giovedì 26 settembre 2013

La Stampa 26.9.13
«Se B. decade ci dimettiamo tutti...»
Le finte minacce, puro “gesto simbolico”
di Marcello Sorgi


La finta minaccia delle finte dimissioni di tutti i parlamentari del Pdl annunciate per il 4 ottobre, giorno in cui la giunta per le elezioni del Senato dovrebbe votare la decadenza di Berlusconi, ha tenuto banco fino a sera, quando gli stessi senatori e deputati, uscendo dall’assemblea che aveva comunicato questa decisione, si sono incaricati di derubricarla a «gesto simbolico», cioè al rango di un bluff che è subito precipitato nel ridicolo. Gente come Martino e Formigoni, con evidente imbarazzo, spiegavano che, se anche fosse vera, una mossa del genere sarebbe inattuabile. Perfino la Santanchè, uscendo dalla riunione, ne parlava con insolita cautela. Le dimissioni infatti, per prassi, vengono sempre respinte dalle Camere. E quando, dopo un paio di rifiuti, sono accettate, servono a far subentrare i primi dei non eletti. Tutto qui.
Perché allora Berlusconi ha voluto mettere in scena una tale commedia, dall’effetto sicuramente autolesionista, all’indomani della missione di Alfano al Quirinale e alla vigilia della verifica di governo, che dovrebbe compiere il primo passo nel consiglio dei ministri di domani? Per far capire, spiegavano sottovoce quelli che gli sono più vicini, che è sempre lui a comandare e che Napolitano può togliersi dalla testa di spingere i partiti della larga maggioranza a un nuovo accordo per tutto il 2014, senza coinvolgerlo. Il Cavaliere insomma non ha scelto di far saltare il banco, per andare a votare a novembre. Anzi pensa esattamente il contrario e vuol trovare il modo di far proseguire il governo. Ma non appena si delinea la possibilità che una decisione del genere possa essere presa senza il suo contributo, «dà di matto», come s’è fatto sfuggire a tarda sera uno dei partecipanti all’assemblea dei gruppi.
Così l’effetto pratico del turbolento pomeriggio pidiellino nella Sala della Regina, e dell’evidente umore ciclotimico con cui Berlusconi affronta la vigilia del voto sulla sua decadenza e dell’inizio della sua detenzione, sarà di rendere praticamente impossibile la verifica e il patto per il 2014. La palla torna a Letta. Perché oggi più di ieri il governo è condannato a navigare a vista.

La Stampa 26.9.13
Barca: “Se Renzi attacca Letta la colpa è del Pd”
Il partito deve essere un organo vivo con una strategia
intervista di Carlo Bertini


«Voglio ancora pensare che questa irresponsabile intenzione dei parlamentari del Pdl non sia mai esercitata, anche perché il paese, che chiede lavoro e servizi, non potrebbe tollerarla». Fabrizio Barca non vuole aggiungere altro sul tema e questa ritrosia a parlarne deriva dal dubbio che tutto ciò sia solo un’altra mossa per mettere in difficoltà il suo partito.
A destra risuonano tamburi di guerra, ma anche nel vostro campo non si scherza. Che ne pensa delle bordate continue di Renzi a Letta?
«Ma nella mia idea di partito separato dallo Stato, la responsabilità di qualunque cosa non sia avvenuta in questo governo è del Pd, non del suo premier. Il Pdl come partito ha chiesto cose molto precise, il Pd no, sia in questa fase che in campagna elettorale. Un esempio: se il Pd avesse detto che voleva un’immediata reintroduzione dell’indicizzazione delle pensioni sotto i 1400 euro, Letta sarebbe stato rafforzato e non indebolito. Ciò dimostra che il partito deve essere un organo vivo con una sua strategia anche quando esprime un premier».
Lei ha detto che Renzi può vincere il vostro congresso perché è un candidato dirompente dal punto di vista del cambiamento: si è conquistato pure il suo voto?
«No. Girando l’Italia in queste settimane sento che molti, di quelli che avevano pensato di appoggiarlo, si domandano se il rinnovamento significherà sostituzione di una filiera calata dall’alto o concorrenza tra i migliori. Cioè se si tradurrà nell’aprireun metodo diverso dentro il partito e quindi nella società. In altri termini, mi convinco sempre di più che la mia utilità consista nella franchezza delle domande a tutti i candidati: solo dopo matureranno delle scelte, magari la notte prima del voto. Registro che ancora non si discute di contenuti, tranne alcuni spunti. Per convincere le persone che puoi cambiare le cose devi prima convincerle che sei in grado di attuare le promesse fatte, su scuola, infrastrutture, e così via. La differenza non è nell’agenda, ma nell’avere un metodo per realizzare le tue intenzioni, perché a raccontarle sono buoni tutti».
La pensa come D’Alema sul fatto che Renzi non sia adatto a fare il segretario di un partito come il Pd?
«Faccio un esempio concreto: sono d’accordo i candidati con la mia richiesta di ridurre la direzione del Pd, cui è affidato l’indirizzo strategico del partito, da 200 a 20 persone? Una proposta di buon senso, che parte da qualche cognizione di organizzazione che ho maturato negli anni, perché non esiste organismo al mondo in cui la strategia la decidono duecento persone. Uno solo dei candidati mi ha risposto, Civati, dicendosi d’accordo. Cuperlo ha detto che bisogna rafforzare la dirigenza, Renzi non l’ha neanche presa in considerazione. Per me e per moltissimi altri, conteranno questi impegni concreti».
Anche lei come Cacciari teme che la scissione sia inevitabile nel Pd?
«No, non lo credo affatto. Una scissione sul piano dell’identità, questione purtroppo molto poco discussa, non ha ragione d’essere sul piano culturale, anzi oggi trovano conferma alcuni presupposti inesplorati della vicenda del Pd. Ci sono contrasti tra le persone, camuffati dall’ideologia. Ma non c’è questa presunta faglia tra socialcomunisti e liberaldemocratici. E credo che il partito non si farà prendere in giro da chi userà dei vessilli identitari per eventuali operazioni. La gente non ci casca, chi volesse fare simili operazioni troverebbe una significativa opposizione in giro».
Ritiene che Renzi e Letta si debbano alleare in un ticket per vincere alle urne?
«Bisognerebbe capire a che progetto comune dovrebbe essere finalizzato. Intendo dire che ci sono oggi tanti sindaci di grandi città molto validi, cinque-seicento sindaci di comuni minori molto capaci, due giovani presidenti di regione del Pd e mi riferisco a Zingaretti e Serracchiani, di assoluto valore. Ecco la squadra è questa e si può alleare non in base ad operazioni di potere ma su un grande progetto».

il Fatto 26.9.13
Il latitante. Commemorato in un’aula del Senato il governo dell’ex leader Psi
Napolitano omaggia Craxi mentre la figlia insulta i pm
Stefania Craxi: “Una presenza che sana molti dolori. Mio padre distrutto dai comunisti attraverso i giudici di Milano”
Il Presidente la applaude e la abbraccia, senza dire una parola
Macaluso: “Agitatrice”
di Paola Zanca


L’invito è arrivato alla fine del primo settennato. “Presidente, vorrà essere nostro ospite per il trentennale del governo Craxi? ”. Dal Colle rinviarono la risposta, facendo presente che quel giorno, il 25 settembre 2013, al massimo avrebbe potuto rendere omaggio al leader socialista solo un senatore a vita. Invece, ieri, seduto sulla poltrona in velluto color ocra, Giorgio Napolitano ha “sanato i dolori” della famiglia di Bettino e di un pezzo di storia d’Italia da Capo dello Stato in carica. Proprio così, “sanato i dolori”. Usa queste parole, Stefania Craxi per descrivere la “riconoscenza” che prova nei confronti di Napolitano. Perché è qui “in questa sala” del Senato (la Zuccari, a palazzo Giustiniani) “non già come autorevole protagonista e testimone delle vicende di quei tempi (era capogruppo del Pci all’epoca del governo Craxi, ndr) ma come massima istituzione della Repubblica italiana”. Seduta accanto al Presidente, c’è mezza classe politica travolta da Tangentopoli, da Arnaldo Forlani a Gianni De Michelis. E dal palco, Stefania, la pasionaria figlia del leader fuggito ad Hammamet, non lesina attacchi e insulti a quei giudici che hanno spezzato la carriera del “riformista”, “vincitore ideologico” del “becero sovietismo del Pci”. Suo padre poteva essere “il Mitterrand italiano” se “al-l’appuntamento dell’unità socialista” anziché “gli ex comunisti” non si fosse presentata “la Procura di Milano”. Suo padre è finito “distrutto” dal “volume di fuoco del partito comunista”: non per via politica, ma “attraverso la strada obliqua della magistratura”.
NAPOLITANO è lì a un passo. Ascolta senza mostrare cenni di disappunto, a meno di non voler azzardare interpretazioni sul ripetuto toccarsi l’angolo esterno dell’occhio sinistro. La Craxi parla per una ventina di minuti. Si scaglia contro “l’opera di rimozione della memoria, di cancellazione di ogni calendario, di annullamento d’ogni sua esperienza come la cancellazione di una peste, di un dramma che si vuole allontanare dalle proprie coscienze”. Attacca il professor Stefano Rodotà (lei lo chiama “signor”), “candidato in pectore dei conservatori un tanto al chilo”, che ha osato definire in tv “orribile” la politica economica del governo del ‘83. Sostiene che non c’è uno dei “centinaia di centri culturali e politici” del territorio nazionale che gli abbia voluto dedicare un convegno.

l’Unità 26.9.13
La nazione non è più un territorio
di Michele Ciliberto


Quando si affronta la questione dell’immigrazione, occorre essere consapevoli di un dato fondamentale: oggi è in corso di profonda trasformazione l’idea di nazione, un processo strettamente connesso alla crisi del modello moderno di Stato.
Cioè di quel modello imperniato su un rapporto organico tra Stato, nazione, territorio. Non a caso, la storia dell’Europa moderna, arrivata ormai alla sua conclusione, si configura proprio come una lunga vicenda di Stati nazionali territorialmente concepiti e costituiti.
È difficile periodizzare questo processo, e dire quando esso sia entrato in una fase di crisi. Per quanto riguarda l’Italia, è un fenomeno che diventa visibile negli anni Settanta, nel vivo di trasformazioni strutturali e culturali che investono in profondità il nostro Paese.
La vicenda della Lega si situa in questo contesto, ed è significativa in un duplice significato. Anzitutto perché è indice della crisi dello Stato nazionale moderno; in secondo luogo perché essa cerca di risolvere questa crisi attraverso la costruzione di una microentità statale di carattere regionale, territorialmente definita e rivendicata, fino ad assumere toni di carattere etnico, e addirittura razzista, quando la prospettiva politica della Padania viene meno. In altre parole, la Lega è stata, al fondo, una risposta di carattere reazionario alla crisi, di vastissime proporzioni, dello Stato nazionale moderno. Oggi appare chiaro che anche tutta la vicenda jugoslava va vista in questo quadro: come l’esito sanguinoso di una crisi che è esplosa in termini più violenti dove il paradigma della statualità moderna era più debole e più fragile.
La storia, anche recente, insegna che da questa crisi si può uscire in una duplice direzione: riproponendo in termini più ristretti e asfittici il principio statuale moderno; oppure lavorando a una nuova concezione della nazionalità, che si ponga oltre le barriere moderne della statualità e della territorialità.
Ma una sfida di questo spessore può essere affrontata solo ponendosi dal punto di vista dell’Europa e intrecciando un nuovo principio di nazionalità e la nuova idea dell’Europa, sganciando entrambi dalla interpretazione della territorialità come condizione della cittadinanza, sia italiana che europea.
È questo il salto culturale, etico e anche religioso che bisogna compiere oggi e nei prossimi anni, assumendo come punto di elaborazione e di iniziativa politica la dimensione della interculturalità e del dialogo fra le religioni.
È un mutamento radicale di visione che richiede un impegno decisivo a livello di coscienza, di cultura, di educazione, da cui deve scaturire un concetto di cittadinanza italiana ed europea capace di andare oltre gli stessi concetti fondamentali della civiltà moderna, come quello di tolleranza essenziale , certo, ma non non più sufficiente a definire il rapporto tra le differenti identità culturali e religiose, perché agganciato a forme di riconoscimento e di comunicazione tra mondi diversi che oggi devono essere, con forza e rigore, oltrepassate.
Non è il territorio che deve decidere oggi chi è italiano o europeo, chi è nativo e chi è straniero: ma la partecipazione a un comune vincolo civile, a una dimensione culturale condivisa, costituita da differenze in grado di risolversi in un condiviso senso di appartenenza. Nella costruzione della nuova Italia e della nuova Europa, la dimensione di valori comuni è decisiva, anzi è il banco di prova delle nuove identità nazionali ed europee che bisogna costruire.
Insisto sul temine nazione: dobbiamo lavorare a un nuovo concetto di nazionalità, non alla sua cancellazione. È vero il contrario. La nuova Europa da costituire richiede forme nazionali nuove ma potenti, in grado di arricchire con la loro storia la comune patria europea. La storia vive di differenze, non di uniformità.
C’è un nuovo mondo da costruire nel XXI secolo, oltre le barriere della «modernità», dalle quali non si riesce ancora ad uscire con la forza necessaria. Ed è in questo processo che va inserito il problema, grande e drammatico, della immigrazione. Padre Ernesto Balducci diceva che l’Europa era destinata ad essere travolta dall’Africa, se non avesse saputo fare i conti con i nuovi mondi che venivano alla luce. Aveva ragione: essi possono essere la condizione per un balzo in avanti della nostra comune civiltà in Italia ed in Europa oppure di una sua catastrofe. Certo, è una sfida che ha i suoi tempi e le sue tappe: è dunque giusto battersi per lo «jus soli» e per la eliminazione d leggi inique. Ma noi dobbiamo avere uno sguardo più lungo e riuscire ad avere una visione di quello che potrà essere il nostro futuro. La modernità, la statualità nazionale moderna, è ormai finita; sta alle nostre spalle.

La Stampa 26.9.13
In Piemonte troppi obiettori aborto sempre più difficile
Il 67% dei ginecologi non pratica l’interruzione volontaria di gravidanza Ci sono più medici che rifiutano l’intervento di quelli disposti a eseguirlo
di Marco Accossato

Cresce il numero di chi si oppone Nel 2012 sono state 8.856 le interruzioni volontarie di gravidanza: in un solo anno è aumentato in Piemonte il numero di medici che rifiuta di praticare l’aborto
Sei ginecologi su dieci, in Piemonte, sono contrari all’aborto e rifiutano di praticarlo. Quasi la metà degli anestesisti nelle strutture pubbliche, inoltre, non garantisce il rispetto della legge 194. «Un dato preoccupante, e soprattutto in crescita», denuncia Eleonora Artesio, consigliera della Federazione della Sinistra ed ex assessore regionale alla Sanità. «Al momento dichiara - non sembra che questo incida sulle liste di attesa al punto da superare i limiti temporali imposti dalla 194, ma la situazione non induce certo a stare sereni».
Non siamo forse ancora al ritorno degli aborti clandestini, ma i dati raccolti dalla Artesio fanno riflettere, perché in alcune strutture - come quelle dell’Asl To1 - il numero complessivo di ginecologi obiettori (11) è nettamente superiore a quelli disponibili a praticare l’aborto (2). Numeri che, di fatto, rendono molto più probabile il trovarsi di fronte a un ginecologo non disposto ad assistere una donna in un momento fisicamente e psicologicamente comunque sconvolgente della propria vita.
La situazione in Piemonte La situazione è identica un po’ ovunque, con tre casi clamorosi, stando ai numeri del 2012: all’Asl di Novara è disponibile un solo medico non contrario a praticare l’aborto, due all’ospedale di Alessandria, tre in quello di Cuneo. Al Sant’Anna i ginecologi obiettori sono 55 contro i 35 «attivi», mentre al Mauriziano - caso più unico che raro - gli obiettori sono invece la metà dei non obiettori.
È polemica. «La Regione - dice il presidente del gruppo regionale della Lega Nord, Mario Carossa - ha garantito e sempre garantirà un accesso alla sanità a chiunque, nella più totale libertà. Tutti hanno il diritto di essere curati e seguiti nel migliore dei modi, per cui vaneggiare di aborti clandestini come fa il capogruppo Artesio appare fuori luogo e del tutto irreale». La consigliera della Federazione della Sinistra ribatte parola per parola: «I numeri parlano chiaro, com’è chiaro il silenzio della giunta Cota, che naturalmente non ha avviato né una discussione sul tema, nonostante le richieste delle opposizioni, né attuato una politica di rafforzamento dei Consultori». Al contrario, «Cota ha sempre sostenuto i Movimenti per la vita».
Parlano i numeri Nel 2012 sono state 8.856 le interruzioni volontarie di gravidanza nella nostra regione. Polemiche a parte, parlano i numeri, e i numeri dicono che sommando tutte le Asl e le Aziende ospedaliere del Piemonte il totale dei ginecologi obiettori è di 273 medici contro i 131 dei non obiettori. «Con i pochi che non si rifiutano di applicare la 194 - fa notare sempre la Artesio -, che finiscono per occuparsi di aborti per tutta la vita, a scapito della propria professionalità e della carriera».
Dal 2011 al 2012 è cresciuto sia il numero dei ginecologi obiettori sia quello degli anestesisti. Siamo - è vero - al di sotto della media nazionale, ma il dato non consola.
La procreazione assistita Anche sulla questione della procreazione medicalmente assistita la Artesio contesta la Regione: «Nel 2009 una delibera della giunta Bresso aveva disposto la creazione di due nuovi centri pubblici ad Asti e a Novara, in un quadro in cui i servizi in Piemonte sono quasi esclusivamente in mano ai privati, con costi spesso proibitivi per la famiglia». Ma a distanza di quattro anni, «quei due centri non sono mai nati per mancanza di personale, e all’unico istituto accreditato è stato tagliato il budget, tanto che ormai opera solo più in regime privatistico».

Repubblica 26.9.13
Quelle 51 onne salvate da una legge in pericolo
Perché le manette sono solo il primo passo

di Michela Marzano

Si può veramente pensare di combattere la piaga delle violenze contro le donne senza prenderne in considerazione il carattere strutturale e limitandosi ad adottare una serie di misure repressive? C’è un’urgenza evidente di risposte immediate: è in gioco, nell’immediato, la vita di centinaia di persone. Ma il problema delle violenze contro le donne, in Italia, non è solo un’urgenza. Anzi. È soprattutto un problema strutturale che non si può sperare di risolvere introducendo l’irrevocabilità della querela nei confronti degli uomini violenti, l’arresto obbligatorio per maltrattamento e stalking di chi è colto in flagrante delitto, e con le molteplici aggravanti nei confronti dei coniugi e dei compagni previste nel decreto legge approvato l’8 agosto dal Consiglio dei ministri. C’è da rallegrarsi se davvero le forze dell’ordine cominciano in molti casi a intervenire in modo efficace per proteggere le vittime. Attenzione però a non sottovalutare il vero problema legato alle violenze di genere.
Ovvero le sue radici, le sue diramazioni, le sue conseguenze e la sua prevenzione. Continuare a normare solo gli interventi repressivi — che peraltro, in molti casi, sono già normati — significa infatti non capire che la violenza contemporanea contro le donne è la conseguenza immediata della profonda crisi identitaria che, al giorno d’oggi, riguarda non solo gli uomini e le donne, ma anche più in generale le relazioni intersoggettive.
Quando si capirà che, senza la promozione di una cultura della tolleranza e dell’accettazione reciproca, la violenza non sarà mai arginata? Quando si comincerà a proteggere davvero le vittime finanziando in maniera adeguata i centri anti-violenza che da anni chiedono risorse per le proprie fondamentali attività? Quando si affronterà il problema della presa in carico psicologica degli uomini che maltrattano le donne? Quando si deciderà di introdurre nelle scuole un’educazione mirata a disinnescare comportamenti violenti e alla gestione dei conflitti?
Problemi che il decreto legge non affronta. Tutte questioni che, finché non saranno trattate, non permetteranno di trovare soluzioni reali ed efficaci al carattere strutturale della violenza contro le donne.
In parte destabilizzati dalle recenti trasformazioni delle relazioni umane, molti uomini non riescono ad accettare l’autonomia femminile: insicuri e incapaci di sapere “chi sono”, accusano le donne di mettere in discussione il proprio ruolo; narcisisticamente fratturati, pensano che le donne debbano aiutarli a riparare le proprie ferite, trasformandosi in persecutori di fronte ad ogni manifestazione di indipendenza, come se il semplice fatto di perdere la propria donna significasse una perdita d’identità.
Ecco perché il problema delle violenze — ancora prima dei passaggi all’atto che questo decreto cerca di combattere — è un problema culturale e formativo: in assenza di punti di riferimento e di fronte alla frantumazione dei rapporti umani, ci si illude che, con la violenza, ci si possa riappropriare di un’identità e di un ruolo che non esistono più da molto tempo. Mentre l’educazione e la cultura permetterebbero di riscrivere la grammatica delle relazioni umane, aiuterebbero i ragazzi e le ragazze a prendere coscienza della propria dignità e del proprio valore, insegnerebbero ai più piccoli il rispetto delle differenze e dell’alterità.
Il dramma della violenza contro le donne comincia nelle famiglie e nelle scuole e viene rafforzato con le pratiche di discriminazione. Fino a quando non si affronterà il problema dell’educazione per insegnare l’uguaglianza e la pari dignità di tutti, del potenziamento dei centri anti-violenza per l’aiuto delle vittime, della diffusione di messaggi di odio e di intolleranza che violano la dignità delle persone, delle condizioni materiali di accesso al lavoro, e della presa in carico degli uomini maltrattanti per evitare che la violenza si trasmetta da una generazione all’altra, le misure legislative saranno sempre e solo dei palliativi. Certo necessari, ma mai sufficienti.

Repubblica 26.9.13
Shalabayeva, denunciati i funzionari del Viminale
Esposto della figlia alla procura di Roma: “Fu sequestro di persona”. Nel mirino anche i kazaki
di Fabio Tonacci


ROMA — Con una mossa che solleva il caso Ablyazov dal torpore in cui giaceva da settimane, i legali della figlia del dissidente kazako detenuto in Francia hanno depositato in procura a Roma una denuncia per sequestro aggravato di persona e ricettazione contro tre diplomatici del Kazakhstan e contro non precisati funzionari del Viminale. L’esposto, corredato da due foto (una del documento della figlia di Alma Shalabayeva, l’altra scattata sulla pista di Ciampino il giornodel rimpatrio), arriva oggi sulla scrivania del procuratore capo Giuseppe Pignatone.
«Nel provvedimento — spiega l’avvocato di Madina, Astolfo Di Amato — accusiamo l’ambasciatore kazako a Roma, Adrian Yelemessov, il suo consigliere per gli affari politici Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov». E chiedono però ai magistrati di individuare i funzionari del Viminale «che abbiano tenuto comportamenti contro la legge nella vicenda dell’espulsione della Shalabayeva e della figlioletta di sei anni Alua, perché siamo convinti che siano stati commessi abusi e omissioni gravi». Convincimento nato da quel cablo in cui l’Interpol di Astana chiedeva di “deportare” Alma, che pure non era mai stata oggetto di un mandato di cattura. E rafforzato dalla contabilità del tempo impiegato per espellere la moglie di Mukthar Ablyazov, dopo il blitz della polizia nella villa di Casalpalocco della notte del 28 maggio scorso: appena 66 ore. E 24 ore dal momento in cui è stato firmato il provvedimento della prefettura.
Khassen e Yessirkepov si vedono nella fotografia allegata alla denuncia, scattata dal pilota della compagnia privata austriaca Avcon Jet nel pomeriggio del 31 maggio, sulla pista di Ciampino. L’aereo riportò ad Astana Alma e la figlia, e nell’immagine parlano con tre uomini, forse poliziotti o funzionari del Viminale.
«Hanno organizzato l’espulsione illegale di mia madre — dice Madina Ablyazova, la maggiore delle quattro figlie del dissidente — Come può l’Italia permettere loro di continuare a godere della immunità diplomatica dopo che gli stessi hanno abusato pesantemente dei loro privilegi?». Ci sarebbe già un precedente, spiegano i suoi legali: quello di Abu Omar, in cui la Cassazione ha stabilito che l’immunità non può essere opposta in presenza di violazione dei diritti umanitari.
L’accusa di ricettazione è legata all’altra foto, molto recente, di Alua. L’immagine sul documento kazako utilizzato per l’espatrio, sembra uguale a quella del passaporto della Repubblica Centrafricana (la cui autenticità non è stata ancora provata). «Questo significa due cose — spiega Amato — o che sia la copia digitale della foto del passaporto centrafricano oppure che sia frutto dell’attività degli investigatori privati che hanno controllato casa della signora Alma. In entrambi i casi c’è un illecito: ricettazione o violazione della privacy ».
Stamattina Pignatone esaminerà la denuncia e valuterà se inserirla nel fascicolo già aperto a carico di ignoti dal pm Eugenio Albamonte, o se aprirne un altro ex novo.

il Fatto 26.9.13
Grecia, in migliaia contro i fascisti


Migliaia di greci sono scesi in strada ad Atene e in altre 20 città – nel 2° giorno di sciopero generale – per protestare contro l’uccisione, la scorsa settimana, del rapper antifascista Pavlos Fyssas, 34 anni, per mano di un militante del partito filo-nazista Alba Dorata, Giorgios Roupakias, 45 anni. Ansa

Corriere 26.9.13
Gruppi paramilitari con Alba dorata in Grecia torna l’incubo del Golpe
di Antonio Ferrari


