna votare, basta con le figuracce», dice però ai fedelissimi. E alla fine, sulle scadenze, pure il segretario Guglielmo Epifani, dal palco della festa di Modena, non ha potuto far altro che concordare: «La data delle primarie non cambierà». Parole che, come prevedibile, hanno riportato allo stadio di massimo allarme l’ala lettiana del Pd.
«Bene, proviamo a farle l’8 dicembre. È ovvio poi che in caso di voto nessuno negherebbe a Letta la stessa possibilità concessa a suo tempo a Renzi di correre alle primarie per la premiership», avverte Marco Meloni. Che nella fretta del sindaco di Firenze vede, però, anche dell’altro. «E’ evidente che questa attenzione spasmodica alla data sia legata ad un disegno per andare da soli e subito alle elezioni», fa notare il deputato vicino al presidente del Consiglio, evocando il rischio di una sorta di «replay» del 2008 con Veltroni. «Per questo, se fossi in Renzi, chiederei di far slittare le primarie e di tenerle più avanti. Diversamente, dare la sensazione di voler provare a provocare le elezioni adesso, sarebbe il miglior regalo a Berlusconi che riesco a immaginare». Timori, insomma, che neanche le rassicurazioni di Epifani sono bastate a stemperare. «In direzione – ha assicurato il segretario del Pd – si chiuderanno tutte le questioni, abbiamo approvato la data, abbiamo approvato nei fatti il regolamento». Sebbene senza riuscire a cambiare lo statuto, «non per via del numero legale» ma per «la maggioranza qualificata» richiesta per le modifiche, il leader dei democratici resta fiducioso: «Credo che si troverà il modo perché si rispetti anche quello che volevamo affermare cambiando lo statuto: e cioè che il segretario che andremo ad eleggere non sarà automaticamente anche il leader della coalizione». Magari sottoscrivendo un impegno in tal senso. Rassicurazione a Enrico Letta che, in caso di ascesa, l’8 dicembre, del sindaco di Firenze al doppio soglio di segretario e candidato premier, vedrebbe altrimenti indebolito tanto il suo esecutivo quanto il suo stesso ruolo. Insomma, lascia presagire Guglielmo Epifani, dovesse cadere il governo, come accaduto per Renzi, anche a Letta dovrà essere data la possibilità di correre per la premiership.
Aspetto sostanziale tutt’altro che irrilevante che, tuttavia, non ha trovato riconoscimento formale con la fumata nera di sabato sulla quale hanno pesato, oltre all’assenza di qualcosa come 500 delegati, le solite tensioni tra correnti che hanno fatto, alla fine, saltare il banco dell’Assemblea nazionale del Pd. Con le regole derubricate a semplici «raccomandazioni». Che se non altro hanno fissato le tappe del cronoprogramma: direzione nazionale (che sarà spostata da venerdì a lunedì per la concomitanza del consiglio dei ministri), candidature l’11 ottobre per chiudere il cerchio, l’8 dicembre, con le primarie. Ma senza accordo sulla modifica dell’articolo 3 dello Statuto, quello che dispone la coincidenza tra i ruoli di segretario e candidato premier. Stasera la commissione congresso del Pd tornerà a riunirsi. In agenda il regolamento da proporre alla direzione per conciliare le primarie dell’8 dicembre con l’attuale statuto. «Caos? Non direi, ci sono dei punti fermi: una data certa e uno statuto vigente, ci sono quindi tutte le condizioni per fare il congresso – fa notare il renziano Guerini, componente della commissione –. Pensare di tergiversare e continuare in questo balletto penoso o, peggio, impedire lo svolgimento del congresso vuol dire voler ammazzare il Pd».

Corriere 23.9.13
Fassina rilancia su Letta. Il leader: il tormentone regole ci umilia
Assise Pd, il premier si chiama fuori Epifani assicura: la data è l’8 dicembre
di Alessandro Trocino


ROMA — Il giorno dopo la travagliata Assemblea, finita con un mezzo fallimento, il Pd prova a ripartire, mettendo insieme i cocci. Il clima rimane teso. Le correnti si riposizionano e la commissione per le regole ci riprova, tornando a riunirsi oggi per preparare la Direzione di venerdì. Per mettere qualche punto fermo, interviene anche il segretario, Guglielmo Epifani, che riconferma la data del congresso, visti i tentennamenti e i tentativi di qualcuno di non considerarla valida: 8 dicembre. E anticipa un intervento che non farà piacere ai renziani: «Elimineremo l’automatismo tra segretario e candidato a premier». La giornata comincia però con una telefonata di Enrico Letta a Epifani. Una chiamata per confermare l’intenzione del premier, già annunciata, di restare fuori dai giochi congressuali e per smentire la sua intenzione di scendere in campo, direttamente o indirettamente con un altro candidato.
I renziani, e non solo loro, sospettano che si voglia rinviare la data del congresso. E da questo punto di vista l’intervento di Epifani è rassicurante: «La data non cambierà e in direzione si chiuderanno tutte le questioni». Compresa quella dell’automatismo, a Statuto invariato: sostanzialmente si dovrebbe fare un’altra deroga, come quella che ha già consentito a Matteo Renzi di sfidare Pier Luigi Bersani. La bindiana Margherita Miotto non è contraria: «Lo Statuto non può essere toccato dalla direzione. La norma transitoria è la soluzione che si poteva adottare già all’Assemblea, risparmiandoci tutto quello che è successo. L’importante è non toccare l’articolo 3, che fa eleggere il segretario con le primarie e fa del Pd un partito a vocazione maggioritaria».
Almeno sulla data il sindaco di Firenze, che oggi sarà ancora a Omnibus su La7, può contare su un buon alleato, lo sfidante Gianni Cuperlo (sostenuto da dalemiani e giovani turchi). C’è chi, come il presidente della Toscana Enrico Rossi, li vorrebbe in ticket: «Cuperlo segretario del partito e Renzi premier».
Ma il clima non è così idilliaco. Lo dimostra l’affondo di ieri di Stefano Fassina. Che in un’intervista a Maria Latella a Sky Tg24 ha lanciato un paio di frecciate al sindaco di Firenze: «Ci ha detto che abbiamo perso il voto degli operai. Ma non era lui che stava con Marchionne senza se e senza ma e che faceva le cene per la raccolta fondi con i finanzieri? Ora si è spostato più a sinistra, ma solo perché è di moda». Fassina, alla domanda su un ipotetico Letta-bis, dice: «Se cadesse il governo ne servirebbe uno nuovo per fare la legge di Stabilità e la legge elettorale». E Letta «farebbe bene a candidarsi alle primarie per il prossimo candidato premier».
Renzi, intanto, prepara il tour: prima tappa, Bari. Dove lo attende il battagliero sindaco Michele Emiliano, da tempo su posizioni decisamente poco ortodosse. Ieri per esempio ha attaccato Epifani: «Ha messo su l’assemblea Pd per cambiare le regole del congresso, poi ne ha perso il controllo perché i delegati non vogliono cambiarle. Si dimetta». Emiliano vorrebbe Renzi premier e Giuseppe Civati vice. Ma, prima di pensare al futuro, c’è da rimarginare le ferite. Anche Epifani è rimasto colpito: «Non siamo affatto nel caos, ma dobbiamo finirla di dare al Paese uno spettacolo che non ci onora: questo tormentone delle regole ci umilia». Nicola Latorre vorrebbe qualcosa di più: «Per l’assemblea dovremmo chiedere scusa a tutti i militanti». E Pina Picierno: «Serve uno scatto di dignità».


l’Unità 23.9.13
Il Pd non faccia sponda al Cav contro Letta
di Emanuele Macaluso


Tra il 1989 e il 1993, si consumò la crisi del sistema politico italiano, una crisi dovuta al fatto che i grandi partiti non capirono che con l’implosione dell’Urss e del «socialismo reale», finiva la guerra fredda.
Nello stesso tempo, in Italia, si chiudeva la lunga fase aperta dopo il 1945. La crisi del 1992-94 fu quindi una crisi politica dovuta all'incapacità dei gruppi dirigenti dei partiti di allora. Con tangentopoli emerse una delle ragioni della crisi, la corruzione. Il protagonismo supplente dei magistrati si manifestò nel vuoto della politica. E Berlusconi usò quel voto, la campagna contro i partiti e l’opera dei magistrati per fare quel che sappiamo. Ho fatto questa lunga premessa per dire a tutti coloro che a destra e a sinistra conducono forsennate campagne contro i partiti, per ricordare un fatto incontrovertibile: l’Italia è nei guai più di ogni altra nazione, perché dopo vent’anni, non si sono ricostruiti nuovi partiti e classi dirigenti adeguati ai tempi.
Ieri, come oggi, in questi venti anni i governi sono stati condizionati, a destra, da un partito non partito, proprietà personale di Berlusconi, e a sinistra da partiti senza identità e senza spina dorsale, guidati da gruppi dirigenti che hanno usato quelle formazioni per guerriglie personali e ambizioni governative. La crisi che è riesplosa nel 2011 come crisi di sistema, si manifestò essenzialmente, ancora una volta, come crisi delle forze politiche. L’iniziativa del presidente della Repubblica che evitò il baratro con il governo Monti, non è stato sufficiente a rimettere in sesto il sistema politico. Ancora una volta il deficit politico dei partiti, emerse clamorosamente dopo le recenti elezioni politiche: incapaci di dare al Paese un governo e paralizzati nel momento in cui dovevano eleggere il presidente della Repubblica, si rischiò, ancora una volta, il baratro economico, sociale e politico. E, ancora una volta lo ricordo a chi rivolge miserabili attacchi al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha servito il Paese, restando al Quirinale, dove non doveva e non voleva più restare, lavorando per dare vita al solo governo possibile, come stato di necessità. L’alternativa era il caos nel momento in cui in Europa si manifestavano deboli ma significativi segni di ripresa economica. In questo quadro, il governo Letta è caratterizzato da una contraddizione oggettiva: i partiti che lo compongono non solo sono stati avversari, ma la loro prospettiva è una contrapposizione elettorale. Tuttavia ecco il punto come e quando arrivare a questo appuntamento?
La condanna definitiva e la prevista interdizione dalla vita pubblica di Berlusconi ha accresciuto la contraddizione cui accennavo. La reazione scomposta e aggressiva, soprattutto nei confronti della magistratura, di Berlusconi ha reso ancora più pesante la contraddizione. Anche perché ancora una volta emerge il fatto che il Pdl, ora Forza Italia, non è un partito ma un aggregato senza autonomia e vita politica che non sia quella di riferimento alle vicende personali politiche e giudiziarie di Berlusconi. Il quale come ultima posizione, per darsi una «politica» ha scelto una guerriglia al governo fondata su una campagna demagogica contro le tasse decise dal suo governo come l'aumento dell’Iva. Ma quel che stupisce e rende cupo il clima politico è lo spettacolo offerto dal Pd, proprio nel momento in cui il Cavaliere, incurante degli interessi del Paese, cerca di mettere alle corde il governo, ma soprattutto il suo presidente, esponente del partito, Enrico Letta.
Un partito, se è tale, nel momento in cui c’è un confronto duro, si presentano documento alternativi, si vota e tutti si impegnano a sostenere la tesi vincente. Nel Pd invece tutto è marmellata, tutto è riconducibile a questioni di collocazione attuale e future di persone: l’interesse generale scompare. E scompare anche l’interesse complessivo di un partito se è un partito. Il fatto che un pezzo del Pd giuoca la carta della crisi di governo (come Berlusconi) per affrettare la candidatura del sindaco di Firenze è avvilente. E l’altra parte giuoca su regole, regolette, rinvii, numeri legali per non affrontare a viso aperto un confronto democratico. Insomma, ancora una volta la crisi e l’impotenza dei partiti penalizza l'Italia. Non sarebbe questa l’occasione per un dibattito verità, per dare ai partiti soprattutto a sinistra una scossa e fare congressi veri con mozioni alternative e votazioni aperte anche per dare legittimità ai gruppi dirigenti?

Corriere 23.9.13
La trincea di Renzi (e di Cuperlo): non possono rinviare sarebbe una figuraccia
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il giorno dopo l’Assemblea, la «figuraccia» fa male un pò a tutti. Ma proprio a tutti. I due grandi rottamati erano assenti, però non sono stati affatto felici di quello che é accaduto. «È stato veramente da c...andare all’Assemblea senza aver trovato prima una soluzione», ironizza con un amico un Massimo D’Alema più sarcastico che mai. «Che spettacolo triste», confida Walter Veltroni.
Anche Matteo Renzi ci rimugina su. È stupito per la dinamica dei fatti. E lo spiega agli amici di Firenze senza girarci troppo intorno: «Letta ha detto che non si sarebbe interessato di quella riunione, ma poi i suoi hanno brigato per due giorni ed é finita in quel modo imbarazzante».
Ma domani è già un altro giorno per il Pd. E c’è già una nuova riunione alle porte. Per il 27 é convocata la Direzione del partito, cui tocca il delicato compito di sbrogliare l’intricata matassa di regole e cavilli ereditata dall’Assemblea. È un appuntamento che il sindaco non sembra temere: «Se non vogliono fare un’altra brutta figura non torneranno indietro sulla data del Congresso», assicura Renzi ai suoi.
Il sindaco, ma non solo lui, non crede che in Direzione, dove oltre che i renziani anche i cuperliani, i veltroniani e i bindiani sono per il rispetto delle regole e della data delle assise, bersaniani e lettiani cerchino di forzare più di tanto. Peraltro, se vi sarà qualche tentativo in questo senso, é già pronta la richiesta di dimissioni dei responsabili. «Se Zoggia non é in grado di organizzare il Congresso in tempi certi si dimetta», dicono i veltroniani. Matteo Orfini non é da meno e rincara la dose: «Epifani e Zoggia dovrebbero già dimettersi per come hanno gestito l’Assemblea nazionale».
Insomma, dice il dalemian-cuperliano Roberto Gualtieri, «basta discussioni e andiamo avanti con il nuovo partito». Non c’è tempo per fermarsi un’altra volta: «Il vecchio gruppo dirigente deve uscire di scena», avverte Paolo Gentiloni. E ogni riferimento all’ex segretario Pier Luigi Bersani (che al contrario dei suoi predecessori, è rimasto al partito anche dopo le dimissioni e si é fatto assegnare un ufficio tutto per lui) è assolutamente voluto.
Dunque Renzi tira dritto per la sua strada. E porta avanti, nel contempo, il suo progetto di nuovo partito e quello del governo che verrà e che lui vorrebbe guidare. Già, il sindaco si muove su entrambi i piani. Perché é vero che non crede a una crisi imminente: «Berlusconi non farà mai questo piacere al Pd: i sondaggi li vede pure lui». Ma é anche vero che in tempi come questi nessuno può escludere niente in via definitiva. Meglio tenersi pronti, non si sa mai. Del resto, i renziani, che non vogliono spingere sull’acceleratore delle elezioni, si rendono conto che potrebbe capitar loro all’improvviso il compito di governare e che farsi trovare spiazzati sarebbe assurdo: «Prepariamoci a governare senza avere la necessità di mediare con il Pdl e non indugiamo in dietrologie e regole che hanno ammorbato i nostri elettori», ammonisce Angelo Rughetti.
Così Renzi va avanti, mosso da sue convinzioni. La prima la condivide con quasi tutto il partito e quando conversa con i suoi collaboratori la riassume così: «Se il Pd si logora a causa delle larghe intese si indebolisce tutta la politica». La seconda convinzione la condivide soprattutto con l’elettorato del centrosinistra, un po’ meno con il gruppo dirigente del suo partito che fa più fatica ad ammettere pubblicamente certe cose: «Finora gli unici che hanno portato a casa dei risultati dal governo delle larghe intese sono quelli del Pdl e non si può più andar avanti così: ora tocca a noi».
Quindi, da una parte, Renzi si prepara a fare il segretario e immagina il partito che verrà, fatto «da giovani, amministratori, gente che studia i problemi, che si impegna e si assume le proprie responsabilità, pagando di persona». Dall’altra, sogna palazzo Chigi, convinto che, quando sarà, bisognerà affrontare la questione del governo con tutt’altro nerbo: «La prossima volta il gioco lo condurremo noi».

