venerdì 27 settembre 2013

Repubblica 27.9.13
Fede e laicità
Davvero non esistono le verità assolute
di Leonardo Boff


Caro direttore, scrivendo una lettera a un giornale e rispondendo alle domande poste attraverso un giornale da Eugenio Scalfari, Papa Francesco ha compiuto un atto di straordinaria importanza. Non solo perché lo ha fatto in una forma senza precedenti ma perché lo ha fatto come un uomo che parla a un altro uomo, nel contesto di un dialogo aperto a tutti che ci porta a metterci allo stesso livello degli altri. E di fatti Francesco, che come sappiamo preferisce la definizione di vescovo di Roma a quella di Papa, ha risposto a Eugenio Scalfari in modo cordiale, con l’intelligenza calorosa del cuore piuttosto che con quella intellettuale fredda. La sua si può definire una “ragione sensibile”, come si dice oggi nella discussione filosofica in Europa, negli Stati Uniti e anche fra noi, quella che parla direttamente all’altro, al suo profondo, e non si nasconde dietro dottrine, dogmi, istituzioni. In questo senso, per Francesco non è rilevante se Scalfari sia o meno un credente, poiché ognuno ha la sua storia e il suo percorso, ma è importante la capacità di essere aperti all’ascolto. Per dirla con le parole del grande poeta spagnolo Antonio Machado, “la tua verità? No, la Verità e vieni con me a cercarla. La tua, tienitela”. Più importante che sapere è non perdere mai la capacità di imparare. Questo è il senso del dialogo.
Con la sua lettera, Francesco ha mostrato che tutti cerchiamo una verità più piena e più ampia, una verità che ancora non possediamo. Per trovarla, non servono i dogmi e le dottrine, ma caso mai il presupposto che esistono ancora risposte da cercare, che esiste un mistero, e che questa ricerca è una forza che ci mette tutti sullo stesso piano, i credenti come i non credenti, i fedeli di chiese diverse, ognuno dei quali ha diritto di portare la sua visione del mondo. Non è un caso che ogni fede conosca profonde difficoltà, e che una in particolare le accomuni tutte: è la contraddizione terribile che attraversa credenti e atei, la domanda su come Dio possa consentire le grandi ingiustizie del mondo. È la domanda che anche Papa Benedetto XVI si è fatto con sgomento a Auschwitz, spogliandosi per un attimo dal suo ruolo di pontefice e parlando solo come un uomo, a cuore aperto. È la domanda “dov’era Dio quando accadeva questo?”. Tutti noi cristiani dobbiamo accettare che la risposta non c’è, che la domanda è ancora aperta. Dio può essere quello che la nostra ragione non capisce. Che la sola intelligenza non può rispondere a tutto, che la Genesi, come diceva il filosofo della speranza Ernst Bloch, non è al principio ma al termine, che le cose camminano in una direzione buona che comprenderemo soltanto alla fine. Solo alla fine possiamo dire veramente: “E tutto è buono”, perché mentre viviamo non tutto è buono. Verità assolute, verità relative? Io preferisco rispondere con il vescovobrasiliano dal cuore della Amazzonia, poeta, profeta e pastore, Pedro Casaldaliga: “Solo Dio e la fame sono assoluti”.
Per questo io stesso ho molta fiducia in ciò che Francesco potrà fare e mi sento in dialogo con lui. Ha già fatto un’importante riforma del Papato e ne farà una della Curia, e in molti discorsi ha indicato come tutti i temi possano essere discussi, un’affermazione impensabile fino a poco tempo fa. Temi come il celibato dei preti, il sacerdozio delle donne o la morale sessuale e l’omoaffettività erano semplicemente proibiti per vescovi e teologi e ora non lo sono più.
Credo che questo Papa sia il primo a non volere un governo monarchico, il “potere” di cui parla Scalfari, ma invece voglia restare il più possibile vicino al Vangelo traendone i principi di misericordia e comprensione, tenendo al centro l’umanità. Per questo anche il suo dialogo con i non credenti può davvero svilupparsi, e aprire una nuova stagione di modernità etica che non guarda solo alla tecnologia, alla scienza e alla politica ma che può portare al superamento dell’atteggiamento di esclusione fin qui tipico della chiesa cattolica, all’arroganza di chi ritiene che la sua chiesa sia l’unica vera erede del messaggio di Gesù. Per questo è importante non dimenticare mai che Dio ha inviato il suo Figlio al mondo e non solamente ai credenti. E lui illumina ogni persona che viene in questo mondo, come dice il Vangelo di San Giovanni.
In questo senso, come ho già scritto a Francesco, è urgente un Concilio Vaticano III, aperto a tutti i cristiani e non solo ai cattolici, a tutte le persone, anche atee, che possono aiutarci a analizzare le minacce che gravano sul pianeta e come affrontarle. Le donne in primo luogo, dato che è la vita stessa a essere minacciata. Il Cristianesimo è un fenomeno occidentale. Deve trovare il suo spazio nella nuova fase dell’umanità, nella fase planetaria. Solo così può essere una Chiesa di tutti e per tutti.
In Francesco, che lo ha già dimostrato in Argentina, io non vedo la volontà di conquistare e di fare proselitismo, ma piuttosto quella di testimoniare e percorrere, come ha scritto a Scalfari, un tratto del cammino insieme: il cristianesimo è in movimento, come Gesù camminava insieme agli Apostoli. E in tutto questo la dimensione etica e il senso dei diritti universali è più importante dell’appartenere o meno a una chiesa, come nel caso di Eugenio Scalfari. Dobbiamo guardare alla dimensione luminosa della storia più che alle sue ombre, vivere come fratelli e sorelle nella stessa Casa Comune, nella Madre Terra, rispettando le diverse opzioni, sotto un unico grande arcobaleno, segno della trascendenza dell’essere umano. Un lungo inverno è finito, ci aspetta una primavera con la sua dimensione gioiosa di fiori e di frutti, una primavera nella quale vale la pena di essere umani anche nella forma cristiana di questa parola.

La Stampa 27.9.13
Laici-cattolici, ora serve un passo avanti
di Gian Enrico Rusconi


Il salto di qualità e di civiltà comunicativa che sta segnando in queste settimane il rapporto tra laici e uomini di Chiesa è un’ottima cosa. Ma mostra anche i suoi limiti. Lo dico senza polemica, ma per andare avanti.
Nell’intenso scambio, diffuso in rete, dei direttori dei giornali nel «cortile dei giornalisti», curato dal cardinale Gianfranco Ravasi, c’era un dettaglio solo apparentemente secondario. Lo snodarsi degli argomenti è rimasto ferreamente chiuso nelle categorie convenzionali «credenti» e «non credenti», «fede e ragione», «laici e cattolici». Mentre molti dei contenuti espressi nel confronto erano virtualmente esplosivi di queste categorie, esse presidiavano di fatto la comunicazione perché non superasse i confini delle competenze degli interventi. Illuminante e perentoria è stata la chiusa del direttore dell’Osservatore romano, Giovanni Maria Vian: «Il giornale è la Bibbia laica. Ma molto più interessante è la Scrittura Sacra vera». Punto a capo.
Tutto l’equivoco è qui. I direttori dei giornali hanno dato voce non solo alle esperienze, alle emozioni, alle riflessioni personali ma anche a quelle colte e raccolte dai loro giornali, ma si sono cautamente fermati davanti a questo punto. Già soddisfatti di quanto sta accadendo.
Il pontificato di Francesco infatti sembra annunciare la fine della stagione dello scontro sui «valori non negoziabili», delle identità esibite e collettivamente impositive, della reciproca negazione della legittimità (morale e intellettuale) di posizioni di fatto incompatibili che hanno creato seri problemi di convivenza civile e istituzionale. Ma la nuova stagione diventa davvero innovativa se è intellettualmente solida e parta dai temi che sono rimasti «sospesi» («natura umana», «diritti originari della persona», «famiglia» ecc.). Sono questi temi che danno sostanza ai buoni sentimenti e danno vigore ad una nuova convivenza tra cittadini. La laicità infatti non è semplicemente uno stato dell’anima o una opzione personale, ma è lo statuto della cittadinanza.
La strategia comunicativa di Papa Francesco è chiara: «Voi conoscete la dottrina della Chiesa, di cui sono fedelissimo figlio, ma io vi dico: chi sono io per giudicare?». E’ una formula formidabile sul piano pastorale, che ha spiazzato i clericali di tutte le sfumature. Ma rimane enigmatica nei suoi contraccolpi dottrinali.
Tutti si affrettano a dire che non ci sarà alcuna rettifica dottrinale, nessun «cedimento sui principi». E’ evidente. Nessuno le attende. Ma si rischia un brutto paradosso: è come se la dottrina non sia considerata poi così importate rispetto al nuovo messaggio pastorale.
La vera sfida invece è come affermare il primato di una umanità accolta cosi com’è, nella sua autenticità e fragilità, e insieme conciliarla con una dottrina che parla di «verità» al punto da far dire ad alcuni uomini di Chiesa di essere loro i veri «esperti di umanità». Questa convinzione non si concilia con una visione laica che ha un riferimento (ovviamente critico) alle scienze dell’uomo e non può accettare una «antropologia» che è il rivestimento modernizzante di dottrine legate a culture e società storicamente e geograficamente ben definite, nonostante rivendichino per sé «la verità».
Non intendo affatto riaprire un contenzioso polemico che andrebbe in direzione opposta allo spirito che guida il Pontefice. Voglio semplicemente dire che comunicazione e impianto teorico (o di «verità») convergono e si sostengono reciprocamente.
Papa Bergoglio ha sfiorato in alcuni passaggi questo problema nella sua lettera pubblicata su Repubblica. Quando ha dato – discorsivamente – assoluta centralità alla «coscienza», quando ha parlato di «verità come relazione» («Ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive».) E, ancora più avanti, quando in modo disarmante confessa che «bisogna intendersi sui termini e reimpostare in profondità la questione».
E’ qui che mi aspettavo una ripresa della tematica, un soprassalto da parte dei commentatori, invece che l’enfasi sullo stile nuovo di comunicare del Papa. La battuta che «Gesù anticipa il linguaggio sintetico dei tweet» può far sorridere, ma sposta semplicemente il problema. Twittare non rappresenta nessun salto di qualità né concettuale né culturale. Questo il Papa lo sa, ma non so se è consapevole del sentiero stretto che sta percorrendo con il suo stile comunicativo. I suoi ammiratori (religiosi e laici) oltre che lodarlo in continuazione, dovrebbero dargli una mano, sul serio.
PS: Con sorprendente sincronia il Papa emerito Ratzinger risponde a Piergiorgio Odifreddi con una lettera di spessore teorico e storico, quasi a completare lo stile del Papa in ufficio. In realtà il destinatario della lettera si presta sin troppo facilmente alla lezione critica che gli viene impartita. Non è infatti difficile controbattere le ingenuità intellettuali del matematico Odifreddi, magari simpatico nel suo sfottente ateismo, ma poco consistente sul piano filosofico e storico. Se ci si vuole confrontare con un ateismo solido nel mondo della scienza, occorre cercare tra i cultori delle scienze biologiche e biogenetiche. Ma soprattutto – e qui torniamo alle prime riflessioni fatte sopra – si deve archiviare o meglio decostruire le convenzionali, quasi tautologiche, contrapposizioni tra «scienza» e «fede», con le quali ci troviamo ingabbiati nel discorso corrente. Questa è la sfida.

Repubblica 27.9.13
Sconfiggere la morte
Alberto Maggi: “Siamo tutti schiavi del più grande tabù
La malattia, le cure, la guarigione quando sembrava non ci fosse speranza
Il teologo “eretico” smonta attraverso l’esperienza personale la paura che l’uomo ha esorcizzato
intervista di Franco Marcoaldi


MONTEFANO Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso spesso accusato di “eresia”, è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell’esperienza, uscito da poco per Garzanti, suona: Chi non muore si rivede.«Avevo appena ultimato un saggio sull’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d’urgenza per una dissezione dell’aorta: tre interventi devastanti, settantacinque giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l’esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva.
Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi... Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l’eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all’ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell’azione creatrice del Padre».
Fatto sta che oggi si persegue tutt’altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita dalle biotecnologie.
«È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro. Perché se è sacra la vita dell’uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all’infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica. Se invece ad essere sacro è l’uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa…Io non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi, anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po’, ma in compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dallamorte.
Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l’estremo saluto e assistere alla seguente commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un’ulcera. E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria, delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si scriva semplicemente: è morto».
Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella resurrezione dei morti.
«Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: “Noi che siamo già resuscitati”, “noi che sediamo nei cieli”. Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte. Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentre bios indica la vita biologica, che ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe) ringiovanisce di giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me, non morirà mai».
E allora l’Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni?
«Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà, questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa».
Non è una visione del cristianesimo un po’ troppo gioiosa, consolatoria?
«Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall’alto. Quando stavo male, le persone pie — che sono sempre le più pericolose — mi dicevano: offri le tue sofferenze al Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di disperazione».
Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all’effrazione del limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi onnipotenti come Dio.
«Questo secondo l’immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l’uomo. Per i primi il peccato era una trasgressione della Legge e un’offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l’uomo».
Ecco che salta fuori Maggi l’eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla vera fede.
«La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l’uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio fa per l’uomo. Con Gesù invece Dio è all’inizio e il traguardo finale è l’uomo. Per questo ogni volta che Gesù si trova in conflitto tra l’osservanza della legge divina e il bene dell’uomo, sceglie sempre la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell’uomo, si è certi di fare il bene di Dio, mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all’uomo».
Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra
hybris,cos’altro spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite?
«Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene, per la tua felicità. È così che l’apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli:si possiede soltanto quello che si dà».
Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario.
«Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all’immensità dell’amore di Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione di Gesù. Nell’Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce».

il Fatto 27.9.13
Difendere la “Carta”
Costituzione: è tempo di scelte
di Maso Notarianni


Perché si deve essere a Roma il prossimo 12 ottobre? Per chiedere che – finalmente – la politica si impegni a realizzare la Costituzione italiana. Poi, se ci accorgeremo che qualcosa non funziona, allora e solo allora penseremo a cambiarla. Per fare un po’ di chiarezza: perché abbiamo bisogno di sapere se questo è il Paese che dice di essere o se è il Paese che avrebbero voluto i teorici del fascismo: costruito sull’azzeramento di ogni conflitto (compreso quello di interessi non solo di Berlusconi) e sulla relazione tra corporazioni, che esclude dall’esercizio del potere dei lavoratori dipendenti. Perché abbiamo il diritto e il dovere di sapere se lo Stato tutela l’interesse di quei circa duemila italiani che detengono ricchezze per 180 miliardi oppure se tutela l’interesse generale. Perché vogliamo sapere se siano più importanti, per lo Stato italiano, i 3.000 miliardi in armi esportate oppure la pace e la vita umana. Perché sarebbe giusto capire se per lo Stato valga più l’impunità e la ricchezza della famiglia Riva oppure il lavoro di migliaia di persone. Perché dobbiamo capire se lo Stato debba tutelare gli interessi delle grandi multinazionali dell’acqua e dell’energia, oppure i beni comuni degli abitanti di questo Paese: l’acqua, l’energia, il sapere, la conoscenza, persino le sue ricchezze storiche e culturali.
NON È PIÙ e non è solo una questione di destra o sinistra. E anche per questo lascia molto perplesso chi vede in questa mobilitazione “l’ennesima scialuppa di salvataggio per la disastrata sinistra radicale italiana”, come se – peraltro – si potessero incasellare i cinque promotori nella categoria della sinistra radicale. Ma è vero, in Italia c’è un enorme buco nella rappresentanza politica. Stando alle pratiche degli ultimi 20 anni, non si direbbe che si siano date risposte “costituzionali” alle questioni dette prima. Chi ha portato l’Italia in guerra? Chi ha contro-riformato la scuola e l’università?
Chi ha cominciato a smantellare i diritti dei lavoratori minandone la forza contrattuale? Chi ha fatto sì che la sanità privata (quella che permette a gente già parecchio ricca di fare altri soldi sulla pelle di chi è malato estorcendo denaro in cambio di quelli che dovrebbero essere diritti) sia diventata un valore da difendere? Chi ha difeso strenuamente banche e finanza invece di difendere i diritti dei cittadini? Chi sostiene la favola della crisi per difendere quella che è solo concentrazione mostruosa della ricchezza nelle mani di pochi, ovvero disuguaglianza sociale?
Non sono questioni di destra o sinistra: riguardano – appunto – il dettato costituzionale. È la Costituzione, paradosso molto italiano, a non avere rappresentanza politica. La Costituzione non è cosa astratta, la sua applicazione o meno influisce direttamente sulla vita concreta delle persone, sull’occupazione, sul benessere. È stata pensata e scritta come una mappa da seguire per trovare un tesoro: la possibilità, per tutti, di essere felici nella propria vita.
CHI NON VERRÀ a Roma, chi non aderirà o non sosterrà la mobilitazione del 12 e il percorso che dal giorno dopo prenderà il via, starà “dall’altra parte”, sarà il nemico di quella che è dai più importanti costituzionalisti del mondo giudicata tra le più belle Carte che siano mai state scritte. L’i n d i fferenza è una scelta: la scelta di stracciare la Carta costituzionale, di lasciare che venga stracciata. Chi ci andrà, chi aderirà, chi sosterrà la mobilitazione del 12 si assumerà una responsabilità altrettanto grande: dovrà ricominciare a praticare quei principi e quei valori. Ogni giorno, in ogni gesto, in ogni scelta. A difenderli strenuamente. A non accettare più compromessi. A non cedere più nulla sul terreno dei principi sacrosanti di uguaglianza fratellanza e libertà.

Repubblica 27.9.13
L’eversione bianca
di Ezio Mauro


ADESSO Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi di sistema che sta provocando. Anche se ha costretto i suoi parlamentari a firmare dimissioni in bianco per tentare un ultimo atto di forza che è in realtà una dichiarazione estrema di debolezza e di paura, è istituzionalmente solo.
La minaccia di un Aventino di destra ha infatti costretto il Capo dello Stato a denunciare “l’inquietante” strategia della destra, l’“inquietante” tentativo di forzare il Quirinale a sciogliere le Camere, la “gravità e l’assurdità” di evocare colpi di Stato e operazioni eversive contro Berlusconi, ricordando infine che le sentenze di condanna definitive si applicano ovunque negli Stati di diritto europei, così come Premier e Presidente della Repubblica non possono interferire con le decisioni di una magistratura indipendente, nel mondo in cui viviamo.
La gravità di questo richiamo, su elementari principi di democrazia, segnala l’emergenza istituzionale in cui siamo precipitati. Bisognava fermare per tempo — istituzioni, opposizioni, intellettuali, giornali, un establishment degno di questo nome — la progressione di un’avventura politica che costruiva se stessa come sciolta dalle leggi, dai controlli, dalle norme stesse della Costituzione: disuguale nella pratica abusiva, nel potere illegittimo e nella norma deformata secondo il bisogno. Ora si vedono i guasti, con la disperata pretesa di unire in un unico fascio tragico i destini di un uomo, del governo, del parlamento e del Paese, nell’impossibile richiesta di salvare dalla legge un pregiudicato per crimini comuni.
Bisogna fermarlo, subito. Tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione devono dire basta, difendere i fondamentali della Repubblica, respingere l’estorsione politica, sconfiggere questa anomalia nel parlamento, nella pubblica opinione, nel voto. In Occidente non c’è spazio per questo sovvertimento istituzionale, per questa eversione bianca strisciante e ora firmata e conclamata.Chi non la combatte è complice.

Repubblica 27.9.13
E sull’Ici della Chiesa il governo Monti ha rinunciato a esigere 4 miliardi
Si sta parlando dell’Ici dovuta e non pagata dalla Chiesa tra il 2006 e il 2011
Stime Anci valutano in 600-800 milioni l’anno l’Ici pregressa non pagata dagli enti non profit, per lo più riferibili alla Chiesa
Si disse alla Ue che era “impossibile chiederli indietro”
di Valentina Conte


ROMA — Quando lo scorso 19 dicembre la Commissione europea ha chiuso dopo due anni l’indagine relativa agli aiuti di Stato accordati dall’Italia alla Chiesa, esentandola dal pagamento dell’Ici sugli immobili non di culto, in una scuola elementare Montessori della capitale e in un piccolo Bed&Breakfast di provincia, a pochi chilometri da Roma, hanno sussultato. Le autorità di Bruxelles ammettevano certo gli aiuti di Stato, incompatibili con le norme europee. Ma stabilivano anche che tornare in possesso dell’Ici dovuta manon pagata, tra il 2006 e il 2011, era «assolutamente impossibile ». Perché così aveva raccontato loro il governo, presieduto da Monti. «Alla luce delle circostanze eccezionali invocate dall’Italia, non deve essere disposto il recupero dell’aiuto, avendo l’Italia dimostrato l’impossibilità assoluta di darviesecuzione», spiegava Bruxelles. Un unicum nella giurisprudenza comunitaria. Sbalorditi da siffatta motivazione e guidati da due avvocati esperti, allafine quella scuola elementare e l’affittacamere hanno deciso di ricorrere alla Corte di Giustizia europea e chiedere così l’annullamento di quanto disposto dalla Commissione. Proprio perché la presunta “impossibilità assoluta” di riavere le somme di fatto «non è stata mai provata». Chi l’ha detto e dov’è scritto che non si può calcolare e recuperare l’Ici pregressa, si chiedono in pratica i due?
La questione non è di poco conto. Stime Anci valutavano gli introiti Ici su quegli immobi-li, riferibili ad enti non profit e per lo più alla Chiesa, pari a 600-800 milioni l’anno. Moltiplicati per sei annualità, fanno una cifra astronomica, attorno ai 4 miliardi. Una manna dal cielo, se confrontata con la caccia affannosa alle risorse di queste ore per evitare il rincaro Iva (serve un miliardo). O per cancellare la rata di Natale dell’Imu (2,3 miliardi). O ancora quanto basta (circa 1,6 miliardi) per riportare nei ranghi il rapporto tra deficit e Pil (leggermente tracimato al 3,1%), non ripiombare nella procedura di infrazione europea e sbloccare altri soldi (12 miliardi) da usare l’anno prossimo per fare investimenti e occupazione. In effetti, il doppio ricorso depositato dalla Montessori e dal B&B il 16 aprile scorso, esaminato in questi giorni dalla Corte Ue, potrebbe anche riaprire l’indagine sull’Italia. E forzare così il governo (questo o il prossimo) a fare finalmente i calcoli.
Impossibile? Forse. E non solo perché immaginare di richiedere indietro 4 miliardi al Vaticano è pura fantascienza. Ma anche perché un censimento di quegli immobili in realtà non esiste, per negligenza o furbizia, chissà. Non solo. Il governo Monti che di fatto ha messo in campo l’Imu e ne ha definito i nuovi contorni anche per questi enti non profit — proprio per avere il via libera di Bruxelles, intascato appunto il 19 dicembre scorso — non ne ha mai ultimato le procedure attuative. In un anno e mezzo, né Monti né in seguito Letta sono riusciti ad ottenere dal ministero dell’Economia quel regolamento così indispensabile per calcolare concretamente le porzioni commerciali da quelle non commerciali dei singoli immobili. In Via Venti Settembre assicurano che arriverà entro dicembre. Intanto, nel 2012 e nel 2013, vista la confusione e le circolari criptiche, nessuno ha pagato l’Imu. O meglio: ha pagato chi già versava l’Ici a suo tempo. Gli altri sono in attesa della burocrazia, pigra o pilotata, che arriva sempre dopo, a volte tardi. Con grandi pasticci per il Paese, come il recente caso Telecom insegna, neppure in grado di difendere la propria rete telefonica perché nessun decreto attuativo l’ha ancora definita strategica.

il Fatto 27.9.13
Larghe intese addio?
Pd: “Non possiamo far finta di nulla”
di Wanda Marra


Siamo a un bivio. Non si può più andare avanti così, non si può far finta di niente”. Parola del viceministro Stefano Fassina. “Questa situazione non rischia di far male al Pd ma di soffocare il Paese” a causa della “demagogia distruttiva del Pdl”. Per questo, sottolinea il viceministro, “serve un salto di qualità e per vedere se è possibile farlo, serve un chiarimento”. Il Partito Democratico il giorno dopo l’annuncio delle dimissioni di massa dei parlamentari del Pdl fa un salto di qualità semantico. Il “dipende da loro” riferito al destino del governo ripetuto come un ritornello da quando nell’agenda della politica italiana è entrata la questione della decadenza di Berlusconi cede il passo a una richiesta esplicita di una rinnovata fiducia all’esecutivo. D’altra parte, se persino Napolitano ha parlato di “colpo di stato”, a questo punto i Democratici si possono lasciar andare. E Enrico Letta ha perso un po’ del-l’aplomb tenuto dall’inizio del mandato, tanto che chi lo conosce lo descrive tra “furibondo” e “sbigottito”, pronto a valutare ogni possibilità. Comunque, la verifica in Parlamento la annuncia. E questo lo mette al riparo anche da attacchi più o meno frontali da parte del suo partito, che nelle ultime settimane non ha esitato ad accusarlo di eccessiva disponibilità nei confronti del Pdl. Se il Pd chiede la fiducia, allo stesso tempo vede sempre più vicina la fine del governo.
La direzione di oggi, così, convocata per approvare le regole del congresso, tra mille tensioni e mille incertezze, dopo lo show down del-l’Assemblea, finita a carte 48 lo scorso dicembre, prenderà un’altra strada. Nella relazione d’apertura, Guglielmo Epifani chiederà una verifica con il Pdl che serva da viatico per i prossimi mesi o, in caso dovesse fallire, che metta in chiaro le responsabilità sull'eventuale caduta del governo. Un’eventualità che ormai viene messa in conto da tutti. E che, per molti, dovrebbe portare a una riflessione anche sul congresso. In effetti, la discussione ieri sera nella Commissione per le regole è stata particolarmente tranquilla: si è arrivati a un calendario di massima, che dovrebbe confermare la data per l’8 dicembre. Ma forse per molti il congresso si considera in qualche modo superato dagli eventi.
BERSANI d’altra parte è stato durissimo: “Che dal Pdl abbiano deciso l’apocalisse, la guerra lampo, la guerriglia, il logoramento, l’Italia non può permetterselo, ritengo sensato capire che cosa hanno da dire, quali impegni intendono prendere”. E poi fissa un calendario: “Dobbiamo fare la legge elettorale e la legge di stabilità”. Possibili altre maggioranze? ” “Ma quali? ”, dice lui. Ribadisce il fido D’Attorre: “Serve una verifica politica, istituzionale e parlamentare”. Persino Gianni Cuperlo (per il quale ieri i bersaniani avevano organizzato un’iniziativa al Farnese) ammette: “Se c'è la crisi viene prima il Paese”, interpellato sull'eventualità di un rinvio del congresso in caso la situazione precipiti. E dunque la nettezza della posizione democratica ha il rovescio della medaglia che non sfugge a Renzi e ai renziani, preoccupati che - nonostante l’intesa di massima ormai raggiunta - il congresso sia a rischio. E gli scenari che girano sono variegati. C'è chi immagina il voto anticipato con le primarie tra Matteo Renzi e Enrico Letta per la premiership. E chi invece pensa a un governo di scopo per la riforma della legge elettorale. Al di là degli scenari futuribili, nel Pd si ricordano le parola da Letta usate più volte: “Non mi farò logorare”. Il premier ha 47 anni, non si può far cuocere a fuoco lento. Per questo deve tirarsi fuori al momento giusto. E fare le primarie per la premiership.

l’Unità 27.9.13
Pd, sul congresso irrompe la variabile della crisi
Nella giornata di oggi la direzione definisce regole e percorso
di Vladimiro Frulletti


Il sito del Pd la butta sull’ironia per smontare quello che definisce «il bluff» dei parlamentari Pdl solidali con Berlusconi. E così a fianco delle «dimissioni di massa» mette il cappellino dell’omonimo pilota della Ferrari. Ma Epifani non ha alcuna voglia di scherzare. La crisi ora è oggettivamente più vicina e potrebbe cambiare tutto lo scenario che il Pd, con l’imminente congresso, aveva davanti. Stamani la direzione deciderà regole e calendario. Ma è ovvio che a tenere banco sarà il governo e la coabitazione con il Pdl. Epifani chiede chiarezza. «Ognuno si assuma fino in fondo la responsabilità dei propri atti» spiega il segretario Pd. A questo punto il «chiarimento», come lo chiama Letta, non è più rinviabile. A pretenderlo, per Epifani, sono le parole del Capo dello Stato. Perché questa volta Napolitano ha visto nell’ «inquietante» azione messa in campo da Berlusconi più che un colpo alla stabilità del governo, una vera e propria minaccia ai principi fondamentali della democrazia italiana. Il che dimostra, è il pensiero oramai diffuso in tutto il Pd, la gravità della situazione. «Il Presidente della Repubblica è il parere di Epifani ha fatto un richiamo fermo e obbligato alle funzioni essenziali della democra-
zia parlamentare e al rispetto costituzionale della separazione dei poteri». Altroché bluff, Berlusconi e il Pdl stanno giocando con la stessa tenuta democratica dell’Italia. Epifani spiega che il Pd si ritrova totalmente («ne condivide sostanza e contenuto») nelle parole di Napolitano di cui «apprezza ancora una volta lo spirito di servizio verso il Paese». Inevitabile quindi che ora il Pd chieda «chiarezza». Una verifica in cui ognuno, appunto, si assuma le proprie responsabilità di fronte agli italiani. Anche a costo di rompere definitivamente. «Vogliono cuocere a fuoco lento il governo e l’Italia» avverte il capogruppo al Senato Luigi Zanda. E il Pd non lo può accettare. «Il Pd non può cedere» sintetizza il renziano Paolo Gentiloni. E se Matteo Colaninno prova ad appellarsi ai parlamentari «più responsabili del Pdl» per bloccare «una corsa che porterebbe allo schianto il Paese», per Pippo Civati «il Pdl di fatto ha aperto la crisi di governo». Il che dimostra, aggiunge l’altro candidato alla segretaria Gianni Pittella (stasera a Milano chiude il suo tour della legalità) che le larghe intese «purtroppo» in Italia «sono una chimera». Per questo per i democratici ora diventa prioritario studiare una exit strategy da quella alleanza. Del resto la mossa di Berlusconi al Paese sta già costando parecchio cara. «Il solo annuncio ha già danneggiato l’Italia» annota il senatore Vannino Chiti. Un «gesto irresponsabile» lo bolla la vicepresidente della Camera Marina Sereni che ha minato l’affidabilità del Paese proprio mentre Letta è negli Usa «per convincere gli investitori stranieri a puntare i loro soldi su un’Italia più stabile ed affidabile». La Borsa ieri mattina s’è svegliata malissimo chiudendo poi, dopo varie giornate in rialzo, con un segno negativo, unica in Europa. E anche lo spread s’è allargato a 251 punti base.
Certo ora la domanda vera che si stanno facendo nel Pd è quanto la corda che sta tirando il Pdl possa ancora reggere. E quanto valga la pena di tenerla in mano rischiando, come dice la presidente del Friuli Debora Serracchiani, di vedere un Pdl che trascina «tutti nel burrone» pur «di dimostrare la fedeltà al capo supremo». Quindi l’intenzione, come dice l’ex ministro Cesare Damiano, è di «andare a vedere il bluff». Anche se questa partita di poker potrebbe far saltare il banco del governo. E di conseguenza anche il congresso del Pd. Eventualità che il senatore renziano Andrea Marcucci non vuole neppure prendere in considerazione: «Le minacce di Berlusconi, una eventuale crisi di governo dice-,sono un motivo in più, non in meno, per fare il congresso Pd». Ma questa non è esattamente la posizione del sindaco di Firenze. Renzi fino a stamani era convinto che le elezioni anticipate non ci sarebbero state perché Berlusconi non ne aveva interesse («sa che lo asfalteremmo»). Questa convinzione non è più così salda. Ed è ovvio che se invece del congresso ci fossero le primarie per scegliere il candidato premier lui non si metterebbe di traverso.
Stamani il sindaco sarà alla direzione. Dove non sono previste sorprese. Anche perché in una situazione politica così complicata dividersi di nuovo sulle regole come sabato scorso in assemblea nazionale sarebbe un mezzo suicidio. E poi ieri sera la commissione (presente anche il lettiano Gianni Dal Moro) ha trovato l’intesa sulla bozza di regolamento scritta dal segretario dell’EmiliaRomagna Stefano Bonaccini. Partenza dal basso coi congressi di circolo e federazione, poi la sfida nazionale. Prima interna solo fra gli iscritti, poi le primarie aperte l’8 dicembre a cui parteciperanno i primi tre (soglia minima del 5%) candidati. Nessuna regola su fine dell’automatismo fra segretario e candidato premier e sull’obbligo di lista unica. Ma questi due punti i candidati dovrebbero assumerli come impegno politico.
Intanto si rafforza il fronte dei sostenitori del “campo democratico” di Goffredo Bettini. Ieri il suo documento ha incassato l’apprezzamento del deputato Michele Meta e del collega, nonché segretario del Pd del Lazio, Enrico Gasbarra. Ma soprattutto quello del governatore Luca Zingaretti che legge nel documento di Bettini lo strumento per superare il correntismo e produrre quella «discontinuità totale» di cui ora ha bisogno il Pd.

La Stampa 27.9.13
I Democratici tentati dalle elezioni Congresso in stallo
Oggi la riunione della Direzione senza accordo
di Carlo Bertini


Per i paradossi tipici della politica, stamattina la Direzione del Pd è convocata per mettere il timbro su data (8 dicembre) e regole di un congresso che però da ieri non è affatto detto che si farà. Almeno con questa tempistica. Tutti i big oggi riuniti al terzo piano del Nazareno, dove farà il suo ingresso anche Matteo Renzi, che insieme agli altri candidati affronterà i nodi di una situazione che potrà precipitare da un momento all’altro. Per questo Epifani ha concordato con tutti che di regole si parlerà per cinque minuti (e la bozza di cinque pagine siglata ieri sera entra nei minimi dettagli), dedicando la giornata a quello che tutti ormai danno per scontato: un voto di fiducia la prossima settimana dagli esiti imprevedibili per il governo.
Come sempre nei momenti cruciali il Pd tende a dividersi e anche stavolta la musica è la stessa: c’è chi tende a drammatizzare, per mettere gli avversari con le spalle al muro, «facendoli uscire subito allo scoperto in diretta tv di fronte agli italiani, perché ormai per noi la bilancia è tutta in negativo e non possiamo più tergiversare»; e di questo avviso sono i bersanian-dalemiani, che mettono in conto che lo show down accelerato potrebbe comportare un contraccolpo interno: perché se si andasse a votare il congresso verrebbe rinviato e Letta potrebbe sfidare Renzi alle primarie per la premiership.
Poi ci sono quelli che, come i renziani (spalleggiati in certa misura dagli uomini di Franceschini), sono invece molto cauti, mostrando (o facendo finta) di non credere allo show down, nel timore che questa accelerazione possa divenire un alibi per tirare altri scherzi al loro candidato segretario. «E’ chiaro che anche se precipita tutto, non si potrà votare prima di marzo e da qui in primavera noi faremo comunque il nostro congresso», avverte Paolo Gentiloni.
Insomma, la diversa impostazione sull’approccio da tenere nei confronti della crisi è anche frutto delle implicazioni interne che l’evolversi degli eventi potrebbe produrre. Prima che parlasse Letta, già i vertici del partito davano per scontato, a riprova di quanto tutte le mosse siano state concordate, che il premier martedì si presenterà alle Camere per chiedere una fiducia su un canovaccio di temi da affrontare «tutti insieme, senza sfogliare il carciofo», per dirla con Bersani. Un paniere dentro cui infilare «anche i punti a cui teniamo noi, perché così non va e vogliamo far capire che non inghiottiamo più i loro diktat», spiegano dalle parti di Epifani. Ricordando che per il Pd è importante dare continuità al governo ma in un’ottica di «estrema chiarezza, mettendo al centro più equità e attenzione a occupazione e sviluppo».
«Che abbiano deciso l’apocalisse, la guerra lampo, o il logoramento, l’Italia non può permetterselo e quindi dobbiamo capire in Parlamento loro che impegni possono prendersi, ma una volta per tutte», dice Bersani a «Otto e mezzo». «La cosa
è chiara: o mollano Berlusconi, che tanto decadrà nel voto del Senato, oppure fanno saltare il governo. A quel punto la palla torna a Napolitano, ma prima di votare resta da fare la legge elettorale e stabilità. Come, si vedrà», dicono i bersaniani.
Fatto sta che ora il congresso Pd non è più scontato, «certo, se c’è la crisi, viene prima il Paese», mette in chiaro Gianni Cuperlo prima di salire sul palco del cinema Farnese dove insieme a Bersani e Marini lancia le sue tesi per un partito che «ora ha un’enorme responsabilità, quella di fare argine contro il dissolvimento dello Stato». Quel che non dice Cuperlo, lo spiegano i suoi: quando chiariscono che il Pd in quel caso non spingerà Letta a cercare un «bis»: perché non converrebbe al candidato premier dell’ala anti-Renzi fare un governo con qualche transfuga del Pdl o dei 5Stelle, certo non sarebbe il modo migliore per affrontare le primarie contro il rottamatore.
«Enrico si vuole giocare la partita da leader e per questo i lettiani frenano sull’accordo che si sta chiudendo sulle regole del congresso», dicevano ieri pomeriggio i cuperliani. Ed infatti, solo a tarda sera, nella commissione che oggi proporrà alla Direzione la data e le procedure, arriva il plenipotenziario del premier, Gianni Dal Moro: il quale tiene a far sapere che è presente alle riunione, malgrado si fosse sparsa la voce che non sarebbe andato. Specificando però di «attenersi a quanto sarà deciso dalla maggioranza del partito».

l’Unità 27.9.13
Cuperlo con Bersani «Destra sovversiva»
Manifestazione a Roma con il candidato alla segreteria Pd e l’ex leader
Sul congresso: «Se c’è la crisi, il Paese viene prima»
Fassina: «Nel partito dobbiamo fare squadra»
di Rachele Gonnelli


ROMA C’è voglia di muso duro, una certa insofferenza ormai nel Pd verso le minacce del Cavaliere e il suo voler mettere sulla graticola il governo. «Questa crisi sempre annunciata rischia di trasformarsi in una crisi di regime e noi non possiamo permetterlo», diceva ieri Gianni Cuperlo al Cinema Farnese. «Mi chiedono se è un bluff questo Aventino del Pdl. Un bluff? Si è perso il senso delle cose». Lo dice chiaramente: «Non si può far finta di niente, il Pd è l’unica forza popolare che può far argine al dissolvimento dello Stato e alla perdita di senso di sé del Paese».
Le poltroncine rosa del cinema in Campo d’ Fiori sono tutte occupate. Grande parterre con padri nobili come Afredo Reichlin seduto in prima fila, un sacco di telecamere e giornalisti assiepati all’ingresso, tanti dirigenti romani e nazionali, senatori, deputati, ex parlamentari. Doveva essere un momento clou pre-congressuale: l’invito ufficiale rivolto al candidato alla segreteria Gianni Cuperlo da parte dell’associazione «Fare il Pd», con Pierluigi Bersani in persona. Organizzato da tempo, l’appuntamento cadeva, tra l’altro, proprio alla vigilia della riunione della direzione che fisserà le regole del congresso e di fatto ne ufficializzerà il via. E di congresso si è anche parlato. Ma a catalizzare il dibattito e l’attenzione della sala stracolma tanto che si è dovuto sistemare uno schermo nell’atrio è soprattutto il d-day del governo. «Sono ore drammatiche», sono le scuse a più riprese dal palco. Il futuro del Paese e in questo il ruolo del Pd, che era il tema della serata romana, rimane come orizzonte nebuloso, schiacciato dalle incognite del cielo di burrasca che incombe sull’esecutivo.
Del resto ad aprire è Stefano Fassina che del governo è vice ministro all’Economia e che racconta delle lettere di dimissioni dei parlamentari Pdl consegnate poche ore prima come risposta o meglio sfida al richiamo alla responsabilità
del capo dello Stato. «Certo che sapevamo dei problemi di Berlusconi anche cinque mesi fa dice quasi finendo di rispondere alle parole della figlia Barbara a Ballarò ma il Paese non era in grado di aspettare una politica autoreferenziale, così abbiamo accettato di fare un governo insieme che affrontasse le riforme costituzionali e le legge elettorale e provasse a dare le prime risposte ai problemi economici. Ci abbiamo provato a dare queste risposte ora siamo ad un bivio». Per Fassina il Paese in questo momento rischia di essere stritolato da una tenaglia: da una parte il «liberismo cieco» di Bruxelles e dall’altra la demagogia semi-sovversiva del Pdl. In questo quadro «non è permesso fare un congresso autoreferenziale», bisogna fare squadra. Del resto, aggiunge, spaccarsi su come scegliere il premier quando il premier che c’è già ed è del Pd «sarebbe da ricovero».
MINACCIA POPULISTA
Alfredo D’Attorre facendo gli onori di casa allarga la visuale alla minaccia populista ma non si riferesce all’Europa quando mette l’accento sul fatto che «nessuno ha mai pensato a una equivoca pacificazione rispetto a ciò che ha rappresentato nell’ultimo ventennio l’anomalia del berlusconismo», che oggi come estremo frutto avvelenato dà al centrodestra questa impossibilità di rigenerarsi rispetto alla deriva proprietaria in cui è caduto. E rivendica l’emendamento sul tetto per le donazioni private ai partiti nella nuova legge che giusto oggi dovrebbe essere approvato alla Camera. Altro fulmine nel cielo ormai sempre meno azzurro. Interviene anche Franco Marini, che tiene a precisare le ragioni nette della sua scelta a sostegno di Cuperlo. E lo fa con la voce calda e tonante del vecchio sindacalista. Per lui i partiti personali «sono falliti» perchè «la gente semplice e seria» alla fine li abbandona, «ci vogliono i leader come De Gasperi e Togliatti ma ci vogliono dietro partiti grandi a supporto». «Aborro il personalismo», precisa ancora. E vorrebbe un segretario che si dedicasse a rifondare il partito «almeno per un mandato».
Cambia la formula e salgono sul palco insieme Bersani e Cuperlo. Entrambi sono più che d’accordo sull’iniziativa di Letta di chiedere un chiarimento di fondo agli alleati. «Ma non un chiarimento che duri una settimana, tutto bene poi all’ultimo si alza Brunetta...». Bersani non ha remore a definire «tecnicamente eversivo» l’atteggiamento del Pdl tra negazione del principio di legalità e dimissioni di massa. È un Bersani delle grandi occasioni, salutato entrando da un caloroso applauso. E così risfodera le sue celebri espressioni immaginifiche. «Al supermecatino sotto casa guardavo il prezzo delle zucchine e una signora mi chiede: perché ce l’avete tanto con Berlusconi?». La spiegazione semplice da dare per l’ex segretario è sempre quella: in nome della legalità, sempre che la signora che non si è convinta finora la trovi più convincente. Bersani vorrebbe che Letta nel momento della verità col Pdl ponesse anche il tema della finanza pubblica. «Non possiamo star lì a sfogliare il carciofo tra Imu, Iva, cuneo fiscale o cos’altro», ricordandoci poi che «non siamo una Repubblica fondata sugli immobili», dunque il lavoro prima di tutto.
Cuperlo ricorda che quando era giovane negli anni ‘70 e ‘80 ci sono stati momenti altrettanto delicati per la democrazia in Italia «però allora, a parte certe opacità e collusioni, l’attacco veniva dell’esterno. Ora invece da parte del sistema politico». Così oggi in direzione a suo dire si dovrebbero dedicare al massimo una decina di minuti alle regole del congresso e il resto a questo tema. D’accordo anche Bersani: «Non siamo mica marziani». Del resto in commissione l'accordo pare sia stato già trovato: il percorso congressuale ricalcherà quello del 2009 in tempi più rapidi, salvo posporre i segretari regionali. Si profila anche il patto tra i candidati per aprire le primarie per il premier, quando si andrà al voto. Tutti pronti.

Corriere 27.9.13
Franceschini invita alla calma. Ma nel Pd avanza l’ala dura
di Maria Teresa Meli


ROMA — «La cosa è seria»: con Enrico Letta negli Usa, è Dario Franceschini la voce del governo. È lui ad avvertire i parlamentari del Partito democratico di non tirare troppo la corda perché la situazione è molto delicata e Berlusconi, questa volta, pare molto determinato. Ma i dirigenti del Pd si rendono conto che possono stare fermi fino a un certo punto e che il loro elettorato non li capirebbe se cercassero a tutti i costi di fare pace con il Cavaliere furente.
È il responsabile dell’Economia Matteo Colaninno a confessare i timori di tutti, a dare corpo ai pensieri che agitano gli esponenti di quel partito: «La situazione è grave e noi non possiamo stare fermi, dobbiamo fare qualcosa, imporre le nostre proposte sulla legge di Stabilità, non giocare sempre di rimessa». Enzo Amendola, dalemiano emergente della segreteria, la pensa così anche lui, ma la dice a modo suo, interpellando Epifani con queste parole: «Guglielmo, se tua moglie se ne va, tu che fai? Disdici l’affitto o rinnovi il mobilio?». Per Amendola la risposta dovrebbe essere solo una: la prima. Non si può andare avanti come se nulla fosse. Ne è arciconvinto Matteo Orfini: «Ora ci vuole un po’ di polso. È giunto il tempo di fare le nostre proposte. Sulla legge di Stabilità, innanzitutto, come la rimodulazione dell’Imu». Anche Davide Zoggia, segretario organizzativo del Partito democratico, è convinto che non si possa sempre cedere ai ricatti di Berlusconi: «Noi siamo responsabili, ma siamo pronti a tutto».
Insomma, nel Pd monta la voglia del «redde rationem». Anche un tipo mite e misurato come il tesoriere del Pd, Antonio Misiani, ritiene che non si possa andare avanti a oltranza, oltre l’evidenza: «Penso che a un certo punto sarà lo stesso Letta a fare una verifica per vedere se si apre veramente la crisi, non credo che si farà staccare la spina senza dire niente, anche perché così non potrebbe poi candidarsi alla primarie per la premiership del centrosinistra.
Per farla beve gran parte del Pd si è andata convincendo in queste ore che, per dirla con Pier Luigi Bersani, si sia «vicini allo show down». L’ex segretario non sembra molto preoccupato da questa eventualità. ma non tutto il partito è su questa linea. In casa renziana si procede con i piedi di piombo. Paolo Gentiloni spiega: «Secondo me questa del Pdl è una buffonata. Berlusconi aspetterà e cercherà di aprire la crisi legando le sue vicende giudiziarie e la legge di Stabilità così potrà fare una campagna elettorale contro le tasse e per la libertà». E anche altri esponenti vicini al sindaco derubricano la vicenda a una «pagliacciata». Il perché di questa frenata appare evidente: i renziani puntano alle elezioni il 9 marzo e non vogliono che con la scusa della crisi salti il congresso. Tanto più adesso che è stato trovato un accordo sulle regole congressuali , accettato anche dal rappresentante di Letta, che aveva fatto di tutto per rallentare i lavori della commissione.
Già, le procedure per le assise nazionali vanno avanti: ieri Gianni Cuperlo ha lanciato ufficialmente la sua candidatura con il tandem Bersani-Marini, oggi si riunirà la Direzione (ovviamente per parlare anche e sopratutto della situazione politica), mentre il documento congressuale dei «non allineati» che Goffredo Bettini presenterà il prossimo dodici ottobre ha avuto il plauso di molti, incluso il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Renzi veglia sull’evoluzione delle cose e sul rispetto della data stabilita: più volte ha detto di «non voler fare la fine di Prodi», che quando era al governo è stato «massacrato» perché sprovvisto di un partito. Perciò la sua tabella di marcia prevede prima le assise nazionali con l’elezione del segretario e poi le politiche.
Riuscirà il sindaco di Firenze a raggiungere i suoi obiettivi? «Matteo è un tipo fortunato», afferma un parlamentare che lo conosce bene. Ma gli imprevisti sono molti e quello stesso deputato ammette: «Se Letta arriva al 2015 allora si riapre la contesa sulla premiership del centrosinistra».

Repubblica 27.9.13
Il cuperliano D’Ottavio
“Enrico dimettiti, noi peones ora vogliamo un altro governo”
capisce».
intervista di A. Cus.


ROMA — «Letta dimettiti. E apriamo una nuova fase politica». Peones dem in rivolta. Il «non se ne può più» arriva dal deputato cuperliano Umberto D’Ottavio.
Il premier deve dimettersi?
«Sì, quanto stanno facendo i parlamentari piediellini è ai limiti della sopportabilità. Letta farebbe bene a chiedere un chiarimento e dimettersi ».
In una battuta, perché?
«Gli interessi degli italiani vanno a farsi benedire di fronte a quelli di uno solo».
E cosa dovrebbe fare Letta, dopo le dimissioni?
« Creare le condizioni di un governo che possa affrontare i problemi del Paese. Così, non si può più andare avanti».
Così come?
«Con il peso di portare avanti il governo, e fare andare in porto i suoi provvedimenti come l’Imu, tutto solo sulle spalle del Pd».
In quanti nel Pd la pensano come lei?
«Quasi tutti quelli seduti nella fila più in alto dell’aula, dove ci sono i peones, i più lontani dalla direzione, i renziani e cuperliani. E quelli come me che devono andare a spiegare sul territorio una situazione che nessuno
Quale situazione?
«Perché stiamo ancora insieme con il Pdl».

Repubblica 27.9.13
Epifani pronto alla sfida finale “Prepariamoci alla campagna elettorale”
I democratici: se andiamo avanti così, moriamo
di Giovanna Casadio


ROMA — «Non possiamo farci logorare, si deve per forza arrivare a un chiarimento, questo lo si sapeva da tempo ormai, ma è giunto il momento... il Pd, se andiamo avanti così, muore». Prima della conferenza stampa di Enrico Letta a New York, il segretario Epifani lancia l’allarme rosso, e lo fa in una conversazione telefonica con il premier. «Enrico, non si può continuare in queste condizioni. Il Pdl deve assumersi le sue responsabilità, e non si accettano opzioni. Devi chiedere una nuova fiducia e farlo prima del 4 ottobre, prima del voto sulla decadenza di Berlusconi ». Insiste Epifani.
Mentre i parlamentari berlusconiani firmano il modulo prestampato di dimissioni, Largo del Nazareno, la sede dei Democratici, è un fortino dove ci si prepara «a tutto». Ma soprattutto, confida Epifani tra una riunione e l’altra, limando la relazione con la quale aprirà stamani la direzione del partito: «Prepariamoci al voto». La corda si è tesa al punto da diventare insopportabile per il Pd continuare l’esperienza delle larghe intese con un Berlusconi che non accetta la sentenza di condanna per frode fiscale e non vuole lasciare il Senato. Invocare la stabilità necessaria al paese è un argomento che fa cilecca persino nei discorsi dei “governisti”, dei lettiani, del ministro Franceschini: quale stabilità ci può essere con una destra che annuncia l’Aventino, che porta avanti una guerriglia parlamentare e, giorno dopo giorno, logora il governo? Le urne in primavera, dopo la legge di stabilità e una riforma elettorale (che esaudisca i dubbi della Consulta), si avvicinano a grandi passi.
È stata lunga la telefonata tra il presidente della Repubblica Napolitano e il segretario democratico. Evidente che i Democratici non accettano di restare con il cerino in mano, e al capo dello Stato hanno ribadito il massimo di senso di responsabilità. Però a patto che ci sia un percorso preciso di «chiarimento», una verifica cioè su alcune questioni inequivocabili. E appunto il Pd chiederà a Letta di mettere nel discorso parlamentare della nuova fiducia «due o tre punti di sinistra». Di fatto la campagna elettorale è alle porte, quindi i cavalli di battaglia del Pd che sono poi il lavoro e ancora il lavoro - vanno inseriti subito, a cominciare da un piano per l’occupazione giovanile e dal taglio delle tasse sul lavoro. «Qui ci giochiamo il tutto per tutto, e anche le polemiche sul congresso passano in secondo piano», ha ammesso Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze sarà oggi a Roma, nella riunione della direzione. Non ha sentito Epifani, però per la prima volta si dice preoccupato: «Quella del Pdl non è più una sceneggiata, vediamo cosa succede...». Nessun irrigidimento sul congresso. E anche se il regolamento congressuale (accordo trovato ieri sera), fissa la data dell’8 dicembre per le primarie (che saranno aperte, gratuite per gli iscritti, 2 euro per tutti gli altri), nessuno solleva polemiche sul rispetto dei tempi o su un loro allungamento. «Da un momento all’altro il governo cade, e voglio vedere... », si sfoga il bersaniano Nico Stumpo annunciando che lui con questa destra non vota più nulla. Le regole, su cui è saltata l’Assemblea del partito di sabato scorso, sono derubricate: va beneil termine per le candidature (entro 11 ottobre), e l’impegno tutto politico che i candidati alla segreteria (Renzi, Cuperlo, Civati, Pittella) dovrebbero prendere per separare la leadership del partito dalla candidatura a Palazzo Chigi. Se ci fosse uno strappo, lo stesso Letta sarebbe quasi certamente in corsa. E intanto? Nichi Vendola, il leader di Sel, ripeterà domani, nell’incontro previsto con Epifani, di essere disponibile a entrare in un governo di scopo. Trova impeccabili le parole di Napolitano («L’ho detto in un tweet. Quelle parole sono un promemoria su ciò che sono democrazia e stato di diritto»), ma aggiunge: «Il problema è il Pd. Continuare a invocare la stabilità in un quadro così terremotato sta diventando semplicemente autolesionista. Quando pensano di chiudere una pagina tanto infelice?». Il “piano B” dei Democratici non prevede tuttavia maggioranze raccogliticce, con i transfughi dei 5Stelle, Sel, pidiellini moderati... «Per ora l’unica cosa certa è che non possiamo essere ostaggio di Berlusconi», rincara Rosy Bindi. E nella direzione democratica oggi Cuperlo esorterà a dedicare solo 5 minuti alle regole, e poi a parlare della situazione politica. Civati a fare una ricognizione su quale nuova coalizione è possibile.

