mercoledì 25 settembre 2013

La Stampa 25.9.13
Iniziativa dei gesuiti nell’ambito di Torino Spiritualità:
«Il corpo in movimento torna nel rito cattolico»
Domenica debutta la messa ballata
di Sandro Cappelletto


Non sarà uno spettacolo durante la Messa. Ma una coreografia che accompagnerà la Messa, un rito che si unirà a un altro rito. Domani e domenica 29, in due incontri promossi da Torino Spiritualità, la danza tornerà a essere parte integrante di una funzione liturgica della Chiesa cattolica. «Non accade da secoli, da quando la fisicità e la corporeità della fede sono state come imprigionate. Pensi ai banchi delle chiese: rendono impossibile qualsiasi movimento, qualsiasi gestualità che non sia stare in piedi, seduti, in ginocchio».
Eugenio Costa, genovese e gesuita, musicista e liturgista, una lunga esperienza di parroco a Torino e Milano prima di venire chiamato a lavorare nella casa generalizia dell’ordine fondato da Ignazio di Loyola, ammette: «Ci stiamo pensando da anni, Roberta e io, ma abbiamo preso coraggio dopo aver visto i vescovi accennare dei passi di danza, per la verità un po’ goffi, durante la recente visita del Papa in Brasile».
«Il momento è finalmente arrivato - dice padre Costa - però non abbiamo ancora detto nulla ai nostri vicini di casa», confida, con soave astuzia, indicando col braccio alla sua destra: a pochi metri dalla sede centrale dei Gesuiti a Borgo Santo Spirito a Roma, inizia il territorio dello Stato del Vaticano.
Roberta, è Roberta Arinci: studi di danza classica occidentale da bambina e poi molti anni passati a scoprire la danza classica indiana, per imparare a comprendere la ritualità, la sacralità dei movimenti. «Entrare a capo chino, eseguire in silenzio e per amore, uscire in punta di piedi»: questo il motto di Ars Bene Movendi, il gruppo, milanese e tutto femminile, di danza liturgica da lei fondato e attivo già da alcuni anni nella Parrocchia di San Fedele.
Il gesuita e la danzatrice sanno di non avere precedenti ai quali ispirarsi; detestano «le sbandierate, le lenzuolate, lo sgraziato sgambettare, l’atmosfera da stadio dei gruppi carismatici che nulla hanno a che fare con la sacralità di una funzione». Padre Costa ricorda, quasi come unico esempio superstite, i «dodici Kyrie» del rito ambrosiano, quando i celebranti assumono atteggiamenti che richiamano dei gesti coreografici. Sanno anche che le gerarchie ecclesiastiche europee «hanno imposto una secolare rimozione della fisicità, per il prevalere di una cultura che ha penalizzato il corpo. Ma che pericolo c’è se riportiamo il nostro corpo nella preghiera, come già accade in tante funzioni celebrate in Africa e in Sud-America? »
E dunque sono consapevoli dell’opportunità che viene ora offerta al loro lavoro. Giovedì sera, alla Cavallerizza Reale, la Arinci, accompagnata da musica e canto, interpreterà danzando quattro temi biblici: la Genesi, l’Annunciazione, il miracolo del cieco di Gerico, la Passione. Domenica, durante la messa delle 11,30 nella chiesa di San Filippo, lei e il suo gruppo, indossando un sari arancione e una stola che richiama il prescritto colore liturgico, «con movimenti sobri, eleganti, dignitosi», scandiranno cinque momenti della Messa: Gloria, Alleluja, Sanctus, Agnus Dei, Inno dopo la comunione.
«Vogliamo evitare che la nostra preghiera - perché questa danza è una preghiera - venga percepita come un corpo estraneo. Il desiderio è che un domani tutta l’assemblea dei fedeli accetti di fare un passo, di unirsi a noi».
Perché questo accada, bisognerà rivoluzionare la disposizione attuale: via i banchi, tutto lo spazio occupato dall’assemblea lasciato libero perché i fedeli possano muoversi, danzare il rito. Se c’è un Papa che può capire la sfida, sembra proprio l’attuale: gesuita, argentino, molto fisico nel modo di porsi, spregiudicato e stratega quanto occorre.

La Stampa 25.9.13
Il debutto fra tre mesi, ad aprile l’arrivo a Roma nei giorni della canonizzazione
E San Wojtyla diventa un musical
di Giacomo Galeazzi


Sul palcoscenico le memorie in musica del Papa che ha abbattuto il Muro di Berlino e che in gioventù aveva calcato le scene nel teatro clandestino, forma di resistenza culturale all’occupazione nazista. Sette decenni dopo, la storia di Giovanni Paolo II scorrerà sotto i riflettori durante i giorni della canonizzazione creando una coincidenza particolare, quasi un segno che invita all’ascolto. La narrazione parte dall’attentato a San Pietro. Sospeso tra la vita e la morte, i ricordi riaffiorano riportando il Papa all’infanzia. In 120 minuti si snodano gli episodi più significativi.
La biografia del neo-santo diventa musical («Karol Wojtyla - La vera storia»), per la regia di Duccio Forzano, le musiche originali di Noa, Gil Dor e i Solis String Quartet e le coreografie di Marco Sellati. L’opera, che debutterà tra tre mesi toccando anche Torino, Palermo, Milano, Bologna, chiuderà il tour ad aprile al Brancaccio di Roma, in contemporanea con la cerimonia in Vaticano, forse concelebrata da Ratzinger, con cui Francesco eleverà agli onori degli altari il predecessore polacco.
«Ho incontrato Wojtyla solo una volta: un’esplosione di luce», racconta Duccio Forzano. Un’energia trasmessa a un’opera in due atti tra proiezioni, parti recitate e tanta musica. Oltre ai venti pezzi dei Solis String Quartet, cinque saranno i brani originali scritti da Noa, più l’«Ave Maria» di cui l’artista israeliana ha modificato il testo. «Ho cantato per il Papa 19 anni fa - rievoca Noa -. Poi lo ho rivisto molte volte: mi chiedeva della situazione in Israele e legava la pace al dialogo tra i popoli. Non sono religiosa, credo nei valori laici umani. Spesso le fedi sono andate in direzioni distruttive, ora la musica può riportarle alla generosità e alla bontà».
Tra i pezzi che Noa ha scritto anche «Love», uno struggente inno all’armonia globale. «Mi ha ispirato la capacità di Giovanni Paolo II di valorizzare gli elementi che uniscono invece di quelli che dividono». Gli episodi di vita del bambino «Lolek», come veniva chiamato in famiglia, e quelli del giovane Karol che lo porteranno a sentire la chiamata di Dio, sono stati ricostruiti con l’aiuto di Paloma Gomez Borrero, al seguito del Papa nei 104 viaggi compiuti nei 27 anni di pontificato. «Era un esperto in umanità - sostiene le giornalista spagnola -. Appena arrivò disse: “Voglio diventare lo spazzino del mondo, lasciare le strade pulite affinché possano entrare l’amore e la pace”».
Dopo l’Italia, lo spettacolo raggiungerà il Sudamerica. «Affrontiamo la storia con un approccio laico - puntualizza il produttore Mauro Longhin -. Ricostruiamo le vicende di un ragazzino di 9 anni, nato in un momento storico particolare, che ha preso i voti perché ispirato non da un sacerdote ma da un sarto. Racconteremo gli aneddoti della sua vita, cercando di trasmettere il messaggio di fratellanza e unità dei popoli».
Del giovane Karol vengono approfonditi gli affetti, la guerra, la mamma Emilia, il padre militare, il fratello Edmund che lo abbandona per andare a fare il medico. Tutti elementi che lo hanno formato, fino a condurlo sulla strada del Soglio di Pietro. Wojtyla verrà interpretato da tre attori in tre età diverse: a 9 anni sarà il piccolo Alessandro Bendinelli, a 20 Mike Introna e infine a 50 Massimiliano Colonna. La mamma sarà interpretata da Barbara Di Bartolo, il padre da Simone Pieroni e il fratello da Roberto Rossetti. Nella natia Wadowice dove «tutto è cominciato», sulle note della musica «Lolek» torna in scena.

«Con la lettera del Pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra “credenti” e “non credenti” è giunto a una svolta di grande importanza e interesse»
Corriere 25.9.13
Se Cesare non è dalla parte di Dio
Il problema dell'assoluto e l'eterno scontro tra legge e dottrina
di Emanuele Severino


C on la lettera del Pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra «credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata. Anche da parte di chi è soltanto uno spettatore — che però, come me, sia interessato al problema. Il Pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole, anche, il desiderio dei due interlocutori di confrontarsi con ciò in cui non credono. Proprio per l'importanza di questa inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi.
Il Pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato». Il Pontefice risponde: «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro». Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì parlato di «verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che non è «variabile e soggettiva». E il Papa gli risponde che no, non è variabile e soggettiva: «Tutt'altro». In questo modo, la domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa (confrontare la recente enciclica Lumen fidei, La Scuola, 2013).
A sua volta Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo, ha lodato l'innovazione di papa Francesco rispetto alla costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto per il suo rifiuto del concetto di verità «assoluta»). Ma lo loda per qualcosa che papa Francesco si è ben guardato dal sostenere. «La verità è variabile e soggettiva?», chiedeva Scalfari. «No!», risponde il Pontefice: «Tutt'altro!».
Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori, vorrei segnalare, e ben più importante... Dopo aver scritto che la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per l'esclusione», il Pontefice aggiunge che «da ciò consegue anche — e non è una piccola cosa — quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente». Non mi consta che finora Scalfari abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso sarebbe il silenzio a favorire l'equivoco.
Da quasi cinquant'anni (che rispetto alla storia dell'Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che quel detto evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», nega tale distinzione. Non ho mai ricevuto una risposta adeguata — e mi sembra grave —; mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche su queste colonne. Se qui debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come d'altra parte non vergognarmi di doverlo fare ancora una volta?
Domandiamo a Gesù se a Cesare — cioè allo Stato — si possa dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di no! Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria. Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico); con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e cattoliche).
Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi — come spesso si dice, ma senza accorgersi della connessione tra questo dire e il detto di Gesù — è necessario che il peccato (l'agire contro Dio) sia anche delitto (l'agire contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che nell'al di là. Ma in questo modo la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica» che, anche secondo questo Pontefice, dovrebbe essere conseguenza di quel detto, è invece radicalmente negata da questo detto. Certo, l'intenzione di Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli afferma è inevitabilmente la riduzione della sfera politica a quella religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare l'inconciliabile: vuol conciliare la distinzione tra politica e religione con la loro reciproca opposizione (giacché anche la politica che non crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare).
Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz'altro ragione il pensiero laico, che vuol tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il comando di Gesù non conduce là dove comunemente si crede. L'estremismo islamico che massacra i cristiani non è forse la conseguenza ultima della convinzione che nella società non si debba consentire ciò che — come le altre fedi — è contro il Dio in cui si crede? E viceversa, nel fanatismo degli amici di Cesare (vedi rivoluzioni francese e bolscevica) non si massacrano i credenti in nome del principio che non si debba dare al loro Dio ciò che è contro Cesare?
Nel dialogo tra Scalfari e il Pontefice i problemi che ho indicato non sono gli unici. I più importanti stanno più in fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla tutela della chiarezza del dialogo.

Corriere 25.9.13
La Fede coniugata con la Ragione, Ratzinger dialoga coi non credenti
di Gian Guido Vecchi


C'è tutto Joseph Ratzinger — la mitezza così lontana dall'immagine da tempo logora dell'inquisitore, l'acribia del grande teologo che replica syn logo, secondo ragione, alle obiezioni più dure — nella lettera che Benedetto XVI ha scritto al matematico «miscredente» Piergiorgio Odifreddi come risposta al libro Caro Papa, ti scrivo (Mondadori, 2011). Del resto, è straordinario il fatto stesso che Benedetto XVI, ritirato nel monastero Mater Ecclesiae, abbia scritto una lunga lettera ad uno degli autori più aspri e polemici nei confronti della Chiesa e della stessa religione, e basterebbero la «sorpresa» e «l'emozione» nel racconto che lo stesso Odifreddi, assieme a stralci della lettera (il testo integrale apparirà in una nuova edizione del suo libro) ha pubblicato ieri su La Repubblica: «Aprire la busta e trovarci 11 fitte pagine, che iniziavano con una richiesta di scuse per il ritardo nella risposta...».
L'approccio è quello del «Cortile dei Gentili» voluto dallo stesso Benedetto XVI, lo spazio di dialogo con i non credenti, e più in generale tra fede e ragione, che proprio stamattina si riaprirà a Roma, nel tempio di Adriano, con la riflessione del cardinale Gianfranco Ravasi e dei direttori dei principali quotidiani italiani. E in questo senso è inevitabile notare la continuità con il successore e la lettera scritta da papa Francesco a Eugenio Scalfari. Comune ai due Pontefici, del resto, è anche l'idea di una verità che non si possiede mai compiutamente: piuttosto «è essa che ci abbraccia e ci possiede». Resta tuttavia, anche per la differenza tra gli interlocutori, lo stile inconfondibile di Ratzinger nel ribattere punto su punto alle contestazioni di Odifreddi, che gli aveva fatto avere il suo scritto.
Il Papa emerito che analizza attento il libro, riconosce di «aver letto alcune parti con godimento e profitto» e insieme replica secco: «Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico». Che parla della «sofferenza» per l'abuso sui minori nel clero ma chiarisce: «Mai ho cercato di mascherare queste cose». Che obietta: «La Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male».
Se Francesco incentrava la sua risposta sulla «misericordia», Ratzinger cerca un dialogo nel riconoscimento franco e argomentato delle differenze. A partire dalla sua convinzione fondamentale, espressa nel celebre discorso di Ratisbona: «Non agire secondo ragione, syn logo, è contrario alla natura di Dio».

Repubblica 25.9.13
Parla il presidente del Pontificio consiglio della cultura che oggi apre il Cortile dei Gentili con Eugenio Scalfari
Tra Fede e Ragione
Il cardinale Ravasi “Vi spiego perché i Papi scrivono ai laici”
intervista di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO Cardinale Gianfranco Ravasi, Papa Francesco e Papa Benedetto scrivono ai giornali e concedono interviste. E oggi lei trasforma il Cortile dei Gentili, la sua iniziativa di dialogo fra credenti e atei, nel Cortile dei giornalisti. Sta cambiando qualcosa nel rapporto tra informazione e Chiesa?
«Vorrei rendere questi nostri incontri sempre più profondi e vivaci. Il primo in assoluto fu quello dei diplomatici, un po’ inamidato. Ora questo dei giornalisti, a maggior ragione dopo le lettere inviate da Francesco e da Benedetto XVI e pubblicate suRepubblica, dovrebbe essere un modello più dinamico. Un confronto a muso duro se è il caso, in cui si obietta, si danno delle visioni. Oppure dei consigli, non necessariamente polemici, ma che siano incisivi».
Nella lettera a Piergiorgio Odifreddi, Joseph Ratzinger scrive appunto che «del dialogo fa parte la franchezza». Condivide?
«Di più. Direi che certe volte all’interno del dialogo è necessaria la precisazione rigorosa. Quella di Benedetto è anche una lezione, non soltanto per noi che operiamo nel mondo della cultura, ma anche per la pastorale in senso lato. Il pastore non deve aver paura di entrare nella piazza, nel groviglio della comunicazione attuale ».
Che cosa intende dire?
«Che il dialogo non deve costituire di per sé una sorta di Onu, di assemblea generale per cui alla fine si cerca di trovare comunque un accordo. Ci può essere anche un confronto aspro e serrato, nel riconoscimento delle diversità. E ci deve essere, come la lettera di Benedetto XVI dimostra, la presa in carico di misurarsi con contestazioni radicali, che qualche volta rischiano di essere anche schematiche o superficiali».
Come si svilupperà il confronto di oggi?
«È stato concepito su tre livelli. Il primo è il nostro, mio e di Scalfari (Sorride, ndr). Quello dei cardinali…».
Cardinale Scalfari?
«Cardinale laico, allora. Lui ha scritto più di una volta su di me, perché leggeva sempre i miei interventi sui giornali».
Di che cosa parlerete?
«Faremo il cappello introduttivo. Quindi toccherà ai direttori dei giornali nei due livelli riservati all’approfondimento. Io affronterò l’informazione religiosa, e vorrei anche criticare un certo stile. Poi mi piacerebbe soffermarmi sulla nuova modalità di comunicazione introdotta da Papa Francesco».
Bergoglio ha una presa incredibile sulla gente.
«Se legge i discorsi di Francesco, lui procede sempre per coordinate. Mentre Benedetto è il trionfo della subordinata: che è la cosa che piace a noi. Diciamo piace a me. Ma quando Bergoglio è alle prese con una frase scritta, articolata, allora taglia, si mette a spiegarla. La ripete quasi in maniera brutale: “Mai più la guerra!».Oppure: “L’odio no!”».
E poi segue l’immagine. È così?
«Segue il simbolo. Una componente capitale del linguaggio. Chi è capace di usare bene i simboli, convince. Ad esempio, questa storia delle “periferie” di cui parla il Papa, è un simbolo. E così l’“odore delle pecore”».
O l’immagine dell’intervista concessa alla Civiltà Cattolica:«Vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo la battaglia».
«È vero, più di così… Ma guardi, Cristo per comunicare ha già usato la televisione e i tweet. E i suoi discorsi sono redazionali, perché mettono insieme delle frasi ».
In che senso?
«Il Discorso della montagna. Si tratta di una serie di interventi che Gesù ha fatto in momenti diversi: 35 parabole. Che cos’è questo, senon televisione? Oppure il figliol prodigo: che fugge, mangia coi porci, se la gode con le prostitute, poi torna. Ci si legge una sceneggiatura».
E i tweet?
«La prima predica di Cristo, se stiamo al testo greco, in Matteo, è in poco più di 30 caratteri, con gli spazi arriveremo a 40. Con Marco, un po’ più lungo, arriviamo a 70-80. Sono tweet. E c’è tutto. La prima predica è la dimensione teologica in due parole: “Il regno di Dio è vicino. Convertitevi”».
La Chiesa dunque dovrebbe essere facilitata. E invece a volte sembra non farsi comprendere.
«Questo è il compito. La Chiesa invece si è dispersa».
Però, adesso, con Francesco, c’è uno scarto.
«C’è uno spirito nuovo. Le racconto un aneddoto. Un paio di settimane dopo il Conclave, camminavo sul Lungotevere. Un’auto accosta sotto i platani, un uomo tira giù il finestrino e mi fa: “Ah, la conosco. Guardi, sono ateo, però le dico: siete stati bravi, avete fatto in fretta, avete fatto un Papa davvero in gamba. Io continuo a non credere in Dio. Però… comincio ad avere qualche dubbio sull’esistenza dello Spirito Santo”».
La scelta caduta su Bergoglio ha colpito. Con noi giornalisti dialoga a tu per tu in aereo. Si confronta in maniera epistolare con Eugenio Scalfari. Concede interviste. E anche Benedetto XVI, con la sua lettera in risposta al libro di Odifreddi si apre al confronto.
«Al fondatore di Repubblica voglio dire questo. Una volta l’ho visto in tv affermare: “Io e Calvino quando siamo arrivati alla maggiore età abbiamo scoperto Atena, e siamo diventati suoi discepoli”. Voleva dire, della ragione. Ecco, lui lo diceva come alternativa rispetto alla fede. Ma allora sono per metà pagano anch’io, metà ateo, perché anch’io sono un devoto di Atena. Da studente, anzi, avevo una passione straordinaria per Platone. Questo per dire che nell’esperienza di uno che crede, la ricerca di senso non si esaurisce con la fede. Atena non è alternativa a Cristo. E vorrei dirgli un’altra cosa: Scalfari dice che non cerca Dio. Però riterrei più significativo che, se vuol essere discepolo di Atena, dovrebbe invece cercarlo. Perché se si pone quelle domande, sono domande teologiche».
Allora c’è meno diffidenza, oggi, fra i nostri due mondi, quello dell’informazione e quello della religione?
«Molti vedevano l’esistenza di un’incompatibilità, qualche volta reciproca: perché il giornalista aggrediva e quell’altro si rinserrava. Ma ora si è girata pagina. E questo è un altro merito da ascrivere a Papa Francesco. Sono convinto che senza il confronto con l’area della comunicazione, o sei in una catacomba, oppure fuori del mondo. Mentre il cristianesimo sta dentro il mondo. L’atmosfera è cambiata: puoi anche dire che non ti interessa la televisione, ma è ormai la televisione che ti attraversa, tutto è ritmato dall’online. La Chiesa non può restarne fuori».

