l’Unità 30.9.13
Mercoledì il voto di fiducia
Serve il coraggio dei moderati
di Emanuele Macaluso
L’AVVENTUROSA
INIZIATIVA BERLUSCONIANA CHE HA MESSO IN CRISI IL GOVERNO E COLPITO
INTERESSI VITALI DEL PAESE, ha un risvolto su cui riflettere: lo
sconcerto tra le forze produttive, lo sbandamento dell’area politica del
cen- tro-destra e anche lo smascheramento di quei gruppi di «sinistra»
(Grillo e il Fatto) che avevano bollato l’opera del presidente della
Repubblica come copertura e sostegno alle magagne del Cavaliere.
C’è
da aggiungere che anche nel centro-sinistra, dopo tanti giuochi tra le
correnti-non correnti, è scoccata l’ora della verità. Anzitutto
un’osservazione che dà un senso preciso alle cose cui ho accennato:
tutti i giornali, anche il Fatto, hanno qualificato l’iniziativa
berlusconiana come una pugnalata al Paese. Il che significa che il
governo Letta, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, nella
realtà italiana esprime una verità: uno stato di necessità dovuto alla
drammatica situazione economica e sociale, alla nostra precaria
collocazione in Europa e alla impossibilità di tornare a votare con una
legge elettorale infame e sotto giudizio della Corte Costituzionale.
Questa verità non può essere cancellata dall’ira del Cavaliere e dei
suoi scudieri che non vogliono prendere atto di una sentenza
irrevocabile, di una sconfitta che non è solo giudiziaria, ma politica
perché ha messo in forte evidenza che un certo modo di fare politica ha
toccato il fondo.
Nei prossimi giorni vedremo come si svilupperà
il dibattito parlamentare e quali processi politici si apriranno anche
nei gruppi parlamentari che hanno sostenuto o avversato il governo
Letta. Un’attenzione particolare deve essere data all’«area moderata»,
dove forze sociali (non solo la Confindustria), gruppi cattolici e laici
che avevano apprezzato l'impegno del Pdl in un governo di emergenza con
il Pd e Scelta Civica, non sono disposti a subire passivamente
l’avventurismo berlusconiano. E anche nel gruppo parlamentare del Pdl le
critiche di Cicchitto e la decisione degli onorevoli Quagliariello e
Lorenzin di dimettersi da ministri ma non di aderire a Forza Italia
rivela più che disagio una determinazione politica di non accettare un
regime di partito che ignora le regole più elementari della democrazia e
della collegialità. Un partito in cui c’è un «segretario» che non ha
partecipato né alla demenziale decisione di fare dimettere tutti i
parlamentari (pezzi di carta inutili in mano a Schifani e Brunetta), né a
quella di mettere in crisi il governo.
Il tema di oggi è, a mio
avviso, chiaro. Dal momento in cui formalmente si apre la crisi il Capo
dello Stato, seguendo la Costituzione e la prassi, dovrà verificare se
nel Parlamento c’è una maggioranza in grado di esprimere un governo. Ma
per questa possibilità occorre lavorare con iniziative politiche o
bisogna rassegnarsi ad accettare quel che vorrebbe Berlusconi? La
questione riguarda soprattutto il Pd, dove non mancano gruppi che, per
motivi correntizi, privilegiano le elezioni: una parola chiara e
iniziative limpide sono necessarie per capire dove si vuole andare a
parare. In ogni caso si tenga ben presente il fatto che il presidente
della Repubblica ha più volte detto che è assurdo tornare a votare dopo
pochi mesi e ancora più assurdo farlo con una legge che tutte le forze
politiche - almeno a parole - dicono di non volere e che il 3 dicembre
subirà un giudizio della Corte Costituzionale.
Su questo nodo è
bene che i dirigenti di tutte le forze politiche rileggano
l’applauditissimo discorso di Napolitano pronunciato alle Camere dopo la
sua rielezione, per capire che non ci sono spazi: con questa legge non
si voterà. Il Paese nella situazione di oggi ha bisogno di un governo
che intanto faccia l’essenziale in tutti i campi, soprattutto in quello
economico-sociale e anche per cambiare la legge elettorale. Solo dopo
questa fase si potrà valutare il futuro, non solo del governo ma della
politica italiana.
Corriere 30.9.13
Epifani: «Via il Porcellum, poi le urne»
Congresso a rischio se si vota subito
Il segretario: qualsiasi decisione la prenderemo insieme a Renzi
di Alessandro Trocino
ROMA
— Legge di Stabilità e legge elettorale. Poi, ma solo poi, al voto. E
niente «governicchi e trasformismi». Guglielmo Epifani detta le
condizioni del Partito democratico per uscire dallo stallo provocato
dalle dimissioni dei ministri berlusconiani e dall’accelerazione della
crisi. Il segretario prova a fare la sintesi. La data del ritorno alle
urne inciderà pesantemente anche sulle dinamiche interne e non è un caso
che Matteo Renzi stia alla finestra, in attesa di capire quale
direzione prenderà l’iter congressuale.
Epifani prova a
rassicurare tutti: «Il percorso di unità, avviato con l’ok alle regole,
deve restare in questa fase delicatissima. Vi assicuro che qualsiasi
decisione la prenderemo tutti insieme. Anche con Renzi». L’allusione non
è neutra. Così come non è una ripetizione superflua ribadire la
conferma del «percorso delle primarie». Il congresso è fissato per l’8
dicembre. Ma se si dovesse andare al voto? Pochi lo dicono e molti lo
pensano: salterebbe il congresso, il segretario Epifani verrebbe
congelato e si andrebbe alle primarie di coalizione con Renzi, ma forse
anche con lo stesso Letta. Tra i pochi a dirlo apertamente c’è Giorgio
Merlo: «Chi pensa di confermare il congresso in caso di crisi o è un
ingenuo o prende in giro tutti i democratici». Ma anche Piero Fassino,
che pure sostiene Renzi, spiega: «Ora la priorità è per l’Italia e il
suo futuro, non per il dibattito interno al Partito democratico». Di
parere opposto Roberto Giachetti: «Far saltare il congresso sarebbe
un’operazione tafazziana».
Anche su come affrontare il dopo
Letta, se il premier non riuscirà a ricomporre le fratture, le opinioni
divergono. Dario Franceschini da Cortona ha sostenuto la necessità di un
governo vero, che possa affrontare non solo stabilità e legge
elettorale, ma anche «le emergenze economiche e sociali» e il semestre
europeo. Il Parlamento, ha spiegato, può lavorare «fino alla primavera
del 2015». Di tutt’altro avviso sono i molti che hanno fretta. Gianni
Cuperlo non vuole più avere nulla a che fare con il Pdl: «Stop
all’interlocuzione con chi calpesta regole, istituzioni e principi».
Serve una «messa in sicurezza» della democrazia e poi via al voto. Così
Giuseppe Civati: «Dobbiamo affrontare le emergenze in tempi
ragionevoli». Anche Pier Luigi Bersani sembra voler staccare la spina:
«Come si sa, ho sempre considerato irrealistico un governo con il Pdl.
Poi è diventato necessario, ma è rimasto irrealistico. Ora quel che c’è
da fare lo dovremo vedere con Letta, che ci ha rappresentato al meglio
in un momento difficile».
Il nodo della legge elettorale resta
sul tappeto. Giachetti, che propose una mozione per l’immediata
abolizione del Porcellum e per il ritorno al Mattarellum, beccandosi
dell’«intempestivo» dalla Finocchiaro, ha qualcosa da dire al riguardo:
«Vedo che Franceschini avrebbe trovato il colpevole: sarei io, che non
mi accontentavo della mediazione ma volevo la cancellazione del
Porcellum. Ora facciamola una legge: se non è il Mattarellum, va bene
anche la bozza Violante. Purché non si abolisca il premio di
maggioranza, sennò ci aspettano larghe intese per i prossimi 15 anni».
il Fatto 30.9.13
Pippo Civati (PD)
“Chi molla B. senza nulla in cambio?”
di Beatrice Borromeo
È
una tripla in schedina: può succedere di tutto”. La domenica di Pippo
Civati, candidato alla segreteria del Pd, è stata un susseguirsi di
“riunioni infinite, grandi telefonate e soprattutto confusione”. Perchè
di tutti gli scenari che si prospettano ora che la crisi di governo è
imminente, nessuno – giura il parlamentare democratico – è
tranquillizzante: “È un problema di tempi. Alle frange dissidenti del
Pdl potrebbe non convenire una nuova alleanza con noi”. Perchè no,
Civati? Per noi non avrebbe senso mettere in piedi un governo che duri
troppo a lungo: il Letta bis dovrebbe nascere col solo scopo di cambiare
la legge elettorale. Poi bisogna tornare subito alle urne, a inizio
primavera. E pensa che i ribelli del Pdl, da Cicchitto alla Lorenzin,
non sarebbero d’accordo? Perchè dovrebbero mollare Berlusconi se non
c’è contropartita? Uno non abbandona il suo partito per fare il ministro
qualche mese in più. Il percorso che abbiamo davanti è veramente
complicato e non è scontato che si riesca a trovare una soluzione
condivisa. Persino Alfano, a sorpresa, ha dichiarato che se la destra
finisce in mano agli estremisti lui sarà “diversamente berlusconiano”.
Eh già, ma che vuol dire? E poi non si può andare avanti così, contando
i ritagli: prendiamo 10 parlamentari di qua, 5 ministri di là… Il
problema è proprio che si rischia una soluzione scilipotesca. Bisogna
accettare il fatto che, in queste ore, le larghe intese sono
definitivamente crollate. Il passo successivo? Sfatare il tabù che non
si può votare. Quello che non si può fare è stare al governo per forza.
Pensa che sarà Renzi il vostro candidato premier? Non ne ho idea,
anche se sono molto curioso di scoprirlo. Di certo sarebbe la persona
più sostenuta dal nostro elettorato. Ma insisto sul fatto che sarebbe
assurdo andare subito a votare. Quindi? Bisogna optare per la via di
mezzo. Che però, come notava lei prima, convince più voi del Pd che i
vostri (ex) alleati. Infatti bisogna rivolgersi a tutto il Parlamento,
non solo a pezzi del Pdl, e vedere chi è pronto ad assumersi la
responsabilità di tornare alle urne col porcellum. Mi aspetto che il
presidente Napolitano lavori proprio in questa direzione, per evitare
quella che sarebbe la resa finale della politica. Ci sono stati
contatti col Movimento 5 Stelle? Loro ufficialmente hanno abbassato la
saracinesca, come al solito. Negano che possa esserci un’apertura anche
solo per un periodo limitato di tempo. Pare che, alla fine, vi toccherà
davvero fare la conta dei dissidenti, per dar vita al Letta bis. È
davvero il caos. Ma vogliamo davvero permettere che sia il Cavaliere ad
avere l’ultima parola? Sarebbe troppo per tutti, anche per noi.
La Stampa 30.9.13
Gentiloni: “La legislatura non va avanti con 5 voti di scarto”
Il renziano: “Un accanimento terapeutico non produrrebbe benefici”
di Car. Ber.