Repubblica 23.9.13
Pd, intesa tra candidati: separare segretario e premier
Epifani: mai più umiliazioni come quella di sabato. Ma la direzione slitta a lunedì 30
di Giovanna Casadio


ROMA — «Non sono amareggiato. Risolveremo tutto, vedrete... ». Epifani mostra ottimismo. Ma è costretto ad ammettere che quanto è accaduto nell’Assemblea democratica di sabato è «umiliante». «Il Pd non è nel caos ma dobbiamo finirla di dare al paese uno spettacolo che non ci onora: questo tormentone ci umilia». Garantisce inoltre, il segretario democratico, in un comizio alla festa del partito a Modena, che la data delle primarie sarà quella indicata, e cioè l’8 di dicembre. E di slittamenti, nonostante le lungaggini delle regole che per l’appunto non si è riusciti a cambiare, non ce ne saranno. Quindi, stop ai sospetti dei renziani — ma anche dei “giovani turchi”, supporter dello sfidante Gianni Cuperlo — su Bersani.
Tuttavia il percorso sarà deciso dalla direzione. Era convocata per venerdì prossimo, ma slitterà. Marina Sereni, alla quale spetta il compito della convocazione, dice che probabilmente la direzione si terrà lunedì 30. E non sarà una passeggiata. «Siamo al cortocircuito e dobbiamo venirne a capo», ragiona Roberto Morassut che nel “comitatone” per le regole del congresso aveva proposto diverse mediazioni sulla questione che ha provocato il flop dell’Assemblea, la separazione cioè tra segretario e candidato premier. Voluta dai bersaniani e dalla sinistra del Pd, dopo che l’accordo sembrava essere stato trovato, è stata bocciata. Ha rappresentato il casus belli. Renzi si è sempre detto contrario. Bindi è scesa in trincea. Ora i renziani chiariscono il punto: «In direzione ciascuno si prenderà le sue responsabilità», fissa i paletti il renziano Guerini. Del resto lo Statuto e quindi le regole del partito si possono cambiare solo inAssemblea. Se leadership (del partito) e premiership coincidono, come è sempre stato, così sarà. Spetta sempre a Epifani cercare di evitare lo scontro e la rigidità delle posizioni.
Il segretario pertanto lancia un appello: i candidati segretari — ad oggi Renzi, Cuperlo, Civati e Pittella — non si arrocchino ma aprano. Quando sarà il momento delle primarie per Palazzo Chigi, abbiano la generosità di cancellare di fatto l’automatismo secondo il quale, e a norma di Statuto, solo il futuro segretario del Pd può candidarsi. Se Enrico Letta, l’attuale premier, vorrà correre, non sia certo escluso. Insomma, le modifiche bloccate dal caos dell’Assemblea possono rientrare in gioco «se i candidati alla segretaria — spiega Epifani — sottoscrivessero e si impegnassero a non essere candidati automaticamente alla premiership» una volta eletti alla guida del partito. L’incertezza è però tanta, e le tensioni crescono.
Letta, chiamato in causa e anche lui accusato di volere intralciare Renzi e perciò di puntare sullo slittamento del congresso, prima di partire per il Canada telefona a Epifani: «Resto fuori dal congresso», fa poi sapere. Lo scontro tra le correnti democratiche e la sorte del governo non siano intrecciati. Però è molto difficile a questo punto che i lettiani nella sfida per la segreteria appoggino il sindaco “rottamatore”. Paola De Micheli lo dice chiaramente: dopo tutte le bordate di Matteo a Enrico, sarà difficile. Stasera si riunisce di nuovo il “comitatone” per le regole per cercare di salvare il salvabile di un lavoro iniziato a giugno e naufragato. Giovedì inoltre i bersaniani lanciano la loro iniziativa pubblica a sostegno di Cuperlo.

Repubblica 23.9.13
Una certa idea di partito
di Massimo L. Salvadori


Il modo in cui si è chiusa la recente Assemblea del Pd – è stato ampiamente notato da molti con piena ragione – lascia tutti coloro che ritengono che principalmente sulle spalle di questo partito poggi la responsabilità di dare al Paese la speranza di una strategia e di un governo all’altezza dei gravi e difficili problemi che incombono sul suo avvenire stupefatti e francamente molto amareggiati. Sembra che le varie tendenze presenti nel Pd e i leader che ne sono a capo non si rendano conto che offrire all’opinione pubblica la prova di non essere in grado di dotarsi di un gruppo dirigente adeguato significa al tempo stesso dare la prova di non avere la capacità di dirigere il Paese. Un messaggio devastante. Se poi ne fossero consapevoli – e credo che lo siano – , allora la questione sarebbe davvero di massimo allarme, perché testimonianza di una impotenza che corrode le fibre più profonde.
L’Assemblea era chiamata in primo luogo ad avviare un processo di credibile ristrutturazione del partito, ma non ha avviato pressoché niente. I giornali hanno parlato non a caso di caos. Tutti nel Pd insistono che i candidati alla segreteria presentino una loro chiara idea di partito: in effetti è di questo che in primo luogo si tratta e su ciò si sfidano i Renzi e i Cuperlo, sostenuti dai loro supporters. Ma occorre sottolineare che al centro dell’intero dibattito vi è la sfida lanciata dal sindaco di Firenze. Ed è su questa che intendo soffermarmi, anche per i pesanti rilievi che gli vengono rivolti in modo segnatamente aspro da Bersani e dai suoi. L’atteggiamento di Bersani nei confronti di Renzi è improntato alla decisa diffidenza verso un personaggio accusato di essere pronto a demolire ma incapace di costruire e sul quale non si esita a far gravare il sospetto di mirare con uno stile neoberlusconiano a trasformare il Pd in un partito al servizio della sua persona. A Bersani fanno eco Cuperlo e D’Alema, l’uno affermando che non vi è bisogno di un profeta e l’altro che il sindaco di Firenze non è consapevole delle responsabilità che comporta il ruolo di segretario di un grande partito. Per contro la critica assai pesante di Renzi a Bersani e ai suoi concorrenti è di non saper perseguire cambiamento e innovazione e di formare una congrega di conservatori. È una competizione davvero aspra e pericolosa quella in corso nel Pd.
Scuote il Pd il fatto che il sindaco stia ottenendo ampi consensi nelle tradizionali “roccheforti rosse”. Egli ripete di voler: offrire al Pd una leadership nuova, forte; smantellare i gruppi di potere che sbarrano la strada alle energie che chiedono di emergere; porre fine alle correnti che ne paralizzano la vitalità; rilanciare la speranza nella vittoria; dare al Paese un governo che lo riporti nelle prime file dell’Unione Europea. Gli scopi che Renzi propone al “suo Pd” sono molto ambiziosi. Ricordano quelli di Veltroni nel 2007; e non è un caso che questi ne sia diventato un sostenitore. Ora Renzi prospetta la possibilità di una vigorosa ripresa, a condizione di archiviare lo stato presente delle cose e mostra di aver compreso quanto profonda sia la crisi che ha investito le vecchie forme di partito; e sostiene che per avere un partito all’altezza dei compiti del presente e del futuro bisogna liberarsi dal lascito irrimediabilmente logorato di ciò che era il Pci con le sue sezioni, i suoi apparati burocratici, ecc. ecc. Ha buone ragioni. D’altra parte i “partiti liquidi” privi di spina dorsale, che fanno appello al fascino supposto o reale dei nomi gridati dei loro leader – per non parlare di quelli tout court padronali che si propongono periodicamente di salvare l’Italia mentre l’affondano oppure di fare terra bruciata in attesa di una rinascita garantita da oscure miracolistiche ricette – altro non sono se non seminatori di miseria politica. Quando sostiene che si impone un partito rinnovato alle radici, Renzi piace a un numero sempre maggiore di persone del Pd o che guardano ad esso. Non sembrano però sufficienti le indicazioni su quali siano le fondamenta che intende gettare. Egli ama in particolare richiamarsi alla rete dei sindaci come ad un mattone importante. È uno spunto interessante. Ma chi insiste sulla necessità di creare «un nuovo partito» deve tracciarne le linee e il programma in maniera articolata e organica e non lasciare dubbi sul posto del Pd nelle famiglie del Parlamento europeo. Viviamo in una società in cui domina il problema delle diseguaglianze, economiche e non solo. Con quale proposte ritiene di affrontarlo il partito che ha in mente Renzi? Nodo importante, dal momento che non mancano coloro che in campo sociale lo dipingono come un conservatore camuffato. Gli si rimprovera un eccesso di leaderismo, di sbrigarsela con facili battute polemiche, insomma di non avere nella sostanza un’idea né di partito né di sinistra. Renzi sue risposte in vari documenti e anche nell’ultimo intervento all’Assemblea in vero ha già dato, ma crediamo debba fare di più. Non sarebbe male se dai leader più autorevoli dei “partiti forti” tramontati egli – e con lui gli altri candidati alla segreteria – riprendesse la buona pratica di presentarsi agli italiani con un discorso tanto essenziale quanto limpido, che illustri e colleghi gli elementi costitutivi del suo programma offrendo ai sostenitori, agli avversari e all’intero Paese un ben leggibile metro di giudizio, su cui riflettere in vista delle scelte di ciascuno.

Repubblica 23.9.13
Milano vi manda il suo cuore, compagni
di Mario Pirani


Il Congresso del Pd si avvicina ma la data, annunciata come sicura (l’8 dicembre), ricade presto anch’essa tra i numeri incerti ed anche le scadenze della posta in gioco (prima le primarie locali o quelle nazionali?) rientrano fra le variabili. Le risposte si alternano secondo i calcoli, più o meno favorevoli all’uno o all’altro dei componenti del quartetto che si contende il piazzamento. Sull’“Unità” si succedono anziani dirigenti e “giovani turchi” che, pur ripetendo cose già dette, non mascherano un ricorrente senso di angoscia. Certi dati sono tristissimi come quelli del tesseramento che già sconta 500 mila adesioni in meno nei confronti dell’anno scorso. Alfredo Reichlin parla di «vecchi dirigenti in fuga» ma non fa nomi e ci lascia con delle inevase curiosità, facendoci immaginare che forse lui qualche via d’uscita la troverebbe, perché «piaccia o non piaccia è solo a noi che la gente può chiedere una guida, uno sguardo sul futuro, una risposta ai suoi problemi di vita e al suo enorme bisogno di giustizia….. E’per tutte queste ragioni – si interroga – che io mi chiedo se ci rendiamo conto del danno enorme che fanno le nostre beghe interne ». Chi potrebbe dargli torto, eppure ogni ricetta appare astrusa sol che sfiori il buon senso. Perché, ad esempio, tanto accanirsi sulle date come se una decisione presa il dì dell’Immacolata Concezione (8 dicembre) potrebbe portar fortuna a Renzi o svelare nuove virtù in Cuperlo? C’è chi si richiama al vecchio partito di quadri e militanti e chi invoca il “partito liquido” cui dissetarsi.
Eppure, a chi di queste cose scrive da decenni trema la penna per tema che prevalgano nostalgie patetiche. La distanza è enorme ma chi ha scavato l’immane fossato che separa l’oggi da ieri? Sfoglio un quaderno di appunti del V Congresso (29 dicembre 1945), il primo Congresso dopo la Liberazione. Ritrovo una poesia di Alfonso Gatto, pubblicata il giorno seguente dall’“Unità”, letta ai congressisti commossi: «Milano vi manda il suo cuore,/ il vento delle pianure,/ le sue nevi/ bianche di tanti morti, di tante case,/ il lungo inverno in cui attese/ l’ora e l’urlo della riscossa.// Vi manda la sua bandiera rossa,/ il cielo d’aprile/ le fabbriche difese ad una ad una/ la gioia che l’invase/d’esser viva e libera nel mondo.// Milano vi manda il suo cuore,/ compagni.// E batte sull’Europa, questo cuore,/ batte sull’Italia: svegli i morti,/ sveglia i vivi nel cielo d’aprile».
Un altro momento di emozione lirica ci venne offerto da Salvatore Quasimodo, non ancora premio Nobel per la letteratura ma già conosciuto per le sue poesie ermetiche. Chiesta la parola, il poeta si avvicinò alla presidenza accompagnato da un vecchio allampanato, magro, con una capigliatura bianca, folta, che gli ricadeva su un lato della fronte, avvolto in un lungo cappotto. Pareva una scultura di Giacometti. Afferrato il microfono, Quasimodo pronunciò fra gli applausi pochissime parole: «Compagni il nostro partito accoglie oggi nelle sue file Bruno Barilli, un grande letterato abbandonato dalla borghesia sui gradini di piazza di Spagna». Venne giù una tempesta di applausi, anche se solo una piccolissima percentuale dei presenti sapeva chi fosse Barilli, cultore della prosa d’arte, critico musicale, nonché fondatore nel ’19 della “Ronda”.
Mi viene da aggiungere qualche parola, non in linea con quanto ho detto poc’anzi: ma è proprio vero che la distanza tra ieri e oggi si è fatta enorme quasi per una avvenuta smemoratezza storica? O ci si è adagiati in ciò che non faceva più comodo rammentare e con cui fare i conti? Era così arduo mantenere un legame con gli intellettuali? Non ci son più fabbriche da difendere? O perché non rifarsi all’esempio dei metalmeccanici tedeschi che hanno accettato di ridursi lo stipendio pur di contrattare la permanenza in Germania delle loro aziende? E così tradurre il riformismo social democratico in uno strumento valido di lotta sindacale? Qui sta la distanza, tra passato e presente, non in un abisso della mente.

Corriere 23.9.13
Beppe Fioroni
«Manca la moderazione, serve un altro nome»
intervista di Daria Gorodisky


ROMA — È dalla fine dell’Assemblea nazionale del Pd, sabato scorso, che Giuseppe Fioroni continua a dirlo: «Non è stata una bella giornata. Abbiamo perso tutti: trasmettendo un’immagine di scarso amore per il partito a causa dei troppi personalismi; e nascondendo, dietro al dibattito sulle regole, uno scontro politico che andrebbe affrontato alla luce del sole».
Lo scontro su chi dovrà avere potere nel partito è piuttosto evidente.
«Non è possibile che il Pd decida, come ha fatto, che alle primarie per la premiership il nostro attuale presidente del Consiglio sia sin da ora escluso. Perché questo è un regalo enorme alla destra e a Berlusconi: il Pdl lavora tutti i giorni per staccare la spina al governo, e noi dimostriamo di non avere fiducia in Enrico Letta? Quando si dà l’idea che un premier è a scadenza, di fatto diventa scaduto…».
S i riferisce al fatto che, non essendo stato modificato lo statuto del partito per mancanza di accordo fra correnti, il futuro segretario sarà automaticamente il vostro prossimo candidato a Palazzo Chigi?
«Sì, e questo è un nodo politico, non formale. È un danno grave non soltanto per il partito, ma anche per il Paese perché mette a rischio la ripresa, il lavoro, il futuro di operai, giovani, piccole e medie imprese, famiglie, parti produttive».
Guglielmo Epifani pensa che nella Direzione di venerdì si arriverà a quella modifica dello statuto. Questo risolverebbe tutto?
«Condivido l’auspicio di Epifani. Però lui sa bene che l’Assemblea non è riuscita a separare la candidatura a segretario da quella a presidente del Consiglio non per motivi tecnici, ma per mancanza di volontà. Ora serve una soluzione politica certa, che può dare una nuova Assemblea nazionale».
Sarebbe un bell’allungamento dei tempi. In fatto di regole, è d’accordo con il superamento delle correnti?
«Va bene avere una lista unica a sostegno del segretario; però diamo ai nostri elettori la possibilità di scegliere da chi vogliono farsi rappresentare. Altrimenti, senza preferenze manterremmo il modello Porcellum al nostro interno: e che credibilità avremmo quando parliamo di cambiare la legge elettorale? Spero proprio che non si vogliano superare le correnti per creare un correntone del capo».
Per evitare tutti i rischi che paventa, non basterebbe che Enrico Letta si candidasse apertamente?
«È presidente del Consiglio, non deve candidarsi a guidare il partito».
Se il Pdl lasciasse il governo, vedrebbe possibile un Letta-bis con un’altra maggioranza?
«Il dibattito che si è aperto nell’Assemblea nazionale destabilizza il governo e dà la sensazione che siamo noi a volerlo far cadere…».
Dunque, se si vuole mantenere in piedi l’esecutivo, come se ne esce?
«Sto facendo una seria riflessione sulla necessità di portare un’altra candidatura alla segreteria nazionale. Se così tanti non hanno partecipato all’Assemblea nazionale è perché le offerte politiche in campo non bastano a scaldare i cuori».
Chi vorrebbe come candidato?
«Qualcuno che metta al centro la sobrietà e la moderazione, che metta il partito al primo posto, che sia leale all’esecutivo guidato oggi dal Pd per salvare l’Italia e, allo stesso tempo, che guardi alla costruzione del governo di cambiamento di domani. Ma niente nomi: è una riflessione».
Ritiene possibile una scissione del Pd?
«Scissione? Credo che se il Pd non chiarisce i nodi politici rischia di farsi del male».
Lei è esponente dell’area cattolica del Partito democratico. La data dell’8 dicembre fissata per tenere le vostre primarie le sembra inopportuna dal punto di vista religioso?
«Avrei immaginato un’altra data. Ma le primarie vanno celebrate la domenica, e anche quello è un giorno di santificazione delle feste. Perciò, da credente, vedo l’8 di buon auspicio: l’Immacolata può fare miracoli».

