martedì 24 settembre 2013

Repubblica 24.9.13
La fede, la scienza, il male. Un dialogo a distanza fra Benedetto XVI e il matematico
Il papa e l’ateo
Ratzinger: “Caro Odifreddi, le racconto chi era Gesù”
‘‘Ella mi fa notare che la teologia sarebbe fantascienza. Ma essa tiene legate religione e ragione”
‘‘Quanto Lei dice sull’abuso di minori da parte di sacerdoti mi provoca profonda costernazione”
‘‘Le Sue opinioni sulla figura di Cristo non sono degne del Suo rango scientifico”
‘‘Valuto molto positivamente che Lei abbia cercato un colloquio così aperto con la Chiesa”
di Joseph Ratzinger


Ill.mo Signor Professore Odifreddi, (...) vorrei ringraziarLa per aver cercato fin nel dettaglio di confrontarsi con il mio libro e così con la mia fede; proprio questo è in gran parte ciò che avevo inteso nel mio discorso alla Curia Romana in occasione del Natale 2009. Devo ringraziare anche per il modo leale in cui ha trattato il mio testo, cercando sinceramente di rendergli giustizia.
Il mio giudizio circa il Suo libro nel suo insieme è, però, in se stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell’avventatezza dell’argomentazione. (...) Più volte, Ella mi fa notare che la teologia sarebbe fantascienza. A tale riguardo, mi meraviglio che Lei, tuttavia, ritenga il mio libro degno di una discussione così dettagliata. Mi permetta di proporre in merito a tale questione quattro punti: 1. È corretto affermare che “scienza” nel senso più stretto della parola lo è solo la matematica, mentre ho imparato da Lei che anche qui occorrerebbe distinguere ancora tra l’aritmetica e la geometria. In tutte le materie specifiche la scientificità ha ogni volta la propria forma, secondo la particolarità del suo oggetto. L’essenziale è che applichi un metodo verificabile, escluda l’arbitrio e garantisca la razionalità nelle rispettive diverse modalità.
2. Ella dovrebbe per lo meno riconoscere che, nell’ambito storico e in quello del pensiero filosofico, la teologia ha prodotto risultati durevoli.
3. Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione. Ambedue le funzioni sono di essenziale importanza per l’umanità. Nel mio dialogo con Habermas ho mostrato che esistono patologie della religione e – non meno pericolose – patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l’una dell’altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia.
4. La fantascienza esiste, d’altronde, nell’ambito di molte scienze. Ciò che Lei espone sulle teorie circa l’inizio e la fine del mondo in Heisenberg, Schrödinger ecc., lo designerei come fantascienza nel senso buono: sono visioni ed anticipazioni, per giungere ad una vera conoscenza, ma sono, appunto, soltanto immaginazioni con cui cerchiamo di avvicinarci alla realtà. Esiste, del resto, la fantascienza in grande stile proprio anche all’interno della teoria dell’evoluzione. Il gene egoista di Richard Dawkins è un esempio classico di fantascienza. Il grande Jacques Monod ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza. Cito: «La comparsa dei Vertebrati tetrapodi... trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo “scelse” di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell’evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari...» (citato secondo l’edizione italiana Il caso e la necessità, Milano 2001, pagg. 117 e sgg.).
In tutte le tematiche discusse finora si tratta di un dialogo serio, per il quale io – come ho già detto ripetutamente – sono grato. Le cose stanno diversamente nel capitolo sul sacerdote e sulla morale cattolica, e ancora diversamente nei capitoli su Gesù. Quanto a ciò che Lei dice dell’abuso morale di minorenni da parte di sacerdoti, posso – come Lei sa – prenderne atto solo con profonda costernazione. Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall’altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano. Non è neppure motivo di conforto sapere che, secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili. In ogni caso, non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo.
Se non è lecito tacere sul male nella Chiesa, non si deve però, tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli. Bisogna ricordare le figure grandi e pure che la fede ha prodotto – da Benedetto di Norcia e sua sorella Scolastica, a Francesco e Chiara d’Assisi, a Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, ai grandi Santi della carità come Vincenzo de’ Paoli e Camillo de Lellis fino a Madre Teresa di Calcutta e alle grandi e nobili figure della Torino dell’Ottocento. È vero anche oggi che la fede spinge molte persone all’amore disinteressato, al servizio per gli altri, alla sincerità e alla giustizia.(...) Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso a rendersi un po’ più competente da un punto di vista storico. Le raccomando per questo soprattutto i quattro volumi che Martin Hengel (esegeta dalla Facoltà teologica protestante di Tübingen) ha pubblicato insieme con Maria Schwemer: è un esempio eccellente di precisione storica e di amplissima informazione storica. Difronte a questo, ciò che Lei dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere. Che nell’esegesi siano state scritte anche molte cose di scarsa serietà è, purtroppo, un fatto incontestabile. Il seminario americano su Gesù che Lei cita alle pagine 105 e sgg. conferma soltanto un’altra volta ciò che Albert Schweitzer aveva notato riguardo alla Leben-Jesu-Forschung( Ricerca sulla vita di Gesù) e cioè che il cosiddetto “Gesù storico” è per lo più lo specchio delle idee degli autori. Tali forme mal riuscite di lavoro storico, però, non compromettono affatto l’importanza della ricerca storica seria, che ci ha portato a conoscenze vere e sicure circa l’annuncio e la figura di Gesù.
(...) Inoltre devo respingere con forza la Sua affermazione (pag. 126) secondo cui avrei presentato l’esegesi storico critica come uno strumento dell’anticristo. Trattando il racconto delle tentazioni di Gesù, ho soltanto ripreso la tesi di Soloviev, secondo cui l’esegesi storico-critica può essere usata anche dall’anticristo – il che è un fatto incontestabile. Al tempo stesso, però, sempre – e in particolare nella premessa al primo volume del mio libro su Gesù di Nazaret – ho chiarito in modo evidente che l’esegesi storico-critica è necessaria per una fede che non propone miti con immagini storiche, ma reclama una storicità vera e perciò deve presentare la realtà storica delle sue affermazioni anche in modo scientifico. Per questo non è neppure corretto che Lei dica che io mi sarei interessato solo della metastoria: tutt’al contrario, tutti i miei sforzi hanno l’obiettivo di mostrare che il Gesù descritto nei Vangeli è anche il reale Gesù storico; che si tratta di storia realmente avvenuta. (...) Con il 19° capitolo del Suo libro torniamo agli aspetti positivi del Suo dialogo col mio pensiero. (...) Anche se la Sua interpretazione diGv 1,1è molto lontana da ciò che l’evangelista intendeva dire, esiste tuttavia una convergenza che è importante. Se Lei, però, vuole sostituire Dio con “La Natura”, resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla. Vorrei, però, soprattutto far ancora notare che nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male. Mi meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il valore portante dell’epoca moderna. L’amore, nel Suo libro, non compare e anche sul male non c’è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia queste domande fondamentali resta vuota.
Ill.mo Signor Professore, la mia critica al Suo libro in parte è dura. Ma del dialogo fa parte la franchezza; solo così può crescere la conoscenza. Lei è stato molto franco e così accetterà che anch’io lo sia. In ogni caso, però, valuto molto positivamente il fatto che Lei, attraverso il Suo confrontarsi con la miaIntroduzione al cristianesimo, abbia cercato un dialogo così aperto con la fede della Chiesa cattolica e che, nonostante tutti i contrasti, nell’ambito centrale, non manchino del tutto le convergenze.
Con cordiali saluti e ogni buon auspicio per il Suo lavoro.

IL LIBRO Caro Papa, ti scrivo di Piergiorgio Odifreddi (Mondadori) È in libreria in questi giorni anche l'ultimo libro di Odifreddi Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere (Rizzoli Controtempo pagg. 311 euro 20)

Repubblica 24.9.13
Così l’ex pontefice mi ha risposto
di Piergiorgio Odifreddi


Pochissime persone al mondo, ed Eugenio Scalfari è una di queste, possono comprendere la sorpresa e l’emozione che si provano nel ricevere a casa propria un’inaspettata lettera di un Papa. Una sorpresa e un’emozione che non vengono scalfite dal fatto di essere dei miscredenti, perché l’ateismo riguarda la ragione, mentre le personalità e i simboli del potere agiscono sui sentimenti.
A me questa sorpresa e quest’emozione sono capitate il 3 settembre, quando il postino mi ha recapitato una busta sigillata, contenente 11 pagine protocollo datate 30
agosto, nelle quali Benedetto XVI rispondeva al mio Caro papa, ti scrivo(Mondadori, 2011). Una risposta che mi ha sorpreso per due ragioni. Anzitutto, perché un Papa ha letto un libro che, fin dalla copertina, veniva presentato come una «luciferina introduzione all’ateismo». E poi, perché l’ha voluto commentare e discutere.
Poco dopo le dimissioni di Ratzinger, avevo approfittato di un amico comune per chiedere all’arcivescovo Georg Gänswein se fosse possibile recapitare all’ormai Papa emerito una copia del mio libro, nella speranza che lo potesse vedere. E in seguito, in un paio di occasioni, mi era stato detto dapprima che l’aveva ricevuto e poi che lo stava leggendo. Ma che potesse rispondermi, e addirittura commentarlo in profondità, era al di là delle ragionevoli speranze.
Aprire la busta e trovarci 11 fitte pagine, che iniziavano con una richiesta di scuse per il ritardo nella risposta, e un’offerta di ringraziamenti per la lealtà della trattazione, era la realizzazione del massimo delle aspettative possibili, in un mondo che disolito non ne realizza che il minimo. Ed era anche la soddisfazione di veder finalmente presi sul serio e non rimossi, benché non condivisi, i miei argomenti a favore dell’ateismo e contro la religione in generale, e il cattolicesimo in particolare.
D’altronde, non era certo un caso che avessi indirizzato la mia lettera aperta a Ratzinger. Dopo aver letto la suaIntroduzione al Cristianesimo,suggeritami da Sergio Valzania, avevo capito che la fede e la dottrina di Benedetto XVI, a differenza di quelle di altri,erano sufficientemente salde e agguerrite da poter benissimo affrontare e sostenere attacchi frontali. Un dialogo con lui, benché allora immaginato soltanto a distanza, poteva dunque rivelarsi un’impresa stimolante e non banale, da affrontare a testa alta.
Scrivendo il mio libro come un commento al suo, avevo cercato di favorire la pur remota possibilità che un giorno il destinatario potesse effettivamente riceverlo. Avevo dunque abbassato i toni sarcastici di altri saggi, scegliendo uno stile di scambio tra professori “alla pari”, ovviamente nel senso accademico dell’espressione. E mi ero concentrato sugli argomenti intellettuali che potevo sperare avrebbero mantenuta viva la sua attenzione, pur senza rinunciare ad affrontare di petto i problemi interni della fede e i suoi rapporti esterni con la scienza.
L’approccio evidentemente non era sbagliato, visto che ha raggiunto il suo scopo: che, ovviamente, non era cercare di “sconvertire il Papa”, bensì esporgli onestamente le perplessità, e a volte le incredulità, di un matematico qualunque sulla fede. Analogamente,la lettera di Benedetto XVInon cerca di “convertire l’ateo”, ma gli ritorce contro onestamente le proprie simmetriche perplessità, e a volte le incredulità, di un credente molto speciale sull’ateismo.
Il risultato è un dialogo tra fede e ragione che, come Benedetto XVI nota, ha permesso
a entrambi di confrontarci francamente, e a volte anche duramente, nello spirito di quel Cortile dei Gentili che lui stesso aveva voluto nel 2009. Se ho atteso qualche settimana a rendere pubblica la sua partecipazione al dialogo, è perché volevo essere sicuro che egli non volesse mantenerla privata.
Ora che ne ho ricevuto la conferma, anticipo qui una parte della sua lettera, che è comunque troppo lunga e dettagliata per essere riportata integralmente, soprattutto nelle sezioni filosofiche iniziali. Lo sarà a breve in una nuova versione del mio libro, sfrondato delle parti sulle quali lui ha deciso di non soffermarsi, e ampliata con un resoconto della nascita e degli sviluppi di quello che risulta essere un unicum nella storia della Chiesa: un dialogo fra un papa teologo e un matematico ateo. Divisi in quasi tutto, ma accomunati almeno da un obiettivo: la ricerca della Verità, con la maiuscola.

Repubblica 24.9.13
La difficile risposta sulle origini  male
risponde Corrado Augias


Caro Augias, il passo di Papa Francesco, il dialogo con Eugenio Scalfari, le emozioni che non possono non cogliere gli animi più sensibili ai perché della nostra esistenza, aprono alla speranza non tanto di un mondo migliore quanto di una possibile, intensa collaborazione tra uomini di buona volontà. In questo clima è piombato, proprio come il peso di un vile metallo, l’episodio della dottoressa Cantalamessa, che ha sacrificato la propria vita, così preziosa per dedizione agli altri, assassinata insieme all’ultima persona che ha cercato di assistere, probabilmente un delinquente come quelli che li hanno travolti entrambi. “Gela il sangue”, come scrive il giornalista diRepubblica, la dichiarazione del padre che riferisce come la figlia dicesse sempre “Devi dare agli altri di più di quello che ricevi. Quello che dai ritorna moltiplicato, in tempi che non puoi determinare. Devi lasciar fare al destino, alla provvidenza, per qualcuno al disegno di Dio”… È quest’ultimo richiamo (senza voler mancare di riverenza per la grandezza di parole testimoniate col sangue) che non riesco ad immaginare e comprendere.
Giampiero Buccianti

La lettera tocca un punto cruciale dove molte strade si separano, molte scelte diventano possibili.
Chi crede nel Dio trascendente attribuisce anche il male che dilaga nel mondo, compresi terremoti, tsunami, incidenti stradali, agli imperscrutabili suoi disegni. Chi non ci crede attribuisce il male alla casualità di eventi che accadono come possono, senza obbedire né all’etica né alla logica. Un grande pensatore come Giacomo Leopardi li attribuiva all’indifferenza crudele della natura. Un filosofo come Hans Jonas chiedeva dove fosse Dio mentre i bambini ebrei venivano torturati e uccisi a migliaia nei campi di sterminio. Baruch Spinoza faceva rientrare anche il male nell’immenso disegno della Natura (Deus sive natura, diceva). Lo stesso Agostino, alle origini del cristianesimo si chiedeva con angoscia “Unde malum?”, da dove viene ilmale se Dio è concepito onnipotente e infinitamente buono? Per un essere umano adulto si può rispondere che tutto dipende dal suo libero arbitrio, ciascuno fabbrica la sua vita, male compreso. Ma se un bambino nasce sano e forte e un altro viene al mondo malato e destinato a morire dopo pochi mesi o anni di sofferenza, dov’è la giustizia divina? Sono domande che non hanno mai trovato adeguata risposta. È uno dei temi che il teologo Vito Mancuso affronta nel suo nuovo libro “Il principio Passione” (Garzanti ed.). Ho appena cominciato a leggerlo. Mi pare che vi si affacci una prospettiva più ragionevole rispetto al vecchio catechismo cattolico secondo il quale, volgarizzando: non si muove foglia che Dio non voglia. Decisamente troppe responsabilità, anche per Dio.

l’Unità 24.9.13
L’Italia non ci sta ai ricatti Pdl
Camusso: giù le tasse sul lavoro o sarà mobilitazione unitaria
«Se i conti non tornano, colpa della destra»
di Massimo Franchi