Il convegno oggi a Roma

Il cardinale Gianfranco Ravasi ed Eugenio Scalfari aprono stamattina a Roma, al Tempio di Adriano, un’edizione del 'Cortile dei Gentili', l'iniziativa voluta da Ravasi, dedicata ai giornalisti. Tre i momenti chiave: il confronto fra Ravasi e Scalfari; un dialogo tra Ezio Mauro, Ferruccio de Bortoli, Roberto Napoletano e Mario Calabresi; e un dibattito con Fiorenza Sarzanini, Marcello Sorgi, Virman Cusenza, Giovanni Maria Vian, Marco Tarquinio e Maarten van Aalderen.

Repubblica 25.9.13
Corrado Augias
La comunicazione dopo Bergoglio
La novità di Ratzinger


PERCHÉ i papi scrivono? Per di più ai non credenti? Avvalendosi di un canale di comunicazione come Repubblica di cui sono note le posizioni lontane da ogni clericalismo? Che papa Francesco rilasci una lunga intervista aCiviltà cattolica,da gesuita a gesuita potremmo dire, rientra nell’ordine delle cose. Delle cose nuove intendiamoci, perché le comunicazioni pontificie eravamo abituati a leggerle in una enciclica o riassunte in un comunicato sull’organo della Santa Sede, L’Osservatore romano. Ma scrivere a due dichiarati non credenti, ancorché di rango, è tutt’altra storia. Non credo che i papi scriverebbero se la Chiesa cattolica non attraversasse in Europa, Italia compresa, un periodo di forte crisi, se non stesse uscendo a fatica da un periodo di scandali finanziari e sessuali gravi, se non avesse constatato una diffusa indifferenza nei confronti di precetti e comportamenti coerenti con la sua morale. Ritengo che l’aspetto più inquietante sia proprio questo: l’indifferenza. I cattolici italiani sono sempre stati dei blandi osservanti. Machiavelli aveva già colto il punto scrivendo che la Chiesa aveva fatto gli italiani «sanza religione e cattivi ». La sferza della Controriforma, le condanne esemplari, non bastarono allora a cambiare le cose. Oggi però l’atteggiamento negligente è così diffuso da richiedere una reazione forte. Le comunicazioni intra moenia, affidate a pii bollettini a circolazione limitata, inutilmente edificanti, dolciastri, non bastano più. Anzi, diciamolo: non servono a niente. Occorrono scambi certo rispettosi ma che affrontino davvero i problemi, che facciano scoccare delle scintille. Nella speranza che un qualche fuoco possanuovamente accendersi.

Repubblica 25.9.13
Umberto Veronesi
Il ruolo della scienza
Siamo in lotta contro il male


PAPA Ratzinger conferma con questa lettera la straordinaria apertura al pensiero scientifico dichiarata nel discorso di Ratisbona: illogos — sia parola che pensiero — non è opposto alla fede perché «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Un tema fondamentale, che viene ripreso nel terzo punto della lettera di Benedetto XVI: «Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione». Questa posizione è molto avanzata e condivisibile e credo che noi scienziati dobbiamo esserne grati all’ex pontefice. Ciò che invece non possiamo condividere è l’osservazione sui temi mancanti nella religione della matematica: la libertà, l’amore e il male. Se riferiamo questa osservazione alla scienza nel suo insieme, abbiamo il dovere morale di rispondere che la scienza è libertà, anzi è la massima espressione della libertà di pensiero perché non conosce né dogmi né verità acquisite. Anche l’amore fa parte dell’essenza della scienza, se per amore intendiamo l’amore universale, per l’umanità innanzitutto e per l’ambiente in cui vive. Il fine stesso della scienza è il miglioramento costante del benessere dell’uomo sulla terra. Per questo anche la lotta contro il male è parte di questa finalità ultima. Tutta la scienza — e la scienza medica in modo particolare — è una continua ricerca delle cause del male per rimuoverle. Per il pensiero scientifico il male è una categoria complessa che ha sempre ragioni esterne o ambientali. Il bene è la regola e il male è un errore o la sua negazione.

Repubblica 25.9.13
Giulio Giorello
L’arbitrio e la necessità
I due volti della libertà


ODIFREDDI ignora il concetto di “libertà”, come dice Ratzinger? Diciamo che entrambi, da un certo punto di vista, sbagliano. La questione metafisica sollevata dal Papa emerito sul libero arbitrio – che rimanda alla “fantascienza” di Odifreddi e che si scaglia contro la predestinazione di Giovanni Calvino – non è così significativa. Il punto vero è l’assenza di costrizione esterna che permette agli individui di diventare soggetti responsabili e portatori di cambiamenti, per richiamare Spinoza o John Stuart Mill (suo nel 1859 il fondamentale Sulla libertà).Tuttavia, mi pare poco interessante anche la posizione del matematico Odifreddi, in quanto viziata dall’ingessamento della scienza in una sorta di religione. Secondo Georg Cantor, l’essenza della matematica è la sua libertà. In matematica e altre scienze la libertà creativa si è dimostrata capace di rimuovere vincoli esterni senza infrangere il rigore del ragionamento formale. Si rischia così di inseguire una Verità dalla “v” maiuscola, mentre invece, come nel
GalileodiBertolt Brecht, «ciò che oggi scriviamo sulla lavagna, domani lo cancelleremo». Bisogna accontentarsi di modeste verità, perché la Verità può bloccare la ricerca. La libertà è evolutiva, come ha scritto Daniel Dennett. E un grande matematico ateo come William Kingdon Clifford diceva che la scienza è un modo di agire senza paura. Il confronto, come quello tra Ratzinger e Odifreddi, anche se con metodi e linguaggi diversi, è sempre assai fruttuoso quando si è disposti a rischiare per le proprie convinzioni. E questo fa onore a entrambi.
(Testo raccolto da Antonello Guerrera)

Repubblica 25.9.13
Umberto Galimberti
I limiti e l’irrazionale
La ricerca di un senso


NEL dialogo che Papa Francesco e Benedetto XVI hanno instaurato con il mondo laico, rispondendo alle domande di Scalfari e alle posizioni di Odifreddi, vedo riaffermata, da parte del magistero della Chiesa, la superiorità della visione religiosa del mondo rispetto a quella laica. Francesco accoglie i non credenti a condizione che seguano la rettitudine della loro coscienza (e qui siamo vicini al principio del protestantesimo), ma ben venga questa accoglienza, rispetto a precedenti posizioni di intransigenza. Benedetto XVI chiede invece a Odifreddi quali risposte l’uso della sola ragione è in grado di dare al dolore, all’amore o al problema del male.
A parte il male, a cui anche la religione da secoli non è in grado di dare una plausibile risposta, partendo dalla premessa che Dio è bontà assoluta, per quanto riguarda il dolore o l’amore sono dimensioni umane che appartengono alla sfera dell’irrazionale, su cui la ragione non si interroga, perché, come diceva Kant, sono questioni che oltrepassano i suoi limiti.
La religione, attraverso la fede, oltrepassa questi limiti, proiettando nella trascendenza la risposta a queste problematiche. Anche la ragione è alla continua ricerca di un oltrepassamento delle sue conoscenze, perché questa, come ribadisce Kant, è «un’esigenza incondizionata» della natura umana. Ma un conto è spingersi fin dove la ragione può addurre le sue giustificazioni, un conto è oltrepassare questo confine e inoltrarsi con la fede nel buio del mistero. Questo la ragione non lo può fare. E qui il dialogo si arresta, perché la ragione riconosce il proprio limite, che la fede, senza giustificazione razionale e senza esitazione, oltrepassa.


l’Unità 25.9.13
Verso la piazza del 12 ottobre: la Costituzione va applicata
di Andrea Carugati


ROMA «Stiamo facendo una cosa mai fatta prima...», scandisce il leader Fiom Maurizio Landini. Accanto a lui Luigi Ciotti cita don Tonino Bello sulla difesa dei più deboli, Stefano Rodotà si commuove, Sandra Bonsanti spiega che, «se avessi avuto l’età, sul tetto coi grillini per difendere la Costituzione ci sarei salita anch’io...».
Istantanee dalla conferenza stampa del comitato promotore della manifestazione organizzata a Roma per il 12 ottobre, «La via maestra». A piazza del Popolo si ritroverà il popolo di quelli che dicono no al progetto di Pd e Pdl di riscrivere la seconda parte della Costituzione, modificando l’articolo 138. Dall’Arci al gruppo Abele, dalla Fiom a Legambiente e Articolo 21. Tra gli aderenti molti nomi noti della sinistra, da Salvatore Settis a Dario Fo, da Michele Serra a Gad Lerner e Moni Ovadia, più le direzioni del Fatto e de il manifesto.
«Non dite che vogliamo solo difendere la Costituzione perché non è così», avverte Landini. «Noi vogliamo applicarla compiutamente per cambiare le cose in questo Paese». Cambiarla per affrontare di petto il macigno dei 5 milioni di poveri, una cifra che fa dire a don Ciotti: «Di fronte a questi numeri, che sono persone in carne ed ossa, non basta più l’indignazione, bisogna provare disgusto. Per questo volevamo chiamare la manifestazione “miseria ladra”, o “porca miseria”...».
Ascoltando i promotori i temi si intrecciano: se la molla è stata una questione molto tecnica come le modifiche dell’articolo 138 che il Parlamento dovrebbe approvare entro Natale, via via la manifestazione si è riempita di contenuti di sinistra. «Per riempire uno spazio politico vuoto, costruire una massa critica», spiegano i promotori, tra cui c’è anche Gustavo Zagrebelsky. «Il 12 non sarà un evento, ma l’inizio di un percorso», spiega Ciotti. «Ma non ci sarà un partito e meno che mai un piccolo partito», puntualizza Bonsanti.
Il lavoro dei saggi incaricati di formulare proposte per ammodernare la Costituzione, presentato pochi giorni fa, viene bombardato di critiche. «Un testo di straordinaria pochezza culturale, senza scomodare tutti quei professori bastava affidarlo a 5-6 dottorandi...», ironizza Rodotà. «Mi sembra solo un riassunto di tutto il peggio che è stato pensato negli ultimi anni, dal nome del premier sulla scheda all’ipocrisia di limitare i decreti del governo dando tempi certi alla loro approvazione da parte del Parlamento». «Troppi poteri nelle mani di uno solo, troppo leaderismo e poco spazio al Parlamento», taglia corto Bonsanti. «L’obiettivo è accentrare i poteri e diminuire i controlli», insiste Rodotà. «Siamo alla negazione dei meccanismi essenziali della democrazia».
I promotori respingono le accuse di conservatorismo arrivate anche dal premier Letta. «Conservatori sono quelli che ripropongono idee vecchie come il presidenzialismo», dice Bonsanti. Nel merito, però, i promotori non spiegano se e come vorrebbero modernizzare la Costituzione. Al contrario, annunciano un appello ai parlamentari, soprattutto del Pd, per invitarli a non votare la modifica del 138. Se non dovesse passare coi due terzi, il comitato è già pronto a organizzare un referendum che blocchererebbe il percorso immaginato dalla maggioranza. Servirebbero il 20% dei parlamentari oppure 500mila firme. Un traguardo possibile, visto che Cinquestelle e Sel, da soli, raggiungono il 20% degli eletti. Ma prima c’è da riempire piazza del Popolo.

il Fatto 25.9.13
12 ottobre in piazza
“Via maestra” alla Carta
di Sandra Amurri


Riscoprire la bussola della politica: la Costituzione. È questo l'invito che “la via maestra” promossa da Luigi Ciotti, Stefano Rodotà, Maurizio Landini, Lorenza Carlassare e Gustavo Zagrebelsky rivolgono in vista della manifestazione del 12 ottobre a Roma (corteo alle 13 da Piazza della Repubblica fino a Piazza del Popolo con relativi interventi). Una tappa importante, sottolineano i promotori, di un viaggio iniziato il 2 giugno, Festa della Repubblica e della “Costituzione come ci piacerebbe che fosse” spiega Sandra Bonsanti, che proseguirà nelle scuole, nelle Università nelle fabbriche contro “l'idea che si è fatta strada, non a caso, e non innocentemente, che la Carta sia superata, che impedisca l'ammodernamento del paese, che i diritti siano da freno allo sviluppo economico, che la solidarietà sia una parola vuota”. Mentre “noi ci siamo resi conto di quanto sia giovane, attuale e da riscoprire” dice Landini che invia due messaggi. Il primo: “Non scrivete ‘vogliono difendere la Costituzione’ , è riduttivo. Perché noi chiediamo la completa applicazione per cambiare il Paese, per superare le differenze sociali garantendo i diritti al lavoro, all' istruzione, alla salute”. Il secondo: “La manifestazione del 12, che non è contro qualcuno ma per unire ed evitare la frammentazione, nasce da un appello e da un’ assemblea aperta a tutti”. Segue Rodotà che si dice contrario all'abolizione dell'Imu sulla prima casa a prescindere dal reddito: “Io voglio pagarla. La Costituzione tutela la dignità di chi rinuncia a curarsi perchè non ha soldi per pagare il ticket. I diritti vanno tutelati sulla base di un criterio con cui si ripartiscono le scarse risorse esistenti”. E conclude: “Questa iniziativa nasce dal basso sul sito www.costituzionelaviamaestra.it   troverete la lista di non meno di 100 associazioni locali, che dicono come si sta costruendo questo viaggio”.
OBIETTIVO comune: ricostruire uno spazio politico vuoto perchè è in gioco la democrazia. “Ho due riferimenti molto cari: il Vangelo e la Costituzione” è la premessa delle parole dense di umanità e forza di Luigi Ciotti. “Non vogliamo inseguire la cronaca ma costruire una storia fatta delle storie delle persone. La ferita di 5 milioni di poveri, 6 milioni di analfabeti, 7 milioni che vivono il disagio lavorativo, non può lasciarci indifferenti. La speranza ha il volto delle persone che fanno piu fatica e da loro bisogna partire. La prima forma di legalità e la fedeltà alla Costituzione perchè la legalità si fonda sulla giustizia sociale. La Costituzione è stata imbalsamata da troppe differenze da troppe cerimonie, dobbiamo prendercene cura”. E ricorda uno dei Padri Costituenti, Giuseppe Dossetti, che nel'94 abbandonò l'eremo per costruire i comitati per la Costituzione. Conclude con le tre parole chiave: “continuità, condivisione e corresponsabilità”

Corriere 25.9.13
Camusso: democrazia economica, ora applicare l’articolo 46
di Susanna Camusso