Repubblica 23.9.13
Gentiloni contro la vecchia dirigenza Pd: “Paghiamo un prezzo altissimo”
“Un’ossessione perdere tempo per frenare la corsa di Renzi”
intervista di G. C.


ROMA — «L’ossessione di ritardare e complicare la corsa di Renzi alla segreteria fa pagare un prezzo altissimo al Pd». È l’accusa di Paolo Gentiloni, dopo il caos nell’Assemblea democratica.
Gentiloni, chi sospetta per il flop dell’Assemblea?
«Non vedo misteri. C’è una parte del gruppo dirigente che ha guidato il Pd in questi quattro anni che, da settimane, è come ossessionato dall’obiettivo di ritardare e complicare quella che pensano sia la prossima vittoria di Matteo Renzi. Alla fine si fa pagare al Pd un prezzo altissimo, come la terribile figuraccia nell’Assemblea del partito».
Il “virus sabotaggio”, dai 101 franchi tiratori di Prodi nel voto per il Quirinale all’Assemblea di venerdì e sabato, ha ormai contagiato voiDemocratici?
«Mentre i “franchi tiratori” lavoravano nell’ombra e hanno fatto un disastro, quello compiuto nella due giorni di Assemblea è stato meno grave e tutt’altro che nell’ombra. C’è stato il tentativo di imporre una ridicola separazione delle carriere tra segretario del Pd e candidato premier, come se il segretario del partito debba occuparsi solo di tessere e di feste. Questa forzatura si è spinta al punto di non rendersi conto che non c’erano neppure i numeri per farla. Quindi non è stata una trama segreta. È stato un ennesimo tentativo di indebolire un potenziale leader che, stando ai sondaggi e girando per le nostre feste, è molto popolare. Matteo potrebbe vincere le elezioni, ma ha molti avversari nel palazzo del Pd romano».
Lei insomma pensa che sia Bersani a volere mandare alle calende greche le primarie?
«Il congresso si concluderà l’8 dicembre, e si farà con le regole decise in assemblea, i cui dettagli saranno fissati nella prossima direzione. Ed è importante che, già dalla prossima settimana, al centro della scena ci sia il confronto tra i candidati segretari, sia nel Pd che davanti all’opinione pubblica. Il gruppo dirigente stia un attimo dietro le quinte. Il confronto tra i candidati è stata del resto l’unica parte molto positiva tra i candidati di questa orribile due giorni ».
Il segretario Epifani tuttavia sostiene che l’automatismo tra leadership e premiership si fa ancora in tempo a toglierlo, è così?
«L’automatismo era già escluso, ma si è voluta affermare una ridicola separazione delle carriere. Ora sono diatribe passate. Interroghiamoci piuttosto su come rendere il Pd forte nel dettare l’agenda di governo. Questo aiuterà anche Letta. E, quando accadrà, come il Pd può prepararsi a vincere le elezioni».
Comunque con queste regole Letta non potrebbe candidarsi a Palazzo Chigi.
«Ne riparleremo alla vigilia della campagna elettorale. Oggi mi pare che i problemi di Letta siano ben altri».
I problemi sono Saccomanni e l’aumento dell’Iva?
«Saccomanni ha detto parole di verità, e per inseguire Brunetta il governo non fa l’unica cosa che serve e cioè ridurre le tasse sul lavoro ».

Corriere 23.9.13
«Falsificate le mie parole su Br e Tav: querelo Alfano»


Stefano Rodotà annuncia azioni legali nei confronti di alcuni quotidiani e del ministro dell'Interno Angelino Alfano «le cui imprudenti dichiarazioni sono all'origine di una vicenda gravemente lesiva della mia onorabilità». «Una mia dichiarazione su una lettera di brigatisti — spiega il professore — è stata falsificata da alcuni organi di stampa ed esponenti politici, malgrado le mie immediate, chiarissime, non equivoche precisazioni, che peraltro non sarebbero state necessarie se le mie parole fossero state lette con onestà intellettuale. Aggiungo che la violenza di molti interventi di politici, che non hanno adempiuto al dovere di informarsi prima di parlare, mi ha confermato nell'opinione che siamo di fronte a veri atti di barbarie, per la mancanza di rispetto per la verità e per una storia personale che non ha mai avuto cedimenti nei confronti di qualsiasi forma di violenza, testimoniata anche dalla mia costante adesione alla logica della fermezza nei confronti delle Br». Dispiacere per la querela ad Alfano è stato espresso da Renato Schifani, presidente dei senatori del Pdl.

l’Unità 23.9.13
Le menti malate dentro la crisi
di Bruno Ugolini


«PATIMENTO, FRUSTRAZIONE, TRISTEZZA, PAURA, ANGOSCIA, INSONNIA, IDEE CICLICHE E RIPETITIVE, CADUTA di capelli, mal di stomaco di schiena di testa, cambiamenti nelle abitudini alimentari, cambiamenti nelle attività di cura personale e dell’aspetto fisico». Una diagnosi drammatica. Coinvolge spesso donne e uomini vittime dell'imperversare della crisi economico sociale. La segnalazione viene dall'osservatorio della salute mentale (Osamcat) di Catalogna. È solo un passaggio dell'inquietante libro di Elena Marisol Brandolini «Morire di non lavoro, La crisi nella percezione soggettiva» (Ediesse). Un volume ricco di spunti e ricerche fondato sugli studi di due gruppi, uno a Bercellona e l'altro a Roma. Scopriamo così che nel 2012, la Commissione ambiente, salute pubblica e sicurezza alimentare del Parlamento europeo, ha tenuto un workshop dal titolo «Salute mentale in tempi di crisi economica», organizzato da Glenis Willmott. Questi ha evidenziato, tra l'altro, la necessità che le infermità relative alla salute mentale siano considerate tra le malattie professionali.
Altri dati italiani parlano degli effetti della crisi. Secondo l'Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre (Cgia), tra il 2008 e il 2010, in Italia, i suicidi per motivi economici sarebbero aumentati del 24,6%. Sono dati che preoccupano anche i professionisti della salute. Il 21 e 22 gennaio di questo anno la «Società italiana di Epidemiologia psichiatrica», in collaborazione con l’«Istituto superiore di sanità», ha promosso un incontro dal titolo: «Crisi economica e salute mentale: cosa cambia nella popolazione, cosa cambia nei servizi». Mentre il 15 marzo 2013, a Roma, la Fondazione internazionale Fatebenefratelli ha realizzato la tavola rotonda dal titolo: «Crisi economica e crisi di identità». Sono studi e iniziative che Brandolini cita e analizza. Scoprendo che invadono anche il mondo delle arti. Così a Venezia alla Biennale d'arte va in scena un'iniziativa nata dall'ingresso di otto persone, quattro donne e quattro uomini senza lavoro, nel Macba, il Museu d’Art Contemporani de Barcelona.
Ognuna di loro sceglie come preferita una tra le opere esposte. Quelle selezionate vanno a Venezia e fanno parte del progetto «25% Catalunya a Vene`cia», di Francesc Torres e Mercedes Alvarez, curato da Jordi Ballò. Quel 25% rappresenta la percentuale di disoccupazione in Catalogna. Nel padiglione un reportage fotografico racconta la quotidianità di queste otto persone e un documentario girato nel museo mostra il confronto tra loro e la produzione artistica.
Nascono così non solo le proteste ma anche i tentativi di intervenire pur sapendo che la cura più generale dovrebbe venire da una severa svolta nella politica economico-sociale. Il volume cita la nascita del Centro di ascolto Caritas «Progetto Penelope», nella provincia di Treviso. E poi «Terraferma», uno spazio di ascolto e di supporto, promosso dal movimento «ImpreseCheResistono»(Icr), con una rete di psicologi che operano a titolo gratuito. È bene citare, infine, una manifestazione svolta nel 2012 a Barcellona convocata dal «Collegi Oficial de Psico`legs de Catalunya» (Copc), con il sostegno del «Consejo General de Colegios Oficiales de Psico ́logos» e la partecipazione di tutti i collegi di psicologi della Spagna. È lanciata una campagna di sensibilizzazione dal titolo «Positivamente».
Il loro manifesto osserva come siamo difronte «a una situazione sociale devastante e complessa, con un aumento astronomico della disoccupazione. Ciò ha un effetto diretto sulla salute mentale della popolazione». Da qui la sottolineatura: «Vogliamo trasmettere l’importanza dell’attenzione alla salute mentale e la ripercussione globale che questa decisione ha sulla cittadinanza e sullo sviluppo economico».

La Stampa 23.9.13
La Cassazione contro i dubbi dei papà

“illeciti i test del dna sulla prole”
di Carlo Rimini


La Cassazione, in una sentenza depositata nei giorni scorsi, ha affermato che sono illeciti i test del DNA fatti in segreto da padri esasperati dal pensiero che il figlio che stanno crescendo sia in realtà figlio di un altro uomo. Il dubbio e il sospetto, quando si insinuano nella mente, sono tarli che divorano gli affetti. Forse per questo hanno ormai grande successo i test genetici sulla paternità che si acquistano su internet ed ora anche in farmacia: bastano poco più di 100 euro; si effettua un prelievo di materiale genetico (basta un po’ di saliva o un capello); si aspetta qualche giorno e i risultati vengono inviati al padre «con la massima riservatezza» (così dicono decine di pubblicità in rete).
Molti, di fronte al sospetto, preferiscono non sapere: dimenticano la frase «non ti assomiglia per niente» e vanno avanti per la loro strada di genitori. Altri vogliono conoscere la verità perché non ci stanno ad essere stati ingannati. Poi, di fronte alla lettera che contiene i risultati, hanno un momento di incertezza. Alcuni, dopo aver saputo, fanno finta di nulla ma coltivano un rancore sordo nei confronti della moglie. Molti vanno invece dal giudice per esercitare l’azione di disconoscimento di paternità, per cancellare il figlio dalla loro vita: una scelta dolorosissima, per tutti.
La legge non si fa carico dei sentimenti e spazza via questo tormento con il linguaggio giuridico. Il test del DNA è una forma di «trattamento di dati personali» e questo «trattamento» non può essere effettuato senza il «consenso dell’interessato» o l’autorizzazione del Garante della privacy. Dunque l’esame non può essere fatto dal padre segretamente, prelevando - all’insaputa del figlio e della madre - un campione di saliva.
Un uomo aveva fatto raccogliere da una agenzia investigativa due mozziconi di sigaretta del figlio per fare effettuare il test di paternità. Per questo è stato sanzionato dal Garante per la privacy. Egli si è rivolto alla Cassazione affermando che non gli può essere impedito di raccogliere dati indispensabili per far valere in giudizio un suo diritto: il diritto a disconoscere il figlio di cui non è padre. La Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando l’illiceità del test genetico effettuato segretamente. La motivazione fa riflettere: il padre avrebbe dovuto rivolgersi al tribunale e chiedere che fosse il giudice ad ordinare il test del DNA.
È una motivazione severa che non lascia spazio al dubbio, all’incertezza, alla cautela. Molti padri non sanno la verità e vogliono, prima di tutto, scoprirla. Certo non si può chiedere loro di fare una causa per questo: una causa contro un bambino e contro una moglie, contro la propria famiglia, solo per eliminare il sospetto. Che cosa accadrebbe in quella famiglia se la paternità fosse confermata? E certamente, dopo avere scoperto la verità durante un giudizio, il padre non potrebbe consapevolmente scegliere di continuare a fare il padre. La vita è più complicata delle regole sulla privacy.

Corriere 23.9.13
Il parere negativo degli studenti non tocca davvero i docenti di ruolo
di Paolo Ferratini


Ha suscitato clamore la vicenda dei due docenti a contratto dell'ateneo padovano, cui non è stato rinnovato l'incarico a seguito del giudizio negativo espresso dagli studenti. Lezioni saltate, esami svolti al bar, scarsa disponibilità al dialogo individuale sono alcuni tra i rilievi mossi.
Da molti anni nelle università italiane gli studenti valutano i professori su appositi moduli predisposti dalla università stessa. Se togliamo tuttavia la meritata vetrina che la stampa locale talvolta concede ai docenti «più amati», non è chiaro quale altra conseguenza abbia per gli insegnanti di ruolo il fatto di essere valutati ottimi o pessimi: certo non ricevono minorazioni o maggiorazioni di stipendio, né la cosa rileva sulla carriera accademica. La realtà è che i questionari compilati dagli studenti, più che alla valutazione, fanno pensare ai moduli sul gradimento del servizio che si riempiono nelle grandi catene di distribuzione, i quali, come è noto, servono non a valutare la prestazione ma a gratificare il cliente, dandogli l'impressione che il suo parere conti qualcosa.
Invece non conta nulla. Dal modello delle università americane, dove il giudizio degli studenti è un fattore decisivo per la conferma nella docenza di qualunque insegnante, fosse anche un premio Nobel, abbiamo importato solo la scatola vuota. Ed è un gran male, che riflette la doppia distorsione con cui il nostro sistema considera l'accademia e il mondo accademico considera se stesso: da un lato, la didattica è ritenuta una fastidiosa appendice dell'attività di studio, dimenticando che l'università è fatta di insegnamento e ricerca, e che le due attività dovrebbero non solo stare sullo stesso piano, ma integrarsi e fecondarsi a vicenda; dall'altro, si finge di ignorare che i principali stakeholders dell'università sono proprio gli studenti. Gli altri (aziende, centri studi privati, libere professioni, case editrici...) vengono dopo.
Quanto è successo a Padova riguarda, attenzione, non due docenti stabilizzati, ma due avventizi, il cui contratto impegna l'ateneo solo annualmente, peraltro con un esborso modestissimo. Poco per parlare di un'inversione di tendenza, forse abbastanza per cominciare a porre la questione.

il Fatto 23.9.13
Lo spacciatore di libertà: un visto costa 5.000 euro
di Michela A.G. Iaccarino


MERCATO CLANDESTINO Il traffico di visti e passaporti contraffatti è diventato un settore dell’imprenditoria illegale: un visto costa 5000 euro

Qualche mese fa, quando la faccia di Mohamed Morsi era ancora quella di un presidente e non di un nemico pubblico, ora offerto ai passanti come bersaglio sui manifesti per le strade del Cairo abbiamo incontrato B. Era l'anonimato a tenere insieme il suo mondo, una strana riservatezza che sconfinava nel segreto. In uno dei nuovi distretti periferici del Cairo chiamato “6 ottobre”, in mezzo a casermoni di cemento male illuminati che strappano spazio al deserto, neppure i suoi amici più fidati sapevano dove abitava e nascondeva documenti, soldi, forse armi. “Se li torturano, non sapranno cosa rispondere”, era la sua versione. Adesso B. è scappato verso Horgada, lontano dalla capitale militarizzata.
HA 29 ANNI, numerose croci e madonne tatuate sulla pelle, ufficialmente ex guida turistica, ora “imprenditore” benestante, mi mostra la foto della sua giovane fidanzata, cristiana e australiana, sull'Iphone. Poi svuota una busta nera piena di passaporti, visti e fotografie. Da quando il turismo è calato sotto zero all'ombra delle piramidi, B. è diventato un Creonte capace di traghettare e incrociare destini da un lato all'altro del mondo, imbastendo, a forza di accordi sottobanco e pacche sulle spalle, quello che sembra un contrabbando di anime copte. Ma da cristiano credente, non esulta mentre smercia visti, passaporti falsi e programma esodi in miniatura. “Le chiese date alle fiamme bruciano per ore, prima che qualcuno domi l'incendio”. Era così con Mubarak, andava peggio con Morsi, accade lo stesso ora con gli uomini di Al Sisi che strumentalizzano la violenza dei “terroristi” per legittimare la loro presa di potere, spiega. Per questo molti egiziani continuano a scappare. Il 16 agosto scorso i soldati non sono intervenuti quando nell'Alto Egitto, ad Al Menja, Delga, Assiut e dintorni, 70 chiese sono andate distrutte dalle fiamme per mano dei Fratelli Mussulmani, a cui hanno dato man forte i salafiti. Intanto nel venerdì della rabbia al Cairo si consumava una strage diametralmente opposta, durante il massacro di piazza Rabaa.
Ora, con il Sinai in mano ai gruppi jihadisti, e i Fratelli costretti in uno stato di semi clandestinità e violenza sotterranea, le richieste di fuga dall'Egitto sono aumentate e fruttano a B. anche mille euro al giorno. Un visto per l'area Shenghen costa 6000 euro e si ottiene in 3 giorni: per vie legali potrebbe essere ottenuto forse dopo mesi, ma più probabilmente mai. Si raggiunge la cifra di 15000 pound egiziani per quello degli Stati Uniti, mentre un visto per Mosca, capitale celebre per i suoi burocrati corrotti, costa circa 500 euro. Dalla federazione Russa si può raggiungere di nascosto in macchina la Bielorussia o la Polonia. Molti dei copti che gli chiedono aiuto mirano all'Europa, ma per altri la terra promessa è quella con cinque croci ortodosse a sventolare sulla bandiera, la Georgia. Il destino di tutti è comunque deciso in queste tre mosse: contattare B., pagare, attraversare le porte del paradiso della dogana estera.
La corruzione ha aperto una falla nel sistema egiziano per far sopravvivere non solo copti, ma anche i convertiti: mentre le aggressioni contro i membri della minoranza cristiana si susseguono, sono sempre più i musulmani a scivolare via silenziosamente e segretamente dai precetti di Maometto. Qui dove la religione è anagrafica, stampata sull'attestato di nascita fino a quello di morte, in caso di conversione dall'Islam al Cristianesimo, la clandestinità è la prima regola da rispettare per un kefir, un infedele, peccatore per ridda, (abbandono dell'Islam e della comunità dei musulmani), tacciabile di apostasia e violazione di una delle leggi fondamentali del Corano. È così che ho conosciuto B., contatto di contatti, tramite un siriano di nome Franklin, il cui vero nome è Mohamed: un musulmano convertito al cristianesimo cha cercato rifugio nel cuore della minoranza cristiana più grande del Medio Oriente.
SE CAMBI DIO, devi anche cambiare patria. Così B. costruisce ponti fantasma dove scappano per vie non legali “centinaia e centinaia di cristiani, copti e convertiti”. Mostra i denti in un sorriso che non può che essere una conferma quando gli viene chiesto del resto. “Anche i musulmani sono stanchi del nuovo Egitto, più di quello che può ancora diventare che di quello che è appena diventato”. Il prezzo dei visti per i fedeli di Allah è più caro, ma B. gli procura il necessario richiesto per espatriare, con tutte le contraddizioni in cui può incappare il figlio di un dio minore. E soprattutto, anche qui, al confine tra la città e il deserto, ammette che “business comes first”.

l’Unità 23.9.13
Angelo Bolaffi, filosofo della politica e germanista:
«Non cambierà la strategia verso la Ue. Berlino punterà alle riforme nei Paesi in difficoltà»
«La Germania ha premiato la leadership e l’idea di stabilità»
intervista di Umberto De Giovannangeli


Il voto tedesco analizzato da Angelo Bolaffi, filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 direttore dell’Istituto di cultura italiana a Berlino, autore di numerosi saggi tra i quali ricordiamo: «Il sogno tedesco. La nuova Germania e la coerenza europea» (Donzelli, 1993), e il recente «Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea» (Donzelli, 2013).
Professor Bolaffi, per parafrasare il titolo del suo ultimo libro, dove ha battuto il cuore elettorale della Germania?
«Ha battuto su una idea di stabilità democratica, di europeismo convinto ma non utopistico, e ha premiato una leadership, quella di Angela Merkel, che ha governato un momento difficilissimo della vita europea, segnato dalla crisi dell’euro, una crisi che a un certo punto ha rischiato di far crollare l’edificio europeo».
In questa netta vittoria della Cdu-Csu, quanto ha pesato il profilo personale di Angela Merkel?
«Nella società mediatica, il profilo del leader è fondamentale. Nel caso della Merkel, lei ha utilizzato un linguaggio rassicurante e comprensibile. È noto il famoso esempio di quando le fu posta una domanda sulla crisi dell’euro. Rispose che questa crisi dipendeva dalle politiche sbagliate di alcuni Paesi che avevano un debito eccessivo. Anche una casalinga di una regione del Sud della Germania, aveva sottolineato la cancelliera, sa che non si può spendere di più di quanto si guadagna...».
A contrastare la cancelliera, ci ha provato Peer Steinbrück, il leader della Spd. «Steinbrück è stato un ottimo ministro delle Finanze nella precedente “grosse Koalition”, ma da leader di partito non si è rivelato all’altezza. Ha mostrato una alterigia molto “amburghese”, che lo ha reso distante da tantissimi cittadini “normali” tedeschi. In più, c’è da dire, che Steinbrück non è riuscito a parlare, e a convincere, l’elettorato centrista, nonostante la sua biografia politica e il suo trascorso da ministro non lo indicavano certo come un pericoloso estremista. Questa non vittoria della Spd è tanto più grave se rapportata ad una situazione in cui tutti riconoscevano e riconoscono, compresa la Merkel, che in Germania, oltre che in Europa, esiste una grave questione di giustizia sociale. Ma evidentemente la Spd non ha saputo intercettare questa domanda di giustizia sociale».
Ed ora?
«A risultati non ancora definitivi, è evidente che la soluzione sembra essere quella della “grosse Koalition”, ma con una differenza sostanziale con la volta precedente, quando i due partiti Cdu/ Csu e Spd erano grosso modo alla pari. Oggi, invece, a dare le carte sarà comunque Angela Merkel, la quale, tutto sommato, potrebbe anche minacciare, sempre che non ottenga la maggioranza assoluta dei seggi, di allearsi, ad esempio, con i Verdi, mentre la Spd non potrà usare la carta di una possibile alleanza rosso-rosso-verde, per far pesare le proprie richieste».
Il voto tedesco visto in chiave-Europa. «Non credo che ci sarà un grande cambiamento di strategia. Ritengo che la Merkel continuerà sull’idea, che lei ha molto chiara, di costruzione dell’Europa; una costruzione che passi per un processo di progressiva omogenizzazione delle aree economiche. Ciò implica che la cancelliera dovrà puntare a un processo di riforme dei Paesi oggi in difficoltà economiche. Ovviamente, la Merkel sa che ci saranno momenti di difficoltà. Una delle possibili prospettive, potrebbe essere quella di un allentamento dei vincoli interni di bilancio, favorendo una domanda interna al Paese, con l’aumento dei salari e con l’introduzione del salario minimo garantito. E questo potrebbe aiutare i Paesi in difficoltà, e tra questi anche l’Italia, aumentando le importazioni da parte tedesca. Oggi è possibile sostenere che l’Europa di “germanizza” proprio e nella misura in cui la Germania si è completamente e convintamente “europeizzata”. Liquidare definitivamente la questione tedesca significa infatti costruire finalmente l’Europa. E la Germania, e lo stesso voto in qualche modo lo conferma, ha la forza, l’interesse e soprattutto la necessità storica e morale per farlo».
A spoglio ancora non concluso, sembra che la Afd, il partito anti-europeo, non otterrà seggi. Che segnale sarebbe questo? «Se confermato, sarebbe il segnale che in Germania non esiste, diversamente da molti altri Paesi europei, un forte movimento populista anti-europeo. L’idea che la Germania sia il cuore dell’antieuropeismo, viene clamorosamente smentita dal voto. Cosa diversa è, invece, capire quale idea di Europa ha la Merkel, e in fondo anche la Spd, e se questa idea è la stessa che anima gli altri partner europei».
A questo proposito: il primo a congratularsi con la Merkel, è stato il presidente francese, Francois Hollande. Come leggere questo dato?
«Come la conferma disperata che la Francia, un Paese in forte difficoltà economica, ha di non perdere un rapporto privilegiato con la Germania; un rapporto che negli ultimi tempi è stato sottoposto a forti tensioni».

La Stampa 23.9.13
È pronta a superare la Tatcher
di Vittorio Sabadin


Se fosse ancora viva, Margaret Thatcher avrebbe guardato ieri sera il notiziario della Bbc con un po’ di tristezza. Un’altra donna, Angela Merkel, sta facendo meglio di lei al governo di un paese europeo e potrebbe offuscarne il mito. Ma le similitudini tra i due premier sono più numerose delle diversità, e una cosa più delle altre le unisce: sono entrambe fatte di ferro.
Se si scorrono le biografie della Thatcher e della Merkel, davvero si resta stupiti per le coincidenze della loro vita. Sono tutte e due nate in una famiglia borghese, con un genitore politicamente impegnato a sinistra: il padre droghiere per la Thatcher, la madre insegnante di inglese e latino per la Merkel. Entrambe si sono laureate in materie molto lontane dalla politica, rispettivamente in chimica e in fisica. Se c’è una differenza, bisogna cercarla nella coerenza del loro percorso. Margaret Thatcher non è mai stata di sinistra e ha sempre ignorato i consigli del padre, che credeva in una società più giusta nella quale i fortunati avevano il dovere di aiutare i deboli. La Merkel, cresciuta a Templin nella Repubblica democratica tedesca, è stata segretaria dell’Agitprop, il dipartimento dell’agitazione e della propaganda delle idee comuniste. Ma con la caduta del Muro di Berlino, avvenuta mentre lei faceva una sauna, la Merkel si è definitivamente liberata di una pesante eredità, che sicuramente non aveva mai condiviso.
Entrambe si sono fatte strada in un partito, quello conservatore inglese e la Cdu tedesca, dominato dagli uomini, ed entrambe hanno dovuto liberarsi senza rimorsi dei leader che le avevano aiutate ad emergere: Edward Heath e Helmut Kohl. Anche il loro primo importante incarico politico ha delle affinità: ministro dell’Istruzione la Thatcher, ministro delle Donne e giovani la Merkel. La Thatcher fu la prima donna leader del partito conservatore, dal 1975 al 1990; la Merkel è diventata nel 1998 la prima segretaria della Cdu e la prima presidente donna nel 1990. Nel 2007 è stata la seconda donna a presiedere il G8, ovviamente dopo la Thatcher.
Anche nelle scelte politiche si somigliano: entrambe a favore del mercato e della liberalizzazione, entrambe convinte della necessità di approvare leggi che rendano flessibili il lavoro e i salari, entrambe favorevoli a uno stretto legame con gli Stati Uniti, nella guerra contro l’impero del male sovietico della Thatcher con Reagan, e nel sì all’invasione dell’Iraq della Merkel con Bush.
Tutte e due hanno cercato di diffondere l’immagine della casalinga prestata alla politica, ma la Thatcher è sempre stata molto più attenta all’aspetto esteriore, che curava in modo maniacale. Non si sarebbe mai fatta fotografare spettinata e malvestita come una turista qualunque all’isola d’Ischia o nelle montagne del Sud Tirolo, dove la Merkel passa le sue trasandate vacanze.
La Thatcher ha governato per 11 anni, la Merkel per 8, ma grazie alla rielezione diventerà la donna che è stata più a lungo al potere. Entrambe hanno ottenuto risultati economici straordinari, con crescite del pil e del mercato irraggiungibili per gli altri paesi europei. Ed è questo forse il loro più grande segreto: facendo finta di voler aiutare il mondo, hanno sempre e solo fatto l’interesse del loro paese.

Corriere 23.9.13
La sinistra finisce minoranza nel Paese
La base sociale dei progressisti si è dissolta, i ceti più poveri sono in fuga
di Massimo Nava


BERLINO — Per la Spd, e più in generale per la sinistra tedesca, quello di ieri è al tempo stesso il migliore e il peggiore dei risultati possibili. Di fronte allo strapotere di Angela Merkel, la socialdemocrazia dà infatti modesti segnali di ripresa (già avvertiti nelle ultime elezioni locali) dopo avere toccato il minimo storico nel 2009 (23 per cento, quasi dieci milioni di voti perduti). E Die Linke, il partito degli ex comunisti, pur avendo perduto oltre il 3 per cento, resta radicato nei Länder orientali e può vantarsi — come ha fatto il leader storico, Gregor Gisy — di essere diventato il terzo partito al Bundestag, avendo di poco superato i «Grünen».
Ma la sinistra tedesca è ormai minoritaria nel Paese e il risultato di ieri è lo specchio fedele della drammatica scomposizione sociale dell’elettorato progressista e della difficoltà della Spd di convincere la base tradizionale. Dopo le grandi riforme del mercato del lavoro, i sindacati hanno perso milioni d’iscritti, i settori del pubblico impiego hanno subito una forte cura dimagrante, le disparità salariali e contrattuali si sono allargate. Gerhard Schröder, l’ex cancelliere artefice delle più incisive riforme strutturali, è stato bollato in molti ambienti come il «cancelliere dei padroni». E Peer Steinbrück, nonostante la mobilitazione dei militanti, ha fatto fatica a spiegare che la stagione dei sacrifici è alle spalle e che è giunta l’ora della maggiore giustizia sociale, delle tasse per i ricchi e degli aumenti salariali.
La Spd conserva la guida delle più importanti città, è il partito della piccola borghesia, degli intellettuali, di una parte cospicua di operai e impiegati, ma perde consensi nell’elettorato giovanile, non recupera i delusi dalla politica di questi anni, è ormai scollata dai ceti più poveri che si rifugiano nell’estrema sinistra e nel populismo antieuropeo. Volendo considerare gli ecologisti nella galassia progressista, essi sono i grandi perdenti di queste elezioni: pagano errori di comunicazione e la scelta della Merkel di dire addio al nucleare, sottraendo così al movimento verde il principale argomento di battaglia.
Che sia quindi il peggiore dei risultati possibili, lo confermano le prime reazioni dei leader di fronte alle opzioni politiche. Anche se la grande coalizione resta la soluzione probabile (e auspicata dalla maggioranza dei tedeschi), nessuno se l’è sentita di pronunciarsi subito a favore. La riflessione nel partito ha preso atto che l’erosione dell’elettorato è la conseguenza degli anni della coabitazione con i cristiano-sociali e dell’Agenda Schröder. La convinzione di avere fatto la scelta più giusta e responsabile, nell’interesse del Paese, può essere una consolazione per la Storia. Ma intanto è la Merkel che esulta.
Steinbrück, durante la campagna elettorale, ha più volte ripetuto che non avrebbe in ogni caso fatto parte di un governo con la cancelliera e ieri sera ha detto che la Spd si prepara a una forte opposizione parlamentare. La sua è però una posizione personale, in attesa delle decisioni del partito e di una possibile resa dei conti al vertice. Di fronte alla maggioranza quasi assoluta di Cdu-Csu, il potere negoziale sarebbe modesto, ma l’obiettivo è di condizionare la cancelliera per una più incisiva politica sociale.
D’altra parte, la cultura riformista e l’adesione alle regole economiche del modello sociale tedesco sono così radicate nel partito da escludere avventure «frontiste» con l’estrema sinistra o un «cartello» che comprenda anche i Grünen, nonostante qualche esperimento di alleanza tutt’ora in corso a livello locale. Le grandi scelte di campo — l’Europa, la Nato, l’economia sociale di mercato, l’attenzione al rigore di bilancio — sono irreversibili.
Le speranze per il futuro non immediato dipendono dal fisiologico logoramento della leadership di Angela Merkel (accadde anche a Margaret Thatcher e a Helmut Kohl) e dalla capacità di trovare un leader altrettanto carismatico e in sintonia con l’opinione pubblica del Paese. Non era questo il caso di Peer Steinbrück, divertente e infaticabile nella campagna elettorale, non abbastanza credibile per scaldare gli animi, offrire speranze ai giovani e resuscitare la passione per la politica. Ha detto qualche cosa «di sinistra», ma era un po’ tardi.

Repubblica 23.9.13
L’amarezza dello sfidante Steinbrueck “La grande coalizione? È nelle sue mani”
Spd, risultato agrodolce: 3 punti in più che sanno di sconfitta
di Giampaolo Cadalanu


BERLINO — Sotto il palazzo Willy Brandt, i militanti socialdemocratici trattengono la gioia quando arrivano i primi risultati. Il trionfo della cancelliera era annunciato, ma resta poco gradito. Così le proiezioni del voto Spd, il passo avanti di tre punti che porta il partito al 26 per cento, sono accolte da sorrisi a metà. Ma quando sugli schermi giganti appesi fra i tendoni della Stresemannstrasse compare il tracollo della Fdp, i sorrisi si trasformano in urla di giubilo: se i liberali non riescono ad entrare al Bundestag, sottolineano tutti, la signora Merkel sarà con tutta probabilità costretta a bussare alla nostra porta. È gioia vera, i ragazzi con il marchietto rosso nel distintivo alzano i boccali di birra e inneggiano al vertice.
Il cuore e la pancia del partito sembrano pronti per un momento a dimenticare le divisioni interne. I ragazzi gridano: «Grazie, Peer», «Bravo Steinbrueck ». Un giovane completa il concetto: «Hai lavorato bene, meglio di quanto potesse fareSteinmeier», riferendosi al capogruppo dal Bundestag che sognava di candidarsi contro la Merkel. Non c’è molto da attendere per un commento: siamo in Germania, sondaggi e dati provvisori sono presi sul serio. Bastano pochi minuti perché il vertice del partito sia pronto. L’atrio della sede Spd è stracolmo, sotto la statua di Brandt si accalcano telecamere e microfoni da tutto il mondo. Sigmar Gabriel, il presidente del partito (anche lui aspirante candidato battuto da Steinbrueck) si congratula con la Merkel. Poi si rivolge al candidato, quasi con tenerezza: «Sei un ragazzo in gamba».
Poi tocca a lui, al candidato sconfitto con onore, raccogliere gli applausi. La maschera austera di Steinbrueck sembra sciogliersi per un attimo di commozione, ma forse è solo il calore dei riflettori tv. Il leader socialdemocratico frena le acclamazioni: «Ora la palla è nel campo della signora Merkel. Sarà affar suo costruire una maggioranza. Quando i risultati saranno confermati, vedremo ». La prudenza è d’obbligo. E quando i dati si consolidano, il sapore della gioia si stempera: il risultato è agrodolce. Si affaccia l’incubo che l’unione Cdu/Csu conquisti la maggioranza assoluta, cioè che, estinti i liberali, possa fare a meno anche degli altri. Di Grosse Koalition adesso si parla solo sottovoce. In casa Spd la voglia di tornare a decidere è forte. Bisogna aspettare il conteggio definitivo dei voti, chissà. Steinbrueck abbraccia gli ex rivali e ringrazia il partito, quasi ad ammonire che il futuro si affronta uniti. La sua strada finisce qui. E mentre lui ragiona sulle prospettive personali, lontano dalle telecamere il vertice cerca di capire se le responsabilità del risultato poco entusiasmante siano solo della crisi economica.
Tanto più che forse i problemi cominciano ora, persino nel caso che la cancelliera non porti a casa la maggioranza assoluta e sia costretta a governare con i socialdemocratici. I risultati del 2013 non sono quellidel 2005, che portarono a una grande coalizione su basi ben diverse: allora la Spd aveva conquistato il 34,2 per cento, contro il 35,2 di Cdu/Csu. E in fondo già oggi i socialdemocratici erano in grado di far ac-cettare compromessi alla Merkel, visto che mantengono il controllo del Bundesrat, la camera dei Laender. Insomma, neanche il coinvolgimento nella guida della Repubblica federale sarebbe una strada facile. Visti i rapporti di forza, difficilmente la Spd potrebbe imporre alla Merkel i suoi punti di vista sul salario minimo o sulle tasse ai ceti privilegiati. La prima riunione ad alto livello sarà venerdì. Ma per il candidato battuto non è più una preoccupazione: da oggi in poi, scrive l’agenzia Dpa, Steinbrueck penserà a trovare proposte di conferenze ben pagate.

l’Unità 23.9.13
Carcere a vita, per Bo Xilai «pena esemplare»
Condannato per corruzione l’ex astro nascente del Pc di Chongqing. Si difende: confessione estorta
di Gabriel Bertinetto


In carcere fino alla fine dei suoi giorni. La condanna di Bo Xilai, 64 anni, imputato di corruzione, appropriazione indebita e abuso di potere, segna la fine politica e la morte civile dell’ex-governatore di Chongqing, capo della tendenza che in Occidente viene chiamata neo-maoista. Un leader che al di là della fondatezza delle accuse a suo carico, agli occhi dell’establishment comunista di Pechino aveva soprattutto una colpa: avere puntato dritto al potere con iniziative individuali e plateali, anziché sottoporsi alle regole non scritte di una lotta tra fazioni che un collaudato rituale esige si svolga dietro le quinte. Con Bo Xilai la recita del dramma per qualche anno si era spostata sul palcoscenico. Ed è forse questo, più ancora dei contenuti dello spettacolo, ad avere provocato la reazione dei padroni del teatro.
Traffico bloccato e gran spiegamento di polizia intorno al tribunale di Jinan. Così ieri per la sentenza, come durante i giorni di udienza. Precauzioni che possono sembrare esagerate, considerato che nell'anno e mezzo trascorso dalla caduta in disgrazia di Bo, non si è mai avuto sentore di mobilitazioni popolari in suo appoggio. Ma le leggi della propaganda nella Repubblica popolare esigono il completo isolamento del reprobo, e anche una piccola manifestazione di nostalgici con sventolio di bandiere rosse, slogan e inni, avrebbe disturbato la trasmissione di un segnale forte e chiaro.
Bo è stato riconosciuto colpevole di avere intascato tangenti per oltre 3 milioni di dollari da alcuni imprenditori fra cui Xu Ming, titolare della Dalian Sheide, azienda attiva nell’edilizia e nella petrolchimica. Inoltre avrebbe abusato della sua carica per ostacolare le indagini sulla moglie Gu Kailai, condannata per omicidio in un altro processo. La corte ha respinto tutte le argomentazioni della difesa. Bo aveva definito false le deposizioni dei testi che lo chiamavano in causa, e aveva ritrattato alcune parziali ammissioni fatte in istruttoria, sostenendo che erano frutto di pressioni da parte degli inquirenti.
Pur avendo elaborato una strategia difensiva interna ad una logica strettamente processuale, evitando scoperte allusioni a eventuali manovre di fazioni politiche avverse, Bo non è riuscito a ottenere alcuno sconto di pena. Perché da lui il tribunale non ha ottenuto la piena ammissione di colpevolezza e la richiesta di perdono che avevano garantito trattamenti di favore agli imputati in altri due processi collegati. La moglie Gu Kailai si era vista commutare la condanna capitale in 15 anni di reclusione. E con 15 anni di carcere se la caverà anche Wang Lijun, ex-braccio destro di Bo, che era coinvolto sia nelle storie di corruzione sia nello sviamento delle indagini sul delitto di Gu Kailai. Il messaggio indirizzato dal potere centrale attraverso il processo di Jinan contiene diversi aspetti. In primo luogo le autorità del regime si accreditano come inflessibili tutori della legalità dimostrando di non cedere alla tentazione dell’indulgenza verso i potenti. Il nuovo capo di Stato e segretario del Partito Xi Jinping ha fatto del contrasto della corruzione una priorità programmatica, e il processo esemplare di Jinan potrà oscurare le critiche per alcune scelte politiche che sembrano andare in direzione opposta. Il dibattimento inoltre è stato condotto in modo relativamente trasparente. La stampa straniera non era ammessa in aula, ma ampli resoconti delle udienze sono stati diramati via Internet senza censurare le deposizioni dell’imputato e le sue risposte agli interrogatori.
Ma secondo molti esperti il processo era di natura essenzialmente politica. «I progressi della riforma giudiziaria in Cina finora sono limitati», dice Joseph Cheng, docente di scienze politiche a Hong Kong. Kerry Brown, sinologo dell’università di Sydney, si spinge sino a sostenere che la condanna di Bo sia avvenuta «senza che uno straccio di prova lo collegasse ai crimini commessi dalla moglie Gu Kailai e dall’ex-collaboratore Wang Lijun». La verità è che Bo aveva dato fastidio perché «era l'unico leader della sua generazione a cercare di parlare direttamente al popolo».

La Stampa 23.9.13
Ergastolo al “principe rosso” Così la Cina nasconde i suoi mali
Bo Xilai era figlio di un collaboratore di Mao, lo ha distrutto una storia di corruzione
di Ilaria Maria Sala


Ergastolo a Bo Xilai: si conclude così la vicenda del “principe” rosso – figlio di Bo Yibo, uno degli alleati più stretti di Mao Zedong – che per un breve periodo sembrava poter aspirare alle vette più alte del potere cinese. Bo, ex-membro del Politburo e segretario di partito a Chongqing, dove aveva cercato di introdurre una linea politica “maoista” (coreografie da Rivoluzione Culturale unite a maggiori politiche sociali) e una violenta lotta alla corruzione dal gusto di purga, è stato politicamente sepolto. I crimini che lo hanno portato all’ergastolo sono la corruzione, l’abuso di potere e l’allocazione fraudolenta di fondi: reati non violenti che potrebbero dunque portare alla scarcerazione di Bo fra dieci anni. Ma anche volendo immaginare un improvviso rovescio di fortuna, a quell’epoca Bo sarebbe oltre i limiti d’età per un ritorno al Politburo – e questa improbabile prospettiva gli è stata comunque preclusa dalla negazione a vita dei diritti politici. Dai tempi di Lin Biao, ex-leader rivoluzionario fedelissimo di Mao caduto in disgrazia e morto in un misterioso incidente aereo nel 1971, non si assisteva a una così fragorosa caduta dal potere in Cina.
Il processo a Bo Xilai, tenutosi il mese scorso nella città di Jinan, era stato uno degli esempi di teatro politico più appassionanti degli ultimi tempi, con tanto di aggiornamento via micro-blogging su quanto avveniva all’interno dell’aula (naturalmente previa censura). Bo si era mostrato combattivo, per quanto tutti gli osservatori concordassero nel reputare il dibattito in aula poco diverso da un copione concordato. Secondo un commento Nicholas Bequelin, di Human Rights Watch, «non si è assistito a un processo giusto, le vittime di Bo non hanno avuto giustizia, e al popolo cinese non è stata garantita la luce sugli abusi di potere di Bo». La trasparenza selettiva a cui si è assistito, però, è stata maggiore di quella che si ha solitamente nel sistema giudiziario cinese,e mostra «quello a cui la giustizia cinese aspira».
La fine di Bo Xilai è arrivata a seguito di una storia scabrosa, che ha per un breve periodo esposto al pubblico la corruzione e la vita oltre ogni legge di una classe politica sulla quale le informazioni sono sempre scarse. Tutto cominciò a crollare nel febbraio dello scorso anno, dopo che un super-poliziotto di Chongqing, Wang Lijun, in seguito a una lite con Bo cercò asilo al Consolato americano, venendone respinto. Ancora non si sa con esattezza la causa della tentata defezione, ma sembra che il litigio fosse avvenuto a causa della copertura dell’omicidio di Neil Heywood, ex-collaboratore della moglie di Bo Xilai, Gu Kailai, che è stato probabilmente ucciso da quest’ultima in seguito a delle transazioni finanziarie andate male. Gu sta attualmente scontando una pena di morte commutata in ergastolo per l’assassinio di Heywood, mentre Wang è stato condannato a 15 anni di prigione per abuso di potere e tentata defezione. Entrambi hanno testimoniato al processo contro Bo Xilai.
Per quanto mille domande ancora rimangano, il circolo si è ora chiuso con la sentenza a Bo. Soprattutto, scegliendo di mettere in luce le nefandezze dell’ex-segretario di partito di Chongqing solo dopo averlo espulso dal Partito Comunista, il Partito stesso è riuscito ancora una volta ad auto-assolversi da ogni colpa, mostrandosi sollecito a isolare una «mela marcia» al suo interno e ribadendo la propria forza. Chiunque pensasse ancora che Xi Jinping non faccia sul serio, o esiti a consolidare il suo potere, è stato definitivamente smentito.

Corriere 23.9.13
Celle spaziose e tv. La prigione per Vip
di G. Sant.


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Forse, dopo tutto, il «principe rosso» Bo Xilai non pensava all’ergastolo. La settimana scorsa era riuscito a far filtrare una lettera alla famiglia: «Aspetterò in cella che il mio nome sia ripulito da queste accuse false, come fece mio padre», purgato nella Rivoluzione Culturale e riabilitato con Deng. Ma ora Bo, che era abituato ad abiti di sartoria internazionale, dovrà aspettare in una cella per il resto dei suoi giorni. Se non sarà liberato tra una decina d’anni «per motivi di salute», come a volte accade. Dove lo rinchiuderanno? Sulle alture a Nord di Pechino c’è Qincheng, penitenziario con celle speciali per gli alti gradi del partito caduti in disgrazia. Un carcere «di lusso» per gli standard cinesi. Fu costruito con i soldi dei sovietici nel 1958, quando bisognava trovare un posto per i funzionari del regime nazionalista sconfitto nella rivoluzione comunista. Lo chiamarono Progetto Numero 156. Ci finì anche Jiang Qing vedova di Mao e capo della Banda dei Quattro. E ci passò Bo Yibo, il padre di Bo Xilai, purgato nella Rivoluzione Culturale.
Vige un regime di favore per le ex personalità, perché i capi che li hanno fatti condannare non vogliono che siano anche confusi e umiliati con altri detenuti comuni. Chi è stato rinchiuso a Qincheng racconta che le celle per i reclusi eccellenti sono singole, di venti metri quadrati, con bagno separato; si può vedere la tv qualche ora al giorno; sei giorni su sette di ora d’aria. E poi i leader in disgrazia vestono abiti civili. Hanno il vitto speciale, due piatti e una zuppa, una mela come frutta. Un ex detenuto di rango che ci ha passato otto anni, ricorda che «la vita non era terribile, certo la luce era accesa anche di notte per controllarci, ma potevo giocare a scacchi».
Il Progetto Numero 156 fu realizzato dal dirigente di Pechino Feng Jiping, che ci finì dentro quando fu purgato come «controrivoluzionario». E poi disse: «Se lo avessi immaginato, lo avrei fatto costruire meglio».

l’Unità 23.9.13
Rivoluzioni
Donne che scelgono
Rita El Khayat giornalista e psichiatra aprirà mercoledì il «Torino Spiritualità»
di Rita El Khayat


Per sua madre picchiata a sangue da bambina perché chiedeva di imparare a leggere e scrivere
Per sua figlia uccisa a 15 anni da pessimi medici...
Una vita dalla parte dell’universo femminile lottando contro ogni violenza

OGGI SONO STATA IN PISCINA. MENTRE USCIVO UNA DONNA SI È RIVOLTA A ME DICENDO: «Voglio darle un bacio; sono stata una delle sue pazienti...»; era in ottima forma, elegante, sembrava felice o, perlomeno, serena e tranquilla. Ora è in pensione, fa una vita piacevole. È stato un momento denso di significato per me. Il mio lavoro è così duro, così ingrato, che talvolta ho la sensazione di rinunciare alla mia vita e di consumare tutte le mie energie. Ma è la sorgente del mio intero progetto: mi ha permesso di comprendere tutto ciò che riguarda le antiche civiltà e le tradizioni, la condizione e il ruolo delle donne in quei contesti, anche in rapporto ad altri, entrando in contatto con diversi Paesi e Culture. Ha tracciato le mie scelte e gli impegni che ho voluto assumermi personalmente. Ho compreso meglio il «Femminile» quando sono diventata medico, psichiatra, etnopsichiatra e antropologa. È stata la lunga via per imparare a curare le donne in modo efficace, cercando di trasmettere loro il rispetto per se stesse e il senso della propria dignità. Loro affidano a me i loro segreti, parlano dei loro desideri, delle loro frustrazioni e sofferenze. I loro commenti, tutto ciò che mi raccontano, è contenuto nei miei libri, nelle mie lezioni, nelle mie conferenze. È un tributo a tutte loro e alle donne che spesso incontro in altri Paesi. Questo mi dona molto, un dono davvero prezioso, di umanità.
La forza delle storie di queste donne è la mia arma più efficace per scardinare vecchie mentalità, convenzioni e condizionamenti, per far conoscere le cose terribili che sono accadute alle Donne in passato e ciò che accade ancora oggi. Insisto nei miei sforzi per mia Madre, che fu selvaggiamente picchiata all'età di otto anni, perché chiedeva di imparare a leggere e scrivere. Per mia Figlia Aïni, uccisa a quindici anni da pessimi dottori. Devo tenere fede al suo desiderio di un Mondo migliore: «Mamma, aiuta quel bimbo che piange» mi ha detto un giorno, quando aveva dieci anni, sulla spiaggia. «Mamma, perché quei bambini non vanno a scuola?» mi ha detto a sette anni mentre andava a scuola, davanti a Noufissa Zerdoumi dell'Unicef. Per Rosetta, la mia Mammina italiana che mi ha donato la libertà di volare con le ali spiegate al vento, amandomi incondizionatamente.
Fatima, mia madre, picchiata con tanta crudeltà, è come Malala. Io ho ottenuto quattro dottorati. Un giorno, ho capito che ero diventata senza saperlo una studiosa e un'esperta (non riconosciuta dagli uomini nel mio ambiente!) al posto suo. Attraverso di me, lei ha insegnato, curato e aiutato persone. Fatima e Malala hanno sacrificato la loro innocenza, la loro buona volontà, il loro sincero e orgoglioso desiderio di imparare, per una vita diversa in un mondo migliore.
Il 10 marzo 2012, a Larache, sulla costa atlantica nel Nord del Marocco, Amina Filali si è tolta la vita a sedici anni, dopo che il tribunale della città aveva deciso che avrebbe dovuto sposare il suo violentatore. Ho curato molte ragazze violate che hanno dovuto sposare il proprio carnefice: sì, lo stupro è un crimine, essere violentata è qualcosa di semplicemente impossibile da descrivere con le parole. Ingenuamente, ho sempre pensato che il dare in sposa una ragazza violentata al suo stupratore fosse effetto della sentenza di un giudice maschilista. Nel 2005 mi sono trovata di fronte a una ragazza violata di cinque anni, accompagnata dalla Madre e dalla Nonna, entrambe contadine; il giudice aveva detto: «Dovrà aspettare fino a quando non potrà sposarlo»! In effetti, è una legge marocchina. Il sacrificio di Amina ci guiderà verso la Legge «Amina Filali» e cambierà quella che fino a oggi è stata considerata la Legge. La gran parte delle Donne che lottano in silenzio non si conosce. Ma le cose stanno cambiando. C'è qualcosa di profondo nel messaggio che l'Egitto sta inviando al mondo. Aspettiamo e vedremo.
Trasformare drammi come questi in atti politici, cambiamenti di mentalità e delle legislazioni è comunque molto difficile perché da un lato non c'è un terreno comune che unisce le popolazioni di tutto il Mondo. Quando ero in Messico nel giugno 1975 per il lancio dell'Anno delle Donne, sembrava facile poter cambiare le cose, grazie all'onda lunga del Femminismo. Oggi, ogni Paese chiede per sé leggi specifiche, afferma la propria mentalità, coltiva un suo credo. O lo consideriamo come un problema mondiale che impedisce all'Umanità di progredire, o altrimenti è una ferita che non si può sanare una volta per tutte. Sfortunatamente, assistiamo a un robusto ritorno di correnti reazionarie nelle cosiddette società tradizionali, che rifiutano la Modernità e fanno lo slalom in un pantano di presunta Democrazia.
La storia di Malala, di Amina e di altre hanno fatto il giro del mondo in poche ore. Perché l'informazione oggi è istantanea e raggiunge il Villaggio Globale. Si parla di Primavera Araba ma è un modulo all'occidentale e non ha nulla a che vedere con quei paesi e quei popoli, è qualcosa di inventato dai giornalisti occidentali, che sono lontani dall'aver compreso la situazione profondamente e correttamente. Si parla di donne arabe e rivoluzione, ma questi movimenti non sono rivoluzioni, secondo me. Una rivoluzione è altro, ha bisogno di leader, teorie politiche e obiettivi. (...) Per cambiare davvero lo stato delle cose, come ho dichiarato in Messico durante l'Anno delle Donne, uno stato deve essere in grado di offrire un buon livello di educazione, di salute e giustizia a tutti i suoi cittadini, incluse le bambine e le giovani donne, oppure è condannato a essere un'arida distesa di consuetudini arcaiche e feudali, pessime condizioni per i suoi abitanti di genere femminile, dove un ristretto gruppo di ricchi sarà circondato dalla totale miseria.

Cinque giorni di incontri lezioni e letture

Dal 25 al 29 settembre torna «Torino spiritualità» dedicato al «Valore della scelta». Apre l’incontro Elias Chacour, arcivescovo della comunità israelo-palestinese impegnato per la pace, la scrittrice turca Esmahan Aykol, che ha dato voce al desiderio di cambiamento di piazza Taksim, la psichiatra e antropologa candidata al premio nobel Rita El Khayat, da sempre impegnata per i diritti e la libertà delle donne del mondo arabo. Partecipa Domenico Quirico, inviato de «La Stampa» rientrato in Italia dopo cinque mesi di prigionia in Siria.

Pietro Ingrao invece puntava sulla spaccatura della Dc
Repubblica 23.9.13
Storia di un compromesso
Quando Berlinguer avviò il dialogo con la Dc
“Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” è la serie di tre articoli di Berlinguer apparsi dal 23 settembre 1973 su Rinascita che coniano il “compromesso storico”
Dal 23 settembre 1973, quarant’anni fa, il segretario del Pci pubblicò su “Rinascita” una serie di articoli che scatenarono polemiche, ma cambiarono la scena politica italiana
di Filippo Ceccarelli


A quarant’anni di distanza i nodi della storia si sciolgono senza smettere di aggrovigliarsi. Per cui dinanzi all’anniversario del compromesso storico, la formula coniata da Enrico Berlinguer al termine di tre successivi articoli pubblicati su Rinascita tra il 23 settembre e il 12 ottobre con il titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, l’irresistibile tentazione è di far partire il ricordo da come era ridotta l’automobile, enorme e sgraziatissima berlina della nomenklatura, dopo lo spaventoso incidente mentre portava il segretario del Pci all’aeroporto di Sofia.
Le foto si vedono inSofia 1973: Berlinguer deve morire,di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti (Fazi, 2005). Era il 3 ottobre, a missione conclusa, e in quel groviglio di vetri e lamiere rese informi da un camion militare, Berlinguer riportò diverse contusioni, ma volle ripartire lo stesso. Allora in diversi, anche molto vicini a lui, maturò il sospetto, reso noto da Emanuele Macaluso nel 1991, che i bulgari avessero tentato di fargli la pelle. Perché troppo “indipendente” dalla casa madre del comunismo.
Ma quel 3 ottobre né l’intransigente leader bulgaro Todor Zhivkov, né le varie correnti del Kgb sapevano ancora nulla del compromesso storico. Eppure, grazie proprio a quel misterioso incidente, una volta rientrato inItalia, il leader comunista si mise a riposo, anzi a letto, dove con calma, «rassegnato all’immobilità » come raccontò poi a Vittorio Gorresio, ebbe modo di finire la seconda puntata e di scrivere per intero la terza, nel cui ultimo capoverso è presente la fatidica espressione.
Dietro quelle due parolette c’era un mondo oggi del tutto sparito e in parte anche dimenticato, se non rimosso. Il golpe cileno, i colpi di Stato, l’imperialismo americano. Ma nel retroterra non era difficile avvertire la lezione “geniale” di Lenin, più volte richiamata nel testo. Poi la duttilità dottrinaria di Gramsci. Quindi la tradizione del realismo togliattiano alla luce dell’elaborazione di Franco Rodano secondo il quale la “rivoluzione” era da intendersi in Occidente come un processo interno allo sviluppo della democrazia. Anche in questo senso avere il 51 per cento, come Allende, non serviva più, o non serviva ancora.
C’era infine un’attenzione assai viva al mondo cattolico, alle gerarchie ecclesiastiche, al Vaticano, alla Dc, i cui continui sommovimenti vedevano in quello scorcio prevalere una composita maggioranza di centrosinistra. Ma soprattutto c’era Aldo Moro, che in estate a proposito della “difficile democrazia” italiana con linguaggio ispiratissimo aveva annunciato: «Non noi, con la nostra volontà, ma la storia stessa, l’evoluzione e i movimenti dello spirito umano potranno forse, in tempi imprevedibili, modificare questa situazione».
Per la cronaca: c’erano in quel momento anche il colera, Amarcord,rivolte nelle carceri e Jesus Christ superstar. Tonino Tatò, che aveva il senso della solennità e di Berlinguer era l’angelo custode, ha poi descritto nei dettagli il momento preciso in cui il compromesso storico venne al mondo, durante la convalescenza: «Lui sta seduto in pizzo in pizzo alla poltroncina, dinanzi al tavolo tondo del soggiorno, in canottiera, pantaloni di flanella, pianelle di cuoio ai piedi, sigaretta accesa tra le labbra (allora fumava le Turmac rosse), occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo, biro con inchiostro nero nella mano destra,davanti a parecchi fogli».
Ha quasi finito, ma l’ultima frase è tanto decisiva quanto incompiuta. Tatò chiede il foglio e legge: «La gravità dei problemi, le minacce incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo un...». È qui che Berlinguer si è fermato. Ma la parola che gli ronza in testa è sempre quella: “Compromesso”. Solo, occorre affiancarla con un attributo che le assegni «un senso di durata strategica». Inutile rimarcare che a quei tempi le parole, in politica, avevano molto più peso di oggi.
Quando il compromesso storico venne fuori, non fu accolto con benevolenza dai più attenti osservatori. «Formula infelice», decretò Gorresio; «vaga e rozza», scrisse Enzo Forcella. In un incontro con gli studenti lo stesso Berlinguer riconobbe che si trattava di un’espressione provocatoria usata anche per «destare attenzione». Questo in effetti accadde. Poco dopo, incontrando a Ravenna gli operai dell’Anic, gli disse uno di loro che sull’autobus la mattina non si parlava più di calcio, ma di compromesso storico. Tutto lascia pensare che Berlinguer abbia risposto con uno dei suoi indimenticabili sorrisi. Per cui: «Io non credo che sia proprio così, credo che si parli ancora e anche di calcio», d’altra parte non c’era niente di male e anche lui — ma in verità disse “anche noi” e non era plurale maiestatis, ma il più profondo sintomo d’identificazione — parlava di calcio.
A pensarci bene, dopo tanti anni, il compromesso storico teneva insieme due termi-ni in contrasto fra loro. Nella retorica questa figura ha il nome di ossimoro. Ma non solo per questo dispiacque, oltre che al Psi, anche nello stesso Pci. Giorgione Amendola, che guardava ai socialisti, e Pietro Ingrao, che puntava sulla spaccatura della Dc, rimasero perplessi. Luigi Longo, il presidente del partito, disse chiaro — e suonò inaudito — che la formula non gli piaceva «e non so nemmeno se rende bene l’idea». Avrebbe preferito, con Gramsci, «blocco storico» — ma a quel punto era un’altra cosa. Sia come sia, Maurizio Ferrara diede poi alle stampe, in sonetti romaneschi, Er compromesso rivoluzzionario.
Più tardi il Bagaglino mise in scenaI compromessi sposi.Ma quando intorno al 1975 partì la solidarietà nazionale, dal terreno coniugale la faccenda scivolò sul piano orgiastico con “l’ammucchiata”.
Rilette oggi, le “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” colpiscono per l’intuizione di un leader che guardava molto in là, ma forse proprio per questo dovettero suscitare parecchi timori, anche molto lontano dall’Italia. Nelle sue asciutte argomentazioni ideologiche il compromesso storico era una proposta politica ragionevole, però al tempo stesso una via di palingenesi. Si presentava come il massimo della continuità, ma insieme innescava una novità esplosiva. E soprattutto arrivava troppo presto, eppure forse era già troppo tardi. A riprova che non solo la politica, ma anche la storia, con i suoi nodi e garbugli, e in fondo la vita stessa vivono, se non di ossimori, di cose molto complicate e solo in apparenza inconciliabili. L’orrido “inciucio” era comunque molto di là da venire.

Corriere 23.9.13
Nerval bracca la regina di Saba nei labirinti dell'orientalismo
Il viaggio dall'Egitto a Costantinopoli e il ritorno del mito
Finì errante e suicida dopo essere passato di clinica in clinica
di Pietro Citati


Il 1° gennaio 1843, Gérard de Nerval partì per l'Oriente. Voleva cancellare il ricordo delle crisi di follia che dal febbraio al novembre 1841 l'avevano rinchiuso in due case di cura per malattie mentali. Lo dicevano pazzo. Non era pazzo, sosteneva Nerval: o almeno, la sua cosiddetta pazzia, gli permetteva di scrivere, di lavorare, di viaggiare e di comprendere moltissime cose, che i cosiddetti «sani» non comprendevano. Scriveva al padre, Étienne Labrunie, lettere di un'intensissima tenerezza. Nel padre vedeva riflessa la madre, che era morta quando egli aveva due anni, nel novembre 1810, ed era stata sepolta nel cimitero cattolico di Gross-Glogau, in Polonia. Egli sognava di continuo la madre: la vedeva rispecchiata in Iside, Maria, la regina di Saba, nelle donne amate; andava a visitare la sua tomba; ed era rimasto «il Vedovo, l'Inconsolato … il principe di Aquitania dalla Torre abolita». Il padre non lo amava, e rifiutò sempre di prendersi cura di lui, nemmeno quando era poverissimo e disperato.
Il 16 gennaio Nerval arrivò ad Alessandria d'Egitto: il 7 febbraio al Cairo, dove rimase fino al 2 maggio, e di lì, attraverso la Siria, giunse a Costantinopoli il 26 luglio. Fu la rivelazione del sole: «Veramente il sole è molto più brillante in Egitto che nel nostro paese: mi sembra di aver visto questo soltanto nella prima giovinezza, quando gli organi erano più freschi». Se continuava a vivere sulle rive dell'Asia, risaliva il corso del tempo, e aveva soltanto vent'anni. Ma, per lui, non poteva esistere la pura visione del sole. Qualche volta il sole d'Egitto sembrava far fatica a sollevare le lunghe pieghe di un lenzuolo funebre grigiastro, e appariva pallido, come Osiride sotterraneo. Ricordava la stampa di Dürer: «Il sole nero della melanconia che versa dei raggi oscuri sulla fronte dell'angelo sognante di Alberto Dürer, a volte si leva anche sulla pianura luminosa del Nilo, come sui bordi del Reno, in un freddo paesaggio della Germania». Il sole nero della malinconia è il cuore del romanticismo tedesco e francese: discende da Jean Paul, a Gautier, fino a Nerval, Hugo, Baudelaire, Rimbaud, per riemergere nella Recherche.
Il viaggio in Oriente si chiuse con una rinuncia all'Oriente. Alla fine dell'agosto 1843, tre mesi prima di ritornare in patria, Nerval scrisse una lettera a Théophile Gautier. «Tu, tu credi ancora all'ibis, al loto di porpora, al Nilo giallo; tu credi alla palma di smeraldo, al nopal, forse al cammello… Ahimè, l'ibis è un uccello selvaggio, il loto una cipolla volgare; il Nilo è un'acqua rossa dai riflessi d'ardesia, la palma ha l'aria di un piumino gracile, il nopal è soltanto un cactus, il cammello non esiste che nella condizione del dromedario». Il Cairo vero, l'Egitto immacolato, l'Oriente fuggitivo, Nerval li conosceva prima di averli percorsi: il vero Oriente lo portava in cuore e nei balletti dell'Opéra, che tanti anni prima aveva visto insieme a Gautier. Pagina meravigliosa che riassume Nerval e l'Ottocento.
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All'inizio del 1851, sette anni dopo il ritorno da Costantinopoli, Nerval firmò un contratto con l'editore Charpentier per il Viaggio in Oriente. Voleva denari. Raccolse moltissimi articoli che aveva pubblicato sulle riviste e i giornali: pagine di viaggio, riflessioni, ricordi, racconti, pagine poetiche, romanzi. Ci lavorò sei mesi. Alla fine dalle sue cure amorose nacque un fittissimo e bellissimo libro, dove tutte le pagine si rispondevano e si richiamavano. Nel 1850 aveva pubblicato sul «National» la Storia della regina del mattino e di Solimano principe dei geni, attribuendola ironicamente ai narratori che declamano i loro racconti nei caffè di Costantinopoli. La inserì nel Viaggio in Oriente, e la ristampò nel 1853, sul «Pays», sotto il titolo: La regina di Saba. In questi giorni, la seconda redazione, molto simile alla prima, esce da Adelphi, con l'introduzione e la traduzione (entrambi eccellenti) di Giovanni Mariotti (pp. 200, € 14).
La prima fonte della Regina di Saba è la Genesi. L'autore della Bibbia disegna le due razze dell'umanità. La prima, quella di Adamo, genera Set, Enosh, Qenan, Lamec fino a Noè. La seconda, quella di Caino, genera Henoc, Irad, Jabal, Jubal, Tubal-Caino: tra di essi c'è il «costruttore di città», il «padre di tutti quelli che suonano la cetra e il flauto», il «fabbro, padre di quelli che forgiano il rame o il ferro»; dunque i creatori dell'architettura, della musica e della scultura discendono esclusivamente dal primo assassino della storia. Qualcuno ha supposto che, insieme a Caino, la Bibbia, nel sogno della pura agricoltura, condanni tutte le arti. Non è vero: i grandi artisti cainiti, Henoc, Jubal, Tubal-Caino sono innocenti. La razza di Caino non è segnata dalla terribile colpa del predecessore.
Secondo la Regina di Saba, le tradizioni sono diverse. I Figli del Fango discendono da Adamo ed Abele, e sono protetti da Geova: i Figli del Fuoco discendono da Eblis (il satana arabo), da Caino e da Tubal-Caino. I Figli del Fango hanno il potere e la gloria terreni: sono vanitosi, arroganti, senza sostanza, fintamente saggi; soltanto alla fine del racconto, Solimano diventa signore degli uccelli e dei geni. I Figli del Fuoco hanno una specie di apoteosi nella figura di Adoniram, un grande architetto e fabbro, una specie di Michelangelo orientale. Egli cerca di ripetere le sculture delle origini preadamite: guidato da Tubal-Caino, scende nel cuore della terra, dove si incontra la stirpe di Caino ed è possibile nutrirsi con i frutti degli alberi paradisiaci. Solo col suo genio, Adoniram incarna la solitudine, l'esclusione, la dispersione, il vagabondaggio, il sapere, il disprezzo, la speranza: il suo ultimo figlio è Gérard de Nerval, che intitola alla sua razza un libro di racconti, Le figlie del fuoco.
La regina di Saba, da cui il libro prende il titolo, aveva abitato tutta la vita di Nerval: egli aveva cercato di ritrovare l'immagine della divinità dei suoi sogni, rappresentandola su un foglio, impregnato del succo di una pianta. Era stata la madre, Iside, Maria, la donna dell'Apocalisse, pronta a salvare il mondo, e le sue amate misteriose e infantili. Ora, qui, la regina di Saba ha «una maestà di dea, la malia di una bellezza inebriante, e un corpo flessuoso». Mentre gorgheggia con Solimano e Adoniram e civetta mostrando il suo piedino, ci ricorda sopratutto un'attrice di teatro, che abbia salito le scene negli anni di Nerval. Ma tutto, nella Regina di Saba, sa di teatro. Come scrive Giovanni Mariotti, non è nella Gerusalemme di Solimano che ci troviamo, ma a Parigi, negli anni tra il 1840 e il 1850, al teatro dell'Opéra: in un capolavoro di Meyerbeer, con recitativi, arie, cori, balletti, bellissime scenografie pronte ad accogliere i grandi movimenti di folla.
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Quando era giovane, i suoi amici — Alessandro Dumas, Théophile Gautier e Auguste de Belloy — parlavano di Nerval con un «ricordo dolce e leggero come un profumo». Aveva un viso bianco e rosa pronto a arrossire come una fanciulla, ravvivato da occhi grigi, che l'intelligenza animava di una scintilla dolcissima. La fronte alta, che si intravedeva sotto i bei capelli biondi ed esili, era levigata come l'avorio e la porcellana. Quando usciva, portava di solito una specie di finanziera di stoffa nera e lucida con ampie tasche, da cui straripava una biblioteca di libricini racimolati qua e là, cinque o sei taccuini di appunti, nei quali scriveva, con una scrittura sottile e fitta, le idee che gli balenavano durante le lunghe passeggiate. Nulla eguagliava la dolcezza del carattere di Nerval: la grazia, la distanza, la benevolenza, la modestia; il silenzio o, meglio, il silenzio sopra sé stesso. La sicurezza della sua parola era tale che nemmeno nei periodi di follia gli sfuggì mai una parola compromettente. Quando, negli ultimi anni, dovette lottare contro le necessità più crudeli della vita, il suo comportamento sorridente, la sua conversazione sempre lieta, mai distratta, non lasciavano trasparire le sue terribili angosce.
Gli anni si seguirono velocissimi, seguiti dal nome delle case di cura che proteggevano la mite follia o il «delirio furioso» di Nerval: febbraio-novembre 1841: maggio 1849: giugno 1850: settembre-novembre 1851: gennaio-febbraio 1852: febbraio-marzo 1853: agosto 1853-maggio 1854: agosto-ottobre 1854; spesso nella clinica del dottor Esprit Blanche e di suo figlio Émile. Il 19 ottobre 1854 riuscì a uscire dalla clinica Blanche di Passy, grazie all'intervento di alcuni amici. Sebbene fosse trattato come un famigliare, Nerval non sopportava l'isolamento e l'internamento, che lo rinchiudevano nel cerchio troppo stretto delle sue ossessioni. Aspettava un beneficio soltanto dai viaggi e dalle passeggiate: nell'estate 1854 fu in Germania e forse in Polonia. Il dottor Blanche lo raccomandò ai parenti. Il padre rifiutò di occuparsene. La zia Labrunie si impegnò a riceverlo a casa sua a Passy, fino a quando non avesse trovato casa. In realtà, Nerval fuggì qualsiasi controllo, abitando nei piccoli, miserabili alberghi di Parigi e di Saint-Germain.
La cosa straordinaria, e quasi incomprensibile, è che proprio negli ultimi mesi, passati tra un delirio e un altro, errante, vagabondo, dolcemente disperato Nerval abbia scritto il suo capolavoro: Aurélia, pubblicato in parte dopo la sua morte. L'inizio dice: «Il Sogno è una seconda vita. Non ho potuto oltrepassare senza fremere quelle porte d'avorio o di corno che ci separano dal mondo invisibile. I primi istanti del sonno sono l'immagine della morte»: pagina meravigliosa, da cui Proust trasse l'inizio, ugualmente meraviglioso, della Recherche. Aurélia è stato composto in una zona altissima, superiore alla ragione e alla follia, che domina e bagna di sé sia i campi beati e furiosi della Follia, sia quelli aguzzi e lancinanti della Ragione.
Degli ultimi mesi e giorni di vita ci è rimasto qualche ricordo, innocente e tremendo. Il 24 ottobre 1854, appena uscito dalla casa di cura, scrisse a Antony Deschamps, anche lui curato dal dottor Blanche: «Mio caro Antony, tutto è compiuto. Non ho più da accusare che me stesso e la mia impazienza, che mi ha fatto escludere dal paradiso. Ormai lavoro nel dolore». Il 24 gennaio, due giorni prima del suicidio, scrisse alla zia Labrunie: «Mia buona e cara zia dissi a tuo figlio che sei la migliore delle madri e delle zie. Quando avrò trionfato di tutto, tu avrai il mio posto nel mio Olimpo, come io il mio posto nella tua casa. Questa sera non mi attendere, perché la notte sarà nera e bianca». Il 20 gennaio Gautier e Du Camp lo videro alla «Revue de Paris» senza cappotto. Il 24 gennaio passò la sera da un'attrice e la notte all'aperto. Il 25 gennaio si fece imprestare sette soldi da Asselineau e si presentò al Théâtre-Français. Cenò in un cabaret delle Halles. C'erano diciotto gradi sotto zero. Sulle strade cadeva la neve, mentre Nerval attraversava la città senza cappotto.
Del suicidio di Nerval conosciamo sopratutto i luoghi reali e fantastici, come li raccontava Alessandro Dumas. La rue de la Tuerie, la rue de la Vieille-Lanterne: una scala vischiosa e stretta con una rampa: la bottega di un fabbro che aveva per insegna una grossa chiave dipinta in giallo, un corvo (certo, quello di Poe in Nevermore), che faceva sentire non il suo grido abituale, ma un fischio acuto: una fogna a cielo aperto, chiusa da due griglie: un losco hôtel garni (forse lì a mezzanotte, bussò Gerard, senza essere accolto): una scuderia, che durante la notte dava rifugio agli sventurati troppo poveri per dormire all'hôtel garni; la crociera di ferro di un seminterrato, a cui era legato un laccio. Lì il venerdì 26 gennaio 1855, alle sette e tre minuti del mattino, giusto nell'ora in cui si levava l'alba glaciale, qualcuno trovò il corpo di Gérard ancora caldo. Aveva il cappello in testa; e in tasca le ultime pagine di Aurélia.
L'agonia fu dolce, perché il cappello non gli cadde dal capo. Arrivò un commissario di polizia: un medico gli praticò un salasso; ma Nerval non aprì gli occhi né gettò un sospiro. Il luogo era vicino alla Morgue, dove il cadavere fu deposto accanto a quello di una ragazza, che si era lasciata cadere nella Senna per disperazione d'amore.
Il 1° gennaio 1856, la «Revue de Paris» pubblicò la prima parte di Aurélia. Qualche giorno dopo il redattore incaricato ricevette il manoscritto della seconda parte con l'indirizzo di un alberghetto di rue Saint-Honoré, dove inviare le bozze. Dopo il suicidio le bozze ritornarono alla «Revue de Paris», accompagnate da una nota secondo la quale il destinatario era sconosciuto in quell'albergo. Nerval avrebbe amato moltissimo questa storia, con la sua ultima apparizione-sparizione dalla terra.

Corriere 23.9.13
Il linguaggio del corpo comunica senza parole
Baciare, piangere, salutare: i gesti sono un frasario
di Gillo Dorfles


Il significato dei gesti corporei ha da sempre interessato gli studiosi — psicologi, antropologi, letterati — (penso alle sottili interpretazioni di un Erving Goffman), ma il problema, in apparenza futile, non può cessare di interessare, perché di generazione in generazione si assiste a un costante mutare delle tipologie di questo frasario corporale, con l'avvento di nuovi segni, nuove posture, la scoperta di segni «ormai caduti in disuso» (basta pensare al baciamano per provarlo). Tuttavia il rapporto tra il movimento e gli atteggiamenti delle strutture corporee — soprattutto di mani, braccia, testa — e in generale di tutta la corporeità umana, non è mai stato totalmente trascurato anche se una «grammatica gestuale» non sarà mai in grado di spiegare perché tanti tentativi di fare coincidere la gestualità con un preciso significato semantico sono quasi sempre falliti.
Penso al caso di Euritmia di Rudolf Steiner e di sua moglie Marie Von Sievers che vollero far coincidere ogni movimento delle braccia e delle mani con le singole lettere dell'alfabeto o le note di un brano musicale; non solo ma addirittura con i valori semantici dei segni zodiacali, senza tuttavia giungere ad una semantizzazione del tutto convincente. Ovviamente è indubbia l'efficacia dell'euritmia (ma sempre che l'esecutrice abbia le innate qualità artistiche per trasformare una ginnastica segnica in una effettiva realizzazione estetica). Certo i segni più noti a chiunque anche se non sempre ben individuati sono quelli del bacio, del pianto, dell'espressione esplicita del dolore, della disperazione che non hanno bisogno di essere interpretati per essere riconosciuti da ognuno; come le diverse forme legate al bacio, alla lacrima, allo sbadiglio e in generale ai movimenti corporei della personalità umana.
Un interessante e vivace saggio di Claudio Franzoni (Da capo a piedi. Racconti del corpo moderno) compie una analisi davvero esemplare dei diversi gesti corporei, indagando la natura, la costanza, la sparizione degli stessi e giunge a conclusioni quanto mai attendibili circa la ineluttabilità di questi messaggi corporei e della loro differenziazione nei diversi ambiti culturali ed etnici. Ecco, ad esempio, a questo proposito certi tipi di differenziazioni a seconda dell'appartenenza a un determinato ambiente sociale e addirittura a una diversa nazionalità. Un esempio che mi sembra tipico è quello del «Pfuj» tedesco: espressione di disgusto spesso accompagnata da un movimento della mano, con espressione di stizza, verso l'esterno del corpo.
Altrettanto si potrebbe dire come dei gesti ancora più familiari come quello delle mani sventolate nel salutare qualcuno da lontano che viene eseguito con le dita piegate verso l'interno nel nostro Paese, mentre consiste in un agitare orizzontale in parecchie nazioni estere (la seconda tipologia è divenuta costantemente di moda dopo l'avvento dell'esercito americano in Italia durante la guerra). Ma gli esempi etnici potrebbero continuare; penso anche a considerare l'importanza della loro integrazione in tutti i casi di immigrazione da un Paese all'altro. Oltre ai particolari movimenti delle diverse sezioni corporee, non si dimentichi il significato che assumono alcuni atteggiamenti cui partecipa l'intero corpo umano: così ad esempio l'incurvarsi della schiena, il sollevarsi delle spalle, il ritmico ondeggiare di una gamba sovrapposta all'altra, l'oscillare del capo nel senso di diniego o di dubbio e altre decine di movimenti legati all'affetto, alla devozione, al risentimento e al dispetto e via dicendo che trasformano il nostro corpo in un vero e proprio «semantizzatore» delle nostre opinioni ed emozioni ed è sorprendente come la maggior parte di questi atteggiamenti vengano spontaneamente appresi sin dalla prima gioventù con quel tipico esempio di imitazione corporea che, come noto, è stato ben analizzato attraverso l'analisi dei cosiddetti «neuroni a specchio»; come, per esempio, quando la vista di un determinato atteggiamento in un individuo ci induce a una imitazione dello stesso quasi per un involontario impulso coercitivo.
Non ho bisogno di aggiungere che molti di questi movimenti e atteggiamenti spontanei hanno una loro precisa connotazione: si pensi al significato del pugno chiuso e minaccioso, della mano allargata ad accarezzare, dalla lingua sporta in segno di disprezzo, del pollice rinchiuso tra indice e medio col ben noto significato scurrile e tutto ciò naturalmente comprendente i più intimi segni dell'affetto, sia nel bacio amoroso che di semplice devozione o di sottomissione filiale. Moltissimi dei modi di dire e delle comuni espressioni linguistiche si riallacciano ai segni corporei: allungare l'indice ad indicare alcunché, camminare a testa alta, in punta dei piedi, sovrapporre le proprie gambe, e decine di altri atteggiamenti non fanno altro che rendere più esatta e comprensibile quella grammatica corporea che non ha bisogno di essere espressa attraverso la parola, ma che pertanto non ha cessato di arricchire il nostro linguaggio letterario attraverso una serie di espressioni verbali direttamente derivate dai movimenti della nostra corporeità.
Forse non riusciremo mai a identificare a fondo i nostri gesti corporei con le più nascoste vibrazioni della nostra interiorità; ma certamente le nostre mani non sono — non saranno mai — pronte soltanto ad afferrare o a respingere, ma anche ad accarezzare e a benedire.

Il libro: Claudio Franzoni, «Da capo a piedi. Racconti del corpo moderno», Ugo Guanda Editore, pp. 215, 20

Corriere 23.9.13
Haber-Boni e l’intruso «Così anche Freud può incontrare Dio»
I due attori interpretano «Il visitatore»
di Emilia Costantini


ROMA — Alessandro Haber si passa la mano sulla barba incolta, si arruffa i capelli, si dimena sulla sedia: «Sono in crisi, non ce la faccio, il testo è troppo lungo, troppe battute, non ho memoria!». Alessio Boni, anche lui con la barba lunga e ben pettinata, non si scompone: «Non rompere le scatole. La crisi la superi. La memoria? Devi applicarti!».
Assistendo alle prove de Il Visitatore (la pièce di Éric-Emmanuel Schmitt che, interpretata dalla coppia Haber-Boni con la regia di Valerio Binasco, debutta il 6 novembre al Franco Parenti di Milano), si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una seduta psicoanalitica, più che a uno spettacolo. Siamo nella Vienna del 1938 occupata dai nazisti. Nello studio di Sigmund Freud (Haber), la Gestapo ha appena arrestato la figlia del celebre psicoanalista. Lui è malato di cancro e sente il fiato della morte addosso, ma soprattutto è angosciato dalla sorte che potrebbe toccare alla sua Anna. All’improvviso dalla finestra spunta un inaspettato visitatore (Boni).
Il grande indagatore dell’inconscio è infastidito e al tempo stesso incuriosito da quella presenza inquietante. E tra i due parte un dialogo serrato. Ben presto Freud, che da sempre si professa ateo, capisce di avere davanti nientemeno che Dio. «Lui che ha negato Dio — si accalora Haber — definendolo un’invenzione degli uomini, si trova davanti al mistero della trascendenza ed è costretto a porsi dei quesiti estremi». Interviene pacato Boni: «Schmitt, nel suo libro autobiografico La mia storia con Mozart , racconta di quando appena quindicenne, in preda a una profonda depressione, stava meditando di suicidarsi, ma il suo casuale incontro con la musica di Mozart lo fece rinascere, aveva scoperto la bellezza. Secondo me il Visitatore rappresenta la necessità dell’essere umano di dare un senso all’esistenza. E lo spettacolo diventa una sorta di terapia di gruppo con il pubblico in sala».
Insorge Haber: «La vita è una malattia mortale e, siccome l’ateo non ha il beneficio della fede, deve avere più coraggio per vivere!». Ragiona Boni: «La religione è un mantra interiore, o ci credi o non ci credi. Io a 10 anni ho scoperto l’importanza della vita: avevo paura persino di addormentarmi la sera perché temevo di non risvegliarmi più».
«Mio padre era ebreo — racconta Haber — e, quando vivevamo a Tel Aviv, un giorno a scuola feci una cosa molto brutta a un compagno che mi era antipatico: di nascosto gli feci lo sgambetto, lui cadde, vidi il sangue... Nessuno si era accorto che ero io il colpevole, ma mi sentii come Caino e ammisi la mia responsabilità». È proprio una seduta psicoanalitica. I due attori non si risparmiano la verità. «Alessio è troppo perfetto: si arrabbia se non so la parte, se fumo durante le prove...». Ride Boni: «E tu sei autoreferenziale, hai un ego smisurato». Poi però Haber ammette: «Sei un compagno di scena impagabile: sempre disponibile, comprensivo». E Boni: «E tu sei generoso». Questa è terapia pura, altroché teatro.

il Fatto 23.9.13
Personaggi del Gra
“Mi attaccano tutti perché oso sperimentare
Dalle porte in faccia alla vittoria a Venezia. Vita e avventure impossibili di Gianfranco Rosi, regista di Sacro Gra
“Mi sono giocato due matrimoni per i film”. Mentre tanti lo criticano, lui batte i colossal
di Malcom Pagani


La camicia è lisa: “Ma è proprio la stessa che indossavo la sera della premiazione”, i ricordi strappati: “Ho abitato in Africa fino all’età di 12 anni, un periodo difficile, legato alla malattia di una persona cara”, la vita solo un passaggio di tempo tra un’ossessione e l’altra. Il signor Gianfranco Rosi di cui nulla si sapeva e non molto altro si saprà: “Mi piace l’anonimato, considero la solitudine un valore e della mia intimità racconto sempre molto poco” studia, decide e poi parte: “Come un medico, con uno zaino per il suono e una cinepresa in spalla”. Da due decenni, con riconoscimenti internazionali inversamente proporzionali alla fama indigena, Rosi filma stagioni darsi il cambio in una vecchia base americana abbandonata, monsoni e barcaioli sulle rive del Gange, torturatori seriali con il cappuccio e nobili decaduti a loro agio in 15 metri quadri. Osserva e poi, con la stessa distratta curiosità che gli ha restituito un Leone d’oro quando disperavano ormai anche i parenti, lascia il mondo per abitare altrove. Animando quadri straordinari. Accumulando materiale, smarrendo i punti cardinali, fluttuando tra alberghi di frontiera, roulotte nel deserto e confini immaginari.
A mezzo secolo dalla conquista lagunare dal suo omonimo Francesco: “Non ci conosciamo neanche”, le mani sulla città (incorporea, invisibile, costretta ai bordi del Raccordo anulare) le ha messe il Rosi fino a ieri meno noto. Con un film “francescano” che a differenza dell’affresco napoletano del’63, non specula sul mattone ma sull’esistenza. Nel SacroGra premiato in laguna da Bertolucci (producono Visalberghi, Rai Cinema e Mibac) nuotano esseri umani che indossano la marginalità come un abito di sartoria. Barellieri, puttane, botanici, becchini. Automobilisti improvvidi lanciati a tutta velocità contro un guardrail e filosofi travestiti da pescatori di anguille sulle rive del Tevere. Sacro Gra è la bandiera dei vinti che rifiutano di lamentarsi. La riserva indiana di un istinto popolare che applica la pietà e del pietismo, se ne fotte. Il perimetro di un’enclave nascosta che rielabora la propria biografia: “Il regista è un po’ come l’analista, ascolta i suoi pazienti, che gli raccontino o meno balle è relativo. La verità non è poi così interessante e come diceva Calvino, si manifesta nell’attimo in cui ti volti e la cosa che hai visto, all’improvviso, non c’è più”.
Intorno ai 70 chilometri dell’autostrada urbana più lunga d’Italia, nel rutilante Saturno che abbraccia Roma: “Il suo orrore e anche il suo incubo”, Rosi ha scoperto la saldatura adatta al suo anello. L’ha scovata nelle pause, nei silenzi inattesi e nel sogno perché-dice in un pomeriggio romano di sigarette esorcizzate senza convinzione-“fumo troppo, dovrei smettere”, suonatori ambulanti, sirene e caldo innaturale: “La dimensione poetica dei miei personaggi non è data dal mio sguardo, ma dal loro. Gente che ha in comune una fortissima identità in uno spazio che ne è privo”.
Sacro Gra le cambierà la vita?
Non cambierà il mio modo di guardare o rapportarmi al lavoro. Ma sarà più facile iniziare un progetto, trovare il denaro per girare e forse, messa nell’angolo la timidezza, bussare a qualche porta finora inaccessibile. Mi piace molto insegnare. Per ora ho potuto farlo soltanto a Ginevra. Fino a ieri quando mi presentavo e scorrevo la lista dei miei film, trovavo sorrisi di circostanza e ammissioni sincere: “Non li abbiamo visti”. Dopo il Leone d’Oro ho ricevuto proposte da San Francisco, dalla Russia e dall’Australia. Da qualche parte andrò.
Se la chiamasse il Centro Sperimentale?
Risponderei con entusiasmo. Per ora, in 20 anni, con l’eccezione di un bellissimo periodo aquilano nei mesi del post-terremoto a cui il Centro contribuiva, non è mai accaduto.
Lei lavora con costi ridottissimi.
Osservando un’inquadratura molto particolare, una finestra ripresa dal di fuori, Le Monde ha scritto: “Si vede che dietro il Gra di Rosi c’è un budget considerevole”. Mi è venuto da ridere. In realtà ho girato quella scena da una scala d’emergenza, appoggiando semplicemente la telecamera. Sacro Gra è un piccolo film giocato, non solo economicamente, su sospensione e sottrazione. Non è costato quasi nulla e se escludiamo le persone che hanno avuto la generosità di farsi riprendere, alla realizzazione ha lavorato una troupe minuscola. Io, il produttore creativo Dario Zonta, preziosissimo, il mio aiuto regista, Roberto Rinalduzzi, Riccardo Spagnol, Giuseppe D’Amato, Fabrizio, Federico, tutti i ragazzi della postproduzione e Jacopo Quadri, il sapiente montatore di tutti i miei lavori. Un artista con il quale a seconda delle lune, litigo e poi faccio pace. Quando inizio un’opera, desidero una cosa sola.
Quale, Rosi?
Non sapere mai dove mi porterà. Amo il documentario perché permette una libertà impagabile e offre infinite strade per sperimentare. Domani posso partire senza produttori, soldi, legami o obblighi che non siano quelli di perseguire l’idea iniziale cercando un linguaggio sempre nuovo. È percorso molto lungo, legato alla scoperta e all’avventura. Per Boatman ho vissuto in India 5 anni. Per Below sea level, 4 nel deserto.
Ora, per “Sacro Gra”, 24 mesi sul raccordo.
Un labirinto da cui uscire o da cui, al contrario, non uscire mai. Proprio sul Raccordo, quell’uomo meraviglioso di Renato Nicolini mi sussurrò una traccia: “Lascia che il Gra si apra e diventi una rete infinita”. Aveva ragione. Il mio Raccordo doveva perdere la mappatura originaria di Niccolò Bassetti, l’urbanista che per primo ebbe l’idea del film e camminò per 300 chilometri cercando di coglierne le contraddizioni. Doveva volare per liberarsi e restituire altro. Il vuoto e la follia di una città in cui tra un pantano centrale e una periferia abitata da quasi 3 milioni di persone che tutti regolarmente ignorano, non esiste comunicazione.
Sul Gra si raccontano leggende meravigliose.
Nicolini giurava che sul Raccordo, a bordo di un pulmino, si fosse persa un’intera squadra di calcio giovanile. Renato mi fece capire che discuteva modi un luogo magico, di un’astrazione, di una Roma stratificata che si perde in mille rivoli e un monolite, anche volendo, non può esserlo.
I suoi personaggi non sono classificabili. Come ha fatto a trovarli? A convincerli?
Quando giro so che è il momento giusto per farlo e per saperlo, la prolungata convivenza è fondamentale. Il resto è incontro, stretta di mano, pazienza, innamoramento reciproco.
Lei è nato ad Asmara e in Africa ha vissuto. Se le chiediamo qualcosa di quel periodo violiamo un tacito patto?
Non ci sono mai tornato e forse, per paradosso, ora che ci penso, il mio prossimo film dovrei farlo proprio lì. Il passato, prima o poi, è giusto affrontarlo. Pensi che durante la lavorazione di SacroGra, in un momento di debolezza, volevo mollare tutto e tornare in America.
Invece è rimasto.
Mi sono confrontato con questo paese. Dopo tanti anni fuori dall’Italia, era il momento. Mi ha convinto, anzi obbligato, la mia ex moglie.
Ringraziata in diretta, con sfregio alla liturgia consolidata, mentre le consegnavano il Leone.
Se lo meritava. La vita è strana. Non la ringraziai quando a Venezia, anche grazie a Marco Müller a cui devo moltissimo, Below sea level vinse Orizzonti. La distrazione fu la goccia che fece traboccare il vaso. In qualche modo, la separazione prese il via la sera stessa. Mi sono giocato 2 matrimoni con due film. Forse è destino.
O magari solo naturale conseguenza di una scelta artistica. Lei è un apolide rigoroso con la valigia in mano. Starle dietro somiglia a una scommessa.
Ho viaggiato. È vero. Con la mia famiglia passammo molto tempo anche in Turchia. Mio padre era dirigente della sezione esteri di una banca appartenuta all’Iri.
E lei?
Dopo qualche mese a Pisa, frequentando Medicina, scappai dall’Italia a 19 anni per studiare cinema a New York.
“Below sea level” è ambientato a Slab City, ex base californiana dell’esercito, rifugio da mezzo secolo del nomadismo hippie già messo in scena da Sean Penn nel suo “Into the wild”.
Ho vissuto a lungo nella comunità in una crisi totale, come un dropout. Senza denaro né direzione. Avevo bisogno di non raccontare ciò che ero stato e la bellezza di quel luogo consiste proprio nell’assenza di domande inutili. Lì nessuno pretende di sapere chi sei. Chi sei stato. Come hai assorbito le ferite del passato o cosa ti aspetti dal presente. Un intervallo dal reale che amo e cerco sempre di applicare ai miei personaggi. Devono colpire alla pancia e non raccontare troppo. Di loro intuisci qualcosa senza che siano mai descritti fino in fondo.
Slab City e il Gra sono non luoghi?
Luoghi precisissimi, al limite trasformati in pretesti narrativi. Ma per favore, smettiamola con la definizione di Augé. Quando non si sa cosa dire, magicamente, ecco il ‘non luogo’. Augé ci ha rotto i coglioni per 30 anni con la sua formula e poi ha dato alle stampe un libro per negare persino che esistesse. Quando l’ho saputo mi sono sentito un assoluto deficiente, ma adesso ci sto attento e ‘non luogo’, garantisco, non mi scappa più.
Trovare un ‘cast’ è difficile?
Forse è la montagna più ripida di un documentarista. Puoi cercare per anni e trovare un volto all’improvviso, con la straniante consapevolezza che il film riuscirà solo se sarà quel profilo e solo quello a interpretare la tua fantasia. All’epoca di Boatman, un documentario che girai sulle rive del Gange, incontrai il barcaiolo giusto per raccontare la storia proprio la mattina in cui abbandonata la cinepresainunalberghetto, avevodeciso di concedermi un giorno da turista.
E cosa fece?
Nel ’93 non c’erano quasi cellulari e per sperare nella riuscita di un’impresa così labile, bisognava credere davvero e pregare con eguale intensità. Tra una trasvolata e l’altra, tornando in India, tremavo nel timore di non ritrovare lo stesso barcaiolo.
Però lo trovò.
Riuscendo a ricreare e a far rivivere per immagini la medesima emozione che avevo provato il giorno in cui l’avevo incontrato.
Per certi miracoli serve flemma?
Fideismo. A volte il materiale, per mancanza di fondi, rimane in cantina per mesi. Altre il film muore senza un perché.
C’è qualche film morto senza un perché?
Si intitola Oakland is not for burning. Parte del materiale, girato in uno stupendo Super 16, è bloccato in qualche landa imprecisata per problemi legali. Ma io sogno di riprenderlo. È la storia di Steve, un traslocatore di pianoforti che un giorno vede il suo patrimonio andare in fumo nelle fiamme di un deposito. Ma il pianoforte è un oggetto indistruttibile, le carcasse mantengono inalterata la struttura e Steve le recupera per portarle nel deserto e lì costruire, con i resti, una nave nel nulla messa a repentaglio dal vandalismo gratuito. Un eroe herzogiano. Vuole sapere come lo conobbi?
Certo.
Ero nel deserto, sotto la pioggia, con il camper impantanato nella pioggia e il frigo vuoto. Di un’amicizia volata via lasciandomi solo come un cane erano rimaste due prosaiche testimonianze. Una bottiglia di vino rosso e un pacchetto di sigarette. Fuori diluviava. Ho bevuto e ho acceso una sigaretta per la prima volta nella vita. Poi, quando il cielo si è stancato di buttare acqua, il vino è finito, l’ultimo mozzicone si è spento e la malinconia è evaporata, sono uscito all’aria aperta. Percorro un chilometro e mezzo a piedi e incontro Steve. Così l’ho conosciuto. Nel mezzo di un’emergenza.
Le sue sono fiabe. Ha mai pensato di girare un film di finzione?
Ho qualche modello di riferimento, ad esempio Cassavetes, ma sono sicuro che non sarei un bravo regista di fiction. Dovrei lavorare in un modo che non mi è congeniale e francamente, non ne ho nessuna voglia. Se lo immagina un produttore a cui proponi anni di studio prima di sentir pronunciare il primo ciak?
La considerano geniale ma pazzo?
Non ho idea di come mi vedano, ma è la mia way of life e a quasi 50 anni, cambiare è impossibile. Per rassicurarli, convincerli ad affidarmi i loro soldi senza dover aspettare 10 anni per un risultato e aiutarli a considerarmi meno pazzo, potrei fare una serie di ritratti.
Portraits.
Suona bene, no? In Cina, in Indonesia, ovunque. Slegati l’uno dall’altro. I miei personaggi non hanno mai una collocazione e come in SacroGra, è il luogo a riflettersi nelle loro esistenze e non viceversa.
Le interessano solo i dimenticati?
Nient’affatto. Come si chiama quello della Lega? Borghezio? Ecco, un anno con Borghezio al fine di ritrarlo lo passerei gratis. Pensi che meraviglia. Idem per Berlusconi in comunità. Per un film del genere lavorerei 24 ore al giorno. Se ho filmato un sicario, posso permettermi di documentare anche Borghezio o Berlusconi. (Ride).
Curzio Maltese ha dedicato a Sacro Gra una critica severa. Non incasserà, giura e per giunta, assicura, dopo aver minacciato gli spettatori avvertendoli di armarsi di santa pazienza, non colpisce al cuore.
Ammesso e non concesso che il valore di un film si giudichi dal risultato al botteghino, Sacro Gra, disgraziatamente, è il primo incasso per media copia nel fine settimana davanti anche a Rush. Ascolto le critiche, le rispetto e della polemica miserabile non mi importa nulla, ma Maltese che pur essendo un assiduo lettore di Repubblica non avevo mai letto prima d’ora, deve avere qualche problema con il libero arbitrio. Scrive che la trama stenta a decollare in un film che ne è volutamente privo. Il suo pezzo trasuda acrimonia, è come se parlasse male di una festa a cui non è stato invitato. Non è questo il modo di sostenere il cinema italiano, la sua complessità, la profonda novità del documentario.
C’è anche chi si accontenta di non farsi domande.
E quelli stanno bene, meglio di tutti gli altri.
Altra critica, Pupi Avati questa volta: “Il premio a un regista che non ha mai diretto un attore denuncia lo stato di crisi del cinema italiano”. E ancora: “Il documentario è l’antitesi dell’arte”.
I detrattori del jazz sussurravano sprezzanti: ‘è musica da negri’. So che Avati ama molto il jazz, ma commette lo stesso errore quando parla del documentario. Dire che il documentario non è cinema è come sostenere che il jazz non è musica perché non ha lo spartito. Il documentarista è come un jazzista, improvvisa lavorando con il reale. E rifiuta l’idea che l’arte cinematografica abbia bisogno di una messa in scena per esprimersi. Tutti i personaggi dei miei film sono persone reali che – come diceva Eschilo – recitano senza sapere di recitare, rappresentando se stessi.
Qual è il suo segreto, Rosi?
Essere me stesso.
Giacca, asole consumate, foulard al collo, talento, spessi occhiali dalla montature improbabili.
Il foulard ho iniziato a metterlo nel deserto. Il sole mi bruciava e dovevo difendermi. Sul resto, fingere di essere altro da sé è infruttuoso e disonesto. Ti scoprono sempre. Sa cosa mi dicevano i protagonisti di Below sea level?
Cosa?
You know why we like you? Because you don’t try to be like us. Ci piaci perché non provi a essere come noi.

Repubblica 23.9.13
La scoperta
Quelle preziose mani nella tomba etrusca
di Giuseppe M. Della Fina

A VULCI, nel Lazio, gli archeologi hanno scoperto una tomba principesca etrusca dove spicca una coppia di mani in lamina di argento: un caso unico nel suo genere. La mano sinistra, meglio conservata, è stata ritrovata di dorso, mentre la destra presentava il palmo a contatto del terreno. I primi restauri hanno consentito di osservare che le unghie erano evidenziate da sottili lamine d’oro mentre lungo le dita comparivano altri frammenti, forse anelli. Mai prima d’ora sono state rinvenute mani in argento, mentre, sempre a Vulci, ne sono state trovate altre in bronzo. Si è dunque ipotizzato che la coppia di mani in argento non sia stata isolata, ma abbia fatto parte di un simulacro realizzato con più materiali raffigurante il defunto o una divinità. Il collo, di cui si stanno rinvenendo alcune parti, era in avorio. La statua, inoltre, era adornata con ogni probabilità da una veste in stoffa impreziosita da centinaia di semisfere in bronzo dorate che lo scavo in laboratorio sta riportando alla luce.