ROMA Gentiloni, si rischia di votare entro Natale?
«Naturalmente
la regia di quanto succederà nei prossimi mesi è nelle mani del Capo
dello Stato. Il che è una garanzia di equilibrio e di saggezza. Tutti
sappiamo che, comunque vada il chiarimento e il voto della prossima
settimana, ci sono alcuni impegni inderogabili: la legge di stabilità e
la cancellazione del porcellum. Difficile rendere compatibile tutto
questo con un voto immediato».
Il Pd è compatto sulla linea del no ai governicchi e ai trasformismi?
«Io
credo di sì, certamente Epifani dice cose condivisibili. Una
respirazione bocca a bocca alla legislatura, per prolungarla
artificialmente, aggiungerebbe danni al disastro fatto da Berlusconi.
Non verrebbe neanche capita all’estero e dai mercati. L’accanimento
terapeutico sulla legislatura non produrrebbe effetti benefici
sull’economia e sull’Italia».
Non vi appassiona dunque la nascita di una fronda del Pdl?
«Ci
interessa molto, anche se è difficile che un partito nato come
padronale non lo sia fino all’epilogo. E comunque, per produrre effetti
politici, il malessere dovrebbe assumere dimensioni tali da non
configurare governi appesi ad un filo».
Ma cosa succederebbe se
Letta andasse alle Camere e la fiducia passasse di misura per pochi
voti, senza alcuna garanzia di tenuta?
«Lo valuteremo: la fiducia è
un voto palese e un’ipotesi del genere comporterebbe che settori molto
consistenti o del Pdl e o dei 5 Stelle facessero delle scelte precise.
Vedremo se ci sarà uno smottamento vero, ma la legislatura non va avanti
con cinque voti di margine».
Temete forse di affrontare poi una campagna elettorale pagando voi soli il prezzo di misure impopolari?
«Non
per la campagna elettorale, ma per il bene del Paese, di fronte ad una
situazione in cui il leader del centrodestra si è aggrappato all’Italia
per farla affondare con sé, bisogna prendere atto che è finita sia la
vicenda di Berlusconi, sia l’intesa con la destra. E il modo in cui in
tutte le democrazie si sancisce l’esaurimento di un ciclo politico è il
voto. Quindi non è una questione di interessi di partito, ma visto che
Berlusconi vuole trascinare il Paese con sé, l’Italia metta la parola
fine a questa vicenda con un voto».
E se le cose precipitassero, il congresso verrebbe congelato o rinviato?
«È
chiaro che se si votasse l’8 dicembre, non faremo gazebo lo stesso
giorno per eleggere il leader Pd. Ma nello scenario di una conclusione
ordinata della legislatura, in cui i due adempimenti dell’abolizione del
porcellum e della legge di stabilità venissero portati avanti nelle
prossime settimane, è immaginabile pensare che si vada a votare ai primi
di marzo. Se l’orizzonte di voto fosse quello di novembre-dicembre, è
ovvio che trasformeremo il nostro congresso, scegliendo con le primarie
subito il nostro candidato premier. Ma nei tempi ad oggi ipotizzabili,
faremo il congresso, anche per rafforzare la leadership Pd con
un’investitura popolare come quella che può venire dal voto nei gazebo».
Insomma, Renzi forse sarà costretto a cambiare i suoi programmi e potrebbe vedersela con Letta alle primarie?
«Non
so cosa abbia in mente di fare Enrico e ovviamente è nel suo diritto
aspirare a sfidare Renzi. Credo non abbia avuto neanche il tempo di
pensare a questa eventualità. Quel che conta è che il Pd si prepari a
offrire al paese un’alternativa che chiuda il ciclo berlusconiano e dia
una vera stabilità, che può venire solo da una vera svolta politica. Di
certo Renzi si prepara ad entrambe le sfide avendo tutte le carte in
regola».
Repubblica 30.9.13
“Noi grillini dobbiamo uscire dal web apriamo il dialogo con i Democratici”
Il “dissidente” Battista: Beppe sbaglia, adesso niente urne
Se andiamo al voto con questo sistema e non vinciamo che si fa, abbandoniamo tutto?
È infantilismo
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA
— Lorenzo Battista è appena tornato da una missione in Turchia:
«All’estero ci guardano come fossimo i protagonisti di un film
fanta-horror, un Paese che riesce a farsi ancora condizionare da Silvio
Berlusconi e da chi continua a mantenerlo in vita». Il senatore a 5
stelle chiama il Cavaliere «latitante d’aula»: «È riuscito a venire solo
tre volte. Il Senato gli serve, ma lui non serve al Senato». Per
questo, perché considera essenziale uscire da questa situazione, non è
d’accordo con Beppe Grillo sul voto subito. E avverte: «Non sono il
solo».
Secondo lei cosa bisognerebbe fare?
«Dico da tempo
che dovremmo proporre un governo alternativo a Letta. Usare i nomi
venuti fuori dalle “quirinarie”, stabilire alcuni punti su cui trovare
un accordo, e vedere se davvero il Pd ha intenzione di dirci di no. Se
lo fa, si prenderà la responsabilità davanti ai suoi elettori».
Un governo con chi?
«Gustavo
Zagrebelsky sarebbe un ottimo ministro delle Riforme. Ma dovrebbe
esserci uno scatto d’orgoglio del Pd, che invece mi sembra non stia
facendo nulla per uscire da questa crisi».
Non è che voi abbiate aperto.
«Vero, ma non ho sentito Epifani dire chiaramente: “Escludo a priori di tornare al voto con il porcellum”.
I
partiti stanno pensando a se stessi, non al bene del Paese, alquale
serve una maggioranza stabile. E invece, con questa legge, ci
ritroveremmo nella stessa situazione di marzo: con nessun vincitore. Al
Senato c’è la proposta di modifica di Roberto D’Alimonte presentata da
due democratici. Potremmo integrarla con qualcosa del nostro Parlamento
pulito. Perché nessuno lo propone?».
Bisognerebbe parlarsi.
«Il
dialogo dovrebbe esserci sempre. Le riforme andrebbero fatte con la più
ampia maggioranza possibile. Vorrei che il Pd si dimostrasse aperto al
cambiamento».
Se lo facesse, il Movimento cambierebbe idea?
«C’è
questa cosa che non facciamo alleanze, un Moloch insormontabile. Ma nel
regolamento c’è scritto che possiamo anche condividere punti proposti
da altri. È quello che bisognerebbe fare. La legge di stabilità va
presentata entro il 15 ottobre. Che facciamo? Aspettiamo la troika?
Vogliamo finire come la Grecia? Potremmo lavorare insieme e far passare
le nostre proposte: il no alla Tav, agli F35, il tetto alle pensioni
d’oro».
Grillo dice cose diverse: votateci, dateci la maggioranza o ce ne andiamo.
«Mi sembra un atteggiamento da bambino capriccioso. Se non vinci che fai? Abbandoni? E l’Italia?».
Di Battista ha chiesto a Luis Orellana di «non sparare cazzate» per aver fatto ragionamenti simili ai suoi.
«Di
Battista deve capire che non può misurarsi solo sui “mi piace” della
sua fan page. Lui cosa propone, oltre che salire sui tetti?».
C’è questa storia che non potete fare strategie perché siete solo “portavoce”.
«Credevo
fossimo un Movimento fatto dal basso, dove bisogna confrontarsi con gli
attivisti e gli iscritti. Ma so già che alla riunione di domani ci sarà
qualcuno che dirà: “La penso esattamente come il post di Grillo”. Mi
chiedo che differenza ci sia tra queste persone e i falchi del Pdl, che
non fanno che obbedire al loro leader».
Qualcuno di voi potrebbe staccarsi davanti alla possibilità di fare una buona legge elettorale con il Pd?
«Non
lo so, parlare con i “se” e con i “ma” è difficile. Il processo
decisionale però dovrebbe consentire una consultazione più ampia, senza
che ci siano preventive indicazioni dal blog che potrebbero condizionare
gli iscritti».
Repubblica 30.9.13
Nichi Vendola per un esecutivo con pochi punti programmatici: “Mettiamo in sicurezza la democrazia”
“È vero, così non si può votare ma evitiamo i nuovi Scilipoti”
di Giovanna Casadio
ROMA
— «Non ci sono le condizioni per rimettere in piedi una coalizione di
legislatura, ma un governo di scopo è necessario». Nichi Vendola, il
leader di Sel, ora all’opposizione, ha incontrato il segretario del Pd,
Epifani, sabato, il giorno della crisi di governo.
Berlusconi vuole andare subito alle urne. E lei, Vendola?
«No,
assolutamente. Siamo davanti a un passaggio complesso e drammatico, e
abbiamo tutti il dovere di confrontarci con la fragilità della
democrazia italiana. Andare alle elezioni con il Porcellum significa
rischiare il salto nel buio, con i due Caimani, per usare una
definizione di Scalfari, i signori del populismo Berlusconi e Grillo
tentati di rovesciare il banco. La legge truffa, ideata con virtuoso
servilismo da Calderoli, oggi è un pozzo nero in cui può
precipitarel’Italia».
Lei è quindi disponibile a sostenere un nuovo governo?
«Sento
il dovere di contribuire a traghettare il paese fuori dalla palude,
anche perché la palude, come tutti sanno, è il luogo naturale del
Caimano».
Un governo per fare cosa?
«La riforma elettorale.
Dobbiamo lanciare una mobilitazione nel paese - e lo chiedo a tutte le
forze democratiche, ai sindacati, alla chiesa, alle parrocchie,
all’associazionismo. Facciano sentire la loro voce contro lo strumento
che consente a giocatori d’azzardo di giocare sulla pelle del paese. E
la mobilitazione parta il 12 ottobre nella grande piazza a Roma
convocata da Rodotà a difesa della Costituzione. E al tempo stesso, un
nuovo governo faccia immediati atti di riparazione nei confronti delle
ferite aperte sul piano sociale. Va chiusa definitivamente la partita
degli esodati e bisogna rifinanziare gli ammortizzatori sociali. Per
questo ci vuole un governo di scopo».
Ma sosterrebbe un Letta-bis con una maggioranza spuria, con i dissidenti del Pdl?
«Non
andrei avanti con la sperimentazione di nuovi ibridi. Ne abbiamo visto
uno ed è apparso in tutta la sua mostruosità. Si tratta di portare fuori
dalle secche, ora, il sistema politico italiano; di mettere in
sicurezza il bene della democrazia del paese; di tornare così a una
competizione limpida tra schieramenti alternativi».
Insomma, no alle “piccole intese” con l’appoggio di Sel?
«Non
capisco cosa significhi. È un modo per ingarbugliare la matassa. Se il
confronto è sulla lista dei ministri, deragliamo. Ripeto, bisogna
prendere provvedimenti che indichino un’inversione di tendenza rispetto
alla politica che ha colpito i ceti medio-bassi. Il vangelo di
Berlusconi è consolare i consolati e affliggere gli afflitti».
Fino a che punto lei si spingerà,
pur di fare esistere un governo?
«L’obiettivo
è liberare il campo dalla necessità delle larghe intese e dal caimano
Berlusconi con un recinto programmatico limitato».