«Se la legge di Stabilità non scioglie il nodo della riduzione della tassazione per lavoratori e pensionati e della redistribuzione del reddito non si può che procedere con la mobilitazione unitaria». In attesa, oramai da cinque giorni, di una convocazione a palazzo Chigi, Susanna Camusso rompe gli indugi e avverte il governo: la pazienza del sindacato è finita.
Fatto il punto con il parlamentino Cgil nel Direttivo mattutino, il segretario generale della Cgil ribadisce la richiesta di un incontro con il premier Enrico Letta: «C’è già molto ritardo nel convocare le parti. Sollecitiamo il confronto. O la legge di Stabilità cambia passo o siamo destinati a declinare. Per usare un eufemismo sembra ci sia uno schema di galleggiamento e non ci si sta confrontando con il profilo del Paese e le esigenze dei cittadini attacca Camusso Non si aggredisce il nodo fondamentale: quello dell’ingiustizia nella distribuzione del reddito e della sovrabbondante tassazione sul lavoro dipendente e sulle pensioni».
IL CASO SACCOMANNI
L’attualità politica riporta alle minacce di dimissioni di Saccomanni, ma alla Cgil interessano le politiche, non chi le fa. «Dire la verità sui conti è un buon proposito ma presuppone che finora non sia stato fatto spiega Camusso . I conti peggiorano per le leggi finanziarie che ripetono lo schema del 2011 che non hanno portato al risanamento e hanno peggiorato la condizione degli italiani». Per Camusso poi «non si può oscillare tra ripresa e orlo del baratro». Per la Cgil «ci sono le condizioni per fare una legge di stabilità come chiediamo, non bisogna cambiare i trattati europei». Camusso chiede poi di evitare «piccoli provvedimenti» ma un cambio di politiche. E sulla questione Finmeccanica, Eni e Poste Vita avverte che dalla Cgil arriva un «gigantesco no alle privatizzazioni, un no a caratteri cubitali. Sarebbe un clamoroso errore». No anche a «tagli lineari alla spesa pubblica».
Nel direttivo di ieri non si è parlato di congresso. La partita si sta giocando nelle tre commissioni, prima fra tutte quella Politica dove tutti i segretari generali e territoriali lavorano al documento congressuale. Nel fine settimana è però previsto un importante appuntamento. A Rimini la Fiom terrà la sua assemblea nazionale. E venerdì a Rimini interverrà Susanna Camusso.
Se dal punto di vista interno, la partita è appena cominciata, sul piano confederale fa ancora fede il documento sottoscritto con Confindustria che chiedeva un forte calo del cuneo fiscale e la lettera inviata lo scorso 18 settembre dai tre sindacati confederali a Letta. In quel breve documento, Camusso, Bonanni e Angeletti disegnavano un quadro molto preciso. Cgil, Cisl e Uil sottolineavano come fosse «il momento di affrontare con decisione i temi della creazione di lavoro, della ripresa economica e della crescita. Per questo chiedevano al governo di avviare immediatamente un confronto sui contenuti della prossima legge di stabilità». I sindacati ribadivano «la necessità che la discussione si incentri sui temi individuati nel documento sottoscritto dalle parti sociali e che sia indispensabile puntare sul lavoro per costruire le condizioni di una ripresa dell’economia. Ritenevano necessario che fin dalle fasi preparatorie della legge di stabilità si imposti una discussione su una nuova e più efficace articolazione delle politiche fiscali in un’ottica di redistribuzione del reddito. Infine, le tre confederazioni chiedevano al governo di avviare una discussione di merito su esodati e pensioni».
BONANNI: MOBILITATI PER STABILITÀ
Quando, alle 19, Enrico Letta risponde da Ottawa ribadendo l’impegno («con Confindustria e sindacati faremo un lavoro comune: ci siamo parlati e ci parleremo prima della legge di stabilità»), tocca a Raffaele Bonanni, in una sorta di staffetta sindacale, commentare. «È importante che il premier Letta abbia ribadito chiaramente l’impegno del governo per l’apertura di un confronto con le parti sociali nei prossimi giorni. Una cosa deve essere chiara: il sindacato si mobiliterà per favorire la stabilità politica e per far ripartire l’economia attraverso un taglio drastico delle tasse per lavoratori, pensionati e imprese che investono», spiega da Termoli il segretario generale della Cisl. «Noi siamo pronti al confronto dove porteremo le nostre richieste ma anche le nostre proposte sia sul taglio della spesa improduttiva sia sul piano degli interventi per favorire la creazione di nuovi posti di lavoro ed una ripresa dei consumi. Bisogna agire con tempestività e concretezza. Prima parte il confronto meglio è per il paese e per la stabilità del governo», ribadisce il leader Cisl.

l’Unità 24.9.13
Bersani:chi mi accusa spara il colpo 102
Intervista all’ex leader Pd
«L’intesa in assemblea è saltata alla luce del sole, non ci sono dubbi su chi la voleva e chi no
Se non ritroveremo l’unità, daremo una prateria alla destra»
«L’automatismo segretario-premier? Sono contrario, ma i candidati risolvano il problema»
di Maria Zegarelli


«Ne ho già passate 101, vorrei risparmiarmi la 102esima». Non fa niente per dissimulare l’irritazione di fronte agli attacchi più o meno diretti che gli arrivano da pezzi del suo partito. Pier Luigi Bersani ne ha lette «e sentite di tutti i colori, da destra e sinistra in questa giorni ma adesso dice vorrei essere lasciato in pace». Neanche quel numero, 101, deve essere casuale: 101 erano i franchi tiratori che hanno affondato l’elezione di Romano Prodi al Quirinale, il tentativo di un governo di cambiamento e segnato la fine della segreteria che guidava da quattro anni. La 102esima è l’accusa che più gli pesa, spiega, quella di aver remato contro il buon esito dell’Assemblea nazionale.
Bersani, i sospetti sembrano aver avvelenato i pozzi del Pd. Su di lei pesa quello di aver tentato di far slittare il congresso. Si aspettava questo clima da sfida finale?
«In questa caotica discussione sento arrivare verso di me delle insinuazioni, o peggio delle accuse, che mi dipingono come un mestatore: agli antipodi di quello che sono. Vorrei dire agli uni e agli altri soltanto una cosa: mi si lasci in pace. Ho smesso di fare il segretario ma non ho smesso di ragionare per la ditta, con le mie idee, ma per la ditta e alla luce del sole. Non accetto che mi si attribuiscano manovre. Questo, francamente, è difficile da sopportare».
Renzi si scaglia contro un gruppo dirigente «rancoroso» che vuole impedire congresso e primarie. Ce l’ha anche con lei.
«Sono stanco di dover rispondere a queste affermazioni. Credo che sia stata una cosa incredibile e umiliante quella avvenuta durante queste settimane: una discussione tutta su date e regole. Dal mio punto di vista una comunità che si fosse fidata di se stessa avrebbe dovuto pronunciarsi sulla data più ravvicinata, senza togliere al territorio la possibilità di discutere nei congressi, proponendo ragionevoli modifiche allo Statuto che aiutassero questo percorso. Nell’Assemblea, invece, tutto questo è saltato alla luce del sole, non mi sembra ci siano dubbi su chi voleva le modifiche e chi no. Ma adesso chiudiamo questo capitolo, l’Assemblea ha indicato una data, L’8 dicembre, delle procedure a Statuto vigente e voglio credere che chi sin qui ha alimentato teorie complottistiche non stia alla finestra e voglia prendersi la responsabilità di gestire ciò che l’Assemblea ha deciso su tempi e procedure con lo Statuto che abbiamo».
Questo è un compito della Direzione. Secondo lei si arriverà ad un accordo? «Voglio augurarmi che ci si mettano alle spalle date e regole ed è per questo che faccio un appello alla Direzione: si prendano un paio di punti politici che fin qui sono rimasti totalmente inevasi e si affrontino finalmente».
Non saranno proprio i nodi politici non affrontati che hanno portato al disastro di sabato scorso?
«Nasce tutto da lì. La prima riflessione deve riguardare la nostra responsabilità verso l’Italia e il governo e chiedo alla direzione di mettere al centro del suo dibattito le seguenti questioni: noi possiamo fare del governo l’oggetto del congresso? Possiamo nel congresso giocare a palla con il tema del governo facendo un regalo così incredibile alla destra e Berlusconi? E d’altra parte la vediamo o no la difficile sostenibilità politica di questa fase? La vede anche Enrico Letta quando ripete che non si può governare a tutti i costi. Io sono convinto che l’agenda politica dobbiamo gestirla in modo attivo ma questo lo si deve fare tutti insieme, come fa una squadra».
Ma c’è una squadra? Dopo quello che si è visto in Assemblea vengono molti e fondati dubbi, non crede?
«Questo è il mio cruccio. Noi abbiamo delle responsabilità davanti al Paese e fino ad ora non abbiamo dimostrato di essere una squadra. La Direzione deve ripristinare questo senso dello stare insieme, con l’aiuto dei candidati, disegnando il perimetro entro il quale deve restare la discussione. È possibile che teniamo in mano noi la palla dell’incertezza politica? Se abbiamo una decisione da prendere lo si fa tutti insieme, non possiamo dare alibi alla destra. È un tema di cui tutti dobbiamo sentire la responsabilità, spetta a noi, tutti insieme, decidere quale sia l’agenda, quanto sia sostenibile questa fase, come prevenire i trucchi della destra. Altra questione: vogliamo dare un titolo a questo congresso? In questo è fondamentale l’apporto di tutti i candidati».
Lei che titolo gli darebbe?
«Al tornante di vent’anni di storia italiana il mio titolo sarebbe: “quale partito democratico per quale sistema politico, per quale idea dell’Italia”».
Ma questo è un congresso che si celebra con un leader del Pd a Palazzo Chigi e un aspirante segretario che punta alla premiership. Come crede che sia possibile tenere fuori questo elemento?
«È chiaro che se arriviamo ad un congresso che si orienta a decidere l’8 dicembre su un candidato premier senza che l’attuale premier si possa candidare si mette in campo un elemento di confusione. La mia proposta è sempre stata quella di non rendere automatico che il segretario sia anche il candidato premier. Credo che spetti a tutti i candidati affrontare in Direzione questo problema e risolverlo con unità. Se non accadrà noi offriremo una prateria alla destra».
Adesso tutto passa nelle mani della Direzione, ma ammetterà che l’Assemblea ha dato l’immagine di un partito dove ognuno andava per conto suo, proprio come accadde con l’elezione del presidente della Repubblica. La domanda è: si può recuperare un disastro di queste proporzioni?
«Le rispondo con una domanda che mi è già capitato di fare: vogliamo essere uno spazio politico o un soggetto politico? Uno spazio lo perimetri con quattro regole, non c’è bisogno di solidarietà di fondo. Un soggetto politico prevede sì regole, ma esige una solidarietà di fondo, una capacità di vedersi da fuori, sapendo che si ha un compito verso il Paese, che le responsabilità sono fuori dal luogo in cui ti incontri. L’Assemblea ha riproposto questo problema, dobbiamo correggerlo perché noi non siamo più a quattro anni fa, quando eravamo lì a lavorare sul rimescolo ed era in dubbio anche se fossimo un partito nazionale... Quelle cose lì le abbiamo risolte, siamo un partito centrale, presente e radicato nel Paese. Adesso la questione è la maturità di questo processo, la capacità di decidere per il Paese. Aver visto durante l’Assemblea che è ancora in dubbio la solidarietà di cui parlavo è stato un dolore ed essere stato sospettato di manovre lo è stato ancora di più».
Paolo Gentiloni la invita a fare un passo indietro, anzi ad uscire di scena, insieme a tutta la classe dirigente che ha portato il Pd a questo punto. C’è anche chi fa notare che ancora ha un suo ufficio al Nazareno.
«Sì, ho sentito anche questa. Mi sembrava che, ovviamente per un tempo limitato, ricevere le persone in una piccola stanza del Pd fosse una cosa utile. Il segno cioè che dopo quattro anni non me ne ero andato sbattendo la porta del mio partito. Anche questo viene equivocato. Ho già detto al tesoriere che la stanza è libera».
Bersani, Renzi parte dal Lingotto, punta ad un Pd che vince da solo.
«Uno sguardo al sistema politico, così come è messo adesso, dovrebbe indurre a ritenere il Pd centrale, ovviamente, ma addirittura autosufficiente mi sembra azzardato. Inviterei anche su questo a una riflessione perché gli scambi di battute non possono sostituire un dibattito vero. Discutiamo di quale Pd per quale sistema politico noi vogliamo lavorare. Parliamo di politica per piacere».
A proposito, la Merkel vince sola ma non basta.
«Se guardiamo l’Europa ci rendiamo conto che dove c’è benessere spunta la destra o il centrodestra, dove c’è malessere spuntano sfiducia e populismi. La sinistra deve uscire da questa morsa, senza cedere ai contenuti della destra, né cedere ai linguaggi del populismo. Continuo a pensare che la chiave sia quella di un riformismo radicale, di combattimento, ma saldamente democratico, partecipativo, che sia espresso da formazioni politiche di una sinistra plurale, molto aperta ma con un suo principio d’ordine. La situazione in Germania ci ha detto questo».

Repubblica 24.9.13
l Partito Democratico
Renzi accusa: vogliono rinviare il congresso
E attacca ancora Letta: “Nel Pd nomenklatura rancorosa”. Epifani: dibattito indegno
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Una road map serratissima per arrivare alle primarie l’8 dicembre, e un accordo politico per far sì che - una volta eletto il segretario - la corsa alla premiership venga aperta anche ad altri esponenti del Pd. È a questo che si lavora in casa democratica dopo il fallimento dell’assemblea della settimana scorsa che doveva cambiare lo statuto e che, non riuscendoci, ha messo ancora una volta in vetrina la fotografia di un partito esploso in un delirio di correnti. Matteo Renzi la mette così: «Un gruppo dirigente rancoroso ha tentato di buttare tutto in caciara, perché il vero obiettivo è quello di non fare né congresso né primarie». Il vero obiettivo - secondo il sindaco di Firenze, che ieri mattina era aOmnibus - «è non voltare pagina». «Dopo aver rinviato tutto il rinviabile in sede di governo, da Imu, Iva, legge elettorale, finanziamento pubblico, F35, vogliono rinviare il Congresso ». A questo punto, «ci facciano sapere quando sono pronti, ci facciano un colpo di telefono e ci dicano “venite a votare”. Se continuiamo diventiamo come loro, e io dopo quello che ho visto sabato, dico come loro mai».
Parla anche del governo, Renzi, «non ho fretta di farlo cadere, ho fretta di farlo lavorare», perché «è come una bici, sta in piedi se corre ». Dice che il Pd deve fare il Pd, che non può farsi dettare l’agenda da Brunetta e dal Pdl, tutti intenti a piazzare le loro bandierine. Che Letta deve dire la verità, «non che lo sforamento del debito è colpadell’instabilità politica». Poi promette: «Chi sale sul mio carro non avrà ricompense». La sua squadra, quando sarà il momento, la sceglierà in base al merito.
Dal salotto serale di Porta a PortaGuglielmo Epifani conferma: «Renzi metterà pepe, ma sto a quel che dice: non farà cadere Letta ». E però avverte: «Non credo che si possano fare il sindaco e il segretario insieme». E torna sull’ossessione delle regole: «Se io non forzavo la data, se non ci fossimo impegnati a chiudere sulle regole rischiavamo di continuare questa discussione all'infinito e questo non è degno del Pd».
Visto il flop dell’assemblea, quella norma dello Statuto non è stata modificata, ma si sta lavorando a una mediazione tra i candidati alla segreteria: un ordine del giorno che permetta ad altri esponenti del partito, oltre al segretario, di correre per la poltrona di premier. A votarlo dovrebbe essere la direzione convocata (dopo un ventilato rinvio che aveva fatto infuriare i renziani) per venerdì 27. «Se un impegno del genere venisse assunto da un voto in direzione - dice il bersaniano Alfredo D’Attorre - per me varrebbe come una norma statutaria». Una clausola del genere permetterebbe a Enrico Letta di sfidare, eventualmente, Matteo Renzi, e placherebbe gli animi di chi - nel Pd continua a non fidarsi del sindaco. Che da parte sua non ha nulla in contrario. Spiegano i rottamatori che davanti a una norma transitoria identica a quella ideata daBersani alle scorse primarie non sarebbero certo loro a mettersi di traverso. «Quello che non potremmo mai accettare è un accordo che dicesse: chi fa il segretario si impegna a non essere il candidato premier, che è cosa diversa». Altra partita quella dei tempi: fare le primarie l’8 dicembre significa correre. La commissione congresso, riunita ieri sera, ha affidato al segretario dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini il compito di ideare una road mapaccelerata, che consenta di fare in tempo congressi provinciali, presentazione dei candidati, convenzioni. Poi c’è il problema tessere: i comitati renziani in queste ore chiedono ai sostenitori di «prendere la tessera per sostenere Matteo. Dura un anno, poi deciderete cosa fare». Morassut avverte: «Dobbiamo vigilare sul tesseramento, fare attenzione alle truppe cammellate che inquinano i congressi».

«10 giorni di tempo per la presentazione di documenti politici alternativi»
l’Unità 24.9.13
Sel va a congresso. «L’orizzonte resta il centrosinistra»
Vendola presenta le assise di metà gennaio
Probabili due mozioni contrapposte
di Rachele Gonnelli

ROMA Nel giorno in cui il leader di Sel Nichi Vendola annuncia il congresso del suo partito per la metà di gennaio dell’anno prossimo, al termine della riunione della direzione, lancia anche due spunti su quelli che saranno i cardini della riflessione congressuale: l’evoluzione del Pd e il panorama europeo del centrosinistra.
La prima dichiarazione suona come un parziale allontanamento da Matteo Renzi su un tema fondamentale per Sel, quello dell’eguaglianza. Dice Vendola ai suoi che c’è un dato di fatto da tener presente, cioè che «Renzi è dentro una corsa che assomiglia sempre di più a una irresistibile ascesa», ma che lui, Vendola, lo considera in ogni caso come «un competitor», «anche all’interno di una alleanza di centrosinistra», per altro tutta da ricostruire. Non piace poi, al presidente della Puglia, la visione di Renzi sull’egualitarismo come problema dell’Italia. Il sindaco di Firenze intervistato a Omnibus in mattinata aveva detto che «si combattono le disuglianze favorendo il merito, sostenendo chi è bravo e contemporaneamente avendo un sistema che aiuta chi non ce la fa» e che «se continuiamo con l'egualitarismo avremo un Paese in cui trova lavoro solo chi è raccomandato». Vendola dicendosi «abbastanza scioccato» da queste parole si chiede «in quale Italia vive Matteo Renzi?». Lui vede tornare la selezione di classe nelle scuole e nelle università, un impoverimento della classe media che anche al Nord rischia di diventare esplosivo. «Non vorrei aggiunge che solo a papa Francesco toccasse parlare di povertà». Per Vendola la battaglia contro l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze economiche nel mondo «non è solo una grande utopia ma una necessità della politica», nel momento in cui il welfare si restringe progressivamente a colpi di spending review e c’è il rischio che questo processo funzioni da detonatore sociale mettendo in crisi lo stesso funzionamento del mercato.
La distanza tra Matteo e Nichi dunque si approfondisce, anche se non aumenta per nulla la vicinanza con il premier del governo di larghe intese. In serata Vendola ne ha anche per Enrico Letta, colpevole di aver paragonato la sua alleanza alla grosse coalition. «Davvero pensi, Enrico è la domanda che gli rivolge che Berlusconi sia l'equivalente della signora Merkel? Speriamo proprio che la cancelliera non lo venga a sapere...».
I risultati delle elezioni tedesche dovrebbero invece a suo dire stimolare le forze della sinistra europea a riflettere sulle loro scarse performance quando «non riescono a presentarsi unite in un progetto comune percepito come capace di una sfida per vincere». La crisi della sinistra, dalla Grecia alla Spagna e dalla Francia «dove il consenso per Hollande è in caduta libera» coincide con la crisi di un modello di europeismo di sinistra e di «una rifondazione sociale dell’Europa». Ed è proprio questo dell’Europa Bene Comune l’orizzonte che si porrà il congresso di Sel che sarà convocato in assise nazionale il 17,18 e 19 gennaio. Anche in vista del prossimo appuntamento con le elezioni europee della primavera prossima.
Ieri in direzione è iniziata a circolare una bozza di documento politico della presidenza. Sarà l’assemblea nazionale di sabato 28 settembre a ufficializzare la data e le regole proposte dalla direzione. La scelta è in ogni caso quella di fare un congresso aperto, che salti a pié pari il vaglio preventivo dei partecipanti. Nel senso che il primo livello di discussione sarà convocare assemblee aperte anche a simpatizzanti e votanti. I congressi veri e propri saranno quelli provinciali, cioè di federazione, e regionali, quindi senza una selezione dei delegati a livello di circolo. Per i gruppi dirigenti nazionali voteranno in ogni caso solo gli iscritti, con tessera presa entro il 15 ottobre prossimo. Dall’assemblea di sabato prossimo scattano poi 10 giorni di tempo per la presentazione di documenti politici alternativi o emendamenti. Per presentare un documento alternativo spiega il coordinatore nazionale Ciccio Ferrara si dovrà raccogliere il 5% degli iscritti in almeno 5 regioni, cioè circa 1.700 tessere. Per gli emendamenti basterà il 3% delle 35.500 iscrizioni 2012, in 5 regioni.

il Fatto 24.9.13
Il libro di Occhetto
L’Ira di Achille verso la sinistra
di Furio Colombo


La storia dovrebbe essere divisa in prima di Achille Occhetto e dopo Achille Occhetto. Non sto parlando della storia del Pci. Sto parlando della storia italiana. Occhetto è stato il primo, e forse il solo, a capire che un grande partito con un immenso patrimonio di legami popolari non si tiene immobile fingendo che non sia accaduto nulla, ma anche non lo si liquida nascondendo le bandiere, smontando le feste e mandando tutti a casa, con il modesto espediente che non c’è bisogno di tutta quella gente in piazza. Ecco da dove parte il nuovo e – in un certo senso – unico libro di Achille Occhetto, il suo ripercorrere gli eventi dall’origine ai giorni nostri, con lo stesso coraggio, allo stesso tempo ingenuo e visionario di allora, quando ha detto l’indimenticata frase a lungo usata contro di lui, che adesso (spiritosamente) è il titolo del libro (La gioiosa macchina da guerra, Editori Riuniti). Colpo di genio usare quella frase, tanto ridicolizzata e strappata dal suo contesto.
COMINCIAMO dunque dal tempo della dissoluzione dei partiti, così come li avevamo conosciuti fino a quel momento. Spostiamoci nei primi anni Novanta. È un paesaggio estremamente animato. C’era chi fuggiva dalle finestre di piazza del Gesù, gloriosa sede della Democrazia cristiana, e chi si calava dai lampioni della luce intorno all’edificio del Psi, per allontanarsi nel buio. Privilegiato da un grande accidente accaduto un po’ prima (la caduta del Muro di Berlino) Occhetto ha capito più in fretta e meglio dei pretenziosi saggi del suo partito, che in condizioni simili non puoi restare immobile e non devi fuggire. E che il cambiamento della storia non fa cambiare come camaleonti i protagonisti del prima affinché possano entrare, come nuovi, nel dopo. Occhetto chiede visibilità fino al rischio non per dei transfughi, ma per dei protagonisti che entrano insieme a tutto il loro popolo di militanti ancora intatto, in una storia diversa in cui, però, le radici continuavano a essere la Resistenza e la Costituzione e il leader-simbolo Berlinguer. Da questo punto in poi, la sua narrazione si muove come se fosse inevitabile tenere conto della forza, della tradizione, della rispettabilità e del peso di un partito di popolo come il suo. Non prevedeva una sorta di colpo di stato interno. In esso, gli ufficiali del vecchio Pci si sono impadroniti di ciò che restava del partito (e che era molto, perché era volontario e non di convenienza, lo hanno preso in mano secondo la persuasione che tutto spetta al ceto professionale (“i professionisti della politica”) e niente all’area di ascolto politico. E hanno respinto, anche con un certo sdegno, tutti i tentativi popolari (ovvero della massa volontaria di iscritti e simpatizzanti) di tornare in piazza, di tornare a contare, persino di formare un corteo, con una bandiera e uno striscione. S’intende che un riferimento di Occhetto, il politico e di Occhetto lo scrittore, è per forza D’Alema.
MA È VERO che D'Alema (questa è un’osservazione del recensore, non dell’autore) ha avuto la forza di prevalere su tutti gli ufficiali ex Pci, nell’imporre il principio che “politica” è solo ciò che detta il Quartier generale. Tutti gli altri sono peones, in Parlamento, in piazza e nel-l’urna. Per forza, allora, la frase di Occhetto finisce per sembrare risibile. Svela ingenuità non sulla valutazione degli ostacoli per vincere fuori, ma su quelli ben più duri, del vincere dentro. Ovvero di contare e controllare il partito di cui, in teoria, era ancora il segretario. Giudicando da fatti che sono accaduti dopo, non credo che il destino di Occhetto, segretario deposto senza tante formalità dal circolo ufficiali del suo partito, avrebbe avuto un destino diverso. Altri estranei (vedi Romano Prodi) sono stati accompagnati all’uscita in quanto non “interni” al circolo. E la stessa sorte, fare in modo che non avessero alcuno spazio e alcun ruolo, è stato riservato a buoni e volonterosi compagni di strada che intanto si erano associati all’avventura pensando a una partecipazione politica che, invece, era stata prontamente vietata, a sinistra, sia in piazza che nel partito. E quando gradatamente quel partito è sfumato da Pds a Ds e poi a Pd, non tanto (non solo) la leadership era stata cambiata (o spinta fuori, come nel caso di Veltroni) ma era stato cambiato il “chip” della macchina. Adesso la macchina voleva la normalità impossibile della collaborazione con Berlusconi. Perciò ha tagliato via di netto una parte notevole di elettorato e trasformato in limitato sostegno locale un’altra. Resta il fatto, narrato nel libro, che Achille Occhetto ha dovuto uscire di scena senza neppure un commiato. Con fastidio per l’ingiustizia subita, ma rimpianti (ci dice nel libro) solo per ciò che poteva accadere. Ma nessuna vendetta, tranne La Gioiosa Macchina da Guerra che sta per essere pubblicato .

il Fatto 24.9.13
Verso il baratro e il Pd sta a guardare
di Massimo Marnetto, Libertà e Giustizia di Roma


Con la legge di Stabilità per i ceti medio-bassi si profilano altre ingiustizie insopportabili. Mentre ri-Forza Italia ha imposto l'esenzione dell'Imu a tutti, il Pd non trova la forza di pretenderne il pagamento per i più abbienti, per difendere le fasce più deboli da un aumento indiscriminato dell'Iva. B. non si vergogna di difendere i ricchi, anzi ostenta la sua ricetta di tagliare sempre più tasse. Invece il Pd, sotto l'effetto della continuità, ha dimenticato i diritti dei meno abbienti e li baratta per procurarsi dosi quotidiane di stabilità. Le parole più forti sulla difesa della dignità del lavoro sono state del papa. Siamo stanchi del patto di non aggressione tra grillini e berlusconiani. Siamo stanchi di un Pd che ancora crede di poter sanare il Paese con chi l'ha corrotto. Stanchi, ma non rassegnati. E il 12 ottobre torneremo in piazza per riprenderci la parola. Per dire che vogliamo tornare sulla via maestra della Costituzione.

Corriere 24.9.13
Contabili, guardie del corpo, segretarie: rabbia e timori dei 200 lavoratori «dem»
di Monica Guerzoni

ROMA — «Nemmeno ai tempi della Bolognina c’è mai stato un momento in cui qualcuno lavorava contro la ditta, mai! I dirigenti si sono massacrati, si sono rotte amicizie e frantumati rapporti, ma nessuno osava mettere in discussione la casa...». La Casa del Pd è nel cinquecentesco palazzo del Nazareno e il dipendente che, a pochi metri dall’ingresso di via di Sant’Andrea delle Fratte, accetta di parlare sotto anonimato, è uno che le ha viste tutte, dalla svolta di Occhetto alla reggenza di Epifani. Il suo stato d’animo è quello di tanti colleghi, frastornati dalla «follia» di cui i dirigenti democratici hanno dato prova nella due-giorni dell’Assemblea nazionale: «Si pongono solo il problema del potere, stanno tagliando il ramo su cui sono seduti».
Se i muri del Nazareno potessero parlare scandirebbero termini come «rabbia», «preoccupazione», «frustrazione», misti ad altre emozioni ricorrenti come «passione» e «speranza». E tra i quasi duecento lavoratori Dem — guardie del corpo e segretarie, ragionieri e addetti alla manutenzione, portavoce e funzionari degli enti locali — c’è anche chi ha paura. Paura di parlare con i giornalisti e paura che la fine del finanziamento pubblico ai partiti si porti via il posto di lavoro.
La porta del Nazareno è sempre aperta, ma già l’accoglienza dice quanto gelida sia l’aria che tira. Scusi, lei è un dipendente del Pd o lavora per una società esterna? «Non rispondo a queste domande», chiude metaforicamente l’uscio uno dei portieri. E Roberto Cocco, che per oltre due lustri è stato l’ombra di Walter Veltroni: «Ho massimo rispetto per il vostro lavoro, ma preferisco non parlare». Dallo scalone scende Roberto Cuillo, già portavoce di Piero Fassino quando era segretario dei Ds e ora responsabile della redazione web. «Com’è il clima? Lo dico con un piccolo esempio. Per un mese e mezzo ho chiesto un incontro a Davide Zoggia, ma non mi ha mai ricevuto. Eppure mi ha nominato lui. Ecco, non vorrei che questo clima finisse per cambiare anche i rapporti umani tra di noi».
I pochi amici di Matteo Renzi che al Nazareno hanno un contratto a tempo indeterminato raccontano di sentirsi emarginati. Il «tortellino magico» nel quale si era rinchiuso Pier Luigi Bersani non esiste più, ma l’ex segretario ha chiesto (e ottenuto) una stanza di fronte a quella del successore Epifani. Un particolare che i veltroniani rivelano per ricordare, in modo un po’ agiografico, come il primo leader fece gli scatoloni il giorno stesso in cui diede le dimissioni.
«La cosa più amara è stata scoprire che la famosa “ditta” di cui parlavano i bersaniani era la loro ditta e non quella del Pd», si sfoga Domenico Petrolo, che nel 2008 lavorò sodo per la campagna in pullman di Veltroni. Il malessere contagia tutti i settori, paralizzati da un’atmosfera di stallo. «È grazie a Epifani se la data del congresso non si tocca — riconosce Lino Paganelli, responsabile delle Feste — Andare oltre l’8 dicembre sarebbe una sciagura, perché tutto resterebbe immobilizzato». Chi si affaccia nelle stanze dell’ufficio stampa trova un pool affiatato, afflitto però dalla mesta sensazione che «saranno i dipendenti a pagare il prezzo più alto». Una ragazza parla a lungo, conferma stima e fiducia al segretario, ma confessa anche la delusione e la frustrazione di chi lavora in un partito che non è riuscito a vincere le elezioni: «Le sconfitte fanno scoppiare le guerre». Dice nome e cognome, saluta e se ne va. La sera però richiama e ci ripensa: «Preferisco non essere citata, non me la sento... Qui è un momento molto difficile».
L ’Unità , storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci, rischia brutto. Sui territori le risorse sono finite e per tanti dipendenti non c’è che la cassa integrazione. A metà del prossimo anno i soldi per pagare gli stipendi saranno agli sgoccioli anche a livello nazionale e allora l’elefantiaca struttura del Pd sarà giocoforza ridimensionata. Ma a sentire i dipendenti l’angoscia per il posto di lavoro è solo una parte della storia, l’altra parte è «l’incubo di sprofondare nelle sabbie mobili», è la «stagnazione», il timore che «il Pd lentamente affoghi, dilapidando un patrimonio culturale e politico».
Per raccontare la crisi basta un numero: nel 2012 i tesserati erano circa mezzo milione, oggi il dato oscilla intorno ai 200 mila, una emorragia che spaventa dirigenti e dipendenti. Al Nazareno fa notizia il post della militante Gianna Pieragostini («pioniera, Pci, Pds, Ds, Pd»), che ha raccontato su Facebook di essere stata respinta da via dei Giubbonari dopo mezzo secolo di tessera in tasca: «Mi hanno risposto che “i nuovi iscritti” (cioè io sarei una nuova iscritta) debbono fare un “colloquio di ammissione” con la segretaria... P.s. preciso che il circolo è quello dove si è iscritto Barca».
Giovanni Lattanzi, coordinatore del dipartimento Ambiente, riflette sull’appeal che il Pd ha perduto. Lo sconcerto dei militanti lui lo vede ogni giorno, eppure non intende arrendersi: «Ho preso la tessera quando avevo 18 anni, ne ho 40 e ci credo ancora». Non è arrabbiato? «Scriva pure che sono inc... Però penso che se ci sbrighiamo a fare il congresso le elezioni le vinciamo noi».

il Fatto 24.9.13
Napolitano, il “finto” garante dello Stato
di Leonardo Gentile

Non ne posso proprio più di un presidente della Repubblica che non è più il garante di tutti i cittadini ma, come appare ormai a moltissimi, il nume tutelare dello “status quo” e di questa politica indecente. Continua imperterrito a recitare questo tragicomico copione che sta portando il Paese allo sfascio. Non mi fido più di un “ garante” che ha firmato tutte le leggi ad personam senza battere ciglio e che non perde occasione per bacchettare a senso unico tutta la magistratura dimenticandosi gli insulti ed i proclami contro lo Stato ed i suoi organi del capo del Pdl. Appare ancora più evidente constatare che, se una comunità come quella della Val di Susa si oppone (legittimamente anche se talvolta fuori dalle righe) alla Tav ed alla sua insensata e antieconomica realizzazione, viene definita “terrorista e contro le regole democratiche” da tutta la corte politicante. La stessa che fa finta di ignorare le picconate quotidiane di Berlusconi. Ma forse sbaglio io. Non mi sono accorto che la nostra non è più una Repubblica ma una “monarchia” dove abusi, reati ed altre amenità vengono perseguiti solo se a commetterli è la plebaglia.