Segretario generale Cgil

Mentre i vertici istituzionali del Paese diffondono l’idea che la crisi è finita e sta iniziando la ripresa, viviamo quotidianamente il dramma della chiusura di decine di attività produttive, della distruzione di migliaia di posti di lavoro, dell’impoverimento di milioni d’italiani.
Negli ultimi giorni la contraddizione si è fatta ancora più stridente. Da un lato il Governo ha varato “Destinazione Italia” per attrarre investimenti esteri, sostenendo l’idea che questo Paese ha molti asset su cui fare affidamento per rilanciare crescita e occupazione; dall’altro assistiamo a cessioni verso l’estero — che non sono investimenti — delle poche grandi aziende nazionali rimaste. D al trasporto aereo all’industria manifatturiera, dal sistema bancario all’editoria, per citarne alcuni, le grandi aziende del nostro Paese sono messe sul mercato al migliore offerente, senza alcuna idea di politica industriale, di integrazione, di possibile crescita e degli effetti sul sistema produttivo e sull’occupazione.
Caso eclatante è quello di Telecom. È la prima volta che un asset strategico per il futuro del Paese è acquisito da un’impresa straniera senza che ci sia stata una preventiva discussione pubblica sulle sue ricadute e senza che il governo attivasse la golden share. In assenza di un deciso cambio di passo quanto avvenuto è destinato a ripetersi nelle prossime settimane con altri gioielli della nostra industria.
Non è mia intenzione sollevare scudi di nuovo protezionismo per difendere un’italianità di maniera. Nell’Unione Europea e nel mercato globale sarebbe inutile e antistorico. Ma il Paese deve interrogarsi. Quale sviluppo è possibile senza una rete e un’azienda di telecomunicazioni capace di guidare l’agenda digitale? Come immaginare una politica dei trasporti senza poter contare su una capacità produttiva di riferimento? Quale il ruolo di un sistema bancario che pur assorbendo risorse pubbliche per sé si nega ai processi di ricapitalizzazione delle imprese e disdetta i contratti? Sono solo alcuni esempi di cosa potrà accadere nel prossimo futuro e dell’impossibilità di determinare una ripresa in assenza di quegli asset strategici e delle grandi imprese industriali. Per non parlare poi della perdita di occupazione, competenze, professionalità.
Aggiungo che, se si vogliono davvero attrarre investitori che scommettano sul nostro Paese, tocca prima di tutto al Governo dare prova di credere a questo futuro. La svendita diffonde l’idea dei saldi di fine gestione e non che l’Italia abbia le capacità di superare la crisi e avviare le trasformazioni necessarie a restare una potenza industriale.
Dobbiamo constatare che dopo le cosiddette liberalizzazioni degli anni 90, in cui importanti asset pubblici furono “regalati” a manager senza capitali, più che a investitori italiani, si sta aprendo la stagione in cui ciò che è rimasto di quella fallimentare operazione viene ceduto in saldo al primo offerente.
È il rischio di Telecom, può diventarlo per Alitalia se le grandi imprese nazionali che operano nel settore non sentono più la “responsabilità sociale” di partecipare al futuro del Paese. In questi anni alle aziende partecipate è mancata una guida politica capace di indicare al sistema industriale pubblico le priorità e le scelte da compiere. Un’assenza non casuale ma teorizzata e perseguita da chi ha continuato a negare il valore dell’intervento pubblico e della sua capacità di regolazione. I nodi sono venuti al pettine. Ora il governo deve tornare ad assumere il ruolo che gli compete e a cui non può abdicare per esigenze di bilancio: definire gli indirizzi strategici delle reti e dell’industria, i processi di innovazione, le scelte di integrazione con altri partner, diano slancio e mercato alle nostre tecnologie difendano e accrescano l’occupazione e le professionalità.
Il sindacato, unitariamente, è pronto al confronto, come ha già dimostrato avanzando la proposta di istituire una cabina di regia per definire l’orizzonte di certezze senza il quale anche “Destinazione Italia” attrarrebbe solo capitali speculativi.
La discontinuità è indispensabile al punto che si potrebbe cominciare a riconoscere, a partire dalle aziende pubbliche, l’articolo 46 (ndr. democrazia economica) della Costituzione .

il Fatto 25.9.13
Napolitano incontra i leader e chiede un patto di governo
Obbligati alle larghe intese? Ma da chi?
di Luisella Costamagna


Caro presidente del Consiglio Enrico Letta, tra le tante dichiarazioni che lei ha rilasciato in questi mesi di governo, l’ultima mi ha letteralmente fatto sobbalzare sulla sedia. Commentando il voto tedesco dal Canada ha detto: “Emerge un modello di cooperazione simile al nostro. Forse in Italia si capirà che quando i nostri elettori ci obbligano a una grande coalizione bisogna farsene una ragione”.
Rileggo per essere sicura. Sì, ha detto proprio così: “Quando i nostri elettori ci obbligano a una grande coalizione”. E a conferma, ecco come l’inviato del Corsera, Marco Galluzzo, riassume le sue parole: “Dovremmo imparare dalla Germania, dove sono più realisti di noi, dove i risultati elettorali vengono rispettati. Lo dice Enrico Letta”.
Per darle un’idea della mia reazione, immagini un cartone animato con gli occhi fuori dalle orbite e la scritta “Gooooosh”. Certo, quella frase arriva al termine del solito ragionamento per cui nessuno ha vinto le elezioni e quindi “bisogna fare qualcosa di utile per il paese” (parole ancora sue), ma questo non significa che si possa attribuire agli elettori, né direttamente né indirettamente, il governo di larghe intese. Eh, no. Spiace ricordarglielo, ma gli italiani non hanno votato il suo governo. Non solo: hanno detto chiaramente che non avevano apprezzato il governo di larghe intese di Monti, penalizzando sia i partiti che lo sostenevano (Pd, Pdl e Udc hanno perso in totale, rispetto al 2008, circa 11 milioni di voti) sia le liste dell’ex premier. Voti che, in parte, sono finiti a Grillo.
Si può dire che le urne non ci hanno consegnato una maggioranza, che di fronte ai problemi del paese quella della grande coalizione era l’unica strada possibile (ma davvero tutte le strade alternative sono state percorse fino in fondo o alcune sono state escluse perché “siamo mica matti”?), che con le decisioni urgenti da prendere non si poteva precipitare di nuovo il paese in campagna elettorale per nuove elezioni (ma come mai in Grecia, messa peggio di noi, è stato fatto?)
SI POSSONO dire tutte queste cose e molte altre che ci siamo sentiti ripetere in questi mesi (e glisso sulle priorità di questo governo di scopo che ancora attendono soluzione), ma non che gli elettori vi abbiano “obbligato a una grande coalizione” né che con il suo governo sia stato rispettato il risultato elettorale. Quanto alla Merkel, bè, se pure continuerà le larghe intese, ora lo farà dall’alto del suo 42,5%.
Nulla a che vedere con i risultati dei nostri (vostri) partiti. In conclusione: vabbè dare la colpa all’instabilità o non voler fare il “parafulmine”, ma almeno la responsabilità di aver fatto nascere questo governo di responsabilità (lei e gli altri che ne fanno parte) se la prende, invece di attribuirla agli italiani?
Mica c’abbiamo scritto Jo Condor.
Un cordiale saluto

il Fatto 25.9.13
Ecco chi custodisce la nostra Costituzione
di Angelo Ferrara


Mi hanno sempre insegnato che gli uomini, soprattutto i politici, si giudicano dalla loro storia. Quando mi soffermo sulla biografia del nostro presidente della Repubblica, Napolitano, leggo che ha pienamente condiviso a suo tempo l'aggressione sovietica dell'Ungheria e ha contrastato la linea politica di Berlinguer cercando di portare il Pci tra le braccia di Craxi. Inoltre, ha gestito la crisi politica italiana dopo la caduta dell'ultimo governo Berlusconi in modo catastrofico. Parla di emergenza Paese dal 2011. Attribuisce alla magistratura responsabilità morali della giustizia che anche agli occhi del più sprovveduto italiano sono esclusivamente addebitabili al noto pregiudicato e alla sua corte di nani e ballerine.

l’Unità 25.9.13
Finanziamento, è scontro Il Pdl vuole i soldi del Cav
Se la politica è dei padroni finisce la democrazia
di Paolo Borioni


La vicenda del finanziamento ai partiti assume ormai caratteri che confinano con l’inciviltà politica. La destra non ritiene di accettare nemmeno la soglia massima di donazione posta a 100mila euro.
Chiunque deve, secondo il Pdl, poter donare anche una cifra indecente, di quelle pensate per condizionare, o addirittura per comprare un partito, e non per sostenerlo. Per questo ieri la commissione Affari Costituzionali della Camera ha interrotto i lavori. Ora, salvo ravvedimenti notturni, tutto dipenderà dall’aula. La ragione, anzi la scusa, addotta dalla signora Gelmini è che «disincentivare il finanziamento dai privati mentre si abolisce il finanziamento pubblico non è logico». Come è ovvio dietro c’è altro: Berlusconi nel suo crepuscolo inglorioso usa ogni stratagemma per mantenere i suoi nella sudditanza, e quello di donazioni senza limite gli regala un’arma che solo lui possiede per continuare ad essere quel padrone che è sempre stato. Del resto, ha pienamente ragione a sospettare che moltissimi, nel suo partito, stanno già pensando ad altre destinazioni. Ma in pubblico il rituale della fedeltà esteriore va mantenuto. Così gli esponenti del Pdl aprono senza scrupoli all’indecenza, ovvero a quella che deve essere chiamata col suo nome: la fine della democrazia, l’affermarsi di una serie di partiti padronali senza più possibili limiti, il trionfo della corruzione impunita e impunibile. Occorre far loro capire che questa assurda pretesa non passerà. Ma ragionino, i parlamentari del Pd, sulle parole della Gelmini: esse racchiudono una logica alla quale anche molti di loro hanno in qualche modo ceduto. Una volta demonizzato il finanziamento pubblico, e una volta, quindi, passato l’assunto per cui il contributo dei privati è l’unica risorsa legittima, i partiti si trovano di fronte ad un orizzonte di potenziale ansia di sopravvivenza. Anche se in forme diverse e meno sfacciate di quelle dichiarate dal Pdl, moltissimi potrebbero vivere la situazione per cui delle risorse vanno trovate purchessia. Molti potrebbero pensare che in fondo tutto è permesso se si è stati così nobili e progressisti da abolire il finanziamento pubblico. Questa logica si ritrova, a ben vedere, anche nella soglia dei 100 mila euro, abbondantemente troppo alta. In molti contesti 100 mila euro sono già una donazione che condiziona indebitamente un partito. La possibilità inoltre spingerebbe i partiti a cavarsela con un centinaio di ricchi emarginando ancora di più la raccolta diffusa, che richiede il coinvolgimento dei militanti.
E invece, il pubblico dovrebbe servire a incentivare, con meccanismi di cofinanziamento, la raccolta militante trasparente, quella che rafforza, anziché uccidere, la democrazia dal basso. Ma se non si è saldi sul limite, e se anzi non si cerca di abbassarlo, è ovvio che anche il cofinanziamento proporzionale alla raccolta privata premierebbe i padri-padroni come il Cavaliere. È vitale dunque rimanere saldi. Speriamo che nessuno, nel Pd, ceda di fronte a chi di sicuro, dal Pdl o M5S, li accuserà di «cercare scuse per salvare il finanziamento pubblico». Speriamo che a nessuno venga in mente di cercare mediazioni a mezzo milione, o un milione di euro di tetto. Il limite è già stato superato.

Corriere 25.9.13
Nel Pd a rischio l’intesa sulle regole. L’ipotesi di separare leader e candidato
Un «preambolo» distinguerà il segretario da chi corre per il governo Il ministro Carrozza: immagine terrificante e brutta offerta dal partito
di Monica Guerzoni


ROMA — Il patto di lunedì notte già vacilla. L’idea di separare la carriera del segretario da quella del candidato premier affidandosi a un «gentlemen agreement» non piace nemmeno un po’ al fronte filogovernativo, che non sembra fidarsi troppo di Matteo Renzi e chiede un accordo nero su bianco. Il nodo politico in vista della Direzione del Pd è questo: è il timore dei lettiani di prendere «fregature» da chi vincerà il congresso, con il rischio che Enrico Letta si veda costretto, se e quando sarà, a chiedere al sindaco la deroga per potersi ricandidare a Palazzo Chigi.
«Bisogna garantire formalmente la partecipazione di Letta» avverte Beppe Fioroni, che troppe volte in passato ha visto i colleghi «rimangiarsi accordi su accordi». E Luigi Madeo, che siede per l’area popolare al tavolo delle regole, invita a trovare una «soluzione forte per un interrogativo ancora aperto».
A Montecitorio il tema tiene banco. «Ve lo vedete Renzi che sigla un patto con Pittella e Civati?», ride un fedelissimo del primo cittadino di Firenze. Anche se poi il braccio destro Luca Lotti cerca di sdrammatizzare: «È complicato non dare la deroga quando Matteo la ebbe da Bersani». Il problema è che i lettiani la deroga non la vogliono, perché temono che «una concessione del futuro leader» indebolisca il premier. Sospettano che i renziani puntino alla «vittoria a tavolino» e chiedono una «norma formale». Guglielmo Epifani sta mediando tra le parti in causa e Gianni Cuperlo ha già detto che non farà problemi: «Io sono ecumenico...».
La commissione Statuto, che oggi tornerà a riunirsi, è alla forsennata ricerca di un’intesa e sta valutando l’ipotesi di un «preambolo» nel quale scolpire la separazione tra la figura del segretario e quella del premier. Se tutto va bene, venerdì in direzione si firmerà l’accordo. «Basta che qualcuno non provi a rendere obbligatorie le primarie di partito per la scelta del candidato premier...», avvertono i renziani. Un tema che rivela come la vera partita sia la durata delle larghe intese. Marco Meloni, uno dei deputati più vicini a Letta, lo dice con chiarezza: «Chi vince il congresso si impegni a garantire che il governo duri come minimo fino al termine del semestre europeo». Ma il dicembre del 2014 è una data troppo lontana per Renzi, il quale non nasconde la fretta di «cambiare l’Italia».
Gli echi dell’assemblea ancora non si spengono. La renziana Lorenza Bonaccorsi chiede le dimissioni del responsabile Organizzazione e sottotraccia continua a scorrere un fiume gonfio di veleni e sospetti. «La data dell’8 dicembre non si tocca», ammonisce il renziano Lorenzo Guerini. La battaglia si sposta sul calendario delle varie fasi congressuali, con Stefano Bonaccini e Roberto Gualtieri incaricati di stendere il regolamento. Per quanto «sereno» sia stato il clima dell’ultima riunione sullo Statuto, gli animi restano accesi. Su L’Unità Goffredo Bettini denuncia «i madornali errori di un vertice che cerca di ricollocarsi e di contare ancora». E sempre sul giornale diretto da Claudio Sardo, Pier Luigi Bersani respinge gli attacchi di chi lo ha dipinto «come un mestatore» e giura che «l’intesa in assemblea è saltata alla luce del sole», non certo per qualche occulto complotto. Lo sfogo dell’ex segretario conferma quanto tesi siano i rapporti tra il fronte renziano e quello antirenziano, alla spasmodica ricerca di un candidato alternativo. Dopo che Bianca Berlinguer ha smentito contatti, ha preso a girare il nome di Maria Chiara Carrozza, cattolica vicina a Letta, indignata per l’immagine «terrificante e brutta» offerta dal Pd. Ma dagli entourage del premier (e di Rosy Bindi) smentiscono che il ministro sia in corsa. E mentre Renzi torna dalla Gran Bretagna dove ha incontrato i sindaci di Londra, New York e Varsavia, nel Pd si litiga persino sulla stanza di Bersani al Nazareno, una querelle che il tesoriere Antonio Misiani si incarica di stoppare come «stupida e assurda». Nella ridda di voci dal sen fuggite ce n’è anche una che vorrebbe Walter Veltroni in procinto di tornare, da direttore, a L’Unità.