Quanto tempo potrebbe durare questo nuovo governo?
«Pochi mesi, non credo possa avere grande respiro. Deve essere immune da qualunque elemento di scilipotismo».
E Letta cosa deve fare, dimettersi?
«Sarebbe
opportuno trarre le conseguenze di quanto è accaduto. È penoso il
tentativo di ricucire una tela che è stata squarciata dal suo lato più
delicato e prezioso, quello dei principi di convivenza dello Stato di
diritto. Non è tabù ragionare di compromesso con il proprio avversario,
soprattutto in una situazione di emergenza. Ma c’è una pre-condizione,
che è quella di condividere un quadro minimo di valori e di principi.
Quando la crepa è sul terreno dei valori, parlare di stabilità è un
feticcio vuoto».
Insomma meglio un altro esecutivo piuttosto che un Lettabis?
«Non mi interessa fare sempre come a “X Factor”, una selezione che riguarda le star della vita pubblica».
l’Unità 30.9.13
Vietato votare col Porcellum
di Massimo Luciani
Parlare
di crisi al buio non è mai stato più giustificato di oggi. È tanto al
buio che non si sa neppure se formalmente si aprirà, visto che sono
percorribili sia la strada delle dimissioni del presidente del Consiglio
che quella di un semplice rimpasto. Ma questo è niente. Si sa ben poco
di quale potrà essere lo scenario politico nel caso in cui la crisi non
si risolvesse e si andasse alle elezioni.
Fanno francamente
sorridere le cronache che parlano di qualche leader intento a scrutare i
sondaggi, quando dovrebbe essere evidente che nessun sondaggio è
affidabile in un momento come questo, nel quale le variabili
indeterminate sono troppe, dal risultato della discussione interna al Pd
alla tenuta di un partito come il Pdl, umiliato sino al punto di vedere
la sorte dei propri ministri decisa in una riunione cui non partecipava
il segretario.
Nella prospettiva del sistema istituzionale, però,
qualche punto fermo è ragionevole indicarlo. Anzitutto, non si può
dimenticare
che l’articolo 67 della Costituzione è tuttora in
vigore e che, quindi, il mandato parlamentare è libero. Lo è perché
quella stessa disposizione costituzionale vuole che i parlamentari, pur
nella diversa appartenenza politico-partitica, rappresentino la nazione,
i suoi interessi generali.
Questa legislatura mostra bene perché
la libertà del mandato abbia una funzione di garanzia costituzionale:
quando ci sono partiti nei quali la dialettica interna manca, o non è
regolata in forme autenticamente democratiche, nei quali basta la
telefonata o il tweet del leader per definire una linea politica, agli
elettori deve essere garantito che i loro eletti recuperino sul terreno
del dialogo parlamentare il confronto pluralistico che è stato
cancellato sul piano della vita partitica. E questo vale, ovviamente,
anche di fronte alle crisi di governo. Un’altra certezza è che, anche
qualora la legislatura non si salvasse e si andasse ad elezioni
anticipate, non si potrebbe votare con l’attuale legge elettorale. Le
ragioni sono almeno due. La prima è la più nota: una legge gravemente
sospetta di illegittimità costituzionale e che consente l’attribuzione
di un premio di maggioranza abnorme non può continuare a determinare la
costruzione della rappresentanza politica in un Paese di democrazia
consolidata come l’Italia. Lasciamo pure stare il rischio che la Corte
costituzionale la dichiari illegittima. Anche se questo non accadesse le
cose non cambierebbero, perché il problema politico di fondo è che
l’opinione pubblica non reggerebbe una nuova tornata elettorale con
regole così diffusamente detestate. La seconda è che la legge Calderoli
rischia di produrre ancora una volta un risultato politico paradossale.
Sappiamo tutti, infatti, che alla Camera il premio è nazionale, sicché
chi lo conquista ha la maggioranza assoluta (anzi, qualcosa in più).
Sappiamo anche, però, che al Senato è regionale, sicché alla lotteria
del premio regionale può capitare di vincere o di perdere, e magari di
perdere dopo che si è vinto quello nazionale alla Camera. I tormenti
della legislatura in corso dipendono anche da questa irrazionalità di
fondo della legge, che riconosce premi che sono, allo stesso tempo,
eccessivi e inutili. La logica del premio, infatti, è che lo si dà per
governare. Che senso ha dare premi quando non è detto affatto che una
maggioranza di governo riesca, così, a formarsi?
Una soluzione
radicale del problema si potrebbe avere solo con una riforma
costituzionale che trasformasse il Senato in camera delle autonomie e
lasciasse alla Camera dei deputati il rapporto di fiducia con il
governo. Tuttavia, già a Costituzione invariata qualcosa si potrebbe
fare, almeno correggendo l’errore che si commise nel 2005, quando si
disse che al Senato il premio avrebbe dovuto essere regionale perché la
Costituzione prevede che quella camera sia eletta - appunto - «su base
regionale». Come, inascoltato, qualcuno di noi costituzionalisti aveva
osservato già allora, la Costituzione è perfettamente rispettata se il
premio ha una misura nazionale, ma viene semplicemente distribuito su
base regionale.
Una crisi al buio, insomma. Ma le compatibilità
costituzionali e della razionalità politica sono luci segnapasso che
potrebbero evitare di cadere nel baratro (o di non riuscire ad uscirne,
visto che, probabilmente, nel baratro ci stiamo già).
il Fatto 30.9.13
I sondaggi
Piepoli:
solo il 15% contento della crisi Swg: italiani preoccupati per
l’economia La decisione di Silvio Berlusconi di chiedere ai suoi
ministri di rassegnare le dimissioni e la conseguente crisi di governo,
non incontrano il favore della stragrande maggioranza del Paese. Questa
sembra essere la linea di tendenza che emerge dalle rilevazioni dei
sondaggisti interpellati ieri dall’Adnkronos. Solo una piccola parte del
campione interpellato (circa il 15%, spiegano dall’Istituto Piepoli)
accorda il proprio favore alla scelta del centrodestra. Mentre, come
sostiene-Swg, “prevale la preoccupazione per le ripercussioni sulla
ripresa economica”.
Corriere 30.9.13
Un Berlusconi inquieto cerca di bloccare una rottura nel Pdl
di Francesco Merlo
Il
passaggio in Parlamento di Enrico Letta era previsto e in qualche
misura obbligato. Dopo l’ordine di Silvio Berlusconi ai ministri del Pdl
di rassegnare le dimissioni, però, l’appuntamento diventa cruciale
anche per capire se e quanti deputati e senatori del centrodestra
disubbidiranno al leader. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, vuole
che il premier verifichi se esiste ancora una maggioranza dopo lo
strappo di sabato. Almeno a parole, una fronda esiste, ed è una novità.
Quasi tutti i ministri del Pdl mostrano un profondo scetticismo per la
deriva estremista del partito. Si vedono intrappolati in una strategia
nella quale non si riconoscono.
In più, si sentono minacciati
perché sembra cominciata una sorta di caccia preventiva ai dubbiosi,
additati come potenziali traditori. Basta registrare il trattamento
subito da Fabrizio Cicchitto; o le bordate di Berlusconi contro «un
governicchio dei transfughi e dei traditori». Per questo non è chiaro se
il malessere porterà a una scissione, o soltanto a distinguo senza
seguito: una deriva che non muterebbe gli equilibri parlamentari.
La
riunione odierna di deputati e senatori col Cavaliere punta a bloccare
sul nascere una diaspora. Colpisce lo smarcamento del vicepremier,
Angelino Alfano, che si dichiara «diversamente berlusconiano» di fronte
all’estremismo di Forza Italia: frase anodina che basta a provocare le
bacchettate del coordinatore Sandro Bondi. Anche Gaetano Quagliariello,
Maurizio Lupi e Beatrice Lorenzin, però, confermano l’incompatibilità
fra l’ala ministeriale e il “cerchio magico” dei Verdini, Santanché e
Ghedini, che hanno spinto Berlusconi a rompere.
Quagliariello fa
capire di non volere aderire alla nuova FI, se è quella emersa
nell’ultima settimana. D’altronde, la presa del potere da parte della
filiera estremista è il risultato di un lungo assedio per far saltare le
larghe intese: lo stesso dei settori del Pd ostili al premier Enrico
Letta. In comune, c’è l’indifferenza alle conseguenze devastanti
dell’instabilità a livello economico e internazionale. I guastatori non
hanno esitato a sfruttare la disperazione del leader del Pdl,
indicandogli un destino giudiziario senza via di scampo, se non avesse
provocato la crisi.
Il progetto è quello di un partito ancora più
militarizzato. Eppure, uno strappo così irresponsabile rischia di
ottenere il solo effetto di aggravare i problemi di un Berlusconi presto
incandidabile e decaduto da senatore. Se finisse così, il blitz per
andare alle urne subito finirebbe in un pantano senza sbocco: tranne
quello di un collasso dell’Italia. Napolitano ha ribadito che il voto
sarà l’ultima risorsa. E comunque, al Cavaliere non sarà facile
convincere l’elettorato di avere fatto cadere due governi in due anni
per salvare l’Italia, e non per i suoi guai giudiziari.
Corriere 30.9.13
I dissidenti preparano la rete
E parte la conta dei possibili ribelli
Caos nel partito. «Non si decide una crisi politica a cena»
di Fabrizio Roncone
È
stata la più lunga e angosciosa domenica che si ricordi nei ranghi del
Pdl (o di Forza Italia, se volete). La mattina fila via nei silenzi di
quasi tutti i parlamentari. I telefonini cellulari spenti e riaccesi
solo per spedire sms di puro terrore. «Quagliariello ce lo aspettavamo,
la Lorenzin no. Non provi a chiamarmi, tanto non posso risponderle»,
scrive un povero disgraziato a mezzogiorno. Da Napoli arrivano le
immagini di una torta di compleanno dedicata a Berlusconi, intorno alla
quale sorridono inspiegabilmente allegri e spensierati la Carfagna e
Nitto Palma (anche se a Nitto Palma, istintivamente, il sorriso ad un
certo punto si tramuta in un brutto ghigno). Un’ora dopo, un lancio
dell’agenzia Italpress annuncia che un terzo ministro del partito,
Maurizio Lupi, prende le distanze dai «cattivi consiglieri» del
Cavaliere.
Riepilogando: Cicchitto gonfio d’ira già sabato sera.
Poi le polemiche dimissioni con cui Quagliariello spiega di non avere
alcuna intenzione di restare in un partito che assomiglia a Lotta
Continua. Quindi la Lorenzin, giovane e brava, una carriera seguendo
Berlusconi, dal tredicesimo municipio di Roma al Campidoglio, ma pure
lei via, fuori dal partito che l’ha cresciuta politicamente fino a farla
diventare ministro della Salute. Lupi, il cattolico Lupi, in qualche
modo, che chiude il cerchio.
Qualcuno comincia a rispondere al telefonino.
«Premesso
che Letta ha commesso alcune sciocchezze, accelerando così la crisi...»