Repubblica 24.9.13
Napolitano blinda il governo Letta
“Il Pdl deve smetterla con le minacce”
Speranza: “Bene il Colle, stop ai ricatti sul caso Cavaliere”
intervista di Tommaso Ciriaco

ROMA — Il monito di Giorgio Napolitano a favore della stabilità è «condivisibile» ed è «inaccettabile » che il Pdl pensi di «stare al governo con minacce o ricatti quotidiani ». È quanto mette in chiaro il capogruppo democratico alla Camera, Roberto Speranza, che poi avverte: «Noi non consentiremo il logoramento di Enrico. E lo stesso Letta non lo consentirà».
Il Colle chiede ai partiti di evitare incertezze e rotture.
«L'appello di Napolitano mi pare assolutamente condivisibile. Fin dal primo giorno di vita dell'esecutivo, noi del Pd siamo impegnati a risolvere i problemi degli italiani. Il governo è nato per dare vere risposte alle emergenze sociali».
Quindi ha ragione Napolitano quando allontana la prospettiva di nuove elezioni?
«Questo governo serve all'Italia. Il Paese non ha bisogno di nuove elezioni. Adesso Forza Italia deve mettere al centro l'interesse degli italiani, perché in questi mesi non sempre è avvenuto. A sette mesi dalle elezioni, d’altra parte, i cittadini non ci chiedono di tornare al voto, ma di fornire risposte concrete ai loro problemi. Dobbiamo produrre le riforme. E, in questo senso, le elezioni non avrebbero senso».
Quindi a suo avviso il Colle bacchetta il Pdl?
«Dal punto di vista istituzionale sarebbe scorretto pretendere di interpretare le parole di Napolitano. Io offro la mia lettura politica, che è questa: anziché mettere la testa ogni singolo istante sulle grandi questioni che riguardano l'Italia, per mesi ci siamo trovati spesso sul filo a causa di vicende personali legate a Berlusconi. Questa è la sensazione che ha dato il Pdl. Per certi versi, questo tema è ancora sul tavolo ».
Ora, in realtà, le critiche del
Pdl sembrano centrate sul dossier economico.
«Questo governo ha bisogno di responsabilità da parte di tutti. Se il Pdl pensa di stare al governo con minacce o quotidiani ricatti su ogni singolo passaggio, si va su un terreno inaccettabile. Non è possibile tentare di logorare così Letta».
Mi scusi, ma il Pd deve restare al governo a ogni costo? Non c’è il rischio di perdere l’anima?
«Non si può stare sotto il ricatto del Pdl. Prima sulla decadenza, oggi sulle questioni economiche. Così non si governa, il governo è una cosa seria. Voglio lanciare un messaggio, con forza: noi non consentiremo il logoramento di Enrico, e lo stesso Letta non lo consentirà».
Voi, però, ci mettete del vostro. Il Pd litiga furiosamente sul congresso e, così facendo, non aiuta il governo a evitare fibrillazioni.
«Il tentativo del Pdl di buttare le proprie contraddizioni nel nostro campo va respinto, perché tutto il Pd è unito per sostenere l’esecutivo con lealtà».
Non può negare che lo spettacolo di queste ore non sia edificante. Regole, cavilli, scontri...
«Il Pd ha una sua vita interna, anche complicata, alla vigilia di un congresso importante che avrà - mi auguro - una funzione rigenerante. Ma per noi il lavoro di Enrico è positivo e tutte le fibrillazioni di questi mesi sono causate dal Pdl. Tutto è iniziato il giorno in cui hanno fissato la data della sentenza della Cassazione ».
Quali sono le priorità che il governo deve affrontare?
«Sia Squinzi che Camusso hanno lanciato un appello per intervenire sul cuneo fiscale. Ecco, questo tema è decisivo. E ancora, noi siamo per impedire l’aumento dell’Iva. E non basta: bisogna rilanciare la crescita».

Repubblica 24.9.13
L’amaca
di Michele Serra

In quali condizioni di salute intellettuale è una comunità nella quale le parole perdono inesorabilmente il loro significato? Quando Stefano Rodotà definisce “deprecabile ma comprensibile” il tentativo delle fantasmatiche nuove Brigate Rosse di strumentalizzare i No Tav, come può scaturirne la polemica demente della quale si è fatto portavoce Angiolino Alfano? “Deprecabile” vuol dire deprecabile. Cioè: da giudicare con radicale ostilità. “Comprensibile” vuol dire comprensibile. Cioè che se ne comprendono logica e intenzioni. Si può essere radicalmente ostili a una cosa che si comprende? Ovvio che sì. Fare sortire da quelle due parole il sospetto che chi le ha pronunciate possa essere, come si dice con lugubre conformismo rispetto agli anni di Piombo, un “cattivo maestro”, non è neanche offensivo. È desolante. Può bastare per un titolaccio insolente sui giornali di destra (ai quali, per la verità, basta anche meno); ma non dovrebbe bastare ad allestire addirittura “una polemica”, come se davvero fosse in atto un dissidio politico sul terrorismo, e come se davvero esistesse, nelle parole di Rodotà, un margine di ambiguità. Quel margine non esiste. E non servono accademici della Crusca per stabilirlo. Basterebbero buone orecchie e una conoscenza della lingua italiana da scuola media inferiore.

Repubblica 24.9.13
Le università non sono aziende
di Nadia Urbinati

Andando alla ricerca di un’aula di seminario agibile e sicura, il collega francese mi fece fare il giro dell’isolato spiegandomi che la Sorbona, gloriosa madre degli studi, si trova in uno stato pietoso poiché il governo ha da anni adottato una politica di “razionalizzazione” ovvero di tagli funzionali delle risorse agli atenei. Il risultato è che un’ala del palazzo storico della Sorbona è inagibile. La destinazione funzionale dei finanziamenti segue questa direzione: dall’Università alle “Grandes Ecoles”, le quali si consolidano nel patrimonio e nelle dotazioni alla ricerca con l’obiettivo di riconfermarsi il fiore all’occhiello della Francia, quell’immagine di eccellenza che il Paese porta nel mondo come carta d’identità.
Tutto si fa per le istituzioni di eccellenza, mentre le università, quel reticolo di ricerca e di educazione che ha il compito di selezionare e formare, tra l’altro, anche i cervelli che dovrebbero poi concorrere all’accesso nelle grandi scuole. Questa storia non è per nulla eccezionale. È uno spaccato di quel che sta succedendo un poco dovunque in Europa (con le dovute proporzioni dettate dai budget nazionali che non sono come sappiamo gli stessi in tutti i Paesi). Gli effetti sono deprimenti anche perché nel nostro continente vige generalmente un sistema universitario statale che però viene gradualmente gestito secondo criteri privati. Le università sono trattate come aziende che producono scarpe o abbigliamento e devono poter immettere sul mercato prodotti competitivi a prezzi concorrenziali. I prodotti che circolano sui banchi dei supermercati portano etichette con descrizioni standardizzate di quel che contengono, in modo che da Pechino a Varsavia gli acquirenti possano comprendere quel che scelgono e quindi scegliere senza sforzo. E se il mercato stabilisce che un genere o una marca non incontra più i favori del pubblico, l’azienda chiude o si ricicla per produrre altro. Il criterio della competizione di mercato è diventato un metodo universale di giudizio e di semplificazione delle decisioni, esteso anche al campo della ricerca e dell’educazione. Se si tratta di un sistema statale di formazione, il Paese come un’azienda cerca di piazzare i suoi prodotti sul mercato e lo fa mettendo in mostra i suoi gioielli, quelle eccellenze che diventano quindi il bene principale a cui dedicarsi, e per il quale si devono spendere risorse, tralasciando il grosso del sistema, quella moltitudine di atenei che pare diventino una ragione di spreco. Le eccellenze sono investimento mentre le università che coprono ilterritorio nazionale sono una palla al piede.
Scriveva opportunamente Marino Regini sul Corriere della Sera di qualche settimana fa che non esiste un campionato internazionale di università, non solo perché i criteri di valutazione sono così diversi e complessi da rendere impossibile trovarne uno che sia semplice abbastanza da valere per tutte le discipline e in tutto il mondo, ma prima ancora perché il compito degli atenei non è quello di vincere gare ma di formare “capitale umano” e trasmettere un patrimonio di conoscenze che si consolida sul territorio e per mezzo della comunicazione internazionale. Ma non sembra che questa sia la linea vincente, se non altro a partire dalla riforma Gelmini che ha recepito l’idea di trasformare la direzione degli atenei in consigli di amministrazione composti solo in parte da personale docente e operanti secondo criteri di valutazione e decisione cosiddetti “all’americana” (ma che non esistono nelle università americane, dove la reputazione degli atenei si forma secondo criteri non burocratici e centralizzati, primo fra tutti il piazzamento dei diplomati sul mercato del lavoro). Comunque sia, la mentalità del prodotto d’eccellenza che deve risplendere su tutti per dare lustro al Paese (come la Ferrari o le firme dell’alta moda) è diventata moneta corrente, conquistando le nuove leve di politici che a questa opinione si adattano senza ombra di dubbio.
Molto significativa la riflessione proposta pochi giorni fa dall’aspirante primo ministro Matteo Renzi in un’intervista a “8 e mezzo”. Raccogliendo in poche battute ad effetto il senso dell’opinione generale corrente, ha sostenuto che gli atenei eccellenti italiani dovrebbero essere cinque al massimo, il resto non merita. «Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca, cosa vuol dire? Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine, dove c’è quello, il professore, poi ha la sede distaccata di trenta chilometri dove magari ci va l’amico a insegnare, cinque grandi centri universitari su cui investiamo... le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei vertici mondiali».
Certo, ci sono i casi delle sedi distaccate generate per creare posti di lavoro (i governi della prima Repubblica hanno abusato delle risorse pubbliche per create posti di lavoro assistiti, alle poste come all’università). Ma le “université” che come un reticolo coprono il territorio nazionale (e formano bravi studenti apprezzati in tutti i Paesi dove vanno, numerosi, a cercare lavoro) non sono uno spezzatino che fa velo all’eccellenza; sono al contrario un laboratorio di energie da dove, inoltre, prendono linfa i centri d’eccellenza. Ma il problema è un altro ancora: i centri d’eccellenza sono finanziati con denaro pubblico e dovrebbero quindi essere finalizzati a raccogliere il meglio anche di quel che il sistema pubblico forma. Gli “hub della ricerca” non si contrappongono alle università dunque, ma sono o dovrebbero essere un loro traguardo naturale. La competizione dovrebbe servire a far emergere verso l’alto il più gran numero non a deprimerlo per procacciare la vittoria di pochi eletti in un campionato che, in effetti, non esiste. È auspicabile che avvenga quanto richiesto dalle organizzazioni universitarie e promesso dal ministro Carrozza, ovvero che non si ascoltino soltanto quelle voci che propongono di smantellare l’Università statale e adottano una definizione dura (ma povera) di alta formazione come mercato delle poche eccellenze in un deserto di risorse e ricerca.

La Stampa 24.9.13
Cina, il nodo del credito potrebbe complicarsi
di John Foley

I leader politici cinesi sono essenzialmente manager. Per loro, la sentenza di ergastolo emessa per liberarsi di Bo Xilai è un lavoro ben fatto. Gli azionisti possono rilassarsi: la stabilità è assicurata e un dirigente ribelle è stato rimosso. Paragonare il governo di un Paese che conta quasi 1,4 miliardi di abitanti con la gestione di un’azienda può sembrare semplicistico. Tuttavia, i compiti non sono poi molto diversi. Il lavoro del Comitato dell’ufficio politico è quello di assicurarsi che le cose filino lisce controllando che i dividendi – nel caso della Cina gli stipendi – continuino a crescere.
Come in un’azienda, una cultura chiusa e un potere centralizzato possono risolvere molti problemi. Ma in futuro nuovi scandali potrebbero mettere in crisi questo modo di agire. Si prenda ad esempio il sistema finanziario. Mantenere stretti controlli sui flussi di capitale e salvaguardare la centralizzazione del potere è stato utile. I debiti del Paese, stimati attorno al 200% del Pil, sono quasi tutti interni. L’emissione di moneta rimane un’opzione. Il sistema è tutto sommato semplice, ma il proliferare di prodotti di credito simili a depositi commercializzati dalle banche ne sta aumentando la complessità. Anche la crescita di Internet rende più complicate le cose per i leader cinesi, come è stato recentemente dimostrato dalla pesante campagna a favore dell’arresto di coloro che fanno circolare voci non confermate sulla rete – compreso un ragazzino di sedici anni. Il rischio maggiore è che la noncuranza prenda piede. Il destino di Bo avrà sicuramente spaventato i suoi sostenitori, rendendo probabilmente il Partito ancora più forte. Sul fronte finanziario, i successi del passato hanno spinto i leader a sostenere che i debiti della Cina siano sotto controllo – e questo nonostante Fitch Ratings metta in guardia sulla possibilità che i prestiti superino il 270% del Pil nel giro di appena quattro anni. Segnali preoccupanti. Sia per i politici sia per i manager, imparare dalle crisi è importante almeno quanto riuscire a lasciarsele alle spalle.
Per approfondimenti: http://www.breakingviews.com/ (Traduzione a cura dello Studio Melchior)

Corriere 24.9.13
La Cina crea l’altra Hollywood Arrivano DiCaprio e Kidman
Fondi miliardari per produrre film Già prenotate le star americane
di Guido Santevecchi