Corriere 25.9.13
D’Alema, critiche a Obama e frecciate a Letta
«Il premier può durare, ma uscirà logorato dalla convivenza obbligata con Berlusconi»
di Massimo Gaggi


DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — «Gli errori di Obama che non ha accompagnato la minaccia di bombardare la Siria con un chiaro progetto politico e la latitanza dell’Europa hanno aperto grandi spazi di iniziativa diplomatica a Putin e Assad. Se non vogliamo che siano loro a vincere la partita, bisogna andare oltre la questione delle armi chimiche e approfittare dell’apertura di uno spiraglio negoziale per imporre un cessate il fuoco».
Tardo pomeriggio alla Macelleria, ristorante rustico-trendy del Meatpacking District, cuore della Manhattan dei giovani e anche di quella tecnologica, le aziende della «Silicon Alley». Massimo D’Alema, davanti a una platea di simpatizzanti del Pd che studiano e lavorano negli Usa, ricorre alle sue memorie di statista — il presidente del Consiglio italiano che, insieme a Bill Clinton, si impegnò nell’intervento militare in Kosovo — per riflettere sui dilemmi degli interventi di ingerenza umanitaria in altri Paesi: «Quella fu un’azione drammatica e sofferta, ma dietro c’era un chiaro obiettivo politico: il ritiro dei serbi e l’indipendenza. In Siria c’era solo la volontà di punire Assad. Che non è di per sé una strategia».
Ma poi, dopo aver parlato per più di un’ora di politica internazionale, pur descrivendosi ormai come un esterno al Partito democratico («sono iscritto, ma sono molto lontano») D’Alema non rinuncia a distillare la sua ricetta per i nuovi vertici del centrosinistra: «Gianni Cuperlo segretario del Pd, Matteo Renzi leader della coalizione e candidato alla guida del governo». Quanto a Enrico Letta, va sostenuto con tutta l’energia possibile nel suo sforzo di andare avanti col governo attuale perché il Paese ha bisogno di stabilità: «Può durare a lungo, anche fino al 2015. Ma credo che in qualche modo uscirà logorato dalla convivenza obbligata con Berlusconi. Dopo questo governo penso che la gente vorrà una personalità nuova».
L’ex capo del governo e del partito postcomunista che ha lasciato le cariche e il Parlamento, racconta di essere a New York per partecipare a una serie di eventi organizzati a margine dell’assemblea dell’Onu in quanto animatore della fondazione «ItalianiEuropei» e capo del «pensatoio» dei socialisti europei: «Ho lasciato i ruoli attivi, ma faccio politica in altro modo perché per me la politica non è un mestiere ma un modo di interpretare la vita».
È sempre lui, coi passaggi dal ruvido all’affabile, senza rinunciare a una punta di sarcastica arroganza: «Niente interviste», dice ai giornalisti con i quali, pure, conversa volentieri. «Se volete, invece, posso farvi una lezione sul Medio Oriente: conosco bene tutti i protagonisti, a partire da Morsi». Ed è molto dalemiana anche la spiegazione che dà delle sue preferenze politiche: «Cuperlo è il personaggio di maggior spessore culturale e il segretario del nostro partito deve essere così: uno davanti al quale la gente tace perché si aspetta di sentire cose che non sa».
Renzi, invece, è «la nostra presenza pubblica più forte. Un “asset” importante in un periodo di forte caduta della partecipazione alla politica». Ma il «rottamatore» non era la sua bestia nera? «Da quando mi sono fatto da parte non vuole più rottamarmi. Ci siamo conosciuti, lo apprezzo. Certo, se poi da qui alle elezioni viene fuori un Nembo Kid mica puoi impedirgli di partecipare alle primarie…».

l’Unità 25.9.13
Giustizia, riforma necessaria e impossibile
di Giovanni Pellegrino


Il presidente della Repubblica, in un commosso ricordo di Loris D’Ambrosio, è tornato ad invitare politica e giustizia a spegnere, o almeno rendere meno aspra, la situazione di conflitto che da circa un ventennio domina la scena.
I tempi avventurati che viviamo rendono però improbabile che l’autorevole invito possa essere accolto. Sin troppo agevole è prevedere che l’attacco a una magistratura accusata di essere politicizzata, e di avere per questo a lungo operato per eliminare Berlusconi dalla scena politica e per indebolirne il potere imprenditoriale, sarà per la rinata Forza Italia uno dei temi dominanti di una campagna elettorale sostanzialmente già iniziata.
Posta dinanzi al reiterarsi di attacchi così virulenti è anche fisiologico che la magistratura associata reagisca con una chiusura sostanzialmente corporativa, lasciando inascoltato l’invito del Capo dello Stato ad assumere un’attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto alle prospettive di riforma della giustizia, di cui Napolitano ha ribadito la urgente necessità. In questo clima inviti coraggiosi all’assunzione di posizioni autocritiche, come quello recente di Ilda Boccassini, sono destinati a restare isolati. A ciò si aggiunga che, tramontato l’astro di Di Pietro, uno spazio è venuto ad aprirsi per nuove posizioni politiche ispirate ad un giustizialismo estremo, che il M5S si è affrettato ad occupare, reiterando nella rozzezza dei toni il messaggio politico, che fu già proprio della prima Lega Nord.
In questo quadro generale e alla vigilia di un nuovo confronto elettorale diviene oggettivamente difficile la posizione del Pd, che, stretto tra due opposti manicheismi, sarà indubbiamente frenato dall’approfondire la pur iniziata opera di revisione di una posizione politica, che fu a lungo ancillare rispetto a quella della magistratura associata. Penso alle valutazioni che Luciano Violante esprime ormai da anni e anche al modo in cui Andrea Orlando ha svolto il suo ruolo di responsabile Giustizia del Pd.
Continueremo quindi a vivere giorni oscuri, in cui sarà oggettivamente difficile sui temi della giustizia articolare anche nel Pd ragionamenti pacati e approfonditi, che sfuggano alla tenaglia dei due opposti estremismi. Il danno che da ciò deriverà per il Paese non è discutibile, perché perpetuerà una anomalia che ci rende più deboli nel confronto competitivo con le altre democrazie europee.
Ritenere che a tale anomalia possa porsi riparo soltanto attraverso interventi pur urgenti e indispensabili che abbrevino i tempi delle decisioni giudiziarie è abbastanza illusorio, perché non varrebbe ad attenuare quella pervasività dell’intervento giudiziario, che caratterizza il nostro Paese e che non ha eguali in Europa e per vero negli altri Paesi a democrazia avanzata. Ovviamente non è prospettabile un antistorico ritorno a tempi d’antan, atteso che un nuovo ruolo è stato assunto da poteri di controllo neutrali in tutto il mondo nato dalla globalizzazione.
Ma è appunto la maggiore importanza che il controllo di legalità ha nella complessità degli aggregati sociali, che caratterizza il tempo presente, a rendere urgenti in Italia riforme, che senza attenuarne il rigore, lo riportino ad un dovuto parametro di armonizzazione e di razionalità, ponendosi come obiettivo non il ritorno a un antistorico primato della politica, ma quello del raggiungimento di un nuovo punto di equilibrio tra politica e giustizia, che giovi ad un regolare e ordinato svolgersi della vita associata.
L’ipertrofia e pervasività assunte dall’intervento di giudici di ogni ordine e grado nel nostro Paese non è oggettivamente negabile e nasce da un complesso di cause abbastanza universalmente riconosciute. Penso alla continua implementazione del numero dei divieti penalmente sanzionati, che lasciano da sempre disattesa l’aspirazione, pur a parole declamata, di riservare la sanzione penale soltanto ai fenomeni patologici di maggior rilevanza sociale. A questo si aggiunge la tendenza sempre più accentuata ad una interpretazione estensiva delle norme incriminatrici, che caratterizza l’effettività della nostra giurisprudenza con buona pace del principio di stretta legalità dell’incriminazione penale pur formalmente sancito nell’articolo 25 della Costituzione.
E ciò nell’inestricabile groviglio di una legislazione amministrativa sempre più articolata e complessa, che moltiplica i momenti di controllo con un insieme di regole di difficile applicazione. Da qui un abnorme implementazione delle occasioni di intervento giudiziario in un ordinamento come quello italiano in cui è ben possibile, e addirittura fisiologico, che su di una singola vicenda amministrativa si attivino tre forme diverse di controllo di legalità affidate a tre ordini giudiziari distinti (quello ordinario, quello amministrativo e quello contabile), l’uno dall’altro indipendenti e che quindi ben possono sul medesimo atto pervenire a valutazioni diverse e tra loro contraddittorie affidate a verdetti giudiziari, pur pronunciati tutti in nome del popolo italiano.
È quindi innegabile l’esigenza di una complessiva riforma del nostro sistema giustiziale, che introduca, quantomeno nel settore civile e amministrativo, opportune forme di filtro, che consentano l’accesso alla giustizia togata di una conflittualità opportunamente scremata; soluzioni di cui però è problematica la compatibilità con le garanzie di piena giustiziabilità previste negli articoli 24 e 113 della nostra Costituzione. Così come è oggettivamente problematico nell’attuale assetto costituzionale porre un freno al soggettivismo, che spesso ispira l’iniziativa di magistrature inquirenti (ordinaria e contabile) organizzate secondo il modulo diffuso proprio delle magistrature giudicanti e che conduce su specifici problemi a valutazioni difformi da un luogo all’altro del Paese, rendendo così sostanzialmente illusorio il valore della certezza del diritto, già posto in crisi da una produzione legislativa alluvionale e poco coordinata.
Dovrebbe quindi essere chiaro che, riesaminate alla luce delle esigenze del presente, anche su alcune scelte operate dal Costituente in materia di organizzazione giudiziaria, sarebbe opportuno attivare un confronto approfondito e pacato, come appare oggettivamente ben difficile se alla discussione sono chiamati a partecipare Beppe Grillo e Daniela Santanché. Diviene così dovuto concludere che il tema della riforma della giustizia e della determinazione di un nuovo punto di equilibrio tra poteri di controllo e poteri rappresentativi non potrà essere affrontato se non da un sistema politico che sia stato prima capace di riformare se stesso; ma nemmeno questo risulta agevole, una volta che autorevoli vestali della Costituzione contestano alla politica persino la possibilità di riorganizzare le forme istituzionali della rappresentanza.

l’Unità 25.9.13
Gli italiani e le medicine
Si spende meno, ma usiamo troppi antibiotici e antidepressivi


Danno la colpa alla crisi. E forse non può che essere così. Se in Italia si usano sempre più antidepressivi vuol dire che una larga fetta della nostra popolazione non vive affatto bene il presente. Ma anche che c’è da parte dei medici una facilità nella prescrizione sulla quale dover riflettere. Comunque sia, l’istantanea scattata dal Rapporto «L'uso dei farmaci in Italia», realizzato dall'Osservatorio sull'impiego dei medicinali dell'Agenzia del farmaco (Aifa), raffigura un Paese che utilizza sempre più farmaci. Tra questi gli antibiotici, il cui consumo è diminuito anche se in una percentuale consistente si continua a farne un cattivo uso impiegandoli anche laddove non necessari. E se le dosi giornaliere di medicinali prescritti sono aumentate del 2,3% rispetto al 2011, nel 2012 ogni italiano ha consumato 30 confezioni di farmaci.
Nel 2012 la spesa farmaceutica totale in Italia è stata pari a 25,5 miliardi di euro, facendo registrare consumi sostanzialmente stabili rispetto al 2011. In media, per ogni cittadino, la spesa per farmaci è stata di circa 430 euro. La spesa farmaceutica territoriale complessiva è in riduzione rispetto all'anno precedente del 5,6%. La spesa per l'acquisto di medicinali da parte, invece, delle strutture sanitarie pubbliche, nel 2012 ha fatto registrare un incremento del +12,6% rispetto al 2011. Consumi stabili, sia pure con un incremento (+2,3%) nella prescrizione di dosi giornaliere. Un dato commentato dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: «Nonostante l'aumento del consumo di farmaci, la spesa farmaceutica è rimasta sotto controllo. Questo ha spiegato grazie ad una maggior appropriatezza nella prescrizione, ma anche all'immissione di farmaci a brevetto scaduto e di generici». Tuttavia «c’è ancora forte disomogeneità tra le regioni e bisogna ancora lavorare per una maggior appropriatezza delle prescrizioni». A consumare più medicinali sono i più piccoli e gli anziani: il 50% dei bambini e oltre il 90% degli over-75 ha ricevuto almeno una prescrizione durante l'anno. Gli over-74 presentano anche consumi e spesa rispettivamente 22 e 8 volte superiori a quelli di un paziente tra i 25 e i 34 anni.

Repubblica 25.9.13
“Troppi antibiotici, uno su cinque è inutile”
Allarme dell’Agenzia del farmaco. In aumento anche il ricorso agli antidepressivi
di Michele Bocci


ROMA — Un po’ di mal di gola, un colpo di tosse, e subito si vanno a cercare gli antibiotici nel mobi-letto del bagno. Senza neanche sentire il medico. Un errore commesso da centinaia di migliaia di persone ogni anno, che porta all’utilizzo inappropriato di almeno il 20 per cento dei farmaci antibatterici acquistati in Italia. È uno dei dati che spaventa di più l’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco che ieri ha presentato il rapporto sui consumi 2012. Non è solo una questione di soldi, che pure esiste, ma soprattutto di salute. «Prendere gli antibiotici quando non servono, fa aumentare le resistenze e rende le medicine meno efficaci contro i batteri», avverte Luca Pani, direttore generale di Aifa. «Non basta che il consumo di questi farmaci sia calato del 6,5 per cento rispetto al 2011 — continua — perché veniamo da anni di aumenti fortissimi».
L’anno scorso in Italia i farmaci sono costati 25,5 miliardi di euro. Ben due terzi delle molecole usate, il 62,1 per cento, sono ormai senza brevetto perché hanno più di 15 anni. Ci curiamo con rimedi vecchi, e in futuro il dato salirà ancora, visto che altri produttori perderanno le loro esclusive. Le aziende, del resto, non inventano quasi più molecole blockbu-ster, efficaci contro malattie molto comuni.
La spesa per i farmaci a brevetto scaduto è il 37,7 per cento del totale, visto che si tratta di medicinali dal prezzo più basso. Poco più un terzo lo incassano i produttori dei generici, il resto finisce comunque nelle tasche delle aziende che vendono il farmaco di partenza. La “marca” funzionaanche quando c’è la concorrenza di prodotti meno cari. Una categoria di farmaci che vede una crescita di prescrizione, del 4,5 per cento in otto anni, è quella degli antidepressivi. Anche in questo campo si segnala una forte inappropriatezza. Ad esempio il 50 per cento dei pazienti interrompe la terapia dopo tre mesi anziché portarla avanti fino ai sei previsti, sprecando medicinali e curandosi male. Crescono anche ansia e disturbi alimentari. «Questi dati ci indicano la presenza della crisi economica. Non a caso l’aumento avviene di più fra i giovani, che non trovano lavoro, e gli anziani, che non riescono ad arrivare alla fine del mese», commentaSergio Pecorelli, presidente di Aifa.
Nel 2011 i farmaci erano costati 26,3 miliardi di euro, contro i 25,5 dell’anno scorso. Il calo è merito soprattutto della riduzione del 5,6 per cento della spesa territoriale, per l’acquisto in farmacia. Quella ospedaliera, che vale circa un terzo del totale, invece è cresciuta del 12,6 per cento e si sta cercando un sistema per arginarla. Il consumo di confezioni è aumentato di circa il 2 per cento. Ogni giorno 985 persone su mille assumono una dose di un farmaco passato dal servizio sanitario. «Nonostante l’aumento del consumo la spesa è rimasta sotto controllo — commenta il ministro Beatrice Lorenzin — grazie a una maggior appropriatezza nella prescrizione, su cui si può ancora lavorare, e all’immissione di farmaci a brevetto scaduto e generici. Tuttavia c’è ancora forte disomogeneità tra le regioni ». Quella dove si prendono piùmedicine è la Sicilia.

l’Unità 25.9.13
«Lezioni di energia» Al MAXXI di Roma
Oggi lo psicoanalista Recalcati


Parte oggi al Maxxi di Roma il ciclo di lezioni «Energy: lezioni sulle energie che muovono il mondo»: otto incontri con i protagonisti del nostro tempo per scoprire e liberare le nostre energie più profonde, quelle che servono per vivere, pensare, creare. Protagonisti della prima lezione, oggi alle 17:30 (ingresso libero), il celebre psicanalista lacaniano Massimo Recalcati e la coppia di artisti Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) che parleranno di «Energie dal sommerso». Tra i temi dell’incontro: come attingere alle
energie imprigionate nel «sottosuolo» della nostra psiche e quali strumenti possono aiutarci a far emergere le forze confinate nel nostro sommerso. Il ciclo di lezioni, sponsorizzato da Eni, è organizzato dal Maxxi in occasione della mostra «Energy. Architettura e reti del petrolio e del post petrolio» (fino al 10 novembre). Il secondo appuntamento, dedicato a «Il gusto dell’energia», ospiterà la cantautrice Erica Mou e lo chef stellato Salvatore Tassa (28 settembre, alle ore 11:00).
www.fondazionemaxxi.it

l’Unità 25.9.13
Strade, bus e servizi: il nostro lavoro per Roma
di Ignazio Marino

Sindaco di Roma

Ho letto con molta attenzione la lettera della signora Bianchi, pubblicata su l’Unità di domenica 22 settembre. Attraverso il suo giornale desidero ringraziarla per la fiducia accordata, attraverso il suo voto, e esortarla a mantenere, con la medesima passione civica, un occhio critico sulla nostra città.
In questi tre mesi, è bene chiarirlo, abbiamo lavorato in una situazione amministrativa difficile. Il primo provvedimento preso non è stato la chiusura al traffico privato di via dei Fori Imperiali, ma l’eliminazione delle cosiddette auto blu che erano permanentemente a disposizione di tutti i membri della giunta comunale. Durante l’estate le abbiamo utilizzate anche per il trasporto di cittadini, come nel caso di un bimbo che doveva recarsi quotidianamente ad eseguire la chemioterapia per una grave leucemia. Successivamente, siamo intervenuti anche nel liberare il Colosseo dal traffico privato, per avviare il progetto del più grande parco archeologico del pianeta. Ma l’impegno non si è fermato a questa piccola grande rivoluzione di ampio valore simbolico, oltre che sostanziale.
In poche settimane, e senza lasciarsi fermare dalla pausa estiva, è stato varato, dalle periferie al centro, un piano caditoie per liberare i tombini e le fogne della città, ostruiti e dimenticati da anni; è stato aperto e risolto un contenzioso con il consorzio Metro C, sbloccando i lavori e assicurando l’impiego degli operai e la definizione di un nuovo contratto che impegni, con tempi e costi certi (che per trasparenza abbiamo pubblicato in rete), alla consegna della nuova linea metropolitana.
L’amministrazione ha iniziato ad affrontare le inefficienze delle aziende municipalizzate, colpite negli ultimi anni da scandali e indagini della magistratura per la cattiva gestione, i servizi non efficaci e le politiche di reclutamento del personale, improntate a criteri talvolta poco trasparenti, se non di vero nepotismo. È di questi giorni la revoca dei vertici delle Assicurazioni di Roma, che in questi anni non hanno operato nell’interesse della cittadinanza. In precedenza siamo intervenuti proprio su Atac, nominando un nuovo amministratore delegato, per eliminare disservizi e attese che la signora Bianchi vi ha segnalato. Abbiamo introdotto il buono casa, per chiudere definitivamente la triste pagina dei residence per chi vive in emergenza abitativa: adesso spendendo bene i 35 milioni di euro che prima venivano spesi male riusciremo ad aiutare il triplo delle famiglie in difficoltà.
Abbiamo reintrodotto il cibo biologico nelle mense delle scuole dei bambini romani e, nonostante i problemi economici ereditati, stiamo cercando di risolvere il problema delle liste d’attesa negli asili nido. Contro la cementificazione in zone prive di infrastrutture e di trasporti pubblici, e nel rispetto del nostro territorio e del verde, abbiamo individuato 114 aree all’interno di Roma da sottoporre a rigenerazione urbana, per alloggi popolari e nuove infrastrutture; censito il patrimonio comunale di cui finora non si conosceva neppure l’entità. Infine il più importante obiettivo: votare la manovra economica 2013 e quella previsionale del 2014 entro la fine di novembre 2013, in modo da garantire, nel 2014, a ogni cittadino, giovane, anziano o disabile la giusta assistenza attraverso una programmazione priva di incertezze. Infine, abbiamo aperto in piazza del Campidoglio l’ufficio del sindaco per il rapporto con i cittadini per raccogliere i suggerimenti, le idee e le proposte delle romane e dei romani.
Un nuovo importante passo per avvicinare i cittadini alle istituzioni e un’ulteriore dimostrazione della voglia di questa amministrazione di rendere sempre più aperto e trasparente il rapporto con la Città.
Per realizzare tutto questo, che non è un programma da «sinistra in cachemire», c’è bisogno del nostro massimo impegno, che non mancherà, e dell’appoggio, dei consigli, delle critiche e della collaborazione di tutti i romani, a partire da quello della signora Bianchi. Insieme possiamo modernizzare la nostra amata Roma.