(questa è la voce del senatore Andrea Augello, 52 anni, da ragazzo già
nel Msi e poi sindacalista, a Fiuggi per fondare An, la politica intesa
come una cosa seria).
Premesso questo?
«Sono d’accordo con
Cicchitto, con Lupi... non è possibile gestire una crisi di governo
così, mettendosi lì, a cena, in tre, quattro...».
Continui.
«C’erano
passaggi obbligati: avrebbero dovuto convocare i capigruppo, chiamare
Alfano... Non si precipita in una scena drammatica solo perché due si
alzano e dicono: facciamo dimettere tutti i ministri. Non è possibile.
In queste ore abbiamo avuto la prova di quanti limiti abbia questo
modello di partito».
Quindi? Che può succedere? Lo smottamento può...
«Smottamento? Aspettiamo che si riuniscano i gruppi. Non diamo per scontato alcun finale».
Aspettiamo,
ma intanto nel partito, fino a poche ore fa muto, incerto, impaurito,
cominciano a rimbombare i primi commenti ufficiali, e sono ruvidi,
taglienti, non scontati. Sentite il senatore Francesco Colucci: «La
storia di Berlusconi è la storia dell’Italia moderata. Alfano e i
ministri ne prendano in mano la bandiera». E sentite anche Maurizio
Sacconi, di vecchia osservanza socialista, abituato alle liturgie dei
partiti classici, e quindi sorpreso, amareggiato: «Moltissimi militanti
non condividono la deriva estremista del Pdl scatenata dai cattivi
consiglieri di Berlusconi».
Gira voce che Alberto Giorgetti si
sia dimesso da sottosegretario chiedendo però minacciosamente un
immediato chiarimento ad Alfano. L’altro sottosegretario, il catanese
Giuseppe Castiglione, tace, avendo già parlato esplicitamente in un
«fuorionda» catturato dalla trasmissione «Piazzapulita».
«È
chiaro che qui le elezioni non le vuole nessuno. C’è un gruppo di
senatori a me più vicini, tra i quali Gibbino, Torrisi e Pagano, pronti a
non seguire Berlusconi se si apre la crisi... nessuno vuole tornare a
casa».
Chi vuole restare in Parlamento, chi parla del proprio
mutuo. Come Antonio Razzi, voltagabbana di straordinario talento, che
torna a riparlarne — non casualmente — proprio in queste ore, e non si
capisce se sia una minaccia: nel settembre del 2010 denunciò la
compravendita dei deputati da parte del Pdl, dichiarando che a lui,
all’epoca nell’Italia dei Valori, era stato proposta l’estinzione di
tutte le rate; tre mesi dopo lasciò Di Pietro per poter votare contro la
sfiducia al Cavaliere; adesso siede a Palazzo Madama nei banchi del Pdl
ma sembra che sul groppone gli siano però rimaste ancora parecchie
rate. «Ognuno — chiude il discorso — ha qualche guaio da risolvere».
Va
bene: forse è meglio avvertire Verdini, ditegli che cominci a contare i
suoi, qualcuno ha cominciato a mettersi in fila per andarsene. Dicono
che stia contando anche Quagliariello. E Lupi avrebbe già una lista di
parlamentari d’area ciellinformigoniana (da settimane, noto, un certo
disagio di Eugenia Roccella).
«Si fidi. Certo che si stanno
contando» (Giorgio Stracquadanio, ex parlamentare Pdl, ex falco
berlusconiano, ma sempre in Transatlantico, osservatore attento, furbo,
spregiudicato).
Lei che ne sa?
«Ragioni. E osservi la
sequenza delle dimissioni dei ministri: prima Quagliariello, poi la
Lorenzin, infine Lupi. È chiaro che si sono messi d’accordo. E da
tempo».
Sia più chiaro.
«Tutti avevano capito che il
Cavaliere si muoveva spinto dal panico di poter finire in galera, e
consigliato male da chi sappiamo: così è stata preparata una rete di
sicurezza per questo governo Letta, che poi verrà chiamato Letta bis.
Cesa, del resto, da giorni ha annunciato che il gruppo dell’Udc chiuderà
per dare vita ai “Popolari per l’Europa”, il contenitore su misura per i
pezzi che arriveranno, appunto, dal Pdl».
Quanti ne arriveranno?
«Stima complicata. Ma direi che una ventina, al Senato, sono già in lista».
Insomma
i discorsi sono questi, e anche, più o meno, i numeri (pure il senatore
Paolo Naccarato di Gal — gruppo di berluscones voluto esplicitamente
dal Cavaliere — ripete senza indugi: «Il disagio attanaglia, da mesi,
decine di parlamentari del Pdl. A questo punto, sono certo che molti,
ormai soli con le loro coscienze innanzi al Paese, preferiranno
scegliere un’altra strada»).
Inevitabile fare uno squillo al leggendario Domenico Scilipoti.
«Ah! È lei... grazie di avermi chiamato, grazie...».
Senatore Scilipoti, lei che fa? Resta con Berlusconi oppure...
«Guardi, lo dico con il cuore: ci deve illuminare a tutti lo Spirito Santo...».
Repubblica 30.9.13
Il muro di Arcore per bloccare i fuggitivi
di Ilvo Diamanti
CIÒ
che oggi avviene intorno a Berlusconi riassume, in modo esemplare, la
storia dell’Italia, negli ultimi vent’anni. Ne segna l’inizio e,
probabilmente, la fine. La biografia politica di Berlusconi, infatti,
coincide con la parabola di Forza Italia. Un partito “aziendale”, la cui
missione si riflette nella figura del Capo. L’imprenditore, mito e
modello dell’Italia, dove “tutti ce la possono fare”. Da soli.
Forza
Italia. Un partito lontano da ogni ideologia. Che promette la
soddisfazione degli interessi – generali e privati – di tutti.
Anzitutto, quelli del Capo. Un partito che usa la comunicazione e il
marketing, al posto dell’organizzazione. E, ai vertici, promuove
tecnici, consulenti, avvocati, manager e specialisti. Fedeli al Capo.
Forza Italia: il partito che ha ispirato la Seconda Repubblica. Imitato
da tutti, senza troppa fortuna. Forza Italia: nel corso degli anni si è
evoluta. Nel 2007 ha aggregato, anzi, inghiottito quel che rimaneva alla
sua destra. Alleanza Nazionale. Ma il modello non è cambiato. Il Pdl è
rimasto il partito “personale” di Silvio Berlusconi. Un luogo dove non
esiste dibattito o confronto. Se non sul grado di fedeltà e il modo di
interpretarla. Estremista o moderato. Dove ci si divide fra “ultra” e
“diversamente” berlusconiani, per citare Alfano. Dove, però, chi non si
adegua, chi “pensa di poter pensare” in proprio, se ne va. Oppure viene
allontanato, cacciato in malo modo. Com’è avvenuto a Gianfranco Fini e
ai residui di An non berlusconizzati.
Ebbene, il Pdl, dopo poco
più di cinque anni, è stato dismesso. Come un prodotto scadente oppure
scaduto, il suo produttore lo ha ritirato dal mercato. Lo ha sostituito
con l’etichetta originaria. Quasi per rammentare a tutti da dove
proviene. Una storia di successo. Un imprenditore di successo. Che può
decidere, a proprio piacimento, secondo i propri interessi, come
condurre e gestire le proprie attività. Il problema, però, è che,
vent’anni dopo, l’imprenditore politico non è più lo stesso. Il partito
non è più lo stesso. Il mercato (politico) non è più lo stesso.
Vent’anni dopo: la parabola è giunta al termine. Silvio Berlusconi è
sull’orlo della decadenza. Non solo parlamentare. I suoi conflitti di
interesse gravano su di lui, sulle aziende e sul partito-azienda. In
modo assolutamente irrimediabile. Per questo non c’è spazio per
discussioni e confronti, che possano ridimensionare la fedeltà al Capo.
Non solo in Parlamento, anche in politica e nella società. C’è il
rischio, altrimenti, di secolarizzare il berlusconismo e, ancor più,
l’anti-berlusconismo. Ridurlo a un ricordo. È per questo, soprattutto,
che Berlusconi ha realizzato l’ultimo strappo. Far sottoscrivere le
dimissioni ai suoi parlamentari e, a maggior ragione, imporre ai
ministri del Pdl – pardon: Fi – di uscire dal governo. Certo, questa
decisione risponde anche a motivi immediati. È una reazione dettata dai
timori per gli effetti sul piano giudiziario – personale – della
decadenza da senatore. Ma riflette, soprattutto, una sindrome da
assedio, accentuata dalla paura di vedersi abbandonato. Almeno, da una
parte dei parlamentari. Che potrebbero leggere la decadenza del Capo
come un destino che va oltre l’ambito giudiziario. E si estende al
contesto politico. D’altronde, prendere le distanze da Berlusconi, per
gli “eletti” del Pdl, è rischioso, visto il destino toccato a chi ci ha
provato. Ma rinunciare a un posto in Parlamento o a un incarico di
governo, dopo pochi mesi, in nome di un leader “decadente”, è
altrettanto rischioso. Per questo Berlusconi ha spezzato le larghe
intese con gli altri partiti della maggioranza di governo. Per questo ha
eretto un muro intorno a Forza Italia. Per difendere il proprio
territorio. Non tanto dall’esterno, ma dall’interno. Per contrastare
l’invasione dei “nemici”, ma, soprattutto, per impedire la fuga degli
“amici”. L’esodo dei fedeli. Per bloccare sul nascere le tentazioni e i
tentativi di quanti pensano a nuove esperienze politiche “moderate”.
Magari a nuovi gruppi politici. In Parlamento, per ora. Domani non si
sa. Infine, per sollevare, ancora, passione e sentimento. Meglio:
risentimento. Perché, in Italia, il muro di Arcore resti quel che, nel
mondo, è stato il muro di Berlino. Una frattura non solo politica, ma
ideologica e cognitiva.
È questa la posta in gioco dello scontro
inatto in questi giorni. Dentro e fuori il Pdl – o Fi. Segna il
passaggio, tortuoso e contrastato dal berlusconismo al
post-berlusconismo, significato dal percorso del partito personale in
Italia. Perché i partiti personali “all’italiana” non dipendono dalla
capacità di selezionare e di promuovere un leader. Dipendono dal leader
stesso. L’origine e il fine unico, da cui dipendono, appunto, l’origine,
ma anche “la” fine: del partito.
D’altronde, Berlusconi dispone
ancora di consenso politico e, ancor più, di potere economico e
mediatico. E li usa, se non per imporre le proprie scelte, almeno per
interdire quelle altrui. Un ultimatum dopo l’altro. E ancor prima, per
controllare il dissenso che si diffonde, in modo aperto, nelle sue fila.
Per questo Berlusconi resiste. Fino all’ultimo. Perché lotta per la
propria sopravvivenza – politica – ma anche per quella di Forza Italia.
Il partito personale fondato sulla politica come marketing. Per questo
vorrebbe andare a elezioni politiche presto. Subito. Perché, dal 1994
fino a pochi mesi fa, nel febbraio 2013, il “partito personale” di
Berlusconi ha sempre dato il meglio di sé in occasione delle elezioni
politiche. Per questo ha trasformato la vita politica in una campagna
elettorale permanente. E oggi, per resistere alle minacce esterne e alle
tensioni interne al partito, ha bisogno di nuove elezioni – al più
presto. Nei primi mesi del 2014, se non entro l’anno.
