lunedì 30 settembre 2013

l’Unità 30.9.13
Mercoledì il voto di fiducia
Serve il coraggio dei moderati
di Emanuele Macaluso


L’AVVENTUROSA INIZIATIVA BERLUSCONIANA CHE HA MESSO IN CRISI IL GOVERNO E COLPITO INTERESSI VITALI DEL PAESE, ha un risvolto su cui riflettere: lo sconcerto tra le forze produttive, lo sbandamento dell’area politica del cen- tro-destra e anche lo smascheramento di quei gruppi di «sinistra» (Grillo e il Fatto) che avevano bollato l’opera del presidente della Repubblica come copertura e sostegno alle magagne del Cavaliere.
C’è da aggiungere che anche nel centro-sinistra, dopo tanti giuochi tra le correnti-non correnti, è scoccata l’ora della verità. Anzitutto un’osservazione che dà un senso preciso alle cose cui ho accennato: tutti i giornali, anche il Fatto, hanno qualificato l’iniziativa berlusconiana come una pugnalata al Paese. Il che significa che il governo Letta, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, nella realtà italiana esprime una verità: uno stato di necessità dovuto alla drammatica situazione economica e sociale, alla nostra precaria collocazione in Europa e alla impossibilità di tornare a votare con una legge elettorale infame e sotto giudizio della Corte Costituzionale. Questa verità non può essere cancellata dall’ira del Cavaliere e dei suoi scudieri che non vogliono prendere atto di una sentenza irrevocabile, di una sconfitta che non è solo giudiziaria, ma politica perché ha messo in forte evidenza che un certo modo di fare politica ha toccato il fondo.
Nei prossimi giorni vedremo come si svilupperà il dibattito parlamentare e quali processi politici si apriranno anche nei gruppi parlamentari che hanno sostenuto o avversato il governo Letta. Un’attenzione particolare deve essere data all’«area moderata», dove forze sociali (non solo la Confindustria), gruppi cattolici e laici che avevano apprezzato l'impegno del Pdl in un governo di emergenza con il Pd e Scelta Civica, non sono disposti a subire passivamente l’avventurismo berlusconiano. E anche nel gruppo parlamentare del Pdl le critiche di Cicchitto e la decisione degli onorevoli Quagliariello e Lorenzin di dimettersi da ministri ma non di aderire a Forza Italia rivela più che disagio una determinazione politica di non accettare un regime di partito che ignora le regole più elementari della democrazia e della collegialità. Un partito in cui c’è un «segretario» che non ha partecipato né alla demenziale decisione di fare dimettere tutti i parlamentari (pezzi di carta inutili in mano a Schifani e Brunetta), né a quella di mettere in crisi il governo.
Il tema di oggi è, a mio avviso, chiaro. Dal momento in cui formalmente si apre la crisi il Capo dello Stato, seguendo la Costituzione e la prassi, dovrà verificare se nel Parlamento c’è una maggioranza in grado di esprimere un governo. Ma per questa possibilità occorre lavorare con iniziative politiche o bisogna rassegnarsi ad accettare quel che vorrebbe Berlusconi? La questione riguarda soprattutto il Pd, dove non mancano gruppi che, per motivi correntizi, privilegiano le elezioni: una parola chiara e iniziative limpide sono necessarie per capire dove si vuole andare a parare. In ogni caso si tenga ben presente il fatto che il presidente della Repubblica ha più volte detto che è assurdo tornare a votare dopo pochi mesi e ancora più assurdo farlo con una legge che tutte le forze politiche - almeno a parole - dicono di non volere e che il 3 dicembre subirà un giudizio della Corte Costituzionale.
Su questo nodo è bene che i dirigenti di tutte le forze politiche rileggano l’applauditissimo discorso di Napolitano pronunciato alle Camere dopo la sua rielezione, per capire che non ci sono spazi: con questa legge non si voterà. Il Paese nella situazione di oggi ha bisogno di un governo che intanto faccia l’essenziale in tutti i campi, soprattutto in quello economico-sociale e anche per cambiare la legge elettorale. Solo dopo questa fase si potrà valutare il futuro, non solo del governo ma della politica italiana.

Corriere 30.9.13
Epifani: «Via il Porcellum, poi le urne»
Congresso a rischio se si vota subito
Il segretario: qualsiasi decisione la prenderemo insieme a Renzi
di Alessandro Trocino


ROMA — Legge di Stabilità e legge elettorale. Poi, ma solo poi, al voto. E niente «governicchi e trasformismi». Guglielmo Epifani detta le condizioni del Partito democratico per uscire dallo stallo provocato dalle dimissioni dei ministri berlusconiani e dall’accelerazione della crisi. Il segretario prova a fare la sintesi. La data del ritorno alle urne inciderà pesantemente anche sulle dinamiche interne e non è un caso che Matteo Renzi stia alla finestra, in attesa di capire quale direzione prenderà l’iter congressuale.
Epifani prova a rassicurare tutti: «Il percorso di unità, avviato con l’ok alle regole, deve restare in questa fase delicatissima. Vi assicuro che qualsiasi decisione la prenderemo tutti insieme. Anche con Renzi». L’allusione non è neutra. Così come non è una ripetizione superflua ribadire la conferma del «percorso delle primarie». Il congresso è fissato per l’8 dicembre. Ma se si dovesse andare al voto? Pochi lo dicono e molti lo pensano: salterebbe il congresso, il segretario Epifani verrebbe congelato e si andrebbe alle primarie di coalizione con Renzi, ma forse anche con lo stesso Letta. Tra i pochi a dirlo apertamente c’è Giorgio Merlo: «Chi pensa di confermare il congresso in caso di crisi o è un ingenuo o prende in giro tutti i democratici». Ma anche Piero Fassino, che pure sostiene Renzi, spiega: «Ora la priorità è per l’Italia e il suo futuro, non per il dibattito interno al Partito democratico». Di parere opposto Roberto Giachetti: «Far saltare il congresso sarebbe un’operazione tafazziana».
Anche su come affrontare il dopo Letta, se il premier non riuscirà a ricomporre le fratture, le opinioni divergono. Dario Franceschini da Cortona ha sostenuto la necessità di un governo vero, che possa affrontare non solo stabilità e legge elettorale, ma anche «le emergenze economiche e sociali» e il semestre europeo. Il Parlamento, ha spiegato, può lavorare «fino alla primavera del 2015». Di tutt’altro avviso sono i molti che hanno fretta. Gianni Cuperlo non vuole più avere nulla a che fare con il Pdl: «Stop all’interlocuzione con chi calpesta regole, istituzioni e principi». Serve una «messa in sicurezza» della democrazia e poi via al voto. Così Giuseppe Civati: «Dobbiamo affrontare le emergenze in tempi ragionevoli». Anche Pier Luigi Bersani sembra voler staccare la spina: «Come si sa, ho sempre considerato irrealistico un governo con il Pdl. Poi è diventato necessario, ma è rimasto irrealistico. Ora quel che c’è da fare lo dovremo vedere con Letta, che ci ha rappresentato al meglio in un momento difficile».
Il nodo della legge elettorale resta sul tappeto. Giachetti, che propose una mozione per l’immediata abolizione del Porcellum e per il ritorno al Mattarellum, beccandosi dell’«intempestivo» dalla Finocchiaro, ha qualcosa da dire al riguardo: «Vedo che Franceschini avrebbe trovato il colpevole: sarei io, che non mi accontentavo della mediazione ma volevo la cancellazione del Porcellum. Ora facciamola una legge: se non è il Mattarellum, va bene anche la bozza Violante. Purché non si abolisca il premio di maggioranza, sennò ci aspettano larghe intese per i prossimi 15 anni».

il Fatto 30.9.13
Pippo Civati (PD)
“Chi molla B. senza nulla in cambio?”
di Beatrice Borromeo


È una tripla in schedina: può succedere di tutto”. La domenica di Pippo Civati, candidato alla segreteria del Pd, è stata un susseguirsi di “riunioni infinite, grandi telefonate e soprattutto confusione”. Perchè di tutti gli scenari che si prospettano ora che la crisi di governo è imminente, nessuno – giura il parlamentare democratico – è tranquillizzante: “È un problema di tempi. Alle frange dissidenti del Pdl potrebbe non convenire una nuova alleanza con noi”. Perchè no, Civati? Per noi non avrebbe senso mettere in piedi un governo che duri troppo a lungo: il Letta bis dovrebbe nascere col solo scopo di cambiare la legge elettorale. Poi bisogna tornare subito alle urne, a inizio primavera. E pensa che i ribelli del Pdl, da Cicchitto alla Lorenzin, non sarebbero d’accordo? Perchè dovrebbero mollare Berlusconi se non c’è contropartita? Uno non abbandona il suo partito per fare il ministro qualche mese in più. Il percorso che abbiamo davanti è veramente complicato e non è scontato che si riesca a trovare una soluzione condivisa. Persino Alfano, a sorpresa, ha dichiarato che se la destra finisce in mano agli estremisti lui sarà “diversamente berlusconiano”. Eh già, ma che vuol dire? E poi non si può andare avanti così, contando i ritagli: prendiamo 10 parlamentari di qua, 5 ministri di là… Il problema è proprio che si rischia una soluzione scilipotesca. Bisogna accettare il fatto che, in queste ore, le larghe intese sono definitivamente crollate. Il passo successivo? Sfatare il tabù che non si può votare. Quello che non si può fare è stare al governo per forza. Pensa che sarà Renzi il vostro candidato premier? Non ne ho idea, anche se sono molto curioso di scoprirlo. Di certo sarebbe la persona più sostenuta dal nostro elettorato. Ma insisto sul fatto che sarebbe assurdo andare subito a votare. Quindi? Bisogna optare per la via di mezzo. Che però, come notava lei prima, convince più voi del Pd che i vostri (ex) alleati. Infatti bisogna rivolgersi a tutto il Parlamento, non solo a pezzi del Pdl, e vedere chi è pronto ad assumersi la responsabilità di tornare alle urne col porcellum. Mi aspetto che il presidente Napolitano lavori proprio in questa direzione, per evitare quella che sarebbe la resa finale della politica. Ci sono stati contatti col Movimento 5 Stelle? Loro ufficialmente hanno abbassato la saracinesca, come al solito. Negano che possa esserci un’apertura anche solo per un periodo limitato di tempo. Pare che, alla fine, vi toccherà davvero fare la conta dei dissidenti, per dar vita al Letta bis. È davvero il caos. Ma vogliamo davvero permettere che sia il Cavaliere ad avere l’ultima parola? Sarebbe troppo per tutti, anche per noi.

La Stampa 30.9.13
Gentiloni: “La legislatura non va avanti con 5 voti di scarto”
Il renziano: “Un accanimento terapeutico non produrrebbe benefici”
di Car. Ber.


ROMA Gentiloni, si rischia di votare entro Natale?
«Naturalmente la regia di quanto succederà nei prossimi mesi è nelle mani del Capo dello Stato. Il che è una garanzia di equilibrio e di saggezza. Tutti sappiamo che, comunque vada il chiarimento e il voto della prossima settimana, ci sono alcuni impegni inderogabili: la legge di stabilità e la cancellazione del porcellum. Difficile rendere compatibile tutto questo con un voto immediato».
Il Pd è compatto sulla linea del no ai governicchi e ai trasformismi?
«Io credo di sì, certamente Epifani dice cose condivisibili. Una respirazione bocca a bocca alla legislatura, per prolungarla artificialmente, aggiungerebbe danni al disastro fatto da Berlusconi. Non verrebbe neanche capita all’estero e dai mercati. L’accanimento terapeutico sulla legislatura non produrrebbe effetti benefici sull’economia e sull’Italia».
Non vi appassiona dunque la nascita di una fronda del Pdl?
«Ci interessa molto, anche se è difficile che un partito nato come padronale non lo sia fino all’epilogo. E comunque, per produrre effetti politici, il malessere dovrebbe assumere dimensioni tali da non configurare governi appesi ad un filo».
Ma cosa succederebbe se Letta andasse alle Camere e la fiducia passasse di misura per pochi voti, senza alcuna garanzia di tenuta?
«Lo valuteremo: la fiducia è un voto palese e un’ipotesi del genere comporterebbe che settori molto consistenti o del Pdl e o dei 5 Stelle facessero delle scelte precise. Vedremo se ci sarà uno smottamento vero, ma la legislatura non va avanti con cinque voti di margine».
Temete forse di affrontare poi una campagna elettorale pagando voi soli il prezzo di misure impopolari?
«Non per la campagna elettorale, ma per il bene del Paese, di fronte ad una situazione in cui il leader del centrodestra si è aggrappato all’Italia per farla affondare con sé, bisogna prendere atto che è finita sia la vicenda di Berlusconi, sia l’intesa con la destra. E il modo in cui in tutte le democrazie si sancisce l’esaurimento di un ciclo politico è il voto. Quindi non è una questione di interessi di partito, ma visto che Berlusconi vuole trascinare il Paese con sé, l’Italia metta la parola fine a questa vicenda con un voto».
E se le cose precipitassero, il congresso verrebbe congelato o rinviato?
«È chiaro che se si votasse l’8 dicembre, non faremo gazebo lo stesso giorno per eleggere il leader Pd. Ma nello scenario di una conclusione ordinata della legislatura, in cui i due adempimenti dell’abolizione del porcellum e della legge di stabilità venissero portati avanti nelle prossime settimane, è immaginabile pensare che si vada a votare ai primi di marzo. Se l’orizzonte di voto fosse quello di novembre-dicembre, è ovvio che trasformeremo il nostro congresso, scegliendo con le primarie subito il nostro candidato premier. Ma nei tempi ad oggi ipotizzabili, faremo il congresso, anche per rafforzare la leadership Pd con un’investitura popolare come quella che può venire dal voto nei gazebo».
Insomma, Renzi forse sarà costretto a cambiare i suoi programmi e potrebbe vedersela con Letta alle primarie?
«Non so cosa abbia in mente di fare Enrico e ovviamente è nel suo diritto aspirare a sfidare Renzi. Credo non abbia avuto neanche il tempo di pensare a questa eventualità. Quel che conta è che il Pd si prepari a offrire al paese un’alternativa che chiuda il ciclo berlusconiano e dia una vera stabilità, che può venire solo da una vera svolta politica. Di certo Renzi si prepara ad entrambe le sfide avendo tutte le carte in regola».

Repubblica 30.9.13
“Noi grillini dobbiamo uscire dal web apriamo il dialogo con i Democratici”
Il “dissidente” Battista: Beppe sbaglia, adesso niente urne
Se andiamo al voto con questo sistema e non vinciamo che si fa, abbandoniamo tutto?
È infantilismo
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Lorenzo Battista è appena tornato da una missione in Turchia: «All’estero ci guardano come fossimo i protagonisti di un film fanta-horror, un Paese che riesce a farsi ancora condizionare da Silvio Berlusconi e da chi continua a mantenerlo in vita». Il senatore a 5 stelle chiama il Cavaliere «latitante d’aula»: «È riuscito a venire solo tre volte. Il Senato gli serve, ma lui non serve al Senato». Per questo, perché considera essenziale uscire da questa situazione, non è d’accordo con Beppe Grillo sul voto subito. E avverte: «Non sono il solo».
Secondo lei cosa bisognerebbe fare?
«Dico da tempo che dovremmo proporre un governo alternativo a Letta. Usare i nomi venuti fuori dalle “quirinarie”, stabilire alcuni punti su cui trovare un accordo, e vedere se davvero il Pd ha intenzione di dirci di no. Se lo fa, si prenderà la responsabilità davanti ai suoi elettori».
Un governo con chi?
«Gustavo Zagrebelsky sarebbe un ottimo ministro delle Riforme. Ma dovrebbe esserci uno scatto d’orgoglio del Pd, che invece mi sembra non stia facendo nulla per uscire da questa crisi».
Non è che voi abbiate aperto.
«Vero, ma non ho sentito Epifani dire chiaramente: “Escludo a priori di tornare al voto con il porcellum”.
I partiti stanno pensando a se stessi, non al bene del Paese, alquale serve una maggioranza stabile. E invece, con questa legge, ci ritroveremmo nella stessa situazione di marzo: con nessun vincitore. Al Senato c’è la proposta di modifica di Roberto D’Alimonte presentata da due democratici. Potremmo integrarla con qualcosa del nostro Parlamento pulito. Perché nessuno lo propone?».
Bisognerebbe parlarsi.
«Il dialogo dovrebbe esserci sempre. Le riforme andrebbero fatte con la più ampia maggioranza possibile. Vorrei che il Pd si dimostrasse aperto al cambiamento».
Se lo facesse, il Movimento cambierebbe idea?
«C’è questa cosa che non facciamo alleanze, un Moloch insormontabile. Ma nel regolamento c’è scritto che possiamo anche condividere punti proposti da altri. È quello che bisognerebbe fare. La legge di stabilità va presentata entro il 15 ottobre. Che facciamo? Aspettiamo la troika? Vogliamo finire come la Grecia? Potremmo lavorare insieme e far passare le nostre proposte: il no alla Tav, agli F35, il tetto alle pensioni d’oro».
Grillo dice cose diverse: votateci, dateci la maggioranza o ce ne andiamo.
«Mi sembra un atteggiamento da bambino capriccioso. Se non vinci che fai? Abbandoni? E l’Italia?».
Di Battista ha chiesto a Luis Orellana di «non sparare cazzate» per aver fatto ragionamenti simili ai suoi.
«Di Battista deve capire che non può misurarsi solo sui “mi piace” della sua fan page. Lui cosa propone, oltre che salire sui tetti?».
C’è questa storia che non potete fare strategie perché siete solo “portavoce”.
«Credevo fossimo un Movimento fatto dal basso, dove bisogna confrontarsi con gli attivisti e gli iscritti. Ma so già che alla riunione di domani ci sarà qualcuno che dirà: “La penso esattamente come il post di Grillo”. Mi chiedo che differenza ci sia tra queste persone e i falchi del Pdl, che non fanno che obbedire al loro leader».
Qualcuno di voi potrebbe staccarsi davanti alla possibilità di fare una buona legge elettorale con il Pd?
«Non lo so, parlare con i “se” e con i “ma” è difficile. Il processo decisionale però dovrebbe consentire una consultazione più ampia, senza che ci siano preventive indicazioni dal blog che potrebbero condizionare gli iscritti».

Repubblica 30.9.13
Nichi Vendola per un esecutivo con pochi punti programmatici: “Mettiamo in sicurezza la democrazia”
“È vero, così non si può votare ma evitiamo i nuovi Scilipoti”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Non ci sono le condizioni per rimettere in piedi una coalizione di legislatura, ma un governo di scopo è necessario». Nichi Vendola, il leader di Sel, ora all’opposizione, ha incontrato il segretario del Pd, Epifani, sabato, il giorno della crisi di governo.
Berlusconi vuole andare subito alle urne. E lei, Vendola?
«No, assolutamente. Siamo davanti a un passaggio complesso e drammatico, e abbiamo tutti il dovere di confrontarci con la fragilità della democrazia italiana. Andare alle elezioni con il Porcellum significa rischiare il salto nel buio, con i due Caimani, per usare una definizione di Scalfari, i signori del populismo Berlusconi e Grillo tentati di rovesciare il banco. La legge truffa, ideata con virtuoso servilismo da Calderoli, oggi è un pozzo nero in cui può precipitarel’Italia».
Lei è quindi disponibile a sostenere un nuovo governo?
«Sento il dovere di contribuire a traghettare il paese fuori dalla palude, anche perché la palude, come tutti sanno, è il luogo naturale del Caimano».
Un governo per fare cosa?
«La riforma elettorale. Dobbiamo lanciare una mobilitazione nel paese - e lo chiedo a tutte le forze democratiche, ai sindacati, alla chiesa, alle parrocchie, all’associazionismo. Facciano sentire la loro voce contro lo strumento che consente a giocatori d’azzardo di giocare sulla pelle del paese. E la mobilitazione parta il 12 ottobre nella grande piazza a Roma convocata da Rodotà a difesa della Costituzione. E al tempo stesso, un nuovo governo faccia immediati atti di riparazione nei confronti delle ferite aperte sul piano sociale. Va chiusa definitivamente la partita degli esodati e bisogna rifinanziare gli ammortizzatori sociali. Per questo ci vuole un governo di scopo».
Ma sosterrebbe un Letta-bis con una maggioranza spuria, con i dissidenti del Pdl?
«Non andrei avanti con la sperimentazione di nuovi ibridi. Ne abbiamo visto uno ed è apparso in tutta la sua mostruosità. Si tratta di portare fuori dalle secche, ora, il sistema politico italiano; di mettere in sicurezza il bene della democrazia del paese; di tornare così a una competizione limpida tra schieramenti alternativi».
Insomma, no alle “piccole intese” con l’appoggio di Sel?
«Non capisco cosa significhi. È un modo per ingarbugliare la matassa. Se il confronto è sulla lista dei ministri, deragliamo. Ripeto, bisogna prendere provvedimenti che indichino un’inversione di tendenza rispetto alla politica che ha colpito i ceti medio-bassi. Il vangelo di Berlusconi è consolare i consolati e affliggere gli afflitti».
Fino a che punto lei si spingerà,
pur di fare esistere un governo?
«L’obiettivo è liberare il campo dalla necessità delle larghe intese e dal caimano Berlusconi con un recinto programmatico limitato».
Quanto tempo potrebbe durare questo nuovo governo?
«Pochi mesi, non credo possa avere grande respiro. Deve essere immune da qualunque elemento di scilipotismo».
E Letta cosa deve fare, dimettersi?
«Sarebbe opportuno trarre le conseguenze di quanto è accaduto. È penoso il tentativo di ricucire una tela che è stata squarciata dal suo lato più delicato e prezioso, quello dei principi di convivenza dello Stato di diritto. Non è tabù ragionare di compromesso con il proprio avversario, soprattutto in una situazione di emergenza. Ma c’è una pre-condizione, che è quella di condividere un quadro minimo di valori e di principi. Quando la crepa è sul terreno dei valori, parlare di stabilità è un feticcio vuoto».
Insomma meglio un altro esecutivo piuttosto che un Lettabis?
«Non mi interessa fare sempre come a “X Factor”, una selezione che riguarda le star della vita pubblica».

l’Unità 30.9.13
Vietato votare col Porcellum
di Massimo Luciani


Parlare di crisi al buio non è mai stato più giustificato di oggi. È tanto al buio che non si sa neppure se formalmente si aprirà, visto che sono percorribili sia la strada delle dimissioni del presidente del Consiglio che quella di un semplice rimpasto. Ma questo è niente. Si sa ben poco di quale potrà essere lo scenario politico nel caso in cui la crisi non si risolvesse e si andasse alle elezioni.
Fanno francamente sorridere le cronache che parlano di qualche leader intento a scrutare i sondaggi, quando dovrebbe essere evidente che nessun sondaggio è affidabile in un momento come questo, nel quale le variabili indeterminate sono troppe, dal risultato della discussione interna al Pd alla tenuta di un partito come il Pdl, umiliato sino al punto di vedere la sorte dei propri ministri decisa in una riunione cui non partecipava il segretario.
Nella prospettiva del sistema istituzionale, però, qualche punto fermo è ragionevole indicarlo. Anzitutto, non si può dimenticare
che l’articolo 67 della Costituzione è tuttora in vigore e che, quindi, il mandato parlamentare è libero. Lo è perché quella stessa disposizione costituzionale vuole che i parlamentari, pur nella diversa appartenenza politico-partitica, rappresentino la nazione, i suoi interessi generali.
Questa legislatura mostra bene perché la libertà del mandato abbia una funzione di garanzia costituzionale: quando ci sono partiti nei quali la dialettica interna manca, o non è regolata in forme autenticamente democratiche, nei quali basta la telefonata o il tweet del leader per definire una linea politica, agli elettori deve essere garantito che i loro eletti recuperino sul terreno del dialogo parlamentare il confronto pluralistico che è stato cancellato sul piano della vita partitica. E questo vale, ovviamente, anche di fronte alle crisi di governo. Un’altra certezza è che, anche qualora la legislatura non si salvasse e si andasse ad elezioni anticipate, non si potrebbe votare con l’attuale legge elettorale. Le ragioni sono almeno due. La prima è la più nota: una legge gravemente sospetta di illegittimità costituzionale e che consente l’attribuzione di un premio di maggioranza abnorme non può continuare a determinare la costruzione della rappresentanza politica in un Paese di democrazia consolidata come l’Italia. Lasciamo pure stare il rischio che la Corte costituzionale la dichiari illegittima. Anche se questo non accadesse le cose non cambierebbero, perché il problema politico di fondo è che l’opinione pubblica non reggerebbe una nuova tornata elettorale con regole così diffusamente detestate. La seconda è che la legge Calderoli rischia di produrre ancora una volta un risultato politico paradossale. Sappiamo tutti, infatti, che alla Camera il premio è nazionale, sicché chi lo conquista ha la maggioranza assoluta (anzi, qualcosa in più). Sappiamo anche, però, che al Senato è regionale, sicché alla lotteria del premio regionale può capitare di vincere o di perdere, e magari di perdere dopo che si è vinto quello nazionale alla Camera. I tormenti della legislatura in corso dipendono anche da questa irrazionalità di fondo della legge, che riconosce premi che sono, allo stesso tempo, eccessivi e inutili. La logica del premio, infatti, è che lo si dà per governare. Che senso ha dare premi quando non è detto affatto che una maggioranza di governo riesca, così, a formarsi?
Una soluzione radicale del problema si potrebbe avere solo con una riforma costituzionale che trasformasse il Senato in camera delle autonomie e lasciasse alla Camera dei deputati il rapporto di fiducia con il governo. Tuttavia, già a Costituzione invariata qualcosa si potrebbe fare, almeno correggendo l’errore che si commise nel 2005, quando si disse che al Senato il premio avrebbe dovuto essere regionale perché la Costituzione prevede che quella camera sia eletta - appunto - «su base regionale». Come, inascoltato, qualcuno di noi costituzionalisti aveva osservato già allora, la Costituzione è perfettamente rispettata se il premio ha una misura nazionale, ma viene semplicemente distribuito su base regionale.
Una crisi al buio, insomma. Ma le compatibilità costituzionali e della razionalità politica sono luci segnapasso che potrebbero evitare di cadere nel baratro (o di non riuscire ad uscirne, visto che, probabilmente, nel baratro ci stiamo già).

il Fatto 30.9.13
I sondaggi

Piepoli: solo il 15% contento della crisi Swg: italiani preoccupati per l’economia La decisione di Silvio Berlusconi di chiedere ai suoi ministri di rassegnare le dimissioni e la conseguente crisi di governo, non incontrano il favore della stragrande maggioranza del Paese. Questa sembra essere la linea di tendenza che emerge dalle rilevazioni dei sondaggisti interpellati ieri dall’Adnkronos. Solo una piccola parte del campione interpellato (circa il 15%, spiegano dall’Istituto Piepoli) accorda il proprio favore alla scelta del centrodestra. Mentre, come sostiene-Swg, “prevale la preoccupazione per le ripercussioni sulla ripresa economica”.

Corriere 30.9.13
Un Berlusconi inquieto cerca di bloccare una rottura nel Pdl
di Francesco Merlo


Il passaggio in Parlamento di Enrico Letta era previsto e in qualche misura obbligato. Dopo l’ordine di Silvio Berlusconi ai ministri del Pdl di rassegnare le dimissioni, però, l’appuntamento diventa cruciale anche per capire se e quanti deputati e senatori del centrodestra disubbidiranno al leader. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, vuole che il premier verifichi se esiste ancora una maggioranza dopo lo strappo di sabato. Almeno a parole, una fronda esiste, ed è una novità. Quasi tutti i ministri del Pdl mostrano un profondo scetticismo per la deriva estremista del partito. Si vedono intrappolati in una strategia nella quale non si riconoscono.
In più, si sentono minacciati perché sembra cominciata una sorta di caccia preventiva ai dubbiosi, additati come potenziali traditori. Basta registrare il trattamento subito da Fabrizio Cicchitto; o le bordate di Berlusconi contro «un governicchio dei transfughi e dei traditori». Per questo non è chiaro se il malessere porterà a una scissione, o soltanto a distinguo senza seguito: una deriva che non muterebbe gli equilibri parlamentari.
La riunione odierna di deputati e senatori col Cavaliere punta a bloccare sul nascere una diaspora. Colpisce lo smarcamento del vicepremier, Angelino Alfano, che si dichiara «diversamente berlusconiano» di fronte all’estremismo di Forza Italia: frase anodina che basta a provocare le bacchettate del coordinatore Sandro Bondi. Anche Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi e Beatrice Lorenzin, però, confermano l’incompatibilità fra l’ala ministeriale e il “cerchio magico” dei Verdini, Santanché e Ghedini, che hanno spinto Berlusconi a rompere.
Quagliariello fa capire di non volere aderire alla nuova FI, se è quella emersa nell’ultima settimana. D’altronde, la presa del potere da parte della filiera estremista è il risultato di un lungo assedio per far saltare le larghe intese: lo stesso dei settori del Pd ostili al premier Enrico Letta. In comune, c’è l’indifferenza alle conseguenze devastanti dell’instabilità a livello economico e internazionale. I guastatori non hanno esitato a sfruttare la disperazione del leader del Pdl, indicandogli un destino giudiziario senza via di scampo, se non avesse provocato la crisi.
Il progetto è quello di un partito ancora più militarizzato. Eppure, uno strappo così irresponsabile rischia di ottenere il solo effetto di aggravare i problemi di un Berlusconi presto incandidabile e decaduto da senatore. Se finisse così, il blitz per andare alle urne subito finirebbe in un pantano senza sbocco: tranne quello di un collasso dell’Italia. Napolitano ha ribadito che il voto sarà l’ultima risorsa. E comunque, al Cavaliere non sarà facile convincere l’elettorato di avere fatto cadere due governi in due anni per salvare l’Italia, e non per i suoi guai giudiziari.

Corriere 30.9.13
I dissidenti preparano la rete
E parte la conta dei possibili ribelli
Caos nel partito. «Non si decide una crisi politica a cena»
di Fabrizio Roncone


È stata la più lunga e angosciosa domenica che si ricordi nei ranghi del Pdl (o di Forza Italia, se volete). La mattina fila via nei silenzi di quasi tutti i parlamentari. I telefonini cellulari spenti e riaccesi solo per spedire sms di puro terrore. «Quagliariello ce lo aspettavamo, la Lorenzin no. Non provi a chiamarmi, tanto non posso risponderle», scrive un povero disgraziato a mezzogiorno. Da Napoli arrivano le immagini di una torta di compleanno dedicata a Berlusconi, intorno alla quale sorridono inspiegabilmente allegri e spensierati la Carfagna e Nitto Palma (anche se a Nitto Palma, istintivamente, il sorriso ad un certo punto si tramuta in un brutto ghigno). Un’ora dopo, un lancio dell’agenzia Italpress annuncia che un terzo ministro del partito, Maurizio Lupi, prende le distanze dai «cattivi consiglieri» del Cavaliere.
Riepilogando: Cicchitto gonfio d’ira già sabato sera. Poi le polemiche dimissioni con cui Quagliariello spiega di non avere alcuna intenzione di restare in un partito che assomiglia a Lotta Continua. Quindi la Lorenzin, giovane e brava, una carriera seguendo Berlusconi, dal tredicesimo municipio di Roma al Campidoglio, ma pure lei via, fuori dal partito che l’ha cresciuta politicamente fino a farla diventare ministro della Salute. Lupi, il cattolico Lupi, in qualche modo, che chiude il cerchio.
Qualcuno comincia a rispondere al telefonino.
«Premesso che Letta ha commesso alcune sciocchezze, accelerando così la crisi...» (questa è la voce del senatore Andrea Augello, 52 anni, da ragazzo già nel Msi e poi sindacalista, a Fiuggi per fondare An, la politica intesa come una cosa seria).
Premesso questo?
«Sono d’accordo con Cicchitto, con Lupi... non è possibile gestire una crisi di governo così, mettendosi lì, a cena, in tre, quattro...».
Continui.
«C’erano passaggi obbligati: avrebbero dovuto convocare i capigruppo, chiamare Alfano... Non si precipita in una scena drammatica solo perché due si alzano e dicono: facciamo dimettere tutti i ministri. Non è possibile. In queste ore abbiamo avuto la prova di quanti limiti abbia questo modello di partito».
Quindi? Che può succedere? Lo smottamento può...
«Smottamento? Aspettiamo che si riuniscano i gruppi. Non diamo per scontato alcun finale».
Aspettiamo, ma intanto nel partito, fino a poche ore fa muto, incerto, impaurito, cominciano a rimbombare i primi commenti ufficiali, e sono ruvidi, taglienti, non scontati. Sentite il senatore Francesco Colucci: «La storia di Berlusconi è la storia dell’Italia moderata. Alfano e i ministri ne prendano in mano la bandiera». E sentite anche Maurizio Sacconi, di vecchia osservanza socialista, abituato alle liturgie dei partiti classici, e quindi sorpreso, amareggiato: «Moltissimi militanti non condividono la deriva estremista del Pdl scatenata dai cattivi consiglieri di Berlusconi».
Gira voce che Alberto Giorgetti si sia dimesso da sottosegretario chiedendo però minacciosamente un immediato chiarimento ad Alfano. L’altro sottosegretario, il catanese Giuseppe Castiglione, tace, avendo già parlato esplicitamente in un «fuorionda» catturato dalla trasmissione «Piazzapulita».
«È chiaro che qui le elezioni non le vuole nessuno. C’è un gruppo di senatori a me più vicini, tra i quali Gibbino, Torrisi e Pagano, pronti a non seguire Berlusconi se si apre la crisi... nessuno vuole tornare a casa».
Chi vuole restare in Parlamento, chi parla del proprio mutuo. Come Antonio Razzi, voltagabbana di straordinario talento, che torna a riparlarne — non casualmente — proprio in queste ore, e non si capisce se sia una minaccia: nel settembre del 2010 denunciò la compravendita dei deputati da parte del Pdl, dichiarando che a lui, all’epoca nell’Italia dei Valori, era stato proposta l’estinzione di tutte le rate; tre mesi dopo lasciò Di Pietro per poter votare contro la sfiducia al Cavaliere; adesso siede a Palazzo Madama nei banchi del Pdl ma sembra che sul groppone gli siano però rimaste ancora parecchie rate. «Ognuno — chiude il discorso — ha qualche guaio da risolvere».
Va bene: forse è meglio avvertire Verdini, ditegli che cominci a contare i suoi, qualcuno ha cominciato a mettersi in fila per andarsene. Dicono che stia contando anche Quagliariello. E Lupi avrebbe già una lista di parlamentari d’area ciellinformigoniana (da settimane, noto, un certo disagio di Eugenia Roccella).
«Si fidi. Certo che si stanno contando» (Giorgio Stracquadanio, ex parlamentare Pdl, ex falco berlusconiano, ma sempre in Transatlantico, osservatore attento, furbo, spregiudicato).
Lei che ne sa?
«Ragioni. E osservi la sequenza delle dimissioni dei ministri: prima Quagliariello, poi la Lorenzin, infine Lupi. È chiaro che si sono messi d’accordo. E da tempo».
Sia più chiaro.
«Tutti avevano capito che il Cavaliere si muoveva spinto dal panico di poter finire in galera, e consigliato male da chi sappiamo: così è stata preparata una rete di sicurezza per questo governo Letta, che poi verrà chiamato Letta bis. Cesa, del resto, da giorni ha annunciato che il gruppo dell’Udc chiuderà per dare vita ai “Popolari per l’Europa”, il contenitore su misura per i pezzi che arriveranno, appunto, dal Pdl».
Quanti ne arriveranno?
«Stima complicata. Ma direi che una ventina, al Senato, sono già in lista».
Insomma i discorsi sono questi, e anche, più o meno, i numeri (pure il senatore Paolo Naccarato di Gal — gruppo di berluscones voluto esplicitamente dal Cavaliere — ripete senza indugi: «Il disagio attanaglia, da mesi, decine di parlamentari del Pdl. A questo punto, sono certo che molti, ormai soli con le loro coscienze innanzi al Paese, preferiranno scegliere un’altra strada»).
Inevitabile fare uno squillo al leggendario Domenico Scilipoti.
«Ah! È lei... grazie di avermi chiamato, grazie...».
Senatore Scilipoti, lei che fa? Resta con Berlusconi oppure...
«Guardi, lo dico con il cuore: ci deve illuminare a tutti lo Spirito Santo...».

Repubblica 30.9.13
Il muro di Arcore per bloccare i fuggitivi
di Ilvo Diamanti


CIÒ che oggi avviene intorno a Berlusconi riassume, in modo esemplare, la storia dell’Italia, negli ultimi vent’anni. Ne segna l’inizio e, probabilmente, la fine. La biografia politica di Berlusconi, infatti, coincide con la parabola di Forza Italia. Un partito “aziendale”, la cui missione si riflette nella figura del Capo. L’imprenditore, mito e modello dell’Italia, dove “tutti ce la possono fare”. Da soli.
Forza Italia. Un partito lontano da ogni ideologia. Che promette la soddisfazione degli interessi – generali e privati – di tutti. Anzitutto, quelli del Capo. Un partito che usa la comunicazione e il marketing, al posto dell’organizzazione. E, ai vertici, promuove tecnici, consulenti, avvocati, manager e specialisti. Fedeli al Capo. Forza Italia: il partito che ha ispirato la Seconda Repubblica. Imitato da tutti, senza troppa fortuna. Forza Italia: nel corso degli anni si è evoluta. Nel 2007 ha aggregato, anzi, inghiottito quel che rimaneva alla sua destra. Alleanza Nazionale. Ma il modello non è cambiato. Il Pdl è rimasto il partito “personale” di Silvio Berlusconi. Un luogo dove non esiste dibattito o confronto. Se non sul grado di fedeltà e il modo di interpretarla. Estremista o moderato. Dove ci si divide fra “ultra” e “diversamente” berlusconiani, per citare Alfano. Dove, però, chi non si adegua, chi “pensa di poter pensare” in proprio, se ne va. Oppure viene allontanato, cacciato in malo modo. Com’è avvenuto a Gianfranco Fini e ai residui di An non berlusconizzati.
Ebbene, il Pdl, dopo poco più di cinque anni, è stato dismesso. Come un prodotto scadente oppure scaduto, il suo produttore lo ha ritirato dal mercato. Lo ha sostituito con l’etichetta originaria. Quasi per rammentare a tutti da dove proviene. Una storia di successo. Un imprenditore di successo. Che può decidere, a proprio piacimento, secondo i propri interessi, come condurre e gestire le proprie attività. Il problema, però, è che, vent’anni dopo, l’imprenditore politico non è più lo stesso. Il partito non è più lo stesso. Il mercato (politico) non è più lo stesso. Vent’anni dopo: la parabola è giunta al termine. Silvio Berlusconi è sull’orlo della decadenza. Non solo parlamentare. I suoi conflitti di interesse gravano su di lui, sulle aziende e sul partito-azienda. In modo assolutamente irrimediabile. Per questo non c’è spazio per discussioni e confronti, che possano ridimensionare la fedeltà al Capo. Non solo in Parlamento, anche in politica e nella società. C’è il rischio, altrimenti, di secolarizzare il berlusconismo e, ancor più, l’anti-berlusconismo. Ridurlo a un ricordo. È per questo, soprattutto, che Berlusconi ha realizzato l’ultimo strappo. Far sottoscrivere le dimissioni ai suoi parlamentari e, a maggior ragione, imporre ai ministri del Pdl – pardon: Fi – di uscire dal governo. Certo, questa decisione risponde anche a motivi immediati. È una reazione dettata dai timori per gli effetti sul piano giudiziario – personale – della decadenza da senatore. Ma riflette, soprattutto, una sindrome da assedio, accentuata dalla paura di vedersi abbandonato. Almeno, da una parte dei parlamentari. Che potrebbero leggere la decadenza del Capo come un destino che va oltre l’ambito giudiziario. E si estende al contesto politico. D’altronde, prendere le distanze da Berlusconi, per gli “eletti” del Pdl, è rischioso, visto il destino toccato a chi ci ha provato. Ma rinunciare a un posto in Parlamento o a un incarico di governo, dopo pochi mesi, in nome di un leader “decadente”, è altrettanto rischioso. Per questo Berlusconi ha spezzato le larghe intese con gli altri partiti della maggioranza di governo. Per questo ha eretto un muro intorno a Forza Italia. Per difendere il proprio territorio. Non tanto dall’esterno, ma dall’interno. Per contrastare l’invasione dei “nemici”, ma, soprattutto, per impedire la fuga degli “amici”. L’esodo dei fedeli. Per bloccare sul nascere le tentazioni e i tentativi di quanti pensano a nuove esperienze politiche “moderate”. Magari a nuovi gruppi politici. In Parlamento, per ora. Domani non si sa. Infine, per sollevare, ancora, passione e sentimento. Meglio: risentimento. Perché, in Italia, il muro di Arcore resti quel che, nel mondo, è stato il muro di Berlino. Una frattura non solo politica, ma ideologica e cognitiva.
È questa la posta in gioco dello scontro inatto in questi giorni. Dentro e fuori il Pdl – o Fi. Segna il passaggio, tortuoso e contrastato dal berlusconismo al post-berlusconismo, significato dal percorso del partito personale in Italia. Perché i partiti personali “all’italiana” non dipendono dalla capacità di selezionare e di promuovere un leader. Dipendono dal leader stesso. L’origine e il fine unico, da cui dipendono, appunto, l’origine, ma anche “la” fine: del partito.
D’altronde, Berlusconi dispone ancora di consenso politico e, ancor più, di potere economico e mediatico. E li usa, se non per imporre le proprie scelte, almeno per interdire quelle altrui. Un ultimatum dopo l’altro. E ancor prima, per controllare il dissenso che si diffonde, in modo aperto, nelle sue fila. Per questo Berlusconi resiste. Fino all’ultimo. Perché lotta per la propria sopravvivenza – politica – ma anche per quella di Forza Italia. Il partito personale fondato sulla politica come marketing. Per questo vorrebbe andare a elezioni politiche presto. Subito. Perché, dal 1994 fino a pochi mesi fa, nel febbraio 2013, il “partito personale” di Berlusconi ha sempre dato il meglio di sé in occasione delle elezioni politiche. Per questo ha trasformato la vita politica in una campagna elettorale permanente. E oggi, per resistere alle minacce esterne e alle tensioni interne al partito, ha bisogno di nuove elezioni – al più presto. Nei primi mesi del 2014, se non entro l’anno.
Così si compie la parabola del “partito personale” all’italiana. Da Forza Italia a Forza Italia. Dall’inizio alla fine. Perché le prossime elezioni potrebbero, davvero, segnare la fine di Berlusconi (e del berlusconismo). Ma senza elezioni, presto o subito, la sua fine è segnata.
Non illudiamoci, però, che ciò avvenga senza lacerazioni. I muri che dividono società, politica e valori non crollano mai senza lasciare ferite profonde e di lunga durata. Meglio prepararsi. Ci attendono tempi difficili.

La Stampa 30.9.13
Mancano diciannove voti per una nuova maggioranza
Le manovre in Senato: si allarga il fronte dei dissidenti nel Pdl
di Francesca Schianchi, Giampiero Sposito


Al Senato è possibile che, tra i «trattativisti» del Movimento 5 Stelle e qualche dissidente del Pdl, si possa arrivare a una nuova maggioranza che appoggi un Letta-Bis e scongiuri il voto Il numero necessario, anzi indispensabile, è 161. La metà più uno dei senatori. La quota fatidica che il governo Letta dovrebbe assicurarsi a Palazzo Madama per proseguire la sua esperienza. E se la maggioranza vista finora garantì all’esecutivo nella sua prima fiducia del 30 aprile scorso 223 voti favorevoli, se si sfila il Pdl, quali possono essere i numeri?
108 sono gli eletti nelle file del Pd (da cui però occorre togliere il presidente Grasso, che per prassi non vota), e 20 quelli della montiana Scelta civica. Considerando probabilmente a favore anche i voti del gruppo per le autonomie e dei senatori a vita, fanno quindici voti in più. Totale 142, cioè 19 voti meno della soglia di maggioranza.
«Secondo me i numeri ci sono, non c’è problema», si sbilancia però un pidiellino in sofferenza. L’accelerazione impressa alla crisi ha portato allo scoperto malumori e dissensi dentro al Pdl, come dimostrano le prese di distanza dei ministri Quagliariello e Lorenzin e persino le parole del vicepremier Alfano. E che da settimane politici di prima fila come Pier Ferdinando Casini e il ministro Mario Mauro si impegnino per cercare di dare vita a un’alternativa moderata ed europea al Pdl, tentando di assicurare alla causa anche i berlusconiani messi in difficoltà dalla linea dei falchi, è confermato da molti. «C’è la libertà di coscienza che può restituire all’Italia un governo possibile ed un Paese plausibile», è l’invito fatto ieri da Mauro.
Il senatore berlusconiano Carlo Giovanardi, uno dei pochi che, non condividendo la strategia, non ha firmato le dimissioni da parlamentare, e oggi ha sottoscritto le parole di Quagliariello, la mette così: «Mi pare che oggi sia emersa una sintonia di pensiero politico fra vari esponenti del Pdl: bisognerà che ci si parli per decidere insieme cosa fare e assumere una linea comune, nei confronti del partito come del governo». Ancora, il sottosegretario Giuseppe Castiglione, un altro che non ha firmato le dimissioni da parlamentare, che è deputato ma conta su un paio di senatori a lui molto vicini, insiste che «nel Pdl sono prevalse posizioni estremiste, ora è un errore far cadere il governo e per la sua prosecuzione vedo un fronte molto ampio». Quanti tormenti si trasformeranno in voti alla fiducia? «Siamo in tanti a interrogarci davanti alla nostra coscienza su cosa sia meglio fare», dice Paolo Naccarato, senatore iscritto al gruppo Gal, Grandi autonomie e libertà. Cosa farà davanti a una fiducia? «Sentirò con attenzione il presidente Letta, e con un supplemento di attenzione le dichiarazioni in Aula del Pdl, perché spero e credo che non faccia mancare il suo sostegno al governo. Poi deciderò, ma io sono per cultura un uomo legato alle istituzioni e alla continuazione del governo».
Altrove, in altri gruppi, potrebbero aprirsi altre possibilità, a condizione però che si parli di un nuovo governo con una maggioranza alternativa. Sel oggi è all’opposizione, ma ieri la senatrice Alessia Petraglia ha fatto sapere che, se il Pd «rompe col passato», i sette eletti del partito di Vendola sono disponibili a sostenere un nuovo esecutivo «poi al voto con una nuova legge elettorale». E anche nel M5S, nonostante la posizione di Grillo per il voto immediato, c’è chi potrebbe fare un pensiero a un nuovo esecutivo per condurre in porto la legge di stabilità e quella elettorale. Quanti potrebbero convincersi, difficile dirlo: un numero da cui partire è 14, come le schede bianche o nulle nel corso del ballottaggio sul nuovo capogruppo.
Presto la verifica in Aula. Dove i numeri parleranno chiaro. Tra i 5 Stelle c’è chi vorrebbe approvare la legge di stabilità e cambiare il Porcellum Sel sarebbe pronta a votare un Letta-Bis se il Pd «decide di rompere col passato»

Corriere 30.9.13
Le tre opzioni in campo per salire a «quota 161»
Il peso dei senatori a vita Il futuro della legislatura si gioca a Palazzo Madama
Caccia a dissidenti 5 Stelle e «responsabili» Pdl
di Dino Martirano


ROMA — Al Senato, a rigor di logica, il vuoto nelle «larghe intese» aperto dalla defezione del Pdl-Forza Italia potrebbe essere colmato da una sterzata a sinistra: sulla carta, infatti, Pd (108 senatori, ma il presidente dell’Aula, Pietro Grasso, per prassi si astiene, quindi 107 voti utili), più Sel (7), più M5S (50) sarebbero in grado di dar vita a quella «maggioranza alternativa» che ha avuto poca fortuna in principio di legislatura con i tentativi messi in campo da Pier Luigi Bersani. Ma questa è solo un’ipotesi di scuola e nessuno è disposto a scommettere un euro su un appoggio di Beppe Grillo a un governo con il Pd.
Ne consegue, dunque, che l’asse del futuro governo (o dell’attuale che continua la sua lenta marcia) debba rimanere necessariamente ancorato al centro: in questo caso allo «zoccolo duro» rappresentato dal Pd (107) si aggiungerebbero i 20 senatori di Scelta civica, i 10 delle Autonomie e i 7 di Sel. Totale 144 seggi. Ancora troppo pochi, però, per garantire l’autonomia di un governo Letta o di un Letta bis che avrebbe la sua autosufficienza solo raggiungendo quota 161, cioè il quorum compresi i senatori a vita. Una manciata di voti mancanti, questa, che potrebbe arrivare dalle mille diaspore fin qui consumate dai grillini. E tanto per dirla con le parole di Marino Mastrangeli (il primo senatore cinquestelle a essere messo alla porta dai fedelissimi di Grillo) «di Orellana ce ne sono una decina». Formalmente, comunque, i grillini fuoriusciti dal Movimento sono solo 4. Un contributo potrebbe venire anche da cinque (senza contare Monti, in Scelta civica) senatori a vita (ma in realtà sarebbero 4 perché le condizioni di salute non consentono a Carlo Azeglio Ciampi di andare al Senato).
C’è, però, anche un terzo schema che sta prendendo forma in queste ore. Pd (107), Scelta civica (20), autonomisti (10) e Sel (7) — totale 144 seggi, a cui potrebbero aggiungersi i senatori a vita (4) — arruolerebbero nella nuova maggioranza i grillini fuoriusciti dal M5S e, soprattutto, una consistente pattuglia di «responsabili» del Pdl che non sono disposti a seguire la «deriva estremista» della falange Verdini-Santanchè.
Su questa operazione di distacco dal Pdl, il condizionale è d’obbligo, perché la forza di attrazione e di persuasione del Cavaliere è sempre fortissima. E molti «sospettati», sebbene non richiesti, hanno già manifestato fedeltà a Berlusconi (Villari, Colucci, D’Anna, Milo, Falanga, Langella...). Eppure è un fatto che 4 senatori del Pdl (Gaetano Quagliariello, Carlo Giovanardi, Pippo Pagano, Salvatore Torrisi) e Paolo Naccarato di Gal non hanno firmato la lettera di dimissioni da parlamentare chiesta ai suoi uomini da Berlusconi.
Secondo l’avvocato Torrisi, fedelissimo di Angelino Alfano, e anche lui «diversamente berlusconiano», sul fronte della governabilità «il Senato regge... perché questo ci chiedono gli italiani». Spiega il senatore catanese: «Questa domenica ho partecipato alla festa patronale di Ragalna (un Comune della fascia etnea,ndr ) e la gente è venuta a stringermi la mano raccomandandosi di assicurare la continuità dell’azione di governo». E le dimissioni da parlamentare? «Un atto al limite dell’eversione», taglia corto Torrisi.
Per dirla con il senatore Luigi Compagna (Gal, gruppo costola del Pdl-Fi), «bisogna vedere che cosa farà il ceto medio del partito». Se infatti i volti noti, Quagliariello e Giovanardi, ma, anche, Maurizio Sacconi, si limiteranno a non votare contro Letta, molti peones potrebbero addirittura sposare (anche per interesse personale) il partito della stabilità e della legislatura lunga. Domenico Scilipoti (Pdl, con una storia politica di trasformismo che parte dall’Italia dei valori) ha detto di aver firmato la lettera di dimissioni ma, anche, che «è sempre possibile dare la fiducia a un altro esecutivo». Ma qui, con tutto il rispetto per l’apporto offerto da Scilipoti, si aprirebbe quel governo tenuto in vita dalle «frattaglie» che Letta vuole evitare come la peste.
C’è infine un grosso problema Sel che viene sollevato dal senatore a vita Mario Monti (Scelta civica). Al centro, infatti, c’è un gran lavorìo condotto, oltre che da Monti, anche da Pier Ferdinando Casini e dal ministro Mario Mauro per favorire l’operazione distacco dal Pdl. Tutto ciò, ipotizza Monti, si concretizzerebbe in numeri utili per una nuova maggioranza solo se i 7 di Sel rimangono fuori. E a patto che sia Enrico Letta, e non un altro premier, a guidare il nuovo governo, ammesso che l’attuale non ce la faccia a sopravvivere.

il Fatto 30.9.13
Evasione, 180 miliardi in fumo


LA STIMA UFFICIALE sull’evasione fiscale non esiste. Trattandosi di un illecito, del resto, non è possibile avere un dato univoco. Le stime oscillano tra i 120 e i 180 miliardi, ricavando questo dato sulla complessiva area dell’economia sommersa, stimata nel 18 per cento del Pil. L’Istat propone una stima analoga valutando nel 2008 il valore aggiunto prodotto nell’area del sommerso economico tra un minimo di 255 e un massimo di 275 miliardi di euro.
Per quanto riguarda l’importo realmente evaso, la cifra di 180 miliardi sottratti al fisco è rilanciata dallo studio internazionale Tax Research. Secondo l’Uif, l’unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, per ogni 100 euro di tasse versate, 38,19 sfuggono all’erario. Applicando questa percentuale ai 472 miliardi di entrate tributarie del 2012, si ha la cifra di 180 miliardi. Da cui resta esclusa, però, l’evasione contributiva.

Corriere 30.9.13
il sindaco Marino e l’allarme crac. Roma diventa un comune-simbolo
di Goffredo Buccini

C'è qualcosa di ripetitivo e insieme di paradossale nell'annuncio-choc con cui Ignazio Marino ha minacciato la bancarotta della Capitale: servono velocemente 867 milioni per coprire debiti «ereditati dalla passata amministrazione», ha ammonito il sindaco, altrimenti per i romani saranno lacrime e sangue. La ripetitività balza agli occhi soltanto a sfogliare le dichiarazioni di cinque anni or sono, quando Alemanno, appena eletto, si sgolava a denunciare un buco di bilancio miliardario che, a suo dire, gli avrebbe lasciato in dote il centrosinistra e Veltroni ne bollava la sortita con un tacitiano «bufala politica». Ora le parti si sono rovesciate ma la musica non cambia. Buco o debito, una qualche dolorosa eredità rotola sempre da un primo cittadino romano all'altro e, ammettiamolo, è forse utile da enfatizzare preliminarmente, come antidoto ai propri, eventuali, fallimenti. Del resto l'Urbe è sempre stata alquanto costosa da amministrare. Al tempo dell'Impero, fra Traiano e Commodo, si arrivavano a spendere circa mille denari a cranio di panem et circenses per tenersi buoni duecentomila plebei. Ora, il buon Marino non toglierà ai romani grano o spettacoli dei gladiatori ma, verosimilmente, bus notturni e servizi sociali, costretto magari alla fine alla più impopolare delle mosse: alzare Irpef e Tares. Il paradosso è che mai come ora Roma appare capitale emotiva dei Comuni d'Italia, con buona pace del leghista milanese Salvini (che invita Marino ad andare in malora): poiché, nonostante lo status e le peculiarità che la distanziano da essi, Roma ne condivide inevitabilmente le angosce contabili. Il sindaco di Roma fa appello, come i suoi colleghi d'ogni latitudine, a un governo morente e, come loro, s'affida alla provvidenza. La politica fin qui seguita sull'Imu ha lasciato le casse locali a secco ed è di una settimana fa il grido di dolore di Piero Fassino, nella sua qualità di presidente dell'Anci, sugli stipendi dei dipendenti comunali a rischio. Siamo tutti sulla stessa barca, basta capirlo: se ne usciremo più solidali, più stretti gli uni agli altri, perfino questa crisi sarà servita.

Repubblica 30.9.13
La bancarotta della Capitale
Impervie ma obbligate le vie della democrazia
di Mario Pirani


Lo chiamano il sindaco “marziano” ma non ci sembra basti la passione per la bici per conquistarsi automaticamente un nomignolo popolare. Anzi, questa monomania per le due ruote, comprensibile in una cittadina olandese, ci sembra difficilmente applicabile in una metropoli come Roma, dove basta qualche giornata di pioggia battente per ritrovarsi immersi nelle pittoresche gare fra gli “ombrellari” in lotta per assicurarsi la vendita di capienti ombrelloni da passeggio. In attesa di un fausto ritorno alle auto blu o, almeno, alle 500 grigie.
Detto questo non staremo a contar le pulci al prof. Marino, in carica da quattro mesi e di cui alcune iniziative dall’avvio del mandato, come la pedonalizzazione iniziale dei Fori, sono state accolte assai favorevolmente dal mondo culturale italiano e internazionale. Le ostilità, per contro, di una parte della stampa capitolina per il Campidoglio lasciano spazio alle critiche di chi ormai da tempo considera troppo succube il rapporto tra le cronache cittadine e la vita amministrativa di Roma. È difficile infatti negare che la lettura dei fatti resta pur sempre segnata da una gestione spesso infettata da troppi decenni di affarismo. Da questo punto di vista il ritorno del centro sinistra al potere rivela uno stile apprezzabile, con la presentazione di alcuni punti programmatici, spogli dai vecchi riti consociativi, spesso sinonimo di immobilismo. Un atteggiamento che ha portato a qualche incomprensione nella stessa maggioranza, adusa ai giochi interni e alle spartizioni sottobanco, in nome della cosiddetta condivisione e altre sottomarche della partitocrazia. Una linea di comportamento che può avere infastidito taluni ma ha mostrato un modo di muoversi all’insegna della rapidità. Lo stesso può dirsi per la delibera che ha annullato diversi milioni di metri cubi di nuovo cemento nell’agro romano, decisi dalla precedente amministrazione, offrendo come alternativa il concetto del tutto nuovo per Roma, di rigenerazione urbana.
Ma l’operazione che si annuncia col maggior coefficiente di innovazione è quella della Metro C, la più grande opera pubblica in corso di realizzazione nel nostro Paese. Il sindaco è andato di persona nei cantieri e ha aperto una discussione diretta su tempi e costi certi a fronte di ulteriori istanze di pagamento ereditate dal passato. Non sono mancate polemiche allorquando il primo cittadino ha mostrato una certa esitazione di fronte alle richieste, usando un argomento che in genere non si mette in piazza: «Andiamo piano con le spese perché si tratta dei soldi dei romani e degli italiani (gli stanziamenti sono infatti per metà nazionali e per metà cittadini) e dobbiamo controllare ogni centesimo». Alla fine Marino ha avuto la meglio ottenendo il completamento di stazioni che sarebbero dovute essere consegnate diversi anni orsono secondo gli accordi dell’epoca ma ancora mai fatte.
Tutto questo, allo stato delle cose, andrebbe monitorato politicamente nei municipi e negli altri enti locali liberando la discussione da manovre strumentali per dare spazio a una visione programmatica del futuro di Roma. È una scommessa di non poco momento che ha per palio il recupero di un rapporto vivo tra amministrazione e popolo. Solo l’uso spregiudicato e coraggioso della verità può dare alla giunta Marino il fiato per portare avanti l’impresa. A cominciare dall’arduo scoglio del bilancio, gravato dal lascito negativo di Alemanno che va risolto entro il 30 novembre. Nel 2012, infatti, per effetto dei tagli dei trasferimenti locali (decreto “salva Italia” del governo Monti) al Campidoglio sono entrati 500 milioni di euro di meno, la giunta Alemanno non ne ha tenuto conto, spendendo di fatto soldi che sapeva non sarebbero mai arrivati nelle sue casse. Far di conto è noioso e difficile. Sarebbe utile però che i cittadini si impadronissero dei meccanismi che governano las orte delle loro spese. La democrazia passa anche da qui.