l’Unità 25.9.13
Se il medico deluso sapeva già tutto
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

I concorsi di accesso nelle specialità mediche sono talmente pilotati da potervi io comunicare con un mese di anticipo, i nomi dei vincitori del prossimo concorso per la prima cardiologia al policlinico Umberto I di Roma, quelli dei 6 candidati per la seconda cattedra, dei 3 candidati per la cattedra di Latina e degli esclusi a causa di un basso punteggio nella seconda prova e nonostante alti punteggi di curriculum.
Un anonimo medico deluso

Abbiamo già pubblicato questa lettera, senza i nomi e con un commento in cui parlavamo della necessità di ricorrere a delle graduatorie nazionali per l’accesso alle scuole di specializzazione il 16 giugno. La ripubblichiamo ora perché il Ministro Carrozza ci sta pensando seriamente e perché un giornale ha dato ampio risalto giovedì al fatto che le previsioni del «medico deluso» si sono perfettamente avverate. «Nell’ateneo del Rettore Frati, o della famiglia Frati», scrive Corrado Zunino su La Repubblica, il titolo decisivo per vincere un concorso che apre la strada alla professione e alla tranquillità economica sembra più la possibilità e la capacità di fare da autista al professore che il curriculum formativo. «A parità di cavallo monto su quello che conosco meglio» replica il professore, che sceglie, con un’ironia che gli va riconosciuta, la metafora giusta. Senza spiegare però come sia possibile scegliere il cavallo su prove anonime e senza scomporsi, soprattutto, di fronte all’incredulità di chi lo intervista. Un piccolo fatto? Può darsi. Anche se dovremmo riflettere molto di più, a mio avviso, sul modo in cui fatti come questi incidono sul declino di un sistema universitario tutto da riformare. Cominciando dall’intoccabilità dei baroni e dalla necessità di rendere incompatibili la professione privata e l’appartenenza all’organico dell’Università. Come accade in tutti i Paesi civili.

l’Unità 25.9.13
Gli accompagnatori turistici discriminati
di Sergio Grom


Recentemente è stata recepita una d direttiva europea che, in pratica, sancisce la libertà di spostamento e lavoro delle guide turistiche ovunque in Europa. Come conseguenza di questa pur giustissima legge si è venuta a creare la seguente paradossale situazione: dato che in molti (quasi tutti) i Paese Europei non esiste la figura dell'accompagnatore turistico distinta da quella della guida turistica, ma solo quella della «guida turistica», che funge quindi anche da accompagnatore, questi colleghi (accompagnatori/guide) da adesso in poi potranno venire in Italia e svolgere, ripetiamo, giustamente, anche compiti di guida turistica nel nostro
Paese. La contraddizione è che, purtroppo, invece, per noi accompagnatori turistici italiani (ovvero in possesso di una licenza rilasciata da un'istituzione pubblica italiana (Provincia, Comune o Regione che sia) stanti le attuali leggi che sanciscono diverse mansioni tra guide e accompagnatori, questo non è possibile, creando di fatto un danno notevole ad una categoria che, dovendo essere iscritta alla Camera di Commercio, al Registro Iva, ecc. paga fior di tasse al governo Italiano, e stiamo parlando di diverse migliaia di ottimi professionisti: vogliamo che, in questi tempi già così difficili, migliaia di famiglie vengano gettate sul lastrico per una legge quantomeno «incompleta»? Non crediamo che il governo volesse questo, ma crediamo, piuttosto che, a chi ha legiferato, sia sfuggita la particolarità della situazione italiana. Quello che gli scriventi richiedono, dunque, è che anche in Italia vengano accorpate, come per la maggior parte degli altri Paesi Europei, la figura dell'accompagnatore turistico con quella della guida, creando una figura unica detta guida turistica italiana.
Licenced Tour Director

La Stampa 25.9.13
Ablyazov, controffensiva in Italia “Processate l’ambasciatore kazako”
L’avvocato presenta una denuncia a Roma per il sequestro dei familiari del dissidente
di Maurizio Molinari


La famiglia Ablyazov sceglie il foro di Roma per ottenere la condanna del Kazakhstan, reo del sequestro di Alma Shalabayeva e della piccola figlia Alua. Alle 9,30 di questa mattina l’avvocato degli Ablyazov, Astolfo di Amato, deposita la denuncia penale nella quale accusa tre diplomatici kazaki di «sequestro aggravato di persona» e «gravi abusi dei privilegi dei diplomatici» chiedendo la revoca della loro immunità e una condanna che potrebbe arrivare a 15 anni di reclusione.
Se Muktar Ablyazov, leader dell’opposizione kazaka ricercato per frode da Astana, è in prigione in Francia e deve battersi contro la richiesta di estradizione del Kazakistan, la contromossa della famiglia è dunque aprire un fronte legale nel nostro Paese sperando così di ottenere il ritorno di Alma e Alua.
La denuncia colpisce l’ambasciatore Adrian Yelemessov e due diplomatici, Murlan Khassen e Yerzhan Yessirkepov sulla base di «prove schiaccianti», come si legge nel comunicato della famiglia, che includono la copia della richiesta del Kazakhstan all’Interpol di deportare Alma Shalabayeva. «Una volta rivelato lo status illegale di Shalabayeva Alma in Italia - con documenti falsi - vi chiediamo di deportarla in Kazakistan» si legge nel documento del 31 maggio scorso nel quale si chiede anche di arrestare Muktar Ablyazov.
Per la famiglia si tratta di un «abuso dell’Interpol» perché «le autorità del Kazakhstan hanno chiesto a quelle italiane di consegnare la Shalabayeva nonostante il fatto che quest’ultima non fosse oggetto di un mandato di cattura dell’Interpol». Per Peter Sahlas, avvocato dei figli di Ablyazov, «il Kazakhstan ha abusato dell’Interpol per camuffare la presa in ostaggio della moglie e della figlia del principale avversario politico del regime» dando vita ad una «cospirazione criminale» finalizzata ad una «rendition straordinaria». Fra le altre prove a carico dei diplomatici kazaki c’è una foto scattata dalla cabina di pilotaggio del jet austriaco che decollò da Ciampino con Alma e Alua, nella quale si vedono due di loro mentre parlano con degli agenti italiani. La foto, scattata dal pilota Jorg Mayerbrock, fa parte dei documenti consegnati dalla famiglia alle autorità austriache che indagano sui 70 mila dollari versati dal Kazakhstan per affittare il velivolo. «Il pilota ha dichiarato alla polizia austriaca - dice l’avvocato della famiglia che i primi due passeggeri a salire a bordo furono i diplomatici kazaki, seguiti da un pulmino della Polizia con 15-20 persone». Il pilota «osservò che Alua veniva portata sull’aereo non dalla madre ma da un’agente donna italiana».
La conclusione di Madina, maggiore dei quattro figli di Ablyazov e Shalabayeva, è che «l’ambasciatore e gli altri diplomatici hanno organizzato un’espulsione illegale, abusando dei loro privilegi di diplomatici che dunque non possono continuare a godere». «Sapevano cosa stavano facendo, che era un rapimento ed una deportazione e che si svolgevano in maniera illegale» spiega Madina, rimettendosi nella mani della magistratura italiana.
Sebbene gli agenti italiani siano stati accusati di aver partecipato alla cattura di Alma e Alua, l’azione penale non investe cittadini del nostro Paese, citando invece a sostegno della denuncia dichiarazioni delle più alte autorità italiane. «Il premier Letta ha revocato l’ordine di espulsione, chiedendo al Kazakhstan il ritorno di Alma e Alua» e «il presidente Napolitano ha parlato di caso inaudito» si legge nel testo, in cui si giustifica il termine di «rendition straordinaria» - adoperato dagli Usa per indicare dopo l’11 settembre 2001 la cattura di sospetti terroristi - con il fatto che lo scorso 18 luglio un rapporto dell’Onu ha compiuto la medesima scelta. Il tentativo dei famigliari è così di ottenere una sentenza a Roma contro il Kazakhstan sufficientemente dura da spingere Astana a far ripartire in fretta Alma e Alua alla volta dell’Italia. L’avvocato francese, intanto, ha chiesto nuovamente la scarcerazione di Ablyazov. La questione sarà discussa domani dalle autorità transalpine.

Repubblica 25.9.13
La doppiezza della Merkel
di Barbara Spinelli


NON è semplice definire la fisionomia di Angela Merkel divenuta cancelliera per la terza volta. In patria ha trionfato grazie alla sua sembianza tranquilla, rassicurante, digiuna d’ogni ideologia: i tedeschi la chiamano Mutti, Mamma.
Senza remore assorbe idee socialdemocratiche, come Blair assorbì Margaret Thatcher. In Europa la fisionomia è tutt’altra: perentoria, rigida, matrigna più che materna. È come se avesse accanto a sé un sosia, un signor Hyde che di notte s’aggira nelle città europee e non strangola certo fanciulle ma piega le economie dei paesi troppo indebitati, che la sua morale castigatrice non tollera. Li piega fino a spezzarli: è successo in Grecia, peccatrice per eccellenza.
È una doppiezza con cui continueremo a fare i conti, anche perché i tedeschi desiderano proprio questo: l’isola immunizzata in un felice recinto, e fuori un disordine caotico che solo l’inflessibile mano di Berlino può disciplinare, per salvare l’euro o distruggerlo purché la Germania non finanzi eccessive solidarietà.
Ulrich Beck ha dato un nome a questa strategia che esalta l’insularità nazionale, che è del tutto priva di visione europea, e ha tramutato l’Unione in disunione: l’ha chiamata modello Merkiavelli. Il Principe deve scegliere: o farsi amare o farsi temere. La vincitrice delle elezioni si sdoppia: è amata in casa, e fuori incute paura. Se in questi anni ha eretto l’esitazione a norma, se un giorno apre all’unione federale e il giorno dopo s’avventa contro il rafforzamento del bilancio europeo, la mutualizzazione dei debiti, l’unione bancaria, è per meglio acquietare i propri elettori. «L’esitazione si fa strumento machiavellico di coercizione», anche se ogni volta lo sfascio dell’Europa è evitato in extremis, e ad alto prezzo.
Beck è convinto che alla lunga la strategia non reggerà. Verrà il momento di decisioni più ardite, e la Merkel oserà l’integrazione europea che non ha davvero tentato. Non più allarmata dal voto, aspirerà a una grandezza meno provinciale: vorrà entrare nei libri di storia come vi sono entrati Brandt, Schmidt, Kohl. Non sarà disturbata oltremisura dal nuovo partito anti-europeo (Alternativa per la Germania), che farà sentire il suo peso ma non è ancora in Parlamento. Desidererà esser ricordata per la sua qualità di guida che accomuna gli europei, invece di spaventarli, soggiogarli, separarli.
Questo carisma non l’ha mai posseduto. Non c’è una sua sola frase sull’Europa che sia memorabile, se escludiamo l’interiezione (Un passo dopo l’altro – Schritt für Schritt)che costella i discorsi. Lo stesso machiavellismo dovrebbe indurla a cambiar strada, a realizzare l’Europa politica che ogni tanto invoca. La Germania è diventata troppo potente – conclude Beck – per permettersi il lusso dell’indecisione, dell’inattività. Né lei né i socialdemocratici possono continuare a sonnecchiare sull’orlo del vulcano, come la bella addormentata descritta da Jürgen Habermas.
Per svegliarsi dal sonno non basta tuttavia liberarsi del machiavellismo: che è solo un metodo, utile a simulare l’assenza di ideologie. L’ideologia c’è, invece: la logica del recinto immunizzante presuppone la certezza di possedere una scienza infusa, un’ortodossia economica non confutabile, e di quest’ortodossia si nutre il neo-nazionalismo tedesco. Non è più l’aspirazione a un impero territoriale, ed è vero che Berlino non desidera restare sola al comando, come alcuni sostengono. È il nazionalismo di ricette economiche presentate come toccasana infallibili, e che può essere riassunto così: che ognuno «faccia i suoi compiti a casa» – dietro le rispettive palizzate, costi quel che costi – e solo dopo saranno possibili la cooperazione, la solidarietà, l’Europa politica di cui ci sarebbe subito bisogno. I risultati del nazional-liberalismo tedesco (il nome scientifico è ordoliberalismo) sono stati disastrosi. In Grecia, i salvataggi accoppiati a terapie recessive hanno aumentato il peso del debito pubblico sul prodotto nazionale (130% nel 2009; 175 oggi), con effetti tragici su crescita e disoccupazione (27% sul piano nazionale, 57% fra i giovani).
La cancelliera non vuole comandare, ma soverchiatore è il dogma secondo cui l’ordine mondiale regnerà a condizione che ogni Stato faccia prima ordine economico in casa. È predominio il rifiuto opposto agli eurobond, gli ostacoli frapposti all’unione bancaria perché Berlino mantenga il controllo politico sulle proprie banche, l’ostilità a un aumento delle risorse comunitarie che consenta quei piani europei di investimento che Jacques Delors propose invano fin dal ‘93-’94. È predominio quando la Banca centrale tedesca chiede di contare di più negli organi della Bce, e attacca Draghi perché s’è permesso contro il parere berlinese di soccorrere i paesi in difficoltà acquistando i loro titoli. Non meno prepotente è la Corte costituzionale di Karlsruhe, che paralizza l’Unione ogni volta che verifica la conformità dei piani europei di solidarietà alla Costituzione tedesca, senza mai inglobare gli imperativi dei trattati costituzionali della Comunità. Siamo abituati ad associare nazionalismo e autoritarismo. Ma il nazionalismo può anche indossare le vesti di una democrazia nazionale osservata con puntiglio: ma nell’isolamento, indifferente a quel che pensano e vivono le altre democrazie dell’Unione.
Se la Merkel ha vinto con questa ricetta è perché il neo-nazionalismo è diffuso nel paese. Una Grande Coalizione fra democristiani e socialdemocratici non cambierebbe nella sostanza le cose: la socialdemocrazia appoggia da anni le politiche europee del governo, pur denunciandone a parole i pericoli. Ha addirittura accusato la Merkel di spendere troppo. Proporsi un’Europa diversa è compito affidato alla cancelliera come ai suoi eventuali alleati di sinistra.
IlModello Germania fa ritorno, ma non è più l’alternativa al mercato senza briglie che Schmidt concepì nel ‘76. I tedeschi cercano rifugio nell’ortodossia nazional-liberista non perché felici, ma perché impauriti. Vogliono a ogni costo stabilità. E «nessun esperimento», come Adenauer promise dopo il ‘45. Non tutti i tedeschi in verità, perché c’è povertà anche in Germania e ben 7 milioni di precari lavorano per salari oscillanti fra 8 e 5 euro l’ora (meno dal salario minimo in Spagna). Ma i più si sentono confortati da un leader che non sembra chiedere granché ai concittadini, anche quando in realtà chiede. Bisogna che la crisi tocchi la pelle del paese, perché ci sia risveglio. La Merkel ne è stata capace, a seguito della catastrofe di Fukushima: meno di tre mesi dopo, il 6 giugno 2011, ha rinunciato all’energia atomica.
Molto potranno fare gli Stati dell’Unione, se smetteranno la subalternità che li distingue. Tra i subalterni ricordiamo l’Italia di Letta-Napolitano, che s’aspettava chissà quali miracoli dal voto tedesco; e che dopo il voto si autoincensa paragonando l’imparagonabile: Larghe Intese eGrosse Koalition, Berlusconi e Merkel, indecentemente assimilati.
Molto dipenderà infine dalle sinistre tedesche. Sulla carta esiste una maggioranza parlamentare, composta di socialdemocratici, verdi e sinistra radicale (Linke).Governare con laLinkeè giudicato irresponsabile dalla Spd, ed è tabù comprensibile: il partito ingloba gli ex comunisti della Germania Est. Ma questi anni potevano essere usati per costruire un dialogo civilizzatore della Linke,e prefigurare un’alternativa alla Merkel. Per tanti tedeschi il dialogo è destabilizzante. Ma la democrazia non si esaurisce tutta nella stabilità, nella continuità. Priva come la Merkel di forti visioni, la socialdemocrazia è rimasta intrappolata nello spirito dei tempi: «Non c’è alternativa alle cose come stanno». È un altro recinto da smantellare, se con la Germania crediamo non alle cose come stanno, ma alla possibilità di un’Europa diversa.

l’Unità 25.9.13
Era in sciopero della fame, Pussy Riot finisce in cella d’isolamento
di Roberto Arduini