Così si
compie la parabola del “partito personale” all’italiana. Da Forza Italia
a Forza Italia. Dall’inizio alla fine. Perché le prossime elezioni
potrebbero, davvero, segnare la fine di Berlusconi (e del
berlusconismo). Ma senza elezioni, presto o subito, la sua fine è
segnata.
Non illudiamoci, però, che ciò avvenga senza lacerazioni.
I muri che dividono società, politica e valori non crollano mai senza
lasciare ferite profonde e di lunga durata. Meglio prepararsi. Ci
attendono tempi difficili.
La Stampa 30.9.13
Mancano diciannove voti per una nuova maggioranza
Le manovre in Senato: si allarga il fronte dei dissidenti nel Pdl
di Francesca Schianchi, Giampiero Sposito
Al
Senato è possibile che, tra i «trattativisti» del Movimento 5 Stelle e
qualche dissidente del Pdl, si possa arrivare a una nuova maggioranza
che appoggi un Letta-Bis e scongiuri il voto Il numero necessario, anzi
indispensabile, è 161. La metà più uno dei senatori. La quota fatidica
che il governo Letta dovrebbe assicurarsi a Palazzo Madama per
proseguire la sua esperienza. E se la maggioranza vista finora garantì
all’esecutivo nella sua prima fiducia del 30 aprile scorso 223 voti
favorevoli, se si sfila il Pdl, quali possono essere i numeri?
108
sono gli eletti nelle file del Pd (da cui però occorre togliere il
presidente Grasso, che per prassi non vota), e 20 quelli della montiana
Scelta civica. Considerando probabilmente a favore anche i voti del
gruppo per le autonomie e dei senatori a vita, fanno quindici voti in
più. Totale 142, cioè 19 voti meno della soglia di maggioranza.
«Secondo
me i numeri ci sono, non c’è problema», si sbilancia però un pidiellino
in sofferenza. L’accelerazione impressa alla crisi ha portato allo
scoperto malumori e dissensi dentro al Pdl, come dimostrano le prese di
distanza dei ministri Quagliariello e Lorenzin e persino le parole del
vicepremier Alfano. E che da settimane politici di prima fila come Pier
Ferdinando Casini e il ministro Mario Mauro si impegnino per cercare di
dare vita a un’alternativa moderata ed europea al Pdl, tentando di
assicurare alla causa anche i berlusconiani messi in difficoltà dalla
linea dei falchi, è confermato da molti. «C’è la libertà di coscienza
che può restituire all’Italia un governo possibile ed un Paese
plausibile», è l’invito fatto ieri da Mauro.
Il senatore
berlusconiano Carlo Giovanardi, uno dei pochi che, non condividendo la
strategia, non ha firmato le dimissioni da parlamentare, e oggi ha
sottoscritto le parole di Quagliariello, la mette così: «Mi pare che
oggi sia emersa una sintonia di pensiero politico fra vari esponenti del
Pdl: bisognerà che ci si parli per decidere insieme cosa fare e
assumere una linea comune, nei confronti del partito come del governo».
Ancora, il sottosegretario Giuseppe Castiglione, un altro che non ha
firmato le dimissioni da parlamentare, che è deputato ma conta su un
paio di senatori a lui molto vicini, insiste che «nel Pdl sono prevalse
posizioni estremiste, ora è un errore far cadere il governo e per la sua
prosecuzione vedo un fronte molto ampio». Quanti tormenti si
trasformeranno in voti alla fiducia? «Siamo in tanti a interrogarci
davanti alla nostra coscienza su cosa sia meglio fare», dice Paolo
Naccarato, senatore iscritto al gruppo Gal, Grandi autonomie e libertà.
Cosa farà davanti a una fiducia? «Sentirò con attenzione il presidente
Letta, e con un supplemento di attenzione le dichiarazioni in Aula del
Pdl, perché spero e credo che non faccia mancare il suo sostegno al
governo. Poi deciderò, ma io sono per cultura un uomo legato alle
istituzioni e alla continuazione del governo».
Altrove, in altri
gruppi, potrebbero aprirsi altre possibilità, a condizione però che si
parli di un nuovo governo con una maggioranza alternativa. Sel oggi è
all’opposizione, ma ieri la senatrice Alessia Petraglia ha fatto sapere
che, se il Pd «rompe col passato», i sette eletti del partito di Vendola
sono disponibili a sostenere un nuovo esecutivo «poi al voto con una
nuova legge elettorale». E anche nel M5S, nonostante la posizione di
Grillo per il voto immediato, c’è chi potrebbe fare un pensiero a un
nuovo esecutivo per condurre in porto la legge di stabilità e quella
elettorale. Quanti potrebbero convincersi, difficile dirlo: un numero da
cui partire è 14, come le schede bianche o nulle nel corso del
ballottaggio sul nuovo capogruppo.
Presto la verifica in Aula.
Dove i numeri parleranno chiaro. Tra i 5 Stelle c’è chi vorrebbe
approvare la legge di stabilità e cambiare il Porcellum Sel sarebbe
pronta a votare un Letta-Bis se il Pd «decide di rompere col passato»
Corriere 30.9.13
Le tre opzioni in campo per salire a «quota 161»
Il peso dei senatori a vita Il futuro della legislatura si gioca a Palazzo Madama
Caccia a dissidenti 5 Stelle e «responsabili» Pdl
di Dino Martirano
ROMA
— Al Senato, a rigor di logica, il vuoto nelle «larghe intese» aperto
dalla defezione del Pdl-Forza Italia potrebbe essere colmato da una
sterzata a sinistra: sulla carta, infatti, Pd (108 senatori, ma il
presidente dell’Aula, Pietro Grasso, per prassi si astiene, quindi 107
voti utili), più Sel (7), più M5S (50) sarebbero in grado di dar vita a
quella «maggioranza alternativa» che ha avuto poca fortuna in principio
di legislatura con i tentativi messi in campo da Pier Luigi Bersani. Ma
questa è solo un’ipotesi di scuola e nessuno è disposto a scommettere un
euro su un appoggio di Beppe Grillo a un governo con il Pd.
Ne
consegue, dunque, che l’asse del futuro governo (o dell’attuale che
continua la sua lenta marcia) debba rimanere necessariamente ancorato al
centro: in questo caso allo «zoccolo duro» rappresentato dal Pd (107)
si aggiungerebbero i 20 senatori di Scelta civica, i 10 delle Autonomie e
i 7 di Sel. Totale 144 seggi. Ancora troppo pochi, però, per garantire
l’autonomia di un governo Letta o di un Letta bis che avrebbe la sua
autosufficienza solo raggiungendo quota 161, cioè il quorum compresi i
senatori a vita. Una manciata di voti mancanti, questa, che potrebbe
arrivare dalle mille diaspore fin qui consumate dai grillini. E tanto
per dirla con le parole di Marino Mastrangeli (il primo senatore
cinquestelle a essere messo alla porta dai fedelissimi di Grillo) «di
Orellana ce ne sono una decina». Formalmente, comunque, i grillini
fuoriusciti dal Movimento sono solo 4. Un contributo potrebbe venire
anche da cinque (senza contare Monti, in Scelta civica) senatori a vita
(ma in realtà sarebbero 4 perché le condizioni di salute non consentono a
Carlo Azeglio Ciampi di andare al Senato).
C’è, però, anche un
terzo schema che sta prendendo forma in queste ore. Pd (107), Scelta
civica (20), autonomisti (10) e Sel (7) — totale 144 seggi, a cui
potrebbero aggiungersi i senatori a vita (4) — arruolerebbero nella
nuova maggioranza i grillini fuoriusciti dal M5S e, soprattutto, una
consistente pattuglia di «responsabili» del Pdl che non sono disposti a
seguire la «deriva estremista» della falange Verdini-Santanchè.
Su
questa operazione di distacco dal Pdl, il condizionale è d’obbligo,
perché la forza di attrazione e di persuasione del Cavaliere è sempre
fortissima. E molti «sospettati», sebbene non richiesti, hanno già
manifestato fedeltà a Berlusconi (Villari, Colucci, D’Anna, Milo,
Falanga, Langella...). Eppure è un fatto che 4 senatori del Pdl (Gaetano
Quagliariello, Carlo Giovanardi, Pippo Pagano, Salvatore Torrisi) e
Paolo Naccarato di Gal non hanno firmato la lettera di dimissioni da
parlamentare chiesta ai suoi uomini da Berlusconi.
Secondo
l’avvocato Torrisi, fedelissimo di Angelino Alfano, e anche lui
«diversamente berlusconiano», sul fronte della governabilità «il Senato
regge... perché questo ci chiedono gli italiani». Spiega il senatore
catanese: «Questa domenica ho partecipato alla festa patronale di
Ragalna (un Comune della fascia etnea,ndr ) e la gente è venuta a
stringermi la mano raccomandandosi di assicurare la continuità
dell’azione di governo». E le dimissioni da parlamentare? «Un atto al
limite dell’eversione», taglia corto Torrisi.
Per dirla con il
senatore Luigi Compagna (Gal, gruppo costola del Pdl-Fi), «bisogna
vedere che cosa farà il ceto medio del partito». Se infatti i volti
noti, Quagliariello e Giovanardi, ma, anche, Maurizio Sacconi, si
limiteranno a non votare contro Letta, molti peones potrebbero
addirittura sposare (anche per interesse personale) il partito della
stabilità e della legislatura lunga. Domenico Scilipoti (Pdl, con una
storia politica di trasformismo che parte dall’Italia dei valori) ha
detto di aver firmato la lettera di dimissioni ma, anche, che «è sempre
possibile dare la fiducia a un altro esecutivo». Ma qui, con tutto il
rispetto per l’apporto offerto da Scilipoti, si aprirebbe quel governo
tenuto in vita dalle «frattaglie» che Letta vuole evitare come la peste.
C’è infine un grosso problema Sel che viene sollevato dal
senatore a vita Mario Monti (Scelta civica). Al centro, infatti, c’è un
gran lavorìo condotto, oltre che da Monti, anche da Pier Ferdinando
Casini e dal ministro Mario Mauro per favorire l’operazione distacco dal
Pdl. Tutto ciò, ipotizza Monti, si concretizzerebbe in numeri utili per
una nuova maggioranza solo se i 7 di Sel rimangono fuori. E a patto che
sia Enrico Letta, e non un altro premier, a guidare il nuovo governo,
ammesso che l’attuale non ce la faccia a sopravvivere.
il Fatto 30.9.13
Evasione, 180 miliardi in fumo
LA
STIMA UFFICIALE sull’evasione fiscale non esiste. Trattandosi di un
illecito, del resto, non è possibile avere un dato univoco. Le stime
oscillano tra i 120 e i 180 miliardi, ricavando questo dato sulla
complessiva area dell’economia sommersa, stimata nel 18 per cento del
Pil. L’Istat propone una stima analoga valutando nel 2008 il valore
aggiunto prodotto nell’area del sommerso economico tra un minimo di 255 e
un massimo di 275 miliardi di euro.