In Grecia l'incubo si riproduce e la memoria torna agli anni 60, quando le squadracce fasciste terrorizzavano il Paese fino a produrre le condizioni per il colpo di stato militare. Dopo il delitto del rapper di sinistra Pavlos Fyssas, si scopre che il partito neonazista Alba dorata, secondo i sondaggi la terza forza politica greca, è il braccio parlamentare di «un'organizzazione criminale con le caratteristiche di un'associazione per delinquere e con una struttura militare». Parole pesanti quelle del ministro dell'Interno Ioannis Michelakis, a Roma per un vertice a sostegno della collega italiana Cécile Kyenge, bersagliata da attacchi razzisti. Nonostante le denunce di numerosi intellettuali, la politica greca aveva ridotto a fenomeno marginale le scorribande delle squadre d'assalto, che imitavano le «camicie brune» del nazionalsocialismo, ritenendolo al massimo la folcloristica appendice della protesta contro i sacrifici imposti dalla crisi. Visione miope, anche perché nessuno ha voluto riflettere su un dato agghiacciante: nelle ultime elezioni, come aveva denunciato il settimanale To Vima, più d'un poliziotto su due aveva votato per Alba dorata. E ora, grazie alle confessioni di uno dei fondatori del partito, To Vima ha scoperto l'esistenza di squadre organizzate e violente. Testualmente, «Alba dorata ha una struttura paramilitare di tremila uomini disposti a tutto. Inoltre è dotata di circa 50 falangi, con molti membri pronti a gettarsi negli scontri di piazza e altrettante squadre, di sei membri ciascuna, per compiere attacchi mirati sotto la guida di tre persone del partito». Tutto questo non sarebbe potuto accadere senza preziose complicità. Vengono i brividi a pensare che, seguendo le indagini sull'omicidio di Fyssas, vi sono state le dimissioni di due altissimi gradi della polizia, i generali Dikopoulos e Kaskanis. Durante un'operazione investigativa, a quanto pare, ad alcuni neonazisti è stato consentito di andarsene e di evitare l' arresto. Tardivamente, si sta cercando di correre ai ripari. È pur vero che l'assassinio del rapper ha interrotto la crescita di Alba dorata, ma ora ci si chiede se il partito possa sedere in Parlamento e se non debba essere dichiarato fuorilegge, visto che alcuni parlamentari sarebbero in stretto contatto con le strutture paramilitari e violente.

il Fatto 26.9.13
Confusione laburista. Il quid manca a sinistra
I leader dei partiti socialdemocratici europei sembranoincapaci di attrarre consensi
Dopo il caso Spd in Germania Miliband in crisi in Gran Bretagna
di Caterina Soffici


Londra Pare chiaro: la sinistra ha un problema di leadership. Non parliamo del nostro povero Letta nipote (faremo, diremo, è tutto a posto, la stabilità, la credibilità e altre chiacchiere varie). O di Guglielmo Epifani e delle miserie del Partito democratico. O dei socialdemocratici tedeschi, che ambivano a fare le scarpe a Frau Merkel e invece si ritrovano con il cerino in mano a decidere la Grosse Koalition e il loro candidato alla cancelleria Peer Steinbrück sacrificato in nome della realpolitik.
PARLIAMO DEL GLORIOSO partito laburista inglese che fu di Tony Blair, quando dettava la linea e faceva sognare la mezza Europa progressista e rosicare l’altra mezza, quella conservatrice, perché non aveva un leader così.
Che l’attuale segretario del partito laburista britannico Ed Miliband non sia fatto della stessa pasta, lo si sapeva. Il discorso tenuto a Brighton, in occasione del congresso annuale del Labour Party, ha confermato il grigiore e la pochezza del personaggio. Ha infiammato i suoi. E meno male, almeno quello. Ma non ha certo fatto colpo sul-l’elettorato inglese. Il Labour ha un piccolo vantaggio nei sondaggi, ma come leader del paese gli inglesi preferiscono ancora Cameron. Ed è tutto dire, visti i risultati del governo conservatore nel-l’affrontare la crisi e l’ultima clamorosa figura barbina incassata dal premier Cameron, il primo a memoria d’uomo a essere bocciato sonoramente dal Parlamento su una proposta di intervento militare in Siria.
ANCHE QUI INSOMMA, la sinistra manca la leadership. Ed Miliband, il fratello con la zeppola del vero Miliband (David, ex ministro di Tony Blair, adesso in esilio newyorchese), ha lanciato nel-l’aria un po’ di proposte: tariffe del gas e bollette della luce congelate per almeno due anni e l’abolizione della bedroom tax, la contestatissima tassa introdotta dai conservatori che penalizza chi tiene stanze sfitte nelle case popolari. Un milione di nuove case. Doposcuola gratuito per tutti i bambini delle elementari. E poi voto a 16 anni (ma questo è un vecchio cavallo da battaglia e quindi non contiamolo neppure). Tutte chiacchiere, ovviamente, perché non ci sono i soldi per realizzarle.
HA GALVANIZZATO i suoi, promettendo maggiori tasse ai ricchi per pagare questi bei sogni. Ma i commentatori (anche quelli di sinistra) hanno già raffreddato gli animi: il programma annunciato costerebbe 27 miliardi di sterline. Impossibili da trovare per chiunque. Quindi un programma che sulla carta è di sinistra (tassare i ricchi e colpire le banche per dare ai poveri) di fatto è solo uno scimmiottamento populista. Non c’è un sogno da vendere, solo chiacchiere.
Ancora più inquietante che Miliband abbia detto questo: “State meglio ora di come stavate cinque anni fa? La Gran Bretagna si merita di meglio, con noi al governo farà meglio di così”. Sapete chi aveva usato la stessa frase in una campagna elettorale tanti anni fa? Ronald Reagan. Non certo un campione nel Pantheon della sinistra.

Repubblica  e Cnn 26.9.13
“L’Olocausto è stato un crimine condanno i massacri dei nazisti”
Il presidente iraniano Rohani: ora nuovi rapporti col mondo
intervista di Christiane Amanpour


SIGNOR presidente Rohani, come ci si sente a essere il protagonista di questa Assemblea generale delle Nazioni Unite. Come ho anticipato, lei sembra essere al centro dell’attenzione e – cosa insolita per un presidente iraniano – la gente guarda a lei con un cauto ottimismo. Come ci si sente in questa posizione?
«Prima di rispondere alla sua domanda, vorrei estendere i miei saluti al popolo americano, che è molto vicino al cuore del popolo iraniano, e fargli i nostri migliori auguri per il futuro ».
Molti si aspettavano, forse con troppo ottimismo, che lei e il presidente Obama poteste almeno stringervi la mano alle Nazioni Unite. Nessuno si aspettava un incontro formale, però almeno un saluto, una stretta di mano, un modo per rompere il ghiaccio. Invece non c’è stato nulla. Perché?
«Si era parlato di organizzare questo incontro tra me e il presidente Obama, per avere l’occasione di parlare fra di noi, ed erano stati fatti anche alcuni preparativi in tal senso: gli Stati Uniti erano chiaramente interessati a fare questo incontro, e in linea di principio l’Iran, in certe circostanze, poteva essere d’accordo, ma io credo che non ci sia stato tempo a sufficienza per coordinare in modo adeguato l’incontro. Ma venendo al rompere il ghiaccio a cui prima accennava, direi che sta già cominciando a rompersi, perché l’atmosfera sta cambiando e il popolo iraniano è determinato a inaugurare una nuova era nei rapporti tra l’Irane il resto del mondo».
Lei è autorizzato ad avviare colloqui, un negoziato con gli Stati Uniti, lei è autorizzato dalla Guida suprema?
«La mia opinione è che il presidente iraniano abbia l’autorità, in tutti quei casi in cui è gioco l’interesse nazionale e quando è necessario, opportuno e indispensabile, di parlare e dialogare con altri allo scopo di promuovere i diritti della propria nazione. Per venire alle circostanze specifiche, la Guida Suprema ha detto che sedovessero rendersi necessari dei negoziati nell’interesse del Paese, lui non è contrario. E ha menzionato specificamente, in un recente discorso, che adesso non è ottimista riguardo ai colloqui con gli Stati Uniti. Però, quando si tratta di questioni specifiche, gli esponenti del Governo possono parlare con i loro corrispettivi americani. Ora, se si fosse creata, se si fosse presentata un’opportunità oggi, e se fosse stato fatto il lavoro preparatorio, molto probabilmente i colloqui avrebbero avuto luogo e sarebbero stati incentrati principalmente sulla questione nucleare e sugli sviluppi in Medio Oriente. Perciò le posso assicurare che la Guida Suprema ha dato al mio Governo l’autorizzazione a negoziare liberamente su questi temi».
Una delle cose che il suo predecessore era solito dire da questo palco era negare l’Olocausto e pretendere che fosse un mito. Voglio sapere qual è la sua posizione sull’Olocausto: lei riconosce quello che è stato? Cos’è stato l’Olocausto?
«Ho già detto che non sono uno storico, e quando si tratta di parlare delle dimensioni dell’Olocausto sono gli storici che dovrebbero fare considerazioni. Ma in generale posso dirle che qualsiasi crimine contro l’umanità avvenuto nella storia, compreso il crimine che i nazisti hanno commesso nei confronti degli ebrei, e anche di non ebrei, è riprovevole e condannabile. Qualsiasi atto criminale abbiano commesso contro gli ebrei noi lo condanniamo, ma sopprimere una vita umana è qualcosa di spregevole, e non fa differenza se la vita soppressa è di un ebreo, di un cristiano o di un musulmano: per noi è lo stesso. Sopprimere una vita umana è qualcosa che tutte le religioni rigettano, ma d’altra parte questo non significa che se i nazisti hanno commesso crimini contro un gruppo allora è giusto sottrarre la terra a un altro gruppo e occuparla. Anche questo è un atto che dovrebbe essere condannato. Di queste cose si dovrebbe discutere in modo imparziale».
Per concludere, può dirmi una frase che vorrebbe rivolgere al popolo americano?
«Vorrei dire al popolo americano che porto pace e amicizia da parte degli iraniani».
(Copyright Cnn. Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 26.9.13
Ora i due giocatori si guardano e la partita può ricominciare
di Sergio Romano


I negoziati cominciano quando ciascuno dei contendenti si accorge che la propria linea politica non è riuscita a modificare quella dell'avversario. L'Iran di Ahmadinejad credeva di potere realizzare il programma nucleare senza cedimenti, ed era convinto che le sanzioni non avrebbero piegato il Paese. Gli Stati Uniti speravano che le punizioni economiche inflitte all'Iran avrebbero suscitato la rivolta della società e intaccato la stabilità del regime. Nessuna delle due linee ha prodotto il risultato desiderato.
Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno rinunciato a pretendere impegni e garanzie che l'Iran ha sinora rifiutato, ma hanno dovuto constatare che le sanzioni non bastano e che il regime può addirittura confermare, con l'elezione di un presidente alquanto diverso dal suo predecessore, il buon funzionamento del proprio sistema politico. Restano beninteso gli ultimatum e il ricorso alla forza (extrema ratio di ogni negoziato fallito), ma gli amletici zig zag di Obama nella questione delle armi chimiche siriane hanno reso l'intervento militare molto più difficilmente credibile. Se speravano che l'America avrebbe rinunciato a pretendere garanzie, gli iraniani sbagliavano. Se sperava in una nuova «onda verde» o addirittura nella punizione militare dell'Iran (un chiodo fisso della politica neoconservatrice e della lobby filoisraeliana) l'America sbagliava.
Quello a cui abbiamo assistito nell'Assemblea generale dell'Onu è il dialogo a distanza fra due giocatori che debbono anzitutto sgombrare il terreno da tutti gli ostacoli sorti nel corso del tempo. Rouhani ha buttato via il lessico insolente e roboante di Ahmadinejad, ha detto di essere pronto a iniziare trattative limitate nel tempo e orientate verso risultati concreti, e ha ripetuto che il suo Paese non intende creare un arsenale nucleare. Ha persino riconosciuto, in un'altra circostanza, il genocidio ebraico, anche se l'agenzia dei Pasdaran (i Guardiani della rivoluzione) si è affrettata a correggere la versione della Cnn e a diluire le sue parole aggiungendo altri crimini nazisti a quello commesso contro gli ebrei. Ma ha detto altresì che le sanzioni economiche sono un atto di violenza e che l'Iran non intende rinunciare all'arricchimento dell'uranio. Obama, dal canto suo, ha cercato di coinvolgere l'Iran nell'intesa internazionale contro le armi chimiche siriane con un cenno ai soldati iraniani uccisi dai gas iracheni durante la guerra degli anni Ottanta. Ha detto di essere disponibile al negoziato e di averne dato l'incarico al Segretario di Stato. Nessuno dei due ha rinunciato al punto fondamentale della propria linea politica. Ma sembrano esistere ormai le condizioni per una nuova trattativa.
Esistono anche quelle per un accordo? Non ho mai creduto che l'Iran volesse costruire immediatamente un ordigno nucleare, ma ho sempre pensato che voglia essere nelle condizioni del Giappone, vale a dire capace di costruirlo e minacciarne l'uso, all'occorrenza, nel più breve tempo possibile. Cambierebbe idea, forse, se gli Stati Uniti fossero disposti ad adoperarsi per lo smantellamento dell'arsenale nucleare israeliano. Benjamin Netanyahu lo sa ed è per questo che ha definito il discorso di Rouhani «cinico e pieno d'ipocrisia». La minaccia di un nucleare iraniano è divenuta in questi anni la migliore giustificazione del nucleare israeliano. Prima o dopo gli Stati Uniti dovranno scegliere fra due posizioni possibili: convivere con un Iran potenzialmente nucleare o fare pressioni su Israele perché rinunci al proprio arsenale.

La Stampa 26.9.13
Commercio (e Web) libero Shanghai fa il grande balzo
Domani apre la zona economica speciale: parte la sfida a Hong Kong
Con i suoi 37 milioni e mezzo di abitanti Shanghai è la città più popolosa del mondo e ha una superficie di 6.340 kmq
Insieme a Macao Hong Kong è una delle due Regioni speciali della Cina: 7 milioni di persone vivono su una superficie di 1.104 kmq
di Ilaria Maria Sala


Una nuova vetrina all’occidentale per fare il balzo definitivo nell’economia globale. Molte delle ambizioni della nuova leadership cinese, a cominciare dal premier Li Keqiang, si concentrano a Shanghai, in particolare nel distretto di Pudong, che domani diventerà ufficialmente la nuova zona economica più avanzata della Cina.
Da vent’anni l’area urbana dedicata al commercio e al business sta crescendo davanti agli occhi di tutti. All’inizio è stata la Pearl Tower, la torre della televisione, costruita negli Anni Novanta e oggi diventata il simbolo della capitale cinese dello stile, poi un orizzonte di grattacieli spericolati. In pochi anni si è aggiunto l’aeroporto, il treno ad alta velocità MagLev che lo collega alla città, e ora, l’ambizione massima: la «Free Trade Zone», più di 29 chilometri quadrati di zona economico-finanziaria a statuto speciale che già comincia a inquietare Hong Kong. Domani il lancio ufficiale di questo che è il primo grande progetto a cui lega il suo nome il premier, responsabile delle politiche economiche nazionali.
All’inizio, saranno unite alcune zone che già da ora godono di liberalizzazioni commerciali e finanziarie come la duty free di Waigaoqiao -, poi saranno modificate le norme fondamentali legate alla finanza, dato che qui, nella futura «Free Trade Zone», la zona a libero scambio, la valuta cinese (normalmente non convertibile) potrà essere scambiata altrettanto liberamente che a Hong Kong, i prestiti bancari avranno restrizioni inferiori, e le banche cinesi che operano da qui avranno il permesso di fare affari offshore senza bisogno di sottostare alle leggi nazionali sull’esportazione di capitali.
Anche le aziende straniere avranno il permesso di stabilire gruppi di investimento senza bisogno di un partner cinese a maggioranza e dovrebbe essere possibile aprire anche agenzie di collocamento straniere che potranno operare da qui nel resto della Cina. I servizi, da quelli medici e assicurativi a quelli legati al turismo e ai trasporti marittimi, saranno liberalizzati, e anche il settore costruzioni potrebbe vedere una maggiore partecipazione straniera. Ma si va oltre, anche con liberalizzazioni ad alto valore simbolico: nella «Free Trade Zone» sarà possibile individuare case d’asta che potranno mettere in vendita antichità cinesi e poi esportarle (un favore alla casa d’aste Christie’s, che ha già annunciato di voler aprire proprio qui, dopo aver fatto la pace con la Cina donandole due teste di bronzo di epoca Qing di cui era entrata in possesso).
Nonostante nella «Free Trade Zone» la libertà politica non sarà maggiore Internet sembra sarà più libero: in particolare, Facebook, Twitter e il «New York Times» potrebbero essere accessibili, pur restando off limits nel resto della Cina.
Ancora non si sa se ciò potrà avvenire solo nei lounge dell’aeroporto o in luoghi simili, ma online già girano le battute: «Come si potrà mai far stare l’intera popolazione cinese nel Pudong? ».
La Cina delle riforme economiche si è sempre mossa così: dapprima una zona pilota, dove vengono messe alla prova alcune riforme più ardite, con l’opzione di estenderle anche ad altre aree del Paese se dovessero funzionare. Per Shanghai, poi, c’è l’obiettivo di divenire centro finanziario internazionale da qui al 2020. Ovvero, di ritornare ad avere il posto che occupava prima della presa di potere del Partito Comunista, questa volta, sotto al Partito Comunista.
È troppo presto per predire il successo di quest’iniziativa, dal momento che la Borsa di Shanghai da quasi quattro anni è piagata da scandali e da una testarda tendenza al ribasso, che rendono Hong Kong e New York più attraenti per le aziende cinesi che vogliono quotarsi e avere buona credibilità e, ovviamente, anche per quelle internazionali. Per quanto ci sia la volontà di «creare una Free Trade Zone», tanto i servizi che la finanza hanno bisogno di una trasparenza che, per il momento, non è una caratteristica né a Shanghai, né nel resto della Cina.

l’Unità 26.9.13
Così Napoli aprì la Resistenza
Parla Abdon Alinovi: «Quattro giornate cruciali per spiegare il biennio 1943-45»

Lotta di popolo e non un tumulto casuale, questo fu l’insurrezione partenopea tra il 27 settembre e l’1 ottobre 1943.
Un racconto di quei giorni
di Bruno Gravagnuolo


«NON FURONO QUATTRO MA MOLTE DI PIÙ QUELLE GIORNATE. SONO PRECEDUTE DA SCONTRI REITERATI COI TEDESCHI E DA UNA BATTAGLIA A SUD DI NAPOLI CHE DURA VENTI GIORNI...». Sfata un luogo comune Abdon Alinovi, 90 anni, vecchio leone togliattiano, segretario napoletano del Pci, deputato e presidente della commissione antimafia negli anni 80. E il luogo comune è che la rivolta - dal 27 e al 1 ottobre 1943 - sia stata puro tumulto. Episodico. Mentre, sostiene Alinovi, «aveva ragione Longo: dopo Napoli la parola insurrezione acquista valore e senso e diventa la direttiva di marcia per la Resistenza». Alinovi, nato a Eboli, è testimone indiretto. Ma stava nel cuore del teatro più vasto degli eventi: lo sbarco alleato a Salerno dell’8-9 settembre. Operazione «Avelange». Di lì, dalla piana del Sele, segue gli accadimenti l’allora giovane studente di legge a Napoli. Conquistato nel 1941 al comunismo da Mario Garuglieri, operaio fiorentino amico di Gramsci.
Su quei fatti Alinovi tornerà. Coi resoconti dei compagni dal cuore dello scontro e l’approfondimento storiografico. Questo il quadro: gli Alleati combattono da Paestum alla Costiera amalfitana, scontrandosi con una resistenza tedesca via terra che durerà venti giorni, tra Salerno e Nocera Inferiore. Immani distruzioni in quei 50 chilometri da sud verso nord, con il rischio che lo sbarco sia ricacciato in mare. Da Eboli dove stava Alinovi fino a Cava de’ Tirreni e Nocera, le fiamme della battaglia si vedono benissimo: artiglieria alleata che devasta e contrattacco tedesco. Con una testa di ponte sul Sele gli Alleati passano e iniziano la risalita. Coperti da mare dal fuoco amico. Frattanto Napoli dice Abdon«è stremata, sgarrupata, da 104 bombardamenti e 25mila vittime. E dopo l’8 settembre i tedeschi imperversano: i generali italiani fuggono. E civili e militari sono oggetto di rastrellamenti e uccisioni». Prime reazioni popolari (prima dei fatti di Boves nel cuneese) tra il 9 e il 12 settembre, quando il comandante Scholl proclama lo stato d’assedio. Eccole. Manifestazioni studentesche. Attacco a una autoblindo tedesco in Via Foria, con cattura di 20 soldati. Scontro armato al Palazzo dei Telefoni. Assalto popolare a Piazza Plebiscito, per impedire il transito di una colonna occupante, e liberare civili prigionieri. Ancora. Tre marinai e tre tedeschi morti. E rappresaglia: incendio della Biblioteca Nazionale. E uccisione di decine di militari italiani in strada, con sequestro di 4000 civili. E siamo allo stadio d’assedio del 12, seguito da un proclama del 13 che si chiude così: «Tedeschi vilmente assassinati, feriti e vilipesi in modo indegno da un popolo incivile».
Sì, annota Alinovi: «Hitler voleva fare fango e cenere di Napoli, e come i suoi ufficili pensava che Napoli fosse una città di “lumpen”. Di sottoproletari da annientare». Solo odio e razzismo? «No prosegue Abdon anche strategia. Far trovare Napoli distrutta agli Alleati che risalivano da sud. Un’enorme problema civile e logistico che avrebbe danneggiato l’avanzata. Invece la rivolta salvò la città, preservando le fabbriche e Bagnoli».
E siamo al cuore delle Quattro Giornate. Il popolo «incivile» insorge e «si leva gli schiaffi dalla faccia», per dirla in dialetto. Dà una lezione militare ai tedeschi, con un miracolo, spontaneo e strategico al contempo. Dopo l’ennesima uccisione di militari italiani 8 prigionieri in via Console e 4 marinai e finanzieri al Palazzo della Borsa e una retata di 8mila uomini il 27 settembre cinquecento napoletani armati aprono i combattimenti. Al Vomero, a Castel Sant’Elmo,
A Porta Capuana, a Capodimonte. Prima e durante il 27 vengono saccheggiati importanti depositi di armi. A Materdei, Vasto, Monteoliveto, e Maschio Angioino, ci sono scontri e posti di blocco armati. Dalle case piove di tutto sui tedeschi: dalle bombe alle suppellettili. Una resistenza grandiosa e formicolare, quasi impossibile, tosta e «organizzata».
Ma come e da chi? «La lotta spiega Alinovi cresce in progressione su se stessa. Si moltiplica ed è fatta da tante componenti distinte, che si mescolano: studenti e professionisti, militari, operai già antifascisti, popolo, donne, scugnizzi». Sono
tante figure locali ecco il punto che assumono il comando delle operazioni nei vari quartieri della città. Capipopolo che si coordinano e comunicano veloci tra di loro. In prima linea al comando, ci sono i militari che non hanno mollato, «come il tenente Enzo Stimolo, che a capo di 200 insorti saccheggia l’armeria di Sant’Elmo e impone la liberazione di numerosi ostaggi internati al Vomero». Una scena divenuta famosa col film di Nanni Loy del 1962 (tratto da un bellissimo libro di Aldo De Jaco).
Il 30 settembre racconta sempre Abdon i tedeschi «sgombrano e il professor Tarsia in Curia si proclama capo dei ribelli. Escono dalla città con la bandiera bianca ma faranno stragi nel Casertano e dopo aver appiccato il fuoco alle carte dell’Archivio di Stato nella Villa Montesano di San Paolo Belsito». Il primo ottobre arrivano gli Alleati. E i fascisti dov’erano? «Spariti in quei giorni oppure delatori, dopo che Scholl per un giorno fece riaprire il Pnf da un avvocato che si dileguò. Isolati e disprezzati!». Conclusione di Alinovi: «Le Quattro Giornate aprono ufficialmente la Resistenza dentro la fine della guerra europea. Anticipano la valanga di lotta appeninica, e danno l’esempio a Firenze, Genova, Ravenna, Milano, Torino». Conclusione nostra: quella fu la Resistenza nel suo nucleo più vero: guerra di Liberazione contro la guerra ai civili nazifascista. E fu Napoli a suonare la campana.

Repubblica 26.9.13
Politica e nichilismo
Quel mostro antico e nuovo che uccide la democrazia
Denaro che crea denaro che crea potere che crea denaro... Ecco l’uroboro, il serpente mitologico che si morde la coda e soffoca la Polis
di Gustavo Zagrebelsky


Si inaugura oggi a Piacenza la sesta edizione del Festival del diritto in programma fino a domenica 29. Anticipiamo l’intervento di Zagrebelsky che sarà oggi alle 18 alla Sala dei Teatini con Stefano Rodotà. Tra gli ospiti, Enzo Bianchi, Remo Bodei, Laura Boldrini, Ilvo Diamanti, Carlo Galli, Gad Lerner, Antonio Spadaro, Nadia Urbinati

Un’immagine che può, forse, costituire una sintesi efficace e può fornire qualche suggestione è quella dell’uroboro, immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò ch’essa contiene, nutrendosi di se stesso (dal greco ouròboros, dove ouràsta per “coda” eboròsstaper “mordace”, aggettivo riferito al serpente). Quest’immagine, ricca di significati analogici e metaforici, sfruttata dalla filosofia dell’eterno ritorno e dalle visioni esoteriche dell’uno immutabile e autosufficiente, una volta che sia spogliata di questo sovraccarico, può bene definire il rapporto tra denaro e politica, nei termini di uno scambio di ritorno e di reciproco sostentamento. Il potere sostiene e rivitalizza il (procacciamento di) denaro e il denaro sostiene e rivitalizza (l’acquisizione e il mantenimento de) il potere.
C’è poi un aspetto proprio del circolo denaro-potere, che deriva dalla circostanza che, nell’economia finanziarizzata, il denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento di se stesso: denaro che si produce dal denaro. C’è qui un carattere non del denaro come tale, ma dell’antropologia, per così dire, dell’uomo di denari: «crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit» (Giovenale, Satire, V, II, 140-1, che aggiunge: «Et minus hanc optat qui non habet»). Il libero mercato dei capitali è l’humus astratto ideale di quest’aspirazione crescente. Per questo, mentre l’uroboro-serpente è sempre uguale a se stesso, l’uroboro- sistema politico finanziario tende di per sé ad assumere proporzioni sempre maggiori e incombenti sull’ambiente in cui si sviluppa, traendone risorse incrementali.
Per rimanere nell’immagine, la tendenza alla crescita significa innanzitutto ch’esso stringe sempre più strettamente le sue spire sulla società, impoverendola delle sue risorse per finalizzarli ai propri scopi di crescita; in secondo luogo, ch’esso modella la società e le sue divisioni alla stregua delle sue esigenze riproduttive, secondo una tripartizione o, meglio, secondo tre cerchi concentrici. Coloro che stanno nel serpente sono i privilegiati del potere e del denaro, i quali, con funzioni diverse (politiche, ideologiche, tecnico-esecutive, avvocatesche), stanno e lucrano all’interno dello scambio denaro- potere. Attorno a loro, stanno coloro che operano per fornire loro l’humus materiale necessario, in ciò che resta della “economia reale”. In una sorta di servitù volontaria, costoro collaborano a mantenere in piedi un sistema di potere, subendo restrizioni nel loro tenore di vita, nelle condizioni di lavoro, nella disponibilità di servizi, nella sicurezza e nella previdenza sociale: sistema di potere che, pur sfruttandoli a un ritmo crescente, li vede quali vittime colluse perché, e fino a quando, li protegge dal rischio d’essere cacciati nel terzo cerchio. Nel terzo cerchio stanno gli inutili, i reietti, i disoccupati, abbandonati a se stessi come zavorra che non ha diritto di appesantire le altre parti della società, di frenare o impedire la “crescita”: parola-chiave dell’uroboro.
Il ciclo denaro-potere-denaro è, o mira a diventare, totalmente e assurdamente autoreferenziale. Ciò significa ch’esso trova pienamente in se stesso la ragione del suo essere in azione. È mezzo e fine al tempo stesso. Se noi volessimo cercare una definizione potente e adeguata di nichilismo, diremmo proprio così: non semplicemente la mancanza di scopi, che di per sé significa semplicemente insensatezza, irrazionalità, gusto del bel gesto, cinismo, ma la coincidenza dei mezzi e dello scopo. Così avremmo una definizione dotata di terribile razionalità: la pianificata e consapevole direzione verso l’illimitata dilatazione di sé, nell’ignoranza e nell’indifferenza rispetto a ciò che sta attorno. O, meglio, nell’ignoranza e nell’indifferenza fino al momento in cui ciò che sta attorno, nel suo ribollire, incomincia a rappresentare un pericolo per la propria autoriproduzione.
Abbiamo udito, e forse qualcuno si ricorda, l’affermazione d’un uomo di governo “tecnico”: in autunno, ci aspettano pericolose agitazioni sociali; ergo occorre intervenire con qualche misura di equità. Un governo non nichilistico avrebbe detto: la società è inquieta, tensioni sociali la percorrono; dobbiamo comprenderne le ragioni e dalle ragioni procedere per promuovere la giustizia. Se lo scopo è evitare le perturbazioni, non si esce affatto dall’autoreferenzialità; anzi, la si conferma e se ne rafforzano le cinte. Nella stessa logica, le perturbazioni possono essere attenuate o sconfitte non solocon qualche misura d’equità adottata in stato d’emergenza, ma anche, se del caso, nella stessa logica emergenziale, con la repressione. In ciò si mostra la vena autoritaria d’ogni sistema di governo nichilistico, alias autoreferenziale.
Nel nichilismo e nell’autoreferenzialità, nel cerchio chiuso di potere e denaro, non c’è posto per la politica. C’è posto solo per il cieco dominio che rifiuta d’interrogarsi sul senso del suo esistere. È puro non-senso. C’è da stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica, sempre meno attragga la maggioranza dei cittadini, coloro che sono fuori del cerchio? Come suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni di un nuovo patto tra cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le ragioni di quel divorzio!
La democrazia è forma della politica e la politica è la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore. Nel mondo antico, la sostanza della politica era la pòlis, un concetto pieno di contenuto spirituale. Per tutti, la pòlis era la “giusta città”, di cui gli uomini liberi erano fieri, nella quale volevano vivere e per la quale erano pronti a grandi sacrifici. Pericle ne fa l’elogio celeberrimo, nell’epitaffio per i morti del primo anno della guerra peloponnesiaca (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 35-46). Al di là dell’enfasi, dell’autocelebrazione, dell’interessata edulcorazione o, addirittura,dello stravolgimento della realtà, in quel discorso c’è un dato profondo, una verità perenne: se il potere non si dà un fine che lo trascende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona dei cittadini in generale, quale ch’essa sia, non c’è politica e tantomeno ci può essere democrazia. Lo ribadisce, in un passo altrettanto celebre di Le supplici di Euripide, Teseo, rivolgendosi all’araldo, figura rappresentativa di tutti i dispotismi vuoti di senso, che pretendono dai sudditi l’ubbidienza per l’ubbidienza, indipendentemente dalle buone ragioni che possano invocarsi per esigerla.
Nel tempo nostro, non c’è una pòlis, giusta città per natura e necessità, che a noi tocchi di riconoscere, difendere e accrescere. Tutto è stato distrutto, tutto è rimesso alle nostre mani e alle loro cure; tutto deve essere ricostruito. Quando la vita politica non è più un dato della natura, come l’aria, il suolo e il clima, ma deve essere costruita e ricostruita, il progetto della giusta città è quella cosa che decidiamo insieme che debba essere e che chiamiamo “costituzione”.
Si dirà: allora siamo salvi! Una Costituzione, l’abbiamo e, per di più, tutti, o quasi tutti, le prestano ossequio. Si discute — è vero — dell’opportunità di modificare le forme della politica ma, almeno sulla sostanza, cioè sui principi e sui fini del nostro stare insieme — quelli indicati nella prima parte della Costituzione — tutti si dicono concordi. Nessuno (o quasi nessuno) propone modifiche.
Non c’è verità in queste parole. I principi e i fini della Costituzione possono essere lasciati stare, tali e quali sono scritti, per la semplice ragione che li si può ignorare, come se non esistessero. Che ne è del lavoro come diritto; dei doveri di solidarietà sociale; dell’uguale dignità di tutti i cittadini; dell’ambiente come patrimonio comune; della funzione sociale della proprietà; degli obblighi tributari che devono ispirarsi alla progressività; dei diritti sociali come l’istruzione, la salute, la protezione dei più deboli? Sono solo esempi. Le norme che parlano di queste cose tracciano le linee di una “buona città”, quale abbiamo voluto stabilendo una Costituzione. Ma possono essere lasciate tranquille, perché si può far finta che non esistano. Esse, per diventare realtà operante, richiedono politiche adeguate e le politiche si fanno secondo le forme. Le forme sono previste nella seconda parte della Costituzione, e, queste sì, molti vorrebbero cambiarle profondamente.
Chi sono questi “molti”? Se sono coloro che, al più o al meno,stanno nel cerchio più profondo della società, quello del connubio potere-denaro, possiamo pensare che agiscano per darsi gli strumenti per spezzarlo e dare spazio alla politica, oppure è più facile sospettare che l’operazione ch’essi hanno in corso serva a stringerlo ancora di più? Rafforzare il governo e deprimere il parlamento, confidare nella “decisione” e diffidare della “partecipazione”, a che cosa può servire, nel momento del disfacimento e del pericolo che, insieme alla democrazia, minaccia le immobili oligarchie del potere e del denaro, incapaci di uscire dalla loro crisi senza un colpo alla Costituzione?

Repubblica 26.9.13
Eugenio Scalfari nell’incontro tra laici e credenti al “Cortile dei giornalisti” promosso da Ravasi
“È un papa rivoluzionario. Non ci sarà un Francesco II”
di Marco Ansaldo


Quanto sia importante la fede, o la mancanza di fede, nella vita dell’uomo è un concetto chiaro a tutti. Ma quanto può essere efficace l’uso di semplici parole religiose nella pratica di tutti i giorni? Moltissimo, spiega il cardinale Gianfranco Ravasi, che non è soltanto il ministro della Cultura vaticano, ma un teologo finissimo. «È curioso notare – rivela infatti questo instancabile propulsore di iniziative di dialogo a cavallo di più mondi – come il linguaggio informatico abbia mutuato i termini di noi teologi: icona, convert, justify». E allora perché non tentare di abbattere quelle barriere che ancora esistono tra informazione e religione, sfruttando proprio il piano della comunicazione? Chi sta cominciando a farlo con padronanza del mezzo è Papa Francesco. «È una figura rivoluzionaria. Temo non ci sarà un Francesco II», ha detto ieri Eugenio Scalfari. La recente lettera del Pontefice al fondatore diRepubblica e l’intervista aLa Civiltà Cattolica aprono un fronte nuovo, corroborato l’altro giorno dalla lunga risposta inviata dal suo predecessore Benedetto XVI allo scienziato ateo Piergiorgio Odifreddi, anch’essa pubblicata sul nostro giornale.
Di tutto questo Ravasi e Scalfari hanno parlato ieri al Tempio di Adriano a Roma, nel Cortile dei giornalisti, ultimo nato degli incontri fra credenti e atei organizzati dal Pontificio Consiglio della Cultura. Un dibattito vivace che ha visto in maniera inedita – e di questo va dato merito a padre Laurent Mazas, direttore esecutivo del Cortile dei gentili – la presenza di tutti i direttori delle principali testate giornalistiche quotidiane.
Ma nel confronto tra fede e ragione – è stato chiesto a Scalfari – c’è un percorso da fare insieme? «Per ragioni personali devo molto ai gesuiti – ha risposto il fondatore diRepubblica– e però sono innamorato dei francescani. Tutto questo mi ha posto il problema per quale motivo voi cattolici, dal Concilio Vaticano II, avete molta voglia di parlare con i non credenti. E poi mi sono posto il controproblema: perché i non credenti laici hanno voglia di parlare con voi. È, questa, la ricerca della verità. Che non si mette in tasca come un sasso, ma va appunto cercata. Che cosa dice Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso. E lui nella crocifissione rinuncia all’amore per sé, per poter riscattare l’uomo. È vero, noi non possiamo rinunciare all’amore per noi stessi, ma io mi accontenterei se lo pareggiassimo con quello per il prossimo. Perché da diverso tempo l’amore per il prossimo è molto diminuito rispetto a quello per noi stessi. E il tasso di narcisismo oggi è patologico. Sono molto interessato a questo Papa, non solo per quello che dice, ma per come vive la persona di Papa. Temo che non ci sarà un Francesco II».
Di seguito, il direttore diRepubblica, Ezio Mauro, ha battuto sul tasto della responsabilità. «Che declino in due parole diverse – ha detto – onestà nei confronti dei lettori e della propria redazione; e ricerca del significato delle cose. Nel momento in cui nel flusso dell’informazione in rete un saggio di Habermas e uno sberleffo di 140 caratteri vengono messi sullo stesso piano, il giornale costruisce ogni giorno una sorta di Cattedrale in cui si può trovare il senso della giornata precedente. Oggi le notizie sono delle “commodity”, ma il giornale è un’altra cosa, non un semplice contenitore: deve far capire quello che è accaduto. Perché c’è una differenza tra l’essere cittadini informati, e l’essere invece cittadini consapevoli».
Mauro si è quindi soffermato sulla figura di Francesco, i suoi segni, i suoi gesti. «Un Papa – ha detto – che ha bisogno delle persone. Che mentre appare al balcone ed è appena vestito della dignità papale chiede aiuto al popolo. Poi rinuncia agli appartamenti papali, e nell’intervista aLa Civiltà Cattolica spiega che sono un imbuto che lo escludono dalla comunità in cui vuole stare, e qui c’è un rimando alla prima comunità dei cristiani ». Tutti questi gesti acquistano allora un significato coerente che sta nella scelta del nome, Francesco, «che lo obbliga terribilmente ». Però, oggi, la croce che «prima il Papa brandiva quasi come un monito: pentitevi », viene adesso aperta nell’abbraccio: «C’è l’accoglienza, l’interesse, l’amore per l’uomo. L’impronta umana di Cristo. E Cristo è relazione con gli altri, e tra gli altri ci siamo anche noi». Ai giornalisti il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, ha quindi raccomandato di non sentirsi mai «depositari della verità» e di farsi accompagnare dal «beneficio laico del dubbio». Mario Calabresi (La Stampa) ha invece affermato di «non credere alla verità assoluta dell’informazione, ma alla presentazione delle cose per quello che sono e nelle loro dimensioni corrette, il che è l’esatto contrario del sensazionalismo e dello scandalismo». Secondo Roberto Napoletano (Il Sole 24 ore)«la ragione allarga il suo orizzonte con la fede, perché la fede ti sorprende, ha lo sguardo sull’abisso». Per Virman Cusenza (Il Messaggero) come Bergoglio anche «il giornalista deve andare alle “periferie culturali”».
Il confronto, presente il direttore diAvvenire, Marco Tarquinio («quello che è accaduto » con l’elezione di Francesco – ha detto – «è certamente un qualcosa di storico, c’è stato un rivoluzionamento degli sguardi sui gesti della Chiesa, dovuto al grande carisma del nuovo Pontefice ma anche al grande gesto di Benedetto XVI») , è proseguito con citazioni bibliche. Il suggello, alla fine, lo ha messo il direttore dell’Osservatore Romano,Giovanni Maria Vian: «Il giornale – ha affermato – è la Bibbia laica. Ma molto più interessante è la Scrittura Sacra vera».

mercoledì 25 settembre 2013

La Stampa 25.9.13
Iniziativa dei gesuiti nell’ambito di Torino Spiritualità:
«Il corpo in movimento torna nel rito cattolico»
Domenica debutta la messa ballata
di Sandro Cappelletto


Non sarà uno spettacolo durante la Messa. Ma una coreografia che accompagnerà la Messa, un rito che si unirà a un altro rito. Domani e domenica 29, in due incontri promossi da Torino Spiritualità, la danza tornerà a essere parte integrante di una funzione liturgica della Chiesa cattolica. «Non accade da secoli, da quando la fisicità e la corporeità della fede sono state come imprigionate. Pensi ai banchi delle chiese: rendono impossibile qualsiasi movimento, qualsiasi gestualità che non sia stare in piedi, seduti, in ginocchio».
Eugenio Costa, genovese e gesuita, musicista e liturgista, una lunga esperienza di parroco a Torino e Milano prima di venire chiamato a lavorare nella casa generalizia dell’ordine fondato da Ignazio di Loyola, ammette: «Ci stiamo pensando da anni, Roberta e io, ma abbiamo preso coraggio dopo aver visto i vescovi accennare dei passi di danza, per la verità un po’ goffi, durante la recente visita del Papa in Brasile».
«Il momento è finalmente arrivato - dice padre Costa - però non abbiamo ancora detto nulla ai nostri vicini di casa», confida, con soave astuzia, indicando col braccio alla sua destra: a pochi metri dalla sede centrale dei Gesuiti a Borgo Santo Spirito a Roma, inizia il territorio dello Stato del Vaticano.
Roberta, è Roberta Arinci: studi di danza classica occidentale da bambina e poi molti anni passati a scoprire la danza classica indiana, per imparare a comprendere la ritualità, la sacralità dei movimenti. «Entrare a capo chino, eseguire in silenzio e per amore, uscire in punta di piedi»: questo il motto di Ars Bene Movendi, il gruppo, milanese e tutto femminile, di danza liturgica da lei fondato e attivo già da alcuni anni nella Parrocchia di San Fedele.
Il gesuita e la danzatrice sanno di non avere precedenti ai quali ispirarsi; detestano «le sbandierate, le lenzuolate, lo sgraziato sgambettare, l’atmosfera da stadio dei gruppi carismatici che nulla hanno a che fare con la sacralità di una funzione». Padre Costa ricorda, quasi come unico esempio superstite, i «dodici Kyrie» del rito ambrosiano, quando i celebranti assumono atteggiamenti che richiamano dei gesti coreografici. Sanno anche che le gerarchie ecclesiastiche europee «hanno imposto una secolare rimozione della fisicità, per il prevalere di una cultura che ha penalizzato il corpo. Ma che pericolo c’è se riportiamo il nostro corpo nella preghiera, come già accade in tante funzioni celebrate in Africa e in Sud-America? »
E dunque sono consapevoli dell’opportunità che viene ora offerta al loro lavoro. Giovedì sera, alla Cavallerizza Reale, la Arinci, accompagnata da musica e canto, interpreterà danzando quattro temi biblici: la Genesi, l’Annunciazione, il miracolo del cieco di Gerico, la Passione. Domenica, durante la messa delle 11,30 nella chiesa di San Filippo, lei e il suo gruppo, indossando un sari arancione e una stola che richiama il prescritto colore liturgico, «con movimenti sobri, eleganti, dignitosi», scandiranno cinque momenti della Messa: Gloria, Alleluja, Sanctus, Agnus Dei, Inno dopo la comunione.
«Vogliamo evitare che la nostra preghiera - perché questa danza è una preghiera - venga percepita come un corpo estraneo. Il desiderio è che un domani tutta l’assemblea dei fedeli accetti di fare un passo, di unirsi a noi».
Perché questo accada, bisognerà rivoluzionare la disposizione attuale: via i banchi, tutto lo spazio occupato dall’assemblea lasciato libero perché i fedeli possano muoversi, danzare il rito. Se c’è un Papa che può capire la sfida, sembra proprio l’attuale: gesuita, argentino, molto fisico nel modo di porsi, spregiudicato e stratega quanto occorre.

La Stampa 25.9.13
Il debutto fra tre mesi, ad aprile l’arrivo a Roma nei giorni della canonizzazione
E San Wojtyla diventa un musical
di Giacomo Galeazzi


Sul palcoscenico le memorie in musica del Papa che ha abbattuto il Muro di Berlino e che in gioventù aveva calcato le scene nel teatro clandestino, forma di resistenza culturale all’occupazione nazista. Sette decenni dopo, la storia di Giovanni Paolo II scorrerà sotto i riflettori durante i giorni della canonizzazione creando una coincidenza particolare, quasi un segno che invita all’ascolto. La narrazione parte dall’attentato a San Pietro. Sospeso tra la vita e la morte, i ricordi riaffiorano riportando il Papa all’infanzia. In 120 minuti si snodano gli episodi più significativi.
La biografia del neo-santo diventa musical («Karol Wojtyla - La vera storia»), per la regia di Duccio Forzano, le musiche originali di Noa, Gil Dor e i Solis String Quartet e le coreografie di Marco Sellati. L’opera, che debutterà tra tre mesi toccando anche Torino, Palermo, Milano, Bologna, chiuderà il tour ad aprile al Brancaccio di Roma, in contemporanea con la cerimonia in Vaticano, forse concelebrata da Ratzinger, con cui Francesco eleverà agli onori degli altari il predecessore polacco.
«Ho incontrato Wojtyla solo una volta: un’esplosione di luce», racconta Duccio Forzano. Un’energia trasmessa a un’opera in due atti tra proiezioni, parti recitate e tanta musica. Oltre ai venti pezzi dei Solis String Quartet, cinque saranno i brani originali scritti da Noa, più l’«Ave Maria» di cui l’artista israeliana ha modificato il testo. «Ho cantato per il Papa 19 anni fa - rievoca Noa -. Poi lo ho rivisto molte volte: mi chiedeva della situazione in Israele e legava la pace al dialogo tra i popoli. Non sono religiosa, credo nei valori laici umani. Spesso le fedi sono andate in direzioni distruttive, ora la musica può riportarle alla generosità e alla bontà».
Tra i pezzi che Noa ha scritto anche «Love», uno struggente inno all’armonia globale. «Mi ha ispirato la capacità di Giovanni Paolo II di valorizzare gli elementi che uniscono invece di quelli che dividono». Gli episodi di vita del bambino «Lolek», come veniva chiamato in famiglia, e quelli del giovane Karol che lo porteranno a sentire la chiamata di Dio, sono stati ricostruiti con l’aiuto di Paloma Gomez Borrero, al seguito del Papa nei 104 viaggi compiuti nei 27 anni di pontificato. «Era un esperto in umanità - sostiene le giornalista spagnola -. Appena arrivò disse: “Voglio diventare lo spazzino del mondo, lasciare le strade pulite affinché possano entrare l’amore e la pace”».
Dopo l’Italia, lo spettacolo raggiungerà il Sudamerica. «Affrontiamo la storia con un approccio laico - puntualizza il produttore Mauro Longhin -. Ricostruiamo le vicende di un ragazzino di 9 anni, nato in un momento storico particolare, che ha preso i voti perché ispirato non da un sacerdote ma da un sarto. Racconteremo gli aneddoti della sua vita, cercando di trasmettere il messaggio di fratellanza e unità dei popoli».
Del giovane Karol vengono approfonditi gli affetti, la guerra, la mamma Emilia, il padre militare, il fratello Edmund che lo abbandona per andare a fare il medico. Tutti elementi che lo hanno formato, fino a condurlo sulla strada del Soglio di Pietro. Wojtyla verrà interpretato da tre attori in tre età diverse: a 9 anni sarà il piccolo Alessandro Bendinelli, a 20 Mike Introna e infine a 50 Massimiliano Colonna. La mamma sarà interpretata da Barbara Di Bartolo, il padre da Simone Pieroni e il fratello da Roberto Rossetti. Nella natia Wadowice dove «tutto è cominciato», sulle note della musica «Lolek» torna in scena.

«Con la lettera del Pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra “credenti” e “non credenti” è giunto a una svolta di grande importanza e interesse»
Corriere 25.9.13
Se Cesare non è dalla parte di Dio
Il problema dell'assoluto e l'eterno scontro tra legge e dottrina
di Emanuele Severino


C on la lettera del Pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra «credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata. Anche da parte di chi è soltanto uno spettatore — che però, come me, sia interessato al problema. Il Pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole, anche, il desiderio dei due interlocutori di confrontarsi con ciò in cui non credono. Proprio per l'importanza di questa inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi.
Il Pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato». Il Pontefice risponde: «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro». Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì parlato di «verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che non è «variabile e soggettiva». E il Papa gli risponde che no, non è variabile e soggettiva: «Tutt'altro». In questo modo, la domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa (confrontare la recente enciclica Lumen fidei, La Scuola, 2013).
A sua volta Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo, ha lodato l'innovazione di papa Francesco rispetto alla costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto per il suo rifiuto del concetto di verità «assoluta»). Ma lo loda per qualcosa che papa Francesco si è ben guardato dal sostenere. «La verità è variabile e soggettiva?», chiedeva Scalfari. «No!», risponde il Pontefice: «Tutt'altro!».
Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori, vorrei segnalare, e ben più importante... Dopo aver scritto che la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per l'esclusione», il Pontefice aggiunge che «da ciò consegue anche — e non è una piccola cosa — quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente». Non mi consta che finora Scalfari abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso sarebbe il silenzio a favorire l'equivoco.
Da quasi cinquant'anni (che rispetto alla storia dell'Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che quel detto evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», nega tale distinzione. Non ho mai ricevuto una risposta adeguata — e mi sembra grave —; mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche su queste colonne. Se qui debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come d'altra parte non vergognarmi di doverlo fare ancora una volta?
Domandiamo a Gesù se a Cesare — cioè allo Stato — si possa dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di no! Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria. Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico); con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e cattoliche).
Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi — come spesso si dice, ma senza accorgersi della connessione tra questo dire e il detto di Gesù — è necessario che il peccato (l'agire contro Dio) sia anche delitto (l'agire contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che nell'al di là. Ma in questo modo la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica» che, anche secondo questo Pontefice, dovrebbe essere conseguenza di quel detto, è invece radicalmente negata da questo detto. Certo, l'intenzione di Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli afferma è inevitabilmente la riduzione della sfera politica a quella religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare l'inconciliabile: vuol conciliare la distinzione tra politica e religione con la loro reciproca opposizione (giacché anche la politica che non crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare).
Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz'altro ragione il pensiero laico, che vuol tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il comando di Gesù non conduce là dove comunemente si crede. L'estremismo islamico che massacra i cristiani non è forse la conseguenza ultima della convinzione che nella società non si debba consentire ciò che — come le altre fedi — è contro il Dio in cui si crede? E viceversa, nel fanatismo degli amici di Cesare (vedi rivoluzioni francese e bolscevica) non si massacrano i credenti in nome del principio che non si debba dare al loro Dio ciò che è contro Cesare?
Nel dialogo tra Scalfari e il Pontefice i problemi che ho indicato non sono gli unici. I più importanti stanno più in fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla tutela della chiarezza del dialogo.

Corriere 25.9.13
La Fede coniugata con la Ragione, Ratzinger dialoga coi non credenti
di Gian Guido Vecchi


C'è tutto Joseph Ratzinger — la mitezza così lontana dall'immagine da tempo logora dell'inquisitore, l'acribia del grande teologo che replica syn logo, secondo ragione, alle obiezioni più dure — nella lettera che Benedetto XVI ha scritto al matematico «miscredente» Piergiorgio Odifreddi come risposta al libro Caro Papa, ti scrivo (Mondadori, 2011). Del resto, è straordinario il fatto stesso che Benedetto XVI, ritirato nel monastero Mater Ecclesiae, abbia scritto una lunga lettera ad uno degli autori più aspri e polemici nei confronti della Chiesa e della stessa religione, e basterebbero la «sorpresa» e «l'emozione» nel racconto che lo stesso Odifreddi, assieme a stralci della lettera (il testo integrale apparirà in una nuova edizione del suo libro) ha pubblicato ieri su La Repubblica: «Aprire la busta e trovarci 11 fitte pagine, che iniziavano con una richiesta di scuse per il ritardo nella risposta...».
L'approccio è quello del «Cortile dei Gentili» voluto dallo stesso Benedetto XVI, lo spazio di dialogo con i non credenti, e più in generale tra fede e ragione, che proprio stamattina si riaprirà a Roma, nel tempio di Adriano, con la riflessione del cardinale Gianfranco Ravasi e dei direttori dei principali quotidiani italiani. E in questo senso è inevitabile notare la continuità con il successore e la lettera scritta da papa Francesco a Eugenio Scalfari. Comune ai due Pontefici, del resto, è anche l'idea di una verità che non si possiede mai compiutamente: piuttosto «è essa che ci abbraccia e ci possiede». Resta tuttavia, anche per la differenza tra gli interlocutori, lo stile inconfondibile di Ratzinger nel ribattere punto su punto alle contestazioni di Odifreddi, che gli aveva fatto avere il suo scritto.
Il Papa emerito che analizza attento il libro, riconosce di «aver letto alcune parti con godimento e profitto» e insieme replica secco: «Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico». Che parla della «sofferenza» per l'abuso sui minori nel clero ma chiarisce: «Mai ho cercato di mascherare queste cose». Che obietta: «La Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male».
Se Francesco incentrava la sua risposta sulla «misericordia», Ratzinger cerca un dialogo nel riconoscimento franco e argomentato delle differenze. A partire dalla sua convinzione fondamentale, espressa nel celebre discorso di Ratisbona: «Non agire secondo ragione, syn logo, è contrario alla natura di Dio».

Repubblica 25.9.13
Parla il presidente del Pontificio consiglio della cultura che oggi apre il Cortile dei Gentili con Eugenio Scalfari
Tra Fede e Ragione
Il cardinale Ravasi “Vi spiego perché i Papi scrivono ai laici”
intervista di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO Cardinale Gianfranco Ravasi, Papa Francesco e Papa Benedetto scrivono ai giornali e concedono interviste. E oggi lei trasforma il Cortile dei Gentili, la sua iniziativa di dialogo fra credenti e atei, nel Cortile dei giornalisti. Sta cambiando qualcosa nel rapporto tra informazione e Chiesa?
«Vorrei rendere questi nostri incontri sempre più profondi e vivaci. Il primo in assoluto fu quello dei diplomatici, un po’ inamidato. Ora questo dei giornalisti, a maggior ragione dopo le lettere inviate da Francesco e da Benedetto XVI e pubblicate suRepubblica, dovrebbe essere un modello più dinamico. Un confronto a muso duro se è il caso, in cui si obietta, si danno delle visioni. Oppure dei consigli, non necessariamente polemici, ma che siano incisivi».
Nella lettera a Piergiorgio Odifreddi, Joseph Ratzinger scrive appunto che «del dialogo fa parte la franchezza». Condivide?
«Di più. Direi che certe volte all’interno del dialogo è necessaria la precisazione rigorosa. Quella di Benedetto è anche una lezione, non soltanto per noi che operiamo nel mondo della cultura, ma anche per la pastorale in senso lato. Il pastore non deve aver paura di entrare nella piazza, nel groviglio della comunicazione attuale ».
Che cosa intende dire?
«Che il dialogo non deve costituire di per sé una sorta di Onu, di assemblea generale per cui alla fine si cerca di trovare comunque un accordo. Ci può essere anche un confronto aspro e serrato, nel riconoscimento delle diversità. E ci deve essere, come la lettera di Benedetto XVI dimostra, la presa in carico di misurarsi con contestazioni radicali, che qualche volta rischiano di essere anche schematiche o superficiali».
Come si svilupperà il confronto di oggi?
«È stato concepito su tre livelli. Il primo è il nostro, mio e di Scalfari (Sorride, ndr). Quello dei cardinali…».
Cardinale Scalfari?
«Cardinale laico, allora. Lui ha scritto più di una volta su di me, perché leggeva sempre i miei interventi sui giornali».
Di che cosa parlerete?
«Faremo il cappello introduttivo. Quindi toccherà ai direttori dei giornali nei due livelli riservati all’approfondimento. Io affronterò l’informazione religiosa, e vorrei anche criticare un certo stile. Poi mi piacerebbe soffermarmi sulla nuova modalità di comunicazione introdotta da Papa Francesco».
Bergoglio ha una presa incredibile sulla gente.
«Se legge i discorsi di Francesco, lui procede sempre per coordinate. Mentre Benedetto è il trionfo della subordinata: che è la cosa che piace a noi. Diciamo piace a me. Ma quando Bergoglio è alle prese con una frase scritta, articolata, allora taglia, si mette a spiegarla. La ripete quasi in maniera brutale: “Mai più la guerra!».Oppure: “L’odio no!”».
E poi segue l’immagine. È così?
«Segue il simbolo. Una componente capitale del linguaggio. Chi è capace di usare bene i simboli, convince. Ad esempio, questa storia delle “periferie” di cui parla il Papa, è un simbolo. E così l’“odore delle pecore”».
O l’immagine dell’intervista concessa alla Civiltà Cattolica:«Vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo la battaglia».
«È vero, più di così… Ma guardi, Cristo per comunicare ha già usato la televisione e i tweet. E i suoi discorsi sono redazionali, perché mettono insieme delle frasi ».
In che senso?
«Il Discorso della montagna. Si tratta di una serie di interventi che Gesù ha fatto in momenti diversi: 35 parabole. Che cos’è questo, senon televisione? Oppure il figliol prodigo: che fugge, mangia coi porci, se la gode con le prostitute, poi torna. Ci si legge una sceneggiatura».
E i tweet?
«La prima predica di Cristo, se stiamo al testo greco, in Matteo, è in poco più di 30 caratteri, con gli spazi arriveremo a 40. Con Marco, un po’ più lungo, arriviamo a 70-80. Sono tweet. E c’è tutto. La prima predica è la dimensione teologica in due parole: “Il regno di Dio è vicino. Convertitevi”».
La Chiesa dunque dovrebbe essere facilitata. E invece a volte sembra non farsi comprendere.
«Questo è il compito. La Chiesa invece si è dispersa».
Però, adesso, con Francesco, c’è uno scarto.
«C’è uno spirito nuovo. Le racconto un aneddoto. Un paio di settimane dopo il Conclave, camminavo sul Lungotevere. Un’auto accosta sotto i platani, un uomo tira giù il finestrino e mi fa: “Ah, la conosco. Guardi, sono ateo, però le dico: siete stati bravi, avete fatto in fretta, avete fatto un Papa davvero in gamba. Io continuo a non credere in Dio. Però… comincio ad avere qualche dubbio sull’esistenza dello Spirito Santo”».
La scelta caduta su Bergoglio ha colpito. Con noi giornalisti dialoga a tu per tu in aereo. Si confronta in maniera epistolare con Eugenio Scalfari. Concede interviste. E anche Benedetto XVI, con la sua lettera in risposta al libro di Odifreddi si apre al confronto.
«Al fondatore di Repubblica voglio dire questo. Una volta l’ho visto in tv affermare: “Io e Calvino quando siamo arrivati alla maggiore età abbiamo scoperto Atena, e siamo diventati suoi discepoli”. Voleva dire, della ragione. Ecco, lui lo diceva come alternativa rispetto alla fede. Ma allora sono per metà pagano anch’io, metà ateo, perché anch’io sono un devoto di Atena. Da studente, anzi, avevo una passione straordinaria per Platone. Questo per dire che nell’esperienza di uno che crede, la ricerca di senso non si esaurisce con la fede. Atena non è alternativa a Cristo. E vorrei dirgli un’altra cosa: Scalfari dice che non cerca Dio. Però riterrei più significativo che, se vuol essere discepolo di Atena, dovrebbe invece cercarlo. Perché se si pone quelle domande, sono domande teologiche».
Allora c’è meno diffidenza, oggi, fra i nostri due mondi, quello dell’informazione e quello della religione?
«Molti vedevano l’esistenza di un’incompatibilità, qualche volta reciproca: perché il giornalista aggrediva e quell’altro si rinserrava. Ma ora si è girata pagina. E questo è un altro merito da ascrivere a Papa Francesco. Sono convinto che senza il confronto con l’area della comunicazione, o sei in una catacomba, oppure fuori del mondo. Mentre il cristianesimo sta dentro il mondo. L’atmosfera è cambiata: puoi anche dire che non ti interessa la televisione, ma è ormai la televisione che ti attraversa, tutto è ritmato dall’online. La Chiesa non può restarne fuori».

Il convegno oggi a Roma

Il cardinale Gianfranco Ravasi ed Eugenio Scalfari aprono stamattina a Roma, al Tempio di Adriano, un’edizione del 'Cortile dei Gentili', l'iniziativa voluta da Ravasi, dedicata ai giornalisti. Tre i momenti chiave: il confronto fra Ravasi e Scalfari; un dialogo tra Ezio Mauro, Ferruccio de Bortoli, Roberto Napoletano e Mario Calabresi; e un dibattito con Fiorenza Sarzanini, Marcello Sorgi, Virman Cusenza, Giovanni Maria Vian, Marco Tarquinio e Maarten van Aalderen.

Repubblica 25.9.13
Corrado Augias
La comunicazione dopo Bergoglio
La novità di Ratzinger


PERCHÉ i papi scrivono? Per di più ai non credenti? Avvalendosi di un canale di comunicazione come Repubblica di cui sono note le posizioni lontane da ogni clericalismo? Che papa Francesco rilasci una lunga intervista aCiviltà cattolica,da gesuita a gesuita potremmo dire, rientra nell’ordine delle cose. Delle cose nuove intendiamoci, perché le comunicazioni pontificie eravamo abituati a leggerle in una enciclica o riassunte in un comunicato sull’organo della Santa Sede, L’Osservatore romano. Ma scrivere a due dichiarati non credenti, ancorché di rango, è tutt’altra storia. Non credo che i papi scriverebbero se la Chiesa cattolica non attraversasse in Europa, Italia compresa, un periodo di forte crisi, se non stesse uscendo a fatica da un periodo di scandali finanziari e sessuali gravi, se non avesse constatato una diffusa indifferenza nei confronti di precetti e comportamenti coerenti con la sua morale. Ritengo che l’aspetto più inquietante sia proprio questo: l’indifferenza. I cattolici italiani sono sempre stati dei blandi osservanti. Machiavelli aveva già colto il punto scrivendo che la Chiesa aveva fatto gli italiani «sanza religione e cattivi ». La sferza della Controriforma, le condanne esemplari, non bastarono allora a cambiare le cose. Oggi però l’atteggiamento negligente è così diffuso da richiedere una reazione forte. Le comunicazioni intra moenia, affidate a pii bollettini a circolazione limitata, inutilmente edificanti, dolciastri, non bastano più. Anzi, diciamolo: non servono a niente. Occorrono scambi certo rispettosi ma che affrontino davvero i problemi, che facciano scoccare delle scintille. Nella speranza che un qualche fuoco possanuovamente accendersi.

Repubblica 25.9.13
Umberto Veronesi
Il ruolo della scienza
Siamo in lotta contro il male


PAPA Ratzinger conferma con questa lettera la straordinaria apertura al pensiero scientifico dichiarata nel discorso di Ratisbona: illogos — sia parola che pensiero — non è opposto alla fede perché «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Un tema fondamentale, che viene ripreso nel terzo punto della lettera di Benedetto XVI: «Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione». Questa posizione è molto avanzata e condivisibile e credo che noi scienziati dobbiamo esserne grati all’ex pontefice. Ciò che invece non possiamo condividere è l’osservazione sui temi mancanti nella religione della matematica: la libertà, l’amore e il male. Se riferiamo questa osservazione alla scienza nel suo insieme, abbiamo il dovere morale di rispondere che la scienza è libertà, anzi è la massima espressione della libertà di pensiero perché non conosce né dogmi né verità acquisite. Anche l’amore fa parte dell’essenza della scienza, se per amore intendiamo l’amore universale, per l’umanità innanzitutto e per l’ambiente in cui vive. Il fine stesso della scienza è il miglioramento costante del benessere dell’uomo sulla terra. Per questo anche la lotta contro il male è parte di questa finalità ultima. Tutta la scienza — e la scienza medica in modo particolare — è una continua ricerca delle cause del male per rimuoverle. Per il pensiero scientifico il male è una categoria complessa che ha sempre ragioni esterne o ambientali. Il bene è la regola e il male è un errore o la sua negazione.

Repubblica 25.9.13
Giulio Giorello
L’arbitrio e la necessità
I due volti della libertà


ODIFREDDI ignora il concetto di “libertà”, come dice Ratzinger? Diciamo che entrambi, da un certo punto di vista, sbagliano. La questione metafisica sollevata dal Papa emerito sul libero arbitrio – che rimanda alla “fantascienza” di Odifreddi e che si scaglia contro la predestinazione di Giovanni Calvino – non è così significativa. Il punto vero è l’assenza di costrizione esterna che permette agli individui di diventare soggetti responsabili e portatori di cambiamenti, per richiamare Spinoza o John Stuart Mill (suo nel 1859 il fondamentale Sulla libertà).Tuttavia, mi pare poco interessante anche la posizione del matematico Odifreddi, in quanto viziata dall’ingessamento della scienza in una sorta di religione. Secondo Georg Cantor, l’essenza della matematica è la sua libertà. In matematica e altre scienze la libertà creativa si è dimostrata capace di rimuovere vincoli esterni senza infrangere il rigore del ragionamento formale. Si rischia così di inseguire una Verità dalla “v” maiuscola, mentre invece, come nel
GalileodiBertolt Brecht, «ciò che oggi scriviamo sulla lavagna, domani lo cancelleremo». Bisogna accontentarsi di modeste verità, perché la Verità può bloccare la ricerca. La libertà è evolutiva, come ha scritto Daniel Dennett. E un grande matematico ateo come William Kingdon Clifford diceva che la scienza è un modo di agire senza paura. Il confronto, come quello tra Ratzinger e Odifreddi, anche se con metodi e linguaggi diversi, è sempre assai fruttuoso quando si è disposti a rischiare per le proprie convinzioni. E questo fa onore a entrambi.
(Testo raccolto da Antonello Guerrera)

Repubblica 25.9.13
Umberto Galimberti
I limiti e l’irrazionale
La ricerca di un senso


NEL dialogo che Papa Francesco e Benedetto XVI hanno instaurato con il mondo laico, rispondendo alle domande di Scalfari e alle posizioni di Odifreddi, vedo riaffermata, da parte del magistero della Chiesa, la superiorità della visione religiosa del mondo rispetto a quella laica. Francesco accoglie i non credenti a condizione che seguano la rettitudine della loro coscienza (e qui siamo vicini al principio del protestantesimo), ma ben venga questa accoglienza, rispetto a precedenti posizioni di intransigenza. Benedetto XVI chiede invece a Odifreddi quali risposte l’uso della sola ragione è in grado di dare al dolore, all’amore o al problema del male.
A parte il male, a cui anche la religione da secoli non è in grado di dare una plausibile risposta, partendo dalla premessa che Dio è bontà assoluta, per quanto riguarda il dolore o l’amore sono dimensioni umane che appartengono alla sfera dell’irrazionale, su cui la ragione non si interroga, perché, come diceva Kant, sono questioni che oltrepassano i suoi limiti.
La religione, attraverso la fede, oltrepassa questi limiti, proiettando nella trascendenza la risposta a queste problematiche. Anche la ragione è alla continua ricerca di un oltrepassamento delle sue conoscenze, perché questa, come ribadisce Kant, è «un’esigenza incondizionata» della natura umana. Ma un conto è spingersi fin dove la ragione può addurre le sue giustificazioni, un conto è oltrepassare questo confine e inoltrarsi con la fede nel buio del mistero. Questo la ragione non lo può fare. E qui il dialogo si arresta, perché la ragione riconosce il proprio limite, che la fede, senza giustificazione razionale e senza esitazione, oltrepassa.


l’Unità 25.9.13
Verso la piazza del 12 ottobre: la Costituzione va applicata
di Andrea Carugati


ROMA «Stiamo facendo una cosa mai fatta prima...», scandisce il leader Fiom Maurizio Landini. Accanto a lui Luigi Ciotti cita don Tonino Bello sulla difesa dei più deboli, Stefano Rodotà si commuove, Sandra Bonsanti spiega che, «se avessi avuto l’età, sul tetto coi grillini per difendere la Costituzione ci sarei salita anch’io...».
Istantanee dalla conferenza stampa del comitato promotore della manifestazione organizzata a Roma per il 12 ottobre, «La via maestra». A piazza del Popolo si ritroverà il popolo di quelli che dicono no al progetto di Pd e Pdl di riscrivere la seconda parte della Costituzione, modificando l’articolo 138. Dall’Arci al gruppo Abele, dalla Fiom a Legambiente e Articolo 21. Tra gli aderenti molti nomi noti della sinistra, da Salvatore Settis a Dario Fo, da Michele Serra a Gad Lerner e Moni Ovadia, più le direzioni del Fatto e de il manifesto.
«Non dite che vogliamo solo difendere la Costituzione perché non è così», avverte Landini. «Noi vogliamo applicarla compiutamente per cambiare le cose in questo Paese». Cambiarla per affrontare di petto il macigno dei 5 milioni di poveri, una cifra che fa dire a don Ciotti: «Di fronte a questi numeri, che sono persone in carne ed ossa, non basta più l’indignazione, bisogna provare disgusto. Per questo volevamo chiamare la manifestazione “miseria ladra”, o “porca miseria”...».
Ascoltando i promotori i temi si intrecciano: se la molla è stata una questione molto tecnica come le modifiche dell’articolo 138 che il Parlamento dovrebbe approvare entro Natale, via via la manifestazione si è riempita di contenuti di sinistra. «Per riempire uno spazio politico vuoto, costruire una massa critica», spiegano i promotori, tra cui c’è anche Gustavo Zagrebelsky. «Il 12 non sarà un evento, ma l’inizio di un percorso», spiega Ciotti. «Ma non ci sarà un partito e meno che mai un piccolo partito», puntualizza Bonsanti.
Il lavoro dei saggi incaricati di formulare proposte per ammodernare la Costituzione, presentato pochi giorni fa, viene bombardato di critiche. «Un testo di straordinaria pochezza culturale, senza scomodare tutti quei professori bastava affidarlo a 5-6 dottorandi...», ironizza Rodotà. «Mi sembra solo un riassunto di tutto il peggio che è stato pensato negli ultimi anni, dal nome del premier sulla scheda all’ipocrisia di limitare i decreti del governo dando tempi certi alla loro approvazione da parte del Parlamento». «Troppi poteri nelle mani di uno solo, troppo leaderismo e poco spazio al Parlamento», taglia corto Bonsanti. «L’obiettivo è accentrare i poteri e diminuire i controlli», insiste Rodotà. «Siamo alla negazione dei meccanismi essenziali della democrazia».
I promotori respingono le accuse di conservatorismo arrivate anche dal premier Letta. «Conservatori sono quelli che ripropongono idee vecchie come il presidenzialismo», dice Bonsanti. Nel merito, però, i promotori non spiegano se e come vorrebbero modernizzare la Costituzione. Al contrario, annunciano un appello ai parlamentari, soprattutto del Pd, per invitarli a non votare la modifica del 138. Se non dovesse passare coi due terzi, il comitato è già pronto a organizzare un referendum che blocchererebbe il percorso immaginato dalla maggioranza. Servirebbero il 20% dei parlamentari oppure 500mila firme. Un traguardo possibile, visto che Cinquestelle e Sel, da soli, raggiungono il 20% degli eletti. Ma prima c’è da riempire piazza del Popolo.

il Fatto 25.9.13
12 ottobre in piazza
“Via maestra” alla Carta
di Sandra Amurri


Riscoprire la bussola della politica: la Costituzione. È questo l'invito che “la via maestra” promossa da Luigi Ciotti, Stefano Rodotà, Maurizio Landini, Lorenza Carlassare e Gustavo Zagrebelsky rivolgono in vista della manifestazione del 12 ottobre a Roma (corteo alle 13 da Piazza della Repubblica fino a Piazza del Popolo con relativi interventi). Una tappa importante, sottolineano i promotori, di un viaggio iniziato il 2 giugno, Festa della Repubblica e della “Costituzione come ci piacerebbe che fosse” spiega Sandra Bonsanti, che proseguirà nelle scuole, nelle Università nelle fabbriche contro “l'idea che si è fatta strada, non a caso, e non innocentemente, che la Carta sia superata, che impedisca l'ammodernamento del paese, che i diritti siano da freno allo sviluppo economico, che la solidarietà sia una parola vuota”. Mentre “noi ci siamo resi conto di quanto sia giovane, attuale e da riscoprire” dice Landini che invia due messaggi. Il primo: “Non scrivete ‘vogliono difendere la Costituzione’ , è riduttivo. Perché noi chiediamo la completa applicazione per cambiare il Paese, per superare le differenze sociali garantendo i diritti al lavoro, all' istruzione, alla salute”. Il secondo: “La manifestazione del 12, che non è contro qualcuno ma per unire ed evitare la frammentazione, nasce da un appello e da un’ assemblea aperta a tutti”. Segue Rodotà che si dice contrario all'abolizione dell'Imu sulla prima casa a prescindere dal reddito: “Io voglio pagarla. La Costituzione tutela la dignità di chi rinuncia a curarsi perchè non ha soldi per pagare il ticket. I diritti vanno tutelati sulla base di un criterio con cui si ripartiscono le scarse risorse esistenti”. E conclude: “Questa iniziativa nasce dal basso sul sito www.costituzionelaviamaestra.it   troverete la lista di non meno di 100 associazioni locali, che dicono come si sta costruendo questo viaggio”.
OBIETTIVO comune: ricostruire uno spazio politico vuoto perchè è in gioco la democrazia. “Ho due riferimenti molto cari: il Vangelo e la Costituzione” è la premessa delle parole dense di umanità e forza di Luigi Ciotti. “Non vogliamo inseguire la cronaca ma costruire una storia fatta delle storie delle persone. La ferita di 5 milioni di poveri, 6 milioni di analfabeti, 7 milioni che vivono il disagio lavorativo, non può lasciarci indifferenti. La speranza ha il volto delle persone che fanno piu fatica e da loro bisogna partire. La prima forma di legalità e la fedeltà alla Costituzione perchè la legalità si fonda sulla giustizia sociale. La Costituzione è stata imbalsamata da troppe differenze da troppe cerimonie, dobbiamo prendercene cura”. E ricorda uno dei Padri Costituenti, Giuseppe Dossetti, che nel'94 abbandonò l'eremo per costruire i comitati per la Costituzione. Conclude con le tre parole chiave: “continuità, condivisione e corresponsabilità”

Corriere 25.9.13
Camusso: democrazia economica, ora applicare l’articolo 46
di Susanna Camusso

Segretario generale Cgil

Mentre i vertici istituzionali del Paese diffondono l’idea che la crisi è finita e sta iniziando la ripresa, viviamo quotidianamente il dramma della chiusura di decine di attività produttive, della distruzione di migliaia di posti di lavoro, dell’impoverimento di milioni d’italiani.
Negli ultimi giorni la contraddizione si è fatta ancora più stridente. Da un lato il Governo ha varato “Destinazione Italia” per attrarre investimenti esteri, sostenendo l’idea che questo Paese ha molti asset su cui fare affidamento per rilanciare crescita e occupazione; dall’altro assistiamo a cessioni verso l’estero — che non sono investimenti — delle poche grandi aziende nazionali rimaste. D al trasporto aereo all’industria manifatturiera, dal sistema bancario all’editoria, per citarne alcuni, le grandi aziende del nostro Paese sono messe sul mercato al migliore offerente, senza alcuna idea di politica industriale, di integrazione, di possibile crescita e degli effetti sul sistema produttivo e sull’occupazione.
Caso eclatante è quello di Telecom. È la prima volta che un asset strategico per il futuro del Paese è acquisito da un’impresa straniera senza che ci sia stata una preventiva discussione pubblica sulle sue ricadute e senza che il governo attivasse la golden share. In assenza di un deciso cambio di passo quanto avvenuto è destinato a ripetersi nelle prossime settimane con altri gioielli della nostra industria.
Non è mia intenzione sollevare scudi di nuovo protezionismo per difendere un’italianità di maniera. Nell’Unione Europea e nel mercato globale sarebbe inutile e antistorico. Ma il Paese deve interrogarsi. Quale sviluppo è possibile senza una rete e un’azienda di telecomunicazioni capace di guidare l’agenda digitale? Come immaginare una politica dei trasporti senza poter contare su una capacità produttiva di riferimento? Quale il ruolo di un sistema bancario che pur assorbendo risorse pubbliche per sé si nega ai processi di ricapitalizzazione delle imprese e disdetta i contratti? Sono solo alcuni esempi di cosa potrà accadere nel prossimo futuro e dell’impossibilità di determinare una ripresa in assenza di quegli asset strategici e delle grandi imprese industriali. Per non parlare poi della perdita di occupazione, competenze, professionalità.
Aggiungo che, se si vogliono davvero attrarre investitori che scommettano sul nostro Paese, tocca prima di tutto al Governo dare prova di credere a questo futuro. La svendita diffonde l’idea dei saldi di fine gestione e non che l’Italia abbia le capacità di superare la crisi e avviare le trasformazioni necessarie a restare una potenza industriale.
Dobbiamo constatare che dopo le cosiddette liberalizzazioni degli anni 90, in cui importanti asset pubblici furono “regalati” a manager senza capitali, più che a investitori italiani, si sta aprendo la stagione in cui ciò che è rimasto di quella fallimentare operazione viene ceduto in saldo al primo offerente.
È il rischio di Telecom, può diventarlo per Alitalia se le grandi imprese nazionali che operano nel settore non sentono più la “responsabilità sociale” di partecipare al futuro del Paese. In questi anni alle aziende partecipate è mancata una guida politica capace di indicare al sistema industriale pubblico le priorità e le scelte da compiere. Un’assenza non casuale ma teorizzata e perseguita da chi ha continuato a negare il valore dell’intervento pubblico e della sua capacità di regolazione. I nodi sono venuti al pettine. Ora il governo deve tornare ad assumere il ruolo che gli compete e a cui non può abdicare per esigenze di bilancio: definire gli indirizzi strategici delle reti e dell’industria, i processi di innovazione, le scelte di integrazione con altri partner, diano slancio e mercato alle nostre tecnologie difendano e accrescano l’occupazione e le professionalità.
Il sindacato, unitariamente, è pronto al confronto, come ha già dimostrato avanzando la proposta di istituire una cabina di regia per definire l’orizzonte di certezze senza il quale anche “Destinazione Italia” attrarrebbe solo capitali speculativi.
La discontinuità è indispensabile al punto che si potrebbe cominciare a riconoscere, a partire dalle aziende pubbliche, l’articolo 46 (ndr. democrazia economica) della Costituzione .