Dicono sia per la sua sicurezza, ma sembra più una reazione alla lettera in cui una delle Pussy Riot in carcere, Nadezhda (Nadia) Tolokonnikova, denunciava le condizioni di vita disumane in cui lei e le altre detenute sono costrette a vivere. Il servizio penitenziario russo ha annunciato di averla trasferita in una cella d’isolamento, dopo che la ragazza ha avviato uno sciopero della fame per protesta. «Non è una cella di punizione», ha assicurato un portavoce del servizio penitenziario.
«È l’unica forma di protesta che mi rimane per non essere annientata», aveva scritto nella lettera pubblicata su Internet in cui descrive la vita disumana nella Colonia Correttiva numero 14 in Mordovia, a circa 400 km da Mosca. Tolokonnikova, 23 anni, madre di una bambina di 5, sta scontando una pena di due anni di carcere per aver cantato con la sua band una parodia liturgica di 40 secondi e una «preghiera punk» contro il presidente Vladimir Putin nella più grande cattedrale di Mosca. Il portavoce ha detto che la donna è ospitata in una «cella singola, in condizioni confortevoli, un’area di sette metri quadrati, con un letto, un frigorifero e un gabinetto». La sua legale Irina Khrunova ha confermato la notizia.
Lo sciopero della fame è per denunciare il fatto che le prigioniere sono costrette a cucire 17 ore al giorno e di aver ricevuto minacce di morte dal vicedirettore della colonia penale: «Lavoriamo dalle sette e mezza del mattino a mezzanotte e mezza – ha raccontato la giovane nella lettera – Non abbiamo più di quattro ore per dormire. Ci danno un giorno libero ogni sei settimane. Le mani sono piene di piaghe e buchi fatti dagli aghi; il tavolo è coperto di sangue, ma tu continui a cucire». Nella lettera, la ragazza ha descritto le condizioni di lavoro strazianti nella colonia penale, affermando che le le sue compagne di prigionia vengono trattate come schiave. Nadia finora non è stata percossa, perché è troppo famosa, ma alcune sue compagne hanno subito l’amputazione di una gamba o sono state pestate a morte. Morozov ha detto che le autorità hanno deciso di spostare Tolokonnikova per la sua sicurezza. «Non è una punizione, ma lo spostamento è dovuto alle presunte minacce ricevute» ha detto.
In Italia, i deputati Michele Anzaldi e Enzo Amendola (Pd) hanno annunciato un’interrogazione urgente.

l’Unità 25.9.13
Grecia, inchiesta sulla polizia: ha coperto Alba Dorata
di Teodoro Andreadis


Potrebbe essere la volta buona. L’assurda morte del trentaquattrenne rapper antifascista Pavlos Fyssas, accoltellato una settimana fa da un estremista di destra in un sobborgo del Pireo, potrebbe aver segnato un vero punto di svolta ed essersi trasformata nell’«l’inizio della fine» per Alba Dorata. L’attenzione di tutti i mezzi di informazione greci, negli ultimi giorni, è concentrata sulla formazione neonazista, sul suo ricorso sistematico alla violenza, sulle intimidazioni subite da immigrati, omosessuali, cittadini greci che hanno osato opporsi a questi estremisti.
È ormai chiaro che l’assassino, Jorgos Oupakias, il quarantacinquenne di Fyssas, ha agito per odio politico, che è stato chiamato tramite cellulare per uccidere il giovane rapper di sinistra e che frequentava sistematicamente gli uffici e tutte le iniziative di Alba Dorata.
Il ministro responsabile per l’ordine pubblico, Nikos Dendias, ha deciso di «dimissionare tre alti ufficiali della polizia greca, mentre altri dieci loro colleghi sono stati messi in aspettativa obbligatoria, in attesa che vengano chiarite eventuali responsabilità e connivenze della polizia con l’estremismo di destra. Il governo ha ordinato, infatti, un’indagine urgente sui presunti legami tra Alba dorata, la polizia e le forze armate. Il ministero dell’Ordine pubblico ha fatto sapere che i comandanti di dipartimenti di forze speciali, sicurezza interna, criminalità organizzata, armi da fuoco e materiali esplosivi e della divisione motorizzata di risposta rapida, sono stati spostati
verso altri incarichi mentre è in corso l'indagine. La decisione, ha fatto sapere il governo, è stata presa per «garantire un’assoluta oggettività» della polizia. Nel frattempo, il ministro degli Interni, Yorgos Michelakis, non esita a definire il partito neonazista «un’organizzazione criminale con caratteristiche proprie di una banda armata, di un’associazione a delinquere. Un’organizzazione militare». «Il nostro governo farà tutto il possibile per combattere questa formazione neonazista», promette Michelakis.
È come se la Grecia si fosse svegliata da un sonno profondo, con una presa di coscienza collettiva che impone di prendere atto e agire, perché non si assista più ad attacchi squadristi, a intimidazioni e assassinii che nulla hanno a che fare con una democrazia europea.
Secondo gli ultimi sondaggi, Alba Dorata dal 13% nelle intenzioni di voto, dopo l’assassinio di Pavlos Fyssas, è scesa a poco più del 5%. Il periodo della tolleranza e a volte della vera e propria connivenza pare essere davvero finito. Ora, ad esempio, si cerca di capire come sia possibile che nella città di Chalkida, nell’isola di Eubea, i poliziotti, venerdì scorso abbiano assistito a comportamenti chiaramente illegali senza intervenire.
«Tutte le forze politiche devono collaborare per riuscire a fermare questa minaccia, per mettere nell’angolo una formazione che rappresenta il male assoluto» ribadisce il leader del partito di sinistra riformista Dymar, Fotis Kouvèlis. Anche buona parte del centrodestra di Nuova Democrazia sembra aver compreso che fermare l’estremismo di destra è molto più urgente delle dinamiche della normale dialettica politica, è che era assolutamente errato, cercare di equiparare la sinistra eurocomunista di Syriza con i neofascisti di Chrysì Avghì ( Alba dorata) secondo una logica alquanto singolare dei «due punti estremi dello spazio politico greco».
Il fronte politico comune, le iniziative legislative ed il contrasto di Alba Dorata potrebbero essere il principale elemento di coesione delle forze democratiche greche, sino alle elezioni europee del prossimo giugno.

il Fatto 25.9.13
Grecia, “Alba dorata prepara il golpe”
Lo rivela un’informativa dei servizi segreti ellenici e israeliani: protezioni nelle forze armate
di Francesco De Palo


Atene Un manifesto di cieca fedeltà alla causa, commandos pronti all’azione in dieci minuti, depositi di armi individuati in tutto il Paese, due cambi (improvvisi) ai vertici delle forze di Polizia. La Grecia, che riceve oggi l’ennesima visita della troika, potrebbe rivivere l’incubo di un colpo di stato 47 anni dopo la notte del Politecnico. Questa volta al posto dei colonnelli Papadopoulos e Ioannidis i dirigenti del partito neonazista di Alba dorata che, secondo un’informativa dei servizi segreti ellenici e israeliani, sarebbero a un passo dal rovesciare la democrazia. I primi segnali di un forte attivismo militare si sono avuti già da alcune settimane, quando alcune fonti anonime avevano indicato i campi di addestramento del partito guidato da Nikolaos Mikalioliakos. In seguito è stata la volta di due pentiti che hanno raccontato ai quotidiani le strategie del movimento che alle scorse elezioni politiche ha ottenuto il 7% dei consensi, facendo ingresso in Parlamento per la prima volta dopo quarant’anni: percentuale che oggi sarebbe lievitata fino al 20% secondo sondaggi che sono stati tenuti secretati, ma che negli ultimi giorni sono stati pubblicati.
LA POLITICA ha fatto scattare i primi provvedimenti, con un vertice notturno due sere fa tra il ministro della difesa Avramopulos e quello degli interni Dendias, che ha causato un terremoto ai vertici della Polizia, sospettati di collusione con Alba dorata: sono saltate due teste che contano nello scacchiere della sicurezza nazionale, ovvero i due vice capi della Polizia, rispettivamente con delega al centro e al sud del Paese, dimissionati in poche ore. Secondo i servizi sarebbero riconducibili a quell’ombrello di protezione nelle forze armate che il partito ha e che avrebbe potuto rappresentare il braccio armato in un’eventuale sollevazione. In serata ad Agrinio è stato arrestato un poliziotto, ex autista del deputato di Chrisì Avghì Ilias Barbarousis: nella sede del partito aveva asce, catene e manganelli. Era stato sospeso dal corpo di Polizia lo scorso anno perché aveva preso parte alle ronde contro gli immigrati. La situazione sembra essere precipitata nel giro di poche settimane, prima con scontri contro i manifestanti di sinistra, fino all’assurda morte del rapper 34enne Fyssas, accoltellato da un simpatizzante di Alba dorata. Da quel giorno l’aria per le strade di Atene si è fatta pesante, come a far tornare le lancette dell’orologio alla notte fra il 20 e il 21 aprile 1967, quando il reggimento di paracadutisti del maggiore Gheorghios Konstantopoulos occupò il ministero della Difesa. Ad aggiungere tensione anche l’articolo scritto da Ourania, figlia di Mikalioliakos, leader di Alba dorata, che sul sito del partito ha vergato una sorta di chiamata alle armi: “Chiedete a voi stessi quanto siete disposti a sacrificare e quanto avreste da perdere. Chiedetevi fin dove siete disposti ad andare. Sì, pochi sanno cosa voglio dire. Chiedetevi se si può perdere tutto, ma proprio tutto, per un’idea, la nostra idea. Basta chiedere a se stessi. Si può essere uno di noi, si può vivere solo per un’idea? Posso? Possiamo?”.

La Stampa 25.9.13
Continua la politica di acquisizioni di terre agricole nei Paesi stranieri
Pechino compra il 5% dell’Ucraina
Mega operazione Tre milioni di ettari produrranno cibo per i consumi cinesi
I terreni sono pari all’estensione di piccoli Stati come il Belgio l’Armenia o il Massachusetts
di Ilaria Maria Sala


Un pezzo di Ucraina parlerà cinese. Dopo aver fatto incetta di terreni agricoli in Africa soprattutto in Madagascar – Pechino punta i radar verso l’Europa orientale. E acquisisce - anche se non è chiaro con quale modalità, se affitto o una vera e propria compera il 5% del territorio, pari a 3 milioni di ettari, del vecchio «Granaio d’Europa».
Una strategia di lungo termine dettata dalla necessità di un Paese dove la popolazione è in aumento, le zone urbane si allargano e diminuiscono le aree coltivabili per colpa di inquinamento ed espansione industriale e immobiliare. Così a Pechino si sono evidentemente chiesti: dove troveremo la terra arabile e le risorse idriche per nutrire, dissetare e vestire più di 1,3 miliardi di persone? Già ora la Cina è particolarmente preoccupata per la sua dipendenza dall’estero per la soia, il cotone, l’olio di palma, i latticini, le pelli e la lana, e per le riserve d’acqua potabile.
I cinesi già possono contare su importanti appezzamenti in Africa e in Sud America, in Asia Centrale, e in particolare nel Corno d’Africa e in Brasile. Ora si aggiunge il fronte europeo. Secondo l’International Institute for Sustainable Development (Iisd), la Cina è impegnata in 54 progetti agricoli oltreconfine per un totale di 4,8 milioni di ettari di terra che garantiscono investimenti agricoli per l’esportazione esclusiva alla Cina. A questi, dice l’Iisd, devono aggiungersi numerosi progetti attualmente in corso di finalizzazione, in particolare in Kazakhstan e appunto in Ucraina. Le informazioni sull’acquisto da parte cinese del 5% del territorio ucraino sono rimbalzate su vari quotidiani diventando in breve un vero e proprio caso politico e costringendo in serata le autorità a ridimensionare, spiegare, dettagliare meglio il senso dell’operazione. Così la versione accreditata ora da Kiev è che la Cina sta conducendo dei negoziati e puntando a investimenti nel settore idrico e agricolo con l’Ucraina. Più che di acquisto di terreno si parla di «noleggio» per decine di anni. Il senso però dell'espansionismo cinese non cambia.
A guidare le trattative sono Xinjiang Production and Construction Corps, un corpo paramilitare cui Pechino ha fatto ricorso per «normalizzare» la situazione nella provincia occidentale dello Xinjiang, e l’ucraina Ksg Agro.

Corriere 25.9.13
Svezia, schedati 4 mila rom. Il governo critica la polizia
di Maria Serena Natale


Una lista segreta con nomi, indirizzi, gradi di parentela; gli uomini segnati in blu, le donne in rosso; molti bambini. L’albero genealogico che turba la pace sociale svedese riporta le generalità di oltre quattromila rom, rievoca schedature e pratiche persecutorie del passato.
Il documento compilato dalla polizia di Skane, nel Sud della Svezia, è stato scovato dal quotidiano Dagens Nyheter , che ieri ha rivelato l’esistenza di una seconda lista con i nomi di 997 persone, compresi bimbi di due anni. Dopo le prime smentite, i vertici delle forze dell’ordine hanno ammesso l’esistenza dei file e avviato un’indagine. Secondo la testimonianza di un agente in pensione protetto dall’anonimato la lista sarebbe stata realizzata otto anni fa in occasione di un’ondata di reati attribuiti alla comunità rom dell’area. L’autorità per la tutela dei diritti del cittadino ha annunciato un’inchiesta per appurare se le persone schedate abbiano subito penalizzazioni o discriminazioni solo perché legate da rapporti familiari a sospetti criminali. «Tutto questo ci spaventa — dichiara il portavoce dell’Associazione giovanile rom Erland Kaldaras —. Dobbiamo riprendere i metodi usati in Germania quando l’obiettivo era sterminare rom ed ebrei?».
Pur essendo in gran parte sedentarizzati, i cittadini rom sono stati classificati come «itineranti», termine non previsto dalle leggi svedesi. «Pericoloso, immorale, inaccettabile e illegale», ha commentato la ministra agli Affari europei Birgitta Ohlsson. Le schedature su base etnica, palese violazione della Convenzione europea sui diritti umani, hanno sollevato un’ondata di indignazione nel Paese punto di riferimento per la tutela dell’eguaglianza e dei principi dello Stato di diritto, a pochi mesi dalle inedite esplosioni di violenza nelle periferie di Stoccolma che hanno messo in discussione il modello nazionale d’integrazione e dato nuovo slancio alla destra populista anti-immigrazione. I rom rappresentano la più ampia minoranza etnica d’Europa, in Svezia sono circa 50 mila. La loro integrazione nel tessuto sociale è un nervo scoperto in molti Paesi, Václav Havel la definì «prova del nove per una società civile». «Esistono liste simili in altri Paesi?» chiede ora l’austriaco Hannes Svoboda, presidente del gruppo dei socialisti e democratici all’Europarlamento. Senza risposta resta la domanda di Sandra Hakansson, cittadina rom svedese, schedata con tutta la famiglia. «Perché i miei figli sono su quella lista?».

l’Unità 25.9.13
Le incertezze del nostro Paese al Festival del diritto
Lo Stato moderno? Rischia di morire
A proposito di democrazia: intervista al filosofo del diritto Luigi Ferrajoli
L’incontro venerdì a Piacenza: «L’impotenza della politica verso l’economia spiega è dovuta al carattere globale dei poteri finanziari e al carattere locale dei partiti. Intanto c’è stato un rifiuto della Costituzione»
di Jolanda Bufalini