Per quanto riguarda l’importo
realmente evaso, la cifra di 180 miliardi sottratti al fisco è
rilanciata dallo studio internazionale Tax Research. Secondo l’Uif,
l’unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, per ogni 100
euro di tasse versate, 38,19 sfuggono all’erario. Applicando questa
percentuale ai 472 miliardi di entrate tributarie del 2012, si ha la
cifra di 180 miliardi. Da cui resta esclusa, però, l’evasione
contributiva.
Corriere 30.9.13
il sindaco Marino e l’allarme crac. Roma diventa un comune-simbolo
di Goffredo Buccini
C'è
qualcosa di ripetitivo e insieme di paradossale nell'annuncio-choc con
cui Ignazio Marino ha minacciato la bancarotta della Capitale: servono
velocemente 867 milioni per coprire debiti «ereditati dalla passata
amministrazione», ha ammonito il sindaco, altrimenti per i romani
saranno lacrime e sangue. La ripetitività balza agli occhi soltanto a
sfogliare le dichiarazioni di cinque anni or sono, quando Alemanno,
appena eletto, si sgolava a denunciare un buco di bilancio miliardario
che, a suo dire, gli avrebbe lasciato in dote il centrosinistra e
Veltroni ne bollava la sortita con un tacitiano «bufala politica». Ora
le parti si sono rovesciate ma la musica non cambia. Buco o debito, una
qualche dolorosa eredità rotola sempre da un primo cittadino romano
all'altro e, ammettiamolo, è forse utile da enfatizzare preliminarmente,
come antidoto ai propri, eventuali, fallimenti. Del resto l'Urbe è
sempre stata alquanto costosa da amministrare. Al tempo dell'Impero, fra
Traiano e Commodo, si arrivavano a spendere circa mille denari a cranio
di panem et circenses per tenersi buoni duecentomila plebei. Ora, il
buon Marino non toglierà ai romani grano o spettacoli dei gladiatori ma,
verosimilmente, bus notturni e servizi sociali, costretto magari alla
fine alla più impopolare delle mosse: alzare Irpef e Tares. Il paradosso
è che mai come ora Roma appare capitale emotiva dei Comuni d'Italia,
con buona pace del leghista milanese Salvini (che invita Marino ad
andare in malora): poiché, nonostante lo status e le peculiarità che la
distanziano da essi, Roma ne condivide inevitabilmente le angosce
contabili. Il sindaco di Roma fa appello, come i suoi colleghi d'ogni
latitudine, a un governo morente e, come loro, s'affida alla
provvidenza. La politica fin qui seguita sull'Imu ha lasciato le casse
locali a secco ed è di una settimana fa il grido di dolore di Piero
Fassino, nella sua qualità di presidente dell'Anci, sugli stipendi dei
dipendenti comunali a rischio. Siamo tutti sulla stessa barca, basta
capirlo: se ne usciremo più solidali, più stretti gli uni agli altri,
perfino questa crisi sarà servita.
Repubblica 30.9.13
La bancarotta della Capitale
Impervie ma obbligate le vie della democrazia
di Mario Pirani
Lo
chiamano il sindaco “marziano” ma non ci sembra basti la passione per
la bici per conquistarsi automaticamente un nomignolo popolare. Anzi,
questa monomania per le due ruote, comprensibile in una cittadina
olandese, ci sembra difficilmente applicabile in una metropoli come
Roma, dove basta qualche giornata di pioggia battente per ritrovarsi
immersi nelle pittoresche gare fra gli “ombrellari” in lotta per
assicurarsi la vendita di capienti ombrelloni da passeggio. In attesa di
un fausto ritorno alle auto blu o, almeno, alle 500 grigie.
Detto
questo non staremo a contar le pulci al prof. Marino, in carica da
quattro mesi e di cui alcune iniziative dall’avvio del mandato, come la
pedonalizzazione iniziale dei Fori, sono state accolte assai
favorevolmente dal mondo culturale italiano e internazionale. Le
ostilità, per contro, di una parte della stampa capitolina per il
Campidoglio lasciano spazio alle critiche di chi ormai da tempo
considera troppo succube il rapporto tra le cronache cittadine e la vita
amministrativa di Roma. È difficile infatti negare che la lettura dei
fatti resta pur sempre segnata da una gestione spesso infettata da
troppi decenni di affarismo. Da questo punto di vista il ritorno del
centro sinistra al potere rivela uno stile apprezzabile, con la
presentazione di alcuni punti programmatici, spogli dai vecchi riti
consociativi, spesso sinonimo di immobilismo. Un atteggiamento che ha
portato a qualche incomprensione nella stessa maggioranza, adusa ai
giochi interni e alle spartizioni sottobanco, in nome della cosiddetta
condivisione e altre sottomarche della partitocrazia. Una linea di
comportamento che può avere infastidito taluni ma ha mostrato un modo di
muoversi all’insegna della rapidità. Lo stesso può dirsi per la
delibera che ha annullato diversi milioni di metri cubi di nuovo cemento
nell’agro romano, decisi dalla precedente amministrazione, offrendo
come alternativa il concetto del tutto nuovo per Roma, di rigenerazione
urbana.
Ma l’operazione che si annuncia col maggior coefficiente
di innovazione è quella della Metro C, la più grande opera pubblica in
corso di realizzazione nel nostro Paese. Il sindaco è andato di persona
nei cantieri e ha aperto una discussione diretta su tempi e costi certi a
fronte di ulteriori istanze di pagamento ereditate dal passato. Non
sono mancate polemiche allorquando il primo cittadino ha mostrato una
certa esitazione di fronte alle richieste, usando un argomento che in
genere non si mette in piazza: «Andiamo piano con le spese perché si
tratta dei soldi dei romani e degli italiani (gli stanziamenti sono
infatti per metà nazionali e per metà cittadini) e dobbiamo controllare
ogni centesimo». Alla fine Marino ha avuto la meglio ottenendo il
completamento di stazioni che sarebbero dovute essere consegnate diversi
anni orsono secondo gli accordi dell’epoca ma ancora mai fatte.
Tutto
questo, allo stato delle cose, andrebbe monitorato politicamente nei
municipi e negli altri enti locali liberando la discussione da manovre
strumentali per dare spazio a una visione programmatica del futuro di
Roma. È una scommessa di non poco momento che ha per palio il recupero
di un rapporto vivo tra amministrazione e popolo. Solo l’uso
spregiudicato e coraggioso della verità può dare alla giunta Marino il
fiato per portare avanti l’impresa. A cominciare dall’arduo scoglio del
bilancio, gravato dal lascito negativo di Alemanno che va risolto entro
il 30 novembre. Nel 2012, infatti, per effetto dei tagli dei
trasferimenti locali (decreto “salva Italia” del governo Monti) al
Campidoglio sono entrati 500 milioni di euro di meno, la giunta Alemanno
non ne ha tenuto conto, spendendo di fatto soldi che sapeva non
sarebbero mai arrivati nelle sue casse. Far di conto è noioso e
difficile. Sarebbe utile però che i cittadini si impadronissero dei
meccanismi che governano las orte delle loro spese. La democrazia passa
anche da qui.
La Stampa 30.9.13
La militanza non esiste più ora l’impegno è occasionale
La grande maggioranza sceglie di volta in volta il tema o il gruppo che interessa
La politica è frequentata solo dal 35,6% degli italiani e solo per singole iniziative
di Paolo Rigi
Le
iniziative culturali, del «loisir» e sportive sono gli ambiti cui più
volentieri partecipano gli italiani. Tuttavia non disdegnano di
impegnarsi anche nelle problematiche relative al territorio in cui
vivono, piuttosto che nel volontariato sociale.
Meno frequentate,
invece, le attività legate alla politica, alla protesta o ai temi della
Pace. Prendono parte maggiormente a queste attività, in generale, la
componente maschile, i più giovani (fino a 34 anni) e i più adulti
(oltre 55 anni), chi risiede nel Nord Est, chi fa un lavoro in proprio, i
pensionati e gli studenti. Soprattutto, il nucleo dei cosiddetti
«militanti» che si dedica esclusivamente alle attività di
un’associazione è una quota marginale (0,8%), mentre numericamente più
consistenti sono coloro che partecipano non in modo esclusivo
(interessati: 21,6%) o solo saltuariamente (occasionali: 68,5%).
È
questa la mappa sull’impegno sociale e il profilo di chi partecipa alle
loro attività, secondo la ricerca Community Media Research – Questlab
per La Stampa.
La graduatoria Un primo aspetto d’interesse
proviene dagli ambiti tematici della partecipazione. Le manifestazioni
culturali (59,3%) assieme a quelle dello sport (52,1%) risultano
collocarsi in cima alle preferenze degli italiani. Se questo secondo
ambito d’attività è tradizionalmente quello più frequentato, è
interessante sottolineare come il variegato mondo delle iniziative
culturali costituisca un polo di attrazione assolutamente significativo.
Evidentemente,
esiste una domanda diffusa – in senso ampio – di cultura, di
approfondimento o anche solo estetica che richiede nuovi percorsi e
nuovi approcci. Basti solo rinviare ai successi crescenti delle mostre, o
al moltiplicarsi delle occasioni dei festival su diversi argomenti.
Non
molto distanti, incontriamo poi la partecipazione alle iniziative
legate ai problemi dell’ambiente e della salute (49,2%), ai mondi del
volontariato sociale (49,1%), al territorio o alle città in cui si vive
(40,9%): dunque, ambiti d’impegno legati alla valorizzazione o alla
difesa del proprio ambiente, alla costruzione di reti di solidarietà.
Seppure
di altra modalità, tuttavia è interessante osservare come una quota
rilevante di cittadini si impegni attivamente in iniziative come le
sagre o le feste paesane (44,3%). Attività che negli anni recenti si
sono assai diffuse sul territorio e, seppure con valenze diverse, non
per questo risultano meno importanti nella costruzione del capitale
sociale. Più spesso, infatti, si tratta di iniziative volte a
raccogliere fondi per le comunità locali, fino a quelle di rievocazione
storico e di recupero delle tradizioni.
Se escludiamo quanti
partecipano ad associazioni di carattere professionale o di categoria
(30,4%), l’ambito della politica in senso generale è quello meno
frequentato, benché circa un terzo (35,6%) degli interpellati abbia
partecipato a iniziative promosse da partiti o movimenti politici. Ciò
non significa che siano militanti: si tratta di cittadini che per
interesse personale hanno assistito ad alcune di queste occasioni.
Lo
fanno 9 su 10 Solo un decimo degli intervistati (9,1%) dichiara di non
aver partecipato ad alcuna iniziativa nell’arco dell’ultimo anno. Quanti
restano ai margini di quest’aspetto della vita sociale sono soprattutto
la componente femminile (12,5%), le fasce d’età più attive sul lavoro
(da 35 a 44 anni: 15,0%; da 45 a 54 anni: 12,8%), i dirigenti e i
tecnici (19,4%) e le casalinghe (16,2%).