il Fatto 27.9.13
Nuove albe
A volte ritornano: “L’Unità” aspetta Walter, il suo Godot
Trattativa in corso per portarlo alla direzione del quotidiano fondato da Gramsci
Lui è interessato, ma perché l’operazione riesca servono nuovi investimenti
di Wanda Marra


Parafrasando un noto romanzo, si può dire che l’Unità è alla “ricerca dell’alba”. Una nuova nascita, un rilancio, una promessa di futuro. Magari pure un ritorno a un passato migliore. Che in questo caso si chiama Walter Veltroni. Sì, perché il primo segretario del Pd potrebbe rivivere gli antichi fasti, quelli che negli anni ‘90 lo videro alla guida del giornale fondato da Antonio Gramsci. Una direzione rimasta agli annali almeno per un’operazione: la pubblicazione in allegato, oltre ai libri, di videocassette per la prima volta con continuità tra i quotidiani italiani. Un’iniziativa che fu poi messa sotto accusa perché avrebbe gonfiato conti e copie. Ma in fondo che importa, potrebbe controbattere qualcuno, se non c’era casa italiana in cui non ci fosse una di quelle videocassette?.
L’arrivo di Veltroni non è una battuta, e neanche solo una voce dal sen fuggita: la trattativa è in corso. D’altra parte, sarebbe un’operazione coerente con la strada che (dovrebbe) aver intrapreso il Pd: Renzi è il super favorito alla corsa per la segreteria e Walter è stato tra i suoi primi e più convinti sostenitori. Senza contare che - rottamato dallo stesso giovane Matteo - in questo momento è fuori praticamente da tutti i giochi. Quel lavoro, poi gli piace. Certo, non è il tipo che non trova il modo di occuparsi: in questo momento è a Mosca. Motivo? Un’intervista a Gorbaciov per il suo film, quello che sta facendo un film regista e produttore su Enrico Berlinguer, visto che l’anno prossimo ne ricorre il trentennale della morte. Ma tra un sopralluogo e l’altro, i contatti vanno avanti.
La trattativa ha avuto fasi alterne: un paio di giorni fa sembrava quasi cosa fatta, adesso c’è qualche intoppo. Sì, perché ci sono delle condizioni che si devono “incastrare”: ovvero l’entrata di nuovi soci nel Cda del quotidiano. E dunque più soldi e più investimenti. È definitivamente in uscita Soru dal Cda ed è entrato Matteo Fago, fagiolino, fondatore di viaggi. vene re.com , che sta diventando azionista di riferimento. Ma non basta. Anche perché il Gunther Reform Trust (il socio Mian ha intestato i suoi capitali al cane pastore tedesco Gunther IV) non ha deciso se rimanere o no. Attraverso l’operazione Veltroni, gli azionisti dell’Unità cercano di attirare nuovi soci. Chissà, magari persino di convincere Soru a ripensarci. D’altra parte fu proprio con l’avvento del fondatore di Tiscali che alla direzione del giornale arrivò Concita De Gregorio. Annunciata dallo stesso Veltroni in un’intervista al Corriere della Sera (“Mi piacerebbe un direttore donna”). Insomma, l’arrivo di Walter è legato alla disponibilità di qualcuno ad investire. Se questo avvenisse, lui è più che interessato, decisamente disponibile. Interpellato l’ad del quotidiano, Fabrizio Meli, risponde: “Non si parla di cambi di direzione che non sono ancora avvenuti”.
NON È COSÌ facile. E allo stato l’unica cosa che appare certa è l’uscita di Claudio Sardo, l’attuale direttore voluto da Pier Luigi Bersani. Al quale avrebbe confessato qualche giorno fa l’ineluttabilità della sua sostituzione, per sentirsi rispondere “Così è la vita”. E ora? Dal primo ottobre dovrebbe subentrare Luca Landò, vicedirettore che fu portato alla riapertura da Alessandro Dalai, con delega per l’online. Definito l’“ottimizzatore”, visto che tra i suoi vari compiti c’era quello di razionalizzare costi e risorse, è noto anche per la sua sfrenata passione per il surf e la vela. Dopo il segretario reggente, arriva pure il direttore traghettatore. Aspettando Walter. Chissà che l’Africa non si allontani ancora un po’.

l’Unità 27.9.13
Landini a Fim e Uilm: «Scioperiamo contro il declino»
Il segretario Fiom ai delegati: «Agiamo o la crisi sarà senza ritorno» Ma Palombella dice no
di Andrea Bonzi


Uno sciopero unitario dei lavoratori metalmeccanici per fermare il declino dell’industria italiana. Da Rimini, dove si sta tenendo l’Assemblea nazionale dei delegati Fiom, il segretario generale Maurizio Landini si rivolge a Fim e Uilm per coinvolgerli in una battaglia contro il progressivo smantellamento della manifattura.
UN PUNTO DI NON RITORNO
I fronti su cui impegnarsi si moltiplicano e si è arrivati «a un punto di non ritorno ribadisce Landini Se lasciamo che le cose continuino così resteranno solo macerie». L’elenco delle criticità è drammatico. Landini parte dal caso Telecom, che potrebbe aprire «una competizione tra i lavoratori per i cambi di appalto», parla dell’Ilva, nella cui gestione sollecita un intervento dello Stato, «anche temporaneo», e il decreto che scongiuri il prolungarsi di «un blocco produttivo che rischia di far perdere quote di mercato». Poi ricorda i tormenti di Finmeccanica, mettendo in guardia dal progressivo abbandono del settore trasporti, «che ci metterà in balìa delle multinazionali in un comparto strategico», la crisi profonda del settore del “bianco” e degli elettrodomestici, e passa a Fiat, con una stoccata anche al premier: «Mi fa piacere che Letta incontri amministratori delegati importanti, ma sarebbe meglio che per discutere del Lingotto non fosse costretto ad andare in Canada, ma restasse in Italia». Paese che, tra l’altro, «anni fa era allo stesso livello di Giappone, Corea, Francia, mentre ora ha perso marchi e quote di mercato. Non basta dire che l’Alfa sarà realizzata solo in Italia quando poi la sua produzione non parte mai. Non siamo degli stupidi». Applausi dalla platea, dove è seduta anche Susanna Camusso, che parlerà oggi.
Di chi è la colpa di un quadro generale così preoccupante? Il primo punto è la mancanza di una politica industriale che dura da decenni, ma sul banco degli imputati non salgono solo governi e parlamentari, bensì anche una classe imprenditoriale che non ha saputo guardare al futuro: «I profitti crescono mentre i livelli di investimenti sono tra i più bassi d’Europa ricorda Landini Nonostante il peggioramento delle condizioni di lavoro, il sistema industriale si trova in una condizione di arretratezza».
Il cambiamento in atto ha una portata tale da investire anche le associazioni che rappresentano i lavoratori, spesso troppo divise per essere efficaci: «La crisi di rappresentanza di sindacati e partiti non è mai stata così profonda», ammette, ricordando ad esempio le difficoltà a tutelare i diritti dei precari. Serve uno scatto, dunque, ed è qui che Landini si rivolge a Fim e Uilm: «Aldilà di
tutti i problemi, le differenze e le divisioni che abbiamo, c’è un elemento che viene prima di tutto: la difesa del lavoro».
Una battaglia unitaria, «che può essere estesa a tutto il settore manifatturiero conclude Landini, rivolgendosi anche a Cgil, Cisl e Uil per non lasciare solo alcun lavoratore e per chiedere un cambio di politica industriale al governo. Vedremo quale sarà l’esito, ma una discussione abbiamo il dovere di farla». I primi segnali, però, non sono confortanti: il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, si è subito sfilato. «Le tute blu Cgil finora hanno dimostrato forte irresponsabilità nella gestione delle vicende sindacali, avversione nei nostri confronti, propensione all’azione politica e mediatica. Non siamo interessati allo sciopero», chiude Palombella.

il Fatto 27.9.13
Trattativa: scontro su Napolitano testimone
I Pm chiedono che il Capo dello Stato deponga in aula
È l’unico che può spiegare i timori del suo consigliere D’Ambrosio. L’Avvocatura è contraria
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Giorgio Napolitano deve venire nell’aula bunker di Palermo perché la sua testimonianza è “pertinente e rilevante”: per i pm di Palermo il capo dello Stato è l'unico a poter spiegare i timori esternati dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio che, nella lettera del 18 giugno 2012, poco prima di morire per un infarto, scrisse di sentirsi come “un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, risalenti al periodo tra l’89 e il ‘93. Per questo motivo ieri mattina, alla riapertura del processo sulla trattativa Stato-mafia, i pm di Palermo hanno reiterato alla Corte d’assise la richiesta di citare come testimone il presidente della Repubblica, insieme agli altri 177 testi della lista già depositata nella scorsa primavera.
UNA RICHIESTA alla quale si è immediatamente opposto l’avvocato dello Stato, Giuseppe Dell’Aira, che ha chiesto di espellere dal processo tutti i testimoni del “Romanzo Quirinale”: dagli ex pg di Cassazione Vitaliano Esposito e Gianfranco Ciani, all’ex capo della Dna Piero Grasso (oggi presidente del Senato), al segretario generale del Quirinale Donato Marra, trascinati dai timori di Mancino nelle fibrillazioni sulla necessità di un coordinamento delle indagini sulla trattativa. Il motivo? Dopo avere sostenuto che a Napolitano sarebbe affidato un inedito compito costituzionale di “coordinamento politico e operativo”, Dell’Aira si richiama alle garanzie di assoluta riservatezza che riguardano “sia le attività pubbliche che quelle informali” dell’inquilino del Colle, stabilite dalla recente sentenza della Consulta, emessa proprio nell’ambito del conflitto di attribuzione con la procura di Palermo. E siccome gli altri testi “si riferiscono alla funzione presidenziale”, lo stop vale anche per loro: no, quindi, anche alla trascrizione delle intercettazioni telefoniche di D’Ambrosio. “È anomalo e paradossale – ha commentato il neo-avvocato di parte civile Antonio Ingroia – che l’Avvocatura dello Stato si opponga ad una testimonianza chiesta dalla procura per fare luce sulla verità, e che la difesa di Mancino, sul punto, si dimostri più aperta”.
Il ruolo del Quirinale e il frenetico “attivismo” di Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza, nel contesto dei “dialoghi occulti” tra mafia e Stato durante la stagione delle stragi, riguardano uno dei passaggi ricostruiti ieri in aula dai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene in sei temi da provare che hanno impegnato i magistrati per quattro ore di fila: dall’avvio della strategia stragista di Cosa Nostra, decisa a dichiarare guerra a nemici storici come Falcone e Borsellino e a politici “re” di non avere garantito vecchi accordi, al tentativo da parte della mafia, attraverso l’ex senatore Marcello Dell’Utri, di condizionare il governo Berlusconi, fino all'attività svolta dagli ex ufficiali del Ros “di far protrarre la latitanza del boss Bernardo Provenzano”. É il punto che ha scatenato la reazione del-l’avvocato Basilio Milio, difensore dei generali dell’Arma Antonio Subranni e Mario Mori, accusati entrambi di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato, e recentemente assolti dall’accusa di aver favorito nel 1995 la latitanza del boss corleonese: il legale ha annunciato il deposito del dispositivo di sentenza. Di segno opposto l’intervento dell’avvocato Danilo Ammannato, parte civile per i familiari della strage dei Georgofili, che invece ha lanciato un appello a tutti i politici perchè “vengano in aula a dire la verità”. Al suo fianco, nell’inedito ruolo di “sostituto processuale”, in aula ha fatto la sua comparsa Antonio Ingroia che, al debutto come patrocinatore di parte civile, ha detto: “alla fine, tra pm e parti civili, non c’è tanta differenza: entrambi si battono perché venga alla luce la verita”. “Lo abbiamo scelto per la sua competenza tecnica – ha precisato Giovanna Maggiani Chelli – affiancherà Ammannato nella ricerca della verità. ” L’ultimo colpo di scena è toccato a Massimo Ciancimino, presente in aula nella doppia veste di superteste e imputato, che ha letto in aula una lettera ricevuta in coincidenza con l’apertura del processo, in cui un anonimo lo invita a “non collaborare più con i magistrati”.
NELLA MISSIVA, dai toni minacciosi, si dice che il presidente della Corte di assise, il gip, il pm, “fino all’ultimo giurato”, vengono seguiti e tenuti sotto osservazione. Il suo avvocato, Roberto D’Agostino, ha comunicato di aver già denunciato l’intimidazione alla procura.

il Fatto 27.9.13
Draghi, il premier e Re Giorgio
Casa Scalfari e la cena con i supereroi
di R.Z.


La quieta e romantica piazza della Minerva, nel cuore di Roma, venerdì sera era insolitamente affollata. Ma non di turisti. A meno che non ne sia nata una nuova specie amante dei palazzi privati anziché dei monumenti. In realtà uno dei palazzi affacciati sulla piazza è l'abitazione di un monumento, non dell'arte bensì del giornalismo italiano: Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica. Chi era alla finestra, venerdì scorso, ha notato che davanti alla sua abitazione ha sostato a lungo una “comitiva”. Probabilmente poliziotti in borghese, inattesa di tre autoblu. I passeggeri che ne sono scesi erano rispettivamente il presidente del Consiglio Enrico Letta, il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una cena davvero impegnativa. Non capita tutti i giorni di radunare attorno a un tavolo le figure istituzionali più importanti del nostro Paese e d'Europa. Alle quali Scalfari ha dedicato il suo editoriale due giorni dopo, intitolato per l'appunto “Napolitano-Letta-Draghi: lo scudo Italia-Europa”.
NON SAPREMO MAI cosa si sono detti, ma possiamo intuirlo dall'articolo in cui, dopo aver citato due aforismi del Diario di Friedrich Hebbel per sintetizzare i mali che affliggono il nostro Paese,ossia “la caparbietà di Berlusconi nel privilegiare se stesso” e l'incapacità della massa di fare progressi, Scalfari ricordava che il governo Letta, così come quello Monti non sono stati una scelta, “ma il prodotto necessario d'una situazione priva di alternative”. Siccome ora ci troviamo nuovamente in una situazione assai critica, inserita in un quadro internazionale ancora in crisi, “riusciranno i nostri eroi”? si domandava il fondatore. Gli eroi Napolitano-Letta-Draghi che “sono i nostri tre punti di forza, che hanno l'Europa come obiettivo preminente per l'avvenire di tutti” questa volta però devono agire da supereroi perché Berlusconi non indietreggia e sarebbe disposto anche a farci uscire dall'euro pur di non decadere. Speriamo che sia stato loro offerto un bel piatto di spinaci.

il Fatto 27.9.13
Senza speranze
Italia, paese del disincanto
di Franco Arminio


Hanno ucciso la speranza, e continuano a ucciderla ogni giorno. L’Italia settembrina si sente impotente. Quelli che vogliono salvare Berlusconi non riescono a salvarlo, quelli che vogliono farlo fuori non riescono nell’impresa. Lo stallo è il cuore di queste giornate. E la vicenda di Berlusconi è solo quella più nota. Esistono infinite vicende ordinarie, di gente ordinaria, tutte ferme in un gioco che non si sblocca, tutte con la speranza in rosso.
Abbiamo parlato tanto e continuiamo a parlare tanto della crisi economica. E il pensiero si adagia sulle solite parole. Gesso amputato alla lavagna, sterile pedagogia della crescita. E intanto a crescere è solo il senso di impotenza. Poco fa guardavo una rosa sul muro di fronte a casa mia. Era illuminata da un bel sole settembrino. Una rosa non dice niente e niente deve dire alla mia smania, alla mia impazienza. Come se mi fossi caricato per partire e mi trovo un muro davanti. Parlo con altre persone e sento lo stesso muro. Una donna dolente mi ha parlato di un suo giovane amico colpito da infarto. Qualche giorno fa è morta la giovane sposa di un mio amico. Pare che solo nella malattia accada ancora qualcosa. Il resto è bloccato.
Quando penso ai colpevoli di questa situazione il primo che mi viene in mente è il Presidente della Repubblica. Lui, come tanti nei palazzi, ragiona sull’abito delle istituzioni. Non sente il sangue che esce dalle vene squarciate, non sente le nuvole che si addensano nelle ossa. Se Berlusconi trova ingiusto che gli alleati di governo non vogliano aiutarlo, è strano che il Pd possa pensare nello stesso tempo di salvare il governo e di mollare il Cavaliere. La vicenda si svolge in una sorta di camera iperbarica, nelle piazze italiane non si sente nulla di questo duello. Si vedono giovani con la bottiglia in mano. In rete ognuno mette la sua piuma sulla giostra. L’Italia è una contesa di anime sfinite. Avremmo bisogno di un disegno robusto, di un intreccio paziente delle forze. E invece i politicanti delle vecchie e delle nuove stagioni restano al loro posto in attesa di consegnare il governo al giovane Renzi.
LA RAGIONE del suo successo è che lui è Figlio in una società che non conosce Padri. Togliatti e Berlinguer erano padri. Moro era padre. Poi abbiamo avuto Berlusconi che non è padre né figlio, al massimo uno zio falotico e truffaldino. Avremo il governo del Figlio perché il Presidente della Repubblica non ha la statura di Padre e negli ultimi tempi di fatto il suo ruolo è quello di devitalizzare il paese. Renzi è una soluzione facile per tempi difficili, una soluzione che di fatto propone un incrocio fra il modello democristiano e quello berlusconiano. Si possono guardare le rose, si può leggere un libro, si può camminare nel paesaggio, ma rimane questo senso di tappo che viene dall’alto. Il Presidente della Repubblica a me pare che abbia imbavagliato l’Italia. Potremmo anche uscire dalla crisi economica, ma rischiamo di trovarci una nazione senza respiro, una salma amministrata da salme. Renzi ha il vantaggio di scivolare in superficie, la sua anima spumosa e posticcia dà la sensazione che si possa governare l’Italia senza calarsi nelle piaghe purulente dovute al decubito del ventennio berlusconiano.
IL PARTITO DEMOCRATICO se vuole avere ancora qualche filamento socialista dovrebbe rompere gli indugi e lavorare per una riforma elettorale che dia quanto prima la parola agli elettori. Come si fa a non vedere i danni micidiali che produce il disincanto? Come si fa a pensare che l’Europa sia solo una questione di tassi e di banche? Il delirio finanziario ci ha fatto scordare che una società è viva e pulsante quando è tramata di amore, di passioni civili, di avventure della conoscenza.
Non abbiamo bisogno di un figlio che parla un linguaggio sportivo. La società non è un campo di calcio e comunque il Pd non vincerà nessuna partita fino a quando l’arbitro si chiamerà Giorgio Napolitano, fino a quando il paese non troverà la speranza sequestrata dagli estremisti della moderazione.