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Leonardo DiCaprio, Ewan McGregor, Nicole Kidman, Catherine Zeta-Jones e John Travolta non erano alla cerimonia degli Emmy Awards di Los Angeles domenica notte. Si trovavano a migliaia di chilometri di distanza, su un altro tappeto rosso: a Qingdao in Cina. Nella città sulla bella costa orientale dello Shandong, le stelle del cinema erano state invitate da Wang Jianlin, presidente del Wanda Group, gigantesco conglomerato partito dall’edilizia che si è allargato allo spettacolo, acquistando l’anno scorso per 2,6 miliardi di dollari la catena di cinema americani Amc Entertainment. Ora il signor Wang ha avuto un’altra idea: costruire a Qingdao una Hollywood made in China. Il nome c’è già: «Qingdao Oriental Movie Metropolis» e la scritta replicata dal modello hollywoodiano sarà collocata sulla montagna che domina la città.
Il progetto costerà tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari, una cifra che non è un problema per Wang, 58 anni, ex ufficiale dell’esercito comunista passato al business all’inizio degli anni 90. È stato appena incoronato uomo più ricco della Cina con un patrimonio personale valutato tra i 14 e i 22 miliardi di dollari. Wang è già proprietario della più grande rete di cinematografi del mondo, con seimila schermi tra America e Cina e ha anche un impero negli hotel di lusso: 38 cinque stelle, più 71 centri commerciali vasti come castelli e 67 grandi magazzini di alta gamma. Il costruttore-produttore cinese ha idee grandiose anche per la sua replica di Hollywood: sorgerà su un’area di 540 ettari, con venti studi, compreso uno per le scene subacquee e un altro di 10 mila metri quadrati per le riprese di massa che sarà il più vasto del mondo. Intorno alla cittadella del cinema, i cinesi del gruppo Wanda vogliono costruire sette hotel, un museo del cinema e uno delle cere con le statue dei divi.
E siccome Qingdao è sull’oceano e si prevede che molti vogliano approdarci con i loro yacht, l’opera sarà completata con una marina da 300 posti barca. Per chi non volesse affrontare una traversata oceanica, i panfili saranno pronti in loco per l’affitto o l’acquisto: è per questo che l’estate scorsa Wang Jianlin ha comprato per 700 milioni di euro i cantieri navali inglesi Sunseeker, famosi nel mondo del cinema perché forniscono gli yacht usati nella serie di film di James Bond.
Progetti in grande stile. Wang, circondato dalle star hollywoodiane, l’altra sera ha detto che il suo mega-investimento «si inquadra nella nuova strategia cinese di diventare una potenza culturale globale». I lavori della Hollywood di Qingdao saranno completati nel 2016. L’obiettivo è di produrre ogni anno 30 film per il mercato internazionale e 100 per quello cinese. DiCaprio, Travolta, Kidman e compagni non sono venuti a Qingdao solo per una classica comparsata: i loro agenti hanno già firmato gli impegni per portarli a recitare in produzioni della nuova Hollywood d’Oriente.
La nuova frontiera del mercato cinematografico si sta inesorabilmente spostando a Oriente: nel 2012 in Cina sono stati staccati biglietti per 2,7 miliardi di dollari, nel 2011 il valore era di 2 miliardi. Il risultato del botteghini americani è ancora lontano, a 10,8 miliardi nel 2012. Ma guardando ai diagrammi della crescita, Wang sostiene che entro il 2018 gli incassi ai botteghini cinesi sorpasseranno quelli americani e nel 2023 li doppieranno. Forse ha ragione: in Cina ci sono 13 mila schermi cinematografici e ogni giorno se ne aggiungono 10 nuovi.
E per il 2016, quando la Hollywood cinese entrerà in produzione, Wang vuole organizzare un festival internazionale del cinema. Il tappeto cinese sarà rosso, naturalmente.

Egitto
Corriere 24.9.13
Al bando i Fratelli musulmani Confiscati anche i loro beni
I generali egiziani proibiscono ogni attività del movimento
di Cecilia Zecchinelli

I Fratelli musulmani da ieri sono tornati in clandestinità. «Questa corte vieta le attività della Fratellanza e di ogni istituzione che ne derivi o riceva assistenza finanziaria da essa», ha annunciato ieri un tribunale del Cairo. Non solo: «Ordiniamo la confisca di tutti i fondi, beni e immobili della confraternita». Nel verdetto non è esplicito ma è ampiamente ritenuto che la messa bando si estenda non solo al movimento e alle sue molte organizzazioni sociali, ma pure al partito Libertà e giustizia, che per un anno aveva retto il Paese fino alla deposizione del presidente islamico Mohammad Morsi lo scorso 3 luglio. Esplicito è invece l’ordine di requisire l’immenso impero dei Fratelli, costituito da scuole, ospedali, opere caritatevoli e business vari che da decenni forniscono al movimento importanti finanziamenti e un ampio consenso popolare. La Fratellanza ha annunciato che farà appello, ma le sue possibilità sono minime.
Il giro di vite era infatti nell’aria. Ed è un ulteriore passo avanti della restaurazione guidata dal generale Abdel Fattah Al Sisi, capo del Supremo Consiglio delle Forze Armate e reggente de facto dell’Egitto, appoggiata dalla maggior parte del Paese. E non solo dai «mubarakiani», che da poco hanno festeggiato il rilascio dell’ex dittatore, scagionato da una condanna all’ergastolo per i quasi mille morti della Rivoluzione del 2011. A schierarsi contro i Fratelli, tre mesi fa come oggi, sono tutti i partiti «laici», sinistra compresa. Non a caso la richiesta di vietare i Fratelli è stata avanzata dal Tagammo, storica formazione socialista. «Certo che siamo stati noi — conferma dal Cairo Farida Naqqash, del direttivo — La legge vieta i partiti religiosi e le milizie militari. L’abbiamo fatto per difendere l’Egitto, non per istigazione di Al Sisi. Tutti sono d’accordo con noi».
Se non tutti, di sicuro molti. La messa al bando del più importante movimento dell’Islam politico, fondato nel 1928 e proibito per 61 dei suoi 85 anni di vita, avviene dopo che il Paese si era rivoltato in giugno contro la sua gestione fallimentare (per alcuni «criminale») del potere. Dopo l’intervento di Al Sisi che tecnicamente è stato un golpe, ma che molti hanno chiamato «seconda Rivoluzione» perché sostenuta dal «popolo». E dopo una repressione durissima da parte dei militari: sono più di mille i sostenitori della Fratellanza da loro uccisi negli scorsi mesi. Oltre duemila sono i Fratelli, tra cui quasi tutti i dirigenti, in carcere con accuse gravissime. Per Morsi, che ancora non si sa dove sia, soprattutto quella di «istigazione all’omicidio».
La speranza della coalizione militar-politica che amministra la transizione è che la Fratellanza «ora torni nell’ombra ma molto più debole», come ha dichiarato Abdullah Moghazi, consulente legale dei generali. Escluso dalla costituente che cerca di stilare una nuova Carta, come lo sarà dalle elezioni previste nel 2014, con i leader in cella, il movimento potrebbe però trovarsi allo sbando, con un rafforzamento dell’ala più dura. «Torneranno nell’ombra, certo, ma così potranno praticare odio e violenza: è un verdetto sbagliato», scriveva ieri su twitter l’attivista per i diritti umani Gamal Eid. Lo stesso premier ad interim Hazem Beblawi recentemente si era opposto a un simile passo, proponendo invece un «monitoraggio» del partito islamico.
Anche perché la normalità è ancora molto lontana in Egitto. Le odiate leggi speciali di Mubarak, che consentono tra l’altro ai militari di arrestare chiunque, sono state reintrodotte per almeno due mesi. La paura, nonostante la fine delle proteste di massa, resta nell’aria; scontri e attacchi continuano. L’economia è un disastro: i 12 miliardi di dollari elargiti da sauditi e alleati sono serviti finora per ridarne due al Qatar, grande sponsor della Fratellanza; la miseria è ancora estesa e profonda. Soprattutto, la Fratellanza non si arrende: «Esistiamo a prescindere dai divieti — ha detto ieri un ex ministro di Morsi, Ahmed Mekki — Come Israele: molti Paesi arabi non lo riconoscono ma questo cambia qualcosa per Israele? La risposta è no».

Russia
Corriere 24.9.13
La Pussy Riot Nadia: «Sono chiusa in un gulag staliniano»
Memoriale dal carcere: diciassette ore di lavoro, quattro di sonno, pane secco e pestaggi
di Fabrizio Dragosei

MOSCA — Il capo della colonia penale l’aveva avvertita già al momento del suo arrivo: «Le mie idee sono staliniste». Ed effettivamente Nadia Tolokonnikova, una delle Pussy Riot incarcerate per aver protestato in una chiesa, dice di trovarsi in una versione moderna del famigerato arcipelago Gulag: diciassette ore al giorno di lavoro, detenute chiuse fuori dalle baracche d’inverno, rancio a base di pane secco e latte annacquato, pestaggi continui. Così ha deciso di reagire: ha iniziato lo sciopero della fame e ha fatto pubblicare dai suoi familiari una lettera aperta su Internet.
La voce di Nadia arriva dalla Mordovia, una repubblica a quattrocento chilometri da Mosca piena di colonie penali femminili. Le peggiori di tutta la Russia, dicono le detenute che ci sono passate.
Tolokonnikova, condannata assieme ad altre due cantanti del gruppo punk che si esibì nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, si è presa due anni e deve rimanere nella Colonia Correttiva numero 14 fino a marzo prossimo. Le circa 800 recluse lavorano con macchine da cucire antiquate e mezze rotte a confezionare divise per la polizia. «L’orario di lavoro è di otto ore al giorno, compresa una pausa per il pranzo», sostiene l’amministrazione carceraria. Ma le cose, nella realtà, starebbero ben diversamente. «Lavoriamo dalle sette e mezza del mattino a mezzanotte e mezza. Non abbiamo più di quattro ore per dormire. Ci danno un giorno libero ogni sei settimane», racconta Nadia. Ufficialmente sono le donne a presentare lettere nelle quali chiedono di poter fare gli straordinari e di lavorare anche di domenica. «Ma in realtà riceviamo l’ordine di scriverle». Al termine delle 17 ore di lavoro, le donne sono distrutte, abbrutite: «Le mani sono piene di piaghe e buchi fatti dagli aghi; il tavolo è coperto di sangue, ma tu continui a cucire».
La squadra sforna ogni giorno 150 divise, ma le richieste sono sempre crescenti. La «norma» viene alzata in continuazione, anche quando il numero delle detenute diminuisce. E il compenso per le detenute è ridicolo: «A giugno ho guadagnato 29 rubli», ha raccontato la Tolokonnikova; meno di un euro.
A pranzo, cena e colazione le prigioniere ricevono «avena, pane secco, latte annacquato e patate marce». Per la minima mancanza scatta il divieto di poter utilizzare il cibo inviato dai parenti. I capelli si possono lavare solo una volta a settimana, ma a volte il turno salta perché la pompa dell’acqua non funziona oppure gli scarichi sono otturati. Per la pulizia intima le 800 recluse hanno a disposizione un solo bagno per cinque persone alla volta. Ma tutto può essere tolto se le autorità decidono di infliggere una punizione non ufficiale: «Ci può essere il divieto di andare al gabinetto o quello di lavarsi, o quello di entrare nella baracca, anche d’inverno quando fa molto freddo». Le detenute vengono lasciate per ore e ore nell’anticamera delle camerate, dove non c’è riscaldamento. «Nella seconda squadra, dice Nadia, c’è una donna che ha passato una giornata intera in quel locale: le hanno dovuto amputare un piede e tutte le dita delle mani». I pestaggi sono all’ordine del giorno: sono le altre recluse ad eseguire le «sentenze», naturalmente senza che nessuno abbia emanato un ordine ufficiale. Nadia in genere non viene toccata, perché è troppo famosa. In fin dei conti il suo processo è stato seguito in tutto il mondo e per le Pussy Riot si sono mobilitate star del mondo dello spettacolo, da Madonna a Paul McCartney.

Germania
Repubblica 24.9.13
 “Non saremo i camerieri di Angela” la Spd tratta l’ingresso nel governo
Molti dubbi nel partito. Steinbrueck: “Si va avanti”
di Giampaolo Cadalanu

BERLINO — La gioia è già sparita, insieme con i resti della festa alla Stresemannstrasse. Adesso viene il momento delle scelte difficili. Gli applausi dei militanti socialdemocratici che hanno accolto la disfatta della Fdp ormai sono storia del passato: la Spd è riuscita a bloccare una riedizione del gabinetto giallo-nero (cioè una coalizione come quella uscente fra Cdu/Csu e liberali), ma non a presentarsi come alternativa credibile per la Germania. E mentre gli operai smontano i giganteschi pannelli tv e le tende delle birrerie di partito sotto il palazzo Willy Brandt, il vertice si interroga sul futuro.
«Dobbiamo scegliere fra le peste e il colera», sintetizzava già domenica sera un alto funzionario: la peste è la prospettiva di essere partner debole in una grande coalizione, «dove la Spd sarebbe cameriere, non cuoco». Il colera, invece, sarebbe la prospettiva di vedere l’unione Cdu/Csu governare da sola. Ma se quest’ultima possibilità appare ormai superata, l’ipotesi di partecipare in posizioni subalterne a una Grosse Koalition ètutt’altro che affascinante. La paura, ovviamente, è quella di fare la fine dei liberali, incapaci di profilarsi in modo indipendente dai cristiano-democratici e dunque “spariti” agli occhi degli elettori dietro la figura ingombrante di Angela Merkel.
Che si fa allora? Venerdì la prima assemblea, per studiare le prospettive. Una scelta è obbligata: «Si va avanti», dice il candidato battuto Peer Steinbrueck, citando la reazione del partito alla sconfitta del 1983. Tocca al governatore del Brandeburgo, Matthias Platzeck, ammettereche «la botta ci ha scosso», sottolineare che a Est la batosta è stata pesante, e invitare il partito a riflettere sull’esito del voto, non una ma tre volte. La sinistra del partito, però, ha già scelto: con la Merkel no, mai. Meglio forse accettare le aperture della Sinistra, “die Linke”, quegli eredi del partito comunista tedesco orientale che Steinbrueck non voleva nemmeno vedere.
«Ma per essere partito di governo la Linke deve ancora passare per la sua Bad Godesberg», avverte Volker Perthes, direttore dell’Istituto per gli affari internazionali Swp, riferendosi alla svolta riformista che la Spd fece nel 1959. Secondo il politologo, ai socialdemocratici non sarebbe comunque bastato un profilo più progressista: «I tedeschi vogliono la Merkel, si sentono sicuri con lei e non vogliono cambiare. L’ideologia non funziona più, al governo vanno i tecnocrati più preparati».
Anche David Biesinger, direttore esecutivo di radio Berlino-Brandeburgo, è d’accordo: «Nemmeno una campagna forte sulla giustizia sociale avrebbe fatto vincere la Spd, se la gente in fondo pensa che ingiustizie gravi non ce ne siano». E allora, se i socialdemocratici cedessero alla tentazione di entrare di nuovo in un gabinetto Merkel, che risultati sono alla loro portata? «Potrebbero presentare all’elettorato un accordo parziale sul salario minimo, magari scandito per le diverse categorie dei lavoratori », dice Perthes. «Più sicurezze sulla svolta energetica, senza ripensamenti favorevoli al nucleare. Magari anche qualche misura di sostegno sociale per gli anziani». Di fronte all’incubo di un destino come quello della Fdp, avviata ormai all’estinzione, sembra davvero poco.

Repubblica 24.9.13
L’intervista
“La Merkel è la mamma che rassicura i tedeschi e poi divora i suoi alleati”
Il sociologo Beck: un trionfo con un lato oscuro
di Riccardo Staglianò

È LA vittoria del marchio che ispira fiducia in tempi massimamente precari. Il trionfo del certo sull'incerto. Il fascino discreto dell'affidabilità per un popolo proverbialmente refrattario ai colpi di testa. Ma c'è anche un 'lato oscuro della forza' nella schiacciante affermazione di Angela Merkel, secondo il sociologo tedesco Ulrich Beck, che potrebbe indebolire lei a beneficio del resto d'Europa.
Intanto professore, se l'aspettava?
«No, non me l'aspettavo: è un successo oltre le previsioni, di portata storica. Ottenuto in un modo specificamente merkeliano, con una campagna-non campagna, dove non ha mai discusso di grandi questioni politiche come l'Europa, la crisi finanziaria, il riscaldamento globale. E dove invece ha raccontato un sacco di aneddoti il cui sottotesto era tendenzialmente: sono come voi, la situazione è difficile ma ce la possiamo fare. È stata essenzialmente una campagna sull'importanza della fiducia in tempi incerti».
Nel suo libro 'Europa tedesca' lei raccontava scettico l'equilibrismo della cancelliera, ovvero cercare di tenere insieme l'eleggibilità interna e il suo ruolo di architetto europeo. Com'è riuscita nel miracolo?
«È stata brava nel mantenere la priorità sulle elezioni nazionali pur mantenendo una qualche connessione con elementi di prospettiva europea. Negli ultimi giorni di campagna è anche arrivata al punto di confessare, prendendo di petto il partito anti- europeista pur senza nominarlo mai, quanto importante sia l'Europa per la Germania, e che è impensabile che le due entità siano separate. Non l'aveva mai detto così chiaramente. Lei ha vinto con gran margine, Alternativa per la Germania non ha neppure passato lo sbarramento. Subito dopo però, quasi senza accorgersi della contraddizione, ha ricordato che il processo di austerity non deve essere abbandonato».
Dopo un risultato elettorale così robusto la Germania della Merkel si concederà il lusso di essere più generosa coi paesi in crisi o ne deriverà la convinzione rafforzata che la severità paga?
«La scala delle vittoria era inimmaginabile, ma contiene un lato oscuro che rende tutto più complicato. La Merkel ha infatti perso il partner storico, i neoliberali. Anzi, viene da dire che distrugga tutti i suoi partner di coalizione, li mangia a colazione. Il che porta alla domanda: chi sarà il prossimo ad essere fagocitato?»
Ecco, chi?
«I verdi sono in una situazione abbastanza disperata. È molto improbabile che possa mettersi d'accordo con Linke. Restano dunque solo i socialdemocratici. Con i quali, a parte una serie di dispute su temi sociali ed etici, c'è un grosso solco sul'argomento Europa. La Grande coalizione può essere fatta solo con loro, ma ad un prezzo».
Ovvero?
«La Spd ha un approccio cosmopolita e una posizione chiara nei confronti dell'Europa, cioè: ne serve di più. E di migliore. Le ipotesi di 'meno Europa', alla Cameron,adesso saranno irricevibili».
Questo abbraccio necessario con i socialdemocratici, se capisco bene, è il lato oscuro della forza che le dà ragioni per essere ottimista?
«Sì, il loro candidato ha detto molto chiaramente che l'austerity è controproducente e può uccidere le comunità, stracciando il loro tessuto sociale. E in una coalizione al partner di minoranza vanno generalmente i ministri degli esteri, delle finanze e il vicecancelliere. Tutte figure piuttosto centrali nel discorso europeo che renderanno il Paese più sensibile alle ragioni del resto dell'Unione. E più generoso».
Nel frattempo sono inevitabilmente partiti i paragoni storici. La politica più potente al mondo, che starà in carica più a lungo della Thatcher. Vede somiglianze?
«La Thatcher era molto dura. Le sue politiche avevano una tonalità fredda. Aggettivi che non si addicono alla Merkel, la mutti, la mamma che si prende cura di tutti, che invece di escludere include tutto e tutti. Al punto di dare a volte lei stessa l'impressione di ospitare al suo interno una grande coalizione, conservatrice e socialdemocratica, compresi i critici di entrambi gli schieramenti».
Il famoso numero telefonico che Kissinger lamentava di non poter chiamare per parlare di Europa ora finalmente c'è?
«Senza dubbio. Direttamente l'iPhone della cancelliera, se è per quello».

Germania
La Stampa 24.9.13
Hannelore in corsa per guidare la sinistra
di Ma. G.

DALLA NOSTRA INVIATA BERLINO — Tra i tanti professionisti della politica della Spd, domenica sera alla Willy Brandt Haus è stata una donna ad attirare più telecamere. Hannelore Kraft, 52 anni, ministro presidente della Nord Renania Vestfalia (NRW). Perché se il partito, nelle riunioni di questa settimana, si prepara a un’onorevole uscita di scena di Peer Steinbrück — quasi inevitabile, viste le promesse elettorali, se si arriverà alla grande coalizione — se Siegmar Gabriel vuole a tutti i costi prenderne il posto, convinto più lui dei compagni (che lo accusano di opportunismo) di averne le qualità; se Steinmeier è un uomo del passato schroederiano; allora Hannelore Kraft per molti militanti è l’unica che può aspirare a diventare cancelliera. Nelle loro speranze, è quasi una Merkel socialdemocratica. Sicuramente, è la più popolare. Entrata nella Spd a 33 anni, ha quel curriculum proletario che è nell’identikit di tanti leader Spd. Cresciuta con la nonna, perché i genitori operai facevano dei lunghi turni, si trovò a dover lavorare a 18 anni, e solo più tardi si iscrisse all’università e si laureò. «La mia giovinezza finì quando mio padre morì di cancro a 50 anni», disse. Una lunga gavetta nel partito regionale, scalando tutte le posizioni fino a diventare «governatrice» del più popoloso Land della Germania (quasi 18 milioni di abitanti). Si parlò molto di lei come possibile candidato-cancelliere già un anno fa. Lei declinò i molti inviti a correre e affidò al capogruppo regionale Spd, Norbert Roemer, la spiegazione ufficiale: «Hannelore Kraft è molto amata. Per questo resta nella Nord Renania Vestfalia». In realtà, è proprio la sua provenienza il suo punto di forza. Nella regione operaia dell’Ovest si sono formati molti leader Spd, dall’ex presidente tedesco Johannes Rau allo stesso Peer Steinbrück. Non solo. L’influenza del «blocco renano» nel partito è leggendaria: impossibile incoronare un leader socialdemocratico se loro non sono d’accordo. Per questo la Welt ha già definito la Kraft come la «Königmacherin», la kingmaker della prossima partita Spd. Tutto quello che deciderà la Spd nei prossimi giorni a Berlino, dovrà ottenere il via libera di Hannelore Kraft.

Repubblica 24.9.13
Gli americani liberi, ma di morire di fame
di Paul Krugman

La parola “libertà” incombe minacciosa nella moderna dialettica dei conservatori. I gruppi di lobbisti si fanno chiamare Freedom Works. La riforma sanitaria è criticata non soltanto perché costa, ma perché è un’aggressione alla libertà, proprio così. Ah, vi ricordate quando sembrava che dovessimo iniziare a chiamare le patatine fritte “le patatine fritte della libertà”?
La definizione di libertà della destra, tuttavia, non è una che Franklin Delano Roosevelt, tanto per dire, potrebbe riconoscere. In particolare, la terza dellesue celebri Quattro libertà – la libertà dal bisogno – pare essere stata completamente stravolta. Sembra quasi che i conservatori, in particolare, credano che libertà è una parola come un’altra per indicare il fatto di non avere da mangiare a sufficienza.
Da qui la guerra dei buoni pasto: i repubblicani della Camera hanno appena votato, decidendo di tagliarli in modo drastico nel momento stesso in cui hanno deciso di aumentare i sussidi all’agricoltura. Da un certo punto di vista è più che evidente la ragione per la quale è stato preso di mira il programma dei buoni pasto, detto Snap, se vogliamo utilizzare il suo vero nome (Supplemental Nutritional Assistance Program, programma di assistenza alimentare ai bisognosi). I conservatori sono profondamente convinti che sotto la presidenza di Barack Obama il governo si sia espanso, ma si trovano alle prese con il fatto bizzarro di un’occupazione nel settore pubblico in forte calo, mentre la spesa sta scendendo rapidamente come percentuale del Pil. Lo Snap, in effetti, è cresciuto veramente molto, e dal 2007 a oggi l’iscrizione al programma è passata da 26 a 48 milioni di americani.
I conservatori prendono in esame questo dato e osservano quello che, con loro enorme disappunto, non riescono a riscontrare altrove nei dati: una crescita esplosiva e incontrollata del programma governativo. Il resto di noi, per contro, vede un programma-rete di sicurezza fare esattamente ciò che si suppone debba fare: aiutare più persone in un periodo di grande difficoltà economica.
La recente crescita dello Snap, in effetti, è insolita, ma altrettanto insoliti sono i tempi che stiamo vivendo, nel modo peggiore possibile. La Grande recessione del 2007-2009 è stata la più grave dai tempi della Grande depressione e la ripresa che ne è seguita è stata molto debole. Molti rigorosi studi economici hanno dimostrato che il grosso del cospicuo aumento nell’uso dei buoni pasto va ricondotto proprio alla recessione economica. E mentre le notizie di economia in genere sono state negative, una notizia buona almeno c’è ed è che i buoni pasto se non altro hanno alleviato le difficoltà, mantenendo milioni di americani alla larga dalla povertà. Né questo è l’unico vantaggio di tale programma: è ormai più che evidente che i tagli alla spesa in un’economia depressa acutizzano la crisi, e nonostante tutto la spesa pubblica è diminuita. Lo Snap, invece, è un programma in piena espansione, e in quanto tale ha indirettamente contribuito a salvare centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Ma come, dicono i soliti sospetti, la recessione è finita nel 2009: perché la ripresa non ha fatto ridurre drasticamente le iscrizioni allo Snap? La risposta è che se la recessione ufficialmente è finita nel 2009, da allora abbiamo avuto una ripresa di, da e per un numero esiguo di persone all’apice della piramide della distribuzione del reddito, e nessuno spicciolo è rotolato giù verso i meno fortunati.
Al netto dell’inflazione, il reddito dell’1 per cento al top è aumentato tra il 2009 e il 2012 del 31 per cento, mentre il reddito reale del 40 per cento della popolazione meno abbiente, di fatto, è sceso del sei per cento. Perchémai dunque l’uso dei buoni pasto avrebbe dovuto diminuire? E ancora: lo Snap, in generale, è una buona idea? O è forse, per dirla con Paul Ryan, presidente della Commissione bilancio della Camera, un esempio di come trasformare una rete di sicurezza “in un’amaca che culla individui di sana e robusta costituzione in vite compiaciute a carico d’altri”? Una risposta è: alcune amache. L’anno scorso il benefit dei buoni pasto ammontava a 4,45 dollari al giorno. Per ciò che concerne poi le “persone di sana e robusta costituzione”, i due terzi di coloro che beneficiano del programma Snap è formato da bambini, anziani e disabili. La maggior parte del terzo rimanente è composta da adulti con figli.
Oltre a ciò, in ogni caso, si potrebbe pensare che garantire nutrimento adeguato ai bambini – come fa in gran parte il programma Snap – di fatto riduce le probabilità che quei bambini diventino poveri e bisognosi dell’assistenza pubblica quando cresceranno, e non il contrario. Ed è questo che i fatti dimostrano. Le economiste Hilary Hoynes e Diane Whitmore Schanzenbach hanno studiato l’impatto del programma dei buoni pasto negli anni Sessanta e Settanta, nel periodo in cui si estese a tutto il paese. Le due economiste hanno scoperto che i bambini che hanno ricevuto aiuto in tenera età in media sono diventati adulti più sani e più produttivi di coloro che non ricevevano i buoni pasto e per di più – lo si è scoperto dati alla mano – diventati adulti avevano minori probabilità di rivolgersi alle reti di sicurezza per aiuto.
In sintesi, lo Snap è politica pubblica nella sua migliore accezione. Non soltanto aiuta coloro che si trovano in stato di bisogno, ma li aiuta ad aiutarsi da soli. E durante la crisi questo programma ha reso un onorato servizio, alleviando le sofferenze, proteggendo i posti di lavoro in un’epoca in cui troppi policy maker paiono determinati a fare il contrario. La dice lunga dunque il fatto che i conservatori abbiano preso di mira con un furore speciale proprio questo, tra tutti i programmi esistenti. Adesso perfino alcuni sapientoni conservatori temono che la guerra per i buoni pasto, soprattutto se abbinata al voto per l’aumento dei sussidi all’agricoltura, arrechi danno al Gop, perché fa sembrare i repubblicani una categoria di guerrieri ispirati dal male. In realtà è così. È lo è perché lo sono davvero.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2013 New York Times News Service

Corriere 24.9.13
La fede nel riscatto di Pintor
di Arturo Colombo

Giaime Pintor, classe 1919, aveva ancora pochi mesi di vita, quando — nell'autunno del '43 — ricostruisce le vicende di quell'anno così tormentato e prospetta quello che sarebbe occorso fare. Adesso le pagine escono col titolo L'ora del riscatto (Castelvecchi, pp. 58, € 7,50) e offrono un'analisi lucida e impietosa delle «giornate che seguirono l'8 settembre e furono le più gravi che l'Italia abbia attraversato da quando esiste come Paese unito».
Il più criticato di tutti è Badoglio, «fedele al suo piccolo machiavellismo di generale travestito da uomo politico», e quindi capace soltanto di «produrre un disorientamento totale». Infatti — spiega Pintor — se l'Italia di Mussolini «si era disfatta in un giorno», restava in piedi «la sua struttura burocratico-militare» e, quel che era peggio, continuava la guerra e l'alleanza con la Germania.
Ma non è solo «la certezza del fallimento della classe dirigente italiana» che Pintor denuncia; l'invito a superare una prova così negativa (e quindi «l'ora del riscatto») per lui diventa non più procrastinabile. Da qui l'obbiettivo essenziale che propone è quello di impegnarsi a dare vita a un nuovo, indispensabile «risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettare la prova come impulso a una rigenerazione totale»; ossia «se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione».
Sa di essere un intellettuale e conosce le difficoltà di scendere in lotta. Ma come scrive a suo fratello Luigi in qui mesi (la lettera è del 28 novembre), è consapevole che quella «è l'unica possibilità aperta e l'accolgo». Purtroppo ignorava che di lì a qualche giorno, il primo dicembre, sarebbe morto dilaniato da una mina posta dai nazisti lungo il Volturno.

Su Pasolini un giudizio fortemente critico»
l’Unità 24.9.13
Enrico Filippini a proposito del fenomeno Pasolini
di Angelo Guglielmi

QUALCHE SERA FA A CENA ALCUNI AMICI DI «ALFABETA 2» SI DICEVANO STUPITI (INVERO INDISPETTITI) i del fanatismo ardente che ancora circonda la figura di Pasolini e invitavano Balestrini e me a intervenire per fare definitiva chiarezza. Balestrini ed io abbiamo risposto che (a suo tempo) «avevamo già dato» non salvando il Poeta delle Ceneri di Gramsci da un giudizio fortemente critico. Né altro avevamo da aggiungere.
Ma oggi ho l’occasione di leggere una riflessione sul fenomeno Pasolini che, in quanto sgombra (almeno così a me pare) di ogni malevolenza soggettiva, propongo all’attenzione dei suoi ammiratori (vecchi e soprattutto nuovi) convinto che non può lasciarli indifferenti. Più che un giudizio è una sorta di esame autoptico (non spaventatevi si parla di una autopsia intellettuale).
L’occasione è la lettura di un felice libretto di Enrico Filippini (Eppure non sono un pessimista) appena uscito che riporta due interviste che Enrico (grande esempio di scrittore-gionalista) fa al filosofo tedesco Jurgen Habermas l’una nel 1979 e la seconda otto anni dopo.
I due (Habermas e Flippini) conversano sulla crisi etica (e più in genere culturale) intervenuta dopo gli anni della rivolta sessantottesca (terrorismo incluso) quando secondo Habermass «si delineò una curva che nell’opinione pubblica si esprimeva in un gusto nuovo per la tradizione e per la privateza», in pratica inducendo nell’individuo una solitudine che prima si manifestò come ignavia per poi scivolare nella ricerca delle pur basse soddisfazioni personali, a fronte (e profittando) delle opportunità che lo Sviluppo (tecnologico industriale) con spinte sempre più accelerate metteva a disposizione Più dottamente Habermas parla di «colonizzazione della vita quotidiana» sottoposta a una così asfissiante rete di condizionamenti (e di controlli) da smarrire ogni spontaneità e innocenza.
A questo punto della conversazione Filippini viene sorpreso da una battuta di Habermas il quale riferendosi all’antologia (che era poi l’oggetto della conversazione) in cui aveva raccolto 48 interventi di filosofii e uomini di cultura tedeschi sulla situazione spirituale del tempo, a un certo punto se ne esce:..«C’é poi Pasolini... chiamato in causa da non poche di quei 48 autori». Lo stupore di Filippini è evidente tanto che Habermas deve aggiungere «se lo legge in tedesco ha una certa spontaneità intellettuale». Filippini spiega il suo sbalordimento elencando ciò che non gli piace in Pasolini: «l’impoliticità apocalittica, il gusto di vacinare la catastrofe, l’estetismo della sua utilizzazione del dialetto nei romanzi, il neoclassicismo retorico delle poesie, il populismo».
Habermas annuisce sempre sorridendo e conclude «Sì, lo so ma...». Dopo questo intermezzo la conversazione riprende sul tema generale che poi è la fine dei valori in cui fino allora ci eravamo riconosciuti delegittimati e scaduti e la deriva soddisfatta verso un complice e compiaciuto amor sui (in qualche modo la strombazzata «rivoluzione antropologica» vaticinata da Pasolini). Della quale Habermas prende atto e insieme fissa la distanza affermando che: sì, la rottura tra le parole e le cose è ormai forse definitiva ma «quello a cui occorre non rinunciare è una certa sensibilità per il fatto che c’é un ambito di vita da conservare, un ambito comunicativo». Vuole dire che la deriva (la fine dell’autenticità) va comunque contrastata e la forza e la responsabilità del contrasto spetta al sociale. A Filippini appare una pretesa contraddittoria (e prima ancora ingenua) preferendo piuttosto di vedere la soluzione riconoscendo in quella deriva l’essenza stessa del moderno da rielaborare in un progetto nuovo di pratica esistenziale.
Tornato a casa a mente più fredda (lontano dai toni accesi della conversazione) Filippini riflette sul fenomeno Pasolini (ed è questa riflessione che offro agli attuali frettolosi celebratori dell’autore degli Scritti corsari): «Pasolini era autenticamente disperato dei guasti che il famoso Sviluppo aveva provocato nel corpo sociale italiano. E la sua disperazione, come ogni disperazione, era rispettabile e perfino condivisibile. Ma ciò che a un certo punto rese la sua disperazione muta letterariamente e apocalittica e ciarliera ideologicamente era la passione, cioè la sua concezione della letteratura, che era una concezione umanistica, legata al decadentismo nella sua concezione pascoliana, ma non alla nozione e al movimento della decadenza, cioè assolutamente non attrezzata a cogliere la crisi nel suo stesso corpo». Come erano riusciti a fare Kafka e Joyce, e Gadda in Italia.

Corriere 24.9.13
La mia scelta esistenziale e gli altri
«Qualunque idea abbiamo in mente, nessuno di noi è completamente autonomo»

di Agnes Heller

Ogni scelta umana presuppone autonomia. L'individuo, sceglie come singolo individuo, come una «identità». Se sceglie cercando il consiglio, l'approvazione o la disapprovazione degli altri, il rapporto tra autonomia ed eteronomia sarà sbilanciato, dato che «l'identità oggettiva», la considerazione degli altri, peserà più dell'impulso interno. L'equilibrio tra autonomia ed eteronomia si sposta invece verso l'autonomia ogni volta che l'attore si trova solo al bivio o, perlomeno, decide di scegliere come se fosse solo.
L'azione è normalmente attribuita a chi sceglie. L'attore può assumersene la responsabilità, o può anche evitarla. Coloro che evitano la responsabilità riscrivono la propria autobiografia, nel tentativo autodifensivo di cambiare la propria storia. Riscrivere, reinterpretare la propria autobiografia comporta la manipolazione della memoria. Per evitare la responsabilità la stessa situazione di scelta verrà modificata nel ricordo, molti lampi di memoria verranno spinti fino al livello inconscio, cioè dimenticati. Questo gioco può avere successo solo in parte. Ma anche se solo parzialmente riuscito, influenzerà le scelte future dell'individuo al suo prossimo crocevia. Le scelte che seguono sono influenzate principalmente dalla memoria cosciente, poiché ogni scelta essenziale è anche una sorta di ripetizione. Eppure, il ricordo più autentico, soppresso, non viene del tutto dimenticato. Può apparire in forma di ansia, di rimorso di coscienza e addirittura come trauma in ogni nuova situazione di scelta essenziale.
Una relativa autonomia è presente in tutte le nostre scelte con maggiore o minore intensità. Ma cosa pensare del noto detto di Lutero: «Qui sto. Non posso fare altrimenti»? E del celebre commento autoriflessivo di Nietzsche «Non ho mai avuto scelta»? Cosa dire dell'autonomia di non scegliere?
Ciascuno si trova di fronte a scelte, alcune essenziali altre inessenziali. Ci sono scelte banali, scelte superficiali come anche scelte che definiscono il carattere. Queste ultime sono essenziali, perché determinano la personalità, hanno effetti duraturi e non possono essere capovolte senza gravi conseguenze. Le scelte più essenziali possono determinare l'intera esistenza di una persona e per questo sono definite esistenziali. Una scelta esistenziale definisce il carattere di una persona una volta per tutte. Se qualcuno afferma (come Lutero o Nietzsche) di non avere alcuna scelta, di non fare più alcuna scelta, ribadisce che non può tornare indietro su una strada già scelta una volta per tutte.
Ma come può ciò che è caratterizzante, essenziale, che è scelta esistenziale, come lo è una scelta pienamente autonoma, essere immaginato o meglio descritto? Come posso immaginarlo o anche descriverlo senza ricadere in speculazioni metafisiche su due mondi differenti e non collegati, il mondo della ragione e quello della natura? Come posso presentare il caso di una scelta esistenziale? Di una scelta a seguito della quale non si ha più scelta?
La scelta esistenziale non è una scelta di questo o quello, dell'obiettivo di una vita, non è la scelta di un'idea, di una professione, neanche la scelta del bene. Scegliere questo piuttosto che quello non è una scelta totalmente autonoma, dal momento che chi sceglie è anche determinato dall'oggetto della sua scelta.
Scelta esistenziale significa scegliere se stessi. La scelta di se stessi è un salto e come tale non determinato. Dopo aver scelto noi stessi, cominciamo a diventare ciò che abbiamo scelto di essere. Noi non scegliamo l'arte, ma noi stessi come artisti e, sulla scia della nostra scelta, cominciamo a diventare artisti. Non scegliamo il bene, ma abbiamo scelto noi stessi come persone buone, e cominciamo a diventare ciò che abbiamo scelto di essere: buone persone. Avendo scelto noi stessi come questo o quell'altro, non ci rimane più scelta. Avendo scelto noi stessi, abbiamo scelto il nostro destino, che è la meta della nostra vita. Non possiamo fare a meno di raggiungere la nostra destinazione. Piena autonomia significa seguire il sé che abbiamo scelto come nostra destinazione, senza sottrarci. Un'altra, nuova, scelta essenziale sarebbe quella di abbandonare la strada del nostro destino auto-scelto. Una persona che abbandona il suo destino si trasforma in un fallimento esistenziale, un nessuno, un naufragio.
Pensando all'autonomia attraverso una scelta esistenziale, ci si deve chiedere se si tratti sempre di un'autonomia morale. C'è un aspetto etico in tutte le scelte esistenziali, ma non anche di tipo morale. A volte è difficile distinguere l'uno dall'altro. Lutero ha scelto se stesso come colui che ha riformato il Cristianesimo. Questo era il suo destino, non poteva agire diversamente. Nietzsche ha scelto se stesso come filosofo, questo era il suo destino, non poteva fare altrimenti. Solitamente, ciò che è etico nel senso descritto sopra non è morale, e talvolta contraddice la moralità. L'etica di tutte le scelte esistenziali richiede di far fronte alla scelta, senza mai tradirla, senza mentire, prima di tutto senza mentire a se stessi. Eppure, basta pensare al Don Giovanni nell'opera di Mozart. Le autorità morali del mondo gli chiedono di pentirsi e lui risponde di «no» per tre volte. Se si fosse pentito, sarebbe diventato un fallimento esistenziale. Egli rimane fedele all'immoralità.
La scelta esistenziale di sé diventa una scelta morale — e non soltanto etica — se ci si sceglie come persona buona e si comincia a diventare la persona buona che si è scelto di essere. Così facendo, il soggetto diventerà una persona che di fronte a ogni scelta concreta, preferirà subire il male che fare il male, senza tentennamenti, per forza di carattere, perché non avrà altra scelta. Sarà un essere morale completamente autonomo.
Ma esistono esseri completamente autonomi? Esistono persone buone. Tutti noi conosciamo buone persone. Pensando in termini filosofici, hanno scelto se stessi come persone buone e sono diventati ciò che hanno scelto di essere. Ma conosciamo persone che non crollano mai nelle proprie azioni? Chi è in grado di sapere immediatamente, in ogni situazione, quali atti sono giusti o ingiusti? Quasi nessuno, ma quali conseguenze possiamo trarne?
Qualunque sia la teoria che abbiamo in mente, dobbiamo ammettere che nessuno di noi è completamente autonomo, nessuno di noi può scegliere in piena autonomia. Kant direbbe che la piena autonomia è un'idea regolativa pratica. Nella vita di tutti i giorni si può solo cercare con tutte le proprie forze di evitare l'eteronomia. Come? Forse, per prima cosa, seguendo il consiglio di Kant: in caso di scelta o di qualsiasi tipo di azione, meglio decidere se la scelta è buona prima di decidere se è piacevole o utile. E, in secondo luogo, meglio evitare la cieca accettazione dell'opinione pubblica e delle ideologie. In terzo luogo, facendo del nostro meglio per non mentire a noi stessi. Infine, essendo consapevoli della relatività della nostra autonomia, della nostra fragilità di esseri accidentali.
(traduzione di Anastasia Frandino)

Corriere 24.9.13
Gli irascibili della tela
Pollock e gli altri: quegli «astratti» che cambiarono il corso dell'arte
di Francesca Montorfano


Sono vestiti in modo formale, «da banchieri», i diciotto artisti ritratti nel celeberrimo scatto di Nina Leen, pubblicato nel 1951 dalla rivista «Life». Ma sarà proprio quest'immagine, solo all'apparenza bonaria, ancor più della lettera inviata al direttore del Metropolitan Museum of Art, a esprimere la protesta del gruppo contro un'ingiustizia intollerabile, l'esclusione degli espressionisti astratti da una delle più importanti mostre sulla pittura americana contemporanea.
Definiti «irascibili» dall'«Herald Tribune», guardati con diffidenza da pubblico e critica che non ne comprendevano la portata innovativa, i diciotto — tra i quali Pollock, De Kooning, Rothko, Motherwell, Newman, Baziotes, Brooks, Hofmann, Still o Hedda Sterne, l'unica donna — avrebbero tuttavia dato vita a un fenomeno dalla forza prorompente, destinato a caratterizzare l'America del secondo dopoguerra e a influenzare l'arte moderna di tutto il mondo. Un linguaggio nuovo, libero, americano, che avrebbe segnato lo stacco definitivo dagli influssi delle avanguardie e dei movimenti novecenteschi europei, dall'eredità del Cubismo come dal dominio del Surrealismo. Che avrebbe sancito la consacrazione di New York a capitale artistica mondiale e aperto la strada a un impiego assolutamente rivoluzionario del segno, del gesto, del colore.
Le sperimentazioni e gli altissimi esiti pittorici di quella che venne definita la «Scuola di New York», o anche «Action Painting», sono oggi al centro della rassegna di Palazzo Reale — curata da Carter Foster con la collaborazione di Luca Beatrice — che vede riuniti quasi cinquanta lavori del gruppo, con capolavori assoluti quali il famoso «Number 27» di Pollock, cui è riservata un'intera sala, a delineare quel periodo della grande arte americana che dalla fine degli anni Trenta arriva alla metà dei Sessanta. «Si tratta di un evento di particolare rilevanza — dice Luca Beatrice — proprio perché tutte le opere provengono dal Whitney Museum, istituzione che più di ogni altra ha appoggiato il movimento, consentendone una lettura esauriente e sfaccettata, dando voce a quegli artisti che fecero fronte comune, uniti dalla stessa sensibilità verso un'arte in grado di rielaborare la realtà in forme astratte ed espressive, verso una pittura che potesse trasferire sulla tela le pulsioni e le energie psichiche più profonde attraverso l'enfatizzazione del gesto».
Il co-curatore aggiunge: «Protagonista di primo piano dell'evento sarà Jackson Pollock, l'artista che ha trasformato la pittura in body art, difficile e geniale, romantico e maledetto. Un personaggio dalle straordinarie capacità mediatiche, ma anche dalla forza autodistruttiva, che ha saputo incarnare il mito dell'eroe ribelle americano, come Marlon Brando, come il giovane Holden di Salinger, morendo al volante della sua auto, come soltanto un anno prima di lui aveva fatto James Dean». Numerosi i lavori di Pollock in mostra, dai disegni senza titolo degli anni 1933-39 che esplorano la trasformazione, quasi una regressione, da un sé ancora «civilizzato» a creatura selvaggia, primordiale, alle opere della maturità quando la pittura su cavalletto è ormai lontana e l'artista lavora a terra, sentendosi dentro la tela, diventata spazio infinito di libertà e di azione, versando direttamente il colore dal barattolo, lasciandolo sgocciolare con un pennello o un bastone (dripping), facendo corrispondere ogni movimento del corpo a un segno. Ma se Pollock è la figura chiave, gli altri sono comprimari.
Così Mark Rothko, che dell'astrazione ha dato originali soluzioni estetiche con le sue distese di colore a strati, in mostra con capolavori quali «Untitled» (Blue, Yellow, Green on Red) o Willem de Kooning, capace di passare dall'attenzione alla figura, seppur quasi indistinta come in «Woman Accabonac», a composizioni più astratte e gestuali, guardando in modo nuovo anche al paesaggio. Così Arshile Gorky, l'artista per le sue forme biomorfiche più legato al Surrealismo europeo; o Franz Kline, interessato alla città e ai suoi grattacieli che traduce in rigorose astrazioni bianche e nere; Bradley Walker Tomlin, con «Number 2» (1950) dove la linea pittorica è influenzata dalla calligrafia orientale; o Robert Motherwell con opere di grande rilievo, come «The Red Skirt», dove la figura appare quasi imprigionata in una costruzione geometrica.
Ma gli anni d'oro dell'Espressionismo americano sono ormai alla fine. A imporsi sullo scenario newyorkese sono adesso le composizioni piatte e smaltate di un giovane di Pittsburg, Andy Warhol, figlio di emigrati europei. Il Pop è nato.

In città è «Autunno americano» Con Warhol, la scienza e il teatro
La mostra dedicata a Pollock e al gruppo degli «Irascibili» apre la rassegna milanese «Autunno americano» che prosegue con un altro appuntamento a Palazzo Reale: «Warhol. Dalla collezione di Peter Brant», esposizione dedicata al simbolo della Pop Art, dal 24 ottobre al 2 marzo (coprodotta da Comune di Milano, 24ORE Cultura — Gruppo 24ORE e Arthemisia Group, sito: warholmilano.it). Seguita, dal 14 novembre al 2 febbraio, alla Sala Verri (via Zebedia), dalla mostra fotografica «L'America di Lewis Hine». Ma la rassegna prevede anche concerti, spettacoli teatrali, danza, cinema, retrospettive, incontri letterari in diversi luoghi della città. «Autunno americano» è un progetto del Comune di Milano, con il sostegno di Costa crociere, con la partnership di 24ORE Cultura — Gruppo 24ORE e Arthemisia Group. Info suwww.autunnoamericano.it.

Corriere 24.9.13
Lee era forte, Jackson fragile Il loro amore disperato fece ingelosire la ricca Peggy
La Guggenheim non sopportava l'ascendente di lei
di Francesca Bonazzoli


Sebbene non compaia nella celebre foto degli «Irascibili» pubblicata su «Life» nel 1951, dove l'unica donna del gruppo è Hedda Sterne, la vera protagonista della storia dell'Espressionismo americano fu Lee Krasner, pseudonimo maschile che celava l'identità di Lenore Krasner, penultima di sette fratelli, nata nel 1908 in una famiglia di ebrei ortodossi. Per la sua mancata presenza nella foto, Lee non perdonò mai, ma proprio mai, il collega Barnett Newman che si era fatto passare Pollock al telefono per chiedergli di posare, senza dire nulla a lei.
La Krasner e Pollock si erano sposati nel 1945, ma il loro primo incontro risaliva al 1936, in occasione di una festa organizzata dal sindacato degli artisti: lei era una bravissima ballerina, disinvolta e sicura di sé; Pollock, timido e goffo, le pestò i piedi e la storia finì lì.
In comune avevano invece l'impegno in attività politiche di sinistra, sebbene la Krasner diffidasse del comunismo di Stalin e rimproverasse a Pollock di aver probabilmente nascosto nel suo studio Alfaro Siqueiros quando la polizia di New York cercava il pittore messicano, stalinista integralista, coinvolto nell'orribile omicidio di Trotsky a Mexico City.
Più attiva di Pollock, la Krasner rivestiva un ruolo di primo piano nel WPA, il Works Progress Administration, un programma governativo che aiutava gli artisti durante la Grande depressione; si impegnava anche nel gruppo degli American Abstract Artists e entrambi i grandi critici dell'Espressionismo astratto, Clement Greenberg e Harold Rosenberg, furono da lei guidati nel mondo dell'arte, senza dimostrarle in seguito alcuna riconoscenza. Greenberg, in particolare, non scrisse mai una parola sulla sua arte, dimostrando così quanto fossero radicati i pregiudizi contro le donne forti, autonome e coraggiose. Lee appariva aggressiva perché diceva sempre quello che pensava, poteva bere e fumare molto, imprecare, posare nuda, ma senza mai arrivare al punto tragico di non ritorno.
Pollock, invece, eternamente a disagio, sentendosi «come un mollusco senza conchiglia», cercava rifugio nell'alcol e nel misticismo. I suoi attacchi di rabbia erano violenti, esasperati, e quando passavano, si trasformavano in mutismo. Prigioniero dell'alcolismo, nel 1937 Pollock aveva preso la decisione di ricoverarsi nel reparto psichiatrico dell'ospedale di New York e con l'aiuto di un analista junghiano cominciò a esorcizzare i suoi demoni attraverso la pittura, integrandoli con simboli, maschere e totem degli indiani d'America che lo avevano affascinato sin da bambino e per la cui cultura sciamanica nutriva una venerazione.
La Krasner, invece, era attratta dalla cultura europea, leggeva Baudelaire e Rimbaud, e adorava il razionalismo di Mondrian. L'amore scoppiò quando John Graham, un mercante bielorusso come lei, organizzò una mostra cui dovevano partecipare entrambi i futuri sposi. Lei si recò nello studio di Pollock e tutto il fascino della raffinatezza decadente dei Fiori del male scomparve davanti all'intensità e alla forza vitale dei lavori di lui.
Da quel momento Lee fu sempre la prima critica di Pollock, che andava sempre a chiederle se un lavoro fosse o no finito. Lo stesso succedeva al contrario, ma senza che l'uno intimidisse l'altra e viceversa.
Il loro stretto rapporto, piuttosto, suscitava la gelosia degli altri, prima fra tutte quella di Peggy Guggenheim che adorava Pollock e gli aveva organizzato la prima mostra personale, nel 1943, garantendo all'artista uno stipendio mensile per quattro anni. Ebrea ricca e raffinata, Peggy odiava Lee, brusca e autoritaria quanto lei, ma senza i soldi e viaggi in Europa che autorizzavano l'ereditiera a sentirsi superiore. La verità è che Lee aveva dato regolarità alla vita di Pollock e l'aveva salvato dall'alcolismo grazie alle cure del suo medico omeopatico. Quando nel 1951 Pollock ricominciò a bere dopo le riprese del fotografo Hans Namuth che lo aveva filmato mentre dipingeva, Lee lo incoraggiò a tornare all'analisi junghiana, ma Pollock non le diede ascolto e preferì la terapia più radicale raccomandatagli da Greenberg. Il risultato fu disastroso, con Pollock che continuava a bere e in più rappresentava la moglie come una vecchia strega. Ci si mise anche l'infatuazione per una studentessa d'arte che aveva la metà dei suoi anni.
A quel punto la Krasner per la prima volta si fece da parte e partì per un viaggio in Europa. Quando tornò, fu per mettere una firma sul certificato di morte del marito finito a folle velocità contro un albero dopo una notte passata a bere. La pittura di Lee divenne cupa e piena di mostri, ma da quando trasferì il suo studio nel grande granaio dove per dieci anni aveva lavorato il marito, prese anche un ritmo e un respiro più ampi. In quello spazio ci passò 34 anni, ma quando anche lei morì, il granaio fu ripulito dalle sue cose e vi fu ricostruito lo studio di Pollock.

Corriere 24.9.13
Ritratto (fatale) dell'artista sul grande schermo
Per Pollock il film fu l'inizio della fine
Picasso invece trasfigurò la cinepresa
di Alberto Pezzotta


Nell'autunno 1950 il fotografo Hans Namuth convince Jackson Pollock a farsi riprendere in un documentario. Namuth si è conquistato la fiducia dell'artista, e gli scatti che mostrano le sue tecniche poco ortodosse lo renderanno famoso in tutto il mondo. Passare alle immagini in movimento sembra inevitabile. Dopo un esperimento bianco e nero, Namuth decide di usare il colore. Ma il film che ne risulterà, «Jackson Pollock 51», avrà conseguenze devastanti.
All'inizio del film, Pollock, che mostra molti più anni dei suoi trentotto anagrafici, si infila un paio di vecchie scarpe macchiate prima di iniziare a spruzzare vernice su un'enorme tela stesa in mezzo ai campi. Vengono in mente le scarpe dipinte da van Gogh, e per un attimo si materializza l'immagine dell'artista tormentato, mentre la voce narrante di Pollock suona stanca e distaccata. È solo un'ombra passeggera? L'artista in azione in mezzo alla natura che vediamo subito dopo non sembra un maledetto: evoca anzi risonanze sciamaniche. Ma c'è il trucco.
Pollock di solito non dipingeva all'aria aperta, ma nel suo fienile: solo che lì non c'era abbastanza luce. Finite le riprese, Pollock distrugge la propria opera: ha avvertito qualcosa di falso. Ma Namuth insiste: il weekend successivo spinge l'amico a dipingere su una grande lastra di vetro, accovacciandosi al di sotto con la sua macchina da presa. Le immagini sono di grande suggestione, con Pollock che lascia gocciolare il colore verso l'obiettivo. Ma poi l'artista si arrabbia, cancella tutto, e inizia una nuova composizione-collage. Alla fine Pollock rientra a casa e, sotto gli occhi allibiti della moglie Lee Krasner, si versa un bicchiere di bourbon, insulta Namuth e dà fuori di matto. Non toccava alcol da due anni. E da allora riprende la china autodistruttiva che nel 1956 lo porta a schiantarsi sulla sua Oldsmobile.
Che cosa è successo? Pollock si è sentito espropriato della sua anima, come un nativo americano restio a lasciarsi fotografare? O intuisce di avere esaurito l'ispirazione? Di fatto, dopo quell'opera su vetro (l'unica da lui mai realizzata, ora alla National Gallery of Canada col titolo «No. 29») abbandona il dripping. E il film di Namuth? Cattura la verità di un artista che crea, o è solo una messa in scena? Ed è il destino di ogni film che cerca di cogliere un artista al lavoro?
Già nel 1949 il belga Paul Haesaerts aveva ripreso Picasso che dipingeva su lastre di vetro. Nel 1956 Henri-Georges Clouzot perfeziona la tecnica nel celebre «Il mistero Picasso», mostrando i disegni che si materializzano su tele trasparenti. All'inizio dice che se è impossibile sapere che cosa passava per la testa di Rimbaud e di Mozart, il cinema consente di vedere il pittore che «come un cieco va a tentoni nell'oscurità della tela bianca». Alla fine, però, Picasso cancella la sua opera e dichiara: «È molto brutto, strappo tutto». Ma non c'è senso di tragedia. Anche perché Picasso, che aveva un ego molto più solido di quello di Pollock, davanti alla macchina da presa non prova alcun disagio: in braghe e a torso nudo, sembra farsi beffe del regista e degli spettatori. Inoltre era abituato a lavorare sotto lo sguardo altrui: nel 1937 aveva lasciato che Dora Maar documentasse la nascita di «Guernica»; nel 1954 aveva ammesso in studio Luciano Emmer.
Se abbondano i film biografici sugli artisti (Ed Harris ne ha girato uno su Pollock, molto discusso), sono molto più rari quelli in cui un regista si confronta con un artista al lavoro. Nel 1975 Jack Hazan dedicò a David Hockney «A Bigger Splash». Il più bello è «El sol del membrillo» (1992): dove lo spagnolo Victor Erice, un autore dalla fama cinefila inversamente proporzionale al numero delle sue opere, segue Antonio López García mentre dipinge un albero di mele cotogne nel suo giardino. Ma il pittore, maestro del realismo, è troppo perfezionista: la natura non lo aspetta, e malgrado gli stratagemmi, i frutti cadono prima che abbia potuto immortalarli. La tela, incompiuta, finisce in un ripostiglio. Il cinema, qui, ha mostrato il fallimento, senza inganni: e in ciò ha avuto successo.

Repubblica 24.9.13
Il laboratorio di filosofia nel segno di Bobbio
Dal neoilluminismo all’ermeneutica: da oggi al Centro Gobetti di Torino
di Massimo Novelli


TORINO –Conuna lezione introduttiva sul pensiero filosofico italiano della seconda metà del secolo scorso, tenuta da Massimo Ferrari, comincia oggi (alle 18) al Centro studi Piero Gobetti di Torino il secondo corso del Laboratorio di Filosofia. Il progetto didattico
Un secolo di filosofia. Tappe nel pensiero italiano del ‘900è portato avanti da un gruppo di studiosi in prevalenza giovani. Si articola in undici lezioni e in due incontri, fino a giugno. È un’iniziativa anche nel segno di Norberto Bobbio. Le sue carte, l’archivio e la biblioteca, del resto, sono depositate al Centro Gobetti, che a ottobre varerà il programma di manifestazioni per ricordare il filosofo della politica nel decennale della morte, avvenuta nel gennaio del 2004.
Le lezioni del Laboratorio di Filosofia del Centro Gobetti spazieranno dal neoilluminismo, che vide tra i protagonisti lo stesso Bobbio, alla filosofia della scienza, alla fenomenologia, all’esistenzialismo di Nicola Abbagnano; ma si parlerà pure dell’ermeneutica e del nuovo realismo, di filosofia e religione, dei marxismi, della filosofia delle donne, di filosofia e psicoanalisi. Un percorso, aperto a studenti, professori, appassionati, che si concluderà con una tavola rotonda, nell’autunno del prossimo anno, sullo stato odierno della filosofia oggi. La frequentazione del ciclo di lezioni costa 50 euro. Per i giovani sotto i 25 anni, la quota è di 40 anno.

La Stampa 24.9.13
Genovese: faccio ridere sul lettino dell’analista
“Tutta colpa di Freud”, film con Giallini e la Gerini
di Fulvia Caprara


In America, osserva il regista Paolo Genovese, «si va dagli psicanalisti automaticamente, appena insorge un problema. Da noi è diverso, i miei genitori non sapevano neanche che cosa fosse un analista, lo consideravano semplicemente il “medico dei pazzi”». Non a caso, durante le riprese della nuova commedia Tutta colpa di Freud , è successo che «una coppia di anziani, assistendo a un ciak e vedendo Claudia Gerini con un cane al guinzaglio, abbia pensato che Freud fosse appunto il nome del quadrupede». Così si spiega, chiosa Marco Giallini nei panni del medico protagonista, «perchè in Italia tante librerie continuano a chiudere». Insomma, non si può dire che il film abbia scopo divulgativo, però che ruoti intorno a un tema non così usuale per il nostro cinema, sicuramente sì: «Ho 3 figli, e mi trovo spesso a dover fare lo psicanalista per aiutarli a risolvere i loro problemi. Mi divertiva immaginare il personaggio di un padre che lo fosse anche sul serio, fuori dalla famiglia». Così a Giallini, sullo schermo genitore-analista di Anna Foglietta, Vittoria Puccini e Laura Adriani, tocca finalmente un ruolo lontano dai suoi standard: «Sono grato al regista, è la prima volta che faccio un personaggio pacato, buono, paziente». Eppure le problematiche poste dalla prole sono variegate e complesse, materiale perfetto per un ciclo di In treatment , affrontato però con la chiave del sorriso. Foglietta è «una ragazza gay, propositiva, ma anche un po’ dissociata, decisa a diventare etero»; Puccini è «una libraia romantica e sognatrice, innamorata di un cliente sordo»; Adriani una diciottenne che «vuole essere considerata adulta, che si sente superiore ai suoi coetanei e che intrattiene una relazione con un uomo maturo».
Per il film, prodotto da Medusa con Lotus Production, scendono in campo tanti dei volti noti del nostro cinema. Alessandro Gassman nei panni dell’ adulto che sta con la ragazzina, Vinicio Marchioni innamorato della libraia, Claudia Gerini «donna misteriosa, elegante, sicura di sè». Attori che, in un modo nell’altro, confessano di aver a che fare con la psicanalisi anche nella vita reale: «La frequento da tanti anni svela Gassman - prima quella freudiana, poi la junghiana e infine la transazionale grazie a cui ho superato i miei attacchi di panico». Foglietta l’ha praticata «per un breve periodo» e la consiglia a tutti : «Farla vuol dire compiere un gesto d’amore verso se stessi». Gerini è passata dalla junghiana alla cognitivista: «Se si hanno tempo e denaro, è utile a chiunque ». Genovese, invece, non è mai andato da un analista: «Temo che, scavando, non venga fuori un bel niente». Per lui, forse, la terapia migliore è il cinema: «La commedia - osserva il regista - è in assoluto uno dei generi più importanti e utili per raccontare la vita con ironia. I suoi numeri ci dicono che arriva al grande pubblico e che, quando riesce ad affrontare temi delicati con il tono giusto, fa milioni di spettatori. Anche per questo le commedie, se dignitose, dovrebbero trovare posto nei festival».
Ad aumentare l’appeal della pellicola gli scenari della grande bellezza romana, dal centro storico al Teatro dell’Opera al museo Macro, più una puntata aNew York dove girare non è più difficile che nella capitale: «Il Comune di Roma non aiuta il cinema , anzi mette i bastoni fra le ruote, è molto complicato ottenere i permessi». Altro punto a favore di ta colpa di Freud , la data d’uscita (23 gennaio) lontana dalla tradizionale battaglia degli incassi natalizi: «In Italia, se si esce a Natale, si viene considerati subito cinepanettoni . Abbiamo deciso di evitare quel periodo, e io mi sento sollevato, senza l’ansia del botteghino».