Quindi, le fasce centrali
della popolazione più impegnate sul lavoro, le donne e le casalinghe
hanno minori occasioni di sperimentare una partecipazione attiva.
Se
una quota analoga (11,3%) è entrato in contatto con una sola
iniziativa, è interessante osservare come siamo in presenza di un
fenomeno di partecipazione diffusa e, di conseguenza, meno continuativa
nel tempo. Si partecipa molto, ma si aderisce poco. In altri termini,
esiste un fenomeno di pendolarismo associativo, dove una parte rilevante
della popolazione transita in più luoghi, non necessariamente vicini
tematicamente, sulla base di specifiche istanze o interessi.
Così,
nell’ultimo anno il 32,4% ha frequentato da due a quattro iniziative e
ben il 47,1% più di cinque. Da un lato, la molteplicità dell’offerta
associativa e di occasioni spinge le persone a scegliere di volta in
volta ciò che attrae o interessa maggiormente. Dall’altro, diventa più
difficile catturare l’attenzione e un impegno per lungo tempo, perché le
progettualità individuali oggi si fanno più corte e più orientate
pragmaticamente.
I profili di chi si mobilita Il fenomeno del
pendolarismo associativo, si rispecchia anche nel profilo dei
partecipanti. Come già detto, circa un decimo degli intervistati non
partecipa ad alcun ambito associativo («Assenti»: 9,7%). La quota
prevalente (68,5%) ha una partecipazione «occasionale», ovvero circa una
volta l’anno. Gli «interessati» (partecipano almeno 2-3 volte l’anno)
rappresentano il 21,6%. Infine, i «militanti» (partecipano tutti i mesi)
costituiscono una quota largamente marginale (0,8%).
Dunque, le
associazioni possono contare su bacini sempre più ristretti di persone
che stabilmente prestano la loro opera. Per converso, cresce il noverodi
persone aggregabili su azioni specifiche o su iniziative particolari,
sia sotto il profilo tematico chedel tempo.
Sono questi i tratti
principali delle nuove forme di partecipazione. Il livello di
identificazione e di appartenenza esclusivo a una sola associazione
(militanti) tende a ridursi, mentre cresce la quota di quanti
partecipano attivamente, ma non in modo continuativo (interessati).
Più
ampio è, poi, il numero di persone che si mobilita, ma sporadicamente
(occasionali) e su un numero plurale di occasioni associative. Quindi,
la cifra della partecipazione è caratterizzata da una minore
appartenenza esclusiva, ma per converso da una partecipazione plurale e
con identificazioni parziali.
Repubblica 30.9.13
La glasnost dello Ior, ecco il bilancio nell’ultimo anno utile quadruplicato
Per la prima volta la banca vaticana svela iconti: profitti per 87 milioni
di Paolo Rodari
CITTÀ
DEL VATICANO — Inizia la glasnost finanziaria dello Ior. Il giorno
destinato a entrare nella storia è domani, primo ottobre, esattamente
sei mesi e mezzo dopo l’avvento al soglio di Pietro di Jorge Mario
Bergoglio, il Papa riformatore, l’uomo a cui gran parte del Conclave ha
chiesto a gran voce di smantellare quel sistema che ha portato
l’istituto vaticano a divenire una sorta di banca off-shore usata da
alcuni anche per operazioni non lecite. Domani, per la prima volta nella
sua storia, dopo anni nebulosi che hanno in parte inquinato il buon
nome di tutta la Chiesa cattolica, la banca vaticana fa il passo che
fino a pochi mesi fa sembrava impensabile: pubblica il proprio bilancio,
che, fra l’altro, è da record. Il 2012 segna un utile netto di 86,6
milioni di euro, quattro volte l’utile del 2011. Sono i numeri di una
banca non certo grande, ma che fanno impressione, se paragonati alle
dimensioni del territorio della Città del Vaticano, che è di appena 0,44
chilometri quadrati.
L’operazione scatta alle otto di mattina,
sul sito ufficiale www.ior.va. E anche se oltre il Tevere affermano che
«è solo una coincidenza» la pubblicazione nello stesso giorno in cui
papa Francesco riunisce il Consiglio della Corona che deve lavorare per
riformare daccapo la Curia romana (finanze comprese), la volontà di dare
un segno di trasparenza e novità anzitutto internamente, al Papa come
anche agli stessi otto cardinali del Consiglio, non può passare
inosservata. Certo, le precauzioni sono tante: la pubblicazione avviene
senza conferenza stampa, con un’uscita on-line che prevede semplicemente
un press release firmato dal board dei cardinali che supervisiona lo
stesso Ior oltre che dal presidente Ernst Von Freyberg, così da
introdurre adeguatamente cifre e numeri. Ma molteplici sono anche i
segnali lanciati dentro e fuori le mura leonine: Von Freyberg, eletto da
Tarcisio Bertone con un’azione che venne definita «un colpo di mano»
perché effettuata poche ore prima dell’addio definitivo di Joseph
Ratzinger, non intende remare contro, perpetuando insomma il malgoverno
della vecchia guardia. Piuttosto vuole spingere per uno Ior pulito,
lasciando poi a Francesco la decisione di cosa fare dell’intero
istituto. Se chiuderlo (ipotesi che appare sempre più improbabile), o
riformarlo.
Il rapporto che sarà pubblicato domani si riferisce
all’anno 2012. È composto da cento pagine e, dato non secondario, esce
con la certificazione di una delle cinque società del network Kpmg. Il
che significa che il bilancio è ritenuto conforme ai princìpi contabili
internazionali (Ifrs) emessi dall’International Accounting Standards
Board e omologati alla Commissione europea. Mancano ormai pochi mesi
(entro la fine del 2013) a un’ulteriore valutazione dello Ior da parte
di Moneyval, il Comitato di esperti sulla valutazione delle misure di
lotta al riciclaggio e finanziamento del terrorismo presso il Consiglio
d’Europa, edopo una prima valutazione in parte positiva (il 4 luglio
2012 Moneyval ha vistato l’attuazione da parte della Santa Sede della
maggioranza delle raccomandazioni Gafi essenziali, cosiddette key and
core), lo scoglio di fine anno sarà fondamentale per il futuro
dell’intero istituto. Uno scoglio che anche Francesco ritiene decisivo,
anche perché andrà di pari passo con lo screening di tutti i conti
presenti nella banca effettuato dal Promontory Financial Group che ha
anche il via libera per verificare tutte le transazioni effettuate in
passato da ogni cliente.
Il bilancio riporta numeri importanti.
Nel 2012 lo Ior ha avuto 6,3 miliardi di beni di terzi in gestione (6,2
miliardi nel 2011), per un totale di 3,2 miliardi di portafogli gestiti e
3,1 miliardi di depositi. Il proprio patrimonio in gestione è stato di
0,8 miliardi di euro mentre il patrimonio complessivo in gestione è
stato di 7,1 miliardi. L’utile netto ammonta a 86,6 milioni, su un
totale di 18,900 clienti e 114 dipendenti. Lo Ior fornisce un contributo
di circa 55 milioni di euro al bilancio complessivo del Vaticano, un
capitale importante che viene maturato grazie a più elementi principali:
la parte più rilevante sono gli interessi attivi che lo Ior percepisce
dagli interessi dati a chi deposita. La cifra di questi interessi è di
circa 50-70 milioni di euro, dai quali poi lo Ior deduce le proprie
spese. E poi c’è il guadagno sui prezzi delle obbligazioni, che salgono e
scendono. Certo, fra le tante spese ci sono anche i soldi prestati alle
varie diocesi del mondo che per vari motivi possono essersi indebitate.
Ma il prestito non incide sul bilancio. Vi incide soltanto nel caso la
diocesi vada in definitivo default e non riesca a far fronte al prestito
stesso.
La pubblicazione del bilancio avviene in una settimana
capitale non solo per la convocazione a Roma da parte di Francesco del
Consiglio della Corona. Ma anche per il pellegrinaggio del Papa di
venerdì ad Assisi. Un viaggio che già viene definito storico, come il
primo a Lampedusa nel cuore del Mediterraneo che soffre, a metà luglio
scorso. Assisi significa tante cose: anzitutto l’entrata di Bergoglio,
che ha scelto il nome dell’«alter Christus» Francesco, nella Sala della
Spoliazione, lì dove san Francesco si spogliò dei suoi abiti e delle sue
ricchezze per dedicare tutta la sua vita a Sorella Povertà. Qui il
Papa, in compagnia degli otto cardinali del Consiglio, sembra voler fare
un grande pronunciamento sulla sua idea di Chiesa, arrivando forse a
denunciare l’uso distorto che anche la Chiesa fa dei propri beni fino -
sono voci che si rincorrono - all’annuncio dell’abolizione dei titoli
onorifici. «Sogno una Chiesa povera e per i poveri», disse lo stesso
Francesco poche ore dopo l’elezione al soglio di Pietro il 13 marzo
scorso. Un sogno con cui anche la banca vaticana deve fare i conti.
Repubblica 30.9.13
Medicina, benvenuti al Sud
Al Nord facoltà al completo vincitori costretti a emigrare
Da Milano a Padova, più promossi al test che posti disponibili
di Salvo Intravaia
ROMA
— “Benvenuti al Sud”. Centinaia di studenti ammessi al test di Medicina
e Odontoiatria sostenuto al Nord saranno costretti a trasferirsi se
vorranno indossare il camice bianco. La graduatoria nazionale,
pubblicata lunedì scorso, ha infatti fornito i suoi primi responsi:
atenei del Nord presi d’assalto e studenti settentrionali obbligati a
spostarsi a Sud se vorranno coronare il sogno di una laurea in Medicina.
Una novità, quella del listone nazionale, che sta rivoluzionando la
geografia degli ammessi a questi corsi di laurea. Perché, analizzando la
lunghissima graduatoria con oltre 69mila candidati, per la prima volta,
oltre che ad assistere alla marcia volontariadegli studenti meridionali
in cerca di un buon ateneo al Nord, assisteremo anche alla marcia
forzata dei ragazzi del Nord verso le università meridionali. E proprio
oggi verrà resa nota l’assegnazione delle sedi per ciascuno dei
partecipanti.
Fino a due anni fa infatti la selezione veniva
effettuata per ateneo e l’anno scorso per ambiti regionali o
interregionali. E coloro che si spostavano da Nord a Sud erano
pochissimi. Chi si trasferiva al Nord lo faceva invece di sua spontanea
volontà. Ma da quest’anno, tutto cambia.
Nel test svolto lo scorso
9 settembre, più di metà – il 56 per cento – degli oltre 10mila ammessi
alla facoltà di Medicina e di Odontoiatria hanno sostenuto la prova in
un ateneo pubblico del nord Italia: il bando costringeva gli studenti a
sostenere la prova nel primo ateneo scelto. La restante parte – il 44
per cento – ha invece centrato l’obiettivo in una università dell’Italia
centrale o meridionale. Studenti settentrionali di gran lunga più bravi
di tutti gli altri compagni o, semplicemente, atenei del Nord presi
d’assalto anche da studenti meridionali perché più prestigiosi, meglio
attrezzati e più organizzati? Sta di fatto che, tra qualche giorno,
unaconsistente fetta dei 5.887 ammessi a Medicina e Odontoiatria al Nord
dovrà fare le valigie alla volta di un ateneo del Sud. Perché in
Lombardia, Veneto o Piemonte iposti messi in palio dal ministero
dell’Università non basteranno per tutti. I numeri parlano chiaro. Tra i
primi 10.456 ammessi alle facoltà di Medicina e Odontoiatria
degliatenei pubblici ben 905 hanno sostenuto il test di ammissione alla
statale di Milano. Ma nell’ateneo meneghino saranno disponibili 370
posti per iscriversi in Medicinae 60 per Odontoiatria: in tutto 430.
Così,
475 studenti che hanno cercato fortuna nell’ateneo milanese dovranno
accontentarsi di un posto dove rimarrà spazio. Stesso discorso per chi
ha tentato l’accesso a Padova: oltre 900 ammessi per 445 posti in
totale. Dove andranno i 462 studenti rimasti fuori dall’ateneo veneto? E
dove andranno i 59mila studenti che non ce l’hanno fatta? Alcuni si
iscriveranno in Biologia e Biotecnologie e tenteranno l’avventura fra un
anno. I più facoltosi tenteranno l’avventura in Spagna e Romania, dove
l’accesso è libero.
Quest’anno, la domanda di iscrizione al test
prevedeva la scelta delle sedi – anche tutte quelle presenti sul
territorio nazionale – con un ordine di preferenza: tra tutti coloro che
hanno scelto come prima opzione un determinato ateneo verranno esauditi
soltanto quelli che rientreranno tra i posti messi a concorso per il
singolo ateneo: i cosiddetti “assegnati”. Tutti gli altri, se in
posizione utile nella graduatoria dei 10mila, saranno “prenotati” in una
delle sedi scelte come seconda, terza, quarta o successiva opzione.
Scorrendo l’elenco delle università statali dove si sono svolti i test,
si vede che la maggior parte delle università dove rimangono posti
liberi è al Sud. In Sicilia, ad esempio, a fronte degli oltre mille
posti messi a concorso, sono riusciti a passare appena in 674: quasi
certamente tutti siciliani che non avevano nessuna intenzione di
spostarsi altrove o non ne avevano le possibilità economiche. I restanti
330 posti liberi andranno a coloro che non sono riusciti a piazzarsi
nelle regioni di residenza: probabilmente studenti del Nord costretti a
trasferirsi per avere un futuro da dottore.
La Stampa 30.9.13
In fuga dalla guerra in Sierra Leone, vive in miseria a Roma e rischia l’espulsione dall’Italia
“Io, ex bambino soldato che non trova la pace”
Arruolato a 10 anni in Sierra Leone ora vive alla periferia di Roma
Ha 24 anni e nessun amico: “Hanno paura che torni ad essere violento”
di Niccolò Zancan
La
maestra di vita di Papani Kamara si chiamava Adama «cut hands». Adama
taglia mani. Tutti i bambini la conoscevano così. «Ci ripeteva sempre
che i machete dovevano essere ben affilati. Era importante. Perché se il
taglio era netto, le persone svenivano. Altrimenti il polso o il gomito
rimanevano attaccati al resto del braccio con un lembo di carne. Era
terribile. Perché in questi casi le persone si trasformavano, urlavano,
rantolavano per terra, facevano pipì...». Quando era soltanto un bambino
di dieci anni e viveva nel villaggio di Baomahun, Sierra Leone, Papani
Kamara era un soldato del Ruf, il Rebel United Front. «Passavano con la
siringa già carica. Ci drogavano qui sul braccio. Eravamo un mucchio di
cani ammassati. Ci usavano come attrezzi per i loro affari personali.
Prima di incendiare le case del villaggio, il nostro comandante faceva
uscire tutti. Costringeva il figlio a violentare la madre. Dovevamo
assistere. Io sentivo le grida e guardavo il fucile affondare nel collo
del ragazzo.
Sapevo che se avessero rifiutato sarebbero morti, ma
poi morivano ammazzati lo stesso. Quando i bambini disobbedivano,
venivano freddati all’istante. Lo facevano per educarci... ».
Questi
pezzi di incubo messi in fila piangendo, durante mesi di colloqui, sono
raccolti nella relazione psicologica su Papani Kamara. Come nota a
fondo pagina, la sua psicoterapeuta si è premurata di spiegare: «Si
tratta di informazioni confermate da osservatori internazionali. L’uso
di droghe, arrivate attraverso il contrabbando di diamanti, era uno
degli strumenti usati dal Ruf per portare avanti le sue missioni. Nel
corso della guerra, arriveranno a marchiare i bambini come capi di
bestiame».
Oggi l’ex soldato bambino ha 24 anni. Soffre di
depressione e sindrome post traumatica grave. Vive in miseria alla
periferia di Roma. Ha una stanza dentro un palazzo occupato con altre
cento persone emarginate dalla crisi. Sono italiani, cinesi e africani
come lui, fanno i turni per le pulizie e per la guardia al cancello.
Papani è scappato dalla guerra in Sierra Leone. Ha vissuto sette anni in
Costa d’Avorio, prima di attraversare il deserto del Niger su un camion
carico di sigarette di contrabbando. Poi è scappato anche dalla guerra
in Libia. «Volevano arruolarmi nell’esercito di Gheddafi - racconta - mi
sfottevano: “Voi della Sierra Leone siete bravi a combattere... ”».
Papani è sbarcato a Lampedusa durante l’emergenza Nord Africa, nella
primavera 2011. Era convinto di trovare requie, ma il suo passato lo
insegue anche qui. «Tutti hanno paura di me. Pensano che io possa
cambiare all’improvviso, tornare a fare qualcosa di male. Ma non è così.
Vorrei dirlo al mondo: era per colpa della droga se ho fatto quelle
cose. Quando me la iniettavano non capivo più niente, non riconoscevo
più nessuno, neppure i miei genitori».
Papà Momodou era il capo
villaggio, sua madre si chiamava Fatou. Sono stati sterminati in un
incendio appiccato con la benzina. Tutto brucia ancora nella vita di
Papani. «Un piccolo lavoro - dice fissando il muro - ecco quello che
sogno. Imparare un mestiere. Stare sereno, potermi fare una famiglia».
Ma questi due anni italiani sono stati un fallimento. «Per me le cose
peggiorano di giorno in giorno. Non lavoro, non studio. Per poter
iscrivermi a un corso di italiano mi hanno chiesto 100 euro». Il tempo
vuoto è spaventoso, specie quando sei circondato dai tuoi ricordi. Sulla
parete c’è una madonna. Decoder e cavi posticci. Un piccolo cagnetto
guaisce alla catena dal palazzo di fronte.
Papani racconta per la
prima volta quello che lo fa piangere a dirotto: «Adama mi ha chiesto di
tagliare le mani del mio migliore amico. Io mi sono rifiutato. Guardavo
Moses negli occhi, tremava e mi supplicava. Allora Adama mi ha
picchiato come non aveva mai fatto prima, mi ha puntato il coltello alla
gola... Mi ha detto di tagliare come mi aveva insegnato... ». Questo
preciso momento, nel rapporto psicologico su Papani Kamara, viene
definito la scelta impossibile: «Una delle tecniche di tortura più
atroci, utilizzata come rito di passaggio e prova di affiliazione ai
Ruf. L’obbligo di tagliare il braccio di Moses mirava a separarlo
definitivamente dal suo passato e dai suoi affetti... ». Papani piange
su un piumino rosa recuperato nella spazzatura. Non ha mai avuto una
fidanzata. Nel telefonino tiene immagini di donne nude che ispirano i
suoi sogni. Dice che certe sere beve cinque birre perché è l’unico modo
in cui riesce a non pensare: «Fino a quando non chiederò perdono a Moses
per quello che gli ho fatto, non potrò stare in pace... ». E quando gli
effetti alcolici virano da ritmi reggae a suoni molto più spaventosi,
tutto si mischia in un gigantesco caleidoscopio dell’orrore: le urla di
Moses che si contorce a terra, un gommone nero carico di persone che
pregano e vomitavano in mezzo al mare, le rivolte nel Cara di Bari, le
notti da solo alla stazione Termini.
Il permesso di soggiorno per
motivi umanitari di Papani Kamara sta per scadere. Non ha soldi per
rinnovarlo. Il ministero dell’Interno non ha ritenuto di concedergli lo
status di rifugiato politico: «Non si rinvengono ipotesi di rischio di
danno grave in caso di rimpatrio». Papani si asciuga gli occhi. Per un
attimo prova a immaginare un colpo di fortuna. Sa fare il piastrellista,
accetterebbe qualsiasi lavoro. «Purtroppo non ho trovato persone
amichevoli qui in Italia, mi dispiace per quello che sto dicendo. Ho
cercato amici, qualcuno con cui parlare, ma non ho trovato nessuno». In
verità tre donne hanno cercato di prendersi cura di lui. Una psicologa,
un’avvocatessa e una maestra di italiano che si chiama Cecilia.
Quest’ultima ha scritto una lettera che Papani Kamara tiene sempre in
tasca come un passaporto: «Ti conosco da poco ma sento che sei un bravo
ragazzo... ». Nessuno l’aveva mai detto prima all’ex soldato bambino.
La Stampa 30.9.13
La guerra dei diamanti
Il
Ruf (Revolutionary United Front) è stato l’esercito ribelle che dal
1990 al 2002 ha combattuto una guerra civile nel tentativo di prendere
il potere in Sierra Leone. Nato con l’intento di «ridare prosperità al
popolo», si è trasformato in uno dei più sanguinosi gruppi armati della
storia. L’impiego di soldati bambini e l’uso sistematico di torture
ebbero fama internazionale. Le crudeltà del Ruf sono state raccontate
nel film «Blood Diamond» del 2006 con protagonista Leonardo Di Caprio.
Diamanti insanguinati. La principale fonte di reddito del Paese. Alla
fine: più di 43 mila vittime, più di 2000 bambini spariti e un esercito
di reduci che ha visto in faccia l’orrore.
il Fatto 30.9.13
Altre larghe intese
In
Austria vince la grande coalizione ma l’estrema destra avanza al 20,7%
Pesantemente puniti dagli elettori, i due partiti della grande
coalizione al governo a Vienna – i socialdemocratici (Spoe) del
cancelliere Werner Faymann, e i popolari (Oevp) del vice-cancelliere
Michael Spindelegger – sono riusciti comunque a difendere la maggioranza
assoluta in seggi alle elezioni oggi in Austria, e potranno quindi
continuare a governare assieme. Il cancelliere Spoe Faymann conserverà
la poltrona. Parallelamente, forte avanzata dell’estrema destra Fpoe del
successore di Joerg Haider, Heinz-Christian Strache, col 20,7%.
La Stampa 30.9.13
L’exploit delle forze populiste allarma l’Europa
Austria, tornano i nipotini di Haider
Successo dell’estrema destra, ma la coalizione fra popolari e socialdemocratici regge
di Monica Perosino
Il partito xenofobo dell’Fpoe guadagