domenica 29 settembre 2013

La Stampa 29.9.13
Contro le tre “libido” resistere resistere resistere
Per una liturgia del corpo. La dominante erotica deve opporsi alla «cosificazione» dell’altro e della sessualità
Un’istituzione, un partito che faccia di se stesso l’unico fine diventa liberticida
Eros, desiderio di possesso e di potere: perché non diventino idoli è necessario esercitarsi nell’arte della lotta interiore

di Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose

Non è possibile l’edificazione di una personalità umana e spirituale robusta senza la lotta interiore, senza un esercizio al discernimento tra bene e male, in modo da giungere a dire dei «sì» convinti e dei «no» efficaci: «sì» a quello che possiamo essere e fare per vivere una vita umana degna di questo nome; «no» alle pulsioni idolatriche ed egocentriche che ci alienano e contraddicono i nostri rapporti con noi stessi, con gli altri e con le cose e, per chi crede, con Dio: rapporti chiamati a essere contrassegnati da libertà e amore.
In questo senso vorrei analizzare tre dominanti fondamentali che agiscono sulle sfere umane dell’amare, dell’avere e del volere: la dominante dell’eros ( libido amandi ), la dominante del possesso ( libido possidendi ), la dominante del potere e dell’affermazione di sé ( libido dominandi ).
L’uomo trova il senso della sua vita nell’amare, e l’eros è la pulsione fondamentale che lo abita, è parte integrante della sua fame d’amore. Tuttavia anch’esso deve trovare dei limiti, deve cioè essere attraversato dalla dinamica del desiderio. L’eros deve accettare la differenza e la distanza: non è un caso che l’interdetto primario fondamentale in tutte le culture sia quello dell’incesto.
In un tempo in cui imperversa l’immagine, mentre si è smarrito il valore del simbolo, l’eros è più spettacolarizzato che vissuto nella sua profondità. E forse sta qui, nell’attuale tirannia dell’immagine, la radice dell’idolatria della sfera erotica: l’idolatria è costruzione di un’immagine da sostituire alla realtà, è fuga nell’immaginario, perdendo l’adesione alla realtà ed evitando anche le difficoltà, le sofferenze, le angosce che essa porta con sé. Nell’immagine pubblicizzata, la sessualità è vissuta senza angosce, senza conflitti: ecco l’illusione seducente dell’erotismo reso idolo, al caro prezzo di una sessualità spersonalizzata, senza più alcuna valenza simbolica, senza l’altro, senza il suo volto. In questo senso, non si può dimenticare l’imperante esercizio della sessualità virtuale, consumata online, nonché la pornografia disponibile in rete sotto molte forme…
Come lottare in questo ambito? La dominante dell’eros deve fuggire la cosificazione dell’altro e la perversione del desiderio, per tornare a essere dinamismo di incontro e immissione nel mistero di comunione in cui l’uomo e la donna esprimono il loro amore, fino a celebrarlo in quella che Giovanni Paolo II osava chiamare la «liturgia dei corpi». In questo cammino occorre esercitarsi all’ascesi umana, alla lotta contro la spersonalizzazione della pulsione e la reificazione della sessualità.
L’essere umano ha non solo il diritto, ma anche il dovere di vivere un rapporto con le cose e con i beni: senza questo rapporto che gli permette di soddisfare il bisogno del pane, della casa e del vestito, l’uomo non costruisce se stesso e non vive quella pienezza che gli spetta in quanto uomo e che la fede cristiana legge come vocazione a essere pastore, re e signore all’interno del creato.
Tuttavia, in questo rapporto con le cose, grande è la tentazione idolatrica, la seduzione della brama del possesso. Ma quando il rapporto con le cose diviene idolatrico? Quando il possesso diviene un fine in sé, giustificando anche ogni mezzo pur di ottenerlo; quando si vuole affermare «il mio» e «il tuo» – queste fredde parole, dicevano i Padri della Chiesa! –, contraddicendo un’elementare esigenza di giustizia e misconoscendo la destinazione universale dei beni. C’è dunque un netto discernimento da operare: o essere guidati dal dinamismo della comunicazione e della comunione o essere alienati alla dominante del possesso, tertium non datur .
In questo tempo di crisi dell’interiorità, di rimozione dell’interiorità dalla sfera dell’esistenza, grande è la tentazionedi lasciarsi definire da ciò che si ha o, correlativamente, da ciò che si fa, insomma, da ciò che è visibile e quantificabile, da ciò che è esteriore: dall’immagine che l’altro vede. Sempre di più, in questa pseudo-cultura, l’altro è inteso non come diverso con cui comunicare, ma come spettatore: in particolare spettatore del mio successo, della mia ricchezza.
Certamente la brama di possedere risponde a una forma di angoscia e di lotta contro la morte, a una ricerca di onnipotenza e di rassicurazione che vengono dalla sensazione di poter tutto acquistare, di eliminare i bisogni soddisfacendoli immediatamente. Del resto, viviamo in un angolo di mondo in cui è possibile la soddisfazione di qualsiasi bisogno, ma in cui si è perso il senso dell’autentico bisogno, del bisogno reale: spesso i bisogni sono indotti, creati, eppure esigono, con tutta la forza dell’idolo, forza che riposa su una radicale inconsistenza, la soddisfazione. Si comincia a desiderare il possesso di una cosa e, a poco a poco, la brama di possedere porta a non considerare gli altri: si vuole tutto e subito, anche a spese degli altri. Questo aspetto emerge con particolare forza dalla constatazione del diffuso senso di irresponsabilità nei confronti di coloro che verranno dopo di noi. Il «tutto e subito» diviene anche «tutto è mio», «tutto è nostro».
Qui la lotta esige da parte di ciascuno la capacità di porre una distanza tra sé e le ricchezze, per non cadere nel terribile abbaglio di chi si lascia definire da ciò che possiede; occorre cioè uscire dalla logica angusta e angosciata del «mio» e del «tuo», per entrare nella libertà della condivisione e della comunione dei beni .
L’ultima tentazione «madre» è quella del potere, dell’affermazione di sé sugli altri: la libido dominandi, forse l’idolo che richiede l’adorazione più totale, quando addirittura non giunge fino a esigere il sangue degli altri nostri fratelli e sorelle in umanità. Non a caso per l’ Apocalisse di Giovanni questo idolo arriva ad assumere i tratti di Dio stesso (cf. Ap 13), a travestirsi da Dio per vedere rivolte a sé l’adesione e l’adorazione che vanno solo a Dio.
Ora, è evidente che l’uomo è un essere in-relazione e pertanto esercita un’influenza sugli altri, dai quali a sua volta è influenzato: da questo gioco relazionale scaturisce la creazione di una vita comune, la costruzione di una città, di una polis, l’edificazione di una convivenza. Ma quando dalla logica dell’interrelazione e dello scambio – in cui la presenza degli altri è vista come positiva e sentita come essenziale – si passa a un’affermazione di sé contro o sopra gli altri, quando si trasforma il proprio io in assoluto, quando ci si lascia inebriare dalla sete di potere, allora si precipita nell’idolatria.
Se non è frenata e se non riceve un limite, la libido dominandi diventa l’idolo più devastante a livello sociale e politico. Secondo Julia Kristeva, esso è la forma culminante del narcisismo e porta l’individuo o il soggetto politico o istituzionale a guardare a se stesso come a Dio. Ma l’esito socio-politico di un narcisismo estremo è il potere totalitario, dittatoriale. Un’istituzione, un partito, un sistema che faccia di se stesso e della propria sopravvivenza l’unico fine, anzi che si ritenga depositario dell’unico e vero bene per tutti, bene che dunque potrà e dovrà essere imposto a tutti, diventa liberticida. Cioè incapace di accettare che vi sia chi prende e mantiene una distanza da esso, chi custodisce un’alterità, una diversità. Non a caso una società come la nostra, in forte condizione di instabilità e di crisi, carente di ideali collettivi, sfilacciata nel suo tessuto sociale, con perdita di fiducia nelle istituzioni politiche, vede sorgere il culto della personalità e crescere i fenomeni della personalizzazione e della spettacolarizzazione di tutti i poteri. E diventa così terreno di possibili soluzioni politiche «idolatriche».
Di fronte a questi rischi decisivi, la lotta interiore è il cammino attraverso il quale, nello spazio della libertà e dell’amore, si apprende l’arte della resistenza alla tentazione e l’arte della scelta. Avere un cuore unificato, un cuore puro, sensibile e capace di discernimento, un cuore che custodisce e genera pensieri d’amore: ecco lo scopo del combattimento e della resistenza interiore, arte davvero appassionante. È necessaria una grande lotta antiidolatrica per essere liberi di servire e amare ogni uomo, ogni donna, ogni creatura; insomma, per giungere a fare della nostra vita umana un capolavoro.

Corriere 29.9.13
L'enciclica dei giovani
Conversione e misericordia: messaggi per la nuova Chiesa
di Aldo Cazzullo


«Meiner verehrungs - würdigen Großmutter», alla mia veneranda nonna. La poesia di Hölderlin è tra le preferite di Francesco, che la sa a memoria, in tedesco. Bergoglio, il Papa venuto dalla fine del mondo, ama citare versi scritti nella lingua del suo predecessore. E ha parlato della nonna, figura centrale della sua formazione, anche alle Giornate mondiali della Gioventù, richiamando i doveri nei confronti degli anziani soli e malati nel luogo più carico di energia vitale che si possa immaginare, la spiaggia di Copacabana, dove tre milioni di giovani il mattino facevano il bagno e la sera ascoltavano il Pontefice romano. (Tra l'altro Bergoglio fu professore di letteratura: quando aveva ventotto anni e insegnava al Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fé, nel 1965 invitò Jorge Luis Borges, già celebre, a fare lezione ai suoi studenti: il massimo poeta argentino accettò l'invito di quel giovane e sconosciuto padre gesuita, e divennero amici).
È un Francesco vivo e vero, quello che esce dalle pagine di Gian Guido Vecchi, nel libro in edicola con il «Corriere» (Francesco. La rivoluzione della tenerezza). Non è una figura vista in tv o elucubrata da lontano; è un uomo raccontato di prima mano, in questi mesi straordinari in cui ha rivoluzionato la figura e il mestiere di Papa.
Vecchi, allievo di Massimo Cacciari e del cardinale Carlo Maria Martini, vaticanista del nostro giornale già con Papa Ratzinger, racconta al lettore dettagli inediti e interpretazioni autentiche delle opere e delle parole di Francesco. Il prologo parte dalle Giornate mondiali della Gioventù. L'edizione di Rio non è stata come le altre. È stato un viaggio programmatico. Discorsi e gesti compongono una sorta di enciclica.
Prima Francesco è andato ad Aparecida, il più grande santuario mariano del mondo, dove come presidente della riunione dei vescovi latinoamericani aveva posto la prima pietra del pontificato prossimo venturo, richiamando l'attenzione, più che sui precetti morali, sull'evangelizzazione e sugli ultimi, gli emarginati, gli esclusi. Poi, dopo i primi due giorni di riposo e di preghiera, il Papa si è rivolto ai giovani del mondo, scegliendo l'immagine dei discepoli di Emmaus che si allontanano da Gerusalemme dopo la morte di Gesù: i fedeli che scappano dalla Chiesa. In questo modo, Francesco ha posto la domanda centrale del viaggio in Brasile e del suo esordio come Pontefice: siamo ancora una Chiesa capace di scaldare il cuore? La sua riforma è anzitutto di atteggiamento. Per stile e attitudine il suo punto di riferimento, scrive Vecchi, è sant'Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù. L'immagine della Chiesa come ospedale da campo — consegnata al mondo nell'intervista alla «Civiltà Cattolica» — in cui si devono curare i feriti senza «pensare al colesterolo» è già in nuce nei discorsi di Rio. Prima il Vangelo, la misericordia, la Chiesa vicina. Il resto, compresi i divieti morali, viene dopo.
Francesco parla ai vescovi di «conversione» pastorale, la metànoia che nel greco dei Vangeli viene dal verbo metanoein e alla lettera significa «cambiare mente», modo di pensare. Il rinnovamento della Chiesa dipende anzitutto da questo. Se i fedeli si allontanano, proprio come avevano fatto i discepoli di Emmaus, è segno che «serve una Chiesa che non abbia paura di uscire nella loro notte. Serve una Chiesa capace di intercettare la loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione. Serve una Chiesa che sappia dialogare con quei discepoli, i quali, scappando da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli, con il proprio disincanto, con la delusione di un cristianesimo ritenuto ormai terreno sterile, infecondo, incapace di generare senso».
La Chiesa di Francesco non deve essere «autoreferenziale», chiusa in se stessa, composta da «puri», affetta dal «clericalismo»; la Chiesa deve essere aperta al mondo. Vescovi e sacerdoti sono chiamati a organizzarsi «per servire tutti i battezzati e gli uomini di buona volontà»: un'espressione che comprende ogni uomo, anche i credenti di altre religioni e i non credenti.
La spiritualità del gesuita è evidente quando avverte che nel «dialogo con il mondo attuale» bisogna essere consapevoli che «Dio sta in tutte le parti: bisogna saperlo scoprire per poterlo annunciare nell'idioma di ogni cultura». Cercare e trovare Dio in tutte le cose, secondo un principio fondamentale di sant'Ignazio di Loyola: perché «Dio lavora e opera per me in tutte le cose create sulla faccia della terra», come si legge negli Esercizi spirituali.
Da qui le parole di Francesco ai vescovi brasiliani: «Esistono pastorali lontane, pastorali disciplinari che privilegiano i principi, le condotte, i procedimenti organizzativi... ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza». Ma in questo modo si ignora la «rivoluzione della tenerezza» che provocò l'incarnazione del Verbo. «Vi sono pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere l'incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli».
Francesco sostiene la centralità della misericordia: verso gli omosessuali, verso i perseguitati, verso i detenuti, verso i poveri delle favelas. Anche così si spiega il suo stile, la scelta di passare in mezzo alla folla, a rischio di scompaginare il cerimoniale e di compromettere la propria sicurezza personale. È accaduto fin dai primi giorni del pontificato, con la passeggiata tra la gente fuori della chiesa di Sant'Anna dopo la messa. È accaduto a Rio, e accadrà ancora. Si pensi anche alla sedia vuota al concerto, con i politici in seconda fila per la photo-opportunity rimasti a bocca asciutta: «Non sono un principe rinascimentale, ho da lavorare». E anche la decisione di rinunciare all'appartamento papale, o di portarsi la borsa di persona. Non è populismo; è vicinanza al popolo. Così si torna davanti alla Madonna di Aparecida: «Tu, o Madre, non hai esitato; e io non posso esitare».

Corriere 29.9.13
La seconda rivoluzione del Papa Bagnasco pronto a dimettersi
Dopo il partito italiano della Curia, la riforma tocca la Cei
di Massimo Franco


Il vertice della Conferenza episcopale italiana (Cei) avrebbe rimesso il proprio mandato nelle mani di papa Francesco. Il cardinale Angelo Bagnasco e i tre vicepresidenti sarebbero pronti alle dimissioni. È il primo effetto della «fase due» della rivoluzione di Francesco, che finora si è concentrata sulla Curia, e la conferma che la crisi della Chiesa cattolica non riguarda soltanto un ambito e una nomenclatura, ma l'intero «partito italiano» ecclesiastico. L'attenzione e gli appelli insistiti del Pontefice, sullo sfondo della riforma e degli scandali dello Ior, avevano velato questo versante.
I riflettori avevano seguito soprattutto la sostituzione al rallentatore del Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, con monsignor Pietro Parolin, e le implicazioni di questo cambio al vertice.
Ma negli ultimi giorni ha cominciato a prendere corpo anche il problema della Conferenza episcopale italiana. Agli occhi del Conclave che ha eletto il 13 marzo scorso Jorge Mario Bergoglio, la crisi che ha portato alle dimissioni di Benedetto XVI è nata da conflitti «romani» nei quali le responsabilità si sono mescolate e confuse. La conseguenza sarà quella di riscrivere la geografia e le coordinate del potere ecclesiastico in Italia. Per gli episcopati mondiali, il ruolo controverso di Bertone non ha evitato di mettere in discussione anche il vertice della Cei, con il quale il «primo ministro» si era scontrato a lungo. Il loro sordo conflitto ha finito per appannare l'intero «partito italiano», approdato al Conclave tanto numeroso quanto diviso e guardato con ostilità. Francesco ha ribadito che i rapporti con la politica italiana spettano alla Cei, chiudendo una lunga e logorante disputa con la Segreteria di Stato. Ma gli ultimi giorni avrebbero confermato anche la volontà del Papa di riformare in profondità la Conferenza guidata da Bagnasco.
Nel documento approvato il 25 settembre non si trova traccia della possibilità di un passo indietro del vertice della Cei. L'unico riferimento, assai vago, è quello alla «piena e cordiale disponibilità» a fare proprie le indicazioni date da Bergoglio in alcuni colloqui avuti con Bagnasco: alcuni noti, altri rimasti segreti come quello del 21 settembre scorso. Sono state udienze non rituali, nelle quali, spiegano in Vaticano, l'agenda del capo dei vescovi italiani si è dovuta adattare a quella del Pontefice. Francesco ha fatto capire chiaramente che ha captato uno scontento diffuso; e che spetta agli stessi vescovi dire se qualcosa non va nel modo di lavorare dei vertici della Cei. Nel Consiglio finito il 25 settembre ci sarebbe stata una discussione sull'opportunità o meno di fare un riferimento esplicito all'offerta di dimissioni: sebbene il pontefice non le abbia chieste né voglia provocarle. Anzi, a chi lo incontra Francesco assicura di non avere nessuna fretta: il suo unico obiettivo è che la Chiesa italiana cambi registro e cultura.
Significa fermare un'elefantiasi che ha reso l'episcopato burocratico e autoreferenziale, malato in alcuni casi di carrierismo e incline a ostentare un'immagine di potere in contraddizione con la frugalità di Casa Santa Marta, la residenza papale in Vaticano. Uno dei pochi aspetti sui quali Bergoglio si è espresso con parole di incoraggiamento sarebbe stato il «progetto culturale» della Cei. Per vescovi che non sono riusciti ancora a entrare in sintonia con un Papa sudamericano, non più europeo e tanto meno italiano, i segnali sono inequivoci. E hanno provocato per reazione un tentativo di assecondare con assoluto zelo la volontà papale, perfino forzandola. L'idea di distribuire un questionario nel quale i vescovi debbono esprimere le proprie idee sul modo di operare della Cei e su come va eletto il presidente, è spuntata all'ultimo Consiglio tenutosi dal 23 al 25 settembre, ed è sintomatica.
Risponde alla sollecitazione papale di dare maggiore peso alle conferenze regionali; di tornare a un potere collegiale, ridurre il verticismo e l'autore- ferenzialità; e di limitare progressivamente il numero delle diocesi che si sono gonfiate in modo anomalo. Insomma, anche la Chiesa italiana che fino a una ventina di anni fa era considerata un modello, dovrà rivedere totalmente le proprie coordinate perché è parte integrante della crisi. Non si può escludere che alla fine della consultazione cambi anche il modo in cui viene scelto il presidente: non più, cioè, nominato direttamente dal Papa, ma eletto dagli altri vescovi, come avviene negli altri episcopati. In questo caso, entro il 2014 quello che oggi è un gesto privato di Bagnasco, potrebbe diventare ufficiale. D'altronde, è una fase nella quale ognuno sta cercando di misurare i propri interlocutori e di trovare un ruolo. Cardinali legati a Bertone come Gianfranco Ravasi o Giuseppe Bertello, che era additato come candidato alla Segreteria di Stato, cercano un difficile equilibrio fra i referenti del passato e il nuovo pontificato. Qualcuno, come il segretario della Cei, Mariano Crociata, resiste alle indicazioni di Francesco e dice no alla proposta di diventare cappellano militare, nel silenzio di Bagnasco.
Ancora, sotto voce ci sono cardinali che criticano Francesco per una presunta difficoltà a capire la complessità dell'Italia; e per la tendenza a favorire il protagonismo di alcuni gesuiti e a decidere le nomine senza consultarsi con nessuno. Ma sono solo effetti collaterali di una transizione inesorabile, programmata da tempo e che trova molti degli «italiani» spiazzati e tenuti all'oscuro di scelte strategiche maturate da tempo e al di fuori dei circuiti tradizionali del potere vaticano. È indicativo il dettaglio sulla scelta di Parolin, rivelato dal cardinale Oscar Rodrìguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e vicinissimo a Bergoglio. Maradiaga, che coordina la commissione chiamata a riformare la Curia, ha raccontato a monsignor Thomas Rosica, direttore della tv canadese Salt and Light, che occorrerà tempo per ridisegnare il governo. Ma ha anche raccontato che appena quattro giorni dopo la fine del Conclave, Francesco aveva già deciso di nominare Parolin al posto di Bertone come segretario di Stato. Come si sa, la notizia è stata poi ufficializzata solo il 31 agosto. Ma il particolare fornito da Maradiaga aggiunge sale sulle ferite di un «partito italiano» che aveva spedito Parolin come nunzio in Venezuela per allontanarlo dal cuore del potere vaticano.

Corriere 29.9.13
Francesco: «Il diavolo cerca la guerra in Vaticano»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «Il diavolo cerca una guerra interna, una sorta di guerra civile e spirituale». Francesco si rivolge ai gendarmi vaticani che indagarono su Vatileaks e chiede loro di difendere la Santa Sede dalla «zizzania delle chiacchiere», perché c'è «una tentazione che al diavolo piace tanto: le insidie contro l'unità di quelli che vivono e lavorano in Vaticano». Sono parole che richiamano ciò che Paolo VI disse il 29 giugno 1972: «Ho la sensazione che da qualche fessura il fumo di Satana sia entrato nel tempio di Dio». In Vaticano c'è un pertugio dal quale il diavolo stilla il suo veleno, le «chiacchiere» che, dice Francesco, devono essere una «lingua vietata». Parole che aveva già evocato a luglio, quando consacrò il piccolo Stato a San Michele Arcangelo («Gli chiediamo che ci difenda dal Maligno e lo getti fuori... Sii tu il baluardo contro ogni macchinazione che minaccia la serenità della Chiesa») e sono tanto più importanti alla vigilia di una settimana fondamentale per la sua riforma. E non è solo perché da martedì a giovedì inizierà a riunirsi la Consulta di otto cardinali da tutti i continenti per cominciare a esaminare col pontefice i progetti di riforma della Curia. Francesco ha spiegato che le prime riunioni non basteranno e comunque «la prima riforma dev'essere quella dell'atteggiamento», l'annuncio evangelico di una Chiesa che sappia «riscaldare i cuori», mentre «le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, vengono dopo» e non «a breve» perché c'è bisogno del «tempo del discernimento» per «un cambiamento vero, efficace». Decisivo, piuttosto, sarà il viaggio di venerdì ad Assisi del primo Papa che ha scelto il nome di Francesco, il discorso del primo successore di Pietro che entrerà nella «Stanza della spoliazione» dove il santo si spogliò di vesti e ricchezze. Il senso della Chiesa povera di Bergoglio è quello che San Francesco scrisse nel testamento: «Vivere secondo la forma del santo Vangelo».

l’Unità 29.9.13
La sinistra ritrovi l’anima
di Mario Tronti


Adesso il passaggio si fa stretto. La più fervida fantasia non avrebbe immaginato questo esito catastrofico della cosiddetta seconda Repubblica. Era nata sulla retorica del «nuovo è bello» e muore nelle convulsioni delle più antiche pratiche eversive.
Perché di questo si tratta: un sovversivismo che, attraverso una strategia di allargamento del conflitto, va all’attacco non più del solo potere giudiziario, ma del potere esecutivo e di quello legislativo, governo e Parlamento. E non risparmia la figura di garanzia del Capo dello Stato. «Inquietante», si è detto, autorevolmente.
Questo senso di inquietudine, politica, sulla sorte delle istituzioni, va in questo particolare momento trasmesso al Paese intero, va calato nell’opinione del cittadino comune, depositato nella coscienza popolare. Ecco il compito del partito, che qui, in questi casi, ritrova la sua funzione di raccordo tra società e Stato. Funzione indispensabile e insostituibile, se si vuole riconsegnare dignità all’agire
pubblico. Va rivendicata con orgoglio, e sottolineata con forza, la differenza di qualità tra centrosinistra e centrodestra, nella situazione presente. Va segnato con nettezza il confine tra responsabilità e avventurismo, perché tutti possano vedere. E non per liquidare subito, domani, un accordo di governo. Ma per intervenire con l’iniziativa sul campo avverso, perché esplodano le sue contraddizioni interne. È vero che c’è lì dentro una «minoranza silenziosa», come sottolineava ieri Massimo Franco sul Corriere. Tutti sanno, lo sanno i firmatari dei prestampati, lo sa il plurimputato in attesa di ulteriori condanne definitive, che il destino del personaggio è segnato. La rabbiosa reazione di questi giorni nasce da questa consapevolezza. Il campo della sinistra deve mostrare misura e determinatezza. Niente cedimenti ma anche nessuna ordalìa, nessun giudizio di Dio. Le sentenze si rispettano, ma anche la persona, qualunque persona, nel dramma che vive in quel determinato momento della sua vita, va rispettata. La morte in esilio di Craxi, un personaggio divenuto un duro avversario, che tutti abbiamo giustamente contrastato, non è un buon ricordo repubblicano. Il presidente Napolitano ha richiamato molto questa categoria del rispetto, rievocando una figura di intellettuale coinvolto in politica, come quella di Luigi Spaventa. L’ha legata alla rivendicazione di un confronto politico civile. Mi ha colpito la commozione del presidente, quando richiamava altri tempi in cui questa civiltà del confronto non era mai venuta meno, pur in mezzo a contrapposizioni che, misurate con quelle di oggi, apparivano ed erano persino più severe e profonde. Nella maledetta prima Repubblica novecentesca, questa era la norma condivisa, e mai veniva superato il limite della rispettosa reciproca considerazione tra le grandi forze politiche e soprattutto nei confronti del comune terreno istituzionale.
Questo discorso mi permette di avanzare una raccomandazione. Approfittiamo di questo passaggio stretto per allargare lo sguardo. Se sarà dato tempo e in queste ore francamente non lo sappiamo a un dibattito congressuale disteso in un tempo sia pur breve, e sulle idee più che sulle persone, andrebbe avviata una seria, argomentata, approfondita riflessione sulle premesse storico-politiche che hanno portato a questo esito minaccioso e destabilizzante. È urgente una rivisitazione del ventennio berlusconiano, a partire però dalle cause vere che lo hanno reso possibile: dal dopo ’89 ai primi anni Novanta, dalle scelte della sinistra di allora, e del cattolicesimo democratico di allora, dalla dissoluzione dei grandi partiti, dalla involuzione istituzionale, che nell’illusione di una semplificazione dei canali del consenso attraverso l’elezione diretta di tutto quello che c’era da eleggere, ha provocato quella crisi di rappresentanza della società da
parte della politica, che sta davanti a noi come uno spazio vuoto da riempire con intelligenti riforme dello Stato e dei partiti.
E qui bisogna essere chiari. Non si può ridurre la complessità della domanda sociale, in una società frantumata comprendente una molteplicità selvaggia di figure di lavoro e di figure di impresa, di condizioni di vita bipolarizzate tra privilegio e miseria, di sensibilità umane cresciute nell’acculturazione di massa, di bisogni negati e diritti sovraeccitati, non si può rappresentare questo multiverso di nuovo popolo nella semplificazione di un nome sulla scheda, di una faccia sui manifesti, di una personalizzazione sul messaggio. Non basta quanto abbiamo visto in questo ventennio, non è sufficiente lo sfascio che si è procurato con questo sistema? Provaci ancora, Sam, magari da quest’altra parte? No, ci vuole un soggetto politico, che aderisca con la sua struttura organizzata a tutte le articolazioni di questo corpo sociale complesso, tanto più dentro una crisi che lo ha fatto emergere a coscienza, coscienza ancora confusa, elettoralmente ondivaga, perché non più orientata, non più diretta, non più appunto politicamente rappresentata. La sinistra non soffre per difetto di consenso, soffre per difetto di classi dirigenti, non perché non sa comunicare, ma perché non ha niente da dire, perché è stata svelta a buttar via le idee del passato e altrettanto svelta ad andare a prendere le idee del presente dal vocabolario dell’avversario di classe. E la parte di società che si riconosceva in essa non l’ha più riconosciuta. Farsi riconoscere autorità dalla propria parte è la condizione per meritare il rispetto della parte opposta, conquistando così pezzi del suo consenso. Una nuova generazione vuole cimentarsi in questo esercizio di alta politica? Ottimo. Vigileremo.
P.S. Accade qualcosa di simile, sempre, quando non si tiene in pugno la prospettiva, si lasciano andare le cose, si segue la corrente, quando si crede, e si fa credere, che il buono viene dal senso comune e il cattivo dal buon senso.

Tronti (sic!) - il capocordata dei reggicoda del Vaticano - il 19 scorso su l'Unità:
«L’agire politico, trasformativo, non può ora che pensarsi e praticarsi in sintonia, in alleanza, con forme, libere, di sensibilità religiosa»
«L’oltre della sinistra è l’oltre di questo mondo. Questo linguaggio evocativo va riempito di contenuti, cioè di scelte, decisioni, atteggiamenti, programmi, che parlino all’esistenza quotidiana delle persone semplici. Semplici è il nome politico, tradizionale, e proprio per questo oggi innovativo, per dire il concetto cristiano degli ultimi.»
l’Unità 19.9.13
Bisogno di sinistra. E di andare oltre
Il capitolo inedito del libro di Tronti «Per la critica del presente»
di Mario Tronti

su spogli

il Fatto 29.9.13
I troppi servi della vergogna
di Antonio Padellaro


Una tale insopportabile vergogna non ha precedenti. Nelle democrazie occidentali ma neppure, a quanto si sa, nei Paesi del Terzo mondo o nei più sperduti Staterelli africani non si è mai visto un condannato per reati gravissimi disporre a suo piacimento di 97 deputati, 91 senatori e cinque ministri imponendo loro le dimissioni del Parlamento e dal governo come si fa con la servitù, anzi peggio visto che i domestici hanno diritto almeno a un preavviso. A parte i tardivi borbottii di qualche Cicchitto e Quagliariello (e il dissenso di Marina B. forse al corrente del fragile equilibrio psichico del padre), i camerieri del pregiudicato hanno prontamente ubbidito, alcuni per la sottomissione scambiata con una poltrona, altri per pura cupidigia di servilismo. È questo il vero cancro che sta divorando la democrazia italiana condizionata da un personaggio che pur di estorcere un qualcosa che possa salvarlo dalla giusta detenzione e dalla giusta decadenza da senatore non esita a mandare a picco il Paese che domani potrebbe essere investito da una nuova tempesta finanziaria. E tutto con la risibile scusa elettorale della contrarietà all’aumento dell’Iva. Come ha potuto Napolitano mettere il governo nella mani di un simile individuo? Come hanno potuto Letta e il Pd accettarlo come alleato?

il Fatto 29.9.13
I sette giorni di follia prima del disastro
di Furio Colombo


La settimana finisce così: i ministri di Berlusconi si dimettono su ordine e per le ragioni di un condannato in via definitiva per grossa frode fiscale. Una condanna che non può essere cambiata trasforma il legame politico con il leader in favoreggiamento con chi ha commesso il reato. È incredibile che chi ha messo insieme questo infelice governo, comunque soggetto al giudice di sorveglianza, non abbia previsto un simile disastroso esito. Ma tutto cio è pieno di sintomi e di segnali nella settimana che si è appena conclusa. Ce lo dicono una serie di eventi insensati. Provo a elencarli.
IL PRESIDENTE del Consiglio va a New York, in apparenza per l’Assemblea generale dell’Onu, ma con il vero scopo di un “roadshow” per “vendere” l’Italia. Tradotto, significa incontrare analisti finanziari (non gli imprenditori, come dicono i sottomessi Tg) e non segue rinfresco, segue dibattito. Qui il progetto si fa nebbioso. Sicuro che era il momento giusto per farlo? Intanto il suo vice Alfano, “con cui Letta - dicono con linguaggio di regime i Tg - è in costante contatto”, va in Val di Susa e dice ai disperati valligiani, ai disperati lavoratori, ai disperati poliziotti del più costoso e inutile cantiere del mondo: “Nessuno ci fermerà”. Nelle stesse ore la Commissione europea annuncia che la produttività in Italia è a picco, che sta avvenendo una rapida deindustrializzazione, che c’è una forte perdita di competitività in termini di costo del lavoro. La denuncia del costo del lavoro italiano appare un po’ azzardata, nella terra afflitta dai più bassi salari d’Europa. Ma in casa non c’è nessuno a rispondere. E poiché non c’è nessuno, c’è chi compra alla svelta Telecom e chi offre a prezzi d’affezione l’Alitalia. Alla fine accade un fatto che sembra sconnesso e sembra folle ma non lo è, anzi è logico. Deputati e senatori del Pdl (gruppo di incerta identità politica, detto anche Forza Italia) si sono improvvisamente riuniti in una sera di cattivo umore, e hanno gridato insieme la loro decisione. Se va via Berlusconi (che deve andar via dal Senato, per legge, dopo la condanna definitiva per una grossa frode fiscale), si dimettono tutti dal Parlamento a causa della loro indignazione democratica. L’avevo detto, una settimana folle. Ma cominciamo dalle vendite di Telecom e Alitalia. Sono vendite che, a quanto pare, non rispecchiano interessi delle imprese, che stanno per essere date via sottocosto. Ma vanno bene per gli azionisti che stanno vendendo: facile acquisto (a suo tempo), niente rischio, buon profitto e liberi tutti. Tutto avviene all’interno di un suk protetto, dove le trattative riguardano gente intenta a scambiarsi liberamente informazioni non disponibili per gli operatori normali. Il suk include governi, politici, autorità che dovrebbero vigilare, interi partiti e investitori che, a guardar bene, sono quasi solo dei prestanome. Inevitabile dire che questa vendita o svendita non riguarda in alcun modo il Paese Italia. Mettetevi nei panni di questa gente: quale Paese? Meglio non fingere un curioso neo - patriottismo esercitato sul vuoto. Infatti qui, nella patria espropriata e abbandonata, non c’è niente, tranne una bandiera al Quirinale, un inno nazionale che Radio Uno trasmette a mezzanotte ogni notte, e un governo guardiaporte che, fino ad ora, e prima della rivolta, è stato comprensivo e cortese nei limiti della sua funzione che è (lo dicono tutti) la stabilità. E proprio mentre è stabile, e Letta è in giro per il mondo a vantare quest’unico pregio, tutti i Pdl e Forza Italia che compongono, con il Pd, la maggioranza alle Camere, tutti i deputati, senatori, ministri, vice e sottosegretari, prendono la rincorsa e abbattono la vetrata. Avete ragione. Non l’abbattono, la fanno tremare con un grido possente di solidarietà estrema al loro condannato. Che cosa non si fa pur di recare grave danno al Paese. Tutti si dichiarano fieri di stare col condannato. Se ne va di colpo la stabilità, il famoso valore aggiunto. Oltre all’equilibrio mentale italiano. Possiamo, volendo, esercitarci a riflettere sul come siamo arrivati a questo punto. Ci sono due protagonisti: c’è la sinistra, triste, isolata, trascurata dai media, tormentata da una irreversibile solitudine, perché ha abbandonato e respinto il lavoro, che credeva nella sinistra, e abbracciato un presunto capitalismo monopolistico che non la vuole. E c’è un vasto aggregato populista del tutto estraneo alla storia e alla legge, che guida a curarsi solo dei fatti propri. Il progetto politico è di trarre tutto il profitto o vantaggio possibile e di non farsi trovare sul posto al momento del crollo.
ATTENZIONE, l’aggregato populista di cui stiamo parlando non ha mai veramente mentito. Non ha mai parlato di Italia, ma di interessi privati. La promessa: non una buona Italia, che non interessa nessuno. Ma una buona vita per gli addetti ai lavori, con la ragionevole possibilità di allontanarsi per tempo, con adeguate risorse, dopo il saccheggio. Bisognerà prendere atto di tre fatti unicamente italiani: gli imprenditori rubano le fabbriche, ovvero le abbandonano come farebbero in un remoto terzo mondo, impedendo agli operai di tornare a produrre. E mentre uomini e donne spossessati gridano “lavoro! ” per le strade, l’Europa ti dice che i costi del lavoro sono troppo alti nel Paese che paga i salari più bassi in Europa. Comuni e Regioni, intanto, tagliano tutto, dagli ospedali alla cultura, ai rifiuti, senza piani o spiegazioni, rispondendo alla cieca a decisioni prese alla cieca dal governo, che a sua volta obbedisce a ordini estranei, come eliminare all’improvviso l’Imu. Il governo è stato, finora, un ente fisso, una presenza estranea circondata da una grande solitudine. Fino a quando esplode una clamorosa dimostrazione di identità con un condannato in via definitiva per fatti gravi, fingendo di scambiare la complicità per la democrazia e il bene del Paese con il favoreggiamento. Se almeno l’Europa prestasse più attenzione, forse chiederebbe altre cose all’Italia. O manderebbe una polizia internazionale.