il Fatto 25.9.13
Napolitano incontra i leader e chiede un patto di governo
Obbligati alle larghe intese? Ma da chi?
di Luisella Costamagna


Caro presidente del Consiglio Enrico Letta, tra le tante dichiarazioni che lei ha rilasciato in questi mesi di governo, l’ultima mi ha letteralmente fatto sobbalzare sulla sedia. Commentando il voto tedesco dal Canada ha detto: “Emerge un modello di cooperazione simile al nostro. Forse in Italia si capirà che quando i nostri elettori ci obbligano a una grande coalizione bisogna farsene una ragione”.
Rileggo per essere sicura. Sì, ha detto proprio così: “Quando i nostri elettori ci obbligano a una grande coalizione”. E a conferma, ecco come l’inviato del Corsera, Marco Galluzzo, riassume le sue parole: “Dovremmo imparare dalla Germania, dove sono più realisti di noi, dove i risultati elettorali vengono rispettati. Lo dice Enrico Letta”.
Per darle un’idea della mia reazione, immagini un cartone animato con gli occhi fuori dalle orbite e la scritta “Gooooosh”. Certo, quella frase arriva al termine del solito ragionamento per cui nessuno ha vinto le elezioni e quindi “bisogna fare qualcosa di utile per il paese” (parole ancora sue), ma questo non significa che si possa attribuire agli elettori, né direttamente né indirettamente, il governo di larghe intese. Eh, no. Spiace ricordarglielo, ma gli italiani non hanno votato il suo governo. Non solo: hanno detto chiaramente che non avevano apprezzato il governo di larghe intese di Monti, penalizzando sia i partiti che lo sostenevano (Pd, Pdl e Udc hanno perso in totale, rispetto al 2008, circa 11 milioni di voti) sia le liste dell’ex premier. Voti che, in parte, sono finiti a Grillo.
Si può dire che le urne non ci hanno consegnato una maggioranza, che di fronte ai problemi del paese quella della grande coalizione era l’unica strada possibile (ma davvero tutte le strade alternative sono state percorse fino in fondo o alcune sono state escluse perché “siamo mica matti”?), che con le decisioni urgenti da prendere non si poteva precipitare di nuovo il paese in campagna elettorale per nuove elezioni (ma come mai in Grecia, messa peggio di noi, è stato fatto?)
SI POSSONO dire tutte queste cose e molte altre che ci siamo sentiti ripetere in questi mesi (e glisso sulle priorità di questo governo di scopo che ancora attendono soluzione), ma non che gli elettori vi abbiano “obbligato a una grande coalizione” né che con il suo governo sia stato rispettato il risultato elettorale. Quanto alla Merkel, bè, se pure continuerà le larghe intese, ora lo farà dall’alto del suo 42,5%.
Nulla a che vedere con i risultati dei nostri (vostri) partiti. In conclusione: vabbè dare la colpa all’instabilità o non voler fare il “parafulmine”, ma almeno la responsabilità di aver fatto nascere questo governo di responsabilità (lei e gli altri che ne fanno parte) se la prende, invece di attribuirla agli italiani?
Mica c’abbiamo scritto Jo Condor.
Un cordiale saluto

il Fatto 25.9.13
Ecco chi custodisce la nostra Costituzione
di Angelo Ferrara


Mi hanno sempre insegnato che gli uomini, soprattutto i politici, si giudicano dalla loro storia. Quando mi soffermo sulla biografia del nostro presidente della Repubblica, Napolitano, leggo che ha pienamente condiviso a suo tempo l'aggressione sovietica dell'Ungheria e ha contrastato la linea politica di Berlinguer cercando di portare il Pci tra le braccia di Craxi. Inoltre, ha gestito la crisi politica italiana dopo la caduta dell'ultimo governo Berlusconi in modo catastrofico. Parla di emergenza Paese dal 2011. Attribuisce alla magistratura responsabilità morali della giustizia che anche agli occhi del più sprovveduto italiano sono esclusivamente addebitabili al noto pregiudicato e alla sua corte di nani e ballerine.

l’Unità 25.9.13
Finanziamento, è scontro Il Pdl vuole i soldi del Cav
Se la politica è dei padroni finisce la democrazia
di Paolo Borioni


La vicenda del finanziamento ai partiti assume ormai caratteri che confinano con l’inciviltà politica. La destra non ritiene di accettare nemmeno la soglia massima di donazione posta a 100mila euro.
Chiunque deve, secondo il Pdl, poter donare anche una cifra indecente, di quelle pensate per condizionare, o addirittura per comprare un partito, e non per sostenerlo. Per questo ieri la commissione Affari Costituzionali della Camera ha interrotto i lavori. Ora, salvo ravvedimenti notturni, tutto dipenderà dall’aula. La ragione, anzi la scusa, addotta dalla signora Gelmini è che «disincentivare il finanziamento dai privati mentre si abolisce il finanziamento pubblico non è logico». Come è ovvio dietro c’è altro: Berlusconi nel suo crepuscolo inglorioso usa ogni stratagemma per mantenere i suoi nella sudditanza, e quello di donazioni senza limite gli regala un’arma che solo lui possiede per continuare ad essere quel padrone che è sempre stato. Del resto, ha pienamente ragione a sospettare che moltissimi, nel suo partito, stanno già pensando ad altre destinazioni. Ma in pubblico il rituale della fedeltà esteriore va mantenuto. Così gli esponenti del Pdl aprono senza scrupoli all’indecenza, ovvero a quella che deve essere chiamata col suo nome: la fine della democrazia, l’affermarsi di una serie di partiti padronali senza più possibili limiti, il trionfo della corruzione impunita e impunibile. Occorre far loro capire che questa assurda pretesa non passerà. Ma ragionino, i parlamentari del Pd, sulle parole della Gelmini: esse racchiudono una logica alla quale anche molti di loro hanno in qualche modo ceduto. Una volta demonizzato il finanziamento pubblico, e una volta, quindi, passato l’assunto per cui il contributo dei privati è l’unica risorsa legittima, i partiti si trovano di fronte ad un orizzonte di potenziale ansia di sopravvivenza. Anche se in forme diverse e meno sfacciate di quelle dichiarate dal Pdl, moltissimi potrebbero vivere la situazione per cui delle risorse vanno trovate purchessia. Molti potrebbero pensare che in fondo tutto è permesso se si è stati così nobili e progressisti da abolire il finanziamento pubblico. Questa logica si ritrova, a ben vedere, anche nella soglia dei 100 mila euro, abbondantemente troppo alta. In molti contesti 100 mila euro sono già una donazione che condiziona indebitamente un partito. La possibilità inoltre spingerebbe i partiti a cavarsela con un centinaio di ricchi emarginando ancora di più la raccolta diffusa, che richiede il coinvolgimento dei militanti.
E invece, il pubblico dovrebbe servire a incentivare, con meccanismi di cofinanziamento, la raccolta militante trasparente, quella che rafforza, anziché uccidere, la democrazia dal basso. Ma se non si è saldi sul limite, e se anzi non si cerca di abbassarlo, è ovvio che anche il cofinanziamento proporzionale alla raccolta privata premierebbe i padri-padroni come il Cavaliere. È vitale dunque rimanere saldi. Speriamo che nessuno, nel Pd, ceda di fronte a chi di sicuro, dal Pdl o M5S, li accuserà di «cercare scuse per salvare il finanziamento pubblico». Speriamo che a nessuno venga in mente di cercare mediazioni a mezzo milione, o un milione di euro di tetto. Il limite è già stato superato.

Corriere 25.9.13
Nel Pd a rischio l’intesa sulle regole. L’ipotesi di separare leader e candidato
Un «preambolo» distinguerà il segretario da chi corre per il governo Il ministro Carrozza: immagine terrificante e brutta offerta dal partito
di Monica Guerzoni


ROMA — Il patto di lunedì notte già vacilla. L’idea di separare la carriera del segretario da quella del candidato premier affidandosi a un «gentlemen agreement» non piace nemmeno un po’ al fronte filogovernativo, che non sembra fidarsi troppo di Matteo Renzi e chiede un accordo nero su bianco. Il nodo politico in vista della Direzione del Pd è questo: è il timore dei lettiani di prendere «fregature» da chi vincerà il congresso, con il rischio che Enrico Letta si veda costretto, se e quando sarà, a chiedere al sindaco la deroga per potersi ricandidare a Palazzo Chigi.
«Bisogna garantire formalmente la partecipazione di Letta» avverte Beppe Fioroni, che troppe volte in passato ha visto i colleghi «rimangiarsi accordi su accordi». E Luigi Madeo, che siede per l’area popolare al tavolo delle regole, invita a trovare una «soluzione forte per un interrogativo ancora aperto».
A Montecitorio il tema tiene banco. «Ve lo vedete Renzi che sigla un patto con Pittella e Civati?», ride un fedelissimo del primo cittadino di Firenze. Anche se poi il braccio destro Luca Lotti cerca di sdrammatizzare: «È complicato non dare la deroga quando Matteo la ebbe da Bersani». Il problema è che i lettiani la deroga non la vogliono, perché temono che «una concessione del futuro leader» indebolisca il premier. Sospettano che i renziani puntino alla «vittoria a tavolino» e chiedono una «norma formale». Guglielmo Epifani sta mediando tra le parti in causa e Gianni Cuperlo ha già detto che non farà problemi: «Io sono ecumenico...».
La commissione Statuto, che oggi tornerà a riunirsi, è alla forsennata ricerca di un’intesa e sta valutando l’ipotesi di un «preambolo» nel quale scolpire la separazione tra la figura del segretario e quella del premier. Se tutto va bene, venerdì in direzione si firmerà l’accordo. «Basta che qualcuno non provi a rendere obbligatorie le primarie di partito per la scelta del candidato premier...», avvertono i renziani. Un tema che rivela come la vera partita sia la durata delle larghe intese. Marco Meloni, uno dei deputati più vicini a Letta, lo dice con chiarezza: «Chi vince il congresso si impegni a garantire che il governo duri come minimo fino al termine del semestre europeo». Ma il dicembre del 2014 è una data troppo lontana per Renzi, il quale non nasconde la fretta di «cambiare l’Italia».
Gli echi dell’assemblea ancora non si spengono. La renziana Lorenza Bonaccorsi chiede le dimissioni del responsabile Organizzazione e sottotraccia continua a scorrere un fiume gonfio di veleni e sospetti. «La data dell’8 dicembre non si tocca», ammonisce il renziano Lorenzo Guerini. La battaglia si sposta sul calendario delle varie fasi congressuali, con Stefano Bonaccini e Roberto Gualtieri incaricati di stendere il regolamento. Per quanto «sereno» sia stato il clima dell’ultima riunione sullo Statuto, gli animi restano accesi. Su L’Unità Goffredo Bettini denuncia «i madornali errori di un vertice che cerca di ricollocarsi e di contare ancora». E sempre sul giornale diretto da Claudio Sardo, Pier Luigi Bersani respinge gli attacchi di chi lo ha dipinto «come un mestatore» e giura che «l’intesa in assemblea è saltata alla luce del sole», non certo per qualche occulto complotto. Lo sfogo dell’ex segretario conferma quanto tesi siano i rapporti tra il fronte renziano e quello antirenziano, alla spasmodica ricerca di un candidato alternativo. Dopo che Bianca Berlinguer ha smentito contatti, ha preso a girare il nome di Maria Chiara Carrozza, cattolica vicina a Letta, indignata per l’immagine «terrificante e brutta» offerta dal Pd. Ma dagli entourage del premier (e di Rosy Bindi) smentiscono che il ministro sia in corsa. E mentre Renzi torna dalla Gran Bretagna dove ha incontrato i sindaci di Londra, New York e Varsavia, nel Pd si litiga persino sulla stanza di Bersani al Nazareno, una querelle che il tesoriere Antonio Misiani si incarica di stoppare come «stupida e assurda». Nella ridda di voci dal sen fuggite ce n’è anche una che vorrebbe Walter Veltroni in procinto di tornare, da direttore, a L’Unità.

Corriere 25.9.13
D’Alema, critiche a Obama e frecciate a Letta
«Il premier può durare, ma uscirà logorato dalla convivenza obbligata con Berlusconi»
di Massimo Gaggi


DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — «Gli errori di Obama che non ha accompagnato la minaccia di bombardare la Siria con un chiaro progetto politico e la latitanza dell’Europa hanno aperto grandi spazi di iniziativa diplomatica a Putin e Assad. Se non vogliamo che siano loro a vincere la partita, bisogna andare oltre la questione delle armi chimiche e approfittare dell’apertura di uno spiraglio negoziale per imporre un cessate il fuoco».
Tardo pomeriggio alla Macelleria, ristorante rustico-trendy del Meatpacking District, cuore della Manhattan dei giovani e anche di quella tecnologica, le aziende della «Silicon Alley». Massimo D’Alema, davanti a una platea di simpatizzanti del Pd che studiano e lavorano negli Usa, ricorre alle sue memorie di statista — il presidente del Consiglio italiano che, insieme a Bill Clinton, si impegnò nell’intervento militare in Kosovo — per riflettere sui dilemmi degli interventi di ingerenza umanitaria in altri Paesi: «Quella fu un’azione drammatica e sofferta, ma dietro c’era un chiaro obiettivo politico: il ritiro dei serbi e l’indipendenza. In Siria c’era solo la volontà di punire Assad. Che non è di per sé una strategia».
Ma poi, dopo aver parlato per più di un’ora di politica internazionale, pur descrivendosi ormai come un esterno al Partito democratico («sono iscritto, ma sono molto lontano») D’Alema non rinuncia a distillare la sua ricetta per i nuovi vertici del centrosinistra: «Gianni Cuperlo segretario del Pd, Matteo Renzi leader della coalizione e candidato alla guida del governo». Quanto a Enrico Letta, va sostenuto con tutta l’energia possibile nel suo sforzo di andare avanti col governo attuale perché il Paese ha bisogno di stabilità: «Può durare a lungo, anche fino al 2015. Ma credo che in qualche modo uscirà logorato dalla convivenza obbligata con Berlusconi. Dopo questo governo penso che la gente vorrà una personalità nuova».
L’ex capo del governo e del partito postcomunista che ha lasciato le cariche e il Parlamento, racconta di essere a New York per partecipare a una serie di eventi organizzati a margine dell’assemblea dell’Onu in quanto animatore della fondazione «ItalianiEuropei» e capo del «pensatoio» dei socialisti europei: «Ho lasciato i ruoli attivi, ma faccio politica in altro modo perché per me la politica non è un mestiere ma un modo di interpretare la vita».
È sempre lui, coi passaggi dal ruvido all’affabile, senza rinunciare a una punta di sarcastica arroganza: «Niente interviste», dice ai giornalisti con i quali, pure, conversa volentieri. «Se volete, invece, posso farvi una lezione sul Medio Oriente: conosco bene tutti i protagonisti, a partire da Morsi». Ed è molto dalemiana anche la spiegazione che dà delle sue preferenze politiche: «Cuperlo è il personaggio di maggior spessore culturale e il segretario del nostro partito deve essere così: uno davanti al quale la gente tace perché si aspetta di sentire cose che non sa».
Renzi, invece, è «la nostra presenza pubblica più forte. Un “asset” importante in un periodo di forte caduta della partecipazione alla politica». Ma il «rottamatore» non era la sua bestia nera? «Da quando mi sono fatto da parte non vuole più rottamarmi. Ci siamo conosciuti, lo apprezzo. Certo, se poi da qui alle elezioni viene fuori un Nembo Kid mica puoi impedirgli di partecipare alle primarie…».

l’Unità 25.9.13
Giustizia, riforma necessaria e impossibile
di Giovanni Pellegrino


Il presidente della Repubblica, in un commosso ricordo di Loris D’Ambrosio, è tornato ad invitare politica e giustizia a spegnere, o almeno rendere meno aspra, la situazione di conflitto che da circa un ventennio domina la scena.
I tempi avventurati che viviamo rendono però improbabile che l’autorevole invito possa essere accolto. Sin troppo agevole è prevedere che l’attacco a una magistratura accusata di essere politicizzata, e di avere per questo a lungo operato per eliminare Berlusconi dalla scena politica e per indebolirne il potere imprenditoriale, sarà per la rinata Forza Italia uno dei temi dominanti di una campagna elettorale sostanzialmente già iniziata.
Posta dinanzi al reiterarsi di attacchi così virulenti è anche fisiologico che la magistratura associata reagisca con una chiusura sostanzialmente corporativa, lasciando inascoltato l’invito del Capo dello Stato ad assumere un’attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto alle prospettive di riforma della giustizia, di cui Napolitano ha ribadito la urgente necessità. In questo clima inviti coraggiosi all’assunzione di posizioni autocritiche, come quello recente di Ilda Boccassini, sono destinati a restare isolati. A ciò si aggiunga che, tramontato l’astro di Di Pietro, uno spazio è venuto ad aprirsi per nuove posizioni politiche ispirate ad un giustizialismo estremo, che il M5S si è affrettato ad occupare, reiterando nella rozzezza dei toni il messaggio politico, che fu già proprio della prima Lega Nord.
In questo quadro generale e alla vigilia di un nuovo confronto elettorale diviene oggettivamente difficile la posizione del Pd, che, stretto tra due opposti manicheismi, sarà indubbiamente frenato dall’approfondire la pur iniziata opera di revisione di una posizione politica, che fu a lungo ancillare rispetto a quella della magistratura associata. Penso alle valutazioni che Luciano Violante esprime ormai da anni e anche al modo in cui Andrea Orlando ha svolto il suo ruolo di responsabile Giustizia del Pd.
Continueremo quindi a vivere giorni oscuri, in cui sarà oggettivamente difficile sui temi della giustizia articolare anche nel Pd ragionamenti pacati e approfonditi, che sfuggano alla tenaglia dei due opposti estremismi. Il danno che da ciò deriverà per il Paese non è discutibile, perché perpetuerà una anomalia che ci rende più deboli nel confronto competitivo con le altre democrazie europee.
Ritenere che a tale anomalia possa porsi riparo soltanto attraverso interventi pur urgenti e indispensabili che abbrevino i tempi delle decisioni giudiziarie è abbastanza illusorio, perché non varrebbe ad attenuare quella pervasività dell’intervento giudiziario, che caratterizza il nostro Paese e che non ha eguali in Europa e per vero negli altri Paesi a democrazia avanzata. Ovviamente non è prospettabile un antistorico ritorno a tempi d’antan, atteso che un nuovo ruolo è stato assunto da poteri di controllo neutrali in tutto il mondo nato dalla globalizzazione.
Ma è appunto la maggiore importanza che il controllo di legalità ha nella complessità degli aggregati sociali, che caratterizza il tempo presente, a rendere urgenti in Italia riforme, che senza attenuarne il rigore, lo riportino ad un dovuto parametro di armonizzazione e di razionalità, ponendosi come obiettivo non il ritorno a un antistorico primato della politica, ma quello del raggiungimento di un nuovo punto di equilibrio tra politica e giustizia, che giovi ad un regolare e ordinato svolgersi della vita associata.
L’ipertrofia e pervasività assunte dall’intervento di giudici di ogni ordine e grado nel nostro Paese non è oggettivamente negabile e nasce da un complesso di cause abbastanza universalmente riconosciute. Penso alla continua implementazione del numero dei divieti penalmente sanzionati, che lasciano da sempre disattesa l’aspirazione, pur a parole declamata, di riservare la sanzione penale soltanto ai fenomeni patologici di maggior rilevanza sociale. A questo si aggiunge la tendenza sempre più accentuata ad una interpretazione estensiva delle norme incriminatrici, che caratterizza l’effettività della nostra giurisprudenza con buona pace del principio di stretta legalità dell’incriminazione penale pur formalmente sancito nell’articolo 25 della Costituzione.
E ciò nell’inestricabile groviglio di una legislazione amministrativa sempre più articolata e complessa, che moltiplica i momenti di controllo con un insieme di regole di difficile applicazione. Da qui un abnorme implementazione delle occasioni di intervento giudiziario in un ordinamento come quello italiano in cui è ben possibile, e addirittura fisiologico, che su di una singola vicenda amministrativa si attivino tre forme diverse di controllo di legalità affidate a tre ordini giudiziari distinti (quello ordinario, quello amministrativo e quello contabile), l’uno dall’altro indipendenti e che quindi ben possono sul medesimo atto pervenire a valutazioni diverse e tra loro contraddittorie affidate a verdetti giudiziari, pur pronunciati tutti in nome del popolo italiano.
È quindi innegabile l’esigenza di una complessiva riforma del nostro sistema giustiziale, che introduca, quantomeno nel settore civile e amministrativo, opportune forme di filtro, che consentano l’accesso alla giustizia togata di una conflittualità opportunamente scremata; soluzioni di cui però è problematica la compatibilità con le garanzie di piena giustiziabilità previste negli articoli 24 e 113 della nostra Costituzione. Così come è oggettivamente problematico nell’attuale assetto costituzionale porre un freno al soggettivismo, che spesso ispira l’iniziativa di magistrature inquirenti (ordinaria e contabile) organizzate secondo il modulo diffuso proprio delle magistrature giudicanti e che conduce su specifici problemi a valutazioni difformi da un luogo all’altro del Paese, rendendo così sostanzialmente illusorio il valore della certezza del diritto, già posto in crisi da una produzione legislativa alluvionale e poco coordinata.
Dovrebbe quindi essere chiaro che, riesaminate alla luce delle esigenze del presente, anche su alcune scelte operate dal Costituente in materia di organizzazione giudiziaria, sarebbe opportuno attivare un confronto approfondito e pacato, come appare oggettivamente ben difficile se alla discussione sono chiamati a partecipare Beppe Grillo e Daniela Santanché. Diviene così dovuto concludere che il tema della riforma della giustizia e della determinazione di un nuovo punto di equilibrio tra poteri di controllo e poteri rappresentativi non potrà essere affrontato se non da un sistema politico che sia stato prima capace di riformare se stesso; ma nemmeno questo risulta agevole, una volta che autorevoli vestali della Costituzione contestano alla politica persino la possibilità di riorganizzare le forme istituzionali della rappresentanza.

l’Unità 25.9.13
Gli italiani e le medicine
Si spende meno, ma usiamo troppi antibiotici e antidepressivi


Danno la colpa alla crisi. E forse non può che essere così. Se in Italia si usano sempre più antidepressivi vuol dire che una larga fetta della nostra popolazione non vive affatto bene il presente. Ma anche che c’è da parte dei medici una facilità nella prescrizione sulla quale dover riflettere. Comunque sia, l’istantanea scattata dal Rapporto «L'uso dei farmaci in Italia», realizzato dall'Osservatorio sull'impiego dei medicinali dell'Agenzia del farmaco (Aifa), raffigura un Paese che utilizza sempre più farmaci. Tra questi gli antibiotici, il cui consumo è diminuito anche se in una percentuale consistente si continua a farne un cattivo uso impiegandoli anche laddove non necessari. E se le dosi giornaliere di medicinali prescritti sono aumentate del 2,3% rispetto al 2011, nel 2012 ogni italiano ha consumato 30 confezioni di farmaci.
Nel 2012 la spesa farmaceutica totale in Italia è stata pari a 25,5 miliardi di euro, facendo registrare consumi sostanzialmente stabili rispetto al 2011. In media, per ogni cittadino, la spesa per farmaci è stata di circa 430 euro. La spesa farmaceutica territoriale complessiva è in riduzione rispetto all'anno precedente del 5,6%. La spesa per l'acquisto di medicinali da parte, invece, delle strutture sanitarie pubbliche, nel 2012 ha fatto registrare un incremento del +12,6% rispetto al 2011. Consumi stabili, sia pure con un incremento (+2,3%) nella prescrizione di dosi giornaliere. Un dato commentato dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: «Nonostante l'aumento del consumo di farmaci, la spesa farmaceutica è rimasta sotto controllo. Questo ha spiegato grazie ad una maggior appropriatezza nella prescrizione, ma anche all'immissione di farmaci a brevetto scaduto e di generici». Tuttavia «c’è ancora forte disomogeneità tra le regioni e bisogna ancora lavorare per una maggior appropriatezza delle prescrizioni». A consumare più medicinali sono i più piccoli e gli anziani: il 50% dei bambini e oltre il 90% degli over-75 ha ricevuto almeno una prescrizione durante l'anno. Gli over-74 presentano anche consumi e spesa rispettivamente 22 e 8 volte superiori a quelli di un paziente tra i 25 e i 34 anni.