il Fatto 27.9.13
I grillini impermeabili al ragionamento
di Bruno Tinti


HO ACCETTATO la richiesta di un vecchio amico. Vieni a parlare a una festa dei grillini? Su cosa? Lavoro, salute, economia. Hhmm. Dai, ti prego. È una bravissima persona. Ok. Alla fine me ne sono pentito assai. Non tanto perché mi hanno mangiato vivo con perfetto stile berlusconiano; quanto perché non c’è stato verso di spiegare niente: erano impermeabili al ragionamento. Diritto al lavoro, certo. Art. 4 Cost: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ma che succede se il lavoro uccide? Art. 32 Cost: “La Repubblica tutela la salute come diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Vi ricordate le miniere di zolfo siciliane dell’800? Ci lavoravano i carusi, ragazzini di 6/7 anni che morivano come mosche. Certo, la loro paga manteneva famiglie poverissime. Ma vi sentireste di dire che dovevano continuare a lavorare? Non sono arrivati a dirmi di si; però mi hanno spiegato, con molta enfasi, che la “politica” doveva garantire un lavoro sicuro a tutti. E qui sono cominciati i guai seri.
Vero, lo Stato, deve promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro. Ma se non ci riesce? Se non si può? Se, nella migliore delle ipotesi, ci vuole tempo? Si può, si può, basta che la smettano di rubare. Vero; ma prima che si riesca a metterli tutti in prigione ci va del tempo; e intanto? Prendete Ilva. Lo sappiamo tutti che ammazza, lavoratori e cittadini di Taranto. Forse, con 10,15, 20 miliardi, nessuno lo sa con precisione, ed entro 10,15 anni, anche questo nessuno lo sa, si arriverà a metterla in sicurezza. Ma nel frattempo? Quanti morti si possono accettare per garantire il diritto al lavoro dei 5000 dipendenti? Ci dovevano pensare prima, non la dovevano privatizzare, chissà i soldi che si sono fatti dare. Tutto vero; però è andata così. Adesso che si fa? Tumulto, si sono divisi in due parti, una piccolina che raccontava come a Taranto sia impossibile vivere; e un’altra maggioritaria che diceva che lo Stato doveva espropriarla.
Ho colto il suggerimento per passare al problema principale, anche se ormai avevo capito che navigavo in brutte acque. Non la espropria perché poi i soldi per il risanamento li deve mettere lui. E dove li trova lo Stato 15 miliardi? Vedete, il lavoro deve essere remunerativo; che vuol dire ripagare l’investimento e garantire la paga del lavoratore. Se non è così, non si può mantenere.
CHI DOVREBBE pagare il salario dei lavoratori che non ricavano da quello che fanno le risorse necessarie? Tutti gli altri, non c’è soluzione. Questo già avviene con la cassa integrazione in deroga. È una forma di tassa. Quanto può andare avanti un Paese che fa pagare a tutti, pro quota, il lavoro di quelli che non ricavano di che pagarselo da soli? In questo senso, il diritto al lavoro è subordinato anche alle leggi dell’economia: niente utile, niente paga. Se non ci sono soldi, come si potrebbe corrispondere un salario?
A momenti mi ammazzavano. La cosa più gentile che mi hanno detto: parli bene tu con la tua pensione milionaria che ti paghiamo noi. Che, tra tante stupidaggini, è stata l’unica cosa sensata; in effetti un po’ in imbarazzo mi sono sentito, anche se di milioni non se ne parla. Un simpatico sindacalista che era sul palco con me mi ha spiegato che la soluzione era ovvia: la nazionalizzazione di tutti i mezzi di produzione, industrie, commerci, banche: e, naturalmente, l’uscita dall’euro. Ho pensato al Muro di Berlino e alla Corea del Nord e ho rabbrividito. Alla fine, sguardi ostili e incazzatura generale. Mi spiace per il mio amico; ma con questa gente non si può ragionare.

Repubblica 27.9.13
Paola Taverna, fedelissima di Grillo, eletta a palazzo Madama. Cresce il disagio nel gruppo
M5S, al capogruppo-falco mancano 14 voti i senatori dissidenti puntano all’intesa col Pd
di tommaso Ciriaco


ROMA — Sono pronti. Otto, forse dieci senatori grillini moderati. In rotta con i falchi pentastellati e tollerati a stento dalla cabina di regia del Movimento, progettano un governo con il Partito democratico. Non un Letta bis, sia chiaro. Piuttosto, un esecutivo guidato da una figura terza, “alla Rodotà”. Se si dovesse aprire uno spiraglio, i dissidenti sarebbero pronti a mettere in gioco anche il seggio parlamentare, rimettendolo al giudizio della Rete insieme a una semplice domanda: è ancora possibile sostenere un governo del cambiamento?
Per ora restano nell’ombra, in attesa che la ruota si fermi. E continueranno a non esporsi, soprattutto se il Pdl dovesse annunciare un nuovo voto di fiducia a Enrico Letta. Ma in caso di stallo usciranno allo scoperto. Fra gli altri, su posizioni critiche si attestano Fabrizio Bocchino e Alessandra Bencini, Luis Orellana e Francesco Campanella, Lorenzo Battista e Francesco Molinari, Maurizio Romani e Maria Mussini.
Un primo messaggio è stato recapitato ieri. Nel segreto dell’urna. In 14 (più 3 assenti) hanno preferito votare scheda bianca o nulla pur di non sostenere una delle due senatrici “talebane” in ballottaggio per la guida del gruppo del Senato. Alla fine - con 20 voti su 50 l’ha spuntata Paola Taverna, romana del Quarticciolo. Ha sconfitto Barbara Lezzi, che si è fermata a 13.
Nessuno più di Taverna interpreta l’anima ortodossa e radicale del Movimento. Lo chiarisce lei stessa, nel pomeriggio dell’incoronazione: «Altri governi? Non esiste, la linea è sempre la stessa». Ma non basta. Da sempre predica il pugno di ferro contro il dissenso. E non si smentisce: «Nuovi scenari? Io sono per la libertà, chi vede questa possibilità se ne va...», risponde in rima.
Eppure, i moderati continuano a proporre un patto con il Pd. Chiedono che sia la Rete a esprimersi - anche sulla loro permanenza in Parlamento - e sono pronti a dar battaglia in assemblea. Lo si capisce ascoltando Campanella. Arriva da trent’anni di militanza sindacale, pretende rispetto: «Un Letta bis non esiste, ho una storia e una dignità ». Ma ragionare di un esecutivo con una personalità super partes, questo è possibile: «Io non ci credo, ma se il Pd facesse uno scatto di reni e lanciasse una proposta convincente anche per chi ci ha votato, chi saremmo noi per dire no, Terminator?».
Beppe Grillo, intanto, si appresta a reclamare nuove elezioni, sparando contro un Letta bis. D’altra parte, assicura l’ormai ex capogruppo Nicola Morra, «se andiamo al voto vinciamo». Nel frattempo, però, il leader lancia l’idea di un referendum tra gli iscritti per valutare la migliore riforma elettorale. Con buona pace dei progetti su cui i parlamentari M5S lavorano da mesi.

Repubblica 27.9.13
“Fecondazione gratis anche per coppie fertili”
Il tribunale civile di Roma applica la norma europea: “Legge 40 equivoca”
Associazione Coscioni: “Sentenza storica”


ROMA — Da oggi in poi anche le coppie fertili potranno accedere alla fecondazione assistita e alla diagnosi pre impianto a spese del servizio sanitario nazionale. A stabilire quello che sembra un controsenso, ma in realtà include le migliaia di aspiranti genitori con malattie genetiche come la talassemia mediterranea che non vogliono trasmettere il loro male ai figli e che hanno quindi la fecondazione assistita e la diagnosi pre-impianto come unico sistema, è stato il Tribunale di Roma. Ha infatti dato il via all’accesso alla diagnosi pre-impianto a spese del Servizio sanitario nazionale per una coppia fertile ma portatrice di fibrosi cistica.
Una sentenza, che l’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca definisce «storica». Perché, spiega l’avvocato Filomena Gallo, presidente dell’associazione: «Eseguendo direttamente le indicazioni della Corte europea, supera la necessità di intervento della Corte costituzionale e disapplica direttamente, per la prima volta, una norma nazionale come la legge 40, una legge bocciata dalla corte europea che condanno l’Italia per violazione dei diritti umani».

l’Unità 27.9.13
Per combattere (davvero) la piaga del femminicidio
di Rosa Calipari

Deputata Pd

LA VIOLENZA SULLE DONNE E IL CRESCENTE NUMERO DI FEMMINICIDI RAPPRESENTANO UNA VERA E PROPRIA EMERGENZA NAZIONALE. E non c’è ormai giorno nel quale questa realtà non venga ribadita più o meno brutalmente da fatti o parole. Secondo me è necessario ammettere, per non affrontare la questione superficialmente, che si tratta di un fenomeno purtroppo radicato del nostro Paese, per molti anni ignorato e che oggi, per via dell’enorme ritardo accumulato, rischia di essere affrontato con la sola logica dell’emergenza, come si trattasse di un allagamento o di un terremoto.
Nelle prossime settimane il Parlamento è chiamato a votare il decreto sulla violenza di genere, un appuntamento sul quale c’è una grandissima attesa. La ratifica della Convenzione di Istanbul è stato un primo importantissimo risultato ma il vero problema sarà quello di applicarla adeguando il nostro sistema con l’adozione delle norme mancanti e con l’innovazione di quelle esistenti. Al contempo, dovremo vigilare su quanto è già stato fatto, per dare continuità alle politiche necessarie affinché prevenzione, formazione, protezione e repressione risultino veramente efficaci.
Non illudiamoci, quindi, che il decreto sia la carta vincente contro la violenza e contro i femminicidi. Non illudiamoci, ingenuamente, che il giorno dopo la sua approvazione il Paese disporrà di tutti gli strumenti necessari per tamponare e superare culturalmente questo gravissimo e profondo problema.
Bisogna prendere atto, con rammarico, che anche in questa occasione la risposta normativa è stata permeata da una forte visione securitaria che ha trovato riscontro principalmente in un inasprimento delle norme penali, visione che senza ombra di dubbio rappresenta un’innovazione e un passo in avanti per il nostro Paese ma pure un limite, prima di tutto culturale. Il decreto, se non adeguatamente inserito in un contesto di norme e politiche più ampie, corre il rischio di rappresentare una sorta di cattedrale nel deserto più che una risposta in linea con gli impegni dettati dalla ratifica della Convenzione di Istanbul, dalle direttive europee e dagli obblighi internazionali che l’Italia ha assunto.
Questo rischio è stato segnalato molto chiaramente nel corso delle audizioni tenute nelle scorse settimane in Commissione Giustizia da molte associazioni e organizzazioni femminili. Bisogna essere ben consapevoli che al momento non è percorribile la strada di una legge organica tanto che il governo ha inserito le norme sulla violenza contro le donne in un decreto molto ampio nel quale vengono affrontate anche altre materie. Per questo credo sia necessario riuscire ad intervenire sul testo del provvedimento nella maniera più efficace per scongiurare non solo la possibilità che il decreto possa decadere per il decorso dei 60 giorni ma anche per un possibile voto di fiducia che di fatto ne precluderebbe ogni modifica.
Assieme alle colleghe Marzano e Locatelli abbiamo presentato numerosi emendamenti migliorativi: riteniamo di primaria importanza l’adozione di una definizione di violenza nei confronti delle donne e di violenza domestica in linea con la Convenzione di Istanbul, eliminando il riferimento fortemente restrittivo sulle violenze episodiche. Senza entrare nel merito degli emendamenti sulle norme penali, prevediamo modifiche significative all’articolo 5 del decreto che istituisce il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere. Questo Piano dal nostro punto di vista non può essere "straordinario" ma soprattutto deve essere talmente prioritario da essere veramente finanziato (al momento è previsto a costo zero!).
Abbiamo ritenuto importante che per la costruzione del piano fossero ascoltati i pareri, fondamentali, delle associazioni, organizzazioni e centri antiviolenza con sperimentata professionalità che da anni tutelano le donne. Inoltre, riteniamo essenziale che le finalità del Piano d’Azione coincidano il più possibile con gli impegni presi dal nostro Paese.
Con le nostre proposte di modifica, che speriamo il governo accoglierà con spirito costruttivo, il decreto potrà dare risposte adeguate e non tradire la speranza di migliaia di donne che da troppo tempo subiscono la violenza e vivono nella paura.

Corriere 27.9.13
Per gli stalker bracciale elettronico e intercettazioni
di Alessandra Arachi


ROMA — Il braccialetto elettronico per gli stalker. Non è un semplice provvedimento: è una piccola grande rivoluzione. La commissione della Camera lo ha approvato ieri, grazie a un emendamento presentato dal Pd al decreto sul femminicidio che però è stato approvato a larga maggioranza. Da due commissioni congiunte: quella della Giustizia e quella degli Affari costituzionali.
Vuol dire, semplicemente, che un uomo allontanato dalla casa familiare per ipotesi di reato di stalking potrà essere controllato grazie al cosiddetto braccialetto elettronico, ovvero «mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici» previsti dall'articolo 275 bis del codice di procedura penale.
È un lungo percorso quello del decreto sul femminicidio. Popolato da decine e decine di emendamenti che saranno degli ostacoli molto fastidiosi quando arriverà in aula, probabilmente mercoledì prossimo. Ma ieri le due commissioni di Montecitorio, che stanno lavorando a questo decreto per combattere un fenomeno che in Italia ha assunto i contorni di un'emergenza nazionale, hanno messo a segno un'altra approvazione che segna un notevole salto culturale: l'irrevocabilità della querela nei casi di minacce gravi e reiterate.
Troppe volte è già successo: una donna perseguitata si decideva, finalmente, ad andare a fare una denuncia e poi, sotto nuove minacce, si trova costretta a ritirarla. L'emendamento approvato ieri nelle due commissioni dice, esplicitamente, che questo non sarà più possibile. Chissà se l'aula di Montecitorio deciderà di mantenere questa norma, assolutamente innovativa.
Le commissioni hanno approvato poi un altro emendamento che prevede l'estensione delle intercettazioni telefoniche al reato di stalking. Altre modifiche al decreto ieri hanno avuto la benedizione delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia. La prima: l'esclusione della possibilità di applicare l'allontanamento dalla casa familiare nei casi di lesioni lievi. Non si vogliono accanire i nostri deputati. Ma sono ben disposti a tutelare le vittime. La seconda: l'introduzione di un'aggravante generica per i reati di violenza commessi ai danni o in presenza di minori o donne incinte.
Il terzo emendamento approvato è quello che prevede il patrocinio gratuito per le vittime. Anche qui: è un salto culturale notevole. Un salto simile a quello che deve aver spinto ad una sterzata di vita uno come Gianrico Carofiglio, scrittore di successo e già magistrato prestato alla politica.
Finiti i cinque anni passati sullo scranno di Palazzo Madama come senatore del Pd, Carofiglio ha deciso di non fare più il magistrato. E ieri, in un convegno organizzato dall'università telematica Ecampus, ha svelato di voler vestire i panni dell'avvocato. Ma non di un avvocato qualsiasi.
Gianrico Carofiglio vuole fare proprio l'avvocato delle vittime, con preferenza per le donne vittime di reati di violenza. «Ho la fortuna di non dover fare questo nuovo mestiere per denaro, per questo penso di poter scegliere chi difendere e stare dalla parte delle vittime donne è una cosa che mi porto dietro da molto tempo, da quando come pubblico ministero feci un processo per stalking quando ancora non esisteva il reato di stalking. Lo stalker si prese 24 anni di prigione e alcuni anni dopo io raccontai questa storia in un libro».