Repubblica 29.9.13
L’amaca
di Michele Serra


Non si cede a un ricattatore. Nella confusione e nell’ansia più totali, forse uno straccio di principio, di idea dignitosa, di sentimento della decenza, di amor proprio repubblicano possono aiutare a ritrovare la bussola. Non si cede a un ricattatore che, in rappresentanza di una minoranza di cittadini (il Pdl è stato votato da un italiano su sei, non lo si ripete mai abbastanza), pretende di sottrarsi alla legge, piegare il Quirinale a concessioni umilianti, tenere per il collo il governo, e ripete il suo rosario di bugie con foga direttamente proporzionale alla debolezza e allo sfinimento dei suoi avversari. Non si sa quali nuovi espedienti e quali ulteriori stravaganze politiche (anche se è difficile escogitare cose più stravaganti delle “larghe intese”) verranno messe in campo dai cultori della “governabilità” a qualunque costo, un mito così fragile da franare, come si vede, su se stesso. Si sa, in compenso, quale prezzo è stato pagato, in tutti questi anni, dal terrore del libero conflitto politico, e in specie dal terrore delle elezioni. La sinistra ha giocato troppo spesso la parte di chi aveva paura del voto, e pur di evitarlo si affidava a qualunque alchimia istituzionale. Il solo vantaggio della presente situazione è che questo genere discappatoie, e di indugi imbelli, non è più possibile.

Corriere 29.9.13
Così Ghedini lo ha convinto
Ad Arcore il vertice a sorpresa con i falchi Ghedini al Cavaliere: farai la fine di Silvio Pellico
di Francesco Verderami


ROMA — È il blitzkrieg , è uno contro tutti, ed è una guerra che non contempla prigionieri. Si vedrà se quella di Berlusconi è stata davvero la mossa della disperazione, «un suicidio» come dicono nel suo stesso partito, o una scelta meditata, coltivata da tempo, e messa in atto dopo aver colto «l’opportunità» che il premier a suo modo di vedere gli ha offerto, bloccando il provvedimento sull’Iva. Di certo la decisione del Cavaliere di far saltare il banco e di ritirare la delegazione del Pdl dal governo è una scommessa giocata sul ritorno immediato alle urne. È una manovra che rischia di avere effetti devastanti non solo sui destini del Paese ma anche del suo stesso movimento. Quale sia l’arma segreta non si sa, anche perché stavolta l’uomo che per venti anni è stato il leader incontrastato del centrodestra non potrà guidare il suo esercito sul campo di battaglia elettorale. Eppure Berlusconi decide di avviare il conflitto, e questa è la storia del giorno più lungo della Seconda Repubblica.
Ore 10
Nella villa di Arcore il Cavaliere riceve alcuni dirigenti Mediaset. Nella sua residenza si trovano già la figlia Marina e Bondi, con loro discute della situazione politica. L’informativa notturna di Alfano sul Consiglio dei ministri e la lettura dei giornali gli hanno confermato ciò che già sapeva: il premier e il capo dello Stato «vogliono mettermi spalle al muro» dopo l’offensiva delle dimissioni in massa dei suoi parlamentari. Il giorno prima, al vertice del Pdl, aveva letto una sua considerazione con la quale spiegava di non avere alcuna intenzione di aprire la crisi di governo. L’accelerazione di palazzo Chigi e la richiesta di un chiarimento davanti alle Camere lo pongono dinnanzi a un bivio: votare la fiducia, senza però avere più alcun potere contrattuale, né sul versante politico né su quello giudiziario, oppure cercare attraverso un’operazione bizantina di attaccare l’esecutivo, con i suoi ministri seduti al banco del governo. «I miei elettori non capirebbero». Squilla il telefono, in linea c’è Cicchitto. «Silvio, devi fare attenzione. Rischi di apparire come il nemico del popolo». Berlusconi ripete di non volere la crisi e chiede al dirigente del suo partito di preparargli una nota, deciderà poi se farla propria con un comunicato o di trasformarla in un videomessaggio. A Roma intanto vanno avanti le trattative tra Pd e Pdl per scongiurare la rottura. L’attivismo è frenetico, Brunetta si consulta con rappresentanti del governo e con gli «alleati», e c’è ottimismo su una soluzione positiva.
Ore 12
Ad Arcore arrivano Verdini e Santanchè, formalmente per discutere della manifestazione da indire per il 4 ottobre in concomitanza con il voto della Giunta di palazzo Madama sulla decadenza del Cavaliere. Il coordinatore del Pdl ha un conto aperto con Berlusconi, perché convinto che non ci sia altra strada della crisi. Come lui la responsabile dell’organizzazione, che il giorno prima aveva tribolato sapendo dell’esito del vertice a cui non aveva preso parte. I falchi tornano a premere sul leader, comprendendo di trovare terreno fertile alle loro argomentazioni. Ma serve un innesco per dar fuoco alle polveri, ed è l’avvocato-deputato Ghedini a farlo. Ostile al governo Letta fin dalla sua nascita («sarà la tua rovina, Silvio»), torna a insistere sulla necessità di rompere gli indugi, usa per grimaldello la situazione giudiziaria del Cavaliere, ritorna sull’inconsistente aiuto giunto dal Quirinale ai suoi guai, e gli prospetta «nel giro di venti giorni» un finale drammatico: «Farai la fine di Silvio Pellico». Quella parole incendiano il Cavaliere, la brace torna a farsi fiamma, ed è allora che viene messo a punto il blitzkrieg . Le linee nemiche hanno lasciato un varco in cui infilarsi: la decisione di non varare il decreto economico e di lasciar partire l’aumento dell’Iva era stato un modo per Enrico Letta di vendicarsi con il Pdl dell’«umiliazione» subita con l’annuncio delle dimissioni in massa proprio mentre si trovava all’Onu. «Lui umiliato?», tuona Berlusconi: «Io fui umiliato nel ‘94, quando mi mandarono l’avviso di garanzia mentre presiedevo il vertice di Napoli». Per il leader del centrodestra è giunto il momento di preparare la dichiarazione di guerra: «Chiamatemi Capezzone». La missione è ancora top secret. Persino Confalonieri e Gianni Letta sono ignari di quanto sta accadendo, e come loro anche il segretario del Pdl non sa nulla.
Ore 16
Alfano — che si trova nella sua abitazione a Roma — riceve una chiamata che lo gela per i contenuti e per i modi. «Apriamo la crisi, Angelino. Ho da leggerti il comunicato che voi ministri dovrete fare vostro». Ma non c’è Berlusconi all’altro capo del telefono, bensì Ghedini, a cui il Cavaliere ha affidato il compito di avvisarlo. È chiaro il messaggio del leader verso il vicepremier, che ascolta la lettura della nota redatta dall’ex segretario radicale: un documento violentissimo nei riguardi del presidente del Consiglio, che evoca — come nella migliore tradizione stalinista — una implicita richiesta di autoaccusa della compagine ministeriale del Pdl. Alfano, stordito e addolorato, respinge il comunicato e non solo perché «ho lavorato fino ad oggi con Enrico nel governo», ma anche perché non intende politicamente suicidarsi. Si apre una trattativa che dura più di un’ora, e tocca a Bondi la stesura di una nuova bozza, quella definitiva.
Ore 18
Berlusconi dirama la dichiarazione di guerra. A stretto giro i suoi ministri si dimettono. Per Alfano c’è solo il tempo di preavvisare il premier, che trasecola: «Ma se stavamo cercando un compromesso...». Anche Napolitano viene avvisato prima che il comunicato sia reso pubblico e non capisce, visto che solo cinque minuti prima Brunetta lo aveva informato che la trattativa era a buon punto. «Non c’è razionalità in questa vicenda», commenta il capo dello Stato: «Se alla dimensione politica si privilegia la dimensione umana, non si può costruire più nulla. Sono dispiaciuto, anche per Berlusconi, ma tutto ciò con la politica non c’entra nulla». Nel frattempo Alfano si mette alla ricerca degli altri ministri. Si trovano subito la De Girolamo e la Lorenzin, che sta passeggiando in riva al mare. Quagliariello è in attesa della partita del Napoli e resta di sale: «Sono pronto a dimettermi ma non sono d’accordo. Perché questo gesto non serve né al Paese né al centrodestra né a Berlusconi. Così ci mettiamo contro quel mondo che vogliamo rappresentare». Resta da trovare Lupi, e si fatica. Il titolare dello Sviluppo economico è a messa con Carron, il leader spirituale di Cl. La scorta gli porta il cellulare in chiesa. «Maurizio ti devi dimettere», e in sottofondo sale il canto dell’Alleluja. «Maurizio, Berlusconi ha aperto la crisi», e dalla cornetta si sente il sacerdote che invita i fedeli a scambiarsi il segno della pace.
La pace non c’è più nel Pdl, che ribolle come una tonnara. Il rischio di una spaccatura è elevato e — chissà — forse messo nel conto dallo stesso Berlusconi, che un anno fa coltivò l’idea dello spacchettamento del partito. «Un partito in mano ai falchi non è il nostro partito», attacca infatti uno dei ministri, che si appresta a chiedere una «verifica interna». Ma a chi, al Cavaliere? Sembra la vigilia dell’otto settembre. Mentre a Milano Verdini e Santanchè festeggiano, a Roma la compagine di governo appena dimessasi va a casa di Alfano, che intanto ha avuto modo di sentire — brevemente — il «dottore». L’ormai ex vice premier, verso cui i suoi stessi amici muovono critiche per non aver vigilato abbastanza sul partito, si trova ora tra Scilla e Cariddi: tra Berlusconi, che comunque continua a volere accanto a sé «Angelino», e le sirene centriste che confidano cambi rotta. La guerra lampo è iniziata, lascerà molti cadaveri sul campo.

Corriere 29.9.13
Bondi: così è nata la svolta
Nessun suicidio, non finiremo come Dc e Psi
intervista di Fabrizio Roncone


«Va bene, le racconto tutto».
(Ore 21,30: pur non rinunciando alla sua proverbiale cortesia, vi accorgerete di come il senatore Sandro Bondi intenda essere affilato, ruvido, definitivo ).
«A Villa San Martino sono arrivati per primi Verdini e la Santanché. Dovevano parlare con Berlusconi della manifestazione del prossimo 4 ottobre. Palco, slogan, manifesti. Alla riunione decisiva, però, non hanno partecipato. A quella eravamo presenti il sottoscritto, Ghedini, il Presidente e sua figlia Marina».
Berlusconi ha...
«Berlusconi aveva già deciso durante la notte. Era stato ragguagliato da Alfano sull’esito del Consiglio dei ministri. Con l’ultimatum di Letta, i suoi toni ricattatori, la decisione di congelare i provvedimenti economici, il tentativo di incolparci del conseguente aumento dell’Iva. Tutto intollerabile».
Ci sarebbe stato un primo documento inviato ai ministri e scritto da Ghedini, che però Alfano avrebbe rifiutato. Così è dovuto intervenire lei...
«Il Presidente aveva, già all’alba, buttato giù, a penna, alcune note... Su quelle abbiamo lavorato».
Risulta che qualche ministro sia rimasto perplesso, dubbioso. Più di tutti, Gaetano Quagliariello.
«Quagliariello si è dimesso come tutti gli altri ministri. Ciò significa che sulle questioni di fondo non ci sono posizioni inconciliabili...».
In realtà Fabrizio Cicchitto è assai irritato per la decisione che avete preso. Sostiene dovesse essere discussa dai vari organismi del partito.
«Mah... Berlusconi ha sempre consultato tutti, compreso Cicchitto».
Secondo alcuni osservatori, il Pdl rischia una deflagrazione, di cui però nessuno è in grado di immaginare le proporzioni.
«Ma no... no... anche se sono mesi che raccontate di “falchi” e “colombe”, la verità è che qui c’è in ballo la nostra storia. Sa cosa ha detto l’altra sera a cena Alfano? Ha detto che sì, certo, le cose che facciamo sono cose forti, ma noi le facciamo perché vogliamo bene a Berlusconi. Mi creda, davvero: questa è una vicenda dove la politica si intreccia con la riconoscenza, l’affetto con la condivisone di valori».
Qualcuno potrebbe sintetizzare: tragico obbligo di fedeltà al capo.
«E quel qualcuno sbaglia... Come lei sa, io sono stato comunista: ebbene, posso assicurarle che è come se Enrico Berlinguer fosse stato perseguitato dai giudici. Come avrebbero reagito milioni di comunisti?».
Mi permetta di dirle, senatore, che il paragone è inaccettabile.
«Inaccettabile, forse, per chi non conosce la nostra storia. Comunque, una cosa a questo punto è certa: non faremo la fine della Dc e del Psi. No, proprio no. Il Pdl non si suiciderà».
Enrico Letta ha definito la vostra decisione «folle».
«Letta è una grande delusione. È un politico modesto che, pur sapendo di essere diventato premier soltanto grazie all’autorizzazione di Berlusconi, ha per lui avuto solo parole sprezzanti».
Letta sembra comunque intenzionato a chiedere la fiducia al governo martedì prossimo.
«Benissimo. Prima chiariamo tutto, meglio è».

Corriere 29.9.13
Nel Pdl colombe pronte alla battaglia.
E il partito ora rischia la scissione
Cicchitto: una decisione così grave andava presa dai gruppi parlamentari
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — «È un colpo di mano di una banda di irresponsabili», sibila un esponente di primo piano del Pdl, colto di sorpresa dalla decisione di aprire la crisi di governo annunciata da Silvio Berlusconi dopo un pranzo tenuto ad Arcore tra lo stesso ex premier, Denis Verdini, Sandro Bondi, Niccolò Ghedini e Daniela Santanché. Non ce l’ha con il Cavaliere che si trova in una condizione particolare, il notabile ce l’ha con coloro che lo hanno spinto a compiere un passo che, teme, possa ritorcersi proprio contro il leader del centrodestra.
Le dimissioni dei cinque ministri hanno aperto una falla che difficilmente sarà richiusa nella nave del Pdl, perché per la prima volta il partito fondato e guidato dal Cavaliere rischia di esplodere. Sta, infatti, montando a tutti i livelli, in periferia come al centro, un movimento di insofferenza nei confronti dei cosiddetti falchi che, confessa un altro notabile ora messo in disparte, «sono minoranza nel partito ma hanno le leve del comando e le usano».
Che cosa questo possa provocare non è ancora chiaro. Al momento non si può prevedere, per esempio, se senatori e deputati appartenenti a questa corrente finiranno per votare la fiducia a Letta, quando il premier si presenterà in Aula per ottenere il chiarimento dopo la minaccia di dimissioni in massa da parte dei parlamentari.
Certo è che in parecchi, così si sente dire, sarebbero pronti a ritirare la lettera di dimissioni consegnata ai rispettivi capigruppo, a seguire cioè l’esempio di Alberto Giorgetti che lo ha già fatto, chiedendo un chiarimento ad Angelino Alfano.
Se ci sarà una deflagrazione del Pdl, come alcuni del Pd sono convinti possa succedere, è prematuro affermarlo. Quel che è evidente è che si è aperto un dibattito molto aspro. Ed è un evento del tutto inedito perché, per la prima volta, uno come Fabrizio Cicchitto sente il bisogno di criticare platealmente le modalità con cui si è arrivati a fare dimettere i cinque ministri. «Sarebbe stata necessaria una discussione approfondita negli organismi dirigenti e nei gruppi parlamentari», afferma l’ex capogruppo alla Camera ora presidente della commissione Esteri a Montecitorio. La sua messa a punto muove dalla considerazione che la scelta di Alfano, De Girolamo, Lorenzin, Lupi, Quagliariello è espressione di «una condotta cristallina scevra da ogni preoccupazione di potere, che ribadisce una netta distinzione dalla sinistra che anche in questa occasione si è assunta gravissime responsabilità, così come ho apprezzato la loro azione di governo». Tuttavia, ed è questo il passaggio di grande novità perché mai prima nessuno tra i dirigenti del Pdl si era permesso di sindacare le risoluzioni del Cavaliere. «Ritengo — afferma Cicchitto — che una decisione di così rilevante spessore politico avrebbe dovuto essere presa dall’Ufficio di presidenza del Pdl e dai gruppi parlamentari il cui ruolo in questa difficile situazione politica andrebbe esaltato». Cicchitto teme, tra l’altro,che un mancato coinvolgimento di deputati e senatori, potrebbe accentuare le tensioni già esistenti e favorire le defezioni.
Questa analisi, però, non convince affatto un ex ministro che, con la garanzia dell’anonimato, offre una diversa chiave di lettura. «Parliamoci chiaro — afferma con tono risentito — Cicchitto difende Alfano. Se Angelino, che è il segretario del partito è bene ricordarlo, avesse avuto gli attributi non avrebbe fatto la nota che ha fatto. Avrebbe chiesto a Berlusconi la convocazione degli organismi dirigenti, non avrebbe tollerato di fare il portavoce di decisioni che gli sono state comunicate a cose fatte senza essere stato minimamente coinvolto». Non solo. Avere lasciato la guida del partito, fa notare ancora l’ex ministro, ha consentito a gente come Verdini e Santanché di guadagnare, giorno dopo giorno, sempre più spazio.
La crisi svela tensioni che fino a questo momento sono state celate da un velo di riservatezza. Ora si manifesta apertamente l’irritazione delle cosiddette colombe. Sergio Pizzolante appartiene a questo gruppo e dà sfogo a questo stato d’animo. Basta con gli attacchi, sostiene il capogruppo pidiellino in Commissione Lavoro a Montecitorio, «a quanti hanno costruito nel Pdl una linea di responsabilità e buonsenso. Un lavoro teso a contrastare il rischio, mortale di isolamento del Pdl e di Berlusconi e a rafforzare la possibilità di dare al Paese un governo capace di affrontare una crisi gravissima». Il suo bersaglio sono Daniela Santanché e Giancarlo Galan, accusati di essere degli «irresponsabili perché vogliono andare subito alle elezioni». Io non ci sto, grida Pizzolante, «sono pronto a morire per Berlusconi e per questo ho firmato le mie dimissioni, come sono già morto una volta per Craxi, ma non ho nulla a che fare con la Santanché e con i figli di una cultura politica minoritaria e massimalista che rischia di distruggere la grande opera politica di Berlusconi: unire laici e cattolici, liberali e riformisti».

Repubblica 29.9.13
Due Caimani e due bande di camerieri
di Eugenio Scalfari


IL CAIMANO. Debbo dire che Moretti aveva capito prima e meglio di tutti chi fosse il personaggio Silvio Berlusconi. E lo capì altrettanto bene Roberto Benigni scrivendo su di lui una ballata citata ieri sul nostro giornale da Gianluigi Pellegrino: “Io compro tutto dall’A alla Z / ma quanto costa questo c... di pianeta. / Lo compro io. Lo voglio adesso. / Poi compro Dio, sarebbe a dir compro me stesso».
Quanto a me, poiché siamo in tema di ricordi, in un articolo del 1992 scrissi e titolai: “Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa”. E poi D’Avanzo e la “dismisura” del Capo e proprietario di Forza Italia denunciata da Ezio Mauro come una sorta di lebbra che infetta e uccide la nostra democrazia.
Per dire chi è il Caimano la vena satirica e il giornalismo vedono talvolta più lontano della politica. La magistratura che ha il potere di controllo sulla legalità, è più lenta ma poi, quando arriva all’accertamento della verità, le sue sentenze definitive non consentono salvacondotti di sorta, il Caimano e il Mackie Messer di turno finiscono, come è giusto, in galera. Salvo difendersi con l’eversione.
Le dimissioni di tutti i deputati e i senatori del Pdl, chieste ed anzi imposte da Berlusconi e raccolte dai capigruppo Brunetta e Schifani, sono eversione vera e propria e così l’ha definita il presidente della Repubblica.
Non sono in nessun caso paragonabili all’Aventino messo in atto novant’anni fa dai deputati antifascisti. Loro avevano quella sola risposta possibile contro il regime dittatoriale che aveva calpestato e distrutto la democrazia; questi di oggi hanno la democrazia nel mirino e sperano che con questa trovata possano travolgere lo Stato di diritto che è la base sulla quale la democrazia si fonda.
Questo è l’obiettivo principale che il Caimano e i suoi sudditi ci propongono. Un obiettivo però difficilmente raggiungibile per due ragioni. La prima è procedurale: le assemblee parlamentari non possono funzionare se per qualche ragione viene a mancare non occasionalmente main permanenza il numero legale. Ma le dimissioni dei parlamentari del Pdl non incidono sul numero legale. Alla Camera il Pd da solo ha la maggioranza assoluta; in Senato la maggioranza è di 161 membri mentre i senatori del Pdl, della Lega e degli altri loro alleati raggiungono i 117. Quindi il Parlamento può continuare a funzionare.
Ma c’è un secondo elemento non procedurale ma politico: una parte dei sudditi forse non è più disposta a sopportare la sudditanza quando essa sconfina nell’eversione. Qualche segnale in questo senso c’è. Forse si aprirà qualche faglia nel Pdl che potrebbe innescare una vera e propria implosione. Si tratta di problemi di coscienza e di coraggio. Non ci metterei la mano sul fuoco per affermare che avverranno ma certo il tempo per verificarlo è molto breve.
L’altro bersaglio del Caimano è quello di abbattere il governo Letta o – peggio – di lasciarlo in vita paralizzato e logoro ogni giorno di più come già è stato tentato con qualche successo nei mesi scorsi e come si è platealmente verificato nella seduta del Consiglio dei ministri di venerdì, portimotando Letta alla conclusione di spezzare questo circuito nefasto e presentarsi alle Camere chiedendo la fiducia su un programma concreto e vincolante per tutti i parlamentari di buona volontà, quale che ne sia il colore e la provenienza.
Il Capo dello Stato è d’accordo su questo percorso, ricordando che i primi adempimenti con tempistica obbligatoria debbono essere la riforma elettorale che modifichi il “porcellum” in modo adeguato abolendo i suoi aspetti chiaramente anticostituzionali e l’approvazione della legge finanziaria senza di che il primo gennaio andrebbe in vigore l’esercizio provvisorio con la conseguenza di portare al fallimento la nostra finanza pubblica e al suo commissariamento da parte dell’Unione europea, della Banca centrale e del Fondo monetario internazionale.
A questa catastrofe che peserebbe sulle spalle di tutti gli italiani il Caimano e quelli che gli danno man forte ci possono arrivare e vogliono arrivarci. Il paese e gli elettori dovrebbero risvegliarsi e farsi sentire. Capiranno? Lo faranno? O una parte rilevante di loro mangerà ancora una volta la minestra avvelenata della demagogia? Sarebbe la sesta volta in diciannove anni di berlusconismo. Il pericolo è questo.
* * *
Enrico Letta si presenterà alle Camere domani e dopo domani (meglio prima che dopo) con un programma concreto delle cose da fare.
Le prime due (riforma elettorale e approvazione delle legge finanziaria) le abbiamo già dette. Ma il contenuto di quest’ultima sarà aggiornato e integrato da decreti che tengano conto degli impegni già indicati cinque mesi fa, sui quali allora il governo ottenne l’ampia fiducia del Parlamento. Fermi restano quelli presi con l’Europa di mantenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento per evitare la ripresa della procedura di infrazione da parte dell’Ue, tutti gli altri sono dedicati alla crescita, agli sgravi delle imposte che pesano sui lavoratori e sulle imprese e sulle relative coperture finanziarie, credibili e non inventate.
La cifra totale delle risorse che è necessario reperire oscilla tra i 5,5 e i 7 miliardi, necessari soprattutto per evitare l’aumento dell’Iva, incentivare l’industria e i lavoratori e aumentare entro quest’anno il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione creando in tal modo una liquidità preziosa per le imprese e per le banche.
Un programma al quale hanno lavorato nelle scorse settimane lo stesso Letta e Saccomanni. Ma il Caimano ha fiutato il pericolo ed ha emesso ieri pomeriggio un ultimatum rivolto questa volta ai suoi ministri: debbono dimettersi immediatamente perché l’aumento dell’Iva ci sarà. Doveva essere impedito dal Consiglio dei ministri di ieri, ma sono proprio i suoi ministri ad aver congelato quel Consiglio impedendo che prendesse qualunque deliberazione. Adesso il Caimano, sfoderando l’ennesima bugia, rovescia le responsabilità per mandare all’aria il governo prima ancora che si presenti alle Camere.
Resta ora da vedere se i suoi ministri si piegheranno all’ul- ordine del boss. Tutti o solo alcuni? Tutti, capitanati da Alfano. Non ministri, ma camerieri che antepongono gli ordini del padrone agli interessi del paese.
Così l’Iva aumenta, la seconda rata dell’Imu dovrà esser pagata, le erogazioni destinate a pagare i debiti dell’amministrazione saranno bloccate e lo “spread” tornerà irrimediabilmente a salire. Il tutto senza curarsi dello sfascio del paese pur d’allontanare l’applicazione d’una sentenza che punisce un congenito evasore fiscale e creatore di fondi neri destinati alla corruzione.
Ci auguriamo che Letta vada fino in fondo e attendiamo anche di vedere come si comporteranno in questo caso Vendola e la sinistra che guarda le stelle (cinque che siano) e metta invece finalmente ipiedi per terra. Quanto a Grillo sappiamo che cosa vuole perché lo dichiara un giorno sì e l’altro pure. Può sembrare strano, ma vuole le stesse cose di Berlusconi: la caduta del governo, le elezioni anticipate col “porcellum”, le dimissioni di Napolitano e un governo di grillini e di chi la pensa come loro (Berlusconi?) per una politica che si disimpegni dall’Europa e dall’euro e spenda e spanda per far contenti gli italiani.
Ma in che modo li farà contenti? Il risultato sarà lo sfascio totale, peggio della Grecia che comunque dall’Europa e dall’euro non è uscita e non vuole uscire.
La Grecia è irrilevante per l’equilibrio europeo; l’Italia no. Il fallimento dello Stato italiano, una democrazia etero- diretta da due caimani, una spesa pubblica alle stelle (molto più di cinque) e i mercati all’assalto del nostro debito, del tasso di interesse e di quello dell’inflazione, sarebbe più d’una catastrofe. Finiremmo come il Mali o il Kazakistan o la Somalia, nelle mani di due bande dominate da due irresponsabili.
Questa è la posta in gioco e ormai è questione di giorni.

il Fatto 29.9.13
La vostra è una strada rischiosa
risponde Furio Colombo

CARO FURIO COLOMBO, dopo avere letto il suo articolo di domenica su “Il Fatto Quotidiano” (“Stanza 138 “, 22 settembre) le debbo dichiarare il mio sconcerto. Non perché non condivida il suo punto di vista. Al contrario. La mia costernazione deriva dalla pericolosità di continuare a dire convincimenti controcorrente e ostinatamente critici. Attenzione, perché l’av - versario è scaltro, ed è specializzato in ritorsioni esemplari.
Salvo

LA LETTERA, che è firmata (nome e cognome) e con le necessarie indicazioni di identificazione, è molto più lunga, circostanziata ed è un vero grido di ammonimento e di allarme. L’autore mi dice di avere sperimentato personalmente che cosa succede “quando si offre il collo al boia”. Mi piacerebbe rispondere che non c’è niente da temere in una normale democrazia. Ma non siamo in una normale democrazia. Per esempio scoprire di avere avuto un primo ministro disonesto è un fatto sgradevole che non capita spesso. Ma capita. La disturbante stranezza italiana è che ci sono voluti vent’anni per arrivare alla prima (e pesante) condanna di un capo partito pluri-inquisito. Il fatto disturbante è che si è accesa una serie infinita di scontri violenti e di spaccature gravi e pericolose in tutti i settori e a tutti i livelli della vita nazionale, in grande e in piccolo , in alto e in basso dopo quella condanna. E nonostante le accuse gravissime, il sospettato, inquisito, processato, condannato ex primo ministro sta ancora lì, in dubbio se parlare una seconda volta al Paese, spaccare tutto, o andare alle urne (pretendendo che la decisione spetti a lui). Non ditemi che una simile forza deriva dalla natura di combattente del nostro uomo. È un uomo finito, d’accordo, ma è ancora in grado di fare grave danno (vedi la minaccia di dimissioni di tutto il Pdl, governo e peones) mentre una parte degli italiani pensa di risolvere il caso facendo pagare i giudici. Quando si accenna ai comizi violenti di Berlusconi, pesantissime e autorevoli sgridate ci raggiungono. “Non toccare la stabilità” sta diventando un avvertimento come “chi tocca i fili muore” delle vecchie cabine elettriche. E adesso, propriamente, la lettera a cui sto rispondendo ci dice: attenti! Siete sicuri di poter dire impunemente le cose che state dicendo? Non siamo affatto sicuri e non siamo degli audaci che vogliono a tutti i costi correre rischi. È che, anche volendolo, è impossibile restare senza risposta, e bisogna cercarla. Chi comanda davvero in questo Paese? E che cosa vuole davvero? Dove vuole portarci?
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

l’Unità 29.9.13
Susanna Camusso
Il segretario Cgil: «La crisi politica drammatizza i problemi del lavoro e delle imprese. Questa destra disprezza il Paese, bisogna reagire alle minacce»
«Difendere le istituzioni Berlusconi suscita orrore»
intervista di Rinaldo Gianola


«Siamo agli ultimi giorni di Pompei, c’è Berlusconi invece del vulcano». Susanna Camusso, leader della Cgil, trova una battuta amara parlando con l’Unità appena dopo la notizia delle dimissioni dei ministri Pdl dal governo. «Questa decisione conferma che la destra è pronta a sacrificare tutto per l’interesse personale di Silvio Berlusconi. Non c’è alcuna ragione di governo, ma solo la volontà di rompere. Viene prima Berlusconi e poi tutto il resto, con disprezzo verso il Paese, le istituzioni democratiche, le persone che soffrono. Mi allarma la disinvoltura con cui si ignorano volutamente le difficoltà delle imprese, dei lavoratori». Camusso, c’è la crisi di governo, nata dalla necessità di salvare il condannato Silvio Berlusconi. Cosa ne pensa?
«La Cgil e tutto il sindacato sono ovviamente molto preoccupati. La crisi scoppia mentre si provava con grande fatica a ridare un po’ di smalto al Paese, si tentava di risollevarlo dagli effetti di una crisi lunga e devastante. Invece, niente. Vincono ancora gli interessi personali, individuali. Perché in una logica politica populista quello che conta è il destino del capo, gli altri non valgono nulla».
Cosa teme da questo corto circuito politico e di governo?
«La crisi drammatizza due elementi. Primo: aggrava gli effetti della crisi pluriennale sulle famiglie che, mese dopo mese, hanno visto moltiplicarsi le difficoltà per la perdita del lavoro, la caduta del reddito, il deterioramento delle condizioni di vita. Secondo: l’attacco alle istituzioni è intollerabile, la progressione degli insulti e delle offese alla presidenza della Repubblica, alla magistratura, al Parlamento ha da tempo superato il livello di guardia. È bene ribadire oggi che non è nella potestà di nessuno, né dei partiti, né di singoli leader, attaccare e piegare ai loro interessi le istituzioni democratiche. Il problema vero non è quello della decadenza di Berlusconi, la questione più grave per la nostra democrazia è che un leader politico, un personaggio pubblico come Berlusconi non ha sentito il dovere di dimettersi dopo la condanna».
Vede un pericolo per la stabilità politica, delle istituzioni del Paese?
«Vedo gli attacchi di Berlusconi e dei suoi: mi fanno orrore. Noi siamo figli della Liberazione, del sacrificio del popolo italiano, siamo cittadini fedeli alla Costituzione. Non si possono più accettare queste minacce».
Rischiamo di restare senza governo. Ci toccherà rimpiangere le larghe intese e l’esecutivo Letta?
«Abbiamo molte critiche e perplessità sull’azione del governo Letta. Ma la sua caduta interrompe un tentativo di discussione, di elaborazione, in cui noi sindacati abbiamo presentato alcune proposte importanti, di un progetto diverso per uscire dalla crisi. La nostra urgenza è trovare una via d’uscita veloce al modello dell’austerità come politica economica, un’alternativa al liberismo e definire un rinnovato intervento pubblico. Sono temi che stanno discutendo i nostri vicini in Europa, persino in Germania, dopo la vittoria di Angela Merkel, le questioni aperte sono queste. Come è possibile riprendere la strada dello sviluppo, del lavoro, della redistribuzione del reddito, dell’equità, senza ammazzare i cittadini di sacrifici? Proviamo a pensarci e ad agire». Cosa fa il sindacato, cosa farete, davanti alla crisi politica che potrebbe essere lunga e di difficile soluzione?
«Nel direttivo Cgil dei giorni scorsi abbiamo definito questa situazione “la tempesta perfetta”, perché la crisi di governo si combina con i nodi irrisolti del Paese: la mancanza di politica industriale, la questione delle reti, la tutela e lo sviluppo di attività strategiche. Penso a Telecom Italia, al destino di Finmeccanica, ad Alitalia. Non c’è alcun dubbio che questi sono i fronti su cui combatteremo. Partiamo da qui, da queste imprese, da questi settori per cercare di cambiare la stagione dell’economia».
Però siamo riusciti a dare il controllo di Telecom agli spagnoli di Telefonica per 800 milioni di euro, un capolavoro.
«E non è finita. Sento ancora dibattiti astrusi sulla rete di accesso. Vorrei ricordare che nessun Paese europeo ha separato la rete dalla compagnia di telecomunicazioni, vorrei aggiungere che nella liberissima Olanda il governo ha imposto “l’azione d’oro” quando un miliardario messicano ha pensato di comprarsi la rete. Francia e Germania, nostri amici e concorrenti, non hanno mai pensato di rinunciare a una grande compagnia aerea nazionale, di lasciarla ad altri, perché hanno ben chiaro che da queste imprese dipende la connettività dei loro Paesi col mondo. Su Finmeccanica vorrei solo dire che siccome parliamo di importantissimi sistemi industriali integrati, strategici per il futuro del Paese, nessuno pensi di poter far cassa trascurando l’opposizione dei lavoratori e dei sindacati».
La crisi di governo, però, ha fatto scattare l’aumento dell’Iva, così rispetteremo il tetto del deficit al 3%.
«È un risultato che ne porta un altro, drammatico. L’aumento dell’Iva è uno schiaffo a chi paga i beni di consumo già di più in proporzione rispetto al reddito. Da questo aumento non saranno certo colpiti i redditi elevati, i ricchi sempre più ricchi non fanno fatica. Pagano, invece, le famiglie, i pensionati, i cittadini con redditi bassi che fanno già fatica a fare la spesa. Abbiamo tolto l’Imu anche alla prima casa dei miliardari e aumentiamo il costo dei beni di prima necessità. È folle: così si tutela solo il privilegio dei più ricchi».
Quali sono i sentimenti dei lavoratori in giro per il Paese?
«Incontro lavoratrici e lavoratori davanti alla fabbriche preoccupati e intimoriti. Temono di non riuscire a difendere il loro futuro, i loro figli. C’è chi cerca nella soluzione individuale la strada per superare le difficoltà, ma purtroppo non funziona. La paura porta a rinchiudersi. Dopo tutti questi anni di crisi, di chiusure, di licenziamenti vediamo come la rassegnazione sconfini nella rabbia. Bisogna fare un grande sforzo per mantenere in essere i legami sociali, delle comunità, del lavoro, la solidarietà verso chi ha pagato un prezzo altissimo alla crisi. Il sindacato, nonostante tante critiche, mantiene un ruolo importante».
Camusso, poniamo il caso che si vada a votare presto.
«Così no. Spero almeno in un soprassalto di responsabilità da parte di tutti i partiti per approvare una nuova legge elettorale. La maggioranza che sostiene questo governo si era impegnata a varare la riforma elettorale. Andare al voto con questa legge non risolverebbe nulla».
Andiamo alle urne, cosa vorrebbe chiedere alla sinistra?
«La sinistra ha commesso molti errori. Spero che, per ritrovare una radicata presenza e una diffusa partecipazione democratica, chi si è lasciato affascinare dal leaderismo individuale e dai partiti personali abbandoni queste tentazioni. Abbiamo bisogno di condividere obiettivi e valori, vorrei che la riduzione delle diseguaglianze fosse la priorità di un programma politico progressista. Non ci si può presentare agli elettori dicendo per prima cosa che si rispetterà il tetto del 3% del deficit e stop. Bisogna avere coraggio, proporre grandi investimenti, ridare allo Stato un ruolo attivo, seguire i patti europei ma con maggiore giustizia sociale nelle azioni di governo».
Come usciamo da questa emergenza?
«Il momento è molto difficile. Ma non dobbiamo farci intimidire dall’aggressione e dagli insulti, le istituzioni democratiche si difendono con determinazione. Bisogna avere la forza di reagire, non si possono sempre subire le minacce. Reagire. Questa è anche la condizione fondamentale per far ripartire il Paese».

il Fatto 29.9.13
Prove di tregua tra la Fiom di Landini e la Cgil


L‘ASSEMBLEA nazionale dei delegati Fiom, il sindacato dei metalmeccanici Cgil, ha avviato “un cammino di pacificazione nei rapporti non sempre facili tra la categoria dei metalmeccanici della Cgil e la stessa confederazione”. Lo scrive in una nota il dirigente nazionale del sindacato Cgil e coordinatore nazionale Lavoro Società Fiom, Augustin Breda. Che ipotizza una possibile tregua tra il sindacato confederale guidato da Susanna Ca-musso e il leader della Fiom Maurizio Landini. Dopo gli scontri degli ultimi mesi, si parla di un possibile congresso. Il dirigente sindacale evidenzia in una nota “il consenso bulgaro al documento presentato da Landini all’assemblea, che ha ricevuto 489 voti, su 527 votanti, grazie alla convergenza delle diverse anime vicine alla Camusso e di Lavoro e Società (oltre il 25% della categoria)”. Sono stati invece soltanto 36 i voti andati al documento sostenuto dall’ala radicale interna guidata dal ex segretario Fiom Sergio Bellavita. Intanto Landini continua a evocare lo sciopero generale: “Lo abbiamo proposto anche a Fim e Uilm”.

La Stampa 29.9.13
La Fiom cerca la pace con la Cgil “Stop ai contrasti di questi 4 anni”
Landini a Fim e Uilm «Incontriamoci per decidere uno sciopero»
di R. E.


RIMINI La Fiom tende la mano alla casa madre Cgil dopo anni di frizioni. L’assemblea nazionale dei delegati Fiom, che ha chiuso ieri i lavori a Rimini, ha avviato «un cammino di pacificazione nei rapporti non sempre facili tra la categoria dei metalmeccanici della Cgil e la stessa confederazione». È una decisione che il documento presentato in assemblea, come sottolinea il dirigente nazionale Cgil e coordinatore Fiom Augustin Breda, ha incassato un sostegno bulgaro, grazie anche «alla convergenza delle diverse anime vicine alla Camusso e di Lavoro e Società (oltre il 25% della categoria)». L’obiettivo è di arrivare al Congresso della Cgil, in programma il prossimo anno, «senza le contrapposizioni degli ultimi quattro anni».
Le contrapposizioni sono iniziate al congresso del maggio 2010, quando Cgil e Fiom si schierarono su due mozioni distinte e qualcuno della Fiom uscì dal congresso mormorando che «il vero vincitore è Bonanni».
Un nuovo momento di distacco è stato l’accordo del 20 giugno 2011, bocciato senza mezzi termini dalla Fiom, ma poi oggetto di riavvicinamenti successivi fra Maurizio Landini e Susanna Camusso, già nell’autunno di quell’anno. Fino ad arrivare all’intesa del 31 maggio di quest’anno, che lo stesso Landini ha definito «utile», soprattutto in vista della cancellazione delle intese separate. È da queste base che è partito il progressivo riavvicinamento fra Fiom e Cgil, contrassegnato anche dalle diverse posizioni assunte nel tempo nei confronti di Fiat. Esempio emblematico il referendum indetto a Pomigliano d’Arco, bollato dalle tute blu della Fiom come un «ricatto», mentre la Cgil si è limitata a ricordare che erano comunque gli operai a dover dire l’ultima parola. Storia di un rapporto verso il Lingotto in cui la Fiom ha sempre tenuto una posizione più oltranzista, mentre la Cgil ha mostrato maggiore apertura al dialogo.
Ma qualcosa sta cambiando in seno alla Fiom, come testimoniato dal discorso di chiusura di Landini all’assemblea dei delegati, in cui il numero uno è tornato a chiedere a Fim Cisl e Uilm «un incontro per uno sciopero su cose precise e non generiche: sarebbe una prospettiva utile e necessaria».

il Fatto 29.9.13
Game over governo. Stefano Fassina
“Pdl irresponsabile, ma i voti per il Letta bis ci sono già”
di Wanda Marra


Voglio rimarcare che la responsabilità della situazione è del Pdl e che ancora una volta gli interessi personali di Berlusconi prevalgono su quelli del Paese. Quanto avvenuto nei giorni scorsi comporta danni economici e istituzionali rilevanti. E le dimissioni dei ministri producono e produrranno lunedì mattina danni ancora più gravi alle imprese e agli italiani”. Il vice ministro dell’Economia, Stefano Fassina (Pd) ci tiene prima di tutto a sottolineare che il Paese è di fronte al baratro.
Onorevole Fassina, vi aspettavate le dimissioni dei ministri
Pdl?
No. Anzi le dichiarazioni del primo pomeriggio di Brunetta andavano in un’altra direzione.
Ora che succede?
Letta deve venire in Parlamento e verificare l’esistenza di una maggioranza in grado di affrontare due emergenze ineludibili: la legge di stabilità, che va fatta entro il 15 ottobre e la riforma della legge elettorale.
Può ottenere la fiducia?
Ritengo che vi siano parlamentari oltre i confini del Pd e di Scelta civica che non si vogliono assumere la responsabilità di portare l’Italia nel caos.
Un Letta bis è possibile?
Sì. E dobbiamo fare di tutto per verificare questa possibilità.
Ma con chi si farebbe un esecutivo del genere?
Non ragiono di formule. So solo che non possiamo andare a elezioni senza la legge di stabilità e la legge elettorale.
Torna di moda anche l’ipotesi di un governo di minoranza? E Letta ci starebbe?
Dipende dal risultato del voto. E ci vorrebbe una minoranza che poi diventa maggioranza per votare la legge di stabilità. E visto che si tratta dell’atto più importante di un esecutivo, allora vorrebbe dire che c’è una maggioranza per il sostegno del governo.
E il governo di scopo?
È una subordinata della subordinata. Io confido nel fatto che Letta otterrà la fiducia. Lo sforzo che dobbiamo fare in queste ore non è un esercizio di fantasia politica, ma rendere consapevole il Paese delle conseguenze che si verrebbero a determinare con l’emergenza che abbiamo di fronte.
Pensa che Berlusconi abbia accelerato perché ha capito di non tenere i suoi, come le dichiarazioni di Cicchitto, che ha espresso disaccordo sulle dimissioni dei ministri, farebbero pensare?
Penso che Berlusconi abbia avvertito di essere isolato nel Paese. Se le cose finissero adesso però potrebbe rivendicare di aver ottenuto l’abolizione dell’Imu ai danni dell’aumento dell’Iva .
L’abolizione dell’Imu Berlusconi non la ottiene se si va a votare. La seconda rata si paga e anche la terza. E tra l’altro il decreto non è stato ancora convertito. Non si è discusso del decreto per bloccare l’aumento dell’Iva perché Berlusconi a causa dei suoi problemi personali ha accelerato la crisi mercoledì con l’annuncio delle dimissioni di massa dei parlamentari.
E l’ipotesi di elezioni anticipate?
Faremmo un danno enorme al Paese. Senza la legge di stabilità, ci sarebbe l’impennata dello spread e la recessione. E arriverebbe la troika che aggraverebbe con ricette sbagliate la situazione del nostro Paese.
Adesso che ne sarà del congresso del Pd? Non è un mistero che molti non lo vogliano.
Il congresso del Pd è l’ultimo dei problemi, dobbiamo concentrarci su come salvare il Paese.
Ma si farà?
Dobbiamo provare a rispettare la scadenza del congresso, ma la priorità è evitare il baratro.

La Stampa 29.9.13
“Così la legge di stabilità verrà fatta dalla Troika”
Fassina: il voto anticipato porterebbe al disastro economico
intervista di Grazia Longo


Berlusconi ha pugnalato alle spalle il governo e il Paese Potremmo pagare un conto molto salato sul fronte dei mercati finanziari Non possiamo rischiare di far intervenire l’Europa con tutte le conseguenze negative che comporta, come dimostrano i casi di Grecia, Irlanda e Spagna

Il viceministro Stefano Fassina spera in un Letta bis per scongiurare l’impasse del Parlamento e l’intervento nei conti italiani di Banca centrale europea, Fondo Monetario Internazionale e Unione Europea
Due convinzioni su tutto per il viceministro dell’Economia Stefano Fassina. La prima: «Berlusconi ha pugnalato alle spalle il governo Letta, accelerando la crisi per motivi esclusivamente personali, ma soprattutto ha pugnalato alle spalle il Paese, creando le condizioni per un disastro economico». La seconda: «Esiste la possibilità reale di un Letta bis, il ricorso alle urne sarebbe deleterio: con l’attuale legge elettorale avremmo un Parlamento impallato e questo succederebbe con 200-300 punti di spread in più rispetto ad oggi e con la Troika a fare la legge di stabilità al posto nostro.».
Qual è ora il rischio maggiore per il Paese?
«Quello di pagare un conto salato sul fronte dei mercati finanziari: non si può scherzare con il bilancio pubblico e invece è proprio quello che hanno fatto Berlusconi e il Pdl. Ci troviamo di fronte ad un sabotaggio del Paese da parte del Pdl: tutti gli italiani hanno visto il film che si è consumato negli ultimi giorni e che ci ha portati ad impedire l’aumento dell’Iva. La colpa dell’incremento di un punto è tutta targata Berlusconi che ora ha la faccia tosta di scaricare su noi del Partito democratico, ma è evidente che la sua è l’ennesima mossa strumentale per difendere i suoi interessi».
Quali carte si può giocare Enrico Letta per formare un nuovo governo?
«Sono convinto che in Parlamento si possa trovare una maggioranza alternativa: sia in Senato, sia alla Camera ci sono persone che conosco bene da tanti anni e che secondo me sono pronti ad affidarsi al loro profondo senso di responsabilità nei confronti del Paese».
Parlamentari di lungo corso? Esclude quindi il sostegno da parte di una fronda dei grillini?
«No, quel che ho detto per il Pdl, vale anche per gli esponenti del Movimento 5 stelle: ce ne sono diversi pronti a staccarsi per impegnarsi per non far precipitare il Paese».
Può quantificare? Esistono delle trattative in corso?
«Abbiamo dei segnali che ci inducono ad essere ottimisti».
Crede che un eventuale Letta bis sia attuabile con una crisi formale, dopo cioè la remissione del mandato nelle mani del Presidente della Repubblica Napolitano, oppure intravede la possibilità di ripetere l’esperienza del governo Andreotti che nel 1990 sostituì 5 ministri della sinistra Dc che si erano dimessi contro la legge Mammì?
«Spetta sicuramente al premier e al Presidente Napolitano decidere come procedere. Ma ritengo utile che Letta, invece di dimettersi, verifichi in Parlamento l’esistenza di una maggioranza alternativa in grado di portare avanti le due emergenze prioritarie quali sono la riforma elettorale e la legge si stabilità. E se la prima garantisce una maggiore solidità di governo, altrettanto preziosa è la legge di stabilità».
Quest’ultima deve essere presentata entro il 15 ottobre: ce la farete ad approvarla in tempo, o sarà necessario adottare un escamotage per una deroga?
«Sì, ce la faremo: l’importante è far decollare il Letta bis. Il nuovo disegno di legge è essenziale per la nostra economia. Non ci possiamo certo permettere il pericolo di far intervenire la Troika (Banca centrale europea, Fondo Monetario Internazionale e Unione Europea, ndr) con tutte le conseguenze negative che ne derivano come hanno dimostrato le esperienze in Grecia, Irlanda e Spagna. Per non parlare di altre insidie».
E cioè?
«La perdita di investimenti internazionali in Italia».

il Fatto 29.9.13
Nuova maggioranza, i 13 indiziati del Movimento
Grillo serra le fila: “Se cambiano il Porcellum ci fregano”
Ma tra i dissidenti 5 stelle c’è solo il dilemma “Lacrime e sangue”
di Paola Zanca


La verità sai qual è? È che questo governo puoi chiamarlo anche esecutivo dello scopone scientifico, ma le cose che ha da fare sono due: il bilancio e la legge di stabilità. Su questo con Luis dovremmo confrontarci: quelle cose sono già scritte, come facciamo a dire ‘vi diamo una mano’? ”. Francesco Campanella è uno dei Cinque Stelle da sempre più aperti al dialogo: è uno convinto che con questa legge elettorale non si possa tornare a votare, uno che sarebbe pure disposto a lavorare con il Pd se lo “stupisse” e cominciasse a fare le cose che chiede anche la loro base. Però, questa volta, annusa odore di fregatura. E quando sente i democratici (con Stefano Fassina) e Sel (con Gennaro Migliore) dare per certa l’esistenza di una nuova maggioranza parlamentare, li invita ad andare cauti. Perché Campanella sa che difficilmente quelle manovre lacrime e sangue potranno essere riviste daccapo. E lui, “il governo Letta” - inteso come simbolo di quelle politiche economiche - non lo vota.
IL LUIS con cui vuole confrontarsi è Luis Orellana, il collega che da giorni chiede al gruppo di fare “una proposta seria e responsabile” per il governo. Campanella è un suo amico, così come il siciliano Fabrizio Bocchino che dichiara “stima incondizionata” per il senatore bollato da Grillo come novello Scilipoti. Ma anche Bocchino, come Campanella, chiarisce che il punto non è il voto di questa settimana: “Il nostro giudizio sul governo Letta è chiaro, è un no”. La questione è il dopo: se cadono le larghe intese, “non si può tornare a votare con questa legge elettorale: è fuori discussione, abbiamo il dovere di cambiarla, è un impegno che abbiamo preso con i nostri elettori”. Oggi, a Casteldaccia, vicino Palermo “metterà sul tavolo” la faccenda in un incontro pubblico. La maggior parte dei suoi colleghi, invece, non sente bisogno di confronti. Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, dice che bisogna “sfatare il mito che serve un Governo a tutti i costi: la legge elettorale, se solo si volesse (ma è chiaro che non vogliono) si potrebbe cambiare in due settimane in Parlamento, anche con il governo dimissionario. E poi al voto”.
PARLANO anche Grillo e Casaleggio e il loro è un avvertimento chiaro a chi continua a insistere sulla riforma del Porcellum: qualsiasi altra soluzione, sostengono, è una “fregatura studiata apposta per metterci fuori gioco”, dicono che la colpa dello “sfacelo” è di Napolitano e chiedono le sue dimissioni. Ma ancora prima che parlino i due leader, contro Orellana è partito il fuoco del Movimento: “Quando la smetti di sparare cazzate? ”, gli domanda senza giri di parole il deputato Alessandro Di Battista: solo i “cretini”, aggiunge, possono pensare a ipotesi del genere. Il senatore Carlo Martelli gli dà ragione. Roberta Lombardi riprende un’espressione coniata dal responsabile della Comunicazione Claudio Messora: “Sia chiaro a tutti che questi piccoli onorevoli parlano esclusivamente a loro nome”. Nicola Morra annuncia una assemblea al Senato in cui si discuterà delle parole di Orellana e Campanella: se escono sconfitti dal confronto, aggiunge, sono fuori “dalla porta del Movimento”. I numeri finora parlano chiaro: sono 13 su 50 i senatori che la settimana scorsa si sono astenuti durante l’elezione del nuovo capogruppo. Al ballottaggio erano arrivate solo due fedelissime della linea contraria al dialogo.

Repubblica 29.9.13
I dissidenti 5Stelle aprono ai democratici
Grillo attacca Napolitano: “Al voto subito”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Sono quattordici. Gli stessi che durante la votazione del nuovo capogruppo al Senato hanno scelto di infilare nell’urna una scheda bianca, in dissenso verso un ballottaggio che vedeva protagoniste due ultraortodosse come Paola Taverna (la vincitrice) e Barbara Lezzi. Quattordici senatori 5 stelle che, per dirla come uno di loro, «hanno una visione critica nei confronti della linea decisa da Grillo e Casaleggio». Quella del voto subito, del no a un governo che cambi almeno la legge elettorale.
Dove conducano, i loro dubbi, è però difficile da capire. Ed è la scommessa davanti alla quale si trova il Partito democratico a Palazzo Madama. C’è chi, come Luis Orellana, ha detto chiaramente di essere pronto a votare anche in dissenso dal gruppo per un governo di scopo che cambi la legge elettorale. E chi, come Francesco Campanella, spiega - di ritorno da una manifestazione antiMuos in Sicilia - che l’Alessandro Di Battista che chiede via twitter a Orellana di «non sparare cazzate» non gli fa né caldo né freddo, «perché è Di Battista, è il suo personaggio». Così come non considera importanti le parole dell’ex capogruppo alla Camera Roberta Lombardi, che invita i colleghi a non fare strategie da «piccoli onorevoli»: «Non mi pare abbia dato prova di grande capacità di analisi», la liquida il senatore siciliano. Che invece prende quel che sta accadendo molto sul serio. E lancia un messaggio al Pd: «Mi piacerebbe moltissimo che chi in quelpartito si agita tanto per fare un governo di cambiamento desse una prova d’amore, ci facesse un’offerta reale». Perché sì, è chiaro che i senatori democratici stanno sondando le intenzioni dei grillini, «sarebbe strano che non lo facessero», ma «dovrebbero venir fuori con un progetto serio, qualcosa che possa incidere sui convincimenti sedimentati dei miei». Quello che potrebbe nascere da quest’impasse, secondo Campanella, non è un governo di scopo: «Un esecutivochiamato a fare la riforma elettorale, legge di stabilità, bilancio, è di fatto un governo politico». E però, il senatore non è convinto che i 5 stelle che vogliono andare in questa direzione siano pronti a lasciare il gruppo pur di consentire alla legislatura di andare avanti. «Berlusconi è il male, per carità, a tutti noi brucerebbe aiutarlo a restare in sella, ma andare in un governo come 4 scappati di casa non ci permetterebbe di condizionarlo, di rispondere alle attese dei nostri elettori».
Così, mentre il pontiere per eccellenza Pippo Civati suggerisce: «Quello che dobbiamo decidere ora è se in Parlamento c’è una maggioranza di persone perbene che vuole mettere a posto i conti senza fare propaganda e fare una legge elettorale subito», la toscana Alessandra Bencini si dice «assolutamente preoccupata»: «È facile parlare per chi è alla Camera come Di Battista, lì la maggioranza c’è, e sono più giovani, possono fare i Don Chisciotte contro i mulini a vento. Io invece mi sento investita da una responsabilità enorme». La voce si rompe, preludio di quanto sarà difficile il confronto in assemblea, già domani.
Da Montecitorio, invece, sono i falchi a riempire i social network di messaggi come «al voto subito» e «andatevene dai piedi» (copyright Laura Castelli). Confortati poco dopo dal blog di Grillo che, a sera, prende la parola per dare la colpa dello «sfacelo attuale» a Giorgio Napolitano, invoca - ancora - le sue dimissioni, e chiede elezioni subito al grido di «In alto i cuori».

La Stampa 29.9.13
Il sogno del Grande centro per sostenere un Letta-Bis
Iniziate le grandi manovre. Più di 10 i possibili transfughi del Pdl
In Senato si punta su un gruppo di 35-40 persone per appoggiare il governo Dietro l’operazione ci sarebbero Casini, Monti Mauro e Quagliariello
di Andrea Malaguti


Scelta Civica non mancherà di dare il proprio contributo a soluzioni di governo credibili Mario Monti Presidente di Scelta Civica

Voglia di grande centro. Di Movimento Popolare. Magari si chiamerebbe proprio così. Un partito largo, trasversale, moderato, cattolico, che non si dimentichi dei liberali (pare ce ne siano ancora). Un partito che abbia prima la forza di sostenere questa sgangherata diciassettesima legislatura («La più squallida della nostra storia», l’ha definita lucidamente il senatore Martino) e poi di sopravviverle, presentandosi al Paese come la calamita buonsensista del futuro. Il nuovo centro che guarda a destra, pulito, modernamente antico, finalmente libero dall’ombra soffocante del Cavaliere. Un’altra cosa. Normale. Europea. Non è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno? Dibattito aperto. In ogni caso è questa l’idea per tenere in piedi il nascituro Lettabis. Un progetto su cui si stanno impegnando da settimane quattro uomini su tutti: Pier Ferdinando Casini, costantemente in contatto con il primo ministro (e anche lui rientrante in queste ore da New York), il ministro di scelta Civica Mario Mauro, il suo leader politico Mario Monti e il ministro del Pdl Gaetano Quagliariello. Ci riescono? Nel loro taccuino ci sono i nomi di almeno quattordici senatori del Popolo delle Libertà che avrebbero già accettato l’invito. Bye bye Silvio. Naturalmente per il bene del Paese. «L’Italia sta attraversando una fase drammatica della sua vita politica. Una crisi senza precedenti. Fare crollare tutto sarebbe sbagliato. Mi auguro che i singoli partiti siano in grado di anteporre il senso dello Stato al proprio tornaconto personale».
Il senatore Salvatore Torrisi, uomo forte del centrodestra catanese, spiega anche che «è sempre più opportuno puntare sull’area del partito popolare». E se non è un addio al fu eterno Berlusconi - è ancora in grado di garantire poltrone, consenso e potere? - è qualcosa che gli somiglia molto. «Andarmene? Lasci perdere, ho già detto troppo». La fedeltà a un Capo antico è un valore apprezzabile, ma alla fine un uomo fa solo ciò che l’anima gli comanda. Non è così? I senatori siciliani e quelli calabresi, considerati a un passo dall’ultimo tango con Forza Italia, con la propria coscienza ci stanno facendo i conti. La storia li chiama altrove. E la storia ha una sua forza inevitabile. Tanto che anche Casini e Monti hanno messo da parte i laceranti dissapori personali. Il grande tapis roulant della realpolitik li ha portati nel giro di un ba dalla rottura insanabile all’amore inevitabile. Il loro ormai non è più affetto, certo, solo dovere. Come una levatrice che pulisce un neonato con il lembo di un asciguamano. Fanno solo ciò che devono. Convinti che un inedito gruppo di 35-40 persone potrebbe consentire al prossimo governo di respirare non solo per pochi mesi (prioritaria la legge elettorale), ma di scavallare anche il 2015. Il progetto non incontrerebbe neppure l’ostilità della Lega Nord, che non può esimersi dal gridare «basta con questo esecutivo, tutti a casa», ma che non ha nessuna voglia di scoprire che cosa pensino oggi gli elettori del Carroccio. E, soprattutto, quanti ne siano rimasti.
Così, mentre si va verso una parlamentarizzazione della crisi, con Letta atteso domani dal Presidente della Repubblica, Montecitorio e Palazzo Madama ridisegnano rapidamente la geografia delle alleanze (quanti senatori del Movimento Cinque Stelle sono pronti a ribellarsi a Grillo che chiede a gran voce le urne?) e le gerarchie di potere all’intero dei singoli schieramenti.
Il Pdl sembra vicino all’implosione. Non è la prima volta. Il consueto sgraziato balletto di falchi (apparentemente vincitori del round) e colombe. Ma questa volta è impossibile non rilevare l’acutezza del disagio di alcuni uomini chiave come Fabrizio Cicchitto tenuto all’oscuro dell’ultima mossa del Capo. «Prima di chiedere le dimissioni dei ministri sarebbe stata necessaria una discussione approfondita negli organismi dirigenti». Analogo il pensiero di un irrequieto Sacconi. E i ministri? In crisi personale e istituzionale, con Quagliariello che promette di dire pubblicamente quello che pensa solo stamattina. Così dal caos prende forma il Movimento Popolare. Renziani tendenza Montenzemolo, liberali, montiani puri, casiniani e santegidiani.
E il vero miracolo per loro sarebbe non solo quello di riprendere la guida del Paese, ma soprattutto di non sembrare un carillon a manovella in un negozio di videogiochi, uomini suppostamente rigorosi e perbene titolari di un’eleganza che non interessa più a nessuno. Un vecchio trucco o un nuovo orizzonte?

il Fatto 29.9.13
I partiti salvano il malloppo: salterà il taglio dei rimborsi
Dopo tante promesse la crisi politica offre la scusa per insabbiare definitivamente la riforma del finanziamento pubblico voluta da Letta
di Sara Nicoli


Pagheremo l’aumento dell’Iva per colpa del Cavaliere. E nel frattempo, con la crisi, potrebbe non vedere luce la promessa fatta dai leader politici prima delle scorse elezioni: l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Con la scusa che ci si deve precipitare di nuovo alle urne, potrebbero essere indotti a tenersi il malloppo.
Mercoledì la Camera dovrebbe licenziare il disegno di legge, voluto da Enrico Letta, sull’abolizione. L’accordo tra le parti è stato trovato, ma poi il provvedimento passerà al Senato. E lì potrebbe morire.
IL 13 GENNAIO DEL 2013 Silvio Berlusconi affermava: “Mi impegno a presentare in Parlamento, nel primo mese del mio governo, una legge che abolisca il finanziamento pubblico dei partiti”. Nessuno avrebbe mai immaginato che poi il governo sarebbe stato effettivamente anche “suo”. Due giorni dopo Angelino Alfano a Porta a Porta: “Il primo gesto che faremo sarà di dimezzare il finanziamento pubblico dei partiti”. E già si parlava solo di dimezzare. Ma sull’onda del martellamento dei grillini, che di abolizione del finanziamento avevano parlato in tempi non sospetti, ecco emergere Matteo Renzi: “Togliere il finanziamento pubblico ai partiti, subito, come primo atto del nuovo Parlamento, con efficacia immediata sarebbe come dire ai cittadini: ok, abbiamo capito la lezione”, diceva a marzo. Pier Luigi Bersani fece subito spallucce: “La politica una qualche forma di sostegno pubblico deve averlo” (3 marzo). Così, mentre andavano in scena i tentativi di Bersani di catturare Beppe Grillo per fare il suo governo, ecco che 10 senatori renziani appena eletti (3 aprile) spiazzavano tutti presentando una loro proposta di legge sul-l’abrogazione che faceva saltare la mosca al naso al Cavaliere. Che rispondeva così: “Mentre le altre forze politiche sembrano impegnate a perdere tempo – ecco il proclama – il Pdl dal 15 aprile presenterà in Parlamento l’abolizione del finanziamento ai partiti che ha portato la coalizione a un soffio dalla vittoria”. Fabrizio Cicchitto nicchiava: “Non sono d’accordo, la politica deve avere finanziamenti pubblici”, ma ormai il premier Letta era in agguato. E il 24 maggio, ecco l’annuncio: “Nel Cdm di oggi abbiamo trovato l’accordo sull’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti”. Il ministro Mario Mauro, lesto lesto, si intestò la vittoria: “Dopo il governo di grande coalizione, passa ancora un cavallo di battaglia di Scelta Civica: l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti”. Come no.
IL DDL ERA APPENA uscito da Palazzo Chigi che già cominciavano i mal di pancia. Letta, il giorno dopo, fu costretto a punzecchiare la sua maggioranza: “A chi non piace la proposta presentata ieri, ne faccia altre, ma il tema è da affrontare”. Il 6 giugno il governo forzava la mano nella riunione dei capigruppo, ottenendo la procedura d’urgenza del provvedimento, ma gli scricchiolii sull’intesa si cominciano a sentire.
POCHI GIORNI DOPO, ecco ancora Letta rispondere a Grillo che accusava il governo di aver messo su un poderoso bluff: “Non è una presa in giro – giurava il premier – non ci limitiamo a tagliare il finanziamento pubblico, ma lo aboliamo proprio”. A questo punto, però, sono successe due cose. Che il Pd si è preso spavento al pari del Pdl. Ruminava, severo, Fabrizio Cicchitto, di sponda a un Bersani negativo sul decreto: “L’eliminazione del finanziamento – è ancora Cicchitto – non potrà che avere effetti negativi”. La fronda ha così cominciato a montare, tanto che il 9 luglio, Letta è sbottato: “Se il Parlamento e i partiti perderanno tempo sul finanziamento pubblico ai partiti ho già detto che siamo pronti ad un decreto”. Ancora, il 23 luglio, via Twitter: “Non faremo passi indietro sull’abolizione del finanziamento pubblico partiti, non capisco perchè bloccarlo”. Infine, l’8 settembre: “Dico a tutti di fare presto, ho preso un impegno con il Paese di abolire il finanziamento pubblico entro autunno, se si fa finta non si è capito il voto di febbraio”. Già.

il Fatto 29.9.13
Crisi in Intesa san Paolo
Il doppio ruolo di Chiamparino


Nessuno dice apertamente perché gli azionisti di Intesa Sanpaolo stanno cacciando l’amministratore delegato Enrico Cucchiani (perché ha osato sollevare il tema dei prestiti senza garanzie a Romain Zaleski, grande amico di Giovanni Bazoli?). Ma a decidere il suo destino saranno di fatto le fondazioni azioniste. Come la Compagnia di Sanpaolo, che è guidata dall’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino. Che sta anche preparando il ritorno in politica come candidato del Pd per la Regione Piemonte. Con un piede già fuori dalla Fondazione, nella riunione di domani Chiamparino potrà condizionare la scelta dell’ad della prima banca italiana. Poi uno si chiede perché il centrosinistra non ha mai fatto una legge sul conflitto di interessi.

La Stampa 29.9.13
La crisi cambia le carte nel Pd Ora la sfida è tra Letta e Renzi
E nel Pd si pensa al voto
Il primo bivio dei democratici è sulla data delle elezioni: subito o a febbraio
di Federico Geremicca


Un partito che, dopo la ritrovata unità sulle regole con cui andare a Congresso, si era scoperto compatto anche sulla rotta da tenere durante il percorso di un «chiarimento» che si preannunciava – fin dalle discusse dimissioni dei gruppi parlamentari Pdl – pieno di insidie.
L’asse Epifani-Letta, infatti, ha funzionato come doveva; i rapporti col Quirinale si sono confermati sufficientemente distesi e tutti i big del partito – a cominciare da Matteo Renzi – hanno fatto un passo indietro per giocare almeno questa partita come fossero davvero una squadra. Il resto lo ha fatto, naturalmente, l’insofferenza sempre più crescente – soprattutto alla base – verso l’alleanza col Cavaliere e i continui ricatti cui Letta e il Pd sono stati sottoposti in questi mesi. «Meglio votare che subire tutto questo», si è sentito ripetere per settimane nelle Feste democratiche: e non è detto che, alla fine, non vada proprio così...
Il difficile, se si può dir così, però comincia adesso. Infatti, sarà sulle mosse da fare a partire da oggi – e sull’intreccio tra vicende di governo e percorso congressuale – che tra i democratici rischia di riaprirsi un confronto che potrebbe farsi aspro. «Se la data delle elezioni sarà ravvicinata – ha annotato ieri Enrico Rossi, governatore della Toscana e da sempre «nemico giurato» del sindaco di Firenze – vale la pena riflettere sulla possibilità di rinviare il Congresso del Pd».
Come lui, anche se non lo dicono, la pensano in molti: non una maggioranza, certo, ma l’area comunque assai diffusa di chi non intende rassegnarsi all’idea che il prossimo segretario del Pd possa essere Matteo Renzi. Nell’idea di questa fetta di partito, far slittare le assise a vantaggio di primarie per la scelta del candidatopr e m i e r, vorrebbe dire camb i a r e l’obiettivo del sindaco di Firenze e «mettere in sicurezza il Pd» (alcuni lo dicono addirittura così...).
Ma se è vero che vicende di governo e battaglia interna tornano ad intrecciarsi in una matassa non facilissima da sbrogliare, il primo problema che Letta e lo stato maggiore del Pd hanno di fronte riguarda – appunto – il che fare sul fronte della crisi. Nei conciliaboli avviati fin dal pomeriggio di ieri, il primo bivio è apparso subito chiaro: lavorare ad un governo che porti il Paese alle urne tra febbraio e marzo – dopo aver varato la legge di bilancio e riformato quella elettorale – o bruciare i tempi, prendere atto della posizione delle forze politiche maggiori (Pdl e M5S) e favorire un ritorno alle urne già in autunno?
E non è tutto: se si dovesse consolidare (sulla prevedibile spinta del Presidente della Repubblica) la possibilità di un governo di scopo, a chi farlo presiedere? Andare, insomma, verso un Letta-bis (a maggioranza comunque variata e rabberciata) oppure puntare a soluzioni che – magari – coinvolgano meno direttamente e visibilmente il Pd? Il problema non è affatto da poco, sia per quel che riguarda i riflessi che una tale scelta potrebbe poi avere sull’efficacia della campagna elettorale, sia per quel che riguarda il futuro immediato di Enrico Letta.
Già, Enrico Letta. La durezza e l’orgoglio che ha messo nella «risposta americana» alle annunciate dimissioni dei parlamentari Pdl, non sono casuali ma rispondono ad una scelta precisa: rompere l’accerchiamento cui era sottoposto, recuperare un profilo «antiberlusconiano», per dir così, e rimettersi al centro dei giochi che stanno per riaprirsi nel Pd. Non è un mistero che molti leader democratici pensavano proprio a lui come possibile «competitor» di Matteo Renzi nella corsa alla segreteria; e lo è ancor meno l’intenzione di Letta di partecipare alle primarie per la scelta del candidato-premier prossimo venturo, diventando riferimento di quanti vorrebbero sbarrare anche questa strada al sindaco di Firenze...
Non ci vorrà molto a capire che direzione imboccheranno sia Letta che il Pd, e che margini di manovra concederà loro il Quirinale. La partita è appena iniziata, e molti vi assistono (o vi partecipano) con qualche apprensione. Il più attento di tutti, in queste ore, non è a Roma. Ieri lavorava a Palazzo Vecchio; oggi festeggerà, sempre a Firenze, la comunione del suo secondogenito. Dopo tanto attendere e rincorrere, infatti, per Matteo Renzi sta forse per scoccare l’ora della verità...

Corriere 29.9.13
Epifani avverte: meglio non tornare al voto
«Dal Pdl irresponsabilità impensabile, mai vista dal Dopoguerra»
di Alessandro Trocino


ROMA — Il Pd viene colto dai venti di crisi quando ha appena firmato un armistizio sulle regole e si appresta a cominciare il suo cammino congressuale, per la scelta del segretario. Circostanze che inevitabilmente si intrecciano, magari in modo sotterraneo, con le posizioni politiche sugli scenari futuri. Quello che è certo, per il segretario Guglielmo Epifani, pur nella consapevolezza delle difficoltà, è che non si possa andare alle urne subito, in queste condizioni: «Sarebbe meglio non tornare al voto con questa legge elettorale che crea solo problemi. Il Pd vuole cambiarla ma non sarà facile, perché bisogna trovare una maggioranza in Senato. Ma penso che cambiarla sia un passaggio obbligato prima di tornare a votare».
Pur con sensibilità diverse, il giudizio sull’accelerazione di Berlusconi è unanime. Per Epifani «una tale irresponsabilità istituzionale non è mai avvenuta». Le dimissioni aprono «una crisi al buio mai vista dal dopoguerra a oggi» e portano il Paese a una «instabilità desolante». Ma Epifani parla anche al suo partito: «Vincere alle prossime elezioni non sarà una passeggiata. Dobbiamo prepararci bene, mettendo da parte i particolarismi e concentrandoci sull’interesse generale. Perché o vinciamo o il Paese ne pagherà le conseguenze». Appello non casuale, visto che le correnti del Pd hanno firmato una tregua che l’improvvisa accelerazione mette a rischio. Non è un mistero che i renziani non siano entusiasti di una crisi ora. Perché rischia di far saltare il Congresso, già fissato per l’8 dicembre, congelando l’attuale segretario e rimettendo in gioco come possibile candidato Enrico Letta. Renzi si troverebbe a dover correre per le primarie, presumibilmente di coalizione, senza avere un partito alle spalle.
Che il rischio sia reale lo fa capire la dichiarazione di Enrico Rossi, presidente della Toscana: «Se la data delle elezioni sarà ravvicinata, vale la pena riflettere sulla possibilità di rinviare il congresso del Pd». Non è un caso che siano state molte le voci dei renziani, nei giorni scorsi, a levarsi per ribadire l’irricevibilità di ogni ipotesi di slittamento. Come conferma Ernesto Carbone: «Sarebbe folle legare congresso e voto». E non è neanche un caso che ieri sia arrivato l’attacco di Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi: «Dobbiamo essere un partito, non un comitato elettorale permanente che parla solo di primarie. E neanche un partito che utilizza la segreteria come trampolino di lancio per fare altro».
Ma è anche sugli scenari del post Letta che il Pd rischia di dividersi. Il «senso di responsabilità», da sempre rivendicato dai dirigenti, porterebbe a dover varare la legge di stabilità e una nuova legge elettorale, prima di ricorrere alle urne. Ma come fare? Qualcuno pensa a un Letta bis o simili. Ma Paolo Gentiloni avverte: «Nessuno pensi a maggioranze scilipotiche. Non vogliamo maggioranze raccogliticce, magari con i transfughi del Pdl o dei 5 stelle».

Repubblica 29.9.13
Pd al bivio tra Letta bis e governo di scopo
I renziani: no a maggioranze alla Scilipoti. Epifani: il Cavaliere sfascia tutto
di Giovanna Casadio


ROMA — «Una tale irresponsabilità istituzionale credo non sia mai avvenuta dal Dopoguerra». Epifani è spiazzato. Il segretario democratico lo ammette: non si aspettava la mossa delle dimissioni dei ministri del Pdl che hanno obbedito agli ordini del Capo. Non l’aveva prevista, anzi tutti i segnali fino alle sei del pomeriggio sembravano andare verso una retromarcia di Berlusconi. «Sono livelli di irresponsabilità che non erano razionalmente valutabili», ripete mentre alla festa del Centro democratico gli portano i lanci di agenzia sulla crisi di governo. Definisce «inquietante» quello che sta accadendo. Però l’altra parola d’ordine, concordata con il premier Letta, è di mantenere i nervi saldi e di puntare a un’altra maggioranza subito che conduca in porto la legge di stabilità e faccia la riforma della legge elettorale. C’è poco da scherzare con il rischio di un declassamento dell’Italia da parte delle agenzie di rating. «Un gioco allo sfascio quello di Berlusconi e del Pdl», è l’atto d’accusa di Epifani che ha visto a Napoli il presidente Napolitano.
«Al voto subito non si può tornare», dicono a una voce i leader democratici. Da qui in poi però, le strade nel Pd si dividono. I “governisti” puntano a un esecutivo de-berlusconizzato ma pur sempre di larghe intese, a un Letta-bis che superi il semestre italiano di presidenza Ue. Il ministro Dario Franceschini dice che si può arrivare fino al 2015. Renzi è per un ritorno alle urne al più presto: poche misure indispensabili, ma al voto massimo a marzo. Il renziano Paolo Gentiloni mette infatti in guardia da maggioranze abborracciate: «Berlusconi fa l’ultimo danno all’Italia, ora nessuno pensi a maggioranze scilipotiche, solo da un’alternanza può venire stabilità». Tifa per un governo di scopo anche Bersani. Stefano Fassina, vice ministro all’Economia, avverte del pericolo per la situazione economica e si dice certo che una soluzione parlamentare si possa trovare: «Sono convinto che in Parlamento ci sia una maggioranza in grado di evitare un ritorno subito alle urne».
Non solo il capo dello Stato ha ripetutamente detto che non intende sciogliere le Camere per le conseguenze che l’instabilità avrebbe sul paese, ma sulla legge elettorale pende un possibile giudizio di incostituzionalità da parte della Consulta. Fassina, che è un bersaniano di ferro, denuncia inoltre la responsabilità tutta berlusconiana dell’aumento dell’Iva: «Se in consiglio dei ministri non si è potuti intervenire sull’aumento dell’Iva, è perché il governo non aveva più la maggioranza. Tutta la responsabilità è di Silvio Berlusconi e dei suoi problemi giudiziari: il resto è solo il tentativo di ribaltare le responsabilità. Tra i primi a dire che il patto di governo si era rotto è stato il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando: «Le condizioni per l’esecutivo sono venute meno». La verifica va fatta in Parlamento. E a una voce i ministri del Pd non ci stanno allamossa dei berlusconiani di «rovesciare la frittata» sulle tasse, e sull’Iva in un avvio di campagna di elettorale già nei fatti.
Un esecutivo di scopo, circoscritto nel tempo e nel programma è l’obiettivo a cui anche secondo Pippo Civati bisognerebbe puntare: «La crisi c’era già, ci vuole ora una maggioranza di persone perbene». Sintonia con Gianni Cuperlo. Sia Civati che Cuperlo sono candidati alla segreteria del Pd e sfidanti di Renzi. «Il Pdl ha messo in enorme difficoltà il paese», accusa Cuperlo. E Rosy Bindi rincara: «Non dovremmo preoccuparci di cercare una maggioranza, ma ci vuole un governo di scopo per fare la legge di stabilità e una nuova leggeelettorale». Disponibile a entrare in un governo con il Pd, che volti le spalle alle larghe intese, è Nichi Vendola, il leader di Sel. Il passaggio è delicato e difficile. Epifani ritiene che bisogna procedere per tappe e con prudenza: prima, la crisi in Parlamento e poi le decisioni da prendere per il nuovo governo.

l’Unità 29.9.13
Non contrapporre famiglia e diritti civili
di Francesca Izzo


C’È QUALCOSA CHE DISORIENTA NELLE FIAMMEGGIANTI POLEMICHE CHE DA QUALCHE TEMPO OCCUPANO I MEDIA E I SOCIAL NETWORK A PROPOSITO DEGLI STEREOTIPI SESSUALI E DELLE DISCRIMINAZIONI CHE NE CONSEGUONO. Dall’ipotesi di eliminare i termini padre e madre da moduli burocratici alla denuncia di un’immagine della donna sola dispensatrice di cure e di cibo fino alla contestatissima riproposizione dell’idillica e tradizionale visione della famiglia nella pubblicità del Mulino Bianco è un succedersi di conflitti mass mediali, spesso davvero poco attenti alle necessarie distinzioni. Ho l’impressione che l’estrema vivacità della polemica supplisca alla persistente difficoltà di affrontare e risolvere sul piano giuridico-legislativo ed economico-sociale le trasformazioni delle relazioni familiari e affettive così come l’avvento della libertà femminile, terreni su cui l’Italia sconta un enorme ritardo. Non riuscire ad assicurare il pieno godimento dei diritti civili agli individui e alle coppie omosessuali è motivo di legittime proteste e reazioni che però, proprio in ragione di questa non più tollerabile discriminazione, tendono a occupare quasi integralmente lo spazio pubblico e rischiano di creare una fittizia polarizzazione tra «progressisti», cioè tutti coloro che sostengono i diritti degli omosessuali, e i «conservatori/reazionari», paladini della famiglia e delle coppie eterosessuali. Questa rappresentazione non solo non sta in piedi, ma costituisce una sorta di alibi per cui l’Italia non solo non ha una legislazione che garantisca i diritti e le unioni civili, ma non ha avuto e continua a non avere politiche serie e incisive per le famiglie.
Politiche sempre più necessarie dinanzi ai cambiamenti che hanno mutato radicalmente ruoli e aspettative delle donne. Che si tratti della maternità, che sta diventando sempre più un miraggio per le giovani italiane, o degli asili nido, altro miraggio per tanti, troppi bambini specie nel Mezzogiorno o delle politiche fiscali non si colgono segni di intervento a favore dei nuclei familiari. Credo che si debba liberare il campo da ogni falsa e alla lunga pericolosa contrapposizione, come se favorire promuovere miglioramenti per le famiglie eterosessuali significasse discriminare le coppie omosessuali. Questa è una logica che, se si imponesse, avrebbe effetti davvero inquietanti. Rispettare le differenze e non farle precipitare nella discriminazione e nella marginalizzazione è una delle sfide più impegnative del nostro tempo e richiede uno sforzo collettivo in ogni ambito da quello culturale e religioso a quello politico giuridico, oltre che una disponibilità individuale a mettere in discussione pregiudizi e consuetudini. Ma proprio perché si tratta di eliminare l’effetto discriminatorio delle differenze, la via non può essere quello di provare a eliminare le differenze e di pensare che la soluzione sia nell’imposizione di un neutro. Nella proposta avanzata da alcuni comuni, sulla scia di una dichiarazione della ministra Kyenge, di cancellare la dizione di madre e padre e sostituirla con il neutro genitore io leggo la ricerca di questa scorciatoia. Come se si dicesse: poiché un bambino che ha due genitori dello stesso sesso potrebbe risultare discriminato rispetto alla maggioranza degli altri bambini che hanno un padre e una madre, eliminiamo almeno nel linguaggio burocratico questa discriminazione.
Sappiamo che il linguaggio, finanche quello burocratico ha una sua potenza e agire sul linguaggio alla lunga finisce per cambiare anche la realtà. E la realtà che si vorrebbe mutare è quella della differenza dei sessi, ovvero quella fondativa del nostro essere umani. Invece di agire perché una differenza, come quella omosessuale, sia riconosciuta, rispettata e vissuta con dignità si vorrebbe cancellare La differenza originaria, quella che ci fa esistere come umani e non come dei o bestie. Ecco allora il disorientamento cui accennavo all’inizio dinanzi alla confusione e mancanza di discernimento che la virulenza delle polemiche trascina con sé.
Si tratta di cose molte serie e conviene parlarne con la cura che meritano.

l’Unità 29.9.13
Lo stupro nei conflitti è un crimine di guerra
Nei conflitti degli ultimi venti anni sono state più di 200.000 le donne violentate
di Valeria Fedeli

Senatrice Pd Vicepresidente del Senato

LA VIOLENZA SESSUALE UTILIZZATA NEI CONFLITTI COME FORMA DI CONTROLLO E SOPRAFFAZIONE È UN DELITTO TRA I PIÙ FEROCI POICHÉ ATTENTA ALLA DIGNITÀ UMANA E ALL’INTEGRITÀ DELLA PERSONA. Esso è ancora più spietato poiché non si tratta di un «effetto collaterale», di una orribile conseguenza della guerra ma di una vera e propria strategia militare che ha attraversato e attraversa ogni angolo della terra. Durante le guerre gli stupri hanno, infatti, lo scopo di seminare il terrore tra la popolazione e, in alcuni casi, modificare la composizione etnica delle generazioni successive. Acuisce e stimola l’odio!
Lo stupro, anche durante i conflitti, è una violenza inaccettabile che causa non solo danni fisici, come il rischio di sterilità e di malattie sessuali, ma anche psicologici e sociali. Spesso le donne che sono state abusate, e le loro famiglie, vengono escluse dalle loro comunità, mentre i bambini nati da stupri possono essere abbandonati; in alcuni casi le donne ricorrono all’aborto e visto che in alcuni di questi Paesi esso è illegale se lo procurano da sole, il che, nella maggior parte dei casi, vuol dire morte certa.
Guardando solo agli ultimi vent’anni le cifre parlano chiaro: più di 200.000 donne violentate durante la guerra in Congo, 60.000 in Sierra Leone, più di 40.000 in Liberia, quasi 60.000 nella ex Jugoslavia; e ancora in Cecenia, Darfur, Iraq, Libia, Kosovo e Ruanda. Emerge un dato fondamentale, le vittime dei conflitti nella maggioranza dei casi sono donne quando non bambini. Il rapporto 2010 del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) afferma chiaramente che: «Le donne fanno di rado la guerra, ma troppo spesso ne soffrono le conseguenze peggiori: la violenza sessuale costituisce un’arma di guerra ripugnante e purtroppo sempre più utilizzata».
Per questo abbiamo presentato una mozione firmata e votata da tutti i gruppi parlamentari, approvata in Senato, di cui sono prima firmataria, affinché lo stupro nei conflitti venga finalmente riconosciuto come crimine di guerra e siano messi in atto provvedimenti necessari a prevenire e reprimere tale forma di violenza. Un impegno su cui il Senato sta dimostrando grande unità.
È il momento che il governo si impegni ad agire in modo che i suoi sforzi diano forza a quelli della Nazioni Unite, degli organismi multilaterali e della società civile nell’attuazione di un piano di contrasto già delineato dall’intesa del G8, grazie all’iniziativa del governo britannico, che indica la violenza sessuale nelle zone di conflitto come crimine di guerra e lancia un programma di contrasto. Altro fattore fondamentale è perseguire una comune strategia europea, rafforzando la capacità dell’Unione di essere incisiva nel condizionare il punto di vista delle regole internazionali, anche in merito ai conflitti e ai crimini di guerra.
È il momento di atti istituzionali chiari e di un impegno condiviso: occorre favorire l’inclusione delle donne sia nelle forze armate, che nei gruppi di risoluzione dei conflitti, dove oggi sono solo meno del 10 per cento. È urgente e necessario garantire un’adeguata formazione dei militari sulle implicazioni della violenza sessuale durante le guerre e rimuovere le barriere che impediscono il monitoraggio e il reporting: solo un’adeguata documentazione può permettere di individuare davvero e punire i colpevoli.
Soprattutto è importante un intervento dell’Assemblea Generale dell’Onu per eliminare negli accordi di pace ogni ipotesi di amnistia per questi reati!
Per secoli lo stupro durante le guerre è stato tacitamente accettato e considerato inevitabile. Non è così, non può essere così. Dobbiamo dirlo in modo sempre più forte. Bisogna cambiare cultura, mentalità diffusa e pratiche. È necessario un migliore sistema di giustizia: la comunità internazionale deve intervenire per irrigidire le norme e punire severamente e in modo esemplare chi si macchia di violenze simili. Bisogna restituire alle donne le condizioni per esprimere la propria forza e libertà e salvaguardare la propria integrità di persona, anche durante i conflitti, garantendo loro giustizia.

La Stampa 29.9.13
Carceri, l’affondo di Napolitano “Il Parlamento valuti l’amnistia”
Pronto un messaggio alle Camere sul problema del sovraffollamento
di Gra. Lon.


NAPOLI Il presidente della Repubblica apre all’amnistia e scatena una ridda di reazioni nel mondo politico. «È pronto un messaggio alle Camere sul tema del sovraffollamento delle prigioni» ha affermato ieri mattina Giorgio Napolitano, in visita al carcere napoletano di Poggioreale.
E non ha nascosto come ormai affrontare il tema sia «un imperativo umano e morale» dopo che anche la Corte di Strasburgo ha sanzionato l’Italia per lo stato disastroso dei suoi istituti penitenziari.
E se il Pdl accoglie favorevolmente le sue parole, così non è per il segretario della Lega, Roberto Maroni: «Sono piuttosto preoccupato: non solo Napolitano dirige il traffico istituzionale ma detta anche la linea sui contenuti del nuovo governo».
Polemici anche i grillini. «Il tempismo di Napolitano è quanto meno sospetto - stigmatizza Roberta Lombardi, ex capogruppo del M5S alla Camera -. Le sue parole non sono causate dall’emergenza, oggettiva, del sovraffollamento carcerario: questo non è un problema di oggi e ci sono tante soluzioni per intervenire rapidamente. Il suo intervento arriva adesso, giusto a una settimana dal voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore». Preoccupazione smentita dai fatti poche ore dopo: la crisi di governo avviata dalle dimissioni dei ministri Pdl confermano come Berlusconi non avesse intravisto alcuno spiraglio nelle dichiarazioni del Presidente della Repubblica.
L’eventualità di un’amnistia era stata, del resto, già ipotizzata lo scorso agosto dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri: «La mia opinione personale è favorevole all’amnistia ma è un provvedimento che tocca al Parlamento: mi rimetto alle scelte della politica. Sono favorevole all’amnistia, oltre che per motivi umanitari anche per la riforma complessiva del sistema penitenziario». E comunque, da tempi non sospetti Napolitano si interessa al degrado carcerario e chiede alle forze politiche di interessarsi al problema nonostante la difficoltà che presenta il varo di un provvedimento, che ormai necessita di una maggioranza di due terzi del Parlamento.
Senza tralasciare il fatto, non secondario, che ieri la sua anticipazione a Poggiorale è stata posta in termini generali, senza alcun riferimento alla condanna del Cavaliere a 4 anni per frode fiscale (3 coperti dall’indulto) oltre alla pena di 5 anni di interdizione dai pubblici uffici.
Il ministro della Difesa, Mario Mauro, Scelta civica, apprezza su Facebbok: «Grazie Presidente: indulto e amnistia non significa cedere ai compromessi, ma promuovere la giustizia per tutti».
L’apertura del Capo dello Stato, tra l’altro, era inserita in un contesto di attenzione all’emergenza sovraffollamento carceri lontano dai clamori politici. Tant’è che il Presidente si era premurato di specificare come il messaggio sarebbe stato presentato dopo il previsto chiarimento della settimana prossima: «Mi auguro che il clima politico sia sufficientemente svelenito perché il mio messaggio alle Camere possa avere un’accoglienza serena e garantire che il Parlamento lavorerà nei prossimi mesi».

Repubblica 29.9.13
Il senatore pd Casson: un colpo di spugna sulla frode fiscale svuoterebbe il carcere di detenuti per reati gravi
“No a una norma per salvare Silvio basta ripetere gli errori dell’indulto”
intervista di Luana Milella


ROMA — «Amnistia? Non se ne parla proprio, ho già votato una volta l’indulto nel 2006 e me ne sono pentito». Reagisce così l’ex pm e senatore Pd Felice Casson quando gli si chiede cosa farà su una clemenza tanto ampia da salvare pure Berlusconi.
Perché si è pentito di quel voto?
«Perché la situazione delle carceri era disastrosa allora come ora, si era pensato di risolverla con quel provvedimento e invece dopo pochi mesi è tornata a essere quella di prima. È del tutto sbagliato liberare dei detenuti senza cambiare un codice penale superato dal tempo e un processo penale che non funziona».
Amnistia e indulto proprio ora servirebbero per Berlusconi, ma risolverebbero i suoi guai giudiziari?
«Mi sembra assurdo anche solo pensarlo, perché farci rientrare il delitto di frode fiscale vorrebbe dire alzare talmente l’asticella dei reati da cancellare per cui si svuoterebbero le carceri anche da detenuti condannati per reati gravi e ancora pericolosi, destando un grande allarme sociale».
S’è mai fatta un’amnistia per reati fino a sei anni, come la frode fiscale?
«Mai, perché tutti, e sempre, hanno ritenuto assurdo alzare così tanto il tetto».
Il Pd potrebbe votare una misura così ampia?
«Credo che il Pd sarebbe molto in difficoltà a farlo».
Si azzererebbe anche la Severino?
«Amnistia e indulto non incidono né sulla decadenza né sull’incandidabilità perché queste non sono né sanzioni penali né amministrative, ma solo requisiti concernenti l’elettorato passivo, posti a tutela dell’organismo parlamentare».
Con un’amnistia Berlusconi sarebbe candidabile?
«Certamente no, perché bisognerebbe approvare una norma esplicita a tutela delsingolo Berlusconi, cosa ormai inaccettabile perché cozza contro il principio di uguaglianza dei cittadini».
Legge Severino amnistiata anch’essa?
«Sostanzialmente sì, contraddicendo quanto votato da tutto il Parlamento solo pochi mesi fa, cioè che si tratta di norme da applicare “immediatamente” per la pulizia e la trasparenza nei palazzi della politica».
L’amnistia cancella l’interdizione?
«Solo qualora dovesse prevederlo esplicitamente».
Cosa resterebbe nel suo certificato penale?
«Che è stato condannato ma poi sono intervenuti amnistia e indulto».
Il nuovo indulto si cumulerebbe al vecchio?
«Anche questo deve essere deciso perché in genere vengono esclusi i casi di indulto già concesso».
Vede i numeri per approvare questa misura?
«A me sembra che i due terzi richiesti non ci siano. A parte il Pdl, non vedo altri gruppi disposti a votare la legge».
Corruzione, concussione, frode fiscale possono essere cancellati senza rischiare la furia popolare?
«Sarebbe contraddittorio approvare norme anti-corruzuione e poi amnistiare i reati dei colletti bianchi».

l’Unità 29.9.13
«Senza aiuti Roma chiude» Debiti per 867 milioni
La denuncia del sindaco: «Taglieremo di 15 volte il bilancio della città e chiuderemo enti inutili»
All’orizzonte la creazione di una bad company
di Jolanda Bufalini


ROMA Alla fine il sindaco Marino scherza con i giornalisti: «Vi do una notizia, il Campidoglio non lo vendo», la situazione, però è drammatica e si condensa nell’espressione «Roma, capitale d’Italia, non può fallire». Non è il «too big to fail» delle banche di Wall Street ma poco ci manca. C’è bisogno di aiuto, dal governo nazionale, da palazzo Chigi, pur nel precipitare degli eventi dalle parti delle larghe intese. La conferenza stampa convocata, ieri, da Ignazio Marino insieme all’assessore al bilancio Morgante, al capogruppo Pd Francesco D’Ausilio e al coordinatore di maggioranza Fabrizio Panecaldo, dopo una riunione notturna di giunta e un vertice di maggioranza, è pacata nei toni ma drammatica nella sostanza. Mancano all’appello 867 milioni, è il disavanzo corrente che la giunta appena insediata ha ereditato dalla passata gestione. Ma Ignazio Marino non calca la mano sulla eredità lasciata da Alemanno, non vuole continuare nel gioco dello scaricabarile. Il peso del debito si deve tanto alla malagestione quanto ai tagli dei trasferimenti statali e regionali al comune. E non intende aumentare le tasse ai romani, già fortemente penalizzati su Irpef, Irap e Imu. Fa un appello bipartisan a tutti i parlamentari di Roma e del Lazio, perché ciò che conta «è Roma e i romani». Elenca le misure già prese e quelle messe in cantiere per riportare nei giusti binari la spesa, a cominciare dai tagli alle auto blu e all’ufficio del sindaco, ma per vedere i frutti delle operazioni avviate ci vorrà tempo.
E intanto la capitale deve continuare a vivere, a ospitare i milioni di turisti che arrivano, ad assolvere le funzioni che le competono anche per il resto d’Italia, da dove arrivano, per le manifestazioni di protesta come avverrà il 1 e il 19 ottobre prossimi, con tutti i problemi di sicurezza e di gestione del traffico che ricadranno sul territorio o per le più diverse necessità i cittadini di tutto il Paese. O tutti insieme, con il governo nazionale, si trova una soluzione, oppure si dovranno sospendere le attività di prestigiose istituzioni culturali leggi il teatro dell’opera e ancora, sospendere il servizio dei trasporti notturno. Carne viva, provvedimenti incompatibili con la vita di una grande metropoli come Roma.
SITUAZIONE KAFKIANA
Il disavanzo di 867 milioni si è creato anche perché nel 2013 non è stato approvato il bilancio, l’amministrazione doveva utilizzare ogni mese solo un dodicesimo della spesa prevista per ogni settore nel bilancio 2012. Un metodo che avrebbe dovuto aiutare a mantenere sotto controllo la situazione. Intanto, sempre nel 2012, c’è stato un taglio ai trasferimenti di 572 milioni ma la giunta Alemanno ha continuato a spendere come se le risorse previste fossero effettivamente entrate. Un’altra situazione kafkiana, paradossale, è quella del trasporto pubblico.
Lo Stato non dà il finanziamento direttamente a Roma ma alla Regione Lazio, subordinandone il trasferimento al rientro dal debito sanitario. Questo marchingegno inventato quando Renata Polverini era presidente della Regione Lazio ha portato a zero il finanziamento del trasporto pubblico romano. Milano, con un terzo del territorio servito, riceve 290 milioni, Roma ne riceve zero nel 2013 e, se va bene, ne avrà 140 nel 2014. E i romani pagano due volte, per il servizio sanitario e per le condizioni del tra-
sporto pubblico. «Roba da Tso», da trattamento sanitario obbligatorio, dice Marino. E Nicola Zingaretti gli dà ragione, «abbiamo trovato, nel bilancio 2013 22 miliardi di debito e niente per il traspoto pubblico romano». Anunciando che ci vuole subito un incontro sulla questione dei trasporti.
Ignazio Marino promette di agire con rigore, eliminando gli sprechi, chiede ai romani di accompagnare gli sforzi del nuovo governo della città in questi ultimi mesi del 2013, «faremo anche dei sacrifici ma per rimettere in ordine i conti e ripartire nel 2014». Ma i servizi essenziali alla persona, dice il sindaco, non devono venire a mancare. Elenca ciò che è stato fatto e ciò che farà: «Dalle cessioni del patrimonio immobiliare ci aspettiamo che arrivino 200 milioni, chiuderemo le società inutili, quelle che si trovano in Guatemala oppure quelle formate da 5 persone, create per dare indennità di 170.000 euro ai consiglieri. Taglieremo di 15 volte il bilancio del gabinetto del sindaco, da 7,3 milioni a 500mila euro. Rivedremo i contratti di servizio e dal taglio degli affitti che il comune paga pensiamo di ricavare 105 milioni. Ricorda il protocollo firmato con Zingaretti per i progetti europei e i finanziamenti che dovranno arrivare da Bruxelles».
Ma deve essere chiaro che rientrare in tre mesi di 867 milioni è una mission impossible. Si ragiona sull’ipotesi di una riapertura del decreto che ha creato la «bad company» per il debito di Roma e sul trasferimento di una parte dell’Imu.

il Fatto 29.9.13
Capitale a rischio crack. Deficit di 867 milioni di euro
Ignazio Marino: “Solo 60 giorni per evitare il fallimento”
di Luca De Carolis


Due mesi prima del baratro. Sessanta giorni per evitare il fallimento della capitale d’Italia, schiacciata da un deficit di 867 milioni. Un’ora prima del big bang del governo, il sindaco di Roma Ignazio Marino parla in conferenza stampa. Annuncia: “Roma Capitale ha debiti per 867 milioni, nei bilanci passati non si teneva conto delle risorse davvero disponibili”. Poi invoca: “Faccio un appello a coloro che hanno senso di responsabilità e giustizia: vogliamo un confronto con il governo perché la capitale del Paese abbia ciò che le spetta. Roma non può e non deve fallire”. Pochi minuti dopo, le dimissioni dei ministri del Pdl. Pessima notizia per il primo cittadino, che ha bisogno di centinaia di milioni dal governo: “almeno 500” spiegano dal centrosinistra. E anche in fretta, perché il bilancio va approvato entro il 30 novembre. Altrimenti, ilCampidoglioverràcommissariato. E per l’amministrazione sarà fallimento. Scenario da apocalisse, su cui pesano i cinque anni troppo allegri della gestione Alemanno. Così si capisce la conferenza-appello di Marino, che promette tagli di spese e società inutili e la cessione di immobili. Accanto a lui, il vicesindaco Luigi Nieri, i capigruppo dei partiti e l’assessore al Bilancio, Daniela Morgante.
PRESENZE non scontate, perché negli ultimi giorni dentro il Palazzo Senatorio la tensione è stata altissima. Da una parte Marino, scontento della linea da lacrime e sangue preannunciata dalla Morgante per ripianare la voragine. Dall’altra l’assessore: magistrato della Corte dei Conti, tenace. In mezzo il Pd, che rimprovera al sindaco di decidere troppo spesso in solitudine. E che venerdì sulla Morgante, più che in bilico, ha fatto muro con dichiarazioni pubbliche. A suo sostegno, anche Cinque Stelle (“Non ha colpe”). Venerdì notte, difficile vertice di maggioranza. Con Marino a ripetere: “Non sarò il sindaco delle tasse”. E la Morgante a illustrare un piano da ultima spiaggia, con tagli da 500 milioni e aumento di tariffe varie: dall’Irpef alla tassa di soggiorno, sino all’innalzamento fittizio dell’aliquota Imu, per ottenere 130 milioni in più di rimborso dal governo. Ieri mattina su Repubblica l’assessore batteva un colpo: “C’è che mi vuole fuori della squadra, ma non ho intenzione di dimettermi”. In Comune, nuovo vertice. Il piano del-l’assessore imperniato (anche) sulle imposte riceve lo stop della maggioranza. “Non è sostenibile a livello politico” è il ragionamento. Ma viene sancita la tregua tra sindaco e Morgante. Marino decide che è il momento di dare i numeri ufficiali sui conti, mai comunicati dal suo insediamento in giugno. Inizia: “Abbiamo accumulato 867 milioni di debiti, dovuti a una gestione di dodicesimi (mese per mese, ndr) dei bilanci comunali passati, che non hanno mai tenuto conto delle risorse effettivamente disponibili”. Molto del debito viene dal taglio dei trasferimenti statali (-520 milioni) e dallo “zero” nella casella dei trasferimenti per il trasporto pubblico dalla Regione. I 140 milioni per il 2013 arriveranno solo l’anno prossimo, causa procedura di rientro per il debito della sanità regionale. Marino fa notare: “Milano, pure avendo un terzo della superficie di quella di Roma, riceve 290 milioni per il trasporto pubblico”.
IL LEGHISTA Matteo Salvini replicherà così: “Marino con un buco di 867 milioni ha il coraggio di chiedere ‘aiuti dal governo’. E poi vuole fare le Olimpiadi a Roma. Caro sindaco, con rispetto, ma va in mona! ”. Ma quello che conta ora è trovare soldi, di corsa. Marino: “Non aumenteremo l’Irpef e la Tares, probabilmente alzeremo l’Imu come hanno fatto altre città”. Annuncia la vendita di immobili comunali per un valore di 200 milioni e la liquidazione delle società inutili “come quelle con sede in Guatemala” (un ramo dell’Ama, rifiuti, ndr). Il sindaco continua: “Taglieremo gli affitti, che ci costano 105 milioni l’anno, e anche fondi inutili. Quelli per il gabinetto del sindaco scenderanno da 7,3 milioni a 500mila”. Ma il grosso deve arrivare dal governo. Il Comune chiede che gran parte del debito venga caricata su quello già commissariato e denaro fresco dalla Cassa depositi e prestiti. Dal Mef non sono arrivati buoni segnali. Ma in Campidoglio mostrano fiducia: “Nessuno può permettersi il fallimento di Roma, Pdl compreso”. Marino si appella “a tutti i parlamentari di Roma perché ci aiutino a parlare con governo e ministeri”. Francesco D’Ausilio (Pd) ribadisce: “Emerge in modo drammatico il disastro lasciato dall’amministrazione precedente. Pensavamo che piovesse e invece diluvia”. Ora serve l’ombrello, del governo. Ad avercelo.

Corriere 29.9.13
La Germania e le chiese: giuramenti e tasse ecclesiastiche
risponde Sergio Romano


Tutti sanno che la Germania è uno Stato laico. Lei invece ci parla di una Kirchensteuer prevista dalla legislazione fiscale della Repubblica federale tedesca. Che cos'è? Una tassa ecclesiastica?
Vanni Berti
Sesto Fiorentino

Caro Berti,
La Germania non è uno Stato laico, ma tutt'al più, secondo una espressione usata dal leader socialdemocratico Gerhard Schröder, «secolarizzato». Come in Italia, i rapporti della Germania con la Santa Sede sono regolati da un Concordato (firmato nel 1933, poco dopo l'avvento di Hitler al potere), vale a dire da un trattato con cui lo Stato cede alla Chiesa una parte della propria sovranità. La Costituzione non è stata scritta in nome di Dio o della Santissima Trinità, come altri testi costituzionali del passato, ma nel suo preambolo si legge che il testo è stato redatto «nella consapevolezza della responsabilità del popolo tedesco davanti a Dio e all'uomo». Quando un cancelliere presta giuramento all'inizio della sua carica, le parole conclusive della formula di rito sono «Con l'aiuto di Dio». Non sono obbligatorie e non sono state pronunciate da Schröder, ma sono certamente quelle con cui Angela Merkel comincerà il suo terzo mandato. Le ricordo fra parentesi, caro Berti, che al vertice dello Stato tedesco vi sono oggi due personalità con un forte profilo religioso: la cancelliera è figlia di un pastore protestante e il presidente della Repubblica (Joachim Gauck) è a sua volta ministro della Chiesa luterana. Non è sorprendente quindi che nelle classi tedesche, se i Länder lo consentono, vi sia spesso il crocifisso, che le suore insegnanti possano vestire l'abito religioso e che le istituzioni scolastiche offrano ai loro studenti i corsi di catechismo.
Non è laico, infine, uno Stato che si presta ad essere l'esattore fiscale di una istituzione religiosa. In Germania la Kirchensteuer (tassa ecclesiastica) viene pagata con la dichiarazione dei redditi da tutti coloro che si dichiarano membri di una comunità religiosa con cui lo Stato ha rapporti ufficiali. In una rassegna apparsa sul Sole 24 Ore di qualche anno fa leggo che il gettito, verso la metà dello scorso decennio, era pari a circa nove miliardi di euro e che dalla tassa sono esenti i bambini, i pensionati, i disoccupati, i contribuenti con un reddito particolarmente basso. Sembra che in questi ultimi anni sia aumentato il numero di quelli che dichiarano di non avere alcuna affiliazione religiosa e che le Chiese reagiscano cancellandoli dagli elenchi dei loro fedeli.

l’Unità 29.9.13
Arrestati i vertici di Alba Dorata
L’accusa è di associazione a delinquere. In prigione il leader del partito Michaloliakos e altri quattro deputati
Samaras: non si andrà al voto
di Teodoro Andreadis


Ieri è successo quello che in pochi, sino a pochi giorni fa, osavano realisticamente sperare: la giustizia greca ha emesso trentadue ordini di cattura per altrettanti deputati, membri e sostenitori di Alba Dorata. Tra loro, anche due poliziotti.
L’operazione è iniziata ieri mattina alle sette e dietro le sbarre sono finiti tanto il leader del partito, il cinquantacinquenne ex militare Nikos Michaloliakos e il trentaquattrenne portavoce Ilias Kassidiaris, candidato di Alba Dorata (Chrysì Avghì) alle prossime elezioni comunali di Atene. Inoltre, sono stati arrestati altri due deputati del partito ed il segretario della sezione del quartiere di Nìkea (Pireo). Nel pomeriggio, si è consegnato alle autorità, anche un quinto deputato, Nikos Michos.
Dieci giorni fa, l’assassinio del rapper trentaquattrenne antifascista Pavlos Fyssas, per mano di un estremista, sostenitore dei nazifascisti greci, Yorgos Roupakiàs. Da quel momento tutto è cambiato: l’indolenza e a volte connivenza delle istituzioni, si è trasformata in una continua, ininterrotta ricerca di prove, elementi incontrovertibili, testimonianze che potessero dimostrare il coinvolgimento di Alba Dorata nell’accaduto, e, più in generale, il suo carattere illegale ed antidemocratico.
Ieri, si è arrivati ad un primo importante risultato: secondo la Corte di Cassazione greca, che si è fatta carico del procedimento a quanto si è appreso sinora Michaloliàkos è a capo di una associazione a delinquere. Inoltre, secondo le prove raccolte, gli arrestati sarebbero accusati anche di riciclaggio di denaro sporco e corruzione. Il giornale di Atene Real News, nella sua edizione sul web, parla chiaramente di dieci tentati omicidii, due dei quali conclusisi con la morte del «nemico da abbattere»: quella del giovane rapper e di un immigrato pakistano. In tutto, i dossier che il ministro dell’Ordine pubblico, Nikos Dendias, ha inviato al pubblico ministero, sono trentadue, mentre gli arresti effettuati sino a ieri erano venti.
TRENTADUE INDAGATI
Dietro le sbarre sono finiti cinque deputati, tredici alti responsabili del partito neonazi e due agenti della polizia. In questo modo, il governo greco di coalizione intende dimostrare di essere assolutamente deciso a smantellare un partito che in realtà aveva fatto della violenza il suo metodo prediletto e quasi esclusivo, arrivando a minacciare e taglieggiare gli immigrati con la complicità di poliziotti.
Non a caso, nell’abitazione di Michaloliàkos, sono stati rinvenuti una pistola, un fucile da caccia ed una rivoltella. Oltre a quarantatrè mila euro in contanti.
Tutti cercano di capire, ora, quali saranno i più probabili sviluppi. Il governo greco promette «un giusto processo per gli arrestati», mentre il premier, Andònis Samaràs esclude il ricorso ad elezioni anticipate, che vengono richieste, invece, dalla sinistra eurocomunista di Syriza. «Il governo ha fatto ciò che sarebbe dovuto avvenire da molto tempo», commenta Alexis Tsipras, giovane leader degli eurocomunisti ed ecologisti. Ma il governo di coalizione (centrodestra e socialisti) in questo momento, è tutto impegnato a dimostrare di essere concentrato sulla necessità di ristabilire la legalità e il rispetto del diritto. A livello politico è probabile che il depotenziamento di Alba Dorata, avvantaggi maggiormente il centrodestra di Nuova Democrazia, visto che parte del suo elettorato era stato attratto dalle promesse populiste di questa organizzazione. Non si deve dimenticare che alle elezioni dello scorso anno, più di quattrocento mila persone avevano sostenuto gli esaltati di Chrysì Avghì.
Il primo ministro Samaràs deciderà a breve se intende andare realmente ad elezioni anticipate, come molti analisti ritengono probabile, nella speranza di potenziare la sua maggioranza parlamentare, sull’onda dello smantellamento di Alba Dorata. Un’operazione, tuttavia, che deve ancora essere portata a termine: lunedì dovrebbe essere decisa l’interruzione del finanziamento del partito e a breve, l’accusa di associazione a delinquere, potrebbe essere estesa dalle singole persone a tutta la formazione politica neonazista.
Due gli elementi che devono ancora essere verificati: innanzitutto, se i membri del gruppo dirigente ancora non toccati dalle indagini, cercheranno di giocare la carta della tensione. È difficile pensare, a questo punto, a tentativi di golpe. Ma l’estrema destra, purtroppo, sa bene, come colpire in modo cieco e violento. Ieri pomeriggio, i militanti del partito si sono limitati a manifestare davanti alla sede centrale della polizia e all’esterno del tribunale.L’altro motivo di riflessione, riguarda la società e l’economia greca nel suo complesso. I partiti, l’Europa, gli organismi internazionali, riusciranno a fare in modo che il forte disagio creato da cinque anni di crisi diminuisca davvero levando spazio ai nostalgici di Michaloliàkos?

Corriere 29.9.13
I «guerrieri» della razza che aiutano gli anziani e picchiano gli immigrati
di Davide Frattini


Il «Protetto» aveva già perso l’immunità parlamentare a marzo e avrebbe dovuto essere processato per aver tirato un pugno e l’acqua di un bicchiere in faccia a due deputate durante un programma televisivo. Ilias Kasidiaris, 32 anni, è il portavoce di «Alba Dorata» e i camerati gli hanno dato quel soprannome perché è il più legato al leader Nikos Michaloliakos. Come lui ha servito nelle forze speciali (Michaloliakos è stato radiato dall’esercito per possesso illegale di armi) e come lui è convinto che l’Olocausto sia un’invenzione: «La percezione dominante in Europa è che 6 milioni di ebrei siano stati uccisi. La Storia ha dimostrato che è una bugia». In galera — dov’è finito ieri assieme al suo capo — avrebbe voluto spedire gli altri: «La nostra priorità è metter dentro i politici corrotti che hanno sperperato il denaro della Grecia». Gli immigrati clandestini — ha sempre avvertito — non vanno incarcerati ma espulsi: «Dobbiamo minare le frontiere con la Turchia per impedire loro di entrare».
Anche gli altri militanti del partito amano fregiarsi con nomi di battaglia: Stylianos Vlamakis è detto il «Fornaio» da quando si è fatto fotografare sorridente davanti ai buchi neri di Dachau e gli amici hanno commentato sul suo profilo Facebook «servivano a cuocere il pane». George Germenis si fa chiamare «Kaiadas» come la rupe dove gli spartani abbandonavano alla morte i neonati disabili. I guerrieri dell’antica Grecia alimentano la mitologia del movimento (il simbolo è un meandro su campo rosso che ricorda una svastica). Ad agosto si sono ritrovati sull’isola di Creta per un periodo di addestramento: sfide con gli scudi e le lance, seminari dedicati alla «purezza della razza».
Adesso i magistrati greci sostengono che «Alba Dorata» abbia gestito anche campi di addestramento paramilitare più seri, con l’appoggio di ufficiali delle forze armate. I colonnelli e la dittatura caduta nel 1974 sono il modello di Michaloliakos: cerca di imitare lo stile oratorio di Georgios Papadopoulos, l’ufficiale che guidò il colpo di Stato. «Abbiamo una struttura combattente di almeno tremila uomini pronti a qualsiasi missione», ha proclamato un attivista al giornale To Vima .
Di certo le squadracce delle magliette nere (armate di mazze e coltelli) si sono mosse in questi anni come un esercito per le strade di Atene, tra offerte di protezione e taglieggiamento. Le ronde nelle zone più degradate della capitale sono servite a raccogliere consensi tra i greci colpiti dalla crisi: gli attivisti distribuiscono piatti caldi e vestiti, accompagnano gli anziani a ritirare la pensione, cacciano gli immigrati dagli appartamenti occupati abusivamente, chiedono la carta d’identità ai passanti e chi non è greco viene bastonato.
Il successo politico ha spinto i leader del partito a pianificare nei mesi scorsi un’espansione internazionale, in Europa e negli Stati Uniti, «ovunque ci siano greci». L’ambizione era però conquistare Atene alle elezioni municipali dell’anno prossimo: la marcia di Michaloliakos è cominciata quando è entrato (con un saluto a mano tesa) nel consiglio comunale della capitale e il sindaco Giorgos Kaminis è diventato un bersaglio del gruppo dopo aver deciso di impedirne le manifestazioni nelle piazze più importanti. La risposta di «Alba Dorata» è stata mandare un parlamentare a minacciarlo: ha cercato di colpirlo con un pugno e di puntargli la pistola in faccia.

l’Unità 29.9.13
Austria
Oggi alle urne e torna lo spettro dell’estrema destra


Appena una settimana dopo le elezioni tedesche oggi si vota in Austria. Sono 6.4 milioni gli elettori chiamati alle urne per rinnovare il «Nationalrat», il Parlamento di un paese che vanta un’economia in crescita e un tasso di disoccupazione tra i più bassi d’Europa (il 4.8%) al termine di una campagna elettorale ritenuta fiacca e noiosa dai principali media. Data praticamente per certa la riedizione della Grosse Koalition dei socialdemocratici della Spoe e dei conservatori della Oevp, alla guida del paese degli ultimi cinque anni, l’unica vera possibile sorpresa è rappresentata dall’estrema destra. Il partito xenofofo della Fpoe del defunto leader Joerg Haider, ora guidato da Heinz-Christian Strache, viene attestato dai sondaggi al 20% e punterebbe a sorpassare nientemeno che la Oevp per diventare il secondo partito.
La Spoe del cancelliere Werner Faymann dovrebbe rimanere, invece, il primo partito con il 27% dei voti, ma l’erosione dei voti prevista per gli alleati democristiani della Oevp del vice cancelliere Michael Spindelegger, dati al 22%, pare rendere necessaria la ricerca di un’alleanza dei due partiti, i quali si fermerebbero insieme al 49%, ottenendo il risultato peggiore degli ultimi 68 anni. Escluso a priori un accordo con l’estrema destra l’unica possibilità è l’alleanza con i Verdi (Gruene), accreditati al 15%.

Repubblica 29.9.13
Russia
Sciopero della fame, ricoverata una Pussy Riot

MOSCA — Nadia Tolokonnikova, una delle Pussy Riot in carcere, in sciopero della fame da lunedì, sta male ed è stata trasferita nell’infermeria del campo di lavoro femminile n.14 a Mordovia. Aveva iniziato lo sciopero denunciando minacce di morte seguite alle sue proteste per le condizioni di lavoro nel campo.

il Fatto 29.9.13
Cina, il giorno dell’autocritica in tv


Con un’iniziativa che ricorda i tempi del maoismo e della Rivoluzione culturale, il presidente cinese Xi Jinping ha personalmente partecipato a una serie di sessioni di “critica e autocritica” con i funzionari del Partito comunista dell’Hebei, la provincia che circonda la capitale Pechino. LaPresse

Repubblica 29.9.13
Dopo la storica apertura Usa all’Iran
 È iniziata “l’operazione disgelo” ma Obama deve convincere Israele
Domani il vertice con Netanyahu. I repubblicani: “È un bluff”
di Federico Rampini


NEW YORK — La prossima missione per Barack Obama, domani, sarà “vendere” l’operazione-disgelo con l’Iran al più scettico di tutti: il premier israeliano Benjamin Netanyahu in arrivo alla Casa Bianca. Verso la destra americana Obama ha già segnato dei punti. Lo spettacolo delle contestazioni contro Hassan Rohani al suo ritorno a Teheran, conferma che la svolta del neopresidente non è un bluff, scatena resistenze tra i pasdaran.
Nell’indagare i retroscena della svolta storica, sfociata nella prima telefonata tra i presidenti americano e iraniano in 34 anni, si scopre che a prendere l’iniziativa sono stati gli iraniani. Anche se la telefonata è partita dalla Casa Bianca, la richiesta l’aveva fatta la delegazione di Teheran poco prima di lasciare New York. Spettava a loro, in un certo senso. Perché erano stati loro a “ritirare la mano”, quando martedì sera all’Onu lo staff di Obama li aveva sondati per improvvisare un faccia a faccia diretto. Di fronte a un evento cosìclamoroso, il timore di reazioni durissime a Teheran aveva consigliato alla delegazione iraniana di soprassedere. E così il colloquio telefonico è avvenuto venerdì proprio mentre la colonna di auto scortate dalla polizia, con Rohani in partenza verso l’aeroporto, stava cimentandosi con il traffico impazzito di Manhattan (donde le “scuse” di Obama all’ospite straniero, per gli ingorghi stradali). 15 minuti di conversazione telefonica, conclusi con ciascuno che salutava nella lingua dell’altro (“Have a nice day”, “Khodahfez”), hanno rotto l’incomunicabilità che durava dalla crisi degli ostaggi americani a Teheran nel 1979. L’ultimo segnale era arrivato proprio poche ore prima della partenza della delegazione iraniana: nella conferenza stampa finale Rohani aveva citato Stati Uniti e Iran come “due grandi nazioni”, un linguaggio insolitamente rispettoso per il leader di un paese dove il nome America veniva spesso accompagnato dalla definizione Grande Satana.
In America le diffidenze non sono certo dissipate. Se ne fa portavoce il leader della maggioranza repubblicana alla camera, Eric Cantor, che attacca Obama per non avere denunciato il sostegno dell’Iran a gruppi estremisti (Hezbollah in testa) e gli abusi contro i diritti umani che continuano ad essere perpetrati a Teheran. Cantor riprende un leitmotiv familiare, sottolineando che non è Rohani l’uomo forte del regime bensì l’ayatollah Ali Khamenei, a cui spetta la parola su questioni strategiche come lo sviluppo del nucleare. Peraltro, a quest’obiezione Rohani aveva risposto in diverse interviste a media americani prima di lasciare New York, nelle quali si era premurato di confermare l’appoggio di Khamenei alla sua linea di negoziato sul nucleare.
Per Obama l’avvio del disgelocon l’Iran resta però la prima notizia positiva sul fronte della politica estera, che gli ha riservato scarse soddisfazioni in Medio oriente. Ancora pochi giorni fa un sondaggio del New York Times rivelava che la maggioranza degli americani gli assegna un voto basso in politica estera. È la conseguenza di quanto accaduto nelle primavere arabe, dove gli eventi in Libia e in Egitto hanno smorzato gli entusiasmi e messo a nudo errori, contraddizioni, tentennamenti della politica americana. Fino alla vicenda siriana, dove Obama si era spinto a chiedere l’autorizzazione del Congresso per l’intervento militare, e rischiava di non ottenerla. Sull’Iran forse inizia un’inversione di tendenza. Tantopiù significativa, perché il “giovane Obama” si era esposto moltissimo nella prima campagna presidenziale, dichiarandosi nel 2008 «pronto a incontrare i leader iraniani senza porre condizioni preliminari», annuncio che allora fu subissato di critiche da destra.
Ora la Casa Bianca è attenta a non eccedere nell’ottimismo. «È troppo presto – dice la responsabile della sicurezza nazionale Susan Rice – per scommettere su un accordo nucleare. Non ci facciamo illusioni. Ma se si riuscisse a cominciare da una soluzione sul programma nucleare, e aggiungervi la fine del sostegno iraniano al terrorismo, allora comincerà una discussione seria sul futuro».

il Fatto 29.9.13
Da Assad a Zawahiri, prima dottore poi dittatore
I medici divenuti carnefici: dall’attualità al recente passato, i casi nei quali una spinta umanitaria si è trasformata in crimine
di Caterina Soffici


Bashar Al Assad era il fratello timido e riservato. Per questo il padre Hafez l’aveva tenuto fuori dalla linea ereditaria della dinastia Assad e destinato a una carriera accademica. Basil, il maggiore, era il successore naturale alla guida del Paese, aggressivo e bramoso di gloria. Il minore, invece, Maher, un buono a nulla, e ritenuto “pazzo” da suo padre. In questo quadretto familiare, il tranquillo Bashar fu indirizzato sugli studi medici e dopo essersi laureato aveva scelto di specializzarsi in oculistica, in modo da stare il più lontano possibile dal sangue, che gli dava fastidio. Poi accadde che Basil morì in un incidente d’auto e toccò al povero oculista di salire al potere.
È LO SPUNTO PER RACCONTARE una cosa curiosa: molti degli uomini più sanguinari che attraversano la storia recente si sono laureati in Medicina e in una prima vita sono stati dei dottori. Cioè hanno pronunciato il giuramento di Ippocrate, che vincola il medico a fare di tutto per salvare la vita umana, sacra e inviolabile e non usare le sue conoscenze contro l’essere umano ma per il suo bene. Cosa li ha portati così lontani dalle origini? È gente che a un certo punto ha cambiato radicalmente la propria vita, con una inversione a U, 180 gradi in direzione opposta e contraria. Un paradosso o forse una legge del contrappasso. O forse semplicemente una legge dei numeri, per cui una percentuale di mele viene con il baco. Però la lista dei dottori-dittatori è abbastanza inquietante.
Il terribile Hasting Kamuzu Banda, che ha tenuto nel terrore il Malawi per 40 anni, aveva studiato Medicina nel Tennessee e poi si era laureato alla Edimburgh University nel 1941 e aveva esercitato come medico a Londra curando le malattie veneree dei soldati durante la guerra. Poi era tornato in patria dove aveva sterminato l’opposizione con sistemi non proprio “ippocratici” e si era fatto nominare presidente a vita, morto a oltre 100 anni (evidentemente la medicina su se stesso la sapeva applicare bene).
Per non dire di Francois Duvalier, che si faceva chiamare con il soprannome paternalista di “Papa Doc”, presidente di Haiti dal 57 fino alla morte, nel 1971. Aveva studiato da medico, aveva fatto pratica nelle campagne, era diventato direttore del servizio sanitario nazionale e poi ministro della Salute prima di prendere il potere e usare la sua arte medica (e anche le credenze magiche del vudu) per tenere Haiti sotto il pugno del terrore e della tortura. Nel periodo del suo potere sono stati uccisi 30mila oppositori. Ma anche l’ex leader serbo bosniaco Radovan Karadzic, sotto processo per crimini di guerra e genocidio dal Tribunale dell’Aja, nella sua prima vita è stato un medico, specializzato in Psichiatria, ed era divenuto popolare come dottore della nazionale serba di calcio.
FACENDO UN SALTO INDIETRO nel passato, più nei libri di storia che nella memoria, troviamo William Walker. Nessuno oggi sa più chi sia, ma era anche lui un medico, divenuto generalissimo del Nicaragua nel 1856, arrivato al potere dopo una breve ma intensa vita di avventure e malvagità. È durato poco, lo assassinarono a soli 36 anni nel 1860. E come lui un altro da ripescare negli archivi della storia è un altro dittatore africano: Felix Houphouet-Boigny, il despota della Costa d’Avorio, che aveva iniziato la sua folgorante carriera come medico e poi era stato funzionario di vari ministeri prima di diventare l’uomo ombra dei francesi negli anni 50 e poi dittatore alla guida del Paese per altri 30 anni.
Ma non finisce qui, perché anche tra i terroristi e tra coloro che hanno compiuto efferati attentati è pieno di medici laureati. Il più famoso è al-Zawahiri, braccio destro di bin Laden e mente dell’attentato dell’11 settembre, ora leader ufficiale di Al Qaeda. Era un dottore (pare sia stato anche il medico personale di bin Laden), era stato chirurgo in un ospedale di Gedda, Arabia Saudita e poi in Pakistan. Era medico anche Abdel Aziz Rantisi, tra i fondatori di Hamas, fondamentalista e ideatore della strategia degli attacchi suicidi contro i civili in Israele (ucciso poi in un blitz delle teste di cuoio israeliane).

La Stampa 29.9.13
Reportage
Ciudad Juarez la città dove si muore senza un perché
In Messico dove i narcos spadroneggiano fra omertà e paura
La militarizzazione dei quartieri ha generato solo più violenza
di Federico Varese

criminologo, insegna alla Oxford University Il suo ultimo libro è «Mafie in movimento»

5000 i morti ammazzati nel conflitto del narcotraffico in soli due anni. Ciudad Juarez è controllata dal cartello di Sinaloa
20-40 miliardi è il fatturato annuale del narcotraffico in Messico
I narcos sono «specializzati» nel commercio di cocaina verso gli Usa
I cartelli della droga hanno preso il controllo diretto dell’80% del territorio messicano, la quasi totalità delle città
La gente si organizza in gruppi culturali e sociali e cerca di sostituirsi allo Stato assente

Ciudad Juarez. Una leggera brezza rinfresca l’aria serale a Ciudad Juarez. Dopo le piogge torrenziali di qualche settimana fa, il bel tempo ha riportato nelle strade gli abitanti di questa città martoriata, che ha il triste primato di essere la più pericolosa del pianeta, con picchi di tremila omicidi l’anno. Qui i narcos si contendono i corridoi per far entrare droga e immigrati illegali in Texas, e qui sono stati trovati i corpi stuprati e mutilati di più di seicento operaie, mentre tremila donne risultano disperse dal 1993. Oggi però Ciudad Juarez è vestita a festa e nella piazza principale decine di anziani si godono il sole. Il Kentucky Club sembra tornato ai fasti degli anni cinquanta, quando era il locale preferito di Marilyn Monroe e Frank Sinatra.
Ma la follia degli uomini non si accorda con la mitezza della natura: al numero 4610 di El Porvenir, a pochi chilometri da dove mi trovo, due uomini incappucciati scendono da una macchina armati di AK-47. Nel cortile della casa una trentina di persone sta celebrando la vittoria in un torneo di baseball. Il trofeo è appoggiato su un tavolo di plastica, sotto un albero che ha visto tempi migliori. Intorno vi è la squadra al completo, oltre all’allenatore, i genitori, le sorelle, e molti bambini. Mentre si alzano i calici per l’ennesimo brindisi, il commando apre il fuoco. Bastano due minuti per uccidere dieci persone, la maggior parte ragazzi tra i quindici e i vent’anni: Antonio, Ricardo, Jesús, Luis, José, Julio, Martín, Maria, Perla (di sei anni) e Edgar, lo stesso nome di mio figlio. «Non capiamo cosa sia successo, perché sia successo, erano persone perbene, non avevano mai fatto del male a nessuno» dichiara la sorella di una delle vittime a «El Diario», il quotidiano locale che a sua volta ha visto morire ammazzati quattro giornalisti negli ultimi anni.
Il giorno dopo abbondano le teorie più disparate su questa strage che è passata quasi inosservata sulla stampa internazionale. Forse il movente va ricercato nelle scommesse clandestine; o forse i giovani che furono allontanati dal campo durante un match del luglio scorso si sono voluti vendicare, o - spiegazione che non manca mai – si è trattato di un regolamento di conti tra i due cartelli che si contendono la città, Sinaloa e La Linea. Ugualmente possibile, un errore del navigatore ha fatto fermare la macchina all’indirizzo sbagliato. Tra i miei interlocutori l’unica certezza è che la polizia non risolverà mai il caso.
E pensare che la mia domenica a Ciudad Juarez era iniziata nel migliore dei modi. Alle dieci avevo incontrato Gustavo Ruiz, un animatore culturale di trentadue anni. Sofisticato, cosmopolita e colto, Gustavo è tornato a vivere a Juarez da Città del Messico nel 2009, all’apice della «guerra» tra i due cartelli, per stare vicino alla sua famiglia e cercare di organizzare una rete civica di reazione alla violenza. «All’epoca, solo i giovani sotto i venticinque anni non erano rassegnati e impauriti», dice. Oggi Gustavo lavora per diverse Ong, ha un contratto con il museo di antropologia e ha fondato una comune di artisti. Ci incontriamo al mercato della città, un tempo la meta di migliaia di turisti e oggi quasi deserto («solo il 15% dei negozi sono aperti»). In un ristorante sulla piazza partecipo alla riunione di un gruppo di appassionati di storia locale che si riunisce tutte le domeniche per recuperare la memoria della città attraverso vecchie foto e oggetti di famiglia. Si scambiano ricordi sui palazzi storici di Juarez, mostrano cartoline sbiadite protette da buste di plastica. Dopo una lunga colazione, il gruppo va a visitare un angolo particolarmente significativo di Juarez. Oggi è la volta di una chiesa gravemente danneggiata dalle piogge torrenziali. Sono apolitici ma agguerriti. Per un attimo penso che questi signori si rifugiano nel passato per evitare di guardare in faccia gli orrori di oggi. Ma presto mi ricredo: fare qualunque cosa in questa città è una sfida contro l’apatia, contro la tentazione di chiudersi in se stessi. Uscire per strada, occupare spazi comuni come il bar in una piazza semideserta, documentare il proprio passato e protestare contro il degrado dei monumenti sono atti concreti di ribellione. Immagino che sia altrettanto rischioso collezionare francobolli a Kabul.
Io però non mi unisco al loro viaggio di studio e seguo invece Luis Chaparro, un giornalista trentenne di «El Diario» che, dopo essere stato costretto a fuggire di là dal confine per nove mesi a causa una minaccia di morte, ora è tornato nella sua città natale. «Non potrei vivere altrove», dice. Attraversiamo a piedi Mariscal, fino a pochi anni fa la zona a luci rosse di Juarez e ancora sotto il controllo del cartello La Linea. Il governo ha deciso di radere al suolo i locali notturni. Vedo solo costruzioni diroccate, un muro con l’affresco di una ballerina è tutto ciò che rimane di una famosa discoteca. Il cartello di Sinaloa, che può contare su forti legami anche di sangue con i narcos locali, ha costretto i rivali de La Linea a ritirarsi in un’area limitata e poco appetibile di Juarez. Secondo alcuni è questa la ragione per cui la violenza è diminuita nel 2013 (appena trecento omicidi quest’anno). Altri, come il musicista, scrittore e gestore dello splendido bar La Cucaracha, Roberto Lopez, pensano che governo e stampa abbiano solo smesso di registrare il numero di morti.
Tutte le istituzioni sembrano compromesse. Quando nel 2008 il governo centrale decise di spedire l’esercito, furono istituiti decine di posti di blocco, gestisti dalla polizia locale, federale e dall’esercito. Gli automobilisti venivano fatti scendere dalle auto, senza poter prendere alcun oggetto personale. Gli agenti perquisivano la macchina e, senza eccezione, rubavano iPhone, carte di credito e denaro. La presenza dell’esercito non ha fatto che aumentare il tasso di violenza e il numero di vittime innocenti. Sembra che l’unica speranza, dicono in molti, sia che un cartello «ragionevole» prenda in mano la situazione e introduca un po’ d’ordine. Eppure anche questa è una triste meta lontana. Qui la violenza è democratica e fluida, vi sono decine di gruppi armati affiliati ora ad un cartello ora ad un altro. Gran parte delle armi arriva direttamente dagli Stati Uniti, dove acquistare questa merce è facile come comprare il pane. I doganieri messicani sul ponte che collega El Paso a Juarez si guardano bene dall’ispezionare le merci in transito verso il Messico. Mentre il dibattito internazionale è monopolizzato dalle ragioni pro e contro la liberalizzazione della droga, un gesto concreto sarebbe imporre maggiori controlli sul commercio (legale e illegale) di armi verso il Messico. Paradossalmente, avrebbe un effetto maggiore della liberalizzazione immediata della droga nel ridurre la violenza.
In macchina ci spingiamo fino ad Anapra, un quartiere senza acqua corrente ed elettricità che sorge ai piedi della collina dove furono ritrovati i corpi mutilati di molte donne impiegate nelle fabbriche maquiladoras, la versione messicana degli stabilimenti asiatici dove si producono a basso costo merci d’esportazione e si lavora a ritmi massacranti. Lo sviluppo economico incontrollato ha prodotto la crescita del Pil locale, ma anche crimini efferati. Chiedo a Kerry Doyle, che ha vissuto per quasi dieci anni ad Anapra prima di diventare la direttrice del Rubin Centre for the Visual Arts all’Università di El Paso, se si è fatta un’idea sui colpevoli. Dopo una lunga pausa, mi dice: «Non lo so. Le ipotesi avanzate sono tante, ma nessuna è mai stata confermata o smentita. L’impunità diffusa genera ignoranza». Migliaia di donne sono state violentate e uccise semplicemente perché era possibile farlo senza timore di essere scoperti. Non vi è un colpevole o un motivo singolo.
Kerry ha ragione. In questa parte del mondo non esiste una narrazione credibile su eventi chiave, suffragata da prove passate al vaglio di un aula di tribunale e valutate criticamente dalla libera stampa. Le indagini non si fanno e i giornalisti vengono uccisi. Gli esperti occidentali delle drug wars messicane attribuiscono ogni morto, ogni strage a sofisticati disegni dei capi narcos. Nessuno sembra accorgersi che la violenza qui è solo in parte legata a conflitti tra trafficanti. Una lite tra vicini può sfociare in un massacro che sembra un regolamento di conti. Ma non lo sapremo mai. Come non sapremo mai perché dieci vite sono state interrotte dopo una partita di baseball una sera di settembre. Abbiamo però la certezza che alcuni cittadini di Juarez non si faranno paralizzare dalla paura e continueranno a mangiare burritos, huevos e tortillas in una piazza semideserta tutte le domeniche, alle dieci di mattina. Una comunità, per dirsi civile, non deve aver paura di mostrare il proprio volto.