LA DRAMMATICA CRISI SOCIALE, SOSTIENE LUIGI FERRAJOLI, CONSIDERATO NEL MONDO FRA I PIÙ IMPORTANTI FILOSOFI DEL DIRITTO, mette a rischio la democrazia e lo stesso Stato moderno, nato, diversamente da quello «patrimoniale» dell’Ancièn Regime, per rappresentare la sfera pubblica. Sarà questo il tema dell’intervento del giurista, venerdì prossimo, al Festival del diritto di Piacenza.
Lei usa, in un saggio in uscita su «Democrazia e diritto», un’espressione molto efficace: impotenza della politica verso l’economia, onnipotenza verso le persone, a danno dei loro diritti. Come si è prodotta questa situazione?
«L’impotenza è dovuta a una molteplicità di fattori, c’è l’asimmetria fra il carattere globale dei poteri economici e finanziari, e il carattere locale della politica, che risponde alle logiche delle elezioni, dei sondaggi dentro i confini territoriali». Ma c’è anche, lei dice, un fattore culturale.
«C’è la potenza dell’ideologia che concepisce il mercato come luogo della libertà e, addirittura, considera le leggi di mercato come leggi naturali, il lavoro dell’ economista pari a quello di un fisico. Un’ ideologia alla quale la stessa sinistra è risultata subalterna, persino la sinistra di origine marxista per la quale, una volta, si doveva abbattere il capitalismo. Ora che si è stabilita l’impossibilità di abbattere o di trasformare, la sinistra è rimasta ancorata all’idea del primato dell’economia immutabile, non aggredibile dalla politica. Poi ci sono i conflitti di interesse, la corruzione, gli andirivieni dei manager fra grandi imprese e incarichi politici».
L’altra faccia della medaglia è l’onnipotenza nei confronti dei cittadini.
«L’impotenza nei confronti dei mercati finanziari ha portato a un capovolgimento delle nostre Costituzioni, a una intolleranza, al rifiuto dei vincoli costituzionali, per i quali la politica è sovraordinata all’economia. Pensi agli articoli 41-43 della Costituzione italiana, dove è indicato il fine sociale dell’economia, dove si prevede la possibilità dell’esproprio. Le politiche europee ma anche Clinton hanno liberalizzato la circolazione dei capitali ma impedito agli stati di aiutare le imprese, di salvaguardare posti di lavoro. L’idea della Thatcher, “se non siete capaci affogate” ha portato proprio a questo, sono affogate le attività produttive inglesi, restano in piedi solo quelle finanziarie. I mercati finanziari dettano politiche antisociali imponendo che si ignorino i vincoli costituzionali in materia di salute, e di lavoro. E in Italia si vuole addirittura cambiare la Costituzione, rafforzando l’esecutivo. Dunque c’è un nesso, non una volontà di violare la Costituzione, ma un nesso fra la subalternità al liberismo economico e la violazione dei vincoli dettati dalla costituzioni degli stati moderni».
Parla al plurale perché l’attacco non è solo alla Costituzione italiana ma alle costituzioni dei paesi europei?
«Parlerei di costituzionalismo più che di costituzione, perché la Costituzione altro non è che lo statuto, la ragione sociale dello Stato italiano, se la ragione sociale di una impresa privata è il profitto, quella dello Stato è l’interesse pubblico. Deriva da Hobbes: per Hobbes lo Stato era a garanzia della vita, poi si sono aggiunte altre finalità, come la salute, l’istruzione, il lavoro. E, con la Costituzione, questi principi sono diventati norme vincolanti, ma non c’è un sistema di garanzie efficaci, né c’è la possibilità di intervenire sulle inadempienze. L’articolo 38 della Costituzione italiana prevede mezzi di sussistenza per la disoccupazione involontaria, ma non c’è una legge di cittadinanza. Non c’è, in Italia, una legge sulla tortura (art.13), e non c’è sull’asilo ai rifugiati, perché si tratta di soggetti deboli: i precari senza lavoro non hanno forza contrattuale mentre l’effettività dei diritti si impone con le lotte sociali».
Lei è critico verso le politiche europee ma, mi pare, chiede più Europa?
«Abbiamo unificato la moneta ma, in mancanza di un governo politico dell’economia europea, subiamo le decisioni di organi sovranazionali che non ci rappresentano. Il risultato è che gli stati non controllano la propria moneta, a vantaggio degli stati più forti come la Germania. Però anche la Germania, sul lungo periodo, finirà per essere danneggiata. Ciò che è più grave è il venir meno della percezione, in Grecia, in Italia, in Spagna, dell’Europa come progresso e quindi il crollo dello spirito unitario dell’europeismo. A mio avviso questo è l’aspetto più irresponsabile, la Grecia si poteva salvare con pochi milioni di euro, del passo indietro che si è compiuto nella politica economica in nome di una supposta eguaglianza delle condizioni di mercato».
Fra i nessi che lei stabilisce c’è quello del discredito della politica.
«Il discredito è dovuto al carattere parassitario della politica, dal momento che la politica non ha la capacità di governo si trasforma in tecnocrazia, non per caso abbiamo avuto il governo Monti. In Italia c’è mezzo milione di persone che vive di politica ma non svolge la propria funzione, è chiaro che, in queste condizioni, si crea una casta.
Poi ci sono le particolarità italiane, Berlusconi, la corruzione, l’abbassamento della qualità della rappresentanza dovuto alla legge elettorale». Definisce l’Italia un caso clinico?
«Il caso clinico più radicale, se si considera che, fra quelli che hanno votato, due terzi si sono espressi in favore di partiti padronali».
Un partito padronale è noto, quello di Berlusconi. L’altro?
«È Grillo. È avvilente vedere 150 parlamentari che hanno paura di dissentire. E i due partiti padronali o non praticano o sono contro il divieto del vincolo di mandato. Ma tale divieto non è una invenzione della casta, è l’essenza stessa della democrazia rappresentativa. Senza, il parlamentare non rappresenta la nazione ma un padrone, un interesse particolare, un partito».
Cosa pensa del finanziamento pubblico?
«Sono decisamente controcorrente, penso che dovrebbe essere proibito non il finanziamento pubblico ma quello privato che non sia quello degli iscritti e commisurato agli stipendi. Vietato il finanziamento delle persone giuridiche, se vogliamo che il nostro voto vada ai partiti e non ai loro finanziatori. Finanziamento che dovrebbe essere subordinato a uno statuto democratico».
Lei resta convinto della funzione democratica dei partiti?
«I partiti sono essenziali ma o si rifondano o finiscono. Pensi al partito di Berlusconi, tutto schierato attorno ai problemi del capo, le accuse di tradimento contro chi esprime dei dubbi. Cito sempre una lucidissima definizione di Aristotele: “la demagogia scrive Aristotele è la forma di governo in cui sovrani sono molti non considerati, però come nella democrazia come singoli che votano e dissentono con l’inevitabile pluralismo che ne consegue, bensì nella loro totalità”».

Le incertezze del nostro Paese al Festival del diritto

Ritorna a Piacenza dal 26 al 29 settembre la VI edizione del Festival del Diritto, progettato dagli editori Laterza, sotto la direzione scientifica di Stefano Rodotà. Tema «Le incertezze della democrazia». L’inaugurazione sarà affidata a Gustavo Zagrebelsky, giovedì 26 alle ore 18.00, introdurrà il tema portante del Festival: «Democrazia, scena o messinscena?». Nella prima giornata anche l’intervento di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose.
Venerdì 27 Stefano Rodotà introdurrà il tema dei diritti fondamentali a partire da salute, istruzione e lavoro; di politica in rete si parlerà con Vittorio Bertola, Fiorella De Cindio, Giovanna De Minico e Gad Lerner; Stefano Zamagni e Luigi Ferrajoli interverranno su mercato e democrazia. Un confronto sui diritti europei sarà al centro dell’incontro con Emilio De Capitani, Juan Fernando Lòpez Aguilar e Stefano Rodotà, al centro del dialogo tra Massimo Luciani e Salvatore Veca «le
sfide globali e le democrazie nazionali». Antonio Spadaro ci condurrà alla scoperta delle intersezioni tra riflessione teologica digitale e nuove forme di democrazia; Ilvo Diamanti parlerà dello «stato di salute della democrazia italiana», Gino Strada sul «diritto alla pace». Sabato 28: Remo Bodei, Nadia Urbinati, Mario Dogliani, Carlo Galli, Sergio Romano, Laura Boldrini . Domenica: Gaetano Quagliarello, Mariuccia Salvati, Luigi Ferrarella. La chiusura sarà affidata a Luciano Canfora.

l’Unità 25.9.13
Occhetto: il pioniere, la carovana e il Pd
di Bruno Gravagnuolo


LA SVOLTA DELLA BOLOGNINA FU GIUSTA. MA INFICIATA DI STORTURE. E l’occasione per tornarci è l’ultimo libro di Achille Occhetto: La gioiosa macchina da guerra. Veleni, sogni e speranze della sinistra (Ed. Int. Riun. pp. 319, Euro 16). Zibaldone autobiografico tra passato e presente, con al centro 1989 e dintorni, inclusa la sconfitta della «gioiosa macchina da guerra». Slogan ironico dice Occhetto che alludeva una «armata Brancaleone», e non a una invincibile armata.
Colpisce intanto la riabilitazione «postuma» della Bolognina da parte del prefatore Michele Serra, all’epoca malpancista e ad essa avverso. Oggi Serra torna sui suoi passi, acriticamente però. E scioglie un peana pieno di gratitudine ai «nuovi inizi» che furono spezzati (da burocrati, continuisti, gattopardi, etc...). Serra insomma oggi è «nuovista», «movimentista», tutto cittadini e società civile. Come l’Occhetto di ieri (oggi lo è molto meno...) e tanti odiati ex miglioristi, ormai riconvertiti. Ma il nodo, che il libro pur pregevole non scioglie, è questo: come mai la Bolognina (necessaria) salvò il salvabile ma non produsse né partito, né blocco sociale, né vittorie durature? Anzi fu seguita dalla vittoria di Berlusconi del 1994? È qui che s’affanna l’autore della «svolta». Sabotaggio del «nuovo inizio» egli dice e poi nessuno capì davvero l’ascesa della destra in quel 1994. Non ci pare. In realtà il Pds restò librato in aria: né comunista, né socialdemocratico. Per volontà di Occhetto stesso. Fu il «partito-movimento che non c’è». Alternativista, trasversale. Ma senza baricentro identitario nell’unico solco possibile che aveva avanti a sè: un nuovo socialismo di sinistra. C’era Craxi? Fu un alibi per rifiutare la socialdemocrazia. Quanto al 1994, il Pds non agganciò il centro (Ppi o Segni) e col maggioritario i giochi si chiusero a favore del Cav. Oggi c’è il Pd. Ma è poi così lontano il Pd dalla «carovana» variopinta che Occhetto immaginò e che oggi maledice?

Corriere 25.9.13
Il tempo che non finisce
di Armando Torno


Henri Corbin è stato il primo traduttore di Heidegger in francese. In Tempo ciclico e gnosi ismailita (a cura di Roberto Revello, ed. Mimesis, pp. 258, 20) si interroga sull'enigmatico flusso che tormenta religioni e filosofie, su colui che stringe le esistenze: il tempo, appunto. Le sue idee sono però distanti dalla tradizione razionale dell'Occidente, da quell'idea rettilinea, incessante, dove si accalcano progressi e avanzamenti; Corbin si occupa non della durata miserevole registrata dai calendari ma di quella presente nella dimensioni della liturgica, dei simboli, dei riti. C'è insomma un tempo che non ha paura del tempo: è quello che sa di ritornare. In questo prezioso saggio, finalmente tradotto, egli esamina il tempo ciclico del mazdeismo, poi si concentra sul medesimo in ambito ismailita. E qui entra in gioco la gnosi: Corbin dedica una parte al passaggio da quella antica all'ismailita. Già, gli ismailiti. In Occidente sono noti per la leggenda degli Assassini, si tratta tuttavia di un movimento mistico islamico ricco di concezioni metafisiche.

Corriere 25.9.13
La sosta per la mente che ci manca
Serve un giorno dedicato all'Uomo, un tempo per guardare «oltre»
di Vittorino Andreoli


Nella Roma antica si celebrava il dies solis il «giorno del Sole» in onore della stella che dà la vita e che rappresenta certamente la prima divinità della antropologia, della storia dell'umanità. Al Sole Roma ha dedicato anche il riposo settimanale su decisione di Costantino presa nel 321. Quando il Cristianesimo diventa religione di Stato questi significati passano al dies dominicus «il giorno del Signore». Lo proclama ufficialmente Teodosio I nel 383.
La domenica, come festività settimanale dedicata al Signore, è diventata da allora il riferimento per l'Occidente, anche se alcune lingue mantengono la vecchia espressione: per l'inglese la domenica è il Sun-day, per il tedesco il Sonn-tag.
Dopo dunque più di 17 secoli viene spontaneo chiedersi se abbia ancora senso il giorno del riposo, sia pure dedicato a Dio, quando la società è mutata radicalmente e i bisogni dell'uomo hanno subito una vera metamorfosi. Basterebbe notare che il tempo presente pone drammaticamente il bisogno di lavoro per interrompere una inattività forzata dalla disoccupazione, basterebbe ancora guardare alla diffusione del jogging, delle marce, delle ginnastiche che tendono a rispondere alla preoccupazione di muovere il corpo che tende a rimanere immobile, fissato davanti agli strumenti digitali e alla televisione. La nostra è una società sedentaria e per la tecnologia, la muscolatura, su cui si fondava la forza, ha acquisito un significato soltanto per la bellezza.
Ebbene, io credo che la domenica come tempo del riposo sia fondamentale oggi non per il corpo ma per la mente, che è la vera forza del tempo presente. E a preoccupare è la immobilità della mente, la stanchezza del pensiero, la rinuncia persino a porlo come controllore delle pulsioni. La nostra società è dominata da un empirismo estremo, da un agire che porta a scegliere senza una valutazione critica, come se anche le scelte dovessero tenere conto dell'immediato, del hic et nunc, come se il tempo che passa fosse il protagonista della nostra «fortuna» e lo si dovesse «prendere al volo».
Serve un tempo per meditare, non solo sulle scelte del quotidiano, ma sul significato stesso dell'agire e del nostro essere nel mondo. La nostra società ha perso la dimensione della introspezione, del guardarci dentro, del rapporto con la fragilità umana, con i limiti che sono parte del nostro stesso essere nel mondo: le malattie, la morte. Ungaretti in un bellissimo verso descriveva l'uomo «attaccato nel vuoto al suo filo di ragno».
In un'epoca poi in cui domina il potere dell'uomo sull'uomo, dell'homo homini lupus; in cui il denaro sembra aver preso il posto dell'ossigeno di cui abbiamo bisogno per respirare, è tempo di dedicare un giorno al senso dell'uomo e della società in cui viviamo, e certo dall'uomo e dai suoi limiti si arriva anche al Dominus, al Signore, qualsiasi sia il significato che gli si può dare. Senza la meditatio mortis si rischia di sentirsi immortali, come se il dio avesse il volto umano e di quell'uomo. Ecco, serve un giorno per pensare, magari insieme ad altri, un pensiero comunitario, e serve un tempo per guardare anche al cielo: Schiller ne «L'Inno alla gioia» diceva di cercare nel cielo perché da qualche parte si trova Dio.
Albert Einstein poi scriveva «la nostra mente limitata è in grado di intuire che una misteriosa forza muove le costellazioni... Le leggi della natura manifestano l'esistenza di uno spirito immensamente superiore a quello dell'uomo e di fronte al quale noi con le nostre modeste facoltà dobbiamo essere umili» (vedi in Vittorino Andreoli, Il Gesù di tutti. Piemme, 2013 pag.534).
E di fronte a questi pensieri «domenicali» viene persino voglia di pregare il Dio che c'è e che forse non c'è. Si percepisce il bisogno di inginocchiarsi per far si che l'uomo non divenga un mostro.
La domenica come giorno dell'Uomo e al contempo di Dio, poiché meditando sull'uomo ci si accorge di immaginare un non-Uomo, Dio. Ed è curioso che nei Vangeli Gesù si definisca ora Figlio dell'Uomo ora Figlio di Dio (ibidem, pag.332).
Augurando un «buon riposo» non penso al sonno ma ad una veglia in cui la mente penetri il mistero di quel frammento di universo che ha i colori dell'umano.

La Stampa TuttoScienze 25.9.13
Astuzia e un po’ di follia. Così la Terra fu dei Sapiens
di Gabriele Beccaria


I cervelli sono svaniti da tempo, eppure hanno lasciato i segni delle loro primordiali scintille. E adesso c’è un modo per trovarle e decifrarle. Provando a capire, finalmente, perché siamo diventati così intelligenti, di sicuro un po’ di più dei nostri diretti concorrenti, gli ominidi che conosciamo con i nomignoli di Neanderthal e Denisova. Quel «di più» sufficiente per il nostro trionfo e per la loro brusca estinzione, all’incirca 30 mila anni fa, quando si decise il destino dell’umanità.
Di sicuro non è stata solo una questione di geni (presenti o assenti), ma di quali si sono attivati e di quali, invece, si sono silenziati (o non si sono mai accesi). Per il 99%, infatti, noi e loro eravamo uguali. A fare la differenza è stato il gioco degli interruttori. In pratica, ciò che è scattato e ciò che è rimasto bloccato. Zoomando in 700 regioni del Dna, si è scoperto che «noi» abbiamo elaborato un modo diverso da «loro» di far funzionare un’intera serie di geni. In particolare alcuni legati al sistema immunitario e altri al metabolismo e altri ancora associati a una serie di disordini psicologici e neurologici. Un insieme di interazioni a doppia faccia che ha contribuito a plasmare le nostre capacità di comunicazione e di socializzazione e che allo stesso tempo ci ha resi più vulnerabili a diverse sindromi psicologiche e neurologiche (compreso l’autismo). Boom dell’intelligenza e rischio follia, così, si sono intrecciati, rendendoci decisamente originali, strani, e di sicuro così imprevedibili e creativi da vincere la lotteria dell’evoluzione.
In gergo scientifico questo grandioso fuoco d’artificio di «on-off» è la metilazione, vale a dire l’insieme delle etichette biochimiche che parlano solo a chi sa interrogarle con le tecnologie adeguate e che svelano le autentiche prestazioni dei geni. Nel caso della nostra specie la metilazione ha modellato i neuroni in modo diverso, addestrandoli a connettersi con logiche più complesse di quelle dei Neanderthal e dei Denisova e spalancando la strada a un tipo di cervello decisamente più sofisticato. Simile nel look, ma originale nella sostanza, perché iper-connesso e quindi super-potente.
E’ con questo tipo di esplorazione che si sta cominciando a definire una nuova mappa della materia grigia. E’ stata presentata in anteprima a Chicago, al meeting della Società americana di biologia molecolare, da un gruppo internazionale che riunisce ricercatori della Hebrew University di Gerusalemme e del Max Planck Institute di Monaco. Ed è stata ri-raccontata la settimana scorsa a Vienna, alla conferenza della «European society for the study of human evolution». È stata un’occasione emozionante per capire come si sta rivoluzionando lo sguardo sul passato remoto dei Sapiens e sui loro concorrenti. Se è ormai lontana l’epoca della supremazia dei fossili e se di recente si era balzati sui geni e sulle loro sequenze, adesso si arriva al nocciolo di tutto, addentrandosi nelle loro prestazioni.
La fissità del Genoma lascia il posto all’epigenoma, l’insieme dinamico delle relazioni che il Genoma stesso genera non solo con il resto dell’organismo ma con l’ambiente. E’ come se a un pasticcio di fotogrammi sconnessi si sovrapponessero le scene di un kolossal storico. In poche parole si materializza un racconto mai visto su come siamo diventati la specie dominante - e invasiva - di ominidi, l’unica a sopravvivere sul Pianeta Terra. E il team di studiosi visionari - Liran Carmel, David Gokham e Svante Paabo, bollati dai colleghi come i «signori della paloegenetica» - sta già pensando ai prossimi episodi. Per tutti loro la ricostruzione dell’avventura segreta dei Sapiens è appena all’inizio. Riportato in vita il primo capitolo, molte altre sorprese ci aspettano.