La Stampa 30.9.13
La militanza non esiste più ora l’impegno è occasionale
La grande maggioranza sceglie di volta in volta il tema o il gruppo che interessa
La politica è frequentata solo dal 35,6% degli italiani e solo per singole iniziative
di Paolo Rigi


Le iniziative culturali, del «loisir» e sportive sono gli ambiti cui più volentieri partecipano gli italiani. Tuttavia non disdegnano di impegnarsi anche nelle problematiche relative al territorio in cui vivono, piuttosto che nel volontariato sociale.
Meno frequentate, invece, le attività legate alla politica, alla protesta o ai temi della Pace. Prendono parte maggiormente a queste attività, in generale, la componente maschile, i più giovani (fino a 34 anni) e i più adulti (oltre 55 anni), chi risiede nel Nord Est, chi fa un lavoro in proprio, i pensionati e gli studenti. Soprattutto, il nucleo dei cosiddetti «militanti» che si dedica esclusivamente alle attività di un’associazione è una quota marginale (0,8%), mentre numericamente più consistenti sono coloro che partecipano non in modo esclusivo (interessati: 21,6%) o solo saltuariamente (occasionali: 68,5%).
È questa la mappa sull’impegno sociale e il profilo di chi partecipa alle loro attività, secondo la ricerca Community Media Research – Questlab per La Stampa.
La graduatoria Un primo aspetto d’interesse proviene dagli ambiti tematici della partecipazione. Le manifestazioni culturali (59,3%) assieme a quelle dello sport (52,1%) risultano collocarsi in cima alle preferenze degli italiani. Se questo secondo ambito d’attività è tradizionalmente quello più frequentato, è interessante sottolineare come il variegato mondo delle iniziative culturali costituisca un polo di attrazione assolutamente significativo.
Evidentemente, esiste una domanda diffusa – in senso ampio – di cultura, di approfondimento o anche solo estetica che richiede nuovi percorsi e nuovi approcci. Basti solo rinviare ai successi crescenti delle mostre, o al moltiplicarsi delle occasioni dei festival su diversi argomenti.
Non molto distanti, incontriamo poi la partecipazione alle iniziative legate ai problemi dell’ambiente e della salute (49,2%), ai mondi del volontariato sociale (49,1%), al territorio o alle città in cui si vive (40,9%): dunque, ambiti d’impegno legati alla valorizzazione o alla difesa del proprio ambiente, alla costruzione di reti di solidarietà.
Seppure di altra modalità, tuttavia è interessante osservare come una quota rilevante di cittadini si impegni attivamente in iniziative come le sagre o le feste paesane (44,3%). Attività che negli anni recenti si sono assai diffuse sul territorio e, seppure con valenze diverse, non per questo risultano meno importanti nella costruzione del capitale sociale. Più spesso, infatti, si tratta di iniziative volte a raccogliere fondi per le comunità locali, fino a quelle di rievocazione storico e di recupero delle tradizioni.
Se escludiamo quanti partecipano ad associazioni di carattere professionale o di categoria (30,4%), l’ambito della politica in senso generale è quello meno frequentato, benché circa un terzo (35,6%) degli interpellati abbia partecipato a iniziative promosse da partiti o movimenti politici. Ciò non significa che siano militanti: si tratta di cittadini che per interesse personale hanno assistito ad alcune di queste occasioni.
Lo fanno 9 su 10 Solo un decimo degli intervistati (9,1%) dichiara di non aver partecipato ad alcuna iniziativa nell’arco dell’ultimo anno. Quanti restano ai margini di quest’aspetto della vita sociale sono soprattutto la componente femminile (12,5%), le fasce d’età più attive sul lavoro (da 35 a 44 anni: 15,0%; da 45 a 54 anni: 12,8%), i dirigenti e i tecnici (19,4%) e le casalinghe (16,2%).
Quindi, le fasce centrali della popolazione più impegnate sul lavoro, le donne e le casalinghe hanno minori occasioni di sperimentare una partecipazione attiva.
Se una quota analoga (11,3%) è entrato in contatto con una sola iniziativa, è interessante osservare come siamo in presenza di un fenomeno di partecipazione diffusa e, di conseguenza, meno continuativa nel tempo. Si partecipa molto, ma si aderisce poco. In altri termini, esiste un fenomeno di pendolarismo associativo, dove una parte rilevante della popolazione transita in più luoghi, non necessariamente vicini tematicamente, sulla base di specifiche istanze o interessi.
Così, nell’ultimo anno il 32,4% ha frequentato da due a quattro iniziative e ben il 47,1% più di cinque. Da un lato, la molteplicità dell’offerta associativa e di occasioni spinge le persone a scegliere di volta in volta ciò che attrae o interessa maggiormente. Dall’altro, diventa più difficile catturare l’attenzione e un impegno per lungo tempo, perché le progettualità individuali oggi si fanno più corte e più orientate pragmaticamente.
I profili di chi si mobilita Il fenomeno del pendolarismo associativo, si rispecchia anche nel profilo dei partecipanti. Come già detto, circa un decimo degli intervistati non partecipa ad alcun ambito associativo («Assenti»: 9,7%). La quota prevalente (68,5%) ha una partecipazione «occasionale», ovvero circa una volta l’anno. Gli «interessati» (partecipano almeno 2-3 volte l’anno) rappresentano il 21,6%. Infine, i «militanti» (partecipano tutti i mesi) costituiscono una quota largamente marginale (0,8%).
Dunque, le associazioni possono contare su bacini sempre più ristretti di persone che stabilmente prestano la loro opera. Per converso, cresce il noverodi persone aggregabili su azioni specifiche o su iniziative particolari, sia sotto il profilo tematico chedel tempo.
Sono questi i tratti principali delle nuove forme di partecipazione. Il livello di identificazione e di appartenenza esclusivo a una sola associazione (militanti) tende a ridursi, mentre cresce la quota di quanti partecipano attivamente, ma non in modo continuativo (interessati).
Più ampio è, poi, il numero di persone che si mobilita, ma sporadicamente (occasionali) e su un numero plurale di occasioni associative. Quindi, la cifra della partecipazione è caratterizzata da una minore appartenenza esclusiva, ma per converso da una partecipazione plurale e con identificazioni parziali.

Repubblica 30.9.13
La glasnost dello Ior, ecco il bilancio nell’ultimo anno utile quadruplicato
Per la prima volta la banca vaticana svela iconti: profitti per 87 milioni
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO — Inizia la glasnost finanziaria dello Ior. Il giorno destinato a entrare nella storia è domani, primo ottobre, esattamente sei mesi e mezzo dopo l’avvento al soglio di Pietro di Jorge Mario Bergoglio, il Papa riformatore, l’uomo a cui gran parte del Conclave ha chiesto a gran voce di smantellare quel sistema che ha portato l’istituto vaticano a divenire una sorta di banca off-shore usata da alcuni anche per operazioni non lecite. Domani, per la prima volta nella sua storia, dopo anni nebulosi che hanno in parte inquinato il buon nome di tutta la Chiesa cattolica, la banca vaticana fa il passo che fino a pochi mesi fa sembrava impensabile: pubblica il proprio bilancio, che, fra l’altro, è da record. Il 2012 segna un utile netto di 86,6 milioni di euro, quattro volte l’utile del 2011. Sono i numeri di una banca non certo grande, ma che fanno impressione, se paragonati alle dimensioni del territorio della Città del Vaticano, che è di appena 0,44 chilometri quadrati.
L’operazione scatta alle otto di mattina, sul sito ufficiale www.ior.va. E anche se oltre il Tevere affermano che «è solo una coincidenza» la pubblicazione nello stesso giorno in cui papa Francesco riunisce il Consiglio della Corona che deve lavorare per riformare daccapo la Curia romana (finanze comprese), la volontà di dare un segno di trasparenza e novità anzitutto internamente, al Papa come anche agli stessi otto cardinali del Consiglio, non può passare inosservata. Certo, le precauzioni sono tante: la pubblicazione avviene senza conferenza stampa, con un’uscita on-line che prevede semplicemente un press release firmato dal board dei cardinali che supervisiona lo stesso Ior oltre che dal presidente Ernst Von Freyberg, così da introdurre adeguatamente cifre e numeri. Ma molteplici sono anche i segnali lanciati dentro e fuori le mura leonine: Von Freyberg, eletto da Tarcisio Bertone con un’azione che venne definita «un colpo di mano» perché effettuata poche ore prima dell’addio definitivo di Joseph Ratzinger, non intende remare contro, perpetuando insomma il malgoverno della vecchia guardia. Piuttosto vuole spingere per uno Ior pulito, lasciando poi a Francesco la decisione di cosa fare dell’intero istituto. Se chiuderlo (ipotesi che appare sempre più improbabile), o riformarlo.
Il rapporto che sarà pubblicato domani si riferisce all’anno 2012. È composto da cento pagine e, dato non secondario, esce con la certificazione di una delle cinque società del network Kpmg. Il che significa che il bilancio è ritenuto conforme ai princìpi contabili internazionali (Ifrs) emessi dall’International Accounting Standards Board e omologati alla Commissione europea. Mancano ormai pochi mesi (entro la fine del 2013) a un’ulteriore valutazione dello Ior da parte di Moneyval, il Comitato di esperti sulla valutazione delle misure di lotta al riciclaggio e finanziamento del terrorismo presso il Consiglio d’Europa, edopo una prima valutazione in parte positiva (il 4 luglio 2012 Moneyval ha vistato l’attuazione da parte della Santa Sede della maggioranza delle raccomandazioni Gafi essenziali, cosiddette key and core), lo scoglio di fine anno sarà fondamentale per il futuro dell’intero istituto. Uno scoglio che anche Francesco ritiene decisivo, anche perché andrà di pari passo con lo screening di tutti i conti presenti nella banca effettuato dal Promontory Financial Group che ha anche il via libera per verificare tutte le transazioni effettuate in passato da ogni cliente.
Il bilancio riporta numeri importanti. Nel 2012 lo Ior ha avuto 6,3 miliardi di beni di terzi in gestione (6,2 miliardi nel 2011), per un totale di 3,2 miliardi di portafogli gestiti e 3,1 miliardi di depositi. Il proprio patrimonio in gestione è stato di 0,8 miliardi di euro mentre il patrimonio complessivo in gestione è stato di 7,1 miliardi. L’utile netto ammonta a 86,6 milioni, su un totale di 18,900 clienti e 114 dipendenti. Lo Ior fornisce un contributo di circa 55 milioni di euro al bilancio complessivo del Vaticano, un capitale importante che viene maturato grazie a più elementi principali: la parte più rilevante sono gli interessi attivi che lo Ior percepisce dagli interessi dati a chi deposita. La cifra di questi interessi è di circa 50-70 milioni di euro, dai quali poi lo Ior deduce le proprie spese. E poi c’è il guadagno sui prezzi delle obbligazioni, che salgono e scendono. Certo, fra le tante spese ci sono anche i soldi prestati alle varie diocesi del mondo che per vari motivi possono essersi indebitate. Ma il prestito non incide sul bilancio. Vi incide soltanto nel caso la diocesi vada in definitivo default e non riesca a far fronte al prestito stesso.
La pubblicazione del bilancio avviene in una settimana capitale non solo per la convocazione a Roma da parte di Francesco del Consiglio della Corona. Ma anche per il pellegrinaggio del Papa di venerdì ad Assisi. Un viaggio che già viene definito storico, come il primo a Lampedusa nel cuore del Mediterraneo che soffre, a metà luglio scorso. Assisi significa tante cose: anzitutto l’entrata di Bergoglio, che ha scelto il nome dell’«alter Christus» Francesco, nella Sala della Spoliazione, lì dove san Francesco si spogliò dei suoi abiti e delle sue ricchezze per dedicare tutta la sua vita a Sorella Povertà. Qui il Papa, in compagnia degli otto cardinali del Consiglio, sembra voler fare un grande pronunciamento sulla sua idea di Chiesa, arrivando forse a denunciare l’uso distorto che anche la Chiesa fa dei propri beni fino - sono voci che si rincorrono - all’annuncio dell’abolizione dei titoli onorifici. «Sogno una Chiesa povera e per i poveri», disse lo stesso Francesco poche ore dopo l’elezione al soglio di Pietro il 13 marzo scorso. Un sogno con cui anche la banca vaticana deve fare i conti.

Repubblica 30.9.13
Medicina, benvenuti al Sud
Al Nord facoltà al completo vincitori costretti a emigrare
Da Milano a Padova, più promossi al test che posti disponibili
di Salvo Intravaia


ROMA — “Benvenuti al Sud”. Centinaia di studenti ammessi al test di Medicina e Odontoiatria sostenuto al Nord saranno costretti a trasferirsi se vorranno indossare il camice bianco. La graduatoria nazionale, pubblicata lunedì scorso, ha infatti fornito i suoi primi responsi: atenei del Nord presi d’assalto e studenti settentrionali obbligati a spostarsi a Sud se vorranno coronare il sogno di una laurea in Medicina. Una novità, quella del listone nazionale, che sta rivoluzionando la geografia degli ammessi a questi corsi di laurea. Perché, analizzando la lunghissima graduatoria con oltre 69mila candidati, per la prima volta, oltre che ad assistere alla marcia volontariadegli studenti meridionali in cerca di un buon ateneo al Nord, assisteremo anche alla marcia forzata dei ragazzi del Nord verso le università meridionali. E proprio oggi verrà resa nota l’assegnazione delle sedi per ciascuno dei partecipanti.
Fino a due anni fa infatti la selezione veniva effettuata per ateneo e l’anno scorso per ambiti regionali o interregionali. E coloro che si spostavano da Nord a Sud erano pochissimi. Chi si trasferiva al Nord lo faceva invece di sua spontanea volontà. Ma da quest’anno, tutto cambia.
Nel test svolto lo scorso 9 settembre, più di metà – il 56 per cento – degli oltre 10mila ammessi alla facoltà di Medicina e di Odontoiatria hanno sostenuto la prova in un ateneo pubblico del nord Italia: il bando costringeva gli studenti a sostenere la prova nel primo ateneo scelto. La restante parte – il 44 per cento – ha invece centrato l’obiettivo in una università dell’Italia centrale o meridionale. Studenti settentrionali di gran lunga più bravi di tutti gli altri compagni o, semplicemente, atenei del Nord presi d’assalto anche da studenti meridionali perché più prestigiosi, meglio attrezzati e più organizzati? Sta di fatto che, tra qualche giorno, unaconsistente fetta dei 5.887 ammessi a Medicina e Odontoiatria al Nord dovrà fare le valigie alla volta di un ateneo del Sud. Perché in Lombardia, Veneto o Piemonte iposti messi in palio dal ministero dell’Università non basteranno per tutti. I numeri parlano chiaro. Tra i primi 10.456 ammessi alle facoltà di Medicina e Odontoiatria degliatenei pubblici ben 905 hanno sostenuto il test di ammissione alla statale di Milano. Ma nell’ateneo meneghino saranno disponibili 370 posti per iscriversi in Medicinae 60 per Odontoiatria: in tutto 430.
Così, 475 studenti che hanno cercato fortuna nell’ateneo milanese dovranno accontentarsi di un posto dove rimarrà spazio. Stesso discorso per chi ha tentato l’accesso a Padova: oltre 900 ammessi per 445 posti in totale. Dove andranno i 462 studenti rimasti fuori dall’ateneo veneto? E dove andranno i 59mila studenti che non ce l’hanno fatta? Alcuni si iscriveranno in Biologia e Biotecnologie e tenteranno l’avventura fra un anno. I più facoltosi tenteranno l’avventura in Spagna e Romania, dove l’accesso è libero.
Quest’anno, la domanda di iscrizione al test prevedeva la scelta delle sedi – anche tutte quelle presenti sul territorio nazionale – con un ordine di preferenza: tra tutti coloro che hanno scelto come prima opzione un determinato ateneo verranno esauditi soltanto quelli che rientreranno tra i posti messi a concorso per il singolo ateneo: i cosiddetti “assegnati”. Tutti gli altri, se in posizione utile nella graduatoria dei 10mila, saranno “prenotati” in una delle sedi scelte come seconda, terza, quarta o successiva opzione. Scorrendo l’elenco delle università statali dove si sono svolti i test, si vede che la maggior parte delle università dove rimangono posti liberi è al Sud. In Sicilia, ad esempio, a fronte degli oltre mille posti messi a concorso, sono riusciti a passare appena in 674: quasi certamente tutti siciliani che non avevano nessuna intenzione di spostarsi altrove o non ne avevano le possibilità economiche. I restanti 330 posti liberi andranno a coloro che non sono riusciti a piazzarsi nelle regioni di residenza: probabilmente studenti del Nord costretti a trasferirsi per avere un futuro da dottore.

La Stampa 30.9.13
In fuga dalla guerra in Sierra Leone, vive in miseria a Roma e rischia l’espulsione dall’Italia
“Io, ex bambino soldato che non trova la pace”
Arruolato a 10 anni in Sierra Leone ora vive alla periferia di Roma
Ha 24 anni e nessun amico: “Hanno paura che torni ad essere violento”
di Niccolò Zancan


La maestra di vita di Papani Kamara si chiamava Adama «cut hands». Adama taglia mani. Tutti i bambini la conoscevano così. «Ci ripeteva sempre che i machete dovevano essere ben affilati. Era importante. Perché se il taglio era netto, le persone svenivano. Altrimenti il polso o il gomito rimanevano attaccati al resto del braccio con un lembo di carne. Era terribile. Perché in questi casi le persone si trasformavano, urlavano, rantolavano per terra, facevano pipì...». Quando era soltanto un bambino di dieci anni e viveva nel villaggio di Baomahun, Sierra Leone, Papani Kamara era un soldato del Ruf, il Rebel United Front. «Passavano con la siringa già carica. Ci drogavano qui sul braccio. Eravamo un mucchio di cani ammassati. Ci usavano come attrezzi per i loro affari personali. Prima di incendiare le case del villaggio, il nostro comandante faceva uscire tutti. Costringeva il figlio a violentare la madre. Dovevamo assistere. Io sentivo le grida e guardavo il fucile affondare nel collo del ragazzo.
Sapevo che se avessero rifiutato sarebbero morti, ma poi morivano ammazzati lo stesso. Quando i bambini disobbedivano, venivano freddati all’istante. Lo facevano per educarci... ».
Questi pezzi di incubo messi in fila piangendo, durante mesi di colloqui, sono raccolti nella relazione psicologica su Papani Kamara. Come nota a fondo pagina, la sua psicoterapeuta si è premurata di spiegare: «Si tratta di informazioni confermate da osservatori internazionali. L’uso di droghe, arrivate attraverso il contrabbando di diamanti, era uno degli strumenti usati dal Ruf per portare avanti le sue missioni. Nel corso della guerra, arriveranno a marchiare i bambini come capi di bestiame».
Oggi l’ex soldato bambino ha 24 anni. Soffre di depressione e sindrome post traumatica grave. Vive in miseria alla periferia di Roma. Ha una stanza dentro un palazzo occupato con altre cento persone emarginate dalla crisi. Sono italiani, cinesi e africani come lui, fanno i turni per le pulizie e per la guardia al cancello. Papani è scappato dalla guerra in Sierra Leone. Ha vissuto sette anni in Costa d’Avorio, prima di attraversare il deserto del Niger su un camion carico di sigarette di contrabbando. Poi è scappato anche dalla guerra in Libia. «Volevano arruolarmi nell’esercito di Gheddafi - racconta - mi sfottevano: “Voi della Sierra Leone siete bravi a combattere... ”». Papani è sbarcato a Lampedusa durante l’emergenza Nord Africa, nella primavera 2011. Era convinto di trovare requie, ma il suo passato lo insegue anche qui. «Tutti hanno paura di me. Pensano che io possa cambiare all’improvviso, tornare a fare qualcosa di male. Ma non è così. Vorrei dirlo al mondo: era per colpa della droga se ho fatto quelle cose. Quando me la iniettavano non capivo più niente, non riconoscevo più nessuno, neppure i miei genitori».
Papà Momodou era il capo villaggio, sua madre si chiamava Fatou. Sono stati sterminati in un incendio appiccato con la benzina. Tutto brucia ancora nella vita di Papani. «Un piccolo lavoro - dice fissando il muro - ecco quello che sogno. Imparare un mestiere. Stare sereno, potermi fare una famiglia». Ma questi due anni italiani sono stati un fallimento. «Per me le cose peggiorano di giorno in giorno. Non lavoro, non studio. Per poter iscrivermi a un corso di italiano mi hanno chiesto 100 euro». Il tempo vuoto è spaventoso, specie quando sei circondato dai tuoi ricordi. Sulla parete c’è una madonna. Decoder e cavi posticci. Un piccolo cagnetto guaisce alla catena dal palazzo di fronte.
Papani racconta per la prima volta quello che lo fa piangere a dirotto: «Adama mi ha chiesto di tagliare le mani del mio migliore amico. Io mi sono rifiutato. Guardavo Moses negli occhi, tremava e mi supplicava. Allora Adama mi ha picchiato come non aveva mai fatto prima, mi ha puntato il coltello alla gola... Mi ha detto di tagliare come mi aveva insegnato... ». Questo preciso momento, nel rapporto psicologico su Papani Kamara, viene definito la scelta impossibile: «Una delle tecniche di tortura più atroci, utilizzata come rito di passaggio e prova di affiliazione ai Ruf. L’obbligo di tagliare il braccio di Moses mirava a separarlo definitivamente dal suo passato e dai suoi affetti... ». Papani piange su un piumino rosa recuperato nella spazzatura. Non ha mai avuto una fidanzata. Nel telefonino tiene immagini di donne nude che ispirano i suoi sogni. Dice che certe sere beve cinque birre perché è l’unico modo in cui riesce a non pensare: «Fino a quando non chiederò perdono a Moses per quello che gli ho fatto, non potrò stare in pace... ». E quando gli effetti alcolici virano da ritmi reggae a suoni molto più spaventosi, tutto si mischia in un gigantesco caleidoscopio dell’orrore: le urla di Moses che si contorce a terra, un gommone nero carico di persone che pregano e vomitavano in mezzo al mare, le rivolte nel Cara di Bari, le notti da solo alla stazione Termini.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari di Papani Kamara sta per scadere. Non ha soldi per rinnovarlo. Il ministero dell’Interno non ha ritenuto di concedergli lo status di rifugiato politico: «Non si rinvengono ipotesi di rischio di danno grave in caso di rimpatrio». Papani si asciuga gli occhi. Per un attimo prova a immaginare un colpo di fortuna. Sa fare il piastrellista, accetterebbe qualsiasi lavoro. «Purtroppo non ho trovato persone amichevoli qui in Italia, mi dispiace per quello che sto dicendo. Ho cercato amici, qualcuno con cui parlare, ma non ho trovato nessuno». In verità tre donne hanno cercato di prendersi cura di lui. Una psicologa, un’avvocatessa e una maestra di italiano che si chiama Cecilia. Quest’ultima ha scritto una lettera che Papani Kamara tiene sempre in tasca come un passaporto: «Ti conosco da poco ma sento che sei un bravo ragazzo... ». Nessuno l’aveva mai detto prima all’ex soldato bambino.

La Stampa 30.9.13
La guerra dei diamanti

Il Ruf (Revolutionary United Front) è stato l’esercito ribelle che dal 1990 al 2002 ha combattuto una guerra civile nel tentativo di prendere il potere in Sierra Leone. Nato con l’intento di «ridare prosperità al popolo», si è trasformato in uno dei più sanguinosi gruppi armati della storia. L’impiego di soldati bambini e l’uso sistematico di torture ebbero fama internazionale. Le crudeltà del Ruf sono state raccontate nel film «Blood Diamond» del 2006 con protagonista Leonardo Di Caprio. Diamanti insanguinati. La principale fonte di reddito del Paese. Alla fine: più di 43 mila vittime, più di 2000 bambini spariti e un esercito di reduci che ha visto in faccia l’orrore.

il Fatto 30.9.13
Altre larghe intese

In Austria vince la grande coalizione ma l’estrema destra avanza al 20,7% Pesantemente puniti dagli elettori, i due partiti della grande coalizione al governo a Vienna – i socialdemocratici (Spoe) del cancelliere Werner Faymann, e i popolari (Oevp) del vice-cancelliere Michael Spindelegger – sono riusciti comunque a difendere la maggioranza assoluta in seggi alle elezioni oggi in Austria, e potranno quindi continuare a governare assieme. Il cancelliere Spoe Faymann conserverà la poltrona. Parallelamente, forte avanzata dell’estrema destra Fpoe del successore di Joerg Haider, Heinz-Christian Strache, col 20,7%.

La Stampa 30.9.13
L’exploit delle forze populiste allarma l’Europa
Austria, tornano i nipotini di Haider
Successo dell’estrema destra, ma la coalizione fra popolari e socialdemocratici regge
di Monica Perosino


Il partito xenofobo dell’Fpoe guadagna quattro punti e diventa la terza forza
L’Fpoe guadagna quattro punti; i socialdemocratici ottengono il 27,1% (contro il 29,26% nel 2008) e i popolari il 23,8% (26%)

Ce l’hanno fatta per una manciata di voti, con il peggior risultato elettorale di sempre, ma ce l’hanno fatta. L’Austria ha scelto senza troppa convinzione la Grande Coalizione di governo tra i socialdemocratici della Spo e il partito popolare Ovp. Nonostante lo storico calo di preferenze (il più pesante dal 1945) potrà controllare il Parlamento senza dover cercare l’aiuto di una terza formazione. Il partito socialdemocratico del cancelliere uscente Werner Faymann ha ottenuto il 27,1% per cento dei voti, mentre i popolari dell’Ovp hanno conquistato il 23,8%. Con una perdita di oltre 2 punti per ciascuna formazione.
Ma dalle urne austriache esce soprattutto un altro risultato: quello che sancisce l’inarrestabile affermazione dell’ultradestra in Europa. Ieri il vero vincitore è stato Heinz-Christian Strache, il successore di Jörg Haider alla guida dell’Fpoe. Con il 21,4% dei voti ha guadagnato quattro punti rispetto al 2008 (17,5%) e si è confermato terzo partito in Parlamento, tallonando da vicino l’Oevp. Ha faticato a lungo, Strache, per liberarsi dallo schiacciante confronto con il governatore della Carinzia morto cinque anni fa in un incidente d’auto. Con il suo «carisma» Haider era arrivato al 30% di preferenze, e l’Fpoe era diventato il secondo partito nonostante, o forse grazie alle posizioni estremiste del suo leader: Haider elogiava Hitler, era antisemita, islamofobico, xenofofo, ultranazionalista.
Ieri i sei milioni di elettori austriaci hanno dato un’altra spinta ai movimenti euroscettici e populisti, confermando di essere perfettamente in linea con la maggioranza degli europei. Solo venti giorni fa era stata la volta della virata a destra della Norvegia (che si è «conformata» così al resto della Scandinavia).
Quest’anno, come già nelle passate elezioni, l’Fpoe ha condotto una campagna elettorale all’insegna di slogan anti-israeliani, contro la criminalità causata dagli stranieri e contro i parassiti, sempre stranieri, del welfare. Questa volta però i nipotini di Haider hanno scelto un registro meno diretto: anziché fare una propaganda apertamente xenofoba, la campagna era impostata all’«amore per il prossimo», laddove il prossimo erano ovviamente i soli austriaci. Altro cavallo di battaglia, come già ai tempi di Haider, la corruzione e lottizzazione all’ombra dei due grandi partiti di governo, e la difesa degli interessi dell’uomo della strada.
A differenza dei «cugini» tedeschi dell’Afd, nel Parlamento austriaco entrerà per la prima volta anche il Team Stronach (5,8%), il partito anti-euro fondato un anno fa dal miliardario austro-canadese Frank Stronach: partito populista che propone meno tasse e più lavoro. I Verdi arrivano al 11,5% (rispetto al 10,43%), molto al di sotto delle loro aspettative (15%). Entrano anche i liberali di Nuova Austria (Neos), sostenuti dagli industriali e resta fuori l’Alleanza per l’Austria (Bzoe) fondata da Haider nel 2005, che ha ottenuto il 3,6%.

il Fatto 30.9.13
Passato che ritorna
Ungheria, l’incubo dittatura
di Martina Castigliani


LIBERTÀ A RISCHIO Dritti per la propria strada. L’Ungheria di Viktor Orbàn, il primo ministro euroscettico, populista e nazionalista eletto nel 2010, non guarda in faccia nessuno. È andato avanti con le riforme, non ha ascoltato le opposizioni, si è messo nella condizione di guidare il Paese senza nessuna voce contro. Il gioco di prestigio è stato abbastanza semplice: Costituzione modificata con voto del Parlamento, Corte costituzionale indebolita nei suoi poteri e messa sotto il controllo del governo. Poi libertà d’espressione limitata e un testo fondamentale che riconosce solo le coppie eterosessuali. Ma anche un debito con il Fondo Monetario Internazionale estinto prima del tempo e un tasso di occupazione superiore ai livelli pre crisi (insieme solo a Germania, Lussemburgo, Austria e Malta). C’è chi si è spinto oltre e l’ha chiamata la “dittatura” nel cuore della vecchia Europa, ma l’Ungheria chiusa nei suoi confini non sta solo a guardare. “Le istituzioni europee”, commenta Riccardo Noury di Amnesty International Italia, “sono così severe con gli stati che sono al di fuori dei loro confini e poi rischiano di essere troppo indulgenti con chi fa parte dell’Unione”. Sorveglianza e attenzione chiedono i delegati di Amnesty International perché un Paese che fa passi indietro nelle regole della democrazia sia fermato in tempo e non faccia scontare ambizioni di grandezza sulla pelle delle persone. L’Europa chiama, ma dall’altra parte Orbàn non risponde perché di istituzioni e aiuti in fin dei conti non ne ha poi così tanto bisogno. “Non entriamo nell’E u ro”, ha ribadito, “non ci interessa ora come ora”. Ma soprattutto ha scritto una lettera al Fondo monetario internazionale: andatevene dal Paese, chiudete il vostro ufficio, perché noi abbiamo estinto il debito. Il ministero dell’Economia ungherese ha infatti annunciato che Budapest ha ripagato, in anticipo, l’intera quota di denaro che doveva all’Fmi: 2,15 miliardi di euro, con un risparmio sugli interessi di circa 11 milioni di euro. E se l’Ungheria non dipende da nessuno, allora può quasi considerarsi libera. Nel 2014 ci saranno le prossime elezioni: la sinistra ci arriva frammentata e il premier uscente ringrazia. La partita è ancora aperta, ma c’è chi gioca con le spalle più coperte degli altri. “È una nazione che teniamo sotto stretta sorveglianza”, ha aggiunto Noury, “per le difficoltà in termini di discriminazione e libertà dei singoli. Uno dei tasti dolenti riguarda la Costituzione, entrata in vigore a gennaio 2012 e poi emendata nel marzo 2013 con quello che è stato definito ‘go l p e bianco’”. Tanti gli interventi controversi. È stata creata ad esempio l’Autorità di sorveglianza dei media: alla guida una fedelissima di Orban. Il Partito comunista è diventato fuorilegge e gli studenti laureati in Ungheria sono costretti per legge a non lasciare il Paese per i primi dieci anni. Anche perché negli ultimi anni c’era stata una vera e propria fuga dal Paese. Ma il provvedimento ha il sapore di quello che fu il regime sovietico: frontiere chiuse ai neolaureati è un provvedimento intollerabile in quella che dovrebbe definirsi una democrazia o qualcosa che almeno si avvicina. “Senza dimenticare le discriminazioni”, conclude Noury, “quella sistematica della popolazione Rom e quella delle minoranze sessuali”. L’Ungheria resta un sorvegliato speciale, ma nella partita con l’Europa può dire di giocare senza debiti sulle spalle dei cittadini.

il Fatto 30.9.13
Straniero, non deciderai la nostra vita
di Viktor Orbán

dal discorso tenuto a Budapest il 15 marzo 2012, giorno del “golpe bianco


STORIA DA RICOSTRUIRE Il programma politico e intellettuale del 1848 era questo: noi non saremo una colonia! Il programma e il desiderio degli ungheresi del 2012 dicono lo stesso: noi non saremo una colonia. L’Ungheria non avrebbe resistito sotto la pressione delle riforme dettate dall’estero, nell’inverno 2011-2012, se non fosse stato per le centinaia di migliaia di persone che hanno tenuto duro per dimostrare che gli ungheresi non vivono come gli dettano gli stranieri, che non cederanno la loro indipendenza e la loro libertà. O la Costituzione che stanno finalmente scrivendo dopo vent’anni. Grazie a tutti! E non fatevi fuorviare se domani sulla stampa internazionale leggerete che c’erano poche centinaia di persone e che perfino queste si erano riunite contro il Governo. Non siamo mai stati così forti, da decenni. Siamo abbastanza per combattere per una vita libera in Ungheria, dopo aver combattuto per la nostra libertà. La libertà per noi significa che non siamo inferiori a nessuno, che meritiamo rispetto. Che decidiamo le nostre leggi e quello che è importante per le nostre vite. Da una prospettiva ungherese, con un mentalità ungherese. E seguendo il ritmo dei nostri cuori ungheresi. Quindi ci scriviamo le nostre costituzioni senza bisogno di linee guida. Senza assistenza non richiesta di stranieri pronti a guidarci le mani. Noi conosciamo fin troppo bene quell’assistenza amichevole e non richiesta anche se arriva vestita con abiti di sartoria e senza divise militari... Dobbiamo rispondere alla più grande delle questioni: ci sottometteremo per essere alla mercé degli altri fino alla morte o confideremo nelle virtù che hanno fatto gli ungheresi ungheresi e la storia storia? Sceglieremo il destino di servi o ci affideremo a ciò che ci ha reso grandi?

il Fatto 30.9.13
Matvejevic: “Alle democrature può opporsi solo l’Europa”
intervista di Oliviero Ponte di Pino


Nello sguardo di Predrag Matvejevic c’è grande attenzione per la realtà: una realtà spesso dolorosa, feroce, difficile anche sul piano personale, con i lutti e le minacce. C’è l’esperienza di chi ha attraversato decenni sanguinosi e conosce le pieghe della storia. E c’è l’attenzione dello scrittore alle parole, al loro uso: è stato lui a parlare, nei titoli dei suoi libri, di “Altra Europa”, di “Mondo ex”, di “asilo ed esilio”, circostanze storiche ben precise, ma prima ancora condizioni dell'anima. Da Zagabria continua a osservare la realtà dell’Europa con preoccupazione e speranza. La xenofobia e il razzismo che stanno infettando l’Ungheria sono un caso isolato? Purtroppo no. Sono fenomeni che possono nascondersi, ma non scompaiono del tutto. Anche nella ex Jugoslavia. Basta andare allo stadio: in Croazia i tifosi delle squadre di calcio gridano “Ammazza il serbo”, e in Serbia “Facciamo come a Srebrenica”, dove nel 1995 sono stati 8.000 morti... La Federazione Internazionale voleva sospendere i campionati. Sono fenomeni marginali, o possono avere influenza sulla politica di un intero Paese? Quando sono dovuto andare via da Zagabria, più di vent’anni fa, i politici si facevano vedere con il braccio alzato a urlare slogan nazionalisti insieme ai tifosi... Ogni mattina vediamo gli slogan che hanno scritto sui muri durante la notte. Oggi nella ex Jugoslavia la situazione più grave è quella della Bosnia-Erzegovina, dove ci sono tre nazionalità: nella zona occidentale c’è una maggioranza croata, più a Est i sono i serbi ortodossi, e un po’ ovunque sono disseminati i musulmani. Sotto Tito si chiamavano semplicemente “i Musulmani”, adesso i nazionalisti islamici vogliono imporre il termine “Bosniaci”: ma i bosniaci sono tutti quelli che sono nati in Bosnia... È vero che durante le guerre jugoslave sono stati loro a subire le atrocità peggiori, a Srebrenica ci sono 8.000 tombe, e possiamo leggere i nomi di quelli che sono stati uccisi dai mercenari serbi. Ma i musulmani bosniaci sono una nazione slava, non sono turchi, si sono convertiti ai tempi dell’occupazione ottomana. Parliamo la stessa lingua, siamo tutti slavi del Sud. Avevamo l’impressione che in Serbia e in Croazia il nazionalismo, alla radice delle guerre balcaniche degli anni Novanta, fosse superato. ... E c’è anche la volontà di far parte dell’Unione Europea. Quell’atteggiamento è stato superato, ma non è sparito. Se in Croazia entri in una bottega, se hai un nome serbo-ortodosso spesso il negoziante ti guarda male. I nazionalismi balcanici si sono indeboliti, ma restano presenti. Rispetto al nazionalismo ungherese, ma più in generale rispetto a queste situazioni, quale dovrebbe essere il ruolo dell’Europa? Credo che l’Europa possa attenuare il peso di questi nazionalismi. L’Unione Europea non può certo risolvere tutti i problemi, ma è la soluzione meno cattiva. Entrando in Europa, questi Paesi almeno non possono più farsi la guerra tra loro. La prova del successo di questa politica sarebbe l’ingresso di tutti i Balcani in Europa, in modo da impedire qualsiasi azione militare. Gli accordi di Dayton nel novembre 1995 hanno interrotto la guerra civile jugoslava, creando però frontiere improvvisate: oggi non sono del tutto rispettate e soprattutto non sono più sufficienti. Anche i Paesi vicini creano problemi: la Bulgaria non permette alla Macedonia di chiamarsi così, vogliono che si chiami ufficialmente “Vecchia Repubblica Jugoslava Macedone”. Anche i greci avevano problemi analoghi, con la Macedonia... E nel Kosovo non sono finiti i problemi dei serbi con gli albanesi, malgrado i passi avanti. Gli interventi di cui hai parlato finora riguardano i rapporti tra comunità, nazionalità, Stati. Nel caso dell’Ungheria, che cosa può fare l’Europa per evitare derive fasciste all’interno di un Paese membro dell’Unione? Ci sono accordi e trattati con i singoli Paesi, ma servirebbe una strategia che l’Europa finora non ha avuto. Da questa parte del continente possono venire sorprese, la crisi mondiale qui è arrivata proprio quando iniziava ad affermarsi un certo neoliberalismo. Ora questi Paesi sono travolti da un neocapitalismo selvaggio, e inizia a serpeggiare un certo euroscetticismo. Per fortuna le classi dirigenti si rendono conto che l’Europa non è la peggiore delle soluzioni. Però la crisi ha conseguenze drammatiche sul debito delle nazioni e sui salari: in Croazia le paghe sono del 35% più alte che in Serbia, e in Serbia del 30% più alte che in Bosnia. Differenze che si aggiungono alle altre. Anni fa, quando si celebrava il trionfo delle democrazie, hai coniato il termine “democratura”. È un ibrido di democrazia e dittatura, si proclama la democrazia mentre si praticano forme di dittatura nascosta. È una patologia che per fortuna non riguarda tutti i Paesi dell’Est: la Polonia se l’è cavata bene, così come la Repubblica Ceca, la Slovacchia e i Paesi baltici. Anche Romania e Bulgaria si sono avvicinate all’Europa, la situazione è più grave dal punto di vista economico che da quello politico. In Serbia, in Croazia, in Bosnia, le democrature si sono introdotte nel potere, anche usando la retorica del nazionalismo, e il ricordo della guerra che lo nutre. Uno dei miei libri si intitola Mondo ex: qui predomina un “ex” da cui non si riesce a uscire. Questi paesi hanno abbandonati i regimi autoritari, che però ci ossessionano ancora. Crediamo di costruire il presente, ma non riusciamo a controllare il passato. Abbiamo denunciato la storia, e continuiamo a farci invadere dallo storicismo. Riconosciamo le libertà, ma non sappiamo cosa farne. Abbiamo difeso un retaggio nazionale, adesso dobbiamo difenderci da questo retaggio. Abbiamo voluto salvaguardare la memoria, e adesso la memoria sembra punirci: vengono alla luce anche i massacri compiuti dai croati, con decine e decine di morti, durante le guerre nell’ex-Jugoslavia. Per fortuna ci sono anche esempi positivi. In Vojvodina vive una minoranza ungherese, che come tutte le minoranze si sente minacciata: hanno un atteggiamento diverso dal nazionalismo ungherese, se lo adottassero per loro sarebbe controproducente. In Istria la minoranza italiana, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha vissuto un periodo difficilissimo: in italiano c’era un termine che aveva senso solo in Dalmazia, “esodati”, quelli che erano stati costretti ad abbandonare le case e a fuggire in Italia. Sono stato testimone di questo dramma quando facevo il servizio militare a Fiume. Le ferite inferte cinquant’anni fa hanno però creato una consapevolezza. Oggi so di famiglie croate che mandano i bambini alla scuola italiana, perché imparino una lingua europea.

il Fatto 30.9.13
Racconti del dissenso
“Figlio, in questo Paese si vince solo con la forza”
di György Spiró

György Spiró (Budapest 1946) è tra gli scrittori ungheresi più noti e apprezzati degli ultimi decenni. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è “Collezione di primavera” (Guanda 2012)

Stava portando a casa suo figlio, che era allacciato sul sedile dietro. Gli stava chiedendo come era andata la sua giornata a scuola, con chi aveva fatto a pugni, perché avrà fatto a pugni, anzi avrà di nuovo fatto a pugni, e in effetti perché mai non dovrebbe farlo? Cercava di spiegargli che ci sono anche altre soluzioni. Davanti a loro c’era una Skoda Favorit che procedeva più lenta rispetto il ritmo del traffico. Lui si era accostato sulla corsia di destra e aveva notato che la Favorit aveva messo la freccia verso sinistra e si stava spostando sulla corsia di svolta a sinistra. Dopo averlo sorpassato era rientrato nella corsia di sinistra. Nello specchietto vide che quello nella Favorit di colpo aveva sterzato a destra e veniva dritto addosso a lui. Non poteva accelerare perché il semaforo era rosso. La Favorit li tamponò e poi li spinse per una breve tratta, poi si fermò accanto a loro in modo che non potesse aprire la porta. Così tirò giú il finestrino urlando a squarciagola. Anche quello nella Favorit abbassò il finestrino, sul lato passeggero c’era un giovane imberbe, al volante invece una ragazza con accanto un radiotelefono. Per un po’ si urlarono a vicenda, non riusciva nemmeno a scendere dalla macchina, il bambino sul sedile dietro li ascoltava intimidito. Non riusciva a controllare quanto gli avesse sfregiato la macchina, di sicuro non valeva la pena di chiamare la polizia, perché non verrebbe nemmeno; e poi se si allontanasse per chiamare quei due se ne andrebbero e non troverebbe mai dei testimoni. Quindi appena il semaforo divenne verde se ne andò, nel retrovisore però vedeva quei due che invece erano ancora lí a perder tempo. Chiaramente la ragazzetta non aveva ancora la patente, non riusciva nemmeno a far partire la macchina. Cercava di proseguire una conversazione naturale col figlio, della scuola, di qualsiasi altra cosa. Non erano lontani da casa, quando per attraversare i binari mise la freccia verso sinistra. Da un pó li seguiva una Volkswagen piuttosto grande, gli si era appiccicata ma non poteva andare più forte di cosí, non c’era posto per sorpassare e in quel momento doveva dar precedenza anche alla Fiat che era intenta a girare a destra. La Fiat passò, quindi lui sterzò a sinistra accelerando, con la coda del-l’occhio vide che il tizio con la Volkswagen saltava fuori dalla fila per sorpassarlo in curva. A stento riuscì a frenare per non venirgli addosso. Suonò il clacson, allora quello nella Volkswagen rallentò e si fermò proprio sui binari. Nel frattempo dalla destra arrivava il tram che per fortuna lì doveva far fermata. Erano fermi sui binari. Suonò nuovamente il clacson, allora la Volkswagen avanzò un po’, per poi inaspettatamente frenare di nuovo per farsi tamponare. Frenò per miracolo. Anche l’altro si era fermato. Quindi il guidatore scese dalla macchina, anche lui scese dalla sua. Urlava lui. Urlava anche l’altro. Era un ragazzone molto più alto di lui, aveva forse sedici-diciassette anni. Nel frattempo il tram era andato via, non c’era più nessuno. Suo figlio sul sedile dietro legato con le cinture era spaventatissimo. Il ragazzone rideva. Gli passò per la mente di colpirlo subito sul mento, altrimenti sarebbe stato il giovanotto a stenderlo e allora cosa avrebbe detto suo figlio. Erano ancora lì a gridare uno con l’altro, quando li raggiunse un’altra macchinona di marca occidentale, si era fermata accanto a loro e era sceso un tipo alto due metri, di almeno duecento chili, il compare del ragazzone. Dovrei decidermi a comprare una pistola, stava pensando e saltò sulla macchina, voleva partire ma i due idioti erano lí a ballare davanti alla sua macchina. Cosa fare, li tiro sotto? Deficienti. Fece retromarcia, poi con le ruote cigolanti imboccò un’altra stradina. Erano arrivati a casa e si stavano preparando per scendere dalla macchina quando la macchinona li raggiunse e si fermò proprio dietro di loro. Annotò la targa. Non c’era anima viva nei paraggi. Nessun testimone. Scesero dalla macchina e si avvicinarono. Fece risalire suo figlio in macchina e cosí fece anche lui. Li raggiunsero e aprirono la porta con la forza. Lui diede il gas e partì di colpo, mentre uno di loro si era aggrappato alla porta della macchina. Schiacciò l’acceleratore con più forza, quindi quello aggrappato alla porta cadde a terra. Proseguì fino all’incrocio poi tornò indietro. Dunque uno ormai non può nemmeno rincasare con il proprio figlio? I due tontoloni stavano lì in mezzo la strada. Tra le mani di uno di loro era apparso una spranga o era forse un bloccavolante. Almeno avesse avuto un tirapugni, pensava. Cosa succede ora, chiedeva il bambino. Non rispose. In quel momento ne aveva abbastanza del suo passato, non ne poteva più del proprio futuro, non ne poteva più nemmeno del futuro di suo figlio. Mise la seconda e partì facendo imballare il motore. Uno lo prese proprio in pieno, l’altro invece lo scansò via. Il parabrezza era intatto, solo il cofano si era piegato appena il corpo ci era caduto sopra. Fece altri dieci metri poi si fermò, prese l’asta del bloccavolante in mano e scese dalla macchina. L’imberbe saltò in piedi sull’asfalto, salì in macchina e se ne andò. Il corpo del-l’altro era lí steso e appiattito per terra. Risalì in macchina e andò giú in garage. Il bambino taceva. Lui entrò in garage con la macchina, poi chiese di salire subito in casa. Il bambino ubbidì. Lui nel frattempo lavò le macchie di sangue dalla carrozzeria, osservava l’ammaccatura, in fondo non era nemmeno così profonda. Naturalmente se arrivasse la polizia la noterebbe lo stesso. Perché non aveva comprato al mercatino polacco una pistola? Oppure perché non si era comprato anni fa una carabina a canne mozze dai russi? Potrebbe accogliere con quella la polizia. Salì in casa, il bambino giocava tranquillo, non c’era bisogno di parlare del-l’accaduto. Guardava fuori alla finestra. Quel buono a nulla giaceva ancora lì. Era quello che poco prima gli aveva tagliato la strada sui binari. Rifletteva se era il caso di chiamare la polizia o l’ambulanza, eventualmente ambedue. Sarebbe un attenuante. Bisognerebbe controllare se sia vivo ancora. Se è vivo, bisognerebbe aiutarlo in qualche modo. Non raggiunse il corpo e non chiamò la polizia. Un’ora e mezza più tardi arrivò l’ambulanza, sistemarono il cadavere e lo portarono via. Si è fatto vedere anche un poliziotto in moto, ha scattato qualche foto del luogo e poi se ne è andato. Per settimane girò con il cofano ammaccato ma nessuno gli chiese nulla. Acquistò una pistola che ora tiene nel cruscotto. Nella tasca sinistra ha sempre un tirapugni. Passavano le settimane e non cercavano più il colpevole. Hanno cose più importanti da fare. Col bambino non ne fecero più parola. A volte si svegliava di notte per sentire se il piccolo avesse degli incubi ma suo figlio dormiva tranquillo. Forse il piccolo lo sapeva giá ma se non lo sapesse e un giorno glielo chiedesse, gli risponderà così: questo è il Paese del più forte, qui morte tua è vita mia.
(traduzione di Krisztina Sándor)

La Stampa 30.9.13
Neonazi sotto accusa
Ad Atene si costituisce il numero due di Alba Dorata
di E. St.


ATENE In manette anche il «numero due» di Alba Dorata, partito filo-nazista che dalle ultime elezioni siede per la prima volta nel Parlamento greco. Il deputato Christos Pappas si è costituito ieri alla polizia di Atene. «Non ci spezzeranno! Viva Alba Dorata! », ha gridato ai sostenitori che lo attendevano fuori dal commissariato. Pappas era ricercato in seguito a un mandato di custodia cautelare emesso contro di lui e altri 35 militanti.
Gli arresti, che hanno portato in carcere ventuno persone, tra cui il leader Nikos Michaloliakos, il portavoce del partito Ilias Kassidiaris e altri tre parlamentari, sono scattati sabato mattina. Il punto di non ritorno è stato l’omicidio del rapper anti-fascista Pavlos Fyssas, assassinato a freddo dal militante Georgos Roupakias. Fyssas fu pugnalato senza pietà e morì tra le braccia della fidanzata il 17 settembre scorso.
Nelle dieci pagine di ordinanza di custodia cautelare, Alba Dorata è accusata di undici fra omicidi e aggressioni e di essere un’organizzazione criminale.
Michaloliakos e gli altri deputati compariranno davanti ai giudici martedì prossimo. La Grecia ha cominciato così la sua lotta per difendere la democrazia.

La Stampa 30.9.13
“All’armi, la Francia ci invade” Le esercitazioni svizzere mandano Parigi su tutte le furie
Berna: il Paese è sull’orlo del crac, potrebbe attaccarci
di Alberto Mattioli


In piena bancarotta, schiacciata dal deficit e devastata dalla crisi, la Francia si è spaccata in varie entità macroregionali. Sulle rovine di Hollandia è nata così la Saônia, corrispondente appunto alle zone attraversate dal fiume Saône: grosso modo, la Borgogna e la Franca Contea. Ora, un’organizzazione paramilitare, la Bld (Brigata Libera di Digione), braccio armato del governo saonese in difficoltà finanziarie, decide di «andare a cercare il denaro che la Svizzera ha rubato alla Saônia» e invade quindi il sacro suolo della Confederazione, marciando su Ginevra, Losanna e Neuchâtel. Gli svizzeri, ovviamente, resistono eroicamente: tutti Guglielmi Tell.
Non è un racconto di fantapolitica. È il presupposto sul quale l’esercito elvetico ha basato le (concretissime) manovre estive delle sue forze blindate. L’operazione «Duplex-Barbara», rivela «Le Matin dimanche», si è svolta dal 26 al 28 agosto nella Svizzera romanda. Naturalmente, giurano gli svizzeri, è del tutto casuale che Parigi e Berna siano attualmente ai ferri corti perché la Francia cerca di stanare i suoi cittadini che hanno portato i soldi dall’altra parte della frontiera. «L’esercitazione - spiega il comandante della brigata corazzata svizzera, Daniel Berger - non ha nulla a che vedere con la Francia che apprezziamo ed è stata preparata nel 2012, quando le relazioni fiscali franco-svizzere erano meno tese». E tutta la storia della Saônia è stata inventata solo per dare ai soldati «un quadro realistico» (si fa per dire).
Fantastici svizzeri. L’anno scorso, per la manovra «Stabilo Due», avevano immaginato un’Europa nel caos per il crollo dell’euro con un conseguente massiccio afflusso di rifugiati nella Confederazione. Ne avevano parlato perfino i grandi giornali americani. Tipico, però: da sempre, la neutralità si basa su solide tradizioni militari e una non meno solida preparazione bellica. Il Paese che non entra mai in guerra è prontissimo a farla. Domenica scorsa, il 73,2% degli svizzeri ha votato contro la proposta di sostituire con un’armata di mestiere l’esercito di popolo, basato sul principio che chi vuole la libertà dev’essere disposto a battersi per lei. I cittadini-soldati continuano a tenere il fucile nell’armadio e a presentarsi alle esercitazioni a intervalli regolari. La linea fortificata sul confine italiano è stata smantellata solo alla fine degli Anni Settanta. Meglio essere pronti, casomai fosse saltato in mente a Fanfani o Andreotti di invadere il Ticino irredento...

Corriere 30.9.13
Benvenuti nella Shanghai «liberata». Prove di democrazia (finanziaria)
Via alla zona di libero scambio: un modello di riforme per la Cina
di Guido Santevecchi


SHANGHAI — La scritta rossa in cinese e inglese annuncia: «China (Shanghai) Pilot Free Trade Zone». Il cartellone a forma di arco, a cavallo della superstrada a otto corsie, è il segno più chiaro della grande novità: la Cina ha lanciato la sua prima zona pilota di libero scambio. Intanto è stato liberato l’arco, che era rimasto ingabbiato dalle impalcature per giorni (mentre a Pechino il partito dibatteva in segreto): da questa porta si entra in una striscia di capannoni industriali, magazzini, grattacieli, sedi di multinazionali, banche e moli portuali che si estende su 28 chilometri quadrati a Est di Shanghai. In questi 28 chilometri quadrati il governo cinese promette di lanciare una nuova fase di riforme di mercato.
La «Zona pilota» di Shanghai è stata inaugurata ieri, ma in Cina se ne parla da mesi come di una svolta cruciale quanto quella voluta dal timoniere Deng Xiaoping nel 1979, quando cominciò a sperimentare il capitalismo socialista dichiarando l’enclave meridionale di Shenzhen «Zona economica speciale». Da allora il Prodotto interno lordo della Repubblica popolare si è moltiplicato molte volte e oggi è il secondo del mondo.
Nella zona di Shanghai liberata da altri guinzagli con cui il partito comunista guida il «mercato con caratteristiche cinesi», gli investitori potranno muovere i capitali in entrata e in uscita dal Paese con maggior facilità e le banche, non il governo, decideranno i tassi d’interesse sui depositi.
Il premier Li Keqiang, che è un economista, ha fatto annunciare il nuovo corso con articoli entusiasti sui giornali del partito comunista. Ma i contenuti reali del progetto ancora oggi sono tutti da chiarire.
Solo venerdì il Consiglio di Stato (il governo di Pechino) ha pubblicato le linee guida. Un comunicato esile. La «Free trade zone» comprende sei settori: servizi finanziari; spedizioni e logistica; commercio; servizi professionali; cultura e intrattenimento; salute e istruzione. Segue un elenco di 18 nuove possibilità di impresa libera nel settore dei servizi: si va dagli studi legali alle assicurazioni, alle cliniche, alle agenzie turistiche.
Il cuore di questo laboratorio riformista è il settore finanziario: Li Keqiang vuol provare a lasciare che sia il mercato a fissare i tassi di interesse, permettere alle aziende di cambiare liberamente yuan in valuta straniera e di muovere questi capitali verso l’estero. Le banche internazionali (comprese alcune italiane) si stanno preparando ad allargare le operazioni, ma Pechino ha già avvisato che gli esperimenti «avanzeranno quanto sarà consentito dalle condizioni... i rischi saranno controllati». E il periodo del test sarà di non meno di tre anni. Poi si vedrà se il modello Shanghai potrà essere allargato al resto della grande Cina. Il comunicato ricorre anche al linguaggio saggio e ispirato tipico della burocrazia in mandarino: «Ciò che sarà maturo sarà colto prima e poi si avanzerà un passo dopo l’altro».
I banchieri di alcuni grandi istituti cinesi a Shanghai avvertono che le direttive sono troppo vaghe e quindi anche loro non sanno ancora quello che potranno davvero fare. Il professor Chao Gangling, dell’Università di economia di Shanghai dice al Corriere che «sulla convertibilità dello yuan Li Keqiang ha incontrato resistenze da parte della Banca centrale e dei ministeri coinvolti».
Lu Ting, analista di Bank of America Merrill Lynch sostiene che il paragone con la zona speciale di Shenzhen lanciata da Deng all’inizio della via cinese al capitalismo non regge: «La finanza non è come il commercio dei prodotti, la finanza è invisibile e scorre da un luogo all’altro con grande rapidità...».
L’agenzia Bloomberg ha fatto un sondaggio tra i principali gruppi di analisti finanziari: 8 su 15 hanno risposto che la zona libera di Shanghai non avrà effetto o quasi sulla crescita della Cina per i prossimi cinque anni. Secondo questi osservatori l’impatto sulla crescita potrebbe essere tra lo 0,1 e lo 0,5%. Il professor Chao replica: «Non è il Pil di 28 chilometri quadrati di Shanghai che conta, ma il valore dell’esperimento. Se riuscirà sarà allargato...».
Quelli che l’affare l’ha già fatto sono gli immobiliaristi: nell’ultimo mese i prezzi del mattone intorno al perimetro della Free trade zone sono cresciuti tra il 20 e il 30%. Ma non tutti sono felici: nella Zona libera pilota, su un bell’edificio di appartamenti circondato da grattacieli, gli inquilini hanno appeso uno striscione: «Protestiamo energicamente contro i palazzinari dal cuore nero». I palazzinari vogliono abbattere le loro case per costruire uffici.
Deluso anche chi avevano sperato che nella Zona pilota sarebbe stato liberato dalla censura Internet: la voce dello sblocco di Facebook e Twitter è stata smentita. Con l’economia il potere fa esperimenti, con la democrazia non si vuol cimentare.
Confermato invece che alle industrie straniere all’interno della zona sarà permesso di produrre e vendere le console per i loro videogame, finora bandite in Cina. Quelli di Nintendo stanno già festeggiando, anche se dovranno fare i conti con le copie pirata che si vendono spudoratamente agli angoli delle strade.
Piccole prove di grande riforma. Un altro esempio è Christie’s: la casa d’aste ha potuto tenere la sua prima vendita in territorio cinese allo Shangri-la di Shanghai. Incassi per 24,9 milioni di dollari: la migliore offerta è arrivata per una collana di rubini aggiudicata a 3,4 milioni. Il battitore era una battitrice vestita di rosso, molto scenografica. Tra i lotti un Picasso, un Warhol e un Morandi. La serata è stata inaugurata da 12 bottiglie di Chateau Latour 2000 e sei magnum per 49 mila dollari; tre Chateau Margaux del 1986, 1990 e 2009 sono andate via per 62 mila dollari. Ai nuovi cinesi piace investire nel vino europeo.
Siamo venuti qui a celebrare la grande apertura della «Zona pilota di libero scambio» di Shanghai: ma la domenica sembra un giorno strano per lanciare un’iniziativa finanziaria, visto che i mercati internazionali sono chiusi. E poi, da domani e per tutta la settimana, sarà la Cina a fermarsi per la festa nazionale che celebra la fondazione della Repubblica popolare. Anche questo è un segnale della cautela con cui la Cina cambia passo.

Repubblica 30.9.13
Nigeria, Boko Haram fa strage di studenti
Assalto ad un collegio nel nord del Paese: almeno 50 morti, colpiti mentre dormivano“Vogliono distruggere le scuole per condannarci alla povertà eterna”
Parla la scrittrice Lola Shoneyin: “Gli estremisti sognano un popolo senza speranze”
“Per vincere davvero questa guerra ci vogliono insegnanti, posti di lavoro e una società senza corruzione”
di Francesca Caferri


L’EDUCAZIONE, quella di una giovane donna in particolare, è centrale nelle pagine del suo primo e acclamato romanzo “Prudenti come Serpenti”. Naturale dunque che Lola Shoneyin, voce fra le più importanti della nuova letteratura africana, abbia le idee chiare sul nuovo attacco, l’ultimo di una serie, condotto da Boko Haram contro una scuola. «Stanno cercando di tagliare alle radici il futuro di questo paese», dice alla vigilia della sua partenza per l’Italia, dove sarà fra i protagonisti del festival della rivistaInternazionale.
Lola Shoneyin, perché sempre più spesso gli estremisti di Boko Haram scelgono le scuole come obiettivo?
«La risposta sta nel loro nome: Boko Haram, ovvero l’educazione occidentale è proibita.Sparare su una scuola vuol dire uccidere giovani ma soprattutto terrorizzare centinaia di genitori che domani non manderanno in aula i figli per timore che la prossima volta tocchi a loro. Questo in una zona come il Nord della Nigeria, dove ci sono aree in cui il tasso di istruzione femminile è del 5%, significa mettere un’ipoteca sul futuro di un’interagenerazione».
Sta dicendo che non è solo una questione religiosa a muovere Boko Haram?
«Certo, non è solo religione. La fede ha un ruolo, perché parliamo di estremisti motivati da un credo deviato e estremamente conservatore. Ma la questione di fondo è la povertà: Boko Haram va a pescare fra chi non ha speranze e pensa che morire aspirando al paradiso sia meglio che vivere senza prospettive. La colpa della situazione che sta minando alle basi la stabilità della Nigeria è della politica, di chi 20 o 30 anni fa ha lasciato migliaia di giovani senza istruzione e quindi senza possibilità di fare qualcosa nella vita. Sono questi ragazzi a militare frale fila di Boko Haram oggi».
Il presidente Goodluck Jonathan ha fatto della sconfitta di Boko Haram una priorità, inviando forze speciali ad affrontare i terroristi. Sta funzionando?
«Il governo centrale sta provando a fare qualcosa. Quello che non capisce è che non basteranno i militari: non arrivano a percepire quanto il fondamentalismo religioso abbia scavato a fondo nella società, occupando gli spazi lasciati liberi dalla politica stessa. Per vincere davvero questa guerra ci vogliono scuole, posti di lavoro e una società libera dalla corruzione».
È Boko Haram il problema principale della Nigeria, come appare a noi occidentali, o la sua visione è un’altra?
«Il problema vero della Nigeria si chiama corruzione. Siamo un paese ricchissimo in cui il gap fra i pochi che hanno moltissimo e la maggioranza che non ha nulla non fa che aumentare. La rabbia monta sempre di più: Boko Haram è riuscito a incanalarla».

il Fatto 30.9.13
La guerra mite del generale Mini
di Furio Colombo


Fabio Mini è un caso raro di militare scrittore. Non perché il genere sia nuovo. Ma per una certa lieve serenità che scorre sulle sue pagine. Eppure sono pagine sulla guerra (La guerra spiegata a..., Einaudi pag. 164) che cominciano con queste parole: “Mi chiedo spesso perché si debba spiegare qualcosa di ovvio come la guerra, che riempie le biblioteche, le cronache le fantasie”. Ecco, è in quella parola, “ovvio”, che Mini trova il percorso (e il linguaggio) originale di questo suo scrivere in cui l’autore, che è un militare con molte missioni nel mondo alle spalle, compie tre mosse felici.
CON LA PRIMA ci fa sapere che tutta la sua carriera non fa di lui un esperto. Infatti dimostra fin dalle prime pagine del libro che questo tipo di vanto è improprio, tanto quanto dichiararsi esperto della realtà o della vita, solo per il fatto di essere vivi. Con la seconda lui, militare, che dovrebbe essere tutto fatti provati e basta, segue invece (una pura ma illuminante coincidenza) il percorso intellettuale di chiedersi - sezione per sezione del libro - che cosa è la guerra. In questo modo resta accanto all’ordigno senza farlo esplodere (la metafora è del recensore) ma non ne diventa mai il finto e poco credibile oppositore o il realistico, antico campione della frase ancora più ovvia che ripete “la guerra è guerra”. La terza mossa è il pensare umanistico piuttosto che tecnico. Infatti noto la curiosa affinità del procedere di Mini verso la guerra con quello di Luciano Berio quando si è messo al lavoro sulla musica, rivolgendo a tutti, compositori, esperti, amici, la domanda: “Che cosa è la musica” (e ricavandone un bellissimo programma televisivo, C’è Musica e Musica, 1972 ).
Mini non dice, non dice mai: “C’è guerra e guerra”. Vede e considera come tanti oggetti diversi i vari modi di sentire o volere o chiedere o accettare la guerra, passando anche da Tommaso d’Aquino o da Machiavelli o dalla Harvard Kennedy School of Government. Resta però sempre accanto, mai dentro l’oggetto osservato, e in questo senso, nonostante il buon linguaggio umanistico, appare scienziato fedele all’ammonimento: conoscere ma mai alterare il fenomeno.
Mini riesce a imporsi di stare lontano dalla celebrazione e dallo scandalo. In compenso la sua analisi è precisa e necessaria, due caratteri desiderabili nella poesia e nella medicina. E infatti c’è qualcosa di lieve e di perentorio nel suo linguaggio che spinge a seguirlo volentieri come si segue una bella voce.
Con lui si scopre che nulla è stato mai predetto dei o sui conflitti, che la politica è la madre di tutte le guerre. E che la mente umana può ben di più che distruggere. I diritti umani possono essere la nuova frontiera (la nuova strategia) della mitica sicurezza.

Corriere 30.9.13
Annibale, guerriero perfetto ma eroe delle cause perse
Umiliò i Romani, poi Cartagine lo tradì negandogli i rinforzi
di Paolo Mieli


Polibio ne lodò esplicitamente «il modo di esercitare il comando, il valore e la forza sul campo». Napoleone Bonaparte ne esaltò la grandezza e lo collocò sullo stesso piano di Alessandro Magno e Giulio Cesare. Sigmund Freud, fin da giovane, ne scrisse con ammirazione, idealizzandolo come un «semita» che aveva avuto il coraggio di sfidare Roma. Nel 1934, il presidente turco Mustafa Kemal Ataturk gli dedicò un panegirico a Libissa, luogo in cui 2117 anni prima il comandante cartaginese si era dato la morte con il veleno per non essere catturato dai romani. Panegirico che doveva suonare a monito nei confronti di Benito Mussolini, il quale si proponeva come restauratore dei fasti di quell'antica Roma che, pur dopo essere stata da lui umiliata, alla fine era riuscita a sconfiggere il generale africano. In anni recenti gli afroamericani lo hanno considerato il grande eroe nero dell'antichità (anche se probabilmente non era di pelle scura). Adesso, in un libro che sta per essere pubblicato da Laterza, L'arte del comando (nella convincente traduzione di Giuliana Scudder), Barry Strauss sostiene che, per certi versi, il grande generale cartaginese superò Alessandro e Cesare. «Probabilmente», scrive, «fu Annibale il più grande comandante, sia in combattimento sia sul campo... Con la battaglia di Canne realizzò uno degli esempi di accerchiamento più eleganti e distruttivi che gli annali della storia militare ricordino». Si può dire che fu «l'eroe della cause perdute e delle battaglie perfette».
Come Alessandro con Filippo II, Annibale aveva appreso l'arte militare dal padre: Amilcare Barca. Quando attaccò Roma aveva 29 anni e da 20 non aveva più messo piede a Cartagine. A fianco del padre, in Spagna, aveva fatto sua l'«abilità del sorprendere». Quando varcò le Alpi, portando con sé gli elefanti, «lasciò il nemico a bocca aperta». Accerchiò i romani «con una serie di stratagemmi inauditi»: riuscì «a forzare le porte di una città inespugnabile»; caricò il nemico con la cavalleria da un nascondiglio alle sue spalle; in una notte riuscì a portare in salvo il suo esercito sotto il naso dei romani. Non ebbe remore di carattere umanitario: la prima cosa che fece, quando nel 218 a.C. giunse in Italia, fu massacrare gli abitanti di Torino per spezzare la resistenza nell'area circostante; e quando 15 anni dopo, nel 203 a.C., lasciò l'Italia, uccise gli italici che si rifiutavano di seguirlo. Ugualmente crudeli, del resto, furono gli altri due condottieri: Alessandro rase al suolo Persepoli con una dose non necessaria di sadismo; Cesare, scrive Plutarco, sterminò in Gallia un milione di persone (e ne ridusse in schiavitù altrettante).
Roma controllava i mari e i porti vitali della Sicilia e della Sardegna. Così Annibale, non potendo cercare rifornimento nei porti delle due isole, fu costretto a compiere un viaggio di 1.600 chilometri, dalla Spagna meridionale all'Italia settentrionale. A quei tempi Roma aveva a disposizione un esercito potenziale di 760 mila uomini, Annibale di 60 mila, che si sarebbero ridotti a 26 mila dopo l'attraversamento delle Alpi. La sua arma principale, oltre a quella di colpire il nemico a sorpresa, era (avrebbe dovuto essere) quella di provocare defezioni nel campo degli alleati di Roma. Ci riuscì davvero e fino in fondo solo con i celti. In ogni caso comunicava agli italici di essere sulle loro terre non come conquistatore, ma come liberatore e, dopo ogni vittoria, riduceva in schiavitù i romani, ma liberava tutti i prigionieri italici.
Annibale, a detta di Strauss, «impersonò la figura del vendicatore e del liberatore e trovò la via per avvicinarsi agli dei». A Cartagine promise di restituire l'onore perduto a causa dell'antica sconfitta subita da Roma nella Prima guerra punica; agli italici disse che avrebbe loro restituito «la libertà dalla dominazione romana» (anche se Cartagine, diffidente nei confronti della famiglia Barca, nel momento decisivo gli lesinò gli aiuti). Affermò, Annibale, di essere protetto dal dio cartaginese Melqart, da Ercole e si descrisse come un eroe tratto dalla mitologia celtica. Ma, precisa Strauss, «a differenza di Alessandro non dichiarò mai di essere un dio, e si limitò ad affermare di essere sotto la protezione divina». Per questo «il fascino che Annibale esercita sui diseredati ha radici solide». Nessuno stratega «è riuscito a realizzare una invasione così rischiosa come la marcia di Annibale attraverso i Pirenei, il Reno e le Alpi fino in Italia; nessun comandante ha ottenuto una vittoria tattica così definitiva come quella di Annibale a Canne... Nessuno ha saputo riorganizzare con tanta fermezza i popoli invasi come lui quando entrò in Italia al grido "l'Italia agli Italici"». Dopo «aver sfidato un impero arrogante e averlo scosso fino alle radici, perse tutto; ma conservò la propria dignità; nella sconfitta reinventò se stesso come amministratore, ricominciò la lotta contro Roma in Oriente, e rifiutò l'umiliazione di una marcia trionfale del nemico… Morì da sconfitto, ma non piegato».
Tito Livio definì il conflitto che oppose Annibale a Roma (218-201 a.C.) «la più memorabile di tutte le guerre che vennero mai combattute». «A mio parere», ha scritto Werner Huss in Cartagine (Il Mulino), «i romani non potevano accampare nessuna valida ragione di diritto internazionale quando nel 218 a.C. entrarono nella guerra che doveva decidere dell'egemonia nell'area del Mediterraneo occidentale». Questo semplice fatto «fu però messo in ombra dalle affermazioni dei politici e storici romani, che da un lato ritennero politicamente inopportuno dire la nuda verità, dall'altro erano intimamente convinti che ogni guerra combattuta da Roma fosse una "guerra legittima"». Se i romani, prima dello scoppio della guerra, si videro costretti ad agire in base a un pretesto giuridico — il presunto obbligo di alleanza nei confronti della città iberica di Sagunto, cuneo romano nella Spagna cartaginese, espugnata da Annibale nel 219 a.C. — questo, secondo Huss, «non solo dimostra che erano consapevoli della illegittimità della loro azione, ma lascia anche pensare che si rendessero pienamente conto della grande importanza della loro decisione».
Se poi dobbiamo accettare la massima napoleonica secondo cui «in guerra non sono gli uomini ma l'uomo che conta», ha scritto Basil H. Liddell Hart in Scipione Africano (Bur), «il fatto più significativo è che Alessandro e Cesare ebbero il terreno spianato dalla debolezza e dall'ignoranza dei comandanti che li contrastarono». Annibale, no. Solo Annibale («al pari di Scipione») combatté regolarmente contro generali esperti. Però, prosegue Liddell Hart, «le sue tre vittorie decisive — Trebbia, Trasimeno e Canne — vennero riportate su generali non solo ostinati e precipitosi, ma anche scioccamente refrattari a qualsiasi tattica che contasse sull'astuzia piuttosto che sul puro e semplice impiego della forza bruta». Annibale ne era consapevole, tant'è che alla vigilia della battaglia della Trebbia, esaltando l'attitudine a individuare le opportunità e la prontezza nel coglierle, avvertì i suoi: «Avete a che fare con un nemico ignaro di queste arti della guerra». Barry Strauss lo descrive invece come un generale senza scrupoli che «con una élite esperta e un piccolo esercito riesce a mettere fuori combattimento un gigante d'argilla»: tipo Hernán Cortés, che nel 1519 con appena seicento uomini affrontò gli aztechi e nel 1521 avrebbe conquistato l'intero Messico.
Già Pirro, re dell'Epiro, nel 280 a.C. aveva invaso l'Italia meridionale e aveva quasi piegato Roma. Generale dotato dello stesso carisma di Annibale, scrive Strauss, «anche Pirro aveva un esercito piccolo ma esperto, completo di cavalleria e di elefanti... Al contrario di Annibale, aveva anche numerosi alleati italici». Vinse due importanti battaglie campali contro Roma, ma subì perdite talmente gravi che le vittorie si trasformarono in sconfitte: Roma rifiutò di arrendersi, riguadagnò gli alleati che fornirono nuove truppe e ottenne l'appoggio di Cartagine, timorosa che Pirro potesse invadere la Sicilia. Così, cinque anni dopo, nel 275 a.C., il re dell'Epiro fu costretto a tornarsene a casa a mani vuote.
Annibale, passate le Alpi, dove, come si è detto, aveva perso oltre la metà del suo esercito, anziché fermarsi a riprendere fiato, come tutti si aspettavano, inflisse due terribili sconfitte ai romani: sul Ticino, dove umiliò Scipione, padre di quello che sarebbe divenuto l'Africano, e sulla Trebbia, dove circa 28 mila uomini (due terzi dell'esercito di Roma) furono uccisi o presi prigionieri. Qui Tito Sempronio Longo non ebbe il coraggio di dire a Roma la verità circa l'accaduto e raccontò che una tempesta «aveva ostacolato la vittoria». Nel 217 a.C., l'anno successivo a quello del passaggio delle Alpi, Annibale attraversò gli Appennini e si impantanò nelle paludi dell'Arno, un luogo acquitrinoso, che causò notevoli perdite alle armate cartaginesi. Ma anche stavolta non si perse d'animo e inflisse ai romani un nuovo scacco sulle rive del Trasimeno. Tra uccisi, feriti o catturati, altri 30 mila romani furono fatti fuori, mentre l'esercito di Annibale subì la perdita di 1.500 uomini, prevalentemente celti. Qui si pone per la prima volta la questione di Maarbale, il valoroso generale cartaginese che, secondo gli approfonditi studi di Dexter Hoyos, già allora avrebbe fatto pressione per attaccare immediatamente Roma, che dista appena 137 chilometri dal luogo della battaglia e che in quel momento era difesa da non più di 10 mila militi. Ma Annibale sceglie di aggirare la città nemica per dirigersi verso sud, in cerca di nuovi alleati e di una ricompensa per le sue truppe. E gli storici sono pressoché unanimi nel giudicarla una buona scelta.
Roma a questo punto corre ai ripari affidandosi a un dittatore: Quinto Fabio Massimo, grande esperto nell'arte di temporeggiare, non attaccare frontalmente l'avversario (limitandosi a infastidirlo con azioni di guerriglia). Il suo piano, secondo Plutarco, era di «mandare piuttosto soccorso agli alleati, perché, conservando essi le loro città, logorassero le forze di Annibale come fiamma che brucia alimentata da scarsa e leggera materia». Si discute ancora, ha scritto Fabio Mini in Eroi della guerra. Storie di uomini d'arme e di valore (Il Mulino), se il Temporeggiatore avesse trovato «una tattica asimmetrica» o fosse soltanto «un inetto che si accontentava di sopravvivere». Di certo «era più attento al clima politico del Senato che alla ricerca dello scontro con Annibale, il quale poté continuare a muoversi con relativa facilità». Annibale, ha proseguito Fabio Mini, «comprese che la strategia indiretta del sollevamento locale contro Roma non dava i frutti sperati e i romani mantennero il controllo del territorio». Ma «anch'essi erano vicini al collasso psicologico». Tra l'altro, scrive Strauss, la cultura romana amava l'offensiva e disprezzava la strategia difensiva, i soldati scalpitavano per la passività del loro comandante e il popolo di Roma gli diede lo spregiativo nomignolo di «servo di Annibale». A compensare, parzialmente, questa inattività romana, arriva la notizia della splendida vittoria navale alla foce dell'Ebro e di altre prodezze terrestri di un altro Scipione a danno di Asdrubale, fratello di Annibale, da lui lasciato a presidio della Spagna.
A fine 217 a.C. il Temporeggiatore lascia l'incarico, viene sostituito da due consoli e il 2 agosto dell'anno successivo Roma perderà in un giorno tante persone quante il Giappone oltre duemila anni dopo a Hiroshima. Stiamo parlando della battaglia di Canne, dove i romani, pur disponendo del doppio di uomini dei loro nemici, furono travolti da Annibale, che ne uccise 48 mila e ne fece prigionieri altri 20 mila (il 75 per cento del loro esercito). I nuovi consoli, Gaio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo, avevano deciso di farla finita con le tattiche di Quinto Fabio Massimo e di cercare, perciò, lo scontro. Comandavano, però, a giorni alterni: Paolo, il più prudente, decise il 1° agosto di non rischiare; Varrone, il giorno successivo, attaccò e per Roma fu la fine. O quasi. Annibale accerchiò e travolse i romani con un modulo di battaglia che sarebbe stato studiato nei secoli: nel 1905 la strategia cartaginese ispirò il piano del generale tedesco Alfred Graf von Schlieffen, ma nel 1914 l'esercito della Germania imperiale non riuscì ad applicarlo e a ripetere l'impresa a danno dei francesi. Per Roma l'agosto del 216 a.C. a Canne fu un ricordo terribile: «L'elenco dei morti era un "chi è" della élite romana: vi appartenevano 80 senatori o persone eleggibili come membri del Senato, 29 tribuni militari, numerosi ex consoli e il console Paolo, uno dei comandanti dell'esercito romano», nota Strauss. Sopravvisse Publio Cornelio Scipione, che trovò rifugio a Canosa. E qui torna in scena per la seconda volta Maarbale, che suggerisce ad Annibale di puntare dritto su Roma. Nel giro di cinque giorni, gli diceva, avrebbe potuto cenare sul Campidoglio. Si offrì di andare avanti lui e di affrontare la parte più impegnativa della battaglia. Ma Annibale gli rispose di no. Al che Maarbale, secondo Tito Livio, gli avrebbe detto: «Evidentemente gli dei non hanno concesso tutti i doni a uno stesso uomo: tu, Annibale, sai vincere, ma non sai approfittare della vittoria». Il grande condottiero cartaginese, però, non si lasciò persuadere. Pretendeva, prima di impegnarsi nello scontro decisivo, di avere una migliore disposizione sul campo delle alleanze. A questo punto Strauss si domanda se Maarbale avesse ragione e, a differenza di quasi tutti gli storici che si sono occupati delle guerre puniche, conclude che difficilmente, con la strategia d'attacco suggeritagli dal proprio braccio destro, il comandante cartaginese avrebbe costretto Roma alla resa. Forse avrebbe dovuto attaccare Canosa, per dare un ulteriore colpo all'esercito nemico in rotta e togliere di mezzo l'uomo che lo avrebbe sconfitto, il giovane Scipione (questo però Annibale non lo poteva immaginare).
Dopo Canne, in ogni caso, la maggior parte dell'Italia meridionale (ma non di quella centrale) passò con Annibale e così anche Filippo V di Macedonia. Il condottiero africano promise che non avrebbe arruolato i loro uomini: gli era sufficiente che non fossero più a disposizione di Roma. Ma, in un acuto saggio dedicato a questa vicenda, Siegmund Ginzberg ha fatto notare come fosse di fatto impossibile mandare in frantumi l'intelaiatura di rapporti creata dai romani. E ha condiviso la tesi centrale del celebre libro di Robert O'Connell, The Ghost of Cannae (Random House): «Annibale analizzava la struttura delle alleanze di Roma come se studiasse una radiografia ai raggi X, vedeva le strutture ossee; invece avrebbe avuto bisogno di una risonanza magnetica, che gli mostrasse il tessuto connettivo fatto dalle relazioni personali che Roma era riuscita a stabilire tra i membri del proprio gruppo dirigente e quelli dei gruppi dirigenti degli alleati, nonché i rapporti di clientela... Era proprio quello l'elemento che teneva insieme l'alleanza romana; Annibale non riuscì mai a cogliere fino in fondo quanto fosse forte, quindi non riuscì a spezzarla del tutto, anche dopo aver vinto una battaglia dietro l'altra».
Ma torniamo al dopo Canne. La città più importante che passa dalla sua parte è Capua e lì stabilisce il suo quartier generale. Annibale, ricostruisce poi Fabio Mini, «girovaga per l'Italia meridionale. Sosta, ozia, attacca, si lascia invischiare nelle meschinità locali. Dalla Campania organizza una spedizione, attraversa il Sannio e punta su Roma. Arriva a tre chilometri dalla città e si ferma. Non ha le forze per distruggerla, né per piegarla; combattendo sotto le sue mura costituirebbe un obiettivo per tutte le legioni romane e gli alleati, sa di non avere il controllo delle linee di rifornimento e non è sicuro del supporto di Cartagine in mano ai politicanti». Preferisce tornare in Apulia, sconfigge i romani a Oderno e a Locri, ma quelli riescono a riprendere il controllo del Sannio e della Campania.
In merito a tali circostanze, Barry Strauss rende esplicito omaggio al fondamentale volume di Michael Fronda, Between Rome and Carthage. Southern Italy during the Second Punic War (Cambridge University Press), nel quale è ben argomentata la tesi secondo cui, avendo Roma un numero pressoché illimitato di soldati (Polibio ne calcolava circa 800 mila, comprendendo quelli «prestati» dalle città italiche), l'unica iniziativa di Annibale che avesse senso strategico era quella di sottrarle il maggior numero possibile di alleati e con questi alleati la metà degli uomini in armi su cui avrebbe potuto contare. Cioè quello che provò a fare. Inviando suo fratello Magone a Cartagine, nel 215 a.C., con un cesto di anelli d'oro sottratti ai nobili romani uccisi o fatti prigionieri a Canne, per chiedere un aiuto che il Senato della città concesse malvolentieri. Roma a questo punto riuscì con un assedio di due anni, dal 213 al 211 a.C., a riconquistare Siracusa, che era passata con Cartagine (nella battaglia fu ucciso il grande matematico Archimede, il quale si era messo a disposizione della difesa della città) e la Sardegna. Poi attaccò Nuova Cartagine in Spagna. E sfondò nella penisola iberica. Annibale, scrive Strauss, non aveva tenuto conto di una fondamentale legge di guerra: se invadete un Paese, non permettete che, per rivalsa, questo invada il vostro.
Qui entra in scena Publio Cornelio Scipione, che sarà detto l'Africano. È nato nel 235, ha 12 anni meno di Annibale, contro il quale ha combattuto, diciassettenne, a fianco del proprio padre nella battaglia del Ticino: padre che sarà ferito e che lui stesso trarrà in salvo con un'azione davvero eroica. Mentre Annibale è in Italia, travolge i romani e conosce successo dopo successo, Scipione si fa nominare proconsole per la Spagna e riesce a riconquistare la penisola iberica. Forte di questa impresa, si propone di attaccare Cartagine, costringendo in questo modo Annibale a tornare in Africa per difendere la sua città. Ma il Senato lo osteggia, Quinto Fabio ironizza sulla sua giovane età e, scrive Fabio Mini, «allude al fatto che si tratti di una sua manovra per avere gloria lontano da dove è il pericolo, cioè Roma». Quinto Fabio, secondo Mini, attribuisce a Scipione «un vizio comune a quel tempo come oggi, un vizio di cui lui stesso era esempio vivente»: le armate «sono reclutate per la protezione della città, non per i consoli che, come sovrani, le portino per il mondo ove loro aggrada per motivi di vanità personale». La risposta di Scipione è caustica: «Affronto il nemico che voi mi assegnate, ma voglio essere io a trascinarlo dietro a me piuttosto che sia lui a trattenermi... Chi porta il pericolo su di un altro ha più spirito di chi deve respingerlo, il terrore si moltiplica con la sorpresa e l'inaspettato… purché non sorgano impedimenti, qui presto sentirete che in Africa è scoppiata una guerra e che Annibale sta lasciando l'Italia». Il Senato, «in un costume sopravvissuto fino ad oggi in molte parti del mondo» (Mini), se la cava con un marchingegno, nominando Scipione console in Sicilia, così che sia lui nella sua autonomia a prendersi la responsabilità di attaccare Cartagine. E Scipione se la prende.
Scacciati i cartaginesi dalla Spagna, sconfitto Asdrubale nella battaglia di Becula (208 a.C.), si fa eleggere console (205 a.C.), mette insieme un suo esercito personale il cui nerbo è composto da sopravvissuti di Canne e sbarca in Africa (204 a.C.). Qui si allea con Massinissa e riesce a spezzare l'alleanza di Cartagine con la Numidia. I cartaginesi provano a trattare la pace con Roma, poi inviano (inutilmente) Magone in Italia a soccorrere Annibale, infine nel 203 a.C. richiamano lo stesso Annibale in patria. Il comandate non rientra in città, si accampa anzi a 120 chilometri, nei pressi del porto di Adrumeto. E mentre si prepara allo scontro decisivo, capisce di essere spacciato. Strauss ipotizza che se, come lo esortava a fare il Senato di Cartagine, avesse attaccato prima, quando ancora Massinissa non si era ricongiunto a Scipione, forse... Ma poi lui stesso ammette che Scipione non avrebbe accettato il confronto militare fino a quando non si fosse congiunto alla cavalleria dei numidi. Perciò a quel punto non c'era via d'uscita.
Prima della battaglia di Zama (202 a.C.), Annibale a sorpresa chiede di incontrare Scipione. «I resoconti di questo colloquio», scrive Liddell Hart, «devono essere considerati importanti solo nelle loro linee generali e pertanto — anche a causa delle lievi divergenze tra le varie fonti — sarebbe più conveniente parafrasarli, ad eccezione di alcune delle frasi più pregnanti». Il tema principale su cui si sofferma Annibale è «l'incostanza della fortuna». Annibale sa che perderà e così si rivolge al suo giovane interlocutore: «Quello che io fui al Trasimeno e a Canne, quello sei tu oggi... Adesso sono qui in Africa, ridotto a dover discutere con te, che sei romano, della salvezza mia e di quella dei cartaginesi; proprio in considerazione di questo io ti consiglio di non essere superbo». Dopodiché elenca condizioni di pace a tal punto favorevoli a Cartagine che per Scipione è facile respingerle. Perché allora aveva voluto quell'incontro? Secondo Strauss, Annibale aveva intuito che anche Scipione aveva problemi con il suo governo e quello era un modo di suggerirgli che «c'era tra loro molto in comune, che erano avversari non nemici e potevano essere utili l'uno all'altro, comunque fossero andate le cose... Il perdente poteva ottenere clemenza e il vincitore avrebbe saputo di avere nel campo avverso un uomo che rispettava». Dopodiché Zama fu una Canne capovolta: i cartaginesi persero 20 mila uomini e altrettanti ne furono fatti prigionieri; i morti di Scipione furono 1.500. La sua vittoria fu schiacciante.
Ma Scipione, probabilmente anche a seguito del colloquio di cui si è detto, si oppose a che Annibale fosse portato a Roma in catene. Anzi, consentì che mantenesse ruoli pubblici nella sua città. E qui accade qualcosa a cui Strauss dedica grande attenzione. Tornato al potere nel 196 a.C., Annibale ritenne che il compito più urgente fosse quello di riordinare le finanze dissestate. Ci provò e ci riuscì. Ma, nota Werner Huss, entrò in conflitto con il «ministro delle finanze», che apparteneva al partito aristocratico. Propose anche una riforma molto ardita, che ridimensionava il Consiglio dei Centoquattro, organo supremo della politica cartaginese, e fu a quel punto che i suoi nemici interni, «senza alcun ritegno», lo indicarono ai romani come se fosse tornato ad essere pericoloso.
In realtà stava solo diventando un uomo politico di grande peso. È quello che Barry Strauss definisce il «paradosso di Annibale»: nel momento stesso «in cui si spegnevano i suoi sogni di gloria militare, si svelava la sua capacità politica». «Quando aveva stabilito un rapporto con Scipione, aveva fatto probabilmente l'unica cosa che poteva fare per salvarsi dall'esilio e dalla morte... A quel punto cominciò a reinventarsi come statista e riformatore, facendo per Cartagine quel che Cesare avrebbe fatto per Roma, e anche di più». Ma, scrive Huss, i romani — nonostante Publio Cornelio Scipione Africano si battesse in sua difesa e gli desse fiducia — inviarono a Cartagine una missione per fare chiarezza su questa nuova situazione (anche se lo scopo ufficiale degli emissari era quello di dirimere una vertenza sui confini tra Cartagine e Massinissa). Ovvio, afferma Strauss, «dopo Annibale, Roma non si sarebbe più fidata davvero di Cartagine e avrebbe finito col vendicarsi di Canne in un modo tale da far sembrare quel massacro una lotta a cuscinate».
Annibale capì l'antifona e fuggì a Efeso, alla corte di Antioco. Era l'anno 195 a.C. e da quel momento avrebbe girovagato, ma non avrebbe mai più rimesso piede a Cartagine. Dopo la sua fuga, i romani gli diedero la caccia e nel 183 a.C., quando stava per essere catturato, Annibale si uccise, a Libissa nei pressi di Istanbul, il luogo in cui — come si è detto all'inizio — lo avrebbe celebrato Ataturk. Quanto a Cartagine, divenuta anche per merito di Annibale di nuovo fiorente e prospera, cinquant'anni dopo (146 a.C.) i romani, che non se ne fidavano, l'avrebbero rasa al suolo in maniera definitiva. E trascorsi cento anni, nel 46 a.C. Giulio Cesare l'avrebbe rifondata come colonia romana, popolata da abitanti che provenivano dall'Italia. Ma da quel momento per Cartagine fu tutta un'altra storia.
Secondo Strauss gran parte della responsabilità per il fallimento dell'impresa di Annibale ricade sul governo cartaginese, che nel 215 a.C. aveva rifiutato di inviargli i rinforzi richiesti. Ma anche lui, dopo la sconfitta di Asdrubale in Spagna nel 207 a.C., avrebbe dovuto capire che la sua avventura in Italia non aveva più alcuna possibilità di successo e non doveva restare lontano dall'Africa altri quattro anni. Nessuno come lui seppe tenere in pugno i propri soldati che, a differenza di quelli di Cesare e di Alessandro, mai si ammutinarono. Il suo principale difetto era che «non sapeva, al contrario di Cesare, immaginare il futuro». Poi, per paradossale che possa apparire, tutta la sua vita e in particolare la parte conclusiva dimostra che, a differenza di Alessandro, «fu un ottimo amministratore, ma non un buon conquistatore». I conquistatori, afferma Strauss, «continuano ad andare avanti finché loro e i loro uomini cadono esausti o morti; gli uomini di Stato sanno quando è il momento di fermarsi». Ma è difficile possedere entrambe le doti. Ha scritto Winston Churchill: «Quelli che sanno vincere una guerra, raramente sanno stabilire una buona pace, e quelli che hanno saputo fare una buona pace, non avrebbero mai vinto la guerra». Annibale avrebbe potuto essere l'unica eccezione nella storia.
paolo.mieli@rcs.it

Corriere 30.9.13
Luce d'Eramo, alla caduta del Duce in divisa fascista
di Arturo Colombo


Una delle nostre scrittrici più brillanti, ma purtroppo non altrettanto nota, è Luce d'Eramo (nata a Reims, in Francia, nel 1925, e scomparsa dodici anni fa).
Lo conferma questo suo saggio intitolato Il 25 luglio (edizioni Elliot, pp. 59, € 7,50), che racconta in prima persona come abbia «vissuto» quella giornata del lontano 1943, segnata dall'improvvisa messa in minoranza di Mussolini da parte del Gran Consiglio del fascismo. In villeggiatura dalla nonna ad Alatri, poco prima di mezzanotte la diciottenne Luce viene a sapere dall'amica Graziella che cos'era successo tanto all'improvviso, compresa la folla che «a Roma era come ubriaca di gioia».
Così, spirito controcorrente, non solo decide di tornare subito col treno nella capitale, ma di andarci indossando addirittura la divisa fascista. «Quelli furono i primi momenti realmente passionali della mia vita» scrive; e annota tutto quanto accade in quell'affollato vagone, dove c'erano viaggiatori che «gridavano e si scalmanavano perché ancora non ci credevano veramente», mentre altri «con una voce stizzita elencavano i delitti e gli orrori del fascismo con un'acredine che mi lasciava di stucco».
Ma che cos'era vero in quelle ore così convulse, dove ciascuno, pur di farsi sentire, era pronto a liberissime confidenze, non prive di opposti giudizi? «Quello che dicevano prima o quello che dicono ora ?», si chiede la d'Eramo, personalmente alla ricerca di qualche inequivocabile verità. Purtroppo per noi, odierni lettori, il racconto-testimonianza si ferma qui, perché la d'Eramo confessa di non aver «più trovato il seguito». Tuttavia, già apparse nel 1999, queste pagine non solo danno la misura della straordinaria franchezza con cui l'autrice ha il coraggio di parlare di sé, ma servono a spiegare anche il suo successivo tormentato iter biografico, che — alla continua ricerca della verità — poco più tardi la porterà a scappare di casa, a salire su un convoglio di deportati diretti al Lager di Dachau, poi a vagare per la Germania sconvolta dai bombardamenti, fin quando il crollo di un muro la lascerà per sempre paralizzata alle gambe.
È quanto lei stessa vorrà raccontare parecchi anni dopo nelle pagine di Deviazione (1979), un testo autobiografico carico del vigore narrativo e della stessa genuina sincerità che troviamo in questo già nella descrizione di questo 25 luglio.

La Stampa 30.9.13
Il telescopio che parla con l’universo
Costruito in Sardegna è il più moderno in Europa: lancerà messaggi mirati verso altri pianeti
di Giovanni Bignami


Il Sardinia Radio Telescope è alto circa 70 metri ed è stato costruito con tremila tonnellate di acciaio Alto come un palazzo di 20 piani ma con un diametro di 64 metri. Ecco Srt, il Sardinia Radio Telescope, il più moderno e il più performante radiotelescopio europeo, che s’inaugura oggi a San Basilio, a nord di Cagliari. È fatto con 3.000 tonnellate di acciaio, diecimila saldature, tolleranze di frazioni di millimetro: una specie di incrociatore che deve puntare con la precisione di un microscopio e ruotare meglio di un orologio svizzero. Una sfida incredibile, durata molti anni e alla fine vinta da Inaf, Asi e Regione Sardegna, insieme con un pool di industrie italiane ed europee.
Srt guarderà il cielo profondo, cercando oggetti lontanissimi, mai visti prima, per capire come è nato l’Universo o almeno se, quando era ancora molto giovane, avesse già fatto stelle e galassie. L’Universo giovane e perciò lontano è ancora un mistero per l’astronomia, eppure dobbiamo decifrarlo: nell’Universo appena nato c’era già scritta tutta la nostra storia. Nel nostro vicinato galattico, invece, si aggirano i misteriosi pulsar e magnetar. Sono resti di stelle morte, densissimi, in rapida rotazione e con enormi campi magnetici, i più alti dell’Universo. Sono la miglior palestra per mettere alla prova la fisica che conosciamo, a partire dal vangelo secondo Einstein, e per fortuna Srt potrà studiare anche questi oggetti come mai nessuno ha fatto.
Per di più, Srt è inserito in una rete mondiale di radiotelescopi, capaci di portare il cielo sulla Terra, e di legare i due insieme. Sincronizzate fra di loro, queste grandi antenne al suolo possono puntare insieme su uno stesso oggetto, lontanissimo ed immobile. Anche se sembra incredibile, in questo modo il sistema diventa capace di vedere come si spostano le antenne, ed il terreno dove sono incementate, le une rispetto alle altre. Si può così misurare accuratamente la deriva dei continenti sulla Terra: per esempio, si vede che l’Africa sbatte contro l’Europa alla velocità alla quale crescono le unghie di un neonato.
Ma una grande antenna, oggi la migliore in Europa, fa gola anche alle Agenzie spaziali, come Esa e Nasa, che hanno oggi e lanceranno domani sonde planetarie lontanissime. Dai satelliti in orbita intorno a Marte, a quelli che stanno per arrivare alle lune di Giove, a quelli che andranno al di là dei confini del sistema solare, arrivano segnali sempre deboli ma fondamentali per capire il nostro sistema solare. Srt è previsto anche per questo scopo di servizio, e anche per questo Asi partecipa al progetto.
Inaf ha già offerto Srt al grande pubblico, con un progetto molto speciale: si tratta di scrivere ad ET, o almeno mandargli un saluto. Sappiamo che molte delle stelle vicino a noi hanno pianeti, alcuni dei quali sono abitabili (se non abitati). Con Srt possiamo lanciare dei segnali, mirati accuratamente alle singole stelle, e sperare che gli ET locali sappiano ascoltarli. Devono essere brevi: inventiamo il twitter spaziale. Abbiamo già molti candidati. Eccone uno, per epsilon Eridani, di autore che teniamo segreto: «La Terra è un pianeta bellissimo, ma abitato dall’Uomo, il quale, sebbene dotato di Divina intelligenza, è spesso cieco, avido e stupido e sta sconsideratamente depredando il mondo sino alla distruzione. PER FAVORE, AIUTO !!! ». L’originale è anche in inglese, perché l’autore non sa che lingua parlino su epsilon Eridani. 60 3000 milioni tonnellate È il costo dell’impianto, È il peso del radiotelescopio finanziato principalmente alto circa 70 metri e che dal Miur, dall’Agenzia lavora con un intervallo Spaziale Italiana e dalla di frequenza Regione Sardegna da 0,3 z a 100 GHz.

La Stampa 30.9.13
Braque, l’emozione ha le sue regole
A Parigi una grande mostra ripercorre la carriera di uno dei protagonisti del ’900: la sua sperimentazione cubista ha cambiato il modo di vedere e fare pittura
di Francesco Poli


Parigi. Nel mio ricordo è Braque che ha realizzato il primo dipinto cubista. Aveva portato dal Sud un paesaggio mediterraneo che rappresentava un villaggio sul bordo del mare, visto dall’alto». Così scrive Matisse nella Testimonianza contro Gertrud Stein, redatta nel 1935 da un gruppo di artisti e critici per smentire gli ingiusti giudizi contro il pittore normanno che si leggono nell’ Autobiografia di Alice Toklas. Matisse (che peraltro è il primo a parlare di pittura fatta di «piccoli cubi») fa riferimento a uno dei paesaggi de L’Estaque esposti nel novembre 1908 nella galleria di Kahnweiler, in cui le distorsioni spaziali cézanniane vengono portate all’estremo fino alla soglia della rottura della logica prospettica tradizionale.
Anche se la precedente esperienza fauve è significativa, è a partire da questa mostra che inizia la fase cruciale della sperimentazione artistica di Georges Braque, quella dell’invenzione e dello sviluppo analitico e sintetico della scomposizione cubista, in stretta collaborazione con Picasso, dal 1909 al 1914. E in questa invenzione il contributo di Braque è stato per certi aspetti più determinante, in particolare per quello che riguarda l’inserimento di caratteri tipografici, e l’invenzione nel settembre 1912 dei papiers collés. Dopo aver creato insieme i presupposti per una radicale rivoluzione del linguaggio plastico pittorico, le strade dei due artisti si dividono. Mentre Picasso continuerà in maniera travolgente a dominare la scena con un’evoluzione continua sempre provocatoria della sua ricerca, Braque dal dopoguerra in poi, porterà avanti il suo lavoro con mirabile coerenza, con evoluzioni e variazioni mai eclatanti, riassorbendo la straordinaria tensione innovativa dell’eroica stagione cubista all’interno di una più tranquillizzante e meditata dimensione pittorica.
Gli aspetti fondamentali del suo linguaggio (la frammentazione dei piani spaziali, la composizione intesa come una partitura visiva, la separazione fra colore e forme, l’elaborata fisicizzazione delle materie pittoriche) rimangono costanti. Nel 1915 Braque viene gravemente ferito in guerra e ricomincia a dipingere solo nel 1917. Questo trauma sembra cambiare definitivamente il suo carattere, tanto che molti (tra cui per esempio Breton) pensano che la sua energia inventiva si sia inesorabilmente affievolita. Ma è un giudizio sbagliato, basato anche su un improponibile confronto con l’effervescenza vitalistica di Picasso. Per capire veramente l’arte di Braque bisogna guardare tutto l’insieme della sua produzione, bisogna capire quello che è il peculiare registro della sua sensibilità, del suo raffinatissimo senso della misura («la regola che corregge l’emozione»), della sua sottile ironia metalinguistica, e della sua profonda integrità allo stesso tempo etica ed estetica. E ci si può rendere conto di questo, nel migliore dei modi, visitando la magnifica esposizione che si aperta al Grand Palais, la più importante e completa retrospettiva sull’artista dopo quella del 1973 all’Orangerie.
La mostra, che ha una classica impostazione cronologica, è divisa in una serie di sezioni che documentano con opere della più alta qualità, le principali fasi della sua lunga avventura creativa: la coloratissima esperienza fauve; tutti i passaggi essenziali delle sperimentazioni cubiste (dal protocubismo cézanniano alla frammentazione analitica, dai papiers collés alle solide composizioni sintetiche) ; le nature morte e le figure degli Anni 20 (tra cui le classicheggianti Canéphores) ; le nature morte e gli interni con figure degli Anni 30; l’affascinante serie di figurazioni lineari ispirate alla Teogonia di Esiodo (1930-32) ; i sorprendenti e sghembi Billards del 1944-49; le complesse e stratificate composizioni dei grandi Ateliers (1949-56) che sono un mirabile sintesi della sua sapienza pittorica; e infine, degli ultimi anni, i semiastratti Oiseaux, con forti valenze poetiche metafisiche, e i melanconici paesaggi quasi figurativi, di una accentuata orizzontalità senza futuro.
L’impostazione cronologica impone un senso filologico e documentario alla visita, certamente utile ma troppo istituzionale (Braque è un monumento storico per i francesi), ma impedisce, per certi versi, una visione meno eterodiretta. E quindi è consigliabile alla fine del percorso ritornare indietro e guardare in modo più libero le singole opere secondo criteri più anarchici, e forse così si può arrivare a scoprire il vero segreto della visione estetica di un grande artista come Braque. E in questo senso è bene ricordare quello che ha detto Giacometti per rendere omaggio a Braque, in occasione della sua morte: «Di tutta la sua opera, io guardo con più interesse, curiosità e emozione i piccoli paesaggi, le nature morte degli ultimi anni. Io guardo questa pittura quasi timida, imponderabile, questa pittura nuda, di una ben diversa audacia, di una ben più grande audacia di quella degli anni lontani; pittura che secondo me si situa al vertice dell’arte d’oggi con tutti i suoi conflitti». Forse, questa interpretazione esistenzialista di un artista che ha sempre (apparentemente) evitato ogni valenza personale esplicita nel proprio lavoro, è la più vera.

Organizzata in modo cronologico, permette di valutare l’evoluzione della sua ricerca
GEORGES BRAQUE PARIGI, GRAND PALAIS AVENUE WINSTON-CHURCHILL FINO AL 6 GENNAIO