La Stampa 29.9.13
La nuova legge
Soros sponsor della marijuana di Stato in Uruguay
di Paolo Manzo


San Paolo Un viaggio a New York di appena 48 ore che però ha fruttato al presidente dell’Uruguay José «Pepe» Mujica l’appoggio nientedimeno che di due magnati del calibro di George Soros e David Rockfeller, che da soli godono di una fortuna di 20 miliardi di euro ciascuno, quasi il 50% di quanto l’Uruguay è in grado di produrre in un anno. Sul piatto della bilancia la vexata quaestio della legalizzazione della marijuana, che Mujica appoggia da tempo.
Proprio il mese scorso la Camera di Montevideo ha approvato una rivoluzionaria riforma che segna una svolta nelle politiche sulla droga.
Con la nuova legge, infatti, sarà lo Stato a regolare produzione, distribuzione e vendita dei prodotti derivati dalla cannabis. In particolare nel testo si specifica che il controllo avverrà «direttamente o attraverso istituzioni alle quali si darà mandato legale». Il che spiega l’incontro newyorchese. Sia Soros che Rockfeller, infatti, promuovono attraverso le loro rispettive fondazioni la liberalizzazione della droga e si sono detti disposti ad appoggiare Muijica sul tema.
In visita a casa dell’attempato Rockfeller, 98 anni portati splendidamente come conviene ad un vero patriarca, il presidente dell’Uruguay, noto per la sua semplicità di vita, avrebbe detto: «Lei è il simbolo di un mondo diverso dal mio, ma noi riconosciamo sempre tutte le realtà». E la realtà di David attraversa, guidandola, la storia degli Stati Uniti dal momento che è il nipote del multimiliardario John D. Rockfeller, fondatore della Standard Oil.
Nell’incontro il 98enne ha chiesto i dettagli della nuova legge che attende ancora l’ok del Senato. «Mi ha detto di essere interessato a quanto sta succedendo nel mio paese» ha rivelato Mujica. Che il giorno prima aveva incontrato anche Soros, 83 anni, capo della fondazione «Open Society» e già schieratosi a favore della nuova legge per l’approvazione della quale ha finanziato persino la campagna televisiva di una Ong coinvolta nel progetto di Mujica.
«Soros insiste sul fatto che la politica contro il narcotraffico non dà risultati ha dichiarato “Pepe” dopo l’incontro - non conosce l’Uruguay ma presto lo conoscerà». Ad entrambi i magnati il Presidente ha spiegato che l’Uruguay può diventare davvero un paese pioniere nel mondo per quanto riguarda la legalizzazione della marijuana, proprio in virtù delle sue piccole dimensioni. «La parte più importante è bloccare il mercato dei narcos - questo dunque il suo messaggio portato a New York - avvicinandosi a chi consuma questa droga, oggi di fatto un clandestino, per non lasciarlo nelle mani della criminalità. E nei casi più gravi per assisterlo come un qualsiasi malato».

Repubblica 29.9.13
Indonesia, migliaia di agenti mobilitati per difendere il concorso dalle minacce dei fondamentalisti
Miss Mondo, Bali “censura” la finale niente bikini per paura degli islamisti
di Raimondo Bultrini


BANGKOK — Abbigliata con un abito aderente e scintillante ma le gambe coperte, la 23enne filippina Megan Young ha conquistato la corona di Miss Mondo al termine del concorso più contestato della sua storia. Per far concludere senza incidenti la serata finale in Indonesia, già spostata per motivi di sicurezza dalla periferia della capitale Giakarta alla più liberale Bali, migliaia di poliziotti erano stati dislocati tra le coste dell’Isola a maggioranza induista e quelle dell’islamica Lombok. Si temevano infatti — ed erano statiannunciati — disordini e perfino assalti in barca da parte dei fondamentalisti del “Fronte di difesa islamico”, che per settimane hanno protestato in corteo attraverso l’arcipelago esibendo cartelli con scritto: “Miss Mondo, il concorso delle puttane”, “Andate all’inferno”.
Per evitare ulteriori guai, dopo aver cambiato in pochi giorni centinaia di prenotazioni alberghiere e aeree a causa del trasferimento di sede, gli organizzatori hanno preferito far esibire in passerella le 127 bellezze da tutto il pianeta senza i tradizionali bikini del passato, ma con il costume aun pezzo coperto da tradizionali sarong balinesi, lasciando alle scollature e agli spacchi delle gonne l’unico spazio di trasgressione in un concorso mai così morigerato dal suo esordio nel 1951.
Ma nonostante le cautele del governo e degli organizzatori, lavoce dei gruppi ortodossi ha continuato a farsi sentire minacciosa fino alla vigilia. Alcuni sono giunti a contestare perfino un concorso alternativo che si è tenuto a Giakarta nei giorni scorsi per eleggere Miss Musulmana, ovvero la reginetta dei Paesi islamici scelta tra 500 concorrenti in velo. Il titolo è andato a una nigeriana di 21 anni, Obabiyi Aishah Ajibola, che all’annuncio del suo nome si è prostrata a terra in lacrime per pregare Allah. In palio c’erano i soldi per un viaggio alla Mecca, e alle concorrenti vestite da capo a piedi era richiesta la perfetta recitazione del Corano.
Ben più ricco è il premio vinto invece da Miss Filippine Megan Young davanti a Miss Francia e Miss Ghana. Oltre a un anno di lussuosa permanenza a Londra a spese degli organizzatori, ottiene infatti diverse offerte di lavori pubblicitari e cinematografici. La neo-reginetta ha promesso che sarà «la migliore Miss Mondo di sempre». Il concorso blindato è stato anche una sorta di prova generale per le misure di sicurezza in vista del prossimo vertice a Bali dell’Apec con 21 capi di Stato tra i quali Obama e il presidente cinese Xi Jinping.

il Fatto 29.9.13
Un libro di Sandra Bonsanti
Stato e antistato: un gioco criminale
di Gustavo Zagrebelsky


Il potere all’assalto dei confini fragili tra Stato e Antistato
DALL’OMICIDIO LIMA ALLE STRAGI DI MAFIA FINO A OGGI, LA REPUBBLICA MALATA RACCONTATA DA SANDRA BONSANTI

Nell’esercizio di memoria che Sandra Bonsanti ci propone, sono ripercorse le tappe principali della storia nichilista e criminale del rapporto potere-denaro svoltosi negli ultimi decenni e nascosto sotto il manto della democrazia. Questa è la chiave per la comprensione di che cosa significa il titolo dell’ultimo capitolo: ‘Stato e Antistato’, dove si discute del rapporto degenerato tra queste due realtà con riferimento soprattutto al passaggio capitale (e tuttora rimasto avvolto nel mistero) dell’uccisione di Salvo Lima, della stagione delle stragi, del riassetto, tramite trattative, dei rapporti con la politica, dell’isolamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e del criminale abbandono alla violenza mafiosa di cui sono stati vittime.
LA TRAMA di questo rapporto era intessuta già da molto tempo, fin dalla Costituente. I fili nascosti si chiamano neofascismo sopravvissuto e protetto dopo la caduta del regime, mafie di varia natura e collocazione geografica, consorterie e poteri occulti, massoneria deviata e magistrati corrotti, P2 (“cabina di regia”, “Fondazione” di tante trame, crogiolo di quel sedicente Piano di rinascita che attirò l’interesse perfino del presidente della Repubblica d’allora), servizi segreti, Gladio e Noto servizio (struttura persa nelle nebbie dell’oblio), uomini politici compromessi, pesci da fondo e giovani arrembanti, tutti variamente coinvolti in traffici e “affari”, spesso “soci in affari” i cui rapporti sono rimessi alla cura di quella figura, anzi di quella vera e propria professione, tutta nostra, del “faccendiere” (cosa diversa dal lobbista). L’Italia, dietro l’apparenza e la retorica della vita bella o della bella vita, è un Paese tragico. Chi ha fatto il conto di tutti morti? E in quale altro Paese vicino al nostro il saldo sarebbe così tragicamente elevato? La causa è comune. Tutti i grandi scandali economico-finanziari (Calvi, Ior, Banco Ambrosiano, Banca privata italiana, Italcasse, ecc.), tutte le tragedie e gli assassinii politici (su tutti, l’assassinio di Aldo Moro, ma anche di Piersanti Mattarella e di tanti uomini delle istituzioni: amministratori non compromessi, magistrati, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine e servitori dello Stato impegnati a far luce in quella trama), stragi di semplici cittadini la cui morte innocente fu messa su un piatto della bilancia per ottenere posizioni di potere sull’altro piatto: tutto questo si spiega alla luce di una lotta che, alla fin fine, ha per posta flussi illeciti di denaro, equilibri politico economico finanziari, appropriazioni indebite di risorse pubbliche. La Repubblica, malgrado tutto, ha retto. Ma a quale prezzo! Si può pensare che, se la Repubblica non è andata in pezzi, è stato soprattutto perché l’impasto di questi fattori non è riuscito a coagularsi in un blocco d’interessi compatto e in un progetto eversivo efficace, prima ancora che per la resistenza delle forze costituzionali che, in verità, solo all’epoca del terrorismo sono state messe alla prova: dunque, avendo di fronte a sé un nemico di tutt’altra natura. Quale natura? Allora si trattava di un conflitto definito nei termini di Stato e Antistato. E si comprende come sia stata possibile la coalizione di tutto ciò (interessi legittimi e illegittimi) che stava nello Stato, cioè la coalizione dell’establishment senza tante distinzioni, contro le forze che tentavano di sconfiggerlo, in blocco.
OGGI, la distinzione e i confini sono molto meno netti, sono labili, aggirabili, ambigui. Si discute di “doppio Stato”, di “sotto-Stato”, di “sovra-Stato”, di “criptogoverno”: tutte espressioni che non sembrano adeguate a descrivere quella che è una commistione, fatta di cointeressenze, compromissioni, condivisioni, inquinamenti, trattative e accordi di potere, compiacenze e favoreggiamenti nei confronti di comportamenti illeciti: dai favoritismi nelle pubbliche gare e dalla tolleranza verso gli evasori fiscali, all’espropriazione dei risparmiatori per operazioni finanziarie spericolate, all’uso del denaro per comperare la politica e i politici. Perciò, la cospirazione contro lo Stato è capillare, non necessariamente pianificata da una mente complottista, ma non per questo meno pericolosa. È più pericolosa, perché non solo il nemico è meno visibile, anzi spesso è invisibile, ma, soprattutto, è più difficile definire e sua forma più greve e brutale come garanzia del denaro e del potere, sorreggentisi reciprocamente e spudoratamente, magari sotto forma delle esigenze dei “mercati”, parallele a quelle che, prima, erano le esigenze della “libertà”.
Tratto dalla postfazione de “Il gioco grande del potere”

Repubblica 29.9.13
La lezione civile di Sandra Bonsanti
di Simonetta Fiori


«Sandra è comeuna spugna», diceva il suo primo direttore, Arrigo Benedetti. «La mandi in un posto o da una persona, e lei assorbe tutto, vede tutto, e poi lo racconta». Di cose ne ha viste tante, Sandra Bonsanti, in quattro decenni da cronista in prima linea. Piazza Fontana. Sindona. La P2. Calvi sotto il ponte di Londra. I cinquantacinque giorni di Moro. Via D’Amelio e le stragi del 1993. Le ha raccontate su molti giornali e per tredici anni sulle pagine diRepubblica. Ma poi arriva il momento di tirare le fila, di mettere ordine e dare un senso al proprio lavoro. E allora non bastano gli articoli pubblicati. Occorrono i taccuini conservati in un cassetto, quegli appunti privati che non possono trovare spazio su un giornale. Le lettere, le minacce di morte, gli oscuri avvertimenti dell’Italia peggiore. Ma anche le confidenze intime, gli sfoghi e le passioni di un’altra Italia, che annovera i nomi di Ugo La Malfa e Tina Anselmi, Paolo Baffi e tanti servitori dello Stato rimasti sconfitti dal «gioco grande del potere», come lo chiamava Giovanni Falcone.
Il gioco grande del potereè anche il titolo di questo libro che intreccia la trama della grande storia con quella personale dell’autrice, che però non si mette mai al centro del racconto. Quel che le sta a cuore è la «perpetuazione di un mistero», per dirla con le parole di Norberto Bobbio, l’eterna ambiguità tra Stato e Antistato, troppo spesso confusi e inestricabili all’interno d’una stessa stanza, e d’una stessa persona. Una palude fangosa in cui si mescolano neofascismo e massoneria deviata, mafie di vario generee poteri finanziari, servizi segreti e criminali comuni, che nel dopoguerra trovò una ragione sociale nella bandiera dell’anticomunismo innalzata dagli Usa, ma che ora persiste in altra forma, in quella che Zagrebelsky definisce nella postfazione una zona grigia di «compromissioni, cointeressenze, condivisioni», mossa dalla ricerca di denaro e potere.
Non c’è complottismo a buon mercato, nel libro-diario della Bonsanti. Solo fatti precisi e personaggi da lei direttamente incontrati o investigati: Spagnuolo, Gelli, Sindona, Calvi. E gli statisti Cossiga e Andreotti con la loro corte di famigli («Ma a te che te se deve fare, te se deve sparà?» l’affrontò una volta Franco Evangelisti»). E moltissime domande, che evitano la tentazione di risposte banali. Non è solo questa la storia d’Italia, che resta pur sempre un paese democratico.Ma è una democrazia impoverita dal perverso intreccio tra istituzioni e interessi, dalla palude dell’indistinzione e della connivenza. E finché non si riesce a liberare lo Stato da queste incrostazioni la speranza di un riscatto resta debole.
Accanto al paese impestato agisce l’altra Italia, quella che Giovanni Ferrara — lo storico e scrittore che per quasi quarant’anni è stato compagno di Sandra — definisce l’Italia dell’“etica protestante”, “della morale semplice e chiara”, “del dovere pratico e intellettuale”. Un’Italia spesso sbeffeggiata, da chi sa come si deve stare al mondo. Ecco Ugo La Malfa che in un momento di confidenza domanda alla giornalista: «Ma cosa è questo La Malfa che tenta di fare un governo? Una cometa? Una cometa è bella finché dura e poi cosa resta, cosa lascia dietro disé?». E ancora Sandro Pertini, ritratto in pigiama e a piedi nudi mentre veglia sul leader repubblicano morente: «Ci lasci tra gli sciacalli, e io rimango solo nella mia avventura al Quirinale». È la stessa Italia che la Bonsanti si porta dietro quando dà vita a Libertà e Giustizia, la «piccola associazione laica» che da quasi dieci anni si batte contro il gioco grande del potere.
È anche una lezione di giornalismo, quella offerta senza supponenza dall’autrice. Perfino nei dettagli, là dove ci racconta l’imbarazzo per il gesto intimo di Craxi che le scompiglia i capelli o per l’imprevisto scatto di Gelli che davanti ai fotografi la prende sottobraccio. Distanza massima, sembra il suo monito. Solo così si riesce a dare un senso alle cose che accadono. E un domani a farne un libro di storia.

IL GIOCO GRANDE DEL POTERE di Sandra Bonsanti Chiarelettere pagg. 240 euro 12,90

l’Unità 29.9.13
Le anticipazioni del libro
Quando Bersani disse no alle larghe intese


Si intitola «Giorni bugiardi Primarie, Elezioni, Quirinale. Così poteva cambiare l’Italia», uscirà per Editori Internazionali Riuniti il 6 novembre e a scriverlo sono stati due dei più stretti collaboratori di Pier Luigi Bersani, Stefano Di Traglia e Chiara Geloni. Il libro, di cui ieri ha dato un’anticipazione l’Huffington Post, ripercorre le settimane seguite alle elezioni di febbraio, le difficili consultazioni portate avanti dall’allora segretario del Pd e la drammatica partita per il Quirinale che ha poi portato Bersani a scegliere la strada delle dimissioni.
Il portavoce dell’ex leader del Pd e il direttore di Youdem in quelle giornate complicate sono stati al fianco di quello che era il «premier
incaricato» raccogliendone ragionamenti, valutazioni, sfoghi. Si racconta anche della contrarietà di Bersani a «un governo che veda insieme Pd e Pdl»: «non sarebbe a suo giudizio scrivono i due autori una giusta interpretazione delle scelte degli elettori e apparirebbe una soluzione “politicista” e inadeguata alla richiesta di cambiamento». Si legge poco più avanti: «Per Bersani il governo di larghe intese favorirebbe il dilagare del consenso alle proposte più populiste. Inoltre, afferma che uno scambio Pd-Pdl tra presidenza del Consiglio e presidenza della Repubblica sarebbe semplicemente “non presentabile” all’opinione pubblica». Poi arrivarono le votazioni per il Quirinale. E le dimissioni.

A Firenze fino al 19 gennaio
Corriere 29.9.13
L'educazione siberiana
Riti sciamanici e spiritualità indiana Così l'avanguardia guardava a Oriente
A Palazzo Strozzi le radici del modernismo russo. Da Kandinsky a Malevic: 179 tra dipinti e oggetti

di Marco Gasperetti

I due universi dell'Avanguardia si mostrano e si ibridano, apparentemente incongrui, negli sguardi bifronti verso oriente ed occidente. Manifestandosi nel simbolismo dell'aquila bicipite, sigillo della Russia imperiale, o negli occhi bianchi e inquieti dei lupi che nella notte di ghiaccio siberiana (come li ha perpetuati nel 1912 Aleksej Stepanov), fissano orizzonti opposti. E ancora nel Cerchio nero di Kazimir Malevic, un'improbabile porta d'accesso e di fuga dal mondo (bianco) dello sfondo verso altre dimensioni artistiche e filosofiche e nella Macchia nera, capolavoro di Wassily Kandinsky. Oppure nell'unione dissacrante dei volti umani e animali nella Scena della vita dei selvaggi di Pavel Filonov (i buoi hanno sembianze umane, gli uomini bovine) che sembrano cibarsi nel folclore della tradizione contadina e allo stesso tempo trasfigurarsi nello sciamanesimo, che come un vento freddo siberiano, ha spazzato le certezze occidentali della Grande Madre Russia. Un caleidoscopio di opposti disegnato in un capitolo di storia anch'esso incongruo: la vigilia della Rivoluzione d'Ottobre, che avrebbe imposto altri canoni, materialisti e realisti, e in parte cancellato e represso questi fermenti straordinari.
La cosa più sorprendente, nella mostra sontuosa L'Avanguardia Russa La Siberia e l'Oriente (Palazzo Strozzi sino al 19 gennaio) è che queste suggestioni, questo clima inquieto di trasformazione alchemica, è avvertibile come una vibrazione, passo dopo passo, dipinto dopo dipinto, scultura dopo scultura. E non è soltanto Wassily Kandinsky a monopolizzare «inevitabilmente» l'esposizione e neppure le opere straordinarie (molte delle quali esposte per la prima volta in occidente) di Benois, Bakst, Larionov, Malevic, Filonov e Goncarova e di altri 42 artisti, ma questa atmosfera «altra» ricreata alla perfezione dai curatori John Bowlt e Nicoletta Misler e dall'allestimento dell'architetto Luigi Cupellini.
Quella di Palazzo Strozzi è un'esperienza unica tra le emanazioni di 130 opere (79 dipinti, acquerelli e disegni; 15 sculture e 36 oggetti etnoantropologici e incisioni popolari) e le «scenografie» delle undici sezioni (mura bianco ghiaccio, altre dai colori che evocano le antiche pareti di legno, foto delle steppe, strutture lignee ottagonali) che accende sensibilità individuali e costruzioniste come in un cammino storico-artistico verso l'ignoto. Anzi, gli ignoti, generati dall'unione tra le culture occidentali e orientali e il sommovimento comunista prossimo a deflagrare. Fuoco e ghiaccio, spiritualità e materialismo, ignoto e realismo.
Ci si potrebbe perdere nella mostra fiorentina, come nella tundra e nella steppa, se non ci fossero i punti di riferimento delle undici sezioni. Dedicate alle fonti esotiche dalla Grecia al Siam, all'incantesimo dell'Oriente, al Giappone, alla Cina come impero dei segni. E ancora agli influssi delle stampe orientali, alle immagine taumaturgiche, agli idoli lunatici e agli spiriti silvani. E a quel panteismo artistico che pervade tutta la rassegna.
C'è anche un filo d'Arianna. Che si dipana partendo dal Grande Viaggio, quello dello zarevic Nicola II ventiduenne e futuro zar di tutte le Russie, il 26 ottobre 1890, s'imbarca a Trieste per l'Oriente. Un viaggio iniziatico tra Cina e Giappone, Ceylon e Giava, Siam e India nel quale raccoglie migliaia di regali preziosi (oggi conservati all'Ermitage e al museo antropologico di San Pietroburgo) e che nel 1893 diventano protagonisti di una mostra a San Pietroburgo. I doni ricevuti dal principe ereditario svelano nuovi interessi, aprono nuovi orizzonti nell'arte.
«Che in parte sono già presenti nella cultura russa — spiega Nicoletta Misler — come l'animismo, lo spiritualismo quella sorta di panteismo artistico. La grande Russia non è formata da colonie, nonostante le distanze e le differenze, ma da un impero che ne è la sua stessa essenza. Queste culture conviveranno anche dopo la Rivoluzione d'Ottobre e neppure la repressione stalinista riuscirà ad estirparle».
La mostra è promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi, Mibac, sovrintendenza al polo museale fiorentino, museo statale di San Pietroburgo, galleria Tretyakov di Mosca e con la partecipazione di Comune, Provincia e Camera di Commercio di Firenze, Regione Toscana e con il sostegno della Banca CR di Firenze.

Corriere 29.9.13
Fiabe, demoni e giganti: la bellezza (letteraria) del doppio
di Roberta Scorranese


«Gratta gratta, sotto ogni russo troverai un tartaro», recita un proverbio moscovita. Più che di affinità elettive, il sapere popolare evoca un Paese vastissimo, multiforme, dove le contrapposizioni, come i confini, si dissolvono nella nebbia. D'altra parte, fino a due secoli fa, la Russia era semplicemente «l'Oriente» per molti europei. Un Oriente vago, dagli echi mongoli o siberiani, alimentati da una letteratura che elevò a poesia certe fiabe della steppa, tramandate oralmente durante i lunghissimi pomeriggi bui nelle dimore aristocratiche.
Ma un tartaro lo si trova anche grattando sotto i demoni di Dostoevskij, sotto i broccati delle dinastie narrate da Tolstòj, persino dietro la resistenza passiva messa in piedi da Oblomov, l'accidioso personaggio di Goncarov. Perché il dividersi tra un'anima «orientale» e una «occidentale», non è stata solo una prerogativa delle Avanguardie in mostra a Palazzo Strozzi: l'oscillazione tra il «primitivismo» delle tradizioni dei confini e l'educazione alla modernità delle corti dell'ovest (come quella francese), ha attraversato tutta la letteratura russa dell'Ottocento, ora in silenzio ora con fragore.
La stessa rivoluzione narrativa di Puškin è una mescolanza di folclore e nitidezza realistica: nel poema Ruslan e Ljudmila (1820) ci sono «maghi dal volto sereno», cavalieri, lance e teste di gigante che spuntano nella steppa. Ma non si pensi alla tradizione cavalleresca occidentale: l'epos russo è altra cosa. È difesa dell'innocenza originaria, è barriera contro il moderno. Fino al cinismo.
Ed è forse questo l'humus da cui nasce l'altra grande figura letteraria russa: l'antieroe di Lermontov. O di Dostoevskij, l'uomo dal rigoroso senso della giustizia interiore che l'ambiente cerca di guastare, il difensore di una purezza primitiva destinata a tramutarsi in cupo pessimismo. Ma in questo richiamo ad un'origine (o presunta tale), non c'è nostalgia.
Anzi. «Lermontov è un uomo che vive tutto nel presente (...) e il presente vive in ogni goccia del suo sangue», osservava il critico Vissarion Belinskij. Così come la ferita morale di Raskolnikov (in Delitto e castigo di Dostoevskij) è forte, fa male ancora oggi e ancora oggi accende la discussione.
Nel 1836, poi, la polemica tra «occidentalisti» e «slavofili» esplode con la pubblicazione della prima versione russa delle Lettres sur la philosophie de l'histoire in cui il filosofo Piotr Caadaev afferma senza mezzi termini: «Noi siamo, per così dire, stranieri a noi stessi (...) È la naturale conseguenza di una cultura tutta importata e d'imitazione. Non c'è da noi uno sviluppo interiore, un progresso naturale». Ne nasce un putiferio, un dibattito che resterà vivo fino al secolo scorso.
Eppure, quel che oggi il lettore innamorato coglie, è semplice e nitido: questa doppia anima russa è stata la linfa stessa della sua bellezza letteraria. Alto e basso. Il linguaggio del Viaggiatore incantato di Nikolaj Leskov (la cui forza narrativa, tra dialetti e etimologie popolari, ha ispirato un magnifico saggio di Walter Benjamin); il mondo contadino di Nikolaj Nekrasov e il suo «infinito amore per il popolo», come ebbe a dire Dostoevskij.
Accanto a questo gusto pittorico del racconto, c'è l'eco delle religioni orientali nelle opere di Gurdjieff, l'attrazione per la cultura slava da parte del «poeta viandante» Velimir Chlebnikov (futurista, uomo che visse in un ossessivo nomadismo). In quest'altalena tra culture si ritrova un doppio percorso, quasi una lacerazione irrorata di fantasia, favola, follia. In un modo tutto particolare di sentire la realtà, prima ancora che di vederla. Come scrive Dostoevskij in una lettera a Nikolaj Ljubimov: «Nei Demoni c'è una quantità di personaggi che mi sono stati contestati come meramente fantastici. Ma in seguito, che lei lo creda o no, sono stati tutti confermati dalla realtà, il che significa che erano stati esattamente intuiti». In quell'espressione, «esattamente intuiti» c'è un mondo intero.

Corriere 29.9.13
I giovani leader antizaristi che conquistarono il balletto
Diaghilev li volle con sé, col teatro girarono il mondo
di Francesca Bonazzoli


«L'immagine esteriore della Goncarova. La prima cosa: coraggio virile. Della superiora di un monastero. Di una giovane superiora. La franchezza dei lineamenti e dello sguardo, la serietà - oh non severità - di tutta la fisionomia. Una persona che prende tutto sul serio. Quasi senza un sorriso, ma quando il sorriso c'è - incantevole». Così la poetessa Marina Cvetaeva descriveva Natalija Goncarova, la giovane aspirante artista che nel 1900 incontrava Michail Larionov «un immenso e bruciante figlio del popoloi mpulsivo, generoso e imprevidente, un lottatore nato, d'incurabile romanticismo», secondo le parole di un altro poeta, Guillaume Apollinaire.
La coppia di punta dell'avanguardia russa, dunque, non poteva essere caratterialmente più diversa. Eppure Goncarova e Larionov, dai banchi della Scuola di pittura, scultura e architettura di Mosca non si separarono più. Lei, pronipote della moglie di Puskin, era nata nel villaggio di Nagaevo, vicino a Tula, nella Russia centrale; mentre nello stesso anno, il 1881, lui nasceva a Tiraspol', in Moldavia, allora Bessarabia. Appartenevano insomma anche col carattere — l'uno riservato, l'altro esuberante — a due Russie diverse, quella del Nord e del Sud. Dal 1905 al 1915, per dieci anni, sono la coppia leader dei pittori di sinistra che contestava la società zarista e il perbenismo borghese. Lui si era ritagliato un ruolo più teorico, con la stesura di manifesti e dichiarazioni artistiche; lei si concentrava sulla pittura tanto che, quando nel 1913 allestì a Mosca la prima personale, espose oltre settecento opere. Sergej Diaghilev ne rimase impressionato e scrisse: «Questa donna trascina tutta Mosca e tutta San Pietroburgo dietro di sé: non si imita solo la sua opera, ma la sua personalità: si è dipinta dei fiori sul corpo. E immediatamente la nobiltà e la bohème l'hanno seguita con cavalli, case, elefanti, disegnati e dipinti sulle gote, sulla fronte e sul collo, oppure con il viso pitturato metà di blu e metà di ocra».
Proprio l'incontro con Diaghilev rappresenterà per entrambi una svolta, nell'arte come nella vita. L'impresario dei Balletti Russi, infatti, incaricò Natalija di disegnare costumi e scenografie per «Le coq d'or» di Rimskij-Korsakov. La Goncarova si ispirò all'amato repertorio primitivista con richiami alle icone, ai lubki (le stampe popolari), ai giocattoli, ai pizzi e fu un grande successo. Da quel momento anche Larionov venne coinvolto nell'attività di Diaghilev e il suo impegno fu tale che abbandonò la pittura per mettersi a progettare anche le coreografie. Il teatro portò la coppia a viaggiare a Parigi, in Svizzera, Spagna e dal 1919 a trasferirsi definitivamente a Parigi.
È così che l'intonazione folkloristica e primitivista del periodo moscovita si andò attenuando. Se nel 1913 nel manifesto del Raggismo Larionov proclamava «Viva il bellissimo Oriente! Viva il carattere nazionale! Siamo contrari all'Occidente che ha banalizzato le forme nostre e quelle orientali e che livella tutto»; se la Goncarova, in una serata del 1911 al Museo politecnico sosteneva davanti ai colleghi pittori che «Il cubismo è una buona cosa, ma non è poi così nuovo; le "streghe" di pietra degli sciti, le bambole di legno dipinte vedute nelle fiere, sono anch'esse delle opere cubiste», dopo il trasferimento a Parigi i due fanno i conti con il fatto che anche le altre avanguardie europee avevano il loro primitivismo cui guardare, a cominciare dall'arte africana che innescò il cubismo di Picasso. Sia Larionov che Goncarova si confrontarono con tali pitture e il loro radicalismo si trasformò in mediazione fra cultura russa e cultura occidentale.
Ben diversa dal radicalismo dell'approccio teorico del sacerdote ortodosso Pavel Florenskij, studioso di matematica, fisica e arte. Per lui il valore delle antiche icone è tutt0altro che semplicemente etnico o decorativo: «Fra tutte le dimostrazioni filosofiche dell'esistenza di Dio», scrive Florenskij a proposito della celebre icona medievale di Rublëv «suona come la più pervasiva quella di cui non si fa menzione nei manuali: si può formulare con il sillogismo: Esiste la Trinità di Rublëv, perciò Dio è».
Una posizione teoretica radicale che manderà piuttosto i suoi riverberi sul Suprematismo, magico e spirituale, di Malevic.

Corriere 29.9.13
Ma il Giappone reagì alle notti disinvolte del rampollo Romanov
di Serena Vitale


Il viaggio in terre orientali che il futuro zar Nicola II intraprese alla fine dell'Ottocento rientra evidentemente nella tradizione del «Grand Tour», ma ebbe anche un forte significato politico, culturale e, non da ultimo, simbolico. Questo lungo itinerario attraverso l'Eurasia non nasceva da smanie espansionistiche della Russia, ma era piuttosto un modo per riaffermare la sua potenza sui mari. Il ventiduenne erede al trono si imbarcò su una fregata dal nome evocativo, «Pamiat' Azova», «Ricordo di Azov»: memoria del viaggio nel Sud compiuto da Pietro il Grande che aveva compreso la necessità di una flotta degna di una potenza imperiale per assicurare alla Russia l'agognato sbocco sul mare, e insieme memoria del famoso viaggio di Caterina in Crimea (la zarina e il suo seguito ovviamente si fermarono anche ad Azov, definitivamente sottratta al dominio turco) che nel 1787 aveva sancito la potenza militare russa nei confronti dell'Impero Ottomano.
Nel caso dello zarevic Nikolaj c'era un altro aspetto non meno importante: la presenza del giovane rampollo di casa Romanov aveva il compito di confortare le popolazioni di domini lontani, gli abitanti di un impero sterminato, dai confini difficili da tracciare. Alcune regioni degli Urali, oltretutto, poco tempo prima avevano dovuto affrontare una terribile carestia.
Infine, il viaggio del giovane era dovuto anche a motivi squisitamente privati: il ventiduenne erede al trono (che peraltro aveva un relazione con la ballerina classica Matilda Kshesinskaja) era innamorato di Alice, principessa d'Assia e del Reno, ed era deciso a sposarla. Lo zar Alessandro III si opponeva a un matrimonio che non giudicava opportuno dal punto vista della strategia diplomatico-politica: i nove mesi di assenza avrebbero aiutato il figlio, credeva, a dimenticare l'una e l'altra donna. Invano: dovette poi benedirne il matrimonio con la donna che divenne la zarina Aleksandra Fjodorovna.
In Giappone, mentre in un corteo di risciò attraversava Otsu, lo zarevic subì un attentato da parte del poliziotto Tsuda Sanzo; l'uomo lo colpì al capo con una sciabola, anche se non mortalmente. Sono ancora controversi i motivi del gesto — probabilmente si trattava di fanatismo religioso. I giapponesi, come è noto, sono molto attenti ai rituali (sociali e religiosi) e, a quanto pare, il principe aveva avuto una condotta non propriamente morigerata (a Nagasaki, in privato, aveva frequentato un locale malfamato, si era fatto fare un tatuaggio), né tutti i dignitari russi che lo accompagnavano avevano mostrato il dovuto rispetto nei luoghi di culto. All'attentato, che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze, fino alla guerra, nei rapporti fra i due Imperi, seguirono le scuse del Giappone, e lo stesso imperatore Meiji andò al capezzale del giovane ferito.
(Testo raccolto da Roberta Scorranese)
Serena Vitale è scrittrice e slavista. Il suo ultimo libro è «A Mosca, a Mosca!» (Mondadori)

Corriere 29.9.13
Da Leopardi a Nietzsche alla tv la vecchia guerra ai nuovi media
di Maurizio Ferraris


L’esibizionismo sui mezzi di comunicazione classici è calmierato dalla consapevolezza di essere virtualmente sotto gli occhi di tutti Ora invece la situazione è ambigua: formalmente è una comunicazione tra amici, in sostanza fa il giro del mondo come un articolo del Nyt

I luoghi di dibattito minacciano lo status e la centralità dell’intellettuale pubblico È un misto tra la vanità e la legittima lotta per il riconoscimento di cui parlava Hegel
Ogni volta che compare un nuovo medium, gli intellettuali si dividono tra apocalittici e integrati (con una prevalenza dei primi), tranne poi, nel giro di una generazione o meno, diventarne degli addicted. È successo con i giornali, con le “gazzette” dileggiate da Leopardi e con il loro “vomitus matutinus” deprecato da Nietzsche. È successo con la televisione. E ovviamente succede con Twitter e altri social network. Il che, detto di passaggio, dimostra che abbiamo a che fare con mass media e non con semplici strumenti di comunicazione. Perché ovviamente l’intellettuale può essere portato, all’inizio, a prendersela con le armi da fuoco che distruggono la cavalleria, o con i telefonini che lo tormentano in treno, ma non vede né negli archibugi né nei telefonini una minaccia nei confronti della propria identità. Con i social network, come con i giornali e con la televisione, abbiamo a che fare con la creazione di luoghi di dibattito, che minacciano lo status e la centralità dell’intellettuale pubblico.
La minaccia è illegittima? No. A un certo punto, scrive Franzen nel lungo brano di
The Kraus Project anticipato dalGuardian, «come ogni artista, Kraus voleva essere un
individuo». Che è esattamente ciò che, con ogni evidenza, vogliono quelli che infaticabilmente alimentano i social network, ma ovviamente anche la stampa e la televisione. Chi scrive vuole essere un individuo ed esprimere le proprie opinioni. È quello che io sto facendo in questo preciso momento, è quello che fa Franzen con un successo ben maggiore, ed è quello che, il più delle volte gratuitamente, dunque anzitutto per ragioni identitarie, fanno certi autori di social network. E io, Franzen e loro abbiamo certo in comune la vanità, ma non solo, perché ci impegniamo in una attività legittima ed essenziale per l’essere umano: la lotta per il riconoscimento di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito.
La lotta può anche essere un duello. Di qui il tono aggressivo che manifesta una tipologia (minoritaria) che definirei “blogger nervoso”, che certo non è Rushdie o Coelho, ma è un intellettuale che non si sente abbastanza riconosciuto, e che potrebbe indirizzarsi allo scrittore affermato con un “ipocrita scrittore, mio simile, mio fratello”. Perché lo scrittore affermato è semplicemente quello che il blogger nervosovorrebbe essere. E proprio come nella lotta hegeliana, il blogger nervoso mette a rischio qualcosa: non la vita, fortunatamente, ma spessissimo la faccia. Come insegnano le vicende ricorrenti di twittatori e postatori che, in un momento di distrazione, debolezza o esasperazione, o magari per un calcolo meditatissimo ma sbagliato, si lasciano andare ad affermazioni di cui potranno scusarsi in eterno, visto che scripta manent. L’esibizionismo sui media classici è infatti calmierato dalla consapevolezza di essere – almeno virtualmente – sotto gli occhi di tutti. Qui invece la situazione è ambigua: formalmente, è una comunicazione tra amici, o in un circolo ristretto. Sostanzialmente, ha le stesse possibilità di fare il giro del mondo di un articolo sulla prima pagina del
New York Times.
Dunque ci sono molti motivi per non prendersela con i blogger nervosi, rischiando di sembrare uno di loro. Primo, nessuno ci obbliga ad andare su Facebook o a seguire qualcuno su Twitter, ci sono indubbiamente delle cose migliori da fare nella vita, fermo restando che, come sempre, ce ne sono anche delle peggiori. Secondo, è affrettato criticare qualcosa che oggi appare sregolato come una sorta di far west, ma che con il tempo auspicabilmente sarà in grado di perfezionare un’etichetta. Terzo, e soprattutto, i primi a rimetterci in un uso incauto del social network sono, come abbiamo visto, i blogger nervosi. Se le cose stanno in questi termini, il sentimento da riservare al blogger nervoso non è l’ira, il disprezzo o l’anatema, ma semmai la compassione. Più che il tono apocalittico di Kraus si adatta al blogger nervoso il giudizio di uno scrittore che ha dilapidato i suoi talenti, il Jep Gambardella di La grande bellezza: «È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile».

Repubblica 29.9.13
Tanti auguri a Diderot che anticipò anche Darwin
di Piergiorgio Odifreddi


Il prossimo sabato ricorrono trecento anni dalla nascita di Diderot, uno dei più straordinari e influenti ingegni dell’Illuminismo. Un grande scrittore, anzitutto, autore di un capolavoro come Jacques il fatalista, che anticipò il romanzo moderno: quello senza né capo né coda, che rifugge dallo snodare giudiziosamente una soporifera storia, e preferisce invece registrare i pensieri che si affollano in una mente.
Diderot fu anche uno dei più provocatori pensatori del suo tempo. I suoiPensieri filosofici furono condannati a essere “strappati e bruciati”,perché “scandalosi e contrari alla religione e alla morale”, e gli costarono mesi di prigione. Tra le cose che anticipavano, c’erano addirittura aspetti della teoria della selezione naturale, come ammise poi in seguito lo stesso Darwin.
Ma, naturalmente, l’opera che ha fatto passare alla storia Diderot è la celeberrima Enciclopedia,che egli diresse dapprima con il matematico d’Alembert, e poi portò a termine da solo, incurante delle difficoltà che sembravano volerne impedirne a tutti i costi il completamento. Il suo intento era esplicito nel titolo originario:
Dizionario ragionato delle Scienze, delle Arti e dei
Mestieri,in un tentativo sincretico di mettere insieme la scienza e la tecnica da una parte, e la storia e la filosofia dall’altra.
L’opera sollevò immediatamente il plauso del pubblico e l’avversione delle istituzioni, e oggi rimane l’eredità intellettuale del Secolo dei Lumi. Così come laPreghiera dello scettico ne costituisce una sorta di Credo laico, che iniziava con un «Dio, non so se ci sei», e terminava con uno «spero nelle tue ricompense nell’altro mondo, se c’è, ma tutto quanto faccio in questo mondo lo faccio da me». Auguri, Denis!

Repubblica 29.9.13
Conversazioni private con Michel Foucault
di Francesca Bolino


«Voglio mettermi risolutamente a fianco degli scrittori, di quelli che hanno una scrittura transitiva. Voglio dire con questo che la scrittura deve indicare, mostrare, manifestare al di fuori di se stessa qualcosa che senza di essa rimarrebbe nascosto, o perlomeno invisibile. Ecco, è là che, nonostante tutto, io trovo il mio incantamento per la scrittura». Michel Foucault racconta a Claude Bonnefoy il suo rapporto con la scrittura rivelando così un’inedita intimità del lavoro intellettuale. Una delucidazione inquieta, talvolta reticente, la scoperta del piacere del disfare il linguaggio abituale e di inventarne uno nuovo. Foucault svolge e riavvolge il filo della sua vita per raccontare la storia della sua scrittura, torna sugli scritti suoi e quelli degli altri, descrive il peso della sua cultura medica nella quale la parola è “svalutata”, ne rintraccia gli aspetti più evidenti, soprattutto quelli che derivano dal punto di vista del “diagnostico”. Filosofo e critico in un confronto nel quale si produce un singolare avvenimento: la messa in discussione (e in pericolo) di Foucault da parte di se stesso che si apre con una disarmata confessione: «Ho paura».

IL BEL RISCHIO di Michel Foucault Cronopio, trad. di Antonella Moscati, pagg. 88, euro 10

Repubblica 29.9.13
Luca Canali
Nato a Roma nel 1925, ha partecipato alla Resistenza con il Partito d’Azione
Poeta, docente universitario saggista e scrittore, è uno dei più grandi latinisti italiani
Il grande latinista racconta memorie politica, incontri e ossessioni private
“La storia insegna che il mondo è un incubo senza risveglio”
“I miei stessi idoli erano canaglie. Cesare? un criminale di guerra”
“Dagli studi alla famiglia, ho barato in tutto e la mia figlia segreta non sa che sono suo padre”
intervista di Antonio Gnoli


Ad ascoltare Luca Canali, illustre latinista e scrittore, mentre narra la sua vita, sembra di piombare nel Grande Romanzo dell’Infelicità: «Non amo la solitudine, non l’ho scelta. Essa mi pesa enormemente. Eppure è qui, accanto a me, esigente nel rivendicare ogni volta il suo diritto. Faccio fatica a capire il senso di qualcosa che negli anni è diventata una prigione». Canali ha quasi 90 anni. Vado a trovarlo nel piccolo e modesto appartamento romano, pensando all’uomo la cui vita è stata illuminata dai lampi dell’antichità e da una remota militanza politica. Strane mescolanze in un’esistenza segnata da malattie dell’anima e da insidiosi pensieri: «Non ho mai voluto essere il migliore, e se qualche volta ciò è accaduto, la mia mente mi obbligava a pensare di essere nessuno». Epica di autolesionista, penso. Ma se scavo nel suo volto, ancora bello e grifagno, colgo una beffarda infelicità, e vi leggo il benvenuto ai piccoli inferni quotidiani.
Vive sempre così appartato?
«Ahimè, non sono quel che si dice un tipo mondano. Però non deve pensare che sia sempre stato così. Soprattutto da bambino avevo parecchi amichetti. Mia madre mi portava al Pincio, oppure sciamavo sotto casa. La mia è stata un’educazione stradaiola».
Chi erano i suoi?
«Mio padre faceva il carbonaio, mia madre era una maestrina. Lei si innamorò di quest’uomo strano, un donnaiolo impenitente. Soffrì di gelosia, come io avrei sofferto per tutto il resto. Abitavamo a Roma in via Gesù e Maria, una traversa di via del Babuino. Proprio davanti casa c’era un postribolo. Un altro era in via Laurina, uno in via della Fontanella, e uno in via Panisperna».
Anche quella fu un’educazione?
«Li ho frequentati, a volte ci andavo senza una necessità precisa. Per fiutare l’ambiente, perdendomi in certe sensazioni. Erano luoghi di interclassismo patetico e di superflue perversioni. Frequentato da vecchi renitenti alla leva del tempo che passa. Di non rassegnati. Ma anche luoghi creativi. Un grande latinista, Antonio La Penna, mi diceva: Luca, a me le migliori idee sono venute al casino».
Anche lei è un grande latinista.
«La ringrazio per il grande. La mia carriera di studioso fu frammentaria,incerta, pericolosa».
Andiamo con ordine. Dove ha studiato?
«Mia madre, ambiziosetta, mi mandò prima dalle suore inglesi e poi al Visconti: otto anni tra ginnasio e liceo. Frequentato da gente chic. Ero il solo a evidenziare un certo complesso di inferiorità. Vestivo male, portavo i maglioni dismessi da mio padre. Devo dire che i compagni di classe non avevano atteggiamenti di superiorità, erano i professori a discriminarmi un po’».
E lei subiva?
«Cercavo il riscatto negli studi. Mi mostrai bravo in latino e greco. Un professore di storia dell’arte, che sarebbe morto combattendo contro i tedeschi sotto le mura di San Paolo, ci aprì la testa leggendoci I fiori del male di Baudelaire eLe elegie duinesidi Rilke. Cominciai così ad amare la letteratura. A 16 anni scrissi le mie prime poesie che Ungaretti, con mia sorpresa, pubblicò sullaFiera letteraria.A giugno, quando finiva la scuola, con i compagni andavamo a fare il bagno al Tevere. Non dal “Ciriola”, dove spesso c’era Pasolini, ma da Ercole Tugli. Ci capitava di incontrare spesso Sandro Penna, del quale divenni amico».
Che ricordo ne ha?
«Un conversatore lamentoso ma non privo di fascino. Era come se la vita ogni volta gli morisse sulle labbra. Ricordo il suo incedere lento. Veniva giù da Ponte Vittorio, non lontano dal vicolo dove abitava, a braccetto della madre. Un gay d’altri tempi. Con i miei amici di scuola cominciammo a occuparci di politica. Scoprii l’esistenza del Partito Comunista. Si avvicinava la fine della guerra. Riparai in montagna per sfuggire alla ferma milita-re e infine mi iscrissi al partito.
Quanto è rimasto nel Pci?
«Sono stato nel partito dal 1945 al 1958. Ho diretto cinque sezioni romane, l’ultima in borgata. Il segretario della federazione, Otello Nannuzzi che aveva preso il posto di Aldo Natoli, mi disse: Luca, hai diretto solo sezioni borghesi, ti manca la classe operaia. E andai al Prenestino, dove rimasi un paio d’anni. Non ho mai pensato di fare una vera carriera politica, per mancanza di vocazione al compromesso. Poi nel 1958 – c’erano già stati i fatti di Ungheria – fui radiato dal partito. Buttarono fuori anche Tommaso Chiaretti, Mario Socrate, Dario Puccini e tra i pittori: Vespignani e Attardi. Venimmo accusati di revisionismo senza principi. Io nel frattempo mi ero iscritto all’università. E alla fine mi laureai con una tesi su Lucrezio».
Con chi?
«Con il terribile Ettore Paratore. Mi diede 110. Commentò, in seguito, che non poteva dare la lode a un comunista. Divenni suo assistente».
Era un uomo difficile. Un conservatore a oltranza, come poteva conviverci?
«Mi stimava. Era famoso perché bocciava a ripetizione. Ma era un genio, coltissimo. Aveva solo un debole: scriveva romanzi orrendi. Tanto che i figli, credo, sono stati costretti a farli sparire dalla circolazione. Nel frattempo mi riavvicinai al partito. Mario Alicata, che si occupava tra le altre cose anche de
dopo avermi cacciato, mi riprese come redattore. Ma quando morì, il suo posto di responsabile della cultura fu assunto da Rossana Rossanda».
Andai da lei e le dissi: scusa, ma lì io avevo il solo stipendiuccio, e per campare non ho altre entrate. E lei: hai l’università. E io: ma non prendo una lira. E lei: non ti preoccupare, vedrai che farai strada. E io, la guardai rassegnato».
«Mica fu semplice. Comunque divenni professore di ruolo e fui chiamato a insegnare a Pisa. Ho insegnato per 15 anni. Mi piaceva. Furono anni splendidi e durissimi. Ma alla fine non resistetti. E lasciai l’università».
«Ero doppiamente malato. Fui investito da una profonda depressione, che quando è seria ti viene voglia di ammazzarti; e l’altra malattia, fastidiosissima e fortemente condizionante, fu una psiconevrosi fobico ossessiva».
Come si manifestavano le sue ossessioni e fobie?
«Nel fatto, ad esempio, che le cose dovevano essere disposte in un certo modo. Ero capace di tornare improvvisamente a casa se solo fossi stato sfiorato dal dubbio che un certo oggetto era in un posto diverso da dove io lo immaginavo. O se avevo la sensazione di essermi dimenticato qualcosa che volevo ricordare, potevo restarne ossessionato per giorni. Perfino i nomi delle persone costituivano un problema. Se dimenticavo un nome, mi accadeva di passare nottate su un elenco telefonico per vedere se casualmente riaffiorasse. Tutto poteva trasformarsi in una ossessione».
Depressione e fobie però le ha superate.
«In forma blanda ancora ci sono».
Come le ha curate?
«Per anni, in un paesaggio di flebo e di lenzuola, mi sono imbottito di farmaci. E sono stato diverse volte in cliniche psichiatriche tentando di curarmi. Dalla depressione si può uscire; con le psiconevrosi è più difficile».
Si ricorre alla psicoanalisi.
«Ho fatto centinaia di sedute analitiche. Inutili. Da un punto di vista psicofisico il periodo migliore furono gli anni dell’impegno nel partito. Ero guarito. Forse perché ci credevo davvero.Forse perché io, che non ho mai avuto una fede, lì, avevo una fede. Poi, quando seppi dei crimini staliniani mi cascò il mondo addosso».
Perché dice che quelle malattie ancora non l’hanno abbandonata del tutto?
«Perché ancora oggi mi sdraio sul letto, chiudo gli occhi, e desidero non risvegliarmi più. E il risveglio è orrendo. Ancora oggi ho l’ossessione che non mi fa uscire da Roma. Sono decenni che non faccio una villeggiatura».
Si è dato una spiegazione?
«Non c’è spiegazione».
Non c’entra forse quel mondo antico che ha studiato?
«Non lo so. Francamente adoro la storia romana».
Cosa le ha insegnato?
«Che la storia è realismo e brutalità. Come diceva Stephen Dedalus: la storia è un incubo dal quale cerco inutilmente di svegliarmi. È un continuo scorrere di sangue, un moltiplicarsi di guerre e di morti. I miei stessi idoli erano delle canaglie. Cesare? Un criminale di guerra. Augusto? Grande politico, pessimo combattente le cui imprese descritte sono per metà false».
Lei ha anche scritto un Satyricon e collaborato con Fellini.
«Fu un’esperienza straordinaria vederlo dirigere il film. Il mio rapporto con lui fu propiziato da Antonello Trombadori. Fellini gli chiese se conosceva un latinista – senza il basco in testa, precisò ironico – che lo potesse aiutare non tanto a dirgli cosa fare, quanto cosa non fare. Aveva delle battute meravigliose. E diventammo amici. Per come si poteva intendere l’amicizia con lui. Qualcosa di volatile».
Lei ha scritto tantissimo.
«Sì, per anni ha fatto parte della mia terapia».
Citava Joyce, le piace?
«Lo preferisco a tutti gli altri scrittori del Novecento. Ulisse è il romanzo del buon umore. Mi attrae proprio per la sua natura così lontana dalla mia. E poi gronda sensualità: bassa, terrestre, vitale e avvolgente come una cappa di umidità».
Torniamo al sesso.
«Cosa vuole sapere?».
Dica lei.
«Con le donne sono stato spesso arrembante. E ho avuto molta fortuna. Ero un intellettuale colto e bello. Piacevo. Sono stato sessualmente molto attivo, ma senza nessun coinvolgimento. Ed era chiaramente il sintomo di una nevrosi».
Ci spieghi.
«Diciamo pure un problema sessuale. Quando mi innamoravo di una donna e subentravano gli affetti, non riuscivo più a fare l’amore fisico. Mi sembrava di commettere un incesto, perché quella donna diventava per me una sorella. Può immaginare cosa sia stato il mio matrimonio».
È sposato?
«Mia moglie è morta da parecchi anni. Fu un errore sposarmi. Non ero adatto. Ha molto sofferto. Mi sono occupato di quell’opera colossale che fu l’impero romano e la sua caduta e non vedevo che la decadenza era in casa».
Ha figli?
«Una figlia, ormai grande e...».
E...
«Una figlia segreta, con la quale parlai una sola volta, nascondendole il fatto che ero il padre».
Lo dice con un senso di rimpianto.
«Per molto tempo questa storia mi ha fatto soffrire. La madre – una donna importante, con due matrimoni alle spalle – mi impedì di vederla. Poi i medici mi consigliarono che era meglio così e mi rassegnai».
In fondo, non è stato un uomo fortunato.
«Qualche fortuna grande, e molte sfortune. Le malattie sono state un grosso impedimento. Ogni tanto ripenso ai continui litigi tra i miei genitori. Mia madre disprezzava mio padre e lui se ne fregava. Credo di non avere mai avuto una vera famiglia».
L’ha condizionata?
«Non ne sono proprio sicuro. Forse ho perfino vissuto più liberamentela mia vita».
Come si vede nell’imminenza dei 90 anni?
«Sono contento di me ma non della mia vita. La mia mente continua a funzionare anche quando non vorrebbe. Anche quando vorrei che tutto tacesse. A volte mi penso morto e immagino il mio corpo che si decompone. E l’angoscia riemerge. No, non sono stato decisamente fortunato. Nel gioco non ho avuto belle carte».
Lei ha scritto, ora ripubblicato, quello che in molti ritengono il suo libro più bello:Autobiografia di un baro. Perché “baro”?
«Fa parte della psicologia insana. Spesso ho la sensazione di barare. Perché i miei strumenti intellettuali, le mie parole coprono un’infelicità, un dolore, un fallimento. Ho barato in politica perché dopotutto non me ne fregava più di tanto; ho barato in famiglia, come può fare un marito inadatto; ho barato all’università non riuscendo a dare ciò che avrei potuto, o nascondendo i miei limiti. Solo come infermo mi pare di avere agito senza trucchi».

Repubblica 29.9.13
Il museo del mondo
Susanna e le altre: così la Gentileschi “vendicava” il genere femminile oltraggiato
di Melania Mazzucco


Invocano il diritto all’oblio i colpevoli di brutali fatti di cronaca, che hanno espiato o si sono redenti: e anche le vittime, inchiodate per l’eternità al dolore patito. È una grazia non esaudibile: il firmamento della rete oggi riverbera ogni istante di ogni vita, anche la più insignificante. Ma Artemisia è morta intorno al 1652. Provo a liberarla dal peso della sua ingombrante biografia: a raccontare questo quadro come se ignorassi il nome dell’autore.
Il soggetto si riconosce al primo sguardo. Una giovane nuda, due uomini vestiti: è Susanna. La bella signora di Babilonia, simbolo di castità e fedeltà, ha avuto un successo travolgente nell’Europa della Controriforma (da Tintoretto e Veronese fino a Rubens, Reni, Domenichino, Guercino, Preti, Rembrandt e van Dyck). La storia viene dall’Antico Testamento: la bellissima Susanna, moglie del ricco Ioachim, si accinge a bagnarsi nel giardino della sua casa; ma viene seguita e spiata da due anziani giudici, ossessionati dal desiderio di lei. I due le intimano di concedersi, minacciando altrimenti di denunciarla come adultera. Susanna rifiuta, i due rilasciano falsa testimonianza e lei viene condannata a morte. La parola di una donna — in un processo — vale il resto di niente.
I pittori schivano il seguito. Cioè l’arrivo del profeta Daniele che interroga separatamente i vecchioni, li fa cadere in contraddizione e poi suppliziare invece di lei. Non ricordo di aver mai visto dipinta la scena del processo, lo smascheramento, la punizione dei calunniatori. Sempre la bella al bagno. Sensuale ma innocente, talvolta; voluttuosa sempre. Susanna garantiva un’immagine di nudità erotica ma vereconda, legittimata dalla fonte biblica (pur apocrifa). Inventari e archivi attestano che i committenti erano sempre uomini — spesso religiosi.
Dunque c’è una giovane donna formosa, dalla pelle trasparente. Nuda, salvo il drappo bianco sulla coscia sinistra, che occulta l’inguine. È raffigurata dal vero, con naturalismo e senza idealizzazioni: l’areola rosea, la poppa piriforme, ventre e arti cicciosi. Non si vedono gioielli, indumenti, boccette, balsami. Susanna è priva di ogni ornamento: indifesa. Il pittore — che appartiene all’ambiente romano dei caravaggisti d’inizio ‘600 — ha assimilato la lezione del maestro: la narrazione è scarnificata, la scenografia abolita. Non c’è il giardino della bella casa di Babilonia, descritto nel testo. Né il leccio e il lentisco fatali ai giudici, o fronde e verzura lussuriosa. Solo il cielo azzurro che, in alto, trasuda minerale freddezza. E i personaggi, colti in azione. Così il pittore dipinge Susanna seduta sul gradino della vasca (invisibile) in cui sta per immergersi, incarcerata dalla parete di marmo. In posizione dominante, gli spioni incombono su di lei, formando una piramide. Il linguaggio dei gesti surroga la visione della nudità. Il più anziano, col dito alle labbra, le intima il silenzio. L’altro, che non è vecchio come vorrebbe il racconto ma un giovane riccio e barbuto, tocca confidenzialmente la schiena del primo, e gli sussurra complice all’orecchio. Il prugna-bruno del suo mantello si salda col rosso di quello del vecchio: una macchia di colore contro la pallida epidermide di lei: Susanna non ha scampo. L’espressione del suo viso rivela angoscia e impotenza. Sa cosa l’aspetta, se si nega. Ma si nega, gesticolando, inorridita. Il pittore ha capovolto il senso di questa morbosa storia, pretesto per celebrare la bellezza femminile e il voyeurismo maschile. Incentrandola non sullo sguardo che viola l’intimità ma sul ricatto, l’ha trasformata in una scena di sinistra violenza psichica: la composizione verticale dell’immagine accresce l’effetto di minaccia.
Non sappiamo per chi fu dipinto questo quadro. Sappiamo però quando, e da chi. ARTIMITIA GENTILESCHI F 1610, si legge sul marmo, nell’ombra della gamba. La scritta, a lungo ritenuta apocrifa, è invece autentica. La pittrice firmò e datò l’opera. Ciò mi obbliga a rinnegare il ragionamento iniziale. L’autore del quadro era una donna: e lo rivendicava, specificando il suo nome. E voleva anche che si sapesse che l’aveva dipinto a 17 anni (era nata nel 1593). Che all’età in cui i coetanei facevano i garzoni o i lavoranti nelle botteghe dei maestri, lei sapeva già disegnare, colorire, inventare e realizzare (F= fecit) un quadro di storia di medio formato, con tre figure. Storia e corpi umani: il genere di pittura più alto e difficile. Se fosse stata un ragazzo, a 17 anni poteva “dare l’esame”, dipingendo figure per la commissione, essere accolta come maestro nella corporazione dei pittori e aprire bottega. Come zitella romana, invece, non poteva quasi uscire di casa e viveva segregata. Do-veva studiare sui disegni e le incisioni del repertorio della bottega del padre, il pittore pisano Orazio Gentileschi. Ma non si poteva impedirle di coltivare il suo talento e di progredire. Anzi Orazio — sodale di Caravaggio, vedovo selvatico dalla lingua scurrile — incoraggiava le ambizioni della figlia. Nel 1612 scrisse alla Granduchessa di Toscana che Artemisia «in tre anni si era talmente appraticata, che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere, che forse principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere… Gli manderò saggi dell’opera di questa mia figlia dalla quale vedrà la virtù sua».Susanna e i vecchionisi lascia allora leggere come quel “saggio” della capacità (virtù) di ARTIMITIA.
Una pittrice pensa per immagini, visivamente, e ogni scelta (rinuncia al paesaggio, inquadratura stretta, verticalità, giovinezza del calunniatore e sua caratterizzazione come fosse il ritratto di una persona reale), è carica di senso. Anche la firma parla, se si pensa che a quel tempo Artemisia non sapeva“scrivere e poco leggere”. Il padre forse la aiutò a migliorare il quadro, suggerendole correzioni nella posa delle figure, e a farlo circolare, proponendolo ai propri committenti quando Artemisia fu coinvolta (per volontà di Orazio stesso, che sperava di ricavarne la dote e la restituzione dell’onore, in quest’ordine) nel processo contro il suo defloratore Agostino Tassi. Nel tribunale di Roma, non intervenne il profeta Daniele a confermare le sue parole. Artemisia fu calunniata, e l’ignominia della disonesta fama l’inseguì fino alla morte, e oltre. Ma avrebbe rifiutato il diritto all’oblio: si specializzò proprio in nudi femminili di vittime di stupro morale e fisico (Susanna, Lucrezia), in sante ed eroine forti e peccatrici (Maddalena, Cleopatra, Giuditta). Con grinta, viaggi e affanni, si costruì affetti, reputazione, gloria, dimostrando «un animo di Cesare nell’anima di una donna». Nel 1649, anziana, scrisse fieramente all’illustrissimo don Ruffo: «vi farò vedere quello che sa fare una donna». L’aveva già fatto.