Repubblica 25.9.13
“Troppi antibiotici, uno su cinque è inutile”
Allarme dell’Agenzia del farmaco. In aumento anche il ricorso agli antidepressivi
di Michele Bocci


ROMA — Un po’ di mal di gola, un colpo di tosse, e subito si vanno a cercare gli antibiotici nel mobi-letto del bagno. Senza neanche sentire il medico. Un errore commesso da centinaia di migliaia di persone ogni anno, che porta all’utilizzo inappropriato di almeno il 20 per cento dei farmaci antibatterici acquistati in Italia. È uno dei dati che spaventa di più l’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco che ieri ha presentato il rapporto sui consumi 2012. Non è solo una questione di soldi, che pure esiste, ma soprattutto di salute. «Prendere gli antibiotici quando non servono, fa aumentare le resistenze e rende le medicine meno efficaci contro i batteri», avverte Luca Pani, direttore generale di Aifa. «Non basta che il consumo di questi farmaci sia calato del 6,5 per cento rispetto al 2011 — continua — perché veniamo da anni di aumenti fortissimi».
L’anno scorso in Italia i farmaci sono costati 25,5 miliardi di euro. Ben due terzi delle molecole usate, il 62,1 per cento, sono ormai senza brevetto perché hanno più di 15 anni. Ci curiamo con rimedi vecchi, e in futuro il dato salirà ancora, visto che altri produttori perderanno le loro esclusive. Le aziende, del resto, non inventano quasi più molecole blockbu-ster, efficaci contro malattie molto comuni.
La spesa per i farmaci a brevetto scaduto è il 37,7 per cento del totale, visto che si tratta di medicinali dal prezzo più basso. Poco più un terzo lo incassano i produttori dei generici, il resto finisce comunque nelle tasche delle aziende che vendono il farmaco di partenza. La “marca” funzionaanche quando c’è la concorrenza di prodotti meno cari. Una categoria di farmaci che vede una crescita di prescrizione, del 4,5 per cento in otto anni, è quella degli antidepressivi. Anche in questo campo si segnala una forte inappropriatezza. Ad esempio il 50 per cento dei pazienti interrompe la terapia dopo tre mesi anziché portarla avanti fino ai sei previsti, sprecando medicinali e curandosi male. Crescono anche ansia e disturbi alimentari. «Questi dati ci indicano la presenza della crisi economica. Non a caso l’aumento avviene di più fra i giovani, che non trovano lavoro, e gli anziani, che non riescono ad arrivare alla fine del mese», commentaSergio Pecorelli, presidente di Aifa.
Nel 2011 i farmaci erano costati 26,3 miliardi di euro, contro i 25,5 dell’anno scorso. Il calo è merito soprattutto della riduzione del 5,6 per cento della spesa territoriale, per l’acquisto in farmacia. Quella ospedaliera, che vale circa un terzo del totale, invece è cresciuta del 12,6 per cento e si sta cercando un sistema per arginarla. Il consumo di confezioni è aumentato di circa il 2 per cento. Ogni giorno 985 persone su mille assumono una dose di un farmaco passato dal servizio sanitario. «Nonostante l’aumento del consumo la spesa è rimasta sotto controllo — commenta il ministro Beatrice Lorenzin — grazie a una maggior appropriatezza nella prescrizione, su cui si può ancora lavorare, e all’immissione di farmaci a brevetto scaduto e generici. Tuttavia c’è ancora forte disomogeneità tra le regioni ». Quella dove si prendono piùmedicine è la Sicilia.

l’Unità 25.9.13
«Lezioni di energia» Al MAXXI di Roma
Oggi lo psicoanalista Recalcati


Parte oggi al Maxxi di Roma il ciclo di lezioni «Energy: lezioni sulle energie che muovono il mondo»: otto incontri con i protagonisti del nostro tempo per scoprire e liberare le nostre energie più profonde, quelle che servono per vivere, pensare, creare. Protagonisti della prima lezione, oggi alle 17:30 (ingresso libero), il celebre psicanalista lacaniano Massimo Recalcati e la coppia di artisti Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) che parleranno di «Energie dal sommerso». Tra i temi dell’incontro: come attingere alle
energie imprigionate nel «sottosuolo» della nostra psiche e quali strumenti possono aiutarci a far emergere le forze confinate nel nostro sommerso. Il ciclo di lezioni, sponsorizzato da Eni, è organizzato dal Maxxi in occasione della mostra «Energy. Architettura e reti del petrolio e del post petrolio» (fino al 10 novembre). Il secondo appuntamento, dedicato a «Il gusto dell’energia», ospiterà la cantautrice Erica Mou e lo chef stellato Salvatore Tassa (28 settembre, alle ore 11:00).
www.fondazionemaxxi.it

l’Unità 25.9.13
Strade, bus e servizi: il nostro lavoro per Roma
di Ignazio Marino

Sindaco di Roma

Ho letto con molta attenzione la lettera della signora Bianchi, pubblicata su l’Unità di domenica 22 settembre. Attraverso il suo giornale desidero ringraziarla per la fiducia accordata, attraverso il suo voto, e esortarla a mantenere, con la medesima passione civica, un occhio critico sulla nostra città.
In questi tre mesi, è bene chiarirlo, abbiamo lavorato in una situazione amministrativa difficile. Il primo provvedimento preso non è stato la chiusura al traffico privato di via dei Fori Imperiali, ma l’eliminazione delle cosiddette auto blu che erano permanentemente a disposizione di tutti i membri della giunta comunale. Durante l’estate le abbiamo utilizzate anche per il trasporto di cittadini, come nel caso di un bimbo che doveva recarsi quotidianamente ad eseguire la chemioterapia per una grave leucemia. Successivamente, siamo intervenuti anche nel liberare il Colosseo dal traffico privato, per avviare il progetto del più grande parco archeologico del pianeta. Ma l’impegno non si è fermato a questa piccola grande rivoluzione di ampio valore simbolico, oltre che sostanziale.
In poche settimane, e senza lasciarsi fermare dalla pausa estiva, è stato varato, dalle periferie al centro, un piano caditoie per liberare i tombini e le fogne della città, ostruiti e dimenticati da anni; è stato aperto e risolto un contenzioso con il consorzio Metro C, sbloccando i lavori e assicurando l’impiego degli operai e la definizione di un nuovo contratto che impegni, con tempi e costi certi (che per trasparenza abbiamo pubblicato in rete), alla consegna della nuova linea metropolitana.
L’amministrazione ha iniziato ad affrontare le inefficienze delle aziende municipalizzate, colpite negli ultimi anni da scandali e indagini della magistratura per la cattiva gestione, i servizi non efficaci e le politiche di reclutamento del personale, improntate a criteri talvolta poco trasparenti, se non di vero nepotismo. È di questi giorni la revoca dei vertici delle Assicurazioni di Roma, che in questi anni non hanno operato nell’interesse della cittadinanza. In precedenza siamo intervenuti proprio su Atac, nominando un nuovo amministratore delegato, per eliminare disservizi e attese che la signora Bianchi vi ha segnalato. Abbiamo introdotto il buono casa, per chiudere definitivamente la triste pagina dei residence per chi vive in emergenza abitativa: adesso spendendo bene i 35 milioni di euro che prima venivano spesi male riusciremo ad aiutare il triplo delle famiglie in difficoltà.
Abbiamo reintrodotto il cibo biologico nelle mense delle scuole dei bambini romani e, nonostante i problemi economici ereditati, stiamo cercando di risolvere il problema delle liste d’attesa negli asili nido. Contro la cementificazione in zone prive di infrastrutture e di trasporti pubblici, e nel rispetto del nostro territorio e del verde, abbiamo individuato 114 aree all’interno di Roma da sottoporre a rigenerazione urbana, per alloggi popolari e nuove infrastrutture; censito il patrimonio comunale di cui finora non si conosceva neppure l’entità. Infine il più importante obiettivo: votare la manovra economica 2013 e quella previsionale del 2014 entro la fine di novembre 2013, in modo da garantire, nel 2014, a ogni cittadino, giovane, anziano o disabile la giusta assistenza attraverso una programmazione priva di incertezze. Infine, abbiamo aperto in piazza del Campidoglio l’ufficio del sindaco per il rapporto con i cittadini per raccogliere i suggerimenti, le idee e le proposte delle romane e dei romani.
Un nuovo importante passo per avvicinare i cittadini alle istituzioni e un’ulteriore dimostrazione della voglia di questa amministrazione di rendere sempre più aperto e trasparente il rapporto con la Città.
Per realizzare tutto questo, che non è un programma da «sinistra in cachemire», c’è bisogno del nostro massimo impegno, che non mancherà, e dell’appoggio, dei consigli, delle critiche e della collaborazione di tutti i romani, a partire da quello della signora Bianchi. Insieme possiamo modernizzare la nostra amata Roma.

l’Unità 25.9.13
Se il medico deluso sapeva già tutto
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

I concorsi di accesso nelle specialità mediche sono talmente pilotati da potervi io comunicare con un mese di anticipo, i nomi dei vincitori del prossimo concorso per la prima cardiologia al policlinico Umberto I di Roma, quelli dei 6 candidati per la seconda cattedra, dei 3 candidati per la cattedra di Latina e degli esclusi a causa di un basso punteggio nella seconda prova e nonostante alti punteggi di curriculum.
Un anonimo medico deluso

Abbiamo già pubblicato questa lettera, senza i nomi e con un commento in cui parlavamo della necessità di ricorrere a delle graduatorie nazionali per l’accesso alle scuole di specializzazione il 16 giugno. La ripubblichiamo ora perché il Ministro Carrozza ci sta pensando seriamente e perché un giornale ha dato ampio risalto giovedì al fatto che le previsioni del «medico deluso» si sono perfettamente avverate. «Nell’ateneo del Rettore Frati, o della famiglia Frati», scrive Corrado Zunino su La Repubblica, il titolo decisivo per vincere un concorso che apre la strada alla professione e alla tranquillità economica sembra più la possibilità e la capacità di fare da autista al professore che il curriculum formativo. «A parità di cavallo monto su quello che conosco meglio» replica il professore, che sceglie, con un’ironia che gli va riconosciuta, la metafora giusta. Senza spiegare però come sia possibile scegliere il cavallo su prove anonime e senza scomporsi, soprattutto, di fronte all’incredulità di chi lo intervista. Un piccolo fatto? Può darsi. Anche se dovremmo riflettere molto di più, a mio avviso, sul modo in cui fatti come questi incidono sul declino di un sistema universitario tutto da riformare. Cominciando dall’intoccabilità dei baroni e dalla necessità di rendere incompatibili la professione privata e l’appartenenza all’organico dell’Università. Come accade in tutti i Paesi civili.

l’Unità 25.9.13
Gli accompagnatori turistici discriminati
di Sergio Grom


Recentemente è stata recepita una d direttiva europea che, in pratica, sancisce la libertà di spostamento e lavoro delle guide turistiche ovunque in Europa. Come conseguenza di questa pur giustissima legge si è venuta a creare la seguente paradossale situazione: dato che in molti (quasi tutti) i Paese Europei non esiste la figura dell'accompagnatore turistico distinta da quella della guida turistica, ma solo quella della «guida turistica», che funge quindi anche da accompagnatore, questi colleghi (accompagnatori/guide) da adesso in poi potranno venire in Italia e svolgere, ripetiamo, giustamente, anche compiti di guida turistica nel nostro
Paese. La contraddizione è che, purtroppo, invece, per noi accompagnatori turistici italiani (ovvero in possesso di una licenza rilasciata da un'istituzione pubblica italiana (Provincia, Comune o Regione che sia) stanti le attuali leggi che sanciscono diverse mansioni tra guide e accompagnatori, questo non è possibile, creando di fatto un danno notevole ad una categoria che, dovendo essere iscritta alla Camera di Commercio, al Registro Iva, ecc. paga fior di tasse al governo Italiano, e stiamo parlando di diverse migliaia di ottimi professionisti: vogliamo che, in questi tempi già così difficili, migliaia di famiglie vengano gettate sul lastrico per una legge quantomeno «incompleta»? Non crediamo che il governo volesse questo, ma crediamo, piuttosto che, a chi ha legiferato, sia sfuggita la particolarità della situazione italiana. Quello che gli scriventi richiedono, dunque, è che anche in Italia vengano accorpate, come per la maggior parte degli altri Paesi Europei, la figura dell'accompagnatore turistico con quella della guida, creando una figura unica detta guida turistica italiana.
Licenced Tour Director

La Stampa 25.9.13
Ablyazov, controffensiva in Italia “Processate l’ambasciatore kazako”
L’avvocato presenta una denuncia a Roma per il sequestro dei familiari del dissidente
di Maurizio Molinari


La famiglia Ablyazov sceglie il foro di Roma per ottenere la condanna del Kazakhstan, reo del sequestro di Alma Shalabayeva e della piccola figlia Alua. Alle 9,30 di questa mattina l’avvocato degli Ablyazov, Astolfo di Amato, deposita la denuncia penale nella quale accusa tre diplomatici kazaki di «sequestro aggravato di persona» e «gravi abusi dei privilegi dei diplomatici» chiedendo la revoca della loro immunità e una condanna che potrebbe arrivare a 15 anni di reclusione.
Se Muktar Ablyazov, leader dell’opposizione kazaka ricercato per frode da Astana, è in prigione in Francia e deve battersi contro la richiesta di estradizione del Kazakistan, la contromossa della famiglia è dunque aprire un fronte legale nel nostro Paese sperando così di ottenere il ritorno di Alma e Alua.
La denuncia colpisce l’ambasciatore Adrian Yelemessov e due diplomatici, Murlan Khassen e Yerzhan Yessirkepov sulla base di «prove schiaccianti», come si legge nel comunicato della famiglia, che includono la copia della richiesta del Kazakhstan all’Interpol di deportare Alma Shalabayeva. «Una volta rivelato lo status illegale di Shalabayeva Alma in Italia - con documenti falsi - vi chiediamo di deportarla in Kazakistan» si legge nel documento del 31 maggio scorso nel quale si chiede anche di arrestare Muktar Ablyazov.
Per la famiglia si tratta di un «abuso dell’Interpol» perché «le autorità del Kazakhstan hanno chiesto a quelle italiane di consegnare la Shalabayeva nonostante il fatto che quest’ultima non fosse oggetto di un mandato di cattura dell’Interpol». Per Peter Sahlas, avvocato dei figli di Ablyazov, «il Kazakhstan ha abusato dell’Interpol per camuffare la presa in ostaggio della moglie e della figlia del principale avversario politico del regime» dando vita ad una «cospirazione criminale» finalizzata ad una «rendition straordinaria». Fra le altre prove a carico dei diplomatici kazaki c’è una foto scattata dalla cabina di pilotaggio del jet austriaco che decollò da Ciampino con Alma e Alua, nella quale si vedono due di loro mentre parlano con degli agenti italiani. La foto, scattata dal pilota Jorg Mayerbrock, fa parte dei documenti consegnati dalla famiglia alle autorità austriache che indagano sui 70 mila dollari versati dal Kazakhstan per affittare il velivolo. «Il pilota ha dichiarato alla polizia austriaca - dice l’avvocato della famiglia che i primi due passeggeri a salire a bordo furono i diplomatici kazaki, seguiti da un pulmino della Polizia con 15-20 persone». Il pilota «osservò che Alua veniva portata sull’aereo non dalla madre ma da un’agente donna italiana».
La conclusione di Madina, maggiore dei quattro figli di Ablyazov e Shalabayeva, è che «l’ambasciatore e gli altri diplomatici hanno organizzato un’espulsione illegale, abusando dei loro privilegi di diplomatici che dunque non possono continuare a godere». «Sapevano cosa stavano facendo, che era un rapimento ed una deportazione e che si svolgevano in maniera illegale» spiega Madina, rimettendosi nella mani della magistratura italiana.
Sebbene gli agenti italiani siano stati accusati di aver partecipato alla cattura di Alma e Alua, l’azione penale non investe cittadini del nostro Paese, citando invece a sostegno della denuncia dichiarazioni delle più alte autorità italiane. «Il premier Letta ha revocato l’ordine di espulsione, chiedendo al Kazakhstan il ritorno di Alma e Alua» e «il presidente Napolitano ha parlato di caso inaudito» si legge nel testo, in cui si giustifica il termine di «rendition straordinaria» - adoperato dagli Usa per indicare dopo l’11 settembre 2001 la cattura di sospetti terroristi - con il fatto che lo scorso 18 luglio un rapporto dell’Onu ha compiuto la medesima scelta. Il tentativo dei famigliari è così di ottenere una sentenza a Roma contro il Kazakhstan sufficientemente dura da spingere Astana a far ripartire in fretta Alma e Alua alla volta dell’Italia. L’avvocato francese, intanto, ha chiesto nuovamente la scarcerazione di Ablyazov. La questione sarà discussa domani dalle autorità transalpine.

Repubblica 25.9.13
La doppiezza della Merkel
di Barbara Spinelli


NON è semplice definire la fisionomia di Angela Merkel divenuta cancelliera per la terza volta. In patria ha trionfato grazie alla sua sembianza tranquilla, rassicurante, digiuna d’ogni ideologia: i tedeschi la chiamano Mutti, Mamma.
Senza remore assorbe idee socialdemocratiche, come Blair assorbì Margaret Thatcher. In Europa la fisionomia è tutt’altra: perentoria, rigida, matrigna più che materna. È come se avesse accanto a sé un sosia, un signor Hyde che di notte s’aggira nelle città europee e non strangola certo fanciulle ma piega le economie dei paesi troppo indebitati, che la sua morale castigatrice non tollera. Li piega fino a spezzarli: è successo in Grecia, peccatrice per eccellenza.
È una doppiezza con cui continueremo a fare i conti, anche perché i tedeschi desiderano proprio questo: l’isola immunizzata in un felice recinto, e fuori un disordine caotico che solo l’inflessibile mano di Berlino può disciplinare, per salvare l’euro o distruggerlo purché la Germania non finanzi eccessive solidarietà.
Ulrich Beck ha dato un nome a questa strategia che esalta l’insularità nazionale, che è del tutto priva di visione europea, e ha tramutato l’Unione in disunione: l’ha chiamata modello Merkiavelli. Il Principe deve scegliere: o farsi amare o farsi temere. La vincitrice delle elezioni si sdoppia: è amata in casa, e fuori incute paura. Se in questi anni ha eretto l’esitazione a norma, se un giorno apre all’unione federale e il giorno dopo s’avventa contro il rafforzamento del bilancio europeo, la mutualizzazione dei debiti, l’unione bancaria, è per meglio acquietare i propri elettori. «L’esitazione si fa strumento machiavellico di coercizione», anche se ogni volta lo sfascio dell’Europa è evitato in extremis, e ad alto prezzo.
Beck è convinto che alla lunga la strategia non reggerà. Verrà il momento di decisioni più ardite, e la Merkel oserà l’integrazione europea che non ha davvero tentato. Non più allarmata dal voto, aspirerà a una grandezza meno provinciale: vorrà entrare nei libri di storia come vi sono entrati Brandt, Schmidt, Kohl. Non sarà disturbata oltremisura dal nuovo partito anti-europeo (Alternativa per la Germania), che farà sentire il suo peso ma non è ancora in Parlamento. Desidererà esser ricordata per la sua qualità di guida che accomuna gli europei, invece di spaventarli, soggiogarli, separarli.
Questo carisma non l’ha mai posseduto. Non c’è una sua sola frase sull’Europa che sia memorabile, se escludiamo l’interiezione (Un passo dopo l’altro – Schritt für Schritt)che costella i discorsi. Lo stesso machiavellismo dovrebbe indurla a cambiar strada, a realizzare l’Europa politica che ogni tanto invoca. La Germania è diventata troppo potente – conclude Beck – per permettersi il lusso dell’indecisione, dell’inattività. Né lei né i socialdemocratici possono continuare a sonnecchiare sull’orlo del vulcano, come la bella addormentata descritta da Jürgen Habermas.
Per svegliarsi dal sonno non basta tuttavia liberarsi del machiavellismo: che è solo un metodo, utile a simulare l’assenza di ideologie. L’ideologia c’è, invece: la logica del recinto immunizzante presuppone la certezza di possedere una scienza infusa, un’ortodossia economica non confutabile, e di quest’ortodossia si nutre il neo-nazionalismo tedesco. Non è più l’aspirazione a un impero territoriale, ed è vero che Berlino non desidera restare sola al comando, come alcuni sostengono. È il nazionalismo di ricette economiche presentate come toccasana infallibili, e che può essere riassunto così: che ognuno «faccia i suoi compiti a casa» – dietro le rispettive palizzate, costi quel che costi – e solo dopo saranno possibili la cooperazione, la solidarietà, l’Europa politica di cui ci sarebbe subito bisogno. I risultati del nazional-liberalismo tedesco (il nome scientifico è ordoliberalismo) sono stati disastrosi. In Grecia, i salvataggi accoppiati a terapie recessive hanno aumentato il peso del debito pubblico sul prodotto nazionale (130% nel 2009; 175 oggi), con effetti tragici su crescita e disoccupazione (27% sul piano nazionale, 57% fra i giovani).
La cancelliera non vuole comandare, ma soverchiatore è il dogma secondo cui l’ordine mondiale regnerà a condizione che ogni Stato faccia prima ordine economico in casa. È predominio il rifiuto opposto agli eurobond, gli ostacoli frapposti all’unione bancaria perché Berlino mantenga il controllo politico sulle proprie banche, l’ostilità a un aumento delle risorse comunitarie che consenta quei piani europei di investimento che Jacques Delors propose invano fin dal ‘93-’94. È predominio quando la Banca centrale tedesca chiede di contare di più negli organi della Bce, e attacca Draghi perché s’è permesso contro il parere berlinese di soccorrere i paesi in difficoltà acquistando i loro titoli. Non meno prepotente è la Corte costituzionale di Karlsruhe, che paralizza l’Unione ogni volta che verifica la conformità dei piani europei di solidarietà alla Costituzione tedesca, senza mai inglobare gli imperativi dei trattati costituzionali della Comunità. Siamo abituati ad associare nazionalismo e autoritarismo. Ma il nazionalismo può anche indossare le vesti di una democrazia nazionale osservata con puntiglio: ma nell’isolamento, indifferente a quel che pensano e vivono le altre democrazie dell’Unione.
Se la Merkel ha vinto con questa ricetta è perché il neo-nazionalismo è diffuso nel paese. Una Grande Coalizione fra democristiani e socialdemocratici non cambierebbe nella sostanza le cose: la socialdemocrazia appoggia da anni le politiche europee del governo, pur denunciandone a parole i pericoli. Ha addirittura accusato la Merkel di spendere troppo. Proporsi un’Europa diversa è compito affidato alla cancelliera come ai suoi eventuali alleati di sinistra.
IlModello Germania fa ritorno, ma non è più l’alternativa al mercato senza briglie che Schmidt concepì nel ‘76. I tedeschi cercano rifugio nell’ortodossia nazional-liberista non perché felici, ma perché impauriti. Vogliono a ogni costo stabilità. E «nessun esperimento», come Adenauer promise dopo il ‘45. Non tutti i tedeschi in verità, perché c’è povertà anche in Germania e ben 7 milioni di precari lavorano per salari oscillanti fra 8 e 5 euro l’ora (meno dal salario minimo in Spagna). Ma i più si sentono confortati da un leader che non sembra chiedere granché ai concittadini, anche quando in realtà chiede. Bisogna che la crisi tocchi la pelle del paese, perché ci sia risveglio. La Merkel ne è stata capace, a seguito della catastrofe di Fukushima: meno di tre mesi dopo, il 6 giugno 2011, ha rinunciato all’energia atomica.
Molto potranno fare gli Stati dell’Unione, se smetteranno la subalternità che li distingue. Tra i subalterni ricordiamo l’Italia di Letta-Napolitano, che s’aspettava chissà quali miracoli dal voto tedesco; e che dopo il voto si autoincensa paragonando l’imparagonabile: Larghe Intese eGrosse Koalition, Berlusconi e Merkel, indecentemente assimilati.
Molto dipenderà infine dalle sinistre tedesche. Sulla carta esiste una maggioranza parlamentare, composta di socialdemocratici, verdi e sinistra radicale (Linke).Governare con laLinkeè giudicato irresponsabile dalla Spd, ed è tabù comprensibile: il partito ingloba gli ex comunisti della Germania Est. Ma questi anni potevano essere usati per costruire un dialogo civilizzatore della Linke,e prefigurare un’alternativa alla Merkel. Per tanti tedeschi il dialogo è destabilizzante. Ma la democrazia non si esaurisce tutta nella stabilità, nella continuità. Priva come la Merkel di forti visioni, la socialdemocrazia è rimasta intrappolata nello spirito dei tempi: «Non c’è alternativa alle cose come stanno». È un altro recinto da smantellare, se con la Germania crediamo non alle cose come stanno, ma alla possibilità di un’Europa diversa.

l’Unità 25.9.13
Era in sciopero della fame, Pussy Riot finisce in cella d’isolamento
di Roberto Arduini


Dicono sia per la sua sicurezza, ma sembra più una reazione alla lettera in cui una delle Pussy Riot in carcere, Nadezhda (Nadia) Tolokonnikova, denunciava le condizioni di vita disumane in cui lei e le altre detenute sono costrette a vivere. Il servizio penitenziario russo ha annunciato di averla trasferita in una cella d’isolamento, dopo che la ragazza ha avviato uno sciopero della fame per protesta. «Non è una cella di punizione», ha assicurato un portavoce del servizio penitenziario.
«È l’unica forma di protesta che mi rimane per non essere annientata», aveva scritto nella lettera pubblicata su Internet in cui descrive la vita disumana nella Colonia Correttiva numero 14 in Mordovia, a circa 400 km da Mosca. Tolokonnikova, 23 anni, madre di una bambina di 5, sta scontando una pena di due anni di carcere per aver cantato con la sua band una parodia liturgica di 40 secondi e una «preghiera punk» contro il presidente Vladimir Putin nella più grande cattedrale di Mosca. Il portavoce ha detto che la donna è ospitata in una «cella singola, in condizioni confortevoli, un’area di sette metri quadrati, con un letto, un frigorifero e un gabinetto». La sua legale Irina Khrunova ha confermato la notizia.
Lo sciopero della fame è per denunciare il fatto che le prigioniere sono costrette a cucire 17 ore al giorno e di aver ricevuto minacce di morte dal vicedirettore della colonia penale: «Lavoriamo dalle sette e mezza del mattino a mezzanotte e mezza – ha raccontato la giovane nella lettera – Non abbiamo più di quattro ore per dormire. Ci danno un giorno libero ogni sei settimane. Le mani sono piene di piaghe e buchi fatti dagli aghi; il tavolo è coperto di sangue, ma tu continui a cucire». Nella lettera, la ragazza ha descritto le condizioni di lavoro strazianti nella colonia penale, affermando che le le sue compagne di prigionia vengono trattate come schiave. Nadia finora non è stata percossa, perché è troppo famosa, ma alcune sue compagne hanno subito l’amputazione di una gamba o sono state pestate a morte. Morozov ha detto che le autorità hanno deciso di spostare Tolokonnikova per la sua sicurezza. «Non è una punizione, ma lo spostamento è dovuto alle presunte minacce ricevute» ha detto.
In Italia, i deputati Michele Anzaldi e Enzo Amendola (Pd) hanno annunciato un’interrogazione urgente.

l’Unità 25.9.13
Grecia, inchiesta sulla polizia: ha coperto Alba Dorata
di Teodoro Andreadis


Potrebbe essere la volta buona. L’assurda morte del trentaquattrenne rapper antifascista Pavlos Fyssas, accoltellato una settimana fa da un estremista di destra in un sobborgo del Pireo, potrebbe aver segnato un vero punto di svolta ed essersi trasformata nell’«l’inizio della fine» per Alba Dorata. L’attenzione di tutti i mezzi di informazione greci, negli ultimi giorni, è concentrata sulla formazione neonazista, sul suo ricorso sistematico alla violenza, sulle intimidazioni subite da immigrati, omosessuali, cittadini greci che hanno osato opporsi a questi estremisti.
È ormai chiaro che l’assassino, Jorgos Oupakias, il quarantacinquenne di Fyssas, ha agito per odio politico, che è stato chiamato tramite cellulare per uccidere il giovane rapper di sinistra e che frequentava sistematicamente gli uffici e tutte le iniziative di Alba Dorata.
Il ministro responsabile per l’ordine pubblico, Nikos Dendias, ha deciso di «dimissionare tre alti ufficiali della polizia greca, mentre altri dieci loro colleghi sono stati messi in aspettativa obbligatoria, in attesa che vengano chiarite eventuali responsabilità e connivenze della polizia con l’estremismo di destra. Il governo ha ordinato, infatti, un’indagine urgente sui presunti legami tra Alba dorata, la polizia e le forze armate. Il ministero dell’Ordine pubblico ha fatto sapere che i comandanti di dipartimenti di forze speciali, sicurezza interna, criminalità organizzata, armi da fuoco e materiali esplosivi e della divisione motorizzata di risposta rapida, sono stati spostati
verso altri incarichi mentre è in corso l'indagine. La decisione, ha fatto sapere il governo, è stata presa per «garantire un’assoluta oggettività» della polizia. Nel frattempo, il ministro degli Interni, Yorgos Michelakis, non esita a definire il partito neonazista «un’organizzazione criminale con caratteristiche proprie di una banda armata, di un’associazione a delinquere. Un’organizzazione militare». «Il nostro governo farà tutto il possibile per combattere questa formazione neonazista», promette Michelakis.
È come se la Grecia si fosse svegliata da un sonno profondo, con una presa di coscienza collettiva che impone di prendere atto e agire, perché non si assista più ad attacchi squadristi, a intimidazioni e assassinii che nulla hanno a che fare con una democrazia europea.
Secondo gli ultimi sondaggi, Alba Dorata dal 13% nelle intenzioni di voto, dopo l’assassinio di Pavlos Fyssas, è scesa a poco più del 5%. Il periodo della tolleranza e a volte della vera e propria connivenza pare essere davvero finito. Ora, ad esempio, si cerca di capire come sia possibile che nella città di Chalkida, nell’isola di Eubea, i poliziotti, venerdì scorso abbiano assistito a comportamenti chiaramente illegali senza intervenire.
«Tutte le forze politiche devono collaborare per riuscire a fermare questa minaccia, per mettere nell’angolo una formazione che rappresenta il male assoluto» ribadisce il leader del partito di sinistra riformista Dymar, Fotis Kouvèlis. Anche buona parte del centrodestra di Nuova Democrazia sembra aver compreso che fermare l’estremismo di destra è molto più urgente delle dinamiche della normale dialettica politica, è che era assolutamente errato, cercare di equiparare la sinistra eurocomunista di Syriza con i neofascisti di Chrysì Avghì ( Alba dorata) secondo una logica alquanto singolare dei «due punti estremi dello spazio politico greco».
Il fronte politico comune, le iniziative legislative ed il contrasto di Alba Dorata potrebbero essere il principale elemento di coesione delle forze democratiche greche, sino alle elezioni europee del prossimo giugno.

il Fatto 25.9.13
Grecia, “Alba dorata prepara il golpe”
Lo rivela un’informativa dei servizi segreti ellenici e israeliani: protezioni nelle forze armate
di Francesco De Palo


Atene Un manifesto di cieca fedeltà alla causa, commandos pronti all’azione in dieci minuti, depositi di armi individuati in tutto il Paese, due cambi (improvvisi) ai vertici delle forze di Polizia. La Grecia, che riceve oggi l’ennesima visita della troika, potrebbe rivivere l’incubo di un colpo di stato 47 anni dopo la notte del Politecnico. Questa volta al posto dei colonnelli Papadopoulos e Ioannidis i dirigenti del partito neonazista di Alba dorata che, secondo un’informativa dei servizi segreti ellenici e israeliani, sarebbero a un passo dal rovesciare la democrazia. I primi segnali di un forte attivismo militare si sono avuti già da alcune settimane, quando alcune fonti anonime avevano indicato i campi di addestramento del partito guidato da Nikolaos Mikalioliakos. In seguito è stata la volta di due pentiti che hanno raccontato ai quotidiani le strategie del movimento che alle scorse elezioni politiche ha ottenuto il 7% dei consensi, facendo ingresso in Parlamento per la prima volta dopo quarant’anni: percentuale che oggi sarebbe lievitata fino al 20% secondo sondaggi che sono stati tenuti secretati, ma che negli ultimi giorni sono stati pubblicati.
LA POLITICA ha fatto scattare i primi provvedimenti, con un vertice notturno due sere fa tra il ministro della difesa Avramopulos e quello degli interni Dendias, che ha causato un terremoto ai vertici della Polizia, sospettati di collusione con Alba dorata: sono saltate due teste che contano nello scacchiere della sicurezza nazionale, ovvero i due vice capi della Polizia, rispettivamente con delega al centro e al sud del Paese, dimissionati in poche ore. Secondo i servizi sarebbero riconducibili a quell’ombrello di protezione nelle forze armate che il partito ha e che avrebbe potuto rappresentare il braccio armato in un’eventuale sollevazione. In serata ad Agrinio è stato arrestato un poliziotto, ex autista del deputato di Chrisì Avghì Ilias Barbarousis: nella sede del partito aveva asce, catene e manganelli. Era stato sospeso dal corpo di Polizia lo scorso anno perché aveva preso parte alle ronde contro gli immigrati. La situazione sembra essere precipitata nel giro di poche settimane, prima con scontri contro i manifestanti di sinistra, fino all’assurda morte del rapper 34enne Fyssas, accoltellato da un simpatizzante di Alba dorata. Da quel giorno l’aria per le strade di Atene si è fatta pesante, come a far tornare le lancette dell’orologio alla notte fra il 20 e il 21 aprile 1967, quando il reggimento di paracadutisti del maggiore Gheorghios Konstantopoulos occupò il ministero della Difesa. Ad aggiungere tensione anche l’articolo scritto da Ourania, figlia di Mikalioliakos, leader di Alba dorata, che sul sito del partito ha vergato una sorta di chiamata alle armi: “Chiedete a voi stessi quanto siete disposti a sacrificare e quanto avreste da perdere. Chiedetevi fin dove siete disposti ad andare. Sì, pochi sanno cosa voglio dire. Chiedetevi se si può perdere tutto, ma proprio tutto, per un’idea, la nostra idea. Basta chiedere a se stessi. Si può essere uno di noi, si può vivere solo per un’idea? Posso? Possiamo?”.

La Stampa 25.9.13
Continua la politica di acquisizioni di terre agricole nei Paesi stranieri
Pechino compra il 5% dell’Ucraina
Mega operazione Tre milioni di ettari produrranno cibo per i consumi cinesi
I terreni sono pari all’estensione di piccoli Stati come il Belgio l’Armenia o il Massachusetts
di Ilaria Maria Sala


Un pezzo di Ucraina parlerà cinese. Dopo aver fatto incetta di terreni agricoli in Africa soprattutto in Madagascar – Pechino punta i radar verso l’Europa orientale. E acquisisce - anche se non è chiaro con quale modalità, se affitto o una vera e propria compera il 5% del territorio, pari a 3 milioni di ettari, del vecchio «Granaio d’Europa».
Una strategia di lungo termine dettata dalla necessità di un Paese dove la popolazione è in aumento, le zone urbane si allargano e diminuiscono le aree coltivabili per colpa di inquinamento ed espansione industriale e immobiliare. Così a Pechino si sono evidentemente chiesti: dove troveremo la terra arabile e le risorse idriche per nutrire, dissetare e vestire più di 1,3 miliardi di persone? Già ora la Cina è particolarmente preoccupata per la sua dipendenza dall’estero per la soia, il cotone, l’olio di palma, i latticini, le pelli e la lana, e per le riserve d’acqua potabile.
I cinesi già possono contare su importanti appezzamenti in Africa e in Sud America, in Asia Centrale, e in particolare nel Corno d’Africa e in Brasile. Ora si aggiunge il fronte europeo. Secondo l’International Institute for Sustainable Development (Iisd), la Cina è impegnata in 54 progetti agricoli oltreconfine per un totale di 4,8 milioni di ettari di terra che garantiscono investimenti agricoli per l’esportazione esclusiva alla Cina. A questi, dice l’Iisd, devono aggiungersi numerosi progetti attualmente in corso di finalizzazione, in particolare in Kazakhstan e appunto in Ucraina. Le informazioni sull’acquisto da parte cinese del 5% del territorio ucraino sono rimbalzate su vari quotidiani diventando in breve un vero e proprio caso politico e costringendo in serata le autorità a ridimensionare, spiegare, dettagliare meglio il senso dell’operazione. Così la versione accreditata ora da Kiev è che la Cina sta conducendo dei negoziati e puntando a investimenti nel settore idrico e agricolo con l’Ucraina. Più che di acquisto di terreno si parla di «noleggio» per decine di anni. Il senso però dell'espansionismo cinese non cambia.
A guidare le trattative sono Xinjiang Production and Construction Corps, un corpo paramilitare cui Pechino ha fatto ricorso per «normalizzare» la situazione nella provincia occidentale dello Xinjiang, e l’ucraina Ksg Agro.

Corriere 25.9.13
Svezia, schedati 4 mila rom. Il governo critica la polizia
di Maria Serena Natale


Una lista segreta con nomi, indirizzi, gradi di parentela; gli uomini segnati in blu, le donne in rosso; molti bambini. L’albero genealogico che turba la pace sociale svedese riporta le generalità di oltre quattromila rom, rievoca schedature e pratiche persecutorie del passato.
Il documento compilato dalla polizia di Skane, nel Sud della Svezia, è stato scovato dal quotidiano Dagens Nyheter , che ieri ha rivelato l’esistenza di una seconda lista con i nomi di 997 persone, compresi bimbi di due anni. Dopo le prime smentite, i vertici delle forze dell’ordine hanno ammesso l’esistenza dei file e avviato un’indagine. Secondo la testimonianza di un agente in pensione protetto dall’anonimato la lista sarebbe stata realizzata otto anni fa in occasione di un’ondata di reati attribuiti alla comunità rom dell’area. L’autorità per la tutela dei diritti del cittadino ha annunciato un’inchiesta per appurare se le persone schedate abbiano subito penalizzazioni o discriminazioni solo perché legate da rapporti familiari a sospetti criminali. «Tutto questo ci spaventa — dichiara il portavoce dell’Associazione giovanile rom Erland Kaldaras —. Dobbiamo riprendere i metodi usati in Germania quando l’obiettivo era sterminare rom ed ebrei?».
Pur essendo in gran parte sedentarizzati, i cittadini rom sono stati classificati come «itineranti», termine non previsto dalle leggi svedesi. «Pericoloso, immorale, inaccettabile e illegale», ha commentato la ministra agli Affari europei Birgitta Ohlsson. Le schedature su base etnica, palese violazione della Convenzione europea sui diritti umani, hanno sollevato un’ondata di indignazione nel Paese punto di riferimento per la tutela dell’eguaglianza e dei principi dello Stato di diritto, a pochi mesi dalle inedite esplosioni di violenza nelle periferie di Stoccolma che hanno messo in discussione il modello nazionale d’integrazione e dato nuovo slancio alla destra populista anti-immigrazione. I rom rappresentano la più ampia minoranza etnica d’Europa, in Svezia sono circa 50 mila. La loro integrazione nel tessuto sociale è un nervo scoperto in molti Paesi, Václav Havel la definì «prova del nove per una società civile». «Esistono liste simili in altri Paesi?» chiede ora l’austriaco Hannes Svoboda, presidente del gruppo dei socialisti e democratici all’Europarlamento. Senza risposta resta la domanda di Sandra Hakansson, cittadina rom svedese, schedata con tutta la famiglia. «Perché i miei figli sono su quella lista?».

l’Unità 25.9.13
Le incertezze del nostro Paese al Festival del diritto
Lo Stato moderno? Rischia di morire
A proposito di democrazia: intervista al filosofo del diritto Luigi Ferrajoli
L’incontro venerdì a Piacenza: «L’impotenza della politica verso l’economia spiega è dovuta al carattere globale dei poteri finanziari e al carattere locale dei partiti. Intanto c’è stato un rifiuto della Costituzione»
di Jolanda Bufalini


LA DRAMMATICA CRISI SOCIALE, SOSTIENE LUIGI FERRAJOLI, CONSIDERATO NEL MONDO FRA I PIÙ IMPORTANTI FILOSOFI DEL DIRITTO, mette a rischio la democrazia e lo stesso Stato moderno, nato, diversamente da quello «patrimoniale» dell’Ancièn Regime, per rappresentare la sfera pubblica. Sarà questo il tema dell’intervento del giurista, venerdì prossimo, al Festival del diritto di Piacenza.
Lei usa, in un saggio in uscita su «Democrazia e diritto», un’espressione molto efficace: impotenza della politica verso l’economia, onnipotenza verso le persone, a danno dei loro diritti. Come si è prodotta questa situazione?
«L’impotenza è dovuta a una molteplicità di fattori, c’è l’asimmetria fra il carattere globale dei poteri economici e finanziari, e il carattere locale della politica, che risponde alle logiche delle elezioni, dei sondaggi dentro i confini territoriali». Ma c’è anche, lei dice, un fattore culturale.
«C’è la potenza dell’ideologia che concepisce il mercato come luogo della libertà e, addirittura, considera le leggi di mercato come leggi naturali, il lavoro dell’ economista pari a quello di un fisico. Un’ ideologia alla quale la stessa sinistra è risultata subalterna, persino la sinistra di origine marxista per la quale, una volta, si doveva abbattere il capitalismo. Ora che si è stabilita l’impossibilità di abbattere o di trasformare, la sinistra è rimasta ancorata all’idea del primato dell’economia immutabile, non aggredibile dalla politica. Poi ci sono i conflitti di interesse, la corruzione, gli andirivieni dei manager fra grandi imprese e incarichi politici».
L’altra faccia della medaglia è l’onnipotenza nei confronti dei cittadini.
«L’impotenza nei confronti dei mercati finanziari ha portato a un capovolgimento delle nostre Costituzioni, a una intolleranza, al rifiuto dei vincoli costituzionali, per i quali la politica è sovraordinata all’economia. Pensi agli articoli 41-43 della Costituzione italiana, dove è indicato il fine sociale dell’economia, dove si prevede la possibilità dell’esproprio. Le politiche europee ma anche Clinton hanno liberalizzato la circolazione dei capitali ma impedito agli stati di aiutare le imprese, di salvaguardare posti di lavoro. L’idea della Thatcher, “se non siete capaci affogate” ha portato proprio a questo, sono affogate le attività produttive inglesi, restano in piedi solo quelle finanziarie. I mercati finanziari dettano politiche antisociali imponendo che si ignorino i vincoli costituzionali in materia di salute, e di lavoro. E in Italia si vuole addirittura cambiare la Costituzione, rafforzando l’esecutivo. Dunque c’è un nesso, non una volontà di violare la Costituzione, ma un nesso fra la subalternità al liberismo economico e la violazione dei vincoli dettati dalla costituzioni degli stati moderni».
Parla al plurale perché l’attacco non è solo alla Costituzione italiana ma alle costituzioni dei paesi europei?
«Parlerei di costituzionalismo più che di costituzione, perché la Costituzione altro non è che lo statuto, la ragione sociale dello Stato italiano, se la ragione sociale di una impresa privata è il profitto, quella dello Stato è l’interesse pubblico. Deriva da Hobbes: per Hobbes lo Stato era a garanzia della vita, poi si sono aggiunte altre finalità, come la salute, l’istruzione, il lavoro. E, con la Costituzione, questi principi sono diventati norme vincolanti, ma non c’è un sistema di garanzie efficaci, né c’è la possibilità di intervenire sulle inadempienze. L’articolo 38 della Costituzione italiana prevede mezzi di sussistenza per la disoccupazione involontaria, ma non c’è una legge di cittadinanza. Non c’è, in Italia, una legge sulla tortura (art.13), e non c’è sull’asilo ai rifugiati, perché si tratta di soggetti deboli: i precari senza lavoro non hanno forza contrattuale mentre l’effettività dei diritti si impone con le lotte sociali».
Lei è critico verso le politiche europee ma, mi pare, chiede più Europa?
«Abbiamo unificato la moneta ma, in mancanza di un governo politico dell’economia europea, subiamo le decisioni di organi sovranazionali che non ci rappresentano. Il risultato è che gli stati non controllano la propria moneta, a vantaggio degli stati più forti come la Germania. Però anche la Germania, sul lungo periodo, finirà per essere danneggiata. Ciò che è più grave è il venir meno della percezione, in Grecia, in Italia, in Spagna, dell’Europa come progresso e quindi il crollo dello spirito unitario dell’europeismo. A mio avviso questo è l’aspetto più irresponsabile, la Grecia si poteva salvare con pochi milioni di euro, del passo indietro che si è compiuto nella politica economica in nome di una supposta eguaglianza delle condizioni di mercato».
Fra i nessi che lei stabilisce c’è quello del discredito della politica.
«Il discredito è dovuto al carattere parassitario della politica, dal momento che la politica non ha la capacità di governo si trasforma in tecnocrazia, non per caso abbiamo avuto il governo Monti. In Italia c’è mezzo milione di persone che vive di politica ma non svolge la propria funzione, è chiaro che, in queste condizioni, si crea una casta.
Poi ci sono le particolarità italiane, Berlusconi, la corruzione, l’abbassamento della qualità della rappresentanza dovuto alla legge elettorale». Definisce l’Italia un caso clinico?
«Il caso clinico più radicale, se si considera che, fra quelli che hanno votato, due terzi si sono espressi in favore di partiti padronali».
Un partito padronale è noto, quello di Berlusconi. L’altro?
«È Grillo. È avvilente vedere 150 parlamentari che hanno paura di dissentire. E i due partiti padronali o non praticano o sono contro il divieto del vincolo di mandato. Ma tale divieto non è una invenzione della casta, è l’essenza stessa della democrazia rappresentativa. Senza, il parlamentare non rappresenta la nazione ma un padrone, un interesse particolare, un partito».
Cosa pensa del finanziamento pubblico?
«Sono decisamente controcorrente, penso che dovrebbe essere proibito non il finanziamento pubblico ma quello privato che non sia quello degli iscritti e commisurato agli stipendi. Vietato il finanziamento delle persone giuridiche, se vogliamo che il nostro voto vada ai partiti e non ai loro finanziatori. Finanziamento che dovrebbe essere subordinato a uno statuto democratico».
Lei resta convinto della funzione democratica dei partiti?
«I partiti sono essenziali ma o si rifondano o finiscono. Pensi al partito di Berlusconi, tutto schierato attorno ai problemi del capo, le accuse di tradimento contro chi esprime dei dubbi. Cito sempre una lucidissima definizione di Aristotele: “la demagogia scrive Aristotele è la forma di governo in cui sovrani sono molti non considerati, però come nella democrazia come singoli che votano e dissentono con l’inevitabile pluralismo che ne consegue, bensì nella loro totalità”».

Le incertezze del nostro Paese al Festival del diritto

Ritorna a Piacenza dal 26 al 29 settembre la VI edizione del Festival del Diritto, progettato dagli editori Laterza, sotto la direzione scientifica di Stefano Rodotà. Tema «Le incertezze della democrazia». L’inaugurazione sarà affidata a Gustavo Zagrebelsky, giovedì 26 alle ore 18.00, introdurrà il tema portante del Festival: «Democrazia, scena o messinscena?». Nella prima giornata anche l’intervento di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose.
Venerdì 27 Stefano Rodotà introdurrà il tema dei diritti fondamentali a partire da salute, istruzione e lavoro; di politica in rete si parlerà con Vittorio Bertola, Fiorella De Cindio, Giovanna De Minico e Gad Lerner; Stefano Zamagni e Luigi Ferrajoli interverranno su mercato e democrazia. Un confronto sui diritti europei sarà al centro dell’incontro con Emilio De Capitani, Juan Fernando Lòpez Aguilar e Stefano Rodotà, al centro del dialogo tra Massimo Luciani e Salvatore Veca «le
sfide globali e le democrazie nazionali». Antonio Spadaro ci condurrà alla scoperta delle intersezioni tra riflessione teologica digitale e nuove forme di democrazia; Ilvo Diamanti parlerà dello «stato di salute della democrazia italiana», Gino Strada sul «diritto alla pace». Sabato 28: Remo Bodei, Nadia Urbinati, Mario Dogliani, Carlo Galli, Sergio Romano, Laura Boldrini . Domenica: Gaetano Quagliarello, Mariuccia Salvati, Luigi Ferrarella. La chiusura sarà affidata a Luciano Canfora.

l’Unità 25.9.13
Occhetto: il pioniere, la carovana e il Pd
di Bruno Gravagnuolo


LA SVOLTA DELLA BOLOGNINA FU GIUSTA. MA INFICIATA DI STORTURE. E l’occasione per tornarci è l’ultimo libro di Achille Occhetto: La gioiosa macchina da guerra. Veleni, sogni e speranze della sinistra (Ed. Int. Riun. pp. 319, Euro 16). Zibaldone autobiografico tra passato e presente, con al centro 1989 e dintorni, inclusa la sconfitta della «gioiosa macchina da guerra». Slogan ironico dice Occhetto che alludeva una «armata Brancaleone», e non a una invincibile armata.
Colpisce intanto la riabilitazione «postuma» della Bolognina da parte del prefatore Michele Serra, all’epoca malpancista e ad essa avverso. Oggi Serra torna sui suoi passi, acriticamente però. E scioglie un peana pieno di gratitudine ai «nuovi inizi» che furono spezzati (da burocrati, continuisti, gattopardi, etc...). Serra insomma oggi è «nuovista», «movimentista», tutto cittadini e società civile. Come l’Occhetto di ieri (oggi lo è molto meno...) e tanti odiati ex miglioristi, ormai riconvertiti. Ma il nodo, che il libro pur pregevole non scioglie, è questo: come mai la Bolognina (necessaria) salvò il salvabile ma non produsse né partito, né blocco sociale, né vittorie durature? Anzi fu seguita dalla vittoria di Berlusconi del 1994? È qui che s’affanna l’autore della «svolta». Sabotaggio del «nuovo inizio» egli dice e poi nessuno capì davvero l’ascesa della destra in quel 1994. Non ci pare. In realtà il Pds restò librato in aria: né comunista, né socialdemocratico. Per volontà di Occhetto stesso. Fu il «partito-movimento che non c’è». Alternativista, trasversale. Ma senza baricentro identitario nell’unico solco possibile che aveva avanti a sè: un nuovo socialismo di sinistra. C’era Craxi? Fu un alibi per rifiutare la socialdemocrazia. Quanto al 1994, il Pds non agganciò il centro (Ppi o Segni) e col maggioritario i giochi si chiusero a favore del Cav. Oggi c’è il Pd. Ma è poi così lontano il Pd dalla «carovana» variopinta che Occhetto immaginò e che oggi maledice?

Corriere 25.9.13
Il tempo che non finisce
di Armando Torno


Henri Corbin è stato il primo traduttore di Heidegger in francese. In Tempo ciclico e gnosi ismailita (a cura di Roberto Revello, ed. Mimesis, pp. 258, 20) si interroga sull'enigmatico flusso che tormenta religioni e filosofie, su colui che stringe le esistenze: il tempo, appunto. Le sue idee sono però distanti dalla tradizione razionale dell'Occidente, da quell'idea rettilinea, incessante, dove si accalcano progressi e avanzamenti; Corbin si occupa non della durata miserevole registrata dai calendari ma di quella presente nella dimensioni della liturgica, dei simboli, dei riti. C'è insomma un tempo che non ha paura del tempo: è quello che sa di ritornare. In questo prezioso saggio, finalmente tradotto, egli esamina il tempo ciclico del mazdeismo, poi si concentra sul medesimo in ambito ismailita. E qui entra in gioco la gnosi: Corbin dedica una parte al passaggio da quella antica all'ismailita. Già, gli ismailiti. In Occidente sono noti per la leggenda degli Assassini, si tratta tuttavia di un movimento mistico islamico ricco di concezioni metafisiche.