Corriere 25.9.13
Come classificare Che Guevara nella storia del Novecento
risponde Sergio Romano


È da anni che leggo la rubrica dei lettori del Corriere della Sera. Vengono richiamate figure di dubbia moralità come Bastianini e quel traditore di Milovan Djilas che aveva abbandonato la classe operaia e non per sfuggire a una classe politica corrotta ma per opportunismo. Mai che compaia una figura positiva. Penso a Ernesto Guevara. Già avevo avuto una delusione andando a vedere il film «Che» dove il protagonista era interpretato da Omar Sharif mentre Jack Palance recitava nella parte di Fidel Castro mettendolo in ridicolo. Per fortuna è uscito un libro intitolato «Compañero» di Jorge G. Castañeda che mette nella giusta luce l'eroe e poi non mancano le manifestazioni in cui i ragazzi indossano magliette in cui sul davanti è effigiata la faccia barbuta del Che. Ma se uno aspettasse qualcosa di meglio da un giornale borghese e reazionario come il Corriere della Sera non si andrebbe lontano!
Filippo Ferreti

Caro Ferreti,
Non sono mai riuscito a dividere il mondo della storia in buoni e cattivi. Non saprei criticare Tito senza riconoscergli il merito di avere guidato la lotta contro le forze tedesche e italiane durante la Seconda guerra mondiale e di avere coraggiosamente sfidato l'imperialismo sovietico dopo la fine del conflitto. Non saprei parlare male di Stalin senza aggiungere che costruì un grande Stato, incarnò il sentimento nazionale, trascinò il Paese alla vittoria contro la Germania nazista. Non saprei denunciare le colpe e gli errori del fascismo senza ricordare che molte delle sue istituzioni sono state ereditate e conservate dall'Italia democratica. Non saprei descrivere la tirannia di Fidel Castro senza aggiungere che ha liberato la sua isola dalla sudditanza americana. Non saprei evocare il Nixon del Watergate senza ricordare che il suo viaggio a Pechino, nel febbraio del 1972, aveva schiuso nuove prospettive di dialogo internazionale. Di Bastianini mi piacciono la sobrietà di cui dette prova durante qualche difficile passaggio della storia italiana e il tentativo di strappare gli ebrei di Salonicco alla loro tragica sorte. Di Milovan Djilas mi piacciono la lucidità con cui denunciò le storture del regime e la fierezza con cui sopportò gli anni di prigione.
Mi è molto più difficile, caro Ferreti, trovare qualcosa di veramente e durevolmente positivo nella vita politica di Che Guevara. Era coraggioso, ma incostante, politicamente instabile, soggetto a crisi umorali, capace di azioni inutilmente crudeli. Il suo tentativo di provocare una grande rivolta contadina nell'intero continente latino-americano fu un clamoroso esempio di ignoranza politica. La sua avventura boliviana fu una iniziativa donchisciottesca. Il suo volto domina ancora la Piazza della Rivoluzione, nel centro dell'Avana, e può dare la sensazione che il Che sia sempre il nume tutelare del regime. Ma Castro fu felice di sbarazzarsi di un compagno ingombrante e imprevedibile. Il suo volto sulle magliette è soltanto folclore rivoluzionario e il suo mito in alcuni ambienti giovanili mi sembra una infatuazione politicamente diseducativa.

Repubblica 25.9.13
In una lettera degli anni ’60 lo studioso rivendica un pensiero che sia “senza piedistallo”
Bobbio inedito
“Non credo più nelle filosofie speculative”
di Norberto Bobbio


Caro Paci, ti ringrazio anzitutto di avermi inviato il numero diPaese sera con la tua risposta a Valentini. Avevo ricevuto a suo tempo anche il numero diAut Aut: ma non m’ero accorto che me l’avessi inviato tu (tra l’altro perché sono abbonato e lo ricevo regolarmente; ma di quel numero, è vero, ne ho due copie).
Non posso dirti nulla di preciso pro o contro la fenomenologia perché non ne so più nulla. Per me è stata un’esperienza giovanile, molto approssimativa, a fior di pelle, e mi è molto difficile tornarci su. Fa parte di tutte le cose naufragate dei primi anni di studio: naufragate perché dovevano naufragare, perché non potevano stare a galla. Ora sono in fondo al mare, e stanno bene dove sono. Al solo pensare di mettermi a leggere una pagina scritta in quegli anni, mi vengono i brividi.
Come ti dicevo, oggi non sono né pro né contro la fenomenologia. Se dovessi riassumere il mio atteggiamento fondamentale di fronte alla fenomenologia, lo farei in questo modo: non ne sento il bisogno. Quel che cerco, ho l’impressione di non poterlo trovare nella fenomenologia, di trovarlo sempre meno in una filosofia come la fenomenologia. Per questo rinvio di anno in anno la lettura di quei grossi libri del
Nachlass di Husserl, che compro regolarmente, e al momento di mettermici, mi accorgo di aver sempre qualcosa più importante più urgente da fare, e li metto da parte per la prossima occasione. Non ne sento il bisogno perché il processo della mia formazione e quello di gran parte di coloro che appartengono alla mia generazione è stato un processo di liberazione dalle filosofie speculative, voglio dire da quelle filosofie che a un certo punto spiccano il salto, montano sul piedistallo, e considerano le cose da un punto di vista che pretende di essere speciale ed esclusivo, l’unico in grado di toccare la realtà, ecc… La fenomenologia, mi domando, sfugge a questa pretesa? Non è stata forse in un certo senso la sublimazione di questa pretesa? Non mi sento molto tranquillo su questo punto. Il mondo delle essenze finalmente a portata di mano. Basta una operazione di sospensione e di riduzione, e la conoscenza diventa pura da impura, essenziale da empirica, ecc… Non sono questi i caratteri salienti della ispirazione husserliana?
La via attraverso il marxismo, il pragmatismo, il neoempirismo, e sì anche un certo esistenzialismo, è stata una discesa dall’alto in basso, un modo di toccar terra. Una volta toccata la terra, ci siamo accorti che c’erano tante cose da capire e da studiare, anche solo in un quadratino di esperienza, che bisognava di aver fretta e non pretendere di capir tutto e di capirlo in modo essenziale.
Mi sono convinto, lavorando al minuto, che per comprendere il mondo che ci circonda, bastano le categorie elaborate dalle singole scienze. L’opera dei filosofi è un’opera di confronto, di aggiustamento, di messa a fuoco. Non è una nuova prospettiva e meno ancora un metodo nuovo e diverso; se mai la formulazione di qualche nuova ipotesi che dovrà essere verificata. In questo senso mi pareva che fossimo qui in Italia sulla buona strada. Arriva la fenomenologia e con la sua pretesa di essere un metodo nuovo, una prospettiva nuova, mette tutto a soqquadro, ripone con la testa in giù la filosofia, che era riuscita a mettersi finalmente in piedi, e invita un’altra volta i giovani che stavano diventando sobri alle orge filosofiche; a tirar di nuovo fuori ogni cosa, come ai tempi di Gentile, dal soggetto.
Tu mi dirai che non si tratta più del soggetto trascendentale, ma del soggetto in carne ed ossa; ma temo che in pratica i risultati saranno gli stessi. Comunque, staremo a vedere. Come vedi, l’impressione che mi fa oggi la fenomenologia è di essere un po’ una guastafeste, un tronco che si è messo per traverso e impedisce alla corrente di seguire il suo corso.
Aggiungo che quel che dici nella intervista con Valentini non è fatto per tranquillizzarmi del tutto. Tu parli della fenomenologia addirittura come di una scienza nuova, che è ogni cosa e qualcosa di più: è razionalismo, storicismo, nuova antropologia. Tutto, insomma. Anzitutto, ne abbiamo viste troppe in questi anni per crederci. In secondo luogo, così facendo tu non utilizzi la filosofia di Husserl: l’assumi. Non te ne servi: la codifichi e l’applichi a tutti i problemi, compreso il problemi dell’eros. E visto che siamo arrivati all’erotismo, una filosofia conta per quello che fa e non per quello che dice di fare: ora ciò che tu fai di fronte al problema dell’eros è in una prima parte un tentativo di arrivare al problema partendo dal soggetto concreto, e questo sarà fenomenologico ma non ti conduce molto avanti (dinnanzi alla differenza dei sessi, che è un dato, la partenza dal soggetto che pensa se stesso è una falsa partenza). In una seconda parte, una interpretazione dell’eros che non ha nulla di caratteristicamente fenomenologico e per la quale non mi sentirei né di approvare né di biasimare la fenomenologia, ma se mai le idee di Enzo Paci. Un albero si giudica dai frutti.
Considera questa lettera come uno sfogo amichevole, a cui tu mi hai in qualche modo provocato: uno sfogo animato non animoso. Non ho alcun partito preso. Anzi, sono sempre sulla strada della ricerca e quindi in atteggiamento di ascolto. Anche se, non mi pare che per ora la mia strada sia destinata a incontrare quella della fenomenologia. Chissà che, se tu dovessi convincermi che la fenomenologia è la filosofia del nostro tempo, ciò significhi puramente e semplicemente che io non mi occupo più di filosofia. Accogli i miei più cordiali saluti.

Repubblica 25.9.13
Al Palazzo Reale di Milano 80 opere provenienti dal Centre Pompidou di Parigi Un viaggio tra pittura e scultura per raccontare come è cambiata l’arte di rappresentare
Il volto del ‘900
Da Picasso a Bacon, il secolo che rivoluzionò il ritratto
di Dario Pappalardo


“Dimenticare I coniugi Arnolfini”. Il motto del Novecento per chi si confronta con il genere ritratto potrebbe essere questo. Gli artisti del secolo breve spazzano via la perfetta quiete e aderenza mimetica della tavola fiamminga di Jan Van Eyck, punto di riferimento per la ritrattistica di età moderna. Lì gli sposi borghesi raffigurati nell’interno domestico sono perfettamente padroni del loro status. E l’artista, con la sua opera, è lo strumento che esalta la loro condizione sociale. Nel Novecento tutto questo non sarà più così semplice. Pittura e scultura devono ormai combattere la nemica numero uno: la fotografia. Nadar e soci hanno tolto agli artisti la possibilità della realtà. Il dagherrotipo sostituisce via via la tela a olio da esporre nel sa-lotto buono. La sfida dei maestri del colore alla camera oscura è l’alimento delle avanguardie. Futuristi, cubisti, espressionisti, fauve scompongono la figura umana. Ormai introdotta la psicoanalisi –L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud è del 1899 – è chiaro che ritrarre il fuori – il corpo – e il dentro – la mente – sono la stessa cosa.
Con queste premesse si può affrontare il viaggio intorno alle ottanta opere provenienti dal Centre Pompidou di Parigi, in mostra da oggi (e fino al 9 febbraio 2014) al Palazzo Reale di Milano. Tanti sono i capolavori assoluti.Il volto del ’900– esposizione a cura di Jean-Michel Bouhours, promossa e prodotta per il Comune di Milano - Cultura, Palazzo Reale da MondoMostre e Skira editore (che stanno sviluppando un programma di iniziative comuni) – nella prima sezione, “I misteri dell’anima”, si incarna nelle nuove figure femminili che aprono il secolo. Hanno occhi bistrati, pose impudiche, gesti di sensualità consapevole e mostrano i segni di un’inquietudine profonda. Vanno in questa direzione le eroine di Matisse (Odalisca in pantaloni rossi),di Chabaud (Yvette o il vestito a quadri), di Marquet (Nudo sul divano), di Kupka (Rossetto),di Modigliani (Ritratto di Dédie).Sono le sorelle maggiori, di pochi anni, delle femme fatale del cinema, delle Louise Brooks e delle Marlene che verranno.
La seconda stazione della mostra, “Autoritratti”, affronta il tema cruciale dell’autorappresentazione dell’artista. Se fino all’età moderna l’autoritratto è la firma apposta alla propria opera, il segno indelebile di un passaggio – vedi Raffaello come Caravaggio, confusi tra i loro personaggi – con il Novecento raffigurare se stessi significa restituire un’idea di poetica e di mondo. Ecco allora Gino Severini, che fraziona lo spazio occupato dal suo volto nell’ottica di un futurismo maturo. Adottano lenti distorcenti anche Maurice de Vlaminck e Robert Delaunay, ma in loro la correttezza della figura è sostanzialmente conservata. Il fuori e il dentro esploderanno più avanti con Francis Bacon (in mostra c’è un autoritratto del 1971) e Zoran Music, protagonista di un self portrait quasi in dissolvenza.
“Il volto alla prova del Formalismo”, terzo capitolo della mostra, si concentra sulla testa, come parte (ritratta) per il tutto. Il rapporto con l’arte primitiva, riscoperta all’inizio del Novecento, diventa qui più evidente, soprattutto se si guardano le sculture. È il caso della Musa addormentata di Brancusi, delle “teste” di Lipchiz, Laurens, González, Csaky, Derain.
Il Surrealismo – vedi la tappa numero quattro dell'allestimento, “Volti in sogno” – fa anche del ritratto materiale onirico. Se perBreton «il surreale è il vero volto della vita», la massima allora vale anche per René Magritte: per la suaGeorgette con bilboquet, che sembra il riflesso di un fantasma gotico, e perLo stupro, dove la figura femminile viene “fraintesa”, scomposta: i seni sono gli occhi e il sesso la bocca.
Tra Picasso, Giacometti, Baselitz e Dubuffet, nella sezione “Caos e disordine” non poteva che riaffiorare Francis Bacon con il suoRitratto di Michel Leiris,icona e summa della ritrattistica di secondo Novecento. A David Sylvester che gli chiede quale sia il suo approccio al ritratto, l’artista irlandese dà una risposta che sintetizza la grande rivoluzione che il genere affronta nel corso del Novecento: «Ogni forma che fai ha un’implicazione, e dunque, quando dipingi qualcuno, sai che naturalmente stai tentando di avvicinarti non solo alla sua apparenza ma anche al modo in cui questo qualcuno ti ha toccato, perché ogni forma ha un’implicazione ». A caccia di quella “implicazione”, oltre il bello, oltre quello che si vede, vanno gli artisti del Novecento. La sesta sezione “Dopo la fotografia” li racconta alla guerra con il mezzo che li ha “superati”. I pittori tornano a puntare sul colore, sulla possibilità di interpretare in una maniera personale e “unica” il soggetto ritratto. Come fa Erró con Stravinsky o Derain con Francisco Iturrino. Chuck Close con il suo realismo fotografico della fotografia sembra quasi prendersi gioco. A chiudere la mostra è il capitolo sulla “Disintegrazione del soggetto” con i film degli anni Sessanta di Kurt Kren e Paul Sharits: qui i volti diventano materia di studio ossessivo. L’obiettivo è lo stesso che impronta tutto il Novecento: scoprire cosa il volto nasconda davvero.

Repubblica 25.9.13
In quei capolavori si compie la morte di Narciso
Nella nuova poetica l’alterazione dell’io borghese
di Massimo Recalcati


Il primo ritratto di se stesso che l’essere umano incontra è quello che si riflette nella superficie dello specchio e che seduce il bambino incatenandolo ad una illusione fondamentale: l’immagine che vedo apparire allo specchio fa esistere una rappresentazione ideale di me stesso che contrasta con il mio essere reale al di qua dello specchio. Si spalanca così una divisione che accompagnerà l’essere umano nel corso di tutta la sua vita. Quello che sono non coincide mai con l’ideale che ho di me stesso. Questo ideale appare come sottratto, irraggiungibile. Anzi, quando l’uomo avanza la pretesa di realizzare questa impossibile coincidenza con la sua immagine ideale si perde irreversibilmente come mostra il mito di Narciso. La seduzione della propria immagine in quanto immagine ideale trascina fatalmente verso la morte suicidaria. Come sanno bene gli psicoanalisti l’attaccamento eccessivo a se stessi non è mai portatore di salute.
Nell’arte classica del ritratto in primo piano troviamo – salvo rare eccezioni – la gloria dell’immagine ideale che investe il volto del re, del principe o del personaggio celebre. In questo caso il ritratto persegue la finalità narcisistica di emendare il volto dalla presenza incombente della caducità e della morte realizzando una immagine destinata a sfuggire il tempo per eternizzarsi nei secoli a venire. Basta rileggere le straordinarie pagine che Jean-Paul Sartre dedica nel suo romanzo filosofico
La Nausea a descrivere la galleria di ritratti degli uomini illustri presenti nel museo della grigia cittadina di Bouville. Questa serie impagliata di volti non serve ad altro che a nutrire la malafede degli uomini, ovvero la loro angoscia e il loro esorcismo di fronte alla morte.
Diversamente dalla ritrattistica classica quella moderna e contemporanea non ha voluto alimentare la rappresentazione del volto come monumento narcisistico. Piuttosto – come accade già in Caravaggio dove nel suo celebre Canestro di frutta,la bellezza astratta della mela è interrotta dalla presenza perturbante del segno inconfondibile che la rende bacata, cioè intaccata dalla morte – si tende alla deformazione espressiva del volto come avviene in modo estremo neiRitratti e negliAutoritratti di Bacon. Qui l’accartocciarsi metamorfico del volto altera la rappresentazione borghese dell’Io. Diversamente dai grandi uomini che hanno fatto la storia di Bouville manca in queste figure ogni compostezza, ogni senso della armonia e della misura. In primo piano non è quel “diritto di esistere” che secondo Sartre assegna subdolamente al ritratto tutta la sua pomposa autorità, ma l’esistenza senza fondamento, ingiustificata nel suo essere. Se si guarda l’Autoritratto di Music si può osservare come la gloria dell’immagine narcisistica sia qui letteralmente ridotta a polvere. Il volto dell’artista scompare in un nebulosa che rivela tutto il nostro statuto di mortali. L’identità monumentale della posa lascia il posto all’ombra. Lo stesso accade in Van Gogh anche se in modo diverso: non troviamo nella sua opera un solo autoritratto uguale all’altro, così come una firma uguale ad un altra. L’artista si polverizza in uno sciame di figure e di firme che anziché cementare l’identità la rendono camaleonticamente impossibile. Ma anche in un’opera volutamente provocatoria come quella di Magritte titolataLo stupro in primo piano, circondato da una chioma di capelli biondi, non è il volto ma il corpo sessuale, ovvero ciò che l’abito narcisistico del ritratto abitualmente nasconde. Lo stupro è qui innanzitutto stupro della falsa compostezza ideale dell’immagine narcisistica, è uno squarcio del velo: noi non siamo fatti di sostanza eterea, non siamo destinati a sopravvivere in eterno: siamo fatti di carne erotica destinata a dissolversi.