Artemisia Gentileschi: Susanna e i vecchioni (1610), olio su tela 170 x 119 cm Pommersfelde n Collezione Graf von Schönborn

Corriere 29.9.13
Caratteri Cotone e conigli: storia della carta
Narrativa italiana, straniera, saggistica, classifiche Una vicenda iniziata nel II secolo a. C. E arrivata dalla Cina a Fabriano 750 anni fa
di Andrea Cirolla


L' Archivio storico del comune di Matelica, antica città delle Marche, conserva un documento membranaceo, un registro di spese risalente al 1264 che riporta, tra le altre voci, quella relativa all'acquisto di alcune risme — si legge — di «carta bambagina». Quella carta era arrivata a Matelica dopo un breve viaggio da Fabriano, piccolo centro oggi nella provincia di Ancona, poggiato sul versante orientale dell'Appennino umbro-marchigiano. Si tratta della più antica testimonianza di carta fabrianese, che stabilisce l'età di una tradizione secolare. Settecentocinquanta anni per la precisione, da compiersi nel 2014.
Nel 1264, a Fabriano, è stata inventata la carta nella sua forma definitiva, quella che ancora oggi utilizziamo. Da allora, quella stessa carta è entrata negli studi di celebri personaggi della storia — Garibaldi, ad esempio — e dei più grandi artisti — Michelangelo e Francis Bacon, Beethoven e John Cage —, così come negli spazi delle persone comuni, nelle case, negli uffici, nelle scuole (si pensi al classico album F4 da disegno). La carta «bambagina» era realizzata con il cotone — o con il lino, o con la canapa — degli stracci ricavati da capi di biancheria scartati. Una ricetta semplicissima: fibre naturali, acqua e colla. Ma se la modernità incomincia nel 1264, la storia inizia molto prima. Ecco dove e quando. La testimonianza proviene da un frammento — cartaceo, ovviamente — di una mappa risalente alla prima metà del II secolo a. C., rinvenuto negli anni Ottanta in una piccola tomba nella città-prefettura di Tianshui, lungo la Via della Seta, nell'antica Cina. La carta all'inizio è realizzata battendo cortecce di gelsi nell'acqua, ottenendo una pasta da stendere poi su un telaio ad asciugare. È su un'altra qualità di gelso che invece vivono i bachi della seta, che da almeno cinquemila anni i cinesi utilizzano come raffinato supporto di scrittura — tra i più antichi insieme a lastre di pietra, ossa di animale, listelli di legno e bambù, pergamene... —, e di cui la carta pare all'inizio una metafora. Una sorta di «seta vegetale», scrive lo studioso Pierre-Marc de Biasi. Tra progresso e conservazione la carta attraversa secoli durante i quali la sua ricetta rimane gelosamente custodita entro i confini dell'impero. L'esclusiva dura fino al VII secolo, poi il nuovo supporto di scrittura contagia Corea e Giappone. Ma una data cruciale cade nel 751, quando due cartai cinesi — si narra — sono fatti prigionieri dagli arabi a Samarcanda. Il governatore generale del Califfato di Bagdad li mette sotto torchio fino a estorcere il loro segreto, che da quel momento è libero di diffondersi nel Mediterraneo. È la seconda grande epoca nella storia della carta. Grazie agli arabi la carta costruisce un ponte tra Oriente e Occidente, due universi storici e culturali prima separati; la loro spinta militare e commerciale nel bacino del Mediterraneo rompe le barriere etnocentriche, porta vitalità e ricchezza nelle principali città e nei porti del Medio Oriente, dell'Africa settentrionale e dell'Europa.
E tuttavia quella araba non è, davvero, la carta; o almeno quella cui siamo abituati. Ancora nel Duecento se ne impediva l'uso nella stesura di atti ufficiali. Lo testimoniano i provvedimenti di Federico II Hohenstaufen: nonostante egli stesso la utilizzasse facendosela spedire dalla Siria, dalla Spagna o dalla Sicilia (la carta era arrivata a Palermo all'inizio del secolo), o forse proprio in ragione della sua esperienza, nel 1231 decise di proibirne l'uso presso i notai imperiali e la cancelleria regia. Il motivo è semplice: quella carta era facilmente deteriorabile a causa della collatura (un trattamento a base di colle per rendere il foglio impermeabile agli inchiostri) con sostanze amidacee, che favorivano l'attacco dei microrganismi. Qui entra in gioco Fabriano. Le sue «gualchiere», piccoli laboratori artigianali nati intorno al 1264, sostituiscono gli amidi con una gelatina animale ricavata dalla bollitura degli scarti di pelli (spesso dei conigli) delle vicine concerie, la quale, oltre a impermeabilizzare la carta, la protegge conservandola nel tempo. È questa la prima delle tre innovazioni che rivoluzionano la storia non solo della carta. A Fabriano l'invenzione, passando dalle mani e dalla creatività dei suoi artigiani, compie il passo decisivo che l'ha resa, da uno fra i tanti supporti di scrittura, il principale nel mondo. E anche il più economico, fattore decisivo per la fortuna sua e della scrittura, le cui forme da lì si moltiplicano fino all'invenzione della stampa nel XV secolo.
Se la carta cinese raccoglieva un'esperienza di scrittura che la precedeva di più di un millennio, la carta occidentale eredita almeno 4.500 anni di sistemi linguistici e il relativo carico di necessità umane: all'inizio funzionali (la notazione dei prodotti agricoli), poi anche creative (i primi testi letterari si fanno risalire alla fine del III millennio a. C.). La seconda innovazione fabrianese si chiama «Pila idraulica a magli multipli», un dispositivo meccanico azionato dalla corrente del fiume per sfilacciare gli stracci (l'uso del legno si imporrà solo all'inizio dell'Ottocento) e preparare la pasta da carta. Ma è la terza innovazione a portare la vera novità nella produzione cartaria. La filigrana, contrassegnando ogni foglio con un disegno invisibile se non in controluce, impresso sulla carta non con segni aggiunti ma attraverso un gioco di spessori della carta stessa, contrasta i tentativi di imitazione che tra XIII e XIV secolo si moltiplicano prima sul territorio italiano e poi nel resto d'Europa. La sua evoluzione è rapida; da semplice disegno diviene presto una vera opera d'arte, fatta di luce e impalpabili pieni e vuoti di fibre. Il percorso della filigrana non si ferma all'uso estetico, il suo cerchio evolutivo in qualche modo si chiude nel momento in cui è applicata a quello straordinario concentrato di tecnologia in una manciata di centimetri quadrati che è la banconota. L'esempio classico è l'euro, prodotto proprio a Fabriano in un regime di alta protezione: ogni suo taglio porta con sé il segno d'acqua, detto filigrana, raffigurante un esempio dell'architettura europea. Dal 1264 la storia prosegue dritta fino al 1782, quando Pietro Miliani, capostipite dell'odierna industria, fonda la «Cartiera Miliani». Nel giro di quattro generazioni (da Pietro al pronipote Giambattista, che tra le altre cose ha dato impulso a un Archivio storico all'avanguardia nel panorama industriale italiano), essa entra nella modernità forte di un'esperienza plurisecolare e una produzione massiccia (oggi circa 210 mila tonnellate di carta all'anno, l'equivalente di cento milioni di quaderni). Anche l'epoca dell'informatica contro ogni aspettativa — considerando anche la fisiologica flessione del 2008 dovuta alla crisi — ha visto consolidarsi i consumi, soprattutto nei mercati orientali: senza trascurare che all'abitudine di scrivere lettere a mano si è sostituita l'abitudine di stampare quelle elettroniche. Il resto è storia recente. Dal 2002 Fabriano è parte del Gruppo Fedrigoni, che ne ha rilanciato le cartiere con investimenti strategici. E oggi si prepara a festeggiare un grande anniversario: nel 1264 l'umanità comincia a consegnare alla carta la propria memoria storica, scientifica e artistica; 750 anni più tardi la carta la riconsegna a noi, intatta e viva.

Corriere La Lettura 29.9.13
Oliver Sacks Allucinazioni, Adelphi
Nel paese (malato) delle meraviglie


Un tale che si chiama Ed e ha il morbo di Parkinson comincia un giorno a vedere persone sconosciute che entrano in casa sua attraverso una camera segreta. Gli intrusi sono molto invadenti. Scattano continuamente fotografie allo stesso Ed. Frugano tra le sue cose. A volte si sdraiano sul letto di Ed e fanno l'amore (tra di loro c'è una donna di abbagliante bellezza). Ed non sa che cosa fare ma alla fine si arrende. La resa
è scandita da una frase che Ed rivolge alla moglie: «Porta una tazza di caffè all'uomo che sta nel mio studio». La moglie va nello studio ma non c'è nessuno.
Un uomo che si chiama Richard ed è uno stimato professore di letteratura si sottopone a un delicato intervento chirurgico alla schiena. Convalescente nel suo letto di ospedale, imbottito di oppiacei, l'uomo comincia a vedere piccoli animali che si affacciano dal soffitto. Sono grandi più o meno come topi ma hanno teste nobili come quelle dei cervi. Richard indica quelle strane, inquietanti creature a un amico che è andato a trovarlo, ma l'amico non le vede. Il giorno dopo i misteriosi animaletti sono scomparsi però succede un altro fatto bizzarro. Richard nota che i dottori, le infermiere e tutto il personale dell'ospedale sono vestiti come personaggi di romanzi dell'Ottocento...
Oliver Sacks dedica il suo ultimo libro alle allucinazioni (indotte da patologie cerebrali o dalle medicine che le curano) e fa venire il dubbio che la letteratura (almeno quella più immaginifica) sia il frutto di malattie o delle terapie che dovrebbero debellarle (aiuto, siamo stati scoperti!). Lewis Carroll, per esempio, soffriva di un tipo di emicrania che provoca visioni del tutto simili, nella forma e nello stile, alle deliranti figure di Alice nel paese delle meraviglie. Brrr! Oliver Sacks, come gli zii d'America di una volta, ci manda regali che ci riempiono di stupore (ma anche di orrore).

Corriere La Lettura 29.9.13
Delacroix e la libertà di poter essere scrittore
Appunti, scarabocchi, schizzi svelano la sua passione segreta
di Sebastiano Grasso


Pittore, Eugène Delacroix (1798-1863). Ma anche scrittore, critico (basta leggere il Journal, il diario e alcune testimonianze sull'arte) e poeta («La pioggia incomincia sul serio: le foglie sembrano trasalire di piacere»). Si tenga conto, anche, come quasi tutta la sua pittura sia narrativa: racconti per immagini. Dai due dipinti dedicati alla Grecia, Il massacro di Sciò (i turchi che, nel 1882, trucidano i greci) e La caduta di Missolungi (omaggio anche all'amato poeta George Byron, morto di meningite proprio nella cittadina ellenica) a L'esecuzione di Marin Faliero (la decapitazione del doge, per la quale Delacroix si ispira al dramma di Byron); da La morte di Sardanapalo (il re assiro, assediato, che prossimo alla morte, ordina di uccidere donne, paggi, cavalli e cani della sua reggia perché non dovevano sopravvivergli: anche questo episodio mutuato da Byron) a La libertà che guida il popolo, 20 luglio 1830 (la rivolta di Parigi contro Carlo X; dipinto — diventato col tempo una icona repubblicana — in cui si autoraffigura con il fucile in mano e il cappello a cilindro. Pare, inoltre, che al ragazzo il quale, sulla destra del dipinto, ha in mano due pistole, si sia ispirato, nel 1862, Victor Hugo per il personaggio di Gavroche de I miserabili).
Per i 150 anni dalla morte, Parigi ha deciso di privilegiare, appunto, l'aspetto letterario con una mostra di disegni, manoscritti, scarabocchi, fotografie, a cura di Dominique De Font-Reaulx, Catherine Adam-Sigas e Marie-Christine Mégevand (Musée Delacroix di rue Furstenberg / Musée du Louvre, fino al 6 ottobre). Al Delacroix critico e narratore può benissimo aggiungersi quello epistolare. Fra i destinatari delle sue lettere, basta fare i nomi di George Sand, Théophile Gautier e del barone Carlo Rivetti.
Probabilmente, l'amore e la curiosità per la letteratura, oltre che per la sua formazione (lettura dei classici al liceo imperiale Louis-le-Grand: Orazio, Virgilio, Corneille, Racine, Voltaire), nasce anche dalle sue amicizie e frequentazioni (grande amico di Baudelaire). Ufficialmente, Eugène è figlio di Charles-Francois Delacroix de Contaut, nominato dal Direttorio ministro degli Esteri nel 1795 e sostituito, due anni dopo, da Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord (vescovo e principe).
Ufficiosamente, l'artista è figlio proprio di Talleyrand (pare che, per una disfunzione, Charles Delacroix fosse sterile), al quale «in età adulta assomiglierà sia nell'aspetto che nel carattere». Soprattutto per l'indole irrequieta e per il carattere passionale e carismatico.
Si deve a Gautier un magnifico ritratto di Delacroix: «Era un giovane elegante e delicato, che, una volta veduto, non si poteva dimenticare. Il colorito, d'un pallore olivastro, gli abbondanti capelli neri, gli occhi fieri dall'espressione felina, coperti da sopracciglia folte e rialzate all'estremità inferiore, le labbra fini e sottili ombreggiate da leggeri baffetti, il mento volitivo e potente gli davano una fisionomia di una bellezza altera, strana, esotica, quasi inquietante: lo si sarebbe detto un maragià indiano, che avesse ricevuto a Calcutta una perfetta educazione da gentleman e fosse venuto a passeggiare in mezzo alla civiltà parigina».
I diari, s'è detto. Delacroix parla di pittura, ma anche di letteratura e di musica. Un'antologia, curata da Lalla Romano, è uscita nel 1945 da Chiantore. Poi ristampata da Einaudi (1994) e da Abscondita (2004). Einaudi ha anche pubblicato il diario completo, in tre volumi curati da Lamberto Vitali, nel 1954 (altra edizione nel 2002).
Ed ecco che le pagine del Journal (premessa di Delacroix, 3 settembre 1822: «Metto in pratica il progetto fatto tante volte di scrivere un diario. Desidero soprattutto non perdere di vista che lo scrivo solo per me») diventano una sorta di palcoscenico di Parigi («La prima parte della notte, cattiva: Mi sono alzato che era l'alba e ho passeggiato. Ho goduto il momento solenne in cui la natura riprende le sue forze, quando realisti e repubblicani sono addormentati in un sonno comune»), sullo sfondo del quale si agitano le passioni politiche che coinvolgono Grecia e Francia, il viaggio in Marocco che cambia la tavolozza di Delacroix, i suoi incontri con Géricault (morto a soli 36 anni, per il quale egli ha una sorta di venerazione) e Mérimée, Stendhal e Chopin, Paganini e George Sand, Berlioz e Sainte-Beuve.
E, non ultimo, quello con Dumas. «Il terribile Dumas, che non abbandona mai la sua preda — scrive Delacroix il 25 novembre 1853 —, è venuto a trovarmi a mezzanotte, col suo quaderno bianco in mano. Dio sa che cosa caverà dai ragguagli che io scioccamente gli ho dato! Mi è molto simpatico, ma non sono fatto della stessa pasta, e non perseguiamo lo stesso scopo. Il suo pubblico non è il mio: uno di noi due è per forza un pazzo».

Corriere Salute 29.9.13
«Typhoid Mary»
Agli inizi del Novecento scoppiò a New York il caso della giovane Mallon, una portatrice sana del batterio del tifo
La cuoca irlandese che diventò la donna più pericolosa d'America
di Ruggiero Carcella


Negli Stati Uniti, il suo nome è diventato sinonimo di "untore". Il suo caso giudiziario continua a sollevare dubbi sui confini tra il diritto alla libertà personale e le restrizioni imposte da motivi di salute pubblica. Nel mondo scientifico, invece, si è guadagnata il titolo di "paziente zero" (vedi box) della febbre tifoidea.
Mary Mallon avrebbe proprio fatto a meno di passare alla storia con l'appellativo di "Typhoid Mary", Mary la Tifoide. Ma così è avvenuto, e la vicenda di questa cuoca irlandese, naturalizzata statunitense, che trascorse in quarantena forzata 25 dei suoi 68 anni, tenne banco nel secolo scorso appena nato. E ancora fa discutere.
Fine agosto 1906, casa di villeggiatura a Oyster Bay, Long Island. La figlia minore di Charles Henry Warren, famiglia di facoltosi banchieri di New York, si ammala e la diagnosi è uno choc: tifo. Tempo una settimana e altri cinque membri della famiglia sono contagiati. Scoppia lo scandalo e il panico. Come fa una malattia comunemente associata allo sporco, alle periferie, alla feccia della società a raggiungere una famiglia altolocata, una dimora lussuosa, una delle località più ambite d'America? Le indagini non riescono a risalire alla causa. Poi da New York arriva uno zelante ufficiale sanitario, il dottor George Soper, che trova un indizio: la cuoca, congedatasi qualche giorno dopo la comparsa del tifo. Ottiene anche una sua descrizione: circa 40 anni, alta, florida, capelli biondi, occhi azzurri e mascella volitiva.
Sospetto fondato. In effetti Mary Mallon (nata in Irlanda, a Cookstown, nel 1869), cuoca referenziata dell'alta società, negli ultimi dieci anni è passata nelle cucine di cinque famiglie e in tutte è comparsa la febbre tifoidea. Soper si mette sulle tracce della donna, elettrizzato dall'idea di trovarsi appunto davanti a quella che sembrava a tutti gli effetti una "portatrice sana": cioè malata, ma senza sintomi. Dopo fughe e inseguimenti, nel marzo del 1907, Soper riesce a rintracciare Mary presso una famiglia in Park Avenue, colpita dal tifo. Il medico non ha un approccio felice: riesce a parlarle in cucina, ma le racconta dei sospetti sulla malattia ed "esige" campioni di urina, feci e sangue.
La reazione è da vera irlandese sanguigna, come spiega nel libro dedicato al caso (vedi scheda) Anthony Bourdain, primo chef d'America, acclamato autore di storie a sfondo gastronomico e di serie televisive note in tutto il mondo. Bourdain riporta il racconto che il dottor Soper fece dell'incontro con Mary: «Afferrò un forchettone da arrosto e avanzò nella mia direzione. Io percorsi in tutta fretta il corridoio lungo e stretto, varcai l'alto cancello di ferro e il cortile, e arrivai al marciapiede. Mi sentivo assai fortunato a esserle sfuggito. Confessai a me stesso che avevo iniziato col piede sbagliato. A quanto pare Mary non capiva che volevo aiutarla». No, lei non capisce e non capirà mai. Continuerà a proclamarsi innocente e si rifiuterà di collaborare con le autorità sanitarie, convinta di essere vittima di una macchinazione.
I l dottor Soper fa un altro paio di tentativi. Poi il dipartimento della Sanità di New York decide di prendere la cuoca in custodia. Spedisce in Park Avenue una donna, la stimata dottoressa Josephine Baker, con un'ambulanza (trainata da cavalli) e tre poliziotti. Per domare una Mary inferocita, ce ne vorranno cinque. La portano all'ospedale Willard Parker, la sottopongono alle analisi dalle quali risulta essere una «vera e propria coltura di tifo». Il suo ritratto, con i capelli scuri però, finisce sui giornali e lei diventa il fenomeno mediatico "Typhoid Mary". Il dottor Soper cerca una via d'uscita. Le spiega come avviene il contagio, cerca di convincerla a farsi asportare la cistifellea (la cura di allora, ndr). Mary Mallon non ci sta. Allora la trasferiscono in isolamento a North Brother Island, un isolotto di otto ettari di fronte al Bronx dove vengono messi in quarantena «gli sciami di tifo esantematico, colera, febbre gialla e vaiolo che tracimavano dagli altri ospedali», scrive Anthony Bourdain.
L a cuoca vive in una villetta a un piano. In pratica, sequestrata ed esclusa dal mondo civile senza nessuna accusa, processo o condanna per alcun crimine. Le autorità potevano farlo? Da un punto di vista strettamente legale, il dipartimento della Sanità di New York ha le carte in regola: isolamento, trasferimento e perdita della libertà personale sono misure consentite in caso di malattie contagiose o infettive. Il punto è che nello Stato erano stati identificati almeno altri 50 portatori sani della malattia, nessuno dei quali però incarcerato. Nel 1909, Mary Mallon fa ricorso per tornare in libertà, ma gliela negano. Un anno dopo, il nuovo commissario sanitario di New York ordina il suo rilascio, sostenendo che Mary ha imparato le regole della prevenzione e ha promesso di non fare più la cuoca.
In effetti, per un po' cambia mestiere, ma alla fine, fornendo nomi falsi, torna ai fornelli. Peccato che l'ultimo impiego sia allo Sloane Maternity Hospital di Manhattan. Nel gennaio del 1915, 25 persone sono infettate dal tifo e due perdono la vita. Il conteggio finale della "carriera" di questa cuoca è di 47 contagiati e tre deceduti. Mary Mallon viene rimandata in isolamento a North Brother Island, dove muore 23 anni dopo. Del tutto innocente, a suo modo di vedere. Da una sua citazione: «C'erano due tipi di giustizia in America... Tutta l'acqua del mondo non avrebbe potuto pulirmi da quelle accuse, agli occhi del dipartimento della Sanità. Loro vogliono dare una dimostrazione; vogliono far vedere ai ricchi che sono in grado di proteggerli, e io sono la vittima».

Un poco ambito «primato», utile alla scienza
Il «paziente zero» è il primo paziente individuato nel campione della popolazione
di un'indagine epidemiologica. Mary Mallon viene considerata tale per la febbre tifoidea, di cui era portatrice sana.
In epoca più recente, tra i pazienti zero viene annoverato il professor Liu Janlun, 64 anni, apprezzato microbiologo molto conosciuto in Cina, identificato dagli esperti come colui che diffuse la SARS, portando con sé l'infezione dall'istituto di ricerca in cui effettuava i suoi esperimenti all'Hotel Metropole di Kowloon di Hong Kong. Non è sempre così certa e assoluta, l'identificazione di un paziente zero. Per l'H1N1, la febbre suina del 2009, le cronache parlarono di un bimbo messicano di cinque anni. Mai confermato. Come anche per Gaetan Dugas, uno steward al quale nel 1980 fu diagnosticato il sarcoma di Kaposi, una delle sindromi comunemente legate all'AIDS. Alcuni epidemiologi degli anni Ottanta ritennero fosse lui il primo caso di AIDS, ma il suo ruolo non fu mai chiarito con esattezza. Forse non fu il primo malato, ma di sicuro fu il primo caso che consentì di capire come l'Hiv
si propagava. Più probabile, invece, l'attribuzione del paziente zero per l'Ebola. Nell'agosto del 1976 in Zaire,
la terribile febbre emorragica fu diagnosticata a Mabalo Lokela, un insegnante di 44 anni. Lokela morirà 14 giorni dopo.

Corriere Salute 29.9.13
Una malattia legata alla povertà che ogni anno infetta milioni di persone


Di salmonelle ne esistono di diversi tipi. Il batterio Salmonella typhi, portatore della febbre tifoide, è unicamente dell'uomo. Se non viene trattato, ha un tasso di mortalità superiore al 10%.
«È uno dei pochi in grado di provocare una malattia sistemica, — spiega Massimo Galli, direttore dell'Unità operativa di Malattie infettive all'ospedale Sacco di Milano — cioè in grado di interessare tutto l'organismo. Il 3-5% di quanti contraggono la Salmonella typhi mantiene lo stato di portatore sano anche per decenni». I dati epidemiologici fanno capire che la febbre tifoide resta un problema sanitario attuale. «È una malattia da 21 milioni di nuove infezioni all'anno nei Paesi tropicali, con circa 200 mila morti — aggiunge Galli —. Non a caso il Paese più colpito al mondo è Papua Nuova Guinea, con più di mille casi all'anno per centomila abitanti, e in generale l'Indonesia, la parte ovviamente povera, dove il problema è serio. Seguono il Sudest asiatico e infine le aree tropicali, in modo abbastanza correlato al tasso di povertà». In Europa, nel 2010 sono stati riportati meno di 1.500 casi per centomila abitanti, l'84% dei quali risultavano importati,
la grande maggioranza da India e Pakistan. E in Italia? «I dati risalgono al 2006-2007 con una caduta netta nella notifica: dai quasi 1.100 casi del 1996 a poco più di 200 casi nel 2006» dice l'infettivologo. Per la prevenzione, è consigliabile l'utilizzo dei vaccini. Ce ne sono di orali validi. Quanto alla terapia, quella antibiotica sta mostrando la corda . «Nei Paesi in cui Salmonella typhi si è mantenuto più frequentemente, — sottolinea Galli — sta emergendo una serie di ceppi resistenti alla gran parte degli antibiotici di prima linea comunemente utilizzati». Un nuovo approccio terapeutico riguarda lo sviluppo di inibitori del biofilm di colesterolo che ricopre la superficie interna della cistifellea, dove le salmonelle si concentrano. Ma per ora è solo una teoria. La prassi di risolvere il problema dei portatori sani segregandoli, invece, è rimasto in auge fino a tempi recenti. «Tre o quattro anni fa — dice l'esperto — è emerso che ben 43 donne portatrici di Salmonella typhi sono state messe in quarantena nel Long Grove Asylum di Epsom nel Regno Unito tra il 1907 e il 1992. Alcune di queste ci sono state per più di 40 anni, fino alla sua chiusura». Una di loro, Rosina Bryans, ne ha trascorsi lì addirittura 60.

Corriere Salute 29.9.13
Più vulnerabili dei padri i ragazzi di oggi «istruiti» sul sesso dal web
Credono di sapere tutto e, proprio per questa ragione, non sanno come prendersi cura di sé e quando chiedere aiuto
di Elena Meli

Per gli adolescenti di oggi a prima vista il sesso non è un tabù: smaliziati fino all'eccesso, ne parlano in totale libertà, bruciano le tappe facendolo sempre prima e probabilmente per loro l'atto pratico non ha più segreti perché hanno già visto di tutto, online o nelle foto hard che si scambiano con tanta facilità. In realtà hanno le stesse vergogne, paure e insicurezze, ma soprattutto la stessa ignoranza in materia dei loro coetanei di vent'anni fa: lo dimostra una ricerca italiana condotta su circa 5 mila diciottenni che sarà discussa nei prossimi giorni durante il congresso della Società Italiana di Urologia, nell'ambito della presentazione della nuova campagna educativa Pianeta Uomo promossa da SIU.
L'indagine rivela, ad esempio, che il 28% degli adolescenti non ha mai comprato un preservativo e solo 1 su 3 lo usa sempre durante i rapporti sessuali, mentre altrettanti lo scelgono di tanto in tanto. Colpisce ancora di più, tuttavia, che la maggioranza accetti il condom solo per evitare gravidanze indesiderate: appena 7 ragazzi su cento sanno che è il metodo principale per prevenire le malattie sessualmente trasmesse. «Il vero dramma è che nei decenni scorsi i giovani sapevano di non sapere, oggi invece grazie a Internet e al continuo parlare di sesso con gli amici credono di non aver nulla da imparare, e ciò li espone a un maggior numero di rischi» osserva Nicola Mondaini, uroandrologo dell'ospedale S. M. Annunziata di Firenze e coordinatore dell'indagine.
Così, non stupiscono i dati emersi da uno studio condotto dall'Osservatorio Nazionale sulla salute dell'infanzia e l'adolescenza Paidòss su 1400 giovani, secondo cui l'età della prima volta ha continuato ad abbassarsi negli ultimi anni e oggi il 19% degli under 14 ha già avuto rapporti completi (nel 2012 le stime indicavano il 10%), spesso senza condom.
I ragazzini sono del tutto all'oscuro dei pericoli cui vanno incontro: il 73% non saprebbe citare neppure 5 fra le principali malattie a trasmissione sessuale e 1 su 3 crede siano un problema trascurabile, che non lo riguarda.
«Di fatto, negli ultimi 5 anni l'incidenza di queste patologie fra i ragazzi è aumentata e pure le baby mamme sono un fenomeno in crescita ovunque: per questo è urgente anticipare l'educazione alla sessualità nelle scuole» dice Giuseppe Mele, presidente Paidòss.
«Non si tratta di insegnare l'atto fisico, ma di educare i ragazzi alla relazione con l'altro, al rispetto e alla civiltà — aggiunge Ciro Basile Fasolo, andrologo, sessuologo medico e direttore del Laboratorio per la Comunicazione in Medicina al Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell'Università di Pisa —. A volte funzionano i corsi tenuti da un coetaneo formato appositamente per questo; stando ai risultati dell'indagine condotta sui diciottenni, poi, anche la presenza di un maggior numero di ragazze in classe, più consapevoli e mature riguardo alla sessualità, è utile perché i maschi capiscano l'importanza della cura di sé. Purtroppo vige ancora l'equivoco dell'uomo che non deve chiedere mai, così tutti tacciono: 1 ragazzino su 4 teme di avere "misure inadeguate", ma pochissimi vanno dall'andrologo per togliersi i dubbi».
«Anche perché non sanno chi sia l'andrologo: 15 anni fa ne aveva sentito parlare il 3% dei giovani, oggi siamo comunque a un risicato 13% — riprende Mondaini —. Invece, i ragazzi dovrebbero avere con questo specialista lo stesso tipo di consuetudine che le ragazze hanno con il ginecologo, soprattutto da quando non esiste più la visita di leva obbligatoria che, bene o male, intercettava i maschi con qualche problema. Il nostro studio conferma infatti che 1 giovane su 3 ha una malattia andrologica, soprattutto varicocele (dilatazione delle vene del testicolo che aumenta la temperatura locale e alla lunga danneggia gli spermatozoi, ndr) e criptorchidismo, ovvero mancata discesa dei testicoli. Sono per lo più disturbi che si diagnosticano in pochi minuti e si possono risolvere bene e senza conseguenze, intervenendo da giovani; trascurarle invece può significare andare incontro a problemi futuri non da poco, dalla sterilità alle disfunzioni sessuali».
«Tantissime patologie si potrebbero riconoscere nella prima infanzia, entro i dieci anni, se le mamme osservassero di più i loro bimbi o se gli stessi ragazzini imparassero a guardarsi, toccarsi e a parlarne, quando hanno il dubbio che ci sia qualcosa di strano — prosegue Mondaini —. Purtroppo l'uomo, fin da piccolo, ha un "tempo di reazione" lunghissimo ai disturbi della sfera sessuale e spesso tace a se stesso la verità delle cose, finché un partner lo costringe a prenderne atto».
Per vergogna o pudore le mamme lasciano correre, qualche volta il pediatra dà un'occhiata, ma in molti casi si arriva all'adolescenza senza essere mai stati controllati davvero "lì". E dai 14-15 anni in su per i maschi si spalanca un baratro: non si va dal pediatra, non si va dal medico di famiglia, non si chiede aiuto all'andrologo o all'urologo. «Questo anche perché i padri latitano. Se però la scarsa comunicazione poteva essere "scusata" cinquant'anni fa, non può più esserlo oggi: i papà devono almeno far capire ai figli che bisogna chiedere un consiglio al medico quando si ha il dubbio che qualcosa non vada per il verso giusto. L'ideale sarebbe portarli dall'uroandrologo al termine della pubertà.— interviene Vincenzo Mirone, docente di urologia dell'università Federico II di Napoli —. Purtroppo, invece, sono proprio i giovani a sostenere gran parte del mercato online dei farmaci per la disfunzione erettile: in preda alle insicurezze si rivolgono al web, dove esistono perfino siti che fanno provare tre pillole diverse per decidere quale faccia al caso proprio, tutto da soli ed esponendosi a rischi enormi. Il problema nasce da una mancanza di cultura: i giovani usano gli anabolizzanti per "pomparsi" ma non sanno che questo li renderà impotenti, distruggendo la produzione di testosterone; pensano di non essere abbastanza bravi a letto, e allora prendono insieme ecstasy e pillole per l'erezione, per sballarsi e riuscire lo stesso ad avere un rapporto».
Secondo i numeri raccolti da Mondaini, il 40% dei diciottenni abusa di droghe, l'80% beve alcol, concentrandone (in 1 caso su 4), grandi quantità nelle "serate dello sballo" (binge drinking). «Lo stile di vita di questi ragazzi è preoccupante — ammette Mondaini —. La droga "brucia" la possibilità di avere erezioni efficaci, chi ne fa uso da giovane diventerà un 40-50enne con disfunzione erettile; pure l'alcol in eccesso è pericoloso per l'apparato genitale. Il problema è farlo capire ai ragazzi: le proibizioni e i messaggi sulle conseguenze per la salute che avranno questi comportamenti di solito non funzionano, perchè i diciottenni si sentono invincibili e la prospettiva di malattie a 60 anni non li spaventa. Bisogna far capire loro che se scelgono alcol e droga non potranno avere un sesso bello e appagante, qui e ora, perché una cosa esclude l'altra. Il prezzo dell'abuso di alcol e droghe non si paga da anziani, ma molto presto. Al più tardi intorno ai 35-40 anni, nel pieno della vita attiva».

Corriere Salute 29.9.13
Maschi che aspettano troppo
Molta resistenza ad ammettere difficoltà
di E. M.


I giovani si guardano bene dall'andare a parlare con il medico delle loro insicurezze sotto le lenzuola. Ma anche gli adulti non scherzano: in media un uomo con disturbi sessuali impiega 2-3 anni prima di decidersi a chiedere aiuto. «Quasi tutti pensano che si tratti di problemi transitori e aspettano che passino — osserva Furio Pirozzi Farina, presidente della Società Italiana di Andrologia al cui congresso nazionale, pochi giorni fa a Firenze, sono stati discussi anche questi temi —. Oggi più di ieri da parte degli uomini c'è attenzione alla salute sessuale, eppure quasi tutti arrivano quando il problema è disperato».
A guardare i dati di diffusione delle patologie andrologiche, peraltro, di motivi per correre dal medico ce ne sarebbero, eccome: secondo le stime della SIU, gli italiani con eiaculazione precoce sono circa 4 milioni; 3 milioni hanno problemi di disfunzione erettile; un milione soffre di disturbi del desiderio e quasi altrettanti vanno incontro a prostatiti. «Senza contare l'infertilità: oggi in Italia 1 coppia su 5 non riesce ad avere un figlio e in circa metà dei casi la colpa è di lui — sottolinea Vincenzo Mirone, segretario generale SIU —. Spesso la causa risiede in patologie che sarebbe possibile prevenire o curare se si arrivasse all'attenzione medica prima di trovarsi con le spalle al muro, dopo anni in cui sintomi che dovrebbero spingere a un controllo dall'andrologo sono stati trascurati».
«I disturbi della sessualità maschile sono molto diffusi ma se ne parla poco: l'eiaculazione precoce, ad esempio, è il problema più comune fra gli uomini, anche giovani, ma è difficile che si ammetta di soffrirne, così come è raro che si parli del calo del desiderio al maschile, che pure esiste ed è frequente in chi è più avanti negli anni — dice Pirozzi Farina —. Moltissimi, pure fra gli adulti, si rivolgono al web piuttosto che al medico per chiarire i loro dubbi; purtroppo in rete, oltre a trovare informazioni a volte scorrette, si incappa facilmente in prodotti per "aiutare" la sessualità maschile che nella migliore delle ipotesi sono innocui, ma in 3 casi su 4 possono essere pericolosi perché contengono farmaci in dosaggi sbagliati o contaminanti dannosi».
Come garantirsi una vita sessuale sana e senza guai, allora? Il primo passo è un corretto stile di vita, come sottolinea Ciro Basile Fasolo, andrologo di Pisa: «Innanzitutto occorre non esagerare con il consumo di alcol ed evitare droghe, fumo e malattie a trasmissione sessuale, perché queste sono le più grosse minacce per la salute andrologica. Una sola sigaretta ad esempio riduce per 2-3 ore il flusso di sangue arterioso e del 70% la produzione del nitrossido, molecola che aiuta a far scattare l'erezione. Poi si tratta di seguire le regole del buonsenso: una dieta equilibrata, esercizio fisico regolare per mantenere il peso forma, rivolgersi all'andrologo se qualcosa non va».
Alcuni controlli sono necessari, stando agli esperti: una visita al termine della pubertà, per accertarsi che tutto sia a posto prima di iniziare l'attività sessuale, e una visita prima di mettere in cantiere un figlio, sottoponendosi a un dosaggio del liquido seminale per essere sicuri di non avere problemi di fertilità. «Intorno ai 35-40 anni sarebbe poi opportuno un dosaggio del testosterone, l'ormone del "buon invecchiamento" al maschile — aggiunge Mirone —. Oggi peraltro l'uomo può continuare ad avere una buona soddisfazione sessuale anche nella terza età, se segue uno stile di vita sano, senza aumentare troppo di peso e si controlla regolarmente per identificare presto e bene eventuali malattie prostatiche».