Corriere 25.9.13
La sosta per la mente che ci manca
Serve un giorno dedicato all'Uomo, un tempo per guardare «oltre»
di Vittorino Andreoli


Nella Roma antica si celebrava il dies solis il «giorno del Sole» in onore della stella che dà la vita e che rappresenta certamente la prima divinità della antropologia, della storia dell'umanità. Al Sole Roma ha dedicato anche il riposo settimanale su decisione di Costantino presa nel 321. Quando il Cristianesimo diventa religione di Stato questi significati passano al dies dominicus «il giorno del Signore». Lo proclama ufficialmente Teodosio I nel 383.
La domenica, come festività settimanale dedicata al Signore, è diventata da allora il riferimento per l'Occidente, anche se alcune lingue mantengono la vecchia espressione: per l'inglese la domenica è il Sun-day, per il tedesco il Sonn-tag.
Dopo dunque più di 17 secoli viene spontaneo chiedersi se abbia ancora senso il giorno del riposo, sia pure dedicato a Dio, quando la società è mutata radicalmente e i bisogni dell'uomo hanno subito una vera metamorfosi. Basterebbe notare che il tempo presente pone drammaticamente il bisogno di lavoro per interrompere una inattività forzata dalla disoccupazione, basterebbe ancora guardare alla diffusione del jogging, delle marce, delle ginnastiche che tendono a rispondere alla preoccupazione di muovere il corpo che tende a rimanere immobile, fissato davanti agli strumenti digitali e alla televisione. La nostra è una società sedentaria e per la tecnologia, la muscolatura, su cui si fondava la forza, ha acquisito un significato soltanto per la bellezza.
Ebbene, io credo che la domenica come tempo del riposo sia fondamentale oggi non per il corpo ma per la mente, che è la vera forza del tempo presente. E a preoccupare è la immobilità della mente, la stanchezza del pensiero, la rinuncia persino a porlo come controllore delle pulsioni. La nostra società è dominata da un empirismo estremo, da un agire che porta a scegliere senza una valutazione critica, come se anche le scelte dovessero tenere conto dell'immediato, del hic et nunc, come se il tempo che passa fosse il protagonista della nostra «fortuna» e lo si dovesse «prendere al volo».
Serve un tempo per meditare, non solo sulle scelte del quotidiano, ma sul significato stesso dell'agire e del nostro essere nel mondo. La nostra società ha perso la dimensione della introspezione, del guardarci dentro, del rapporto con la fragilità umana, con i limiti che sono parte del nostro stesso essere nel mondo: le malattie, la morte. Ungaretti in un bellissimo verso descriveva l'uomo «attaccato nel vuoto al suo filo di ragno».
In un'epoca poi in cui domina il potere dell'uomo sull'uomo, dell'homo homini lupus; in cui il denaro sembra aver preso il posto dell'ossigeno di cui abbiamo bisogno per respirare, è tempo di dedicare un giorno al senso dell'uomo e della società in cui viviamo, e certo dall'uomo e dai suoi limiti si arriva anche al Dominus, al Signore, qualsiasi sia il significato che gli si può dare. Senza la meditatio mortis si rischia di sentirsi immortali, come se il dio avesse il volto umano e di quell'uomo. Ecco, serve un giorno per pensare, magari insieme ad altri, un pensiero comunitario, e serve un tempo per guardare anche al cielo: Schiller ne «L'Inno alla gioia» diceva di cercare nel cielo perché da qualche parte si trova Dio.
Albert Einstein poi scriveva «la nostra mente limitata è in grado di intuire che una misteriosa forza muove le costellazioni... Le leggi della natura manifestano l'esistenza di uno spirito immensamente superiore a quello dell'uomo e di fronte al quale noi con le nostre modeste facoltà dobbiamo essere umili» (vedi in Vittorino Andreoli, Il Gesù di tutti. Piemme, 2013 pag.534).
E di fronte a questi pensieri «domenicali» viene persino voglia di pregare il Dio che c'è e che forse non c'è. Si percepisce il bisogno di inginocchiarsi per far si che l'uomo non divenga un mostro.
La domenica come giorno dell'Uomo e al contempo di Dio, poiché meditando sull'uomo ci si accorge di immaginare un non-Uomo, Dio. Ed è curioso che nei Vangeli Gesù si definisca ora Figlio dell'Uomo ora Figlio di Dio (ibidem, pag.332).
Augurando un «buon riposo» non penso al sonno ma ad una veglia in cui la mente penetri il mistero di quel frammento di universo che ha i colori dell'umano.

La Stampa TuttoScienze 25.9.13
Astuzia e un po’ di follia. Così la Terra fu dei Sapiens
di Gabriele Beccaria


I cervelli sono svaniti da tempo, eppure hanno lasciato i segni delle loro primordiali scintille. E adesso c’è un modo per trovarle e decifrarle. Provando a capire, finalmente, perché siamo diventati così intelligenti, di sicuro un po’ di più dei nostri diretti concorrenti, gli ominidi che conosciamo con i nomignoli di Neanderthal e Denisova. Quel «di più» sufficiente per il nostro trionfo e per la loro brusca estinzione, all’incirca 30 mila anni fa, quando si decise il destino dell’umanità.
Di sicuro non è stata solo una questione di geni (presenti o assenti), ma di quali si sono attivati e di quali, invece, si sono silenziati (o non si sono mai accesi). Per il 99%, infatti, noi e loro eravamo uguali. A fare la differenza è stato il gioco degli interruttori. In pratica, ciò che è scattato e ciò che è rimasto bloccato. Zoomando in 700 regioni del Dna, si è scoperto che «noi» abbiamo elaborato un modo diverso da «loro» di far funzionare un’intera serie di geni. In particolare alcuni legati al sistema immunitario e altri al metabolismo e altri ancora associati a una serie di disordini psicologici e neurologici. Un insieme di interazioni a doppia faccia che ha contribuito a plasmare le nostre capacità di comunicazione e di socializzazione e che allo stesso tempo ci ha resi più vulnerabili a diverse sindromi psicologiche e neurologiche (compreso l’autismo). Boom dell’intelligenza e rischio follia, così, si sono intrecciati, rendendoci decisamente originali, strani, e di sicuro così imprevedibili e creativi da vincere la lotteria dell’evoluzione.
In gergo scientifico questo grandioso fuoco d’artificio di «on-off» è la metilazione, vale a dire l’insieme delle etichette biochimiche che parlano solo a chi sa interrogarle con le tecnologie adeguate e che svelano le autentiche prestazioni dei geni. Nel caso della nostra specie la metilazione ha modellato i neuroni in modo diverso, addestrandoli a connettersi con logiche più complesse di quelle dei Neanderthal e dei Denisova e spalancando la strada a un tipo di cervello decisamente più sofisticato. Simile nel look, ma originale nella sostanza, perché iper-connesso e quindi super-potente.
E’ con questo tipo di esplorazione che si sta cominciando a definire una nuova mappa della materia grigia. E’ stata presentata in anteprima a Chicago, al meeting della Società americana di biologia molecolare, da un gruppo internazionale che riunisce ricercatori della Hebrew University di Gerusalemme e del Max Planck Institute di Monaco. Ed è stata ri-raccontata la settimana scorsa a Vienna, alla conferenza della «European society for the study of human evolution». È stata un’occasione emozionante per capire come si sta rivoluzionando lo sguardo sul passato remoto dei Sapiens e sui loro concorrenti. Se è ormai lontana l’epoca della supremazia dei fossili e se di recente si era balzati sui geni e sulle loro sequenze, adesso si arriva al nocciolo di tutto, addentrandosi nelle loro prestazioni.
La fissità del Genoma lascia il posto all’epigenoma, l’insieme dinamico delle relazioni che il Genoma stesso genera non solo con il resto dell’organismo ma con l’ambiente. E’ come se a un pasticcio di fotogrammi sconnessi si sovrapponessero le scene di un kolossal storico. In poche parole si materializza un racconto mai visto su come siamo diventati la specie dominante - e invasiva - di ominidi, l’unica a sopravvivere sul Pianeta Terra. E il team di studiosi visionari - Liran Carmel, David Gokham e Svante Paabo, bollati dai colleghi come i «signori della paloegenetica» - sta già pensando ai prossimi episodi. Per tutti loro la ricostruzione dell’avventura segreta dei Sapiens è appena all’inizio. Riportato in vita il primo capitolo, molte altre sorprese ci aspettano.

Corriere 25.9.13
Come classificare Che Guevara nella storia del Novecento
risponde Sergio Romano


È da anni che leggo la rubrica dei lettori del Corriere della Sera. Vengono richiamate figure di dubbia moralità come Bastianini e quel traditore di Milovan Djilas che aveva abbandonato la classe operaia e non per sfuggire a una classe politica corrotta ma per opportunismo. Mai che compaia una figura positiva. Penso a Ernesto Guevara. Già avevo avuto una delusione andando a vedere il film «Che» dove il protagonista era interpretato da Omar Sharif mentre Jack Palance recitava nella parte di Fidel Castro mettendolo in ridicolo. Per fortuna è uscito un libro intitolato «Compañero» di Jorge G. Castañeda che mette nella giusta luce l'eroe e poi non mancano le manifestazioni in cui i ragazzi indossano magliette in cui sul davanti è effigiata la faccia barbuta del Che. Ma se uno aspettasse qualcosa di meglio da un giornale borghese e reazionario come il Corriere della Sera non si andrebbe lontano!
Filippo Ferreti

Caro Ferreti,
Non sono mai riuscito a dividere il mondo della storia in buoni e cattivi. Non saprei criticare Tito senza riconoscergli il merito di avere guidato la lotta contro le forze tedesche e italiane durante la Seconda guerra mondiale e di avere coraggiosamente sfidato l'imperialismo sovietico dopo la fine del conflitto. Non saprei parlare male di Stalin senza aggiungere che costruì un grande Stato, incarnò il sentimento nazionale, trascinò il Paese alla vittoria contro la Germania nazista. Non saprei denunciare le colpe e gli errori del fascismo senza ricordare che molte delle sue istituzioni sono state ereditate e conservate dall'Italia democratica. Non saprei descrivere la tirannia di Fidel Castro senza aggiungere che ha liberato la sua isola dalla sudditanza americana. Non saprei evocare il Nixon del Watergate senza ricordare che il suo viaggio a Pechino, nel febbraio del 1972, aveva schiuso nuove prospettive di dialogo internazionale. Di Bastianini mi piacciono la sobrietà di cui dette prova durante qualche difficile passaggio della storia italiana e il tentativo di strappare gli ebrei di Salonicco alla loro tragica sorte. Di Milovan Djilas mi piacciono la lucidità con cui denunciò le storture del regime e la fierezza con cui sopportò gli anni di prigione.
Mi è molto più difficile, caro Ferreti, trovare qualcosa di veramente e durevolmente positivo nella vita politica di Che Guevara. Era coraggioso, ma incostante, politicamente instabile, soggetto a crisi umorali, capace di azioni inutilmente crudeli. Il suo tentativo di provocare una grande rivolta contadina nell'intero continente latino-americano fu un clamoroso esempio di ignoranza politica. La sua avventura boliviana fu una iniziativa donchisciottesca. Il suo volto domina ancora la Piazza della Rivoluzione, nel centro dell'Avana, e può dare la sensazione che il Che sia sempre il nume tutelare del regime. Ma Castro fu felice di sbarazzarsi di un compagno ingombrante e imprevedibile. Il suo volto sulle magliette è soltanto folclore rivoluzionario e il suo mito in alcuni ambienti giovanili mi sembra una infatuazione politicamente diseducativa.

Repubblica 25.9.13
In una lettera degli anni ’60 lo studioso rivendica un pensiero che sia “senza piedistallo”
Bobbio inedito
“Non credo più nelle filosofie speculative”
di Norberto Bobbio


Caro Paci, ti ringrazio anzitutto di avermi inviato il numero diPaese sera con la tua risposta a Valentini. Avevo ricevuto a suo tempo anche il numero diAut Aut: ma non m’ero accorto che me l’avessi inviato tu (tra l’altro perché sono abbonato e lo ricevo regolarmente; ma di quel numero, è vero, ne ho due copie).
Non posso dirti nulla di preciso pro o contro la fenomenologia perché non ne so più nulla. Per me è stata un’esperienza giovanile, molto approssimativa, a fior di pelle, e mi è molto difficile tornarci su. Fa parte di tutte le cose naufragate dei primi anni di studio: naufragate perché dovevano naufragare, perché non potevano stare a galla. Ora sono in fondo al mare, e stanno bene dove sono. Al solo pensare di mettermi a leggere una pagina scritta in quegli anni, mi vengono i brividi.
Come ti dicevo, oggi non sono né pro né contro la fenomenologia. Se dovessi riassumere il mio atteggiamento fondamentale di fronte alla fenomenologia, lo farei in questo modo: non ne sento il bisogno. Quel che cerco, ho l’impressione di non poterlo trovare nella fenomenologia, di trovarlo sempre meno in una filosofia come la fenomenologia. Per questo rinvio di anno in anno la lettura di quei grossi libri del
Nachlass di Husserl, che compro regolarmente, e al momento di mettermici, mi accorgo di aver sempre qualcosa più importante più urgente da fare, e li metto da parte per la prossima occasione. Non ne sento il bisogno perché il processo della mia formazione e quello di gran parte di coloro che appartengono alla mia generazione è stato un processo di liberazione dalle filosofie speculative, voglio dire da quelle filosofie che a un certo punto spiccano il salto, montano sul piedistallo, e considerano le cose da un punto di vista che pretende di essere speciale ed esclusivo, l’unico in grado di toccare la realtà, ecc… La fenomenologia, mi domando, sfugge a questa pretesa? Non è stata forse in un certo senso la sublimazione di questa pretesa? Non mi sento molto tranquillo su questo punto. Il mondo delle essenze finalmente a portata di mano. Basta una operazione di sospensione e di riduzione, e la conoscenza diventa pura da impura, essenziale da empirica, ecc… Non sono questi i caratteri salienti della ispirazione husserliana?
La via attraverso il marxismo, il pragmatismo, il neoempirismo, e sì anche un certo esistenzialismo, è stata una discesa dall’alto in basso, un modo di toccar terra. Una volta toccata la terra, ci siamo accorti che c’erano tante cose da capire e da studiare, anche solo in un quadratino di esperienza, che bisognava di aver fretta e non pretendere di capir tutto e di capirlo in modo essenziale.
Mi sono convinto, lavorando al minuto, che per comprendere il mondo che ci circonda, bastano le categorie elaborate dalle singole scienze. L’opera dei filosofi è un’opera di confronto, di aggiustamento, di messa a fuoco. Non è una nuova prospettiva e meno ancora un metodo nuovo e diverso; se mai la formulazione di qualche nuova ipotesi che dovrà essere verificata. In questo senso mi pareva che fossimo qui in Italia sulla buona strada. Arriva la fenomenologia e con la sua pretesa di essere un metodo nuovo, una prospettiva nuova, mette tutto a soqquadro, ripone con la testa in giù la filosofia, che era riuscita a mettersi finalmente in piedi, e invita un’altra volta i giovani che stavano diventando sobri alle orge filosofiche; a tirar di nuovo fuori ogni cosa, come ai tempi di Gentile, dal soggetto.
Tu mi dirai che non si tratta più del soggetto trascendentale, ma del soggetto in carne ed ossa; ma temo che in pratica i risultati saranno gli stessi. Comunque, staremo a vedere. Come vedi, l’impressione che mi fa oggi la fenomenologia è di essere un po’ una guastafeste, un tronco che si è messo per traverso e impedisce alla corrente di seguire il suo corso.
Aggiungo che quel che dici nella intervista con Valentini non è fatto per tranquillizzarmi del tutto. Tu parli della fenomenologia addirittura come di una scienza nuova, che è ogni cosa e qualcosa di più: è razionalismo, storicismo, nuova antropologia. Tutto, insomma. Anzitutto, ne abbiamo viste troppe in questi anni per crederci. In secondo luogo, così facendo tu non utilizzi la filosofia di Husserl: l’assumi. Non te ne servi: la codifichi e l’applichi a tutti i problemi, compreso il problemi dell’eros. E visto che siamo arrivati all’erotismo, una filosofia conta per quello che fa e non per quello che dice di fare: ora ciò che tu fai di fronte al problema dell’eros è in una prima parte un tentativo di arrivare al problema partendo dal soggetto concreto, e questo sarà fenomenologico ma non ti conduce molto avanti (dinnanzi alla differenza dei sessi, che è un dato, la partenza dal soggetto che pensa se stesso è una falsa partenza). In una seconda parte, una interpretazione dell’eros che non ha nulla di caratteristicamente fenomenologico e per la quale non mi sentirei né di approvare né di biasimare la fenomenologia, ma se mai le idee di Enzo Paci. Un albero si giudica dai frutti.
Considera questa lettera come uno sfogo amichevole, a cui tu mi hai in qualche modo provocato: uno sfogo animato non animoso. Non ho alcun partito preso. Anzi, sono sempre sulla strada della ricerca e quindi in atteggiamento di ascolto. Anche se, non mi pare che per ora la mia strada sia destinata a incontrare quella della fenomenologia. Chissà che, se tu dovessi convincermi che la fenomenologia è la filosofia del nostro tempo, ciò significhi puramente e semplicemente che io non mi occupo più di filosofia. Accogli i miei più cordiali saluti.

Repubblica 25.9.13
Al Palazzo Reale di Milano 80 opere provenienti dal Centre Pompidou di Parigi Un viaggio tra pittura e scultura per raccontare come è cambiata l’arte di rappresentare
Il volto del ‘900
Da Picasso a Bacon, il secolo che rivoluzionò il ritratto
di Dario Pappalardo


“Dimenticare I coniugi Arnolfini”. Il motto del Novecento per chi si confronta con il genere ritratto potrebbe essere questo. Gli artisti del secolo breve spazzano via la perfetta quiete e aderenza mimetica della tavola fiamminga di Jan Van Eyck, punto di riferimento per la ritrattistica di età moderna. Lì gli sposi borghesi raffigurati nell’interno domestico sono perfettamente padroni del loro status. E l’artista, con la sua opera, è lo strumento che esalta la loro condizione sociale. Nel Novecento tutto questo non sarà più così semplice. Pittura e scultura devono ormai combattere la nemica numero uno: la fotografia. Nadar e soci hanno tolto agli artisti la possibilità della realtà. Il dagherrotipo sostituisce via via la tela a olio da esporre nel sa-lotto buono. La sfida dei maestri del colore alla camera oscura è l’alimento delle avanguardie. Futuristi, cubisti, espressionisti, fauve scompongono la figura umana. Ormai introdotta la psicoanalisi –L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud è del 1899 – è chiaro che ritrarre il fuori – il corpo – e il dentro – la mente – sono la stessa cosa.
Con queste premesse si può affrontare il viaggio intorno alle ottanta opere provenienti dal Centre Pompidou di Parigi, in mostra da oggi (e fino al 9 febbraio 2014) al Palazzo Reale di Milano. Tanti sono i capolavori assoluti.Il volto del ’900– esposizione a cura di Jean-Michel Bouhours, promossa e prodotta per il Comune di Milano - Cultura, Palazzo Reale da MondoMostre e Skira editore (che stanno sviluppando un programma di iniziative comuni) – nella prima sezione, “I misteri dell’anima”, si incarna nelle nuove figure femminili che aprono il secolo. Hanno occhi bistrati, pose impudiche, gesti di sensualità consapevole e mostrano i segni di un’inquietudine profonda. Vanno in questa direzione le eroine di Matisse (Odalisca in pantaloni rossi),di Chabaud (Yvette o il vestito a quadri), di Marquet (Nudo sul divano), di Kupka (Rossetto),di Modigliani (Ritratto di Dédie).Sono le sorelle maggiori, di pochi anni, delle femme fatale del cinema, delle Louise Brooks e delle Marlene che verranno.
La seconda stazione della mostra, “Autoritratti”, affronta il tema cruciale dell’autorappresentazione dell’artista. Se fino all’età moderna l’autoritratto è la firma apposta alla propria opera, il segno indelebile di un passaggio – vedi Raffaello come Caravaggio, confusi tra i loro personaggi – con il Novecento raffigurare se stessi significa restituire un’idea di poetica e di mondo. Ecco allora Gino Severini, che fraziona lo spazio occupato dal suo volto nell’ottica di un futurismo maturo. Adottano lenti distorcenti anche Maurice de Vlaminck e Robert Delaunay, ma in loro la correttezza della figura è sostanzialmente conservata. Il fuori e il dentro esploderanno più avanti con Francis Bacon (in mostra c’è un autoritratto del 1971) e Zoran Music, protagonista di un self portrait quasi in dissolvenza.
“Il volto alla prova del Formalismo”, terzo capitolo della mostra, si concentra sulla testa, come parte (ritratta) per il tutto. Il rapporto con l’arte primitiva, riscoperta all’inizio del Novecento, diventa qui più evidente, soprattutto se si guardano le sculture. È il caso della Musa addormentata di Brancusi, delle “teste” di Lipchiz, Laurens, González, Csaky, Derain.
Il Surrealismo – vedi la tappa numero quattro dell'allestimento, “Volti in sogno” – fa anche del ritratto materiale onirico. Se perBreton «il surreale è il vero volto della vita», la massima allora vale anche per René Magritte: per la suaGeorgette con bilboquet, che sembra il riflesso di un fantasma gotico, e perLo stupro, dove la figura femminile viene “fraintesa”, scomposta: i seni sono gli occhi e il sesso la bocca.
Tra Picasso, Giacometti, Baselitz e Dubuffet, nella sezione “Caos e disordine” non poteva che riaffiorare Francis Bacon con il suoRitratto di Michel Leiris,icona e summa della ritrattistica di secondo Novecento. A David Sylvester che gli chiede quale sia il suo approccio al ritratto, l’artista irlandese dà una risposta che sintetizza la grande rivoluzione che il genere affronta nel corso del Novecento: «Ogni forma che fai ha un’implicazione, e dunque, quando dipingi qualcuno, sai che naturalmente stai tentando di avvicinarti non solo alla sua apparenza ma anche al modo in cui questo qualcuno ti ha toccato, perché ogni forma ha un’implicazione ». A caccia di quella “implicazione”, oltre il bello, oltre quello che si vede, vanno gli artisti del Novecento. La sesta sezione “Dopo la fotografia” li racconta alla guerra con il mezzo che li ha “superati”. I pittori tornano a puntare sul colore, sulla possibilità di interpretare in una maniera personale e “unica” il soggetto ritratto. Come fa Erró con Stravinsky o Derain con Francisco Iturrino. Chuck Close con il suo realismo fotografico della fotografia sembra quasi prendersi gioco. A chiudere la mostra è il capitolo sulla “Disintegrazione del soggetto” con i film degli anni Sessanta di Kurt Kren e Paul Sharits: qui i volti diventano materia di studio ossessivo. L’obiettivo è lo stesso che impronta tutto il Novecento: scoprire cosa il volto nasconda davvero.

Repubblica 25.9.13
In quei capolavori si compie la morte di Narciso
Nella nuova poetica l’alterazione dell’io borghese
di Massimo Recalcati


Il primo ritratto di se stesso che l’essere umano incontra è quello che si riflette nella superficie dello specchio e che seduce il bambino incatenandolo ad una illusione fondamentale: l’immagine che vedo apparire allo specchio fa esistere una rappresentazione ideale di me stesso che contrasta con il mio essere reale al di qua dello specchio. Si spalanca così una divisione che accompagnerà l’essere umano nel corso di tutta la sua vita. Quello che sono non coincide mai con l’ideale che ho di me stesso. Questo ideale appare come sottratto, irraggiungibile. Anzi, quando l’uomo avanza la pretesa di realizzare questa impossibile coincidenza con la sua immagine ideale si perde irreversibilmente come mostra il mito di Narciso. La seduzione della propria immagine in quanto immagine ideale trascina fatalmente verso la morte suicidaria. Come sanno bene gli psicoanalisti l’attaccamento eccessivo a se stessi non è mai portatore di salute.
Nell’arte classica del ritratto in primo piano troviamo – salvo rare eccezioni – la gloria dell’immagine ideale che investe il volto del re, del principe o del personaggio celebre. In questo caso il ritratto persegue la finalità narcisistica di emendare il volto dalla presenza incombente della caducità e della morte realizzando una immagine destinata a sfuggire il tempo per eternizzarsi nei secoli a venire. Basta rileggere le straordinarie pagine che Jean-Paul Sartre dedica nel suo romanzo filosofico
La Nausea a descrivere la galleria di ritratti degli uomini illustri presenti nel museo della grigia cittadina di Bouville. Questa serie impagliata di volti non serve ad altro che a nutrire la malafede degli uomini, ovvero la loro angoscia e il loro esorcismo di fronte alla morte.
Diversamente dalla ritrattistica classica quella moderna e contemporanea non ha voluto alimentare la rappresentazione del volto come monumento narcisistico. Piuttosto – come accade già in Caravaggio dove nel suo celebre Canestro di frutta,la bellezza astratta della mela è interrotta dalla presenza perturbante del segno inconfondibile che la rende bacata, cioè intaccata dalla morte – si tende alla deformazione espressiva del volto come avviene in modo estremo neiRitratti e negliAutoritratti di Bacon. Qui l’accartocciarsi metamorfico del volto altera la rappresentazione borghese dell’Io. Diversamente dai grandi uomini che hanno fatto la storia di Bouville manca in queste figure ogni compostezza, ogni senso della armonia e della misura. In primo piano non è quel “diritto di esistere” che secondo Sartre assegna subdolamente al ritratto tutta la sua pomposa autorità, ma l’esistenza senza fondamento, ingiustificata nel suo essere. Se si guarda l’Autoritratto di Music si può osservare come la gloria dell’immagine narcisistica sia qui letteralmente ridotta a polvere. Il volto dell’artista scompare in un nebulosa che rivela tutto il nostro statuto di mortali. L’identità monumentale della posa lascia il posto all’ombra. Lo stesso accade in Van Gogh anche se in modo diverso: non troviamo nella sua opera un solo autoritratto uguale all’altro, così come una firma uguale ad un altra. L’artista si polverizza in uno sciame di figure e di firme che anziché cementare l’identità la rendono camaleonticamente impossibile. Ma anche in un’opera volutamente provocatoria come quella di Magritte titolataLo stupro in primo piano, circondato da una chioma di capelli biondi, non è il volto ma il corpo sessuale, ovvero ciò che l’abito narcisistico del ritratto abitualmente nasconde. Lo stupro è qui innanzitutto stupro della falsa compostezza ideale dell’immagine narcisistica, è uno squarcio del velo: noi non siamo fatti di sostanza eterea, non siamo destinati a sopravvivere in eterno: siamo fatti di carne erotica destinata a dissolversi.