Repubblica 27.9.13
Braccialetto elettronico per gli stalker nuova stretta sugli uomini violenti
Sì anche alle intercettazioni. Ieri a Piacenza un altro femminicidio
di Maria Elena Vincenzi


UN BRACCIALETTO per tenere gli stalker lontani dalle loro vittime. E, in più, via libera alle intercettazioni telefoniche. Le commissioni Giustizia e Affari Costituzionali hanno approvato due emendamenti al decreto legge sul femminicidio che introducono una nuova stretta sulle condotte persecutorie, questo lo spirito, una maggiore tuteladelle vittime.
LE MODIFICHE prevedono la possibilità di usare le intercettazioni telefoniche anche per il reato di stalking ma soprattutto l’utilizzo di una serie di strumenti elettronici per tutelare le donne. I braccialetti, ma non solo. Nell’emendamento si fa riferimento anche ad altre forme di telecontrollo che possono essere applicate a chi è stato destinatario di un provvedimento cautelare di allontanamento dalla casa familiare (come previsto dall’articolo 282bis del codice di procedura penale).
Le variazioni che dichiarano guerra ai reati “sentinella”, quelli che spesso sono l’anticamera di ulteriori violenze, sono state approvate all’unanimità dalle commissioni, ma va registrato che al momento del voto in aula c’era un solo deputato del Pdl. Soddisfatta la promotrice Alessia Morani (Pd): «La norma risponde anche all’auspicio che il ministro Cancellieri aveva fatto all’inizio del suo mandato per l’uso dei braccialetti elettronici, quasi del tutto inutilizzati, anche per i reati di stalking. Ci sono esperienze già in Spagna ein Francia in questo senso che hanno dato buoni risultati. E visto che, tra l’altro, in Italia c’è una carenza di organico sia per quanto riguarda i carabinieri sia per la polizia, dare la possibilità di usare ogni modalità di controllo che fa riferimento alle nuove tecnologie sarà un aiuto per le forze dell’ordine che potranno monitorare le situazioni anche se in difficoltà di personale».
Nel testo non si fa alcun riferimento all’attuazione pratica che verrà decisa in un secondo momento, dopo la conversione. Per quanto riguarda i detenuti, per i quali (anche se scarsamente utilizzato) il braccialetto è già previsto, la norma prevede che questa forma di controllo sia l’unico modo per escludere il carcere o i domiciliari. Ma il percorso per gli stalker è tutto da definire. L’unica cosa certa è che i braccialetti sono già disponibili, almeno in una prima fase: quelli per i detenuti, appunto, non sono stati usati molto spesso.
Le commissioni, dopo aver bocciato gli emendamenti soppressivi dell’articolo 2 del decreto del governo sul femminicidio, hanno approvato altre due proposte di modifica, una che prevede il gratuito patrocinio e l’obbligo di informazione della parte offesa, l’altra che esclude la possibilità di applicare l’allontanamento dalla casa familiare nei casi di lesioni lievi, tema sul quale c’è stato un acceso dibattito.
Le commissioni Giustizia e Affari Costituzionali non hanno ancora concluso l’esame dell’articolo 2. Proseguiranno lunedì. L’approdo in Aula è previsto per mercoledì e si dovrà correre: entro il 15 ottobre la norma va convertita onde evitare che decada, ma deve prima passare anche al Senato.
Buone notizie per la tutela delle donne che, però, arrivano nel giorno in cui un’altra donna viene uccisa dal partner. Cinzia Agnoletti, 51 anni, è stata soffocata dal compagno e padre di suo figlio, Gianpietro Giliberti, 53, nella casa in cui vivevano in via Stazione a Castelvetro Piacentino. Stavano insieme da 25 anni. Dopo aver ucciso la convivente, l’uomo ha cercato di togliersi la vita ma senza riuscirci. A far scattare il raptus forse una lite per motivi economici, pare ne avessero avute parecchie ultimamente. Quando l’uomo si è accorto di ciò che aveva fatto, ha chiamato il figlio 24enne che, a sua volta, ha avvisato i carabinieri di Piacenza. Arrivati sul posto i militari hanno trovato il corpo della donna senza vita e il marito che stava cercando di strangolarsi ma che respirava ancora. L’uomo, fermato, ha confessato ma gli inquirenti sono ancora al lavoro per ricostruire la dinamica e per capire se l’abbia strangolata o soffocata con una busta di plastica.

l’Unità 27.9.13
Brasile
50mila donne uccise dal 2001


Cinquemila l’anno, 50.000 in un decennio: una piccola città scomparsa, il bilancio di una guerra. Sono le donne uccise in Brasile secondo i dati diffusi dall’Istituto di ricerche economiche (Ipea). Un omicidio di genere ogni 90 minuti, una media pesante anche in un Paese di 200 milioni di abitanti. Non è servita a molto neanche la legge del 2006 «Maria da Penha», che ha inasprito le pene contro la violenza sulle donne.

il Fatto 27.9.13
Demos: “In Italia c’è un’involuzione democratica”


IN EUROPA si stanno aprendo dei “buchi” di democrazia, dei deficit nel funzionamento dei processi democratici. E, in alcuni Paesi, la crisi economica è stata uno dei fattori che hanno messo sotto pressione la democrazia. I casi più eclatanti, rileva uno studio del think tank britannico Demos, sono la Grecia e l’Ungheria. Ma anche l’Italia non è stata immune da un’involuzione democratica. L’Italia, si sottolinea nello studio “continua ad affrontare problemi che riguardano corruzione, crimine organizzato e proprietà dei media”. E anche “le accuse di corruzione ed evasione fiscale del presidente del Consiglio Berlusconi hanno minato la fiducia nelle istituzioni sociali e politiche”. Tanto che la “frustrazione” pubblica si è riflessa “nello straordinario risultato nelle elezioni del 2013 del populista Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle”.
La Grecia, si sottolinea nel rapporto, ha registrato i cali maggiori negli indici su giustizia, corruzione e stabilità politica, mentre l’Ungheria ha destato preoccupazioni per la proposta di legge sull’indipendenza della magistratura e per la regressione della libertà di stampa.

Corriere 27.9.13
Sequestro Ablyazova, ambasciatore indagato
di Ilaria Sacchettoni


ROMA — A distanza di 24 ore, la denuncia di Madina Ablyazova produce i primi effetti. La sorella maggiore di Alua, 6 anni, tumultuosamente rimpatriata il 31 maggio scorso con la mamma, Alma Shalabayeva Ablyazova, ha presentato martedì un esposto di 34 pagine. Ed ecco le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Si tratta di Andrian Yelemessov, ambasciatore del Kazakistan in Italia, Nurlan Khassen, suo consigliere per gli affari politici, e Yerzhan Yessirkepov, addetto agli affari consolari. Perché nella vicenda che riguarda l’espulsione di moglie e figlia del dissidente kazako l’unica certezza è la richiesta rivolta al ministero dell’Interno dall’ambasciatore del Paese asiatico. O meglio la pretesa di rimpatriare Alma Shalabayeva.
Ora, nel fascicolo del pm Eugenio Albamonte si formula anche l’ipotesi di reato: sequestro di persona. Ipotesi che in seguito — siamo al primo atto (dovuto) dei magistrati della Procura — potrebbe essere integrata da altro. Sottolinea infatti l’avvocato Astolfo Di Amato, che dopo aver presentato l’esposto ha avuto un colloquio con il procuratore Giuseppe Pignatone: «Noi abbiamo la convinzione che siano stati commessi abusi e omissioni gravi». Sia, spiega, per la rapidità «eccezionale» dell’espulsione, che per altro. Alma Shalabayeva, dice Di Amato, «è stata mandata via dall’Italia a 66 ore dal momento in cui della sua vicenda si sono occupati gli uffici del ministero e a 24 dalla decisione della prefettura». Tempi insoliti per la prassi italiana, insiste. Non solo ma chiede anche di verificare se i diplomatici kazaki abbiano commesso il reato di ricettazione e di accertare se «i funzionari del Viminale e della Questura abbiano tenuto comportamenti illegali». Il documento di espatrio della Shalabayeva, sul quale compare il nome di sua figlia Alua, sarebbe a suo avviso manipolato.
Brevemente, allora, conviene ricordare cos’era accaduto 4 mesi fa in quella villetta. Il 29 maggio Alma Shalabayeva e sua figlia Alua, ospiti in Italia, vengono prelevate dagli agenti della Squadra mobile che, dalla periferia sud di Roma, le trasferiscono al centro d’immigrazione di Ponte Galeria. Da quel momento, l’ospitalità alla famiglia del dissidente (arrestato in Francia il 31 luglio scorso, Mukhtar Ablyazov ha presentato una nuova domanda di scarcerazione che, da ieri, è alla valutazione dei giudici del tribunale di Aix-en-Provence) diventa una pratica di espulsione. Che, per l’avvocato della Shalabayeva, Riccardo Olivo, è tanto frettolosa quanto illegale considerata la domanda di asilo politico presentata dalla signora. Madre e figlia vengono messe su un aereo in partenza da Ciampino, mentre nei giorni successivi esplode la vicenda.
Il presidente del tribunale, Mario Bresciano, denuncia omissioni da parte della polizia: non avrebbero trasmesso «atti fondamentali per identificare la signora Alma Shalabayeva», traendo in inganno il giudice di pace che decise l’espulsione. Si sa invece che per ottenerla si mossero di persona i vertici dell’ambasciata kazaka in Italia, ora denunciati da Madina e dunque iscritti sul registro degli indagati, secondo la procedura di garanzia. «Le prove emerse in merito all’illegittimità dell’espulsione ci spingono a ritenere — sottolinea Di Amato — che sia stato commesso il reato di sequestro di persona aggravato. La prova documentale mostra che i tre diplomatici kazaki sono stati presenti, in modo attivo, in tutta questa triste vicenda. Qualora cadesse la loro immunità e dovessero affrontare il processo e la condanna, la pena massima prevista in Italia per il sequestro di persona aggravato è di quindici anni di reclusione».

il Fatto 27.9.13
Palestina “Stato sui confini del ‘67 ”


L’obiettivo dei negoziati con Israele è arrivare a uno Stato palestinese “indipendente e sovrano con Gerusalemme Est come capitale” e che si estenda su tutti i territori palestinesi occupati nel 1967. Lo ha detto il presidente palestinese, Abu Mazen, intervenendo all’Assemblea dell’Onu. Ansa

La Stampa 27.9.13
I «promossi»
La prima sedia di Abu Mazen


Anche una semplice sedia può essere un simbolo importante: le Nazioni Unite hanno esteso al presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen un privilegio conferito solo ai Capi di stato: il diritto a sedere sulla poltroncina dell’Assemblea Generale. I suoi predecessori, Yasser Arafat compreso, avevano aspettato in piedi il loro turno.

il Fatto 27.9.13
La rondine della Primavera iraniana
Le aperture del presidente Rohani alla prova del tempo: già con Khatami Teheran sembrava essere cambiata
di Giampiero Gramaglia


Un nuovo capitolo nelle relazioni tra l’Iran e l’Occidente. Oppure, il remake d’un film già visto, quello del riformista alla presidenza, con un’incognita sul finale: cambierà?, o resterà lo stesso? Hassan Rohani, leader dell’Iran da neppure 2 mesi, è stato il principale protagonista delle fasi d’avvio dell’Assemblea generale Onu, a New York. Lui impegnato a mandare messaggi d’apertura e di ottimismo; i suoi interlocutori attenti a non lasciarli cadere, ma anche decisi ad aspettare di vedere, come ha detto il presidente Usa Obama, “i fatti, dopo le parole”. E, in realtà, Rohani s’è mosso su un doppio binario, adeguando il linguaggio al proprio pubblico: è stato fermo, sul fronte interno; accomodante, sulla scena internazionale. Anche per questo, è stato ricambiato con un mix di aperture di credito e di diffidenza.
NON È la prima volta che l’Iran uscito dalla rivoluzione khomeinista si dà una guida riformista: l’avvento al potere di Khatami nel ’97, votato da giovani e donne, coincise con una fase di fermento. Khatami dovette però confrontarsi, nel secondo mandato, con il clima anti-islamico innescato dagli attentati dell’11 settembre e con l’invasione dell’Iraq.
Il contesto di scontro favorì, nel 2005, l’ascesa al potere del sindaco di Teheran Ahmadinejad, che riportò l’Iran agli anni di Khomeini e inasprì i rapporti con l’Occidente, specie sul programma nucleare iraniano – esclusivamente civile per Teheran, potenzialmente militare per Washington.
Rohani, ex negoziatore sul nucleare nelle trattative tra l’Iran e i ‘5+1’ (i Paesi dell’Onu con diritto di veto più la Germania), ha messo paletti ben precisi, prima di partire per New York: ha chiesto che sia riconosciuto il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio per alimentare le centrali, mentre le forze armate facevano sfilare in parata 30 missili balistici; e ha additato in Israele la vera minaccia chimica e nucleare della regione, mentre, in Siria, la guerra “deve essere spenta da politica e dialogo”. A New York ha cambiato registro: l’Iran non è una minaccia e i suoi programmi nucleari sono pacifici - l’accordo si può fare in 3 mesi, il pianeta può essere denuclearizzato in 5 anni; è pronto al dialogo e a un’ “intesa quadro” con gli Usa; vuole costruire una “coalizione per la pace” e partecipare a una conferenza per la Siria, la Ginevra2; riconosce le violenze del nazismo contro gli ebrei.
L’incontro con Obama, mai previsto, non c’è stato, ma Rohani ha avuto faccia a faccia col francese Hollande, Letta e molti altri. A parte Israele, che giudica “cinico” il suo discorso, dove cita un passo del Corano che riprende la Torah, le critiche son state caute, ma positive: Obama s’è detto “incoraggiato”.
Ma la storia raccontata agli iraniani è tutta diversa: la frase alla Cnn di condanna dell’Olocausto viene corretta dall’agenzia ufficiale; e la missione del presidente all’Onu è l’occasione per “fare chinare la testa” agli Usa. Il vecchio Khatami, però, lo incalza: libera i detenuti politici, fai respirare una boccata di libertà.

l’Unità 27.9.13
I riservisti greci sul web: nostalgia dei colonnelli
Appello in Rete alle dimissioni del governo colpevole dello sfascio economico, per un direttorio di giudici e militari che sconfessi il debito ellenicoAllarme ad Atene, aperta un’inchiesta
di Teodoro Andreadis


È l’ultimo colpo assestato ad un Paese già in condizioni estremamente precarie, dopo cinque anni di durissima crisi economica. Un gruppo di riservisti delle forze speciali dell’esercito greco dal suo sito web ha chiesto al governo di Atene di dimettersi, giudicandolo non in grado di fare fronte ai bisogni del paese. Nell’«appello» degli ufficiali di complemento, si accusa direttamente il governo Samaràs di non essere capace di offrire quanto previsto dalla Costituzione in settori di fondamentale importanza come la difesa, la sicurezza e la pubblica istruzione. «Ci vuole un nuovo governo, con a capo il presidente della Corte suprema ellenica e la partecipazione di personalità che siano totalmente al di fuori della politica», affermano i riservisti che chiedono una commissione, formata da giudici, per condannare chi ha portato il Paese allo sfascio economico. Chiedono anche di bloccare le vendite degli immobili di cittadini indebitati e di fermare i licenziamenti dei pubblici dipendenti. E soprattutto che il Paese non riconosca quello che viene definito un «debito ingiusto» sinora accumulato verso i creditori. «A garanzia di tutto ciò ci saranno le forze armate, il presidente della Repubblica si dovrà dimettere al momento opportuno per facilitare i necessari sviluppi», si legge, inoltre, in questa dichiarazione di intenti quantomeno inquietante.
Il tribunale di Atene, ha aperto un’inchiesta per cercare di individuare chi ha redatto l’appello. Il primo ministro Andònis Samaràs, da parte sua, ha discusso a lungo dell’argomento sia con i suoi ministri, che con i responsabili del partner di governo, i socialisti del Pasok.
ALBA DORATA
I ricordi della dittatura dei colonnelli, che ha privato la Grecia della democrazia dal 1967 al 1974, sono ancora vivi, e fa paura la saldatura che potrebbe crearsi tra depressione economica e la disillusione di molti cittadini, con i progetti eversivi di frange delle forze armate. I riservisti hanno promosso una manifestazione di protesta che si dovrebbe tenere in piazza Syntagma, davanti al parlamento greco, sabato prossimo. L’allerta è massima, anche se molti uomini della Marina, dell’Esercito e dell’Aviazione greca, sia in servizio che in congedo, interpellati dalle televisioni di Atene, hanno dichiarato di non avere intenzione di parteciparvi.
Quello che crea maggiore apprensione, è la strana coincidenza temporale: in questi giorni sono in corso interrogatori e perquisizioni serrate, per verificare i rapporti della polizia e dell’esercito con il partito neonazista di Alba Dorata.
Appena una settimana fa, il rapper trentaquattrenne Pavlos Fyssas è stato ucciso per mano di un estremista di destra, legato a doppio filo con l’apparato del partito neonazista. Si sospetta che l’assassino sia stato chiamato, via cellulare, da membri dell’organizzazione proprio per uccidere Fyssas. Il rapper era «colpevole» di aver contestato, con le sue canzoni e parlando con i suoi amici, i deliri razzisti, omofobi e xenofobi di questo partito, al limite della legalità costituzionale.
L’interrogativo è chiaro: dietro le minacce dei riservisti, annunciate, per ora, solo via web, c’è la volontà di offrire sostegno agli estremisti di Alba Dorata in seria difficoltà? Si cerca solo di spostare l’attenzione su possibili, ventilati golpe, o si vuole mandare un messaggio molto chiaro, del tipo «non andate troppo oltre con le indagini, perché potrebbe scoppiare il caos»?
Il capo di Alba Dorata, Nikos Michaloliàkos ex militare, ammiratore dei colonnelli e dei loro metodi incontrando i giornalisti ha dichiarato che Alba Dorata difenderà il suo onore, con tutti i mezzi a propria disposizione. «Se la Grecia dovesse entrare in una fase di destabilizzazione, la responsabilità sarà esclusivamente di chi cerca di demonizzarci». Altre minacce, per nulla velate.
La giustizia greca, secondo quanto trapela, ha già raccolto numerose testimonianze sui metodo violenti, le aggressioni, le minacce di Alba Dorata, e potrebbe riuscire ad accusare il gruppo di essere, in realtà, una organizzazione criminale. L’ultima deposizione, è stata quella del presidente della comunità pachistana di Atene, vessata dai neonazisti. Non c’è che da sperare che le sue parole e la sua indignazione, siano più forti di qualunque nostalgico, militare o paramilitare che sia.

Repubblica 27.9.13
“Così ebrei e musulmani sono discriminati” Proposta per aggiungere Yom Kippur e Eid
Francia 

Troppe feste cristiane “Cambiamo il calendario”
di Anais Ginori


PARIGI Il calendario francese delle festività è «troppo cristiano ». Lo sostiene, con una frase choc, uno dei membri dell’Osservatorio nazionale per la laicità. Secondo Dounia Bouzar, antropologa da poco nominata in questo organismo pubblico, la preponderanza di ricorrenze solo cristiane impedisce la giusta integrazione delle altre comunità religiose. La studiosa sottolinea la discriminazione dei fedeli non cristiani nella scansione delle vacanze programmate a scuola e negli uffici pubblici. Bouzar propone che nel calendario siano tolte due ricorrenze, per esempio Ognissanti e la Pentecoste, per sostituirle con la festa ebraica dello Yom Kippur e l’Eid, durante la quale i musulmani celebrano tradizionalmente la fine del Ramadan.
È solo una proposta, che per ora non ha molte possibilità di essere accolta dal governo. L’Osservatorio della laicità lavora a stretto contatto con il primo ministro e si occupa, tra l’altro, di vigilare sui simboli religiosi negli uffici pubblici. Il presidente dell’organismo, il socialista Jean-Louis Bianco, ha subito precisato che cambiare il calendario delle festività religiose «non è una priorità». Il governo vuole evitare nuove polemiche con la Chiesa cattolica, dopo la lunga stagione di ostilità aperta dall’approvazione del matrimonio per le coppie omosessuali.
Bouzar è nata a Grenoble da genitori algerini e pubblica da anni saggi sull’integrazione delle varie comunità religiose, soprattutto nei luoghi di lavoro. In Francia, come in Italia, il calendario delle festività è scandito sulle ricorrenze cristiane. Tutte le famiglie, ha osservato Bouzar, festeggiano Natale. «Ma dovremmo poter condividere i momenti simbolici delle altre due principali religioni del paese». Una tema complesso, che tocca nervi scoperti di chi difende le “radici cristiane” della società francese. Il ministro dell’Istruzione, Vincent Peillon, ha da poco mandato in tutte le scuole una “Carta della laicità” che ribadisce i principi della divisione tra Stato e religione secondo la legge che risale al lontano 1905.
«La Francia è stata all’avanguardia nel riconoscere la libertà religiosa e i diritti dei non credenti. Adesso il nostro paese — prosegue l’antropologa — dovrebbe continuare a essere più avanti degli altri». Negli ultimi anni, sono aumentate le rivendicazioni di alcuni gruppi, in particolare musulmani, sulla possibilità di assentarsi dal lavoro o di non mandare a scuola i figli durante le ricorrenze religiose. «Il sistematico rifiuto davanti ad alcune richieste di buon senso — nota Bouzar — non fa altro che alimentare le teorie di complotto di alcune frange più estremiste». La proposta della studiosa francese ha aperto un acceso dibattito tra i rappresentati delle varie confessioni. «Il nostro calendario delle festività è il frutto di una storia, di una cultura. È il riflesso delle radici cristiane che fanno parte del nostro patrimonio comune» ha detto Pierre-Hervé Grosjean, segretario della Commissione etica e politica della diocesi di Versailles. Molti cattolici temono un “estremismo laico” da parte della sinistra al governo. A sorpresa, l’idea di inserire l’Eid nel calendario delle festività non convince Abdallah Zekri, presidente dell’Osservatorio contro l’islamofobia, che predilige una soluzione di compromesso. «Piuttosto che sopprimere festività cristiane — dice — sarebbe meglio aggiungere due giorni per ebrei e musulmani ». Un’altra rivoluzione in nome della laicità tanto cara ai francesi non sembra alle porte. Ma se ne sentirà parlare ancora, in una società che diventa sempre più multiculturale e multireligiosa.

l’Unità 27.9.13
I geni della difesa
Il sistema immunitario ha una base ereditaria
Un’importante ricerca a Cagliari ha dimostrato che la capacità di difendersi dalle malattie è strettamente legata al genoma
Il lavoro collettivo coordinato da Francesco Cucca è pubblicato sulla rivista «Cell»
di Pietro Greco


IL LIVELLO DELLE CELLULE IMMUNITARIE CHE CIRCOLANO NEL NOSTRO ORGANISMO PER INDIVIDUARE GLI INTRUSI HA UNA COMPONENTE GENETICA. Insomma, la nostra capacità di combattere le malattie ha (anche) una base ereditaria. O meglio, ha una componente genetica superiore a quella che le veniva attribuita in passato. È questo, in estrema sintesi, il succo di un importante lavoro pubblicato sulla rivista Cell da Francesco Cucca, direttore dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Irgb-Cnr) di Monserrato, in provincia di Cagliari, e da una trentina di suoi collaboratori sulle varianti genetiche che regolano i livelli delle cellule immunitarie in persone sane e malate.
Si tratta di un lavoro di biologia cellulare di base. Ed è dunque difficile fare previsioni attendibili sulle applicazioni di queste nuove conoscenze. Tuttavia migliora non poco il quadro delle conoscenze sul rapporto niente affatto banale che esiste tra il sistema immunitario e il sistema genetico. Come spiega Edoardo Fiorillo, un ricercatore dell’Irgb-Cnr che ha collaborato alla ricerca, individuare i geni che influenzano il livello delle cellule immunitarie circolanti può aiutare, in prospettiva, a comprendere e magari a minimizzare il rischio di insorgenza di patologie autoimmuni e di altre malattie.
Naturalmente stiamo parlando di un futuro possibile la cui distanza dal nostro tempo non è prevedibile. Resta l’importanza in sé della nuova conoscenza.
Il lavoro del gruppo di Cucca è frutto di una ricerca lunga e complessa, che ha preso in considerazione 100 diversi tipi di cellule immunitarie che circolano nel nostro organismo e 23 varianti genetiche indipendenti in qualche modo associate a quelle cellule immunitarie (la gran parte delle associazioni sono state individuate o validate da Cucca e dai suoi collaboratori) presenti in un campione di 2.870 persone provenienti da quattro diverse zone della Sardegna.
Apriamo una parentesi. La Sardegna a causa del suo isolamento è terra di estremo interesse per i genetisti. Sono in atto molti studi genetici nell’isola. Il ProgeNia/SardiNia, di cui è parte la ricerca condotta dal team Cucca, sta analizzando oltre 800 diversi parametri biomedici considerati significativi.
Tornando alla ricerca specifica. È la prima volta che viene compiuto uno studio del sistema immunitario e del profilo genetico delle persone così a fondo. In particolare è la prima volta che il sequenziamento completo del genoma, almeno in alcune delle persone del campione, viene associato a studi sul livello delle cellule immunitarie. Il risultato è che Cucca e i suoi hanno dimostrato questo livello dipende fortemente da almeno 23 varianti genetiche indipendenti.
Il sistema immunitario è costituito da una rete estesa a tutto il corpo di organi (dalla milza al midollo osseo), di tessuti, di vasi linfatici e di cellule circolanti in perenne comunicazione tra loro, con l’obiettivo comune di difendere l’organismo dalle aggressioni esterne. Primo compito del sistema immunitario è, dunque, «riconoscere il sé dall’altro» o, come dicono gli inglesi, il self da non-self. Ciò che appartiene al corpo e ciò che è invece un agente esterno. E poi occorre che il sistema immunitario riconosca l’agente esterno sicuramente amico da quello che amico non è. Le cellule immunitarie che circolano nell’organismo e sono deputate a fare la parte primaria di questo lavoro sono i linfociti e i macrofagi.
Il sistema immunitario come spiega Alberto Mantovani, l’italiano da poco eletto presidente dell’Unione internazionale delle società di immunologia è molto articolato. E tra le sue diverse articolazioni propone una «immunità innata», ovvero una parte del sistema di difesa che non è specifica. Ma combatte un po’ alla cieca, con un’efficienza relativa. Questa componente è, per definizione, ereditaria. Ed è un accidente congelato dell’evoluzione biologica che si è sviluppata nel tempo profondo e appartiene a tutti gli animali.
I vertebrati compreso Homo sapiens presentano invece anche una «immunità specifica», capace di combattere agenti, appunto, specifici. Come un particolare virus dell’influenza. L’«immunità specifica» ha una memoria (se mi ammalo oggi di influenza causata da un determinato virus, ho buone probabilità di resistere il prossimo anno all’attacco del medesimo virus). Ma non si pensava che anche l’«immunità specifica» avesse una grossa componente genetica.
I risultati ottenuti dal gruppo del Cnr dimostrano che ci si sbagliava. In un bel libro di qualche anno fa, lo storico della medicina Gilberto Corbellini spiegava che i sistemi biologici hanno diverse grammatiche e parlano diverse lingue. Il linguaggio del sistema immunitario è molto diverso dal linguaggio genetico. Ora sappiamo che malgrado parlino lingue, il genoma e il sistema immunitario comunicano in continuazione e a ogni livello.

l’Unità 27.9.13
Oggi in tutta Italia la Notte dei ricercatori
di Cristiana Pulcinelli


L’IMPORTANTE È RIALZARSI. CHI LAVORA A CITTÀ DELLA SCIENZA LO SA E, DOPO L’INCENDIO DOLOSO CHE IL 4 MARZO SCORSO HA DISTRUTTO L’EDIFICIO CHE OSPITAVA LE SEZIONI ESPOSITIVE DELLO SCIENCE CENTER DI NAPOLI, si è rimboccato le maniche e ha ricominciato da capo. Oggi Città della scienza si animerà ancora in occasione della Notte dei ricercatori 2013. Un incontro tra ricercatori e grande pubblico con lo scopo di promuovere, attraverso esperimenti, spettacoli e giochi, l’importanza della ricerca scientifica e della sua ricaduta sulla vita quotidiana. L’ingresso sarà gratuito.
L’iniziativa, che si intitola Light 2013, è al suo sesto appuntamento. Quest’anno il tema sarà «What’s up with science?» (Che c’è di nuovo nella scienza?) e si svolgerà in contemporanea al Planetario di Roma e a Napoli. Tanti i laboratori nella sede di Città della scienza: da «Il futuro dell’energia» a «quanto conosci le tue capacità?», fino a «i segreti degli ortaggi». E ci sarà anche un laboratorio musicale con l’esibizione di una banda di bambini del quartiere Montesanto. Al Planetario di Roma si parlerà, tra l’altro, di astronauti su Marte, di Neanderthal e di coleotteri, mentre molte altre iniziative sono previste nella capitale: nelle tre università, all’Ospedale Bambin Gesù, all’orto botanico.
La Notte dei ricercatori è un’iniziativa promossa dalla Commissione Europea fin dal 2005 che coinvolge ogni anno migliaia di ricercatori e istituzioni di ricerca in tutti i paesi europei. Quest’anno le città coinvolte in Europa sono 300 distribuite in 35 Paesi. L’Italia partecipa con 7 progetti che si svolgono in 31 città.
Non solo Napoli e Roma, quindi. In Lombardia, ad esempio, la «notte» diventa «Meetmetonight» e coinvolge nove città (Milano, Brescia, Como, Lecco, Lodi, Mantova, Monza, Pavia e Varese). Al Museo della scienza e della tecnologia di Milano, in questa occasione, apre anche l’esposizione interattiva permanente Da cosa nasce cosa. Il ciclo di vita dei prodotti. A Trento,la sede dell’iniziativa dedicata alla «ricerca a km 0» è l’appena inaugurato Muse, il Museo della scienza firmato da Renzo Piano. In Toscana si svolgerà Shine (Scientists are Humans, Interactive Night of Entertainment) con iniziative sparse su ben 11 città. E la Nordeastnight vede protagoniste Padova, Trieste, Udine, Venezia e Verona.
Chi vuole cercare il programma dettagliato delle iniziative che si svolgeranno nelle singole città può andare all’indirizzo www.nottedeiricercatori. it/ e godersi una notte diversa dalle altre.

Corriere 27.9.13
Tito Perlini, vita da filosofo fino al termine del disincanto
Un addio al pensatore che andò oltre Marx, Adorno e Mann
di Claudio Magris


Vivere, a un certo punto della propria parabola, diviene sopravvivere; non tanto ad altri che si fermano e restano indietro o forse invece corrono avanti e sono già arrivati chissà dove, quanto a sé stessi, alla propria esistenza piena e completa, perché la morte di persone amate non è solo un dolore per loro, bensì — e ancor più — una mutilazione di noi stessi, che senza di loro non siamo più i medesimi, non siamo più veramente noi nella nostra integrità, ma abbiamo perso qualcosa di essenziale che contribuiva a costituirci, a fare di noi quello che siamo. Il dolore, in questi casi, è più per noi stessi che per loro.
Con la morte di Tito Perlini, avvenuta a Trieste, perdo anzitutto una parte della mia intelligenza, della mia capacità di capire il mondo e le sue trasformazioni politiche, sociali, morali, biologiche sempre più vertiginose. Ma questa intelligenza delle cose che, per la parte legata a lui, mi è stata portata via era, è indissolubilmente fusa con l'amicizia, l'affetto, lo scambio di idee di risate di esperienze nelle chiacchierate, nelle passeggiate nella sosta in birreria o a cena a casa mia.
Se filosofia, come dice la parola, è amore della sapienza, del sapere e del capire, non ho forse conosciuto nessuno che meritasse il nome di filosofo come lui.
Non solo per i libri che ha scritto, molti dei quali bellissimi, fondamentali: sul marxismo e sulla Scuola di Francoforte, su Adorno e Benjamin, su Thomas Mann, sul giovane Lukács e su quella grandiosa cultura e letteratura tra fine Ottocento e primo Novecento, che rimane tuttora fondante perché ha indagato come nessun'altra la disgregazione di una civiltà plurisecolare, la frantumazione di ogni visione ordinata e totale della realtà, la necessità e l'impossibilità della vita vera, intrisa di significato.
Restano essenziali i suoi saggi sul nichilismo e su Augusto Del Noce, il grande pensatore cattolico affascinato dal comunismo e dalla modernità più perversa, ma duro e geniale assertore della Tradizione senza compromissioni né aggiornamenti. Marxista critico e figura intellettuale di primo piano nella sinistra italiana anche se voce fuori dal coro, Perlini non condivideva la fede né il tradizionalismo di Del Noce, ma si rendeva conto come pochi altri che senza il confronto con le esigenze della fede — con quell'esigenza dell'«assolutamente Altro», che possiamo chiamare Dio e che era stata affermata da uno dei padri della Scuola marxiana di Francoforte, Max Horkheimer — non si può capire il mondo finito, concreto, storico, l'unico che si possa indagare razionalmente ma che rimanda alla propria insufficienza.
Perlini è filosofo soprattutto perché capire era la sua passione fondamentale, tale da assorbire pressoché completamente la sua vita serenamente solitaria e inaccessibile.
La sua opera è fortemente segnata da una tensione utopica, sorretta e corretta da un forte e concreto senso della realtà. Dal pensiero negativo di Adorno e di Benjamin aveva imparato — e aveva saputo interpretare e trasmettere originalmente — che solo la ragione può illuminare il reale ma che la ragione stessa, per non diventare un meccanismo automatico e totalitario che di fatto impone un proprio modello di razionalità tirannica, deve continuamente mettersi in discussione e rituffarsi nella polvere del reale, della vita, dell'accidentalità, in quel caos da cui bisogna sollevarsi ma senza alcuna pretesa di averlo superato per sempre, perché la vita urge sempre sotto il pensiero, mettendolo in pericolo ma anche nutrendolo. Ho imparato da lui come da nessun altro che la verità di don Chisciotte deve sempre fare i conti con quella di Sancho Panza, se vuole ritornare autentica in sella a Ronzinante.
La vita di Tito Perlini è tutta nel suo pensiero, nella sua riflessione, nella sua scrittura, con tutta la malinconia che ciò comporta, una malinconia sempre taciuta e superata forse solo nell'amicizia.
Ha insegnato al liceo a Milano, la sua città amata, e all'università di Venezia; ha partecipato, ma sempre da franco tiratore e con distanza critica, alla vita politica della sinistra. È di fatto uno dei più significativi filosofi italiani anche se, a differenza di altri suoi amici, non è divenuto mai una vedette, un guru, sottraendosi a quella spirale che nella nostra società trasforma sempre di più intellettuali, scrittori e filosofi, anche grandi, in veline.
Non si è trattato di una scelta moralistica, perché nulla gli era più estraneo del moralismo; gli interessava capire, non giudicare e dinanzi a certi miei furori etico-politici mi diceva ironicamente che io me la prendevo con i fenomeni deteriori, mentre quel che conta è capire i processi che li rendono inevitabili. Del resto non avrebbe avuto nemmeno la capacità di essere un filosofo interpellato dai media: glielo impedivano la sua pigrizia, la torrenziale ed eccessiva misura dei suoi interventi, cui non era disposto a rinunciare né ne sarebbe stato capace. Non era affatto immalinconito, perché non gli interessava essere protagonista ma gli bastava capire per sentirsi appagato. Una volta, a un dibattito cui partecipavamo entrambi, mi disse, a proposito di un collega seduto allo stesso tavolo: «Vuole avere l'ultima parola e noi gliela lasciamo volentieri».
Con una certa prevaricazione intellettuale, era indifferente alla natura e mi guardava ora con compatimento ora con irritazione perché io invece non posso fare a meno del mare e dei boschi. Si era laureato a Trieste con una tesi sul Doktor Faustus, così grossa che aveva sfondato lo zaino in cui l'aveva messa il suo relatore Guido Devescovi, l'amico di Slataper, portandosela in montagna.
Era molto triestino, anche se — o forse proprio per questo — insofferente di Trieste, in cui peraltro aveva succhiato col latte il senso della storia e della vita come disincanto. Sul disincanto ha scritto pagine memorabili, cercandolo soprattutto nei capolavori della letteratura — Mann, Dostoevskij, l'amatissima Educazione sentimentale di Flaubert — perché è nella letteratura che il pensiero si incarna e diventa vita.
Il suo pensiero dialettico non conosceva verità definitive, ma nel suo stupendo saggio sul relativismo — credo l'ultimo suo lavoro, certo quello in cui, come mi disse, aveva espresso pienamente se stesso — ha demolito una volta per tutte lo stupido culto oggi obbligato del relativismo, distinguendo il relativismo buono quale continua e necessaria correzione nella ricerca della verità, che impedisce a tale ricerca di diventare dogmatica, dal relativismo becero e barbarico che mette tutto sullo stesso piano, come se il razzismo antisemita e il rispetto di tutti gli uomini fossero due opinioni parimenti lecite e rispettabili.
Ha passato l'ultimo periodo della sua vita pesantemente paralizzato dal Parkinson, che gli rendeva molto difficile anche parlare. Ma era sempre tranquillo, pacato; sempre più interessato all'oggetto che alle proprie magagne, non ha permesso che queste alterassero la sua visione del mondo.

Corriere 27.9.13
Il maggior poeta greco vivente giudica il suo Paese mentre viene premiato in Italia
La Grecia, avventurosa come me
Titos Patrikios: «Ci salveremo, parola di un sopravvissuto»
di Antonio Ferrari


La crisi greca, vista con gli occhi del maggior poeta ellenico vivente, Titos Patrikios, ha l'ironico sapore della provocazione. Perché questo pacato gentiluomo ottantacinquenne, scampato alla fucilazione per puro caso durante l'occupazione tedesca, sfuggito alla cattura dopo il colpo di stato dei colonnelli grazie a un divorzio provvidenziale, ti guarda e ti dice candidamente d'essere ottimista. Poi spiega: «L'anno scorso, che per noi è stato il peggiore, ho incontrato l'ottimismo calmo per tre ragioni: i produttori di vino greci avevano firmato un contratto con la Cina per la vendita di 11 milioni di bottiglie; a Parigi facevano la coda per comprare il nostro olio; e infine perché, l'anno prima, le nostre pallanuotiste avevano vinto il titolo mondiale. Quest'anno l'ottimismo si è consolidato, anche perché mi sono convinto che sia l'unico modo per evitare la depressione».
Le poesie di Patrikios, famose in tutto il mondo, verranno celebrate, assieme all'autore, il 28 settembre, nella località italiana più adatta: la magica Lerici del Golfo dei Poeti, dove per sei mesi visse anche Shelley. L'autore del volume La poesia ti trova, che per mesi è stato in testa alle vendite in Grecia, e che dovrebbe uscire anche in Italia, pur essendo sereno non ha più illusioni. «Alla fine della guerra pensavamo che il razzismo, l'intolleranza e il fanatismo dell'estrema destra fossero tramontati per sempre. Invece, mi ritrovo a pensare alla forza delle idee estremiste e alla loro capacità di rinascere. Dicono che il gruppo neonazista Alba dorata sia nato e cresciuto a causa della durissima crisi che vive la Grecia. Ma poi leggo che in Norvegia il partito xenofobo che ha tesserato il terrorista e stragista Anders Breivik potrebbe entrare al governo. E allora, affiora lo scoramento perché penso che in Norvegia non vi è alcuna crisi... Insomma, è questa sete di dominio sugli altri che mi turba. Mi convinco sempre più che la libertà non condivisa, in molti casi, si trasformi in schiavitù. Poi penso alla democrazia, a questa democrazia che a volte ti sembra una scelta lussuosa. Sarà anche vero, ma allora vuol dire che mi piace questo lusso».
Patrikios è l'anima della sinistra greca colta, ma non ha tabù. Cita una lettera che Karl Marx scrisse nel 1843 ad Arnold Ruge. Una scoperta che a lui, marxista convinto, ha fatto male. Perché, disquisendo dell'alleanza tra intellettuali e umanità operaia, conclude un capoverso con una frase minacciosa, da futura dittatura del proletariato. Questa: lo otterremo, «che a loro piaccia o no». Per il poeta è come un tradimento, poi documentato dalla visita nell'Unione sovietica, dove la gente viveva in povertà e i papaveri del regime, assieme ai loro ospiti, avevano tutto e di tutto.
E allora Titos Patrikios torna a quel giorno, quando era partigiano, e ai piedi dell'Acropoli fu catturato dai nazisti. Non aveva nulla addosso, ma stava aspettando una ragazza che doveva portargli materiale anti-tedesco. Lo condannarono a morte all'istante. Poi, forse per spietato divertimento, quando i mitra erano già puntati su di lui, l'ufficiale guardò l'orologio: «Ti concedo di vivere altri 10 minuti, in attesa della ragazza. Se viene sarai salvo, altrimenti ti uccideremo. La ragazza arrivò al nono minuto. Era svelta, intelligente e coraggiosa. Capì tutto. Lasciò la bicicletta e corse ad abbracciarmi». E poi Patrikios ricorda quella volta che i sicari dei colonnelli andarono ad arrestarlo. «Che sia benedetta la burocrazia — dice, ridendo —. Io e mia moglie avevamo divorziato, ma il documento non era stato registrato, e le squadracce arrivarono in un appartamento dove non c'era più nessuno. Io ero già espatriato. Stavo a Parigi, e avevo un'amica favolosa e generosa, Jeanne Modigliani, sì proprio la figlia del grande pittore. Lavorai in Francia, e poi lei mi accompagnò in Italia, dove ho conosciuto persone uniche, speciali, come la coppia di napoletani Nina e Federico Nicesi. Un'amicizia straordinaria. Una sera mi dissero: «Titos, vogliamo farti conoscere una persona eccezionale, Giorgio. È un uomo colto e coraggioso. Ti piacerà. Così conobbi, nel 1969, Giorgio Napolitano. Quando il presidente venne in visita di Stato ad Atene lo salutai con calore e deferenza. Lui mi guardò e mi disse: "Abbiamo perduto Federico"».
Un velo di tristezza disegna un'altra ruga sul volto segnato di questo poeta combattente, che prima pensava all'impegno sociale, e oggi lascia che la poesia ti cerchi. Perché, come scrive ne I simulacri e le cose, «passando in rassegna le cose già accadute/ la poesia cerca risposte/ a domande non ancora fatte».

Corriere 27.9.13
L’uomo e la mosca compagni di viaggio
Una sola vita non basta (Rizzoli, pp. 342 19), il nuovo libro di Edoardo Boncinelli
di Chiara Lalli


«È stato grazie a un tornado che la mia carriera di scienziato ha preso il volo». Una sola vita non basta (Rizzoli, pp. 342 19), il nuovo libro di Edoardo Boncinelli, comincia da un incontro fortuito al terminal della Twa di New York. È il 1984, Boncinelli è diretto in Colorado per una conferenza sulla biologia dello sviluppo ma le condizioni atmosferiche fanno sospendere il traffico aereo. Si forma un gruppo di passeggeri bloccati nell'attesa, tra cui lo scienziato svizzero Walter Gehring. I due si salutano e cominciano a raccontarsi come procedono le rispettive ricerche. È soprattutto Gehring a parlare, e la chiacchierata si trasforma presto in un'anteprima informale della sua futura relazione. Gehring aveva isolato tre geni omeotici della drosofila. In quel momento era chiaro quanto fossero importanti, ma non ancora come funzionassero. Di alto valore gerarchico e in grado di controllare altri geni, una loro mutazione può provocare profonde alterazioni nel corpo della mosca: non solo una zampa o un'ala, ma l'intero segmento di corpo dell'insetto che li contiene.
Che cosa accade nelle altre specie? Boncinelli decide di provare a rispondere a questa domanda, cioè di verificare se per i mammiferi valgono gli stessi meccanismi. La decisione si rivela felice: Boncinelli si avvia sulla strada che lo condurrà verso la scoperta «dell'esistenza nell'uomo di geni con un ruolo simile a quello dei geni omeotici nella drosofila».
Sarà la borsa vinta al Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Napoli a dare una direzione al suo futuro di ricercatore: comincia qui la sua avventura nella biologia molecolare. Era il 1967, a quel tempo non era stato ancora del tutto decifrato il codice genetico del Dna e «la biologia stava inaugurando proprio in quegli anni la sua stagione più favolosa». Il Laboratorio (Ligb, oggi inglobato dal Cnr) era d'avanguardia, voleva unire eccellenza tecnica a indipendenza politica e diventare fucina per la futura biologia molecolare italiana. E, nonostante il peso delle logiche clientelari e le traversie, ha mantenuto la promessa.
È nell'istituto di Napoli che Boncinelli scopre i geni omeotici nell'uomo. S'era chiarita da poco la natura di quelli della drosofila come controllori dell'azione di altri geni: davano per esempio il comando «ala» o «zampa», agendo come fattori trascrizionali. La scoperta non è importante solo sul piano scientifico. Ha un'eco filosofica: non siamo poi così «speciali», diversi da una mosca, almeno nei componenti fondamentali. È facile capire lo scombussolamento di chi si crede appartenente a una specie ontologicamente superiore alle altre. Ed è anche facile capire come questo tassello potrebbe contribuire a sgonfiare le paure ingiustificate verso la manipolazione genetica e gli Ogm, o ad ammorbidire le condanne moralistiche verso tecnologie come la diagnosi genetica di preimpianto.
Seguire Boncinelli significa ripercorrere anni scientificamente incredibili: la scoperta del funzionamento dei geni, la nascita della biologia molecolare — futura ingegneria genetica — e l'avanzare dell'embriologia, la comparsa delle cellule staminali, l'affinamento di metodologie e tecniche, il potenziale per la clinica e la salute umana. E, ovviamente, il sequenziamento del genoma umano, che solo negli anni 80 si credeva un sogno fantascientifico.
Gli ultimi decenni hanno cambiato il nostro panorama di conoscenze molto più profondamente di secoli di storia passata. Ripercorrere la carriera di Boncinelli non è solo un'occasione per immergersi negli anni che hanno cambiato il mondo, ma anche per riflettere sulla salute cagionevole delle cosiddette scienze umane.

L'appuntamento: il libro di Edoardo Boncinelli viene presentato oggi alle 18.30 presso il Museo nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano da Fiorenzo Galli e Giovanni Caprara, in occasione dell'Open Night - Notte dei ricercatori.

Repubblica 27.9.13
“Io, che ho lasciato morire mio figlio in macchina vivo perché non succeda ad altri”
Il padre del piccolo Luca: quattro mesi dopo non so spiegare la tragedia
intervista di Luigi Nocenti


Dove immagina ora suo figlio?
«A Luca penso sempre, ogni giorno. Lo immagino con suo nonno, mio padre, a cui raccomanderei di farlo giocare, di averne cura. E se potessi parlare con mio figlio per un’ultima volta, vorrei dirgli di aspettarci: è solo questione di tempo, la mamma e il papà arriveranno ».

PIACENZA «QUANDO ho visto Luca in auto, sul suo seggiolino, sono rimasto paralizzato dallo shock. Ho capito subito che era morto, che non c’era più nulla da fare. Il dolore mi ha invaso, mi sono sentito completamente smarrito, ho iniziato a gridare, disperato. E ho pensato che la mia vita fosse finita lì, quel giorno,in quel momento».
È IL 4 giugno, un martedì, quando Andrea Albanese, 38 anni, controller di gestione, dimentica in auto, alla periferia di Piacenza, suo figlio, Luca, 2 anni. Il bambino rimane per ore sotto il sole; nell’abitacolo asfissiante la temperatura arriva a sfiorare i 40°. La sua vita scivola via così, silenziosa, fino a quando le braccia di papà Andrea accolgono il suo corpicino per l’ultima volta, ormai troppo tardi. E l’incubo di qualsiasi genitore per Albanese diventa realtà: il proprio figlio che muore, e per causa sua. Perché quel giorno, anziché portarlo al nido, lo ha lasciato in auto. Un black out, lo shock, e poi sopravvivere alla tragedia, convivere con un fardello molto pesante. La mente di questo padre ripercorre ogni giorno quella mattina, la sua memoria condannata nel mondo dell’eterno ritorno, dove Nietzsche immaginava i nostri gesti ripetersi un numero infinito divolte, sempre uguali.
Sono passati quasi quattro mesi dalla tragedia, pensa che prima o poi riuscirà a perdonarsi?
«Quel giorno non ho fatto nulla per mettere a rischio la vita di Luca. Se mio figlio fosse morto in un incidente stradale perché viaggiavo ad alta velocità o perché avevo bevuto troppo, probabilmente mi sarei sentito più in colpa per aver provocato la disgrazia con un’azione consapevole. Invece, è accaduto qualcosa di cui non ho coscienza, non ho avuto il controllo di ciò che stava succedendo. Non serve certo a non farmi star male, ma è andata cosi. E in una frazione di secondo è cambiata la mia vita».
Cosa ritiene sia accaduto nella sua mente per non lasciare Luca al nido, un gesto di routine ma così importante?
«Non l’ho capito e temo che non lo capirò mai. Era un periodo del tutto normale, non avevo scadenze particolari sul lavoro e nemmeno preoccupazioni serie. Ero felice. Quella mattina ero sicuro di averlo portato all’asilo tanto che in mattinata mi è capitato di parlare di mio figlio con i colleghi alla macchinetta del caffè, e nessun dubbio ha sfiorato la mia mente. Anche quando quel pomeriggio mi ha chiamato mia moglie per dirmi che il nonno non aveva trovato Luca al nido, ho pensato a un equivoco o che l’avessero portato fuori; sono sceso dall’ufficio per andare a verificare, ma ero tranquillo».
E poi invece la terribile scoperta. Cosa ricorda di quegli attimi concitati?
«Ricordo le mie urla, i miei colleghi accorrere, il loro cercare di starmi vicino. E poi l’arrivo dei soccorsi, la mia disperazione senza rimedio, l’impossibilità di accettare quanto era accaduto, il macerarmi su come fosse stato possibile. Non sono neanche riuscito a salutare mio figlio come avrei voluto, il trauma è stato devastante».
Così devastante che dopo la tragedia ha pensato di uccidersi.
«Devo dire che è stato un pensiero che ho accantonato in fretta, la mia vita non è finita. Non posso tornare indietro purtroppo, ma sono convinto di poter fare ancora qualcosa di buono, per me e per gli altri. E mi impegnerò per questo, spenderò la mia vita in questo senso. La tragedia è stata immane, ma ho avuto la fortuna di non essere solo e questo mi ha permesso di guardare avanti».
Tornare a lavorare poche settimane dopo l’ha aiutata?
«Sono rientrato un mese dopo, ho voluto riprendere il lavoro il prima possibile. I miei colleghi mi hanno accolto benissimo, rispettando i miei momenti difficili e comportandosi come se nulla fosse accaduto. Da questo punto di vista mi ritengo fortunato, perché il rapporto con molti di loro è diventato negli anni amicizia vera e propria».
Oltre ai suoi colleghi, chi le è stato vicino dopo il dramma?
«Nei giorni successivi, per circa due settimane, sono stato ricoverato al reparto di Diagnosi e cura dell’ospedale di Piacenza, che ringrazio per la splendida assistenza ricevuta. E poi io e mia moglie Paola abbiamo ricevuto tanta solidarietà umana, in primis dai famigliari, dagli amici e anche dai genitori degli altri bambini che hanno vissuto la nostra stessa tragedia. Ma anche tante persone che non ci conoscono, che hanno capito la nostra sofferenza, ci sono state vicino. A tutti va il mio sincero ringraziamento».
Qualcuno però l’ha anche giudicata duramente domandandosi come sia possibile dimenticare un figlio come fosse un oggetto, un mazzo di chiavi.
«Non mi sono mai preoccupato di evitare le critiche anche perché inizialmente ero conscio di non poter fare nulla per far cambiare idea nel breve termine a chi ha infierito su di me. Oggi però, molte di queste persone mi hanno conosciuto meglio e hanno un’opinione diversa, o quanto meno hanno capito che l’indignazione non salva nessun bambino, bisogna fare altro».
Ad esempio?
«Innanzitutto, ho aperto il gruppo Facebook “Mai più morti come Luca”. In pochi mesi siamo arrivati a quasi 9.000 iscritti. L’obiettivo è una legge che renda obbligatori i sistemi anti abbandono sulle auto, una tecnologia già disponibile che va solo adattata: un allarme può salvare una vita. A questo proposito vorrei invitare a firmare una petizione suchange. org,rivolta ministero dei Trasporti, per una modifica del codice della strada, art.172, che regolamenta il trasporto dei bambini in auto. Questa petizione, per cui sono già state raccolte più di 36 mila firme, è stata promossa da un medico, la dottoressa Maria Ghirardelli, 43 anni, della provincia di Brescia, che, madre di tre bambini, è stata profondamente turbata dalla morte di Luca. Con la petizione e il gruppo su Facebook: vorremmo far capire alle istituzioni che è necessario un loro intervento per garantire la sicurezza dei nostri figli, perché non accada ad altri ciò che è successo a me».
Crede che ciò che le è capitato possa succedere a chiunque?
«Ritengo di sì. Bisogna avere molta razionalità nell’affrontare la questione: questi incidenti hanno riguardato tipi di persone molto diversi, non è rilevante né la cultura né lo stato sociale. È capitato sia a padri che a madri. L’errore più grande è rifugiarsi nell’idea che succeda solo a genitori snaturati: non è cosi».
E sua moglie l’ha perdonata?
«Paola è splendida, sa quanto amavo Luca e quindi sa che quello che è successo non può essere dipeso da me, ma da qualcosa completamente fuori dal mio controllo. Inutile negare che ci sono stati momenti di rabbia, ma non ci siamo mai allontanati, abbiamo sempre pensato di andare avanti uniti. E se arrivasse un altro figlio lo accoglieremmo con gioia infinita, come è stato con Luca».
Che bambino era Luca?
«Splendido, solare, affettuoso. Sono tanti i bellissimi ricordi che nessuno potrà portarmi via. Grazie a lui ho provato la felicità assoluta, il non desiderare nient’altro dalla vita. Io e mia moglie ci sentivamo orgogliosi e completi con lui, non serviva essere in vacanza o avere occasioni particolari per essere felici, bastava un giorno qualunque, bastava un suo sorriso, bastava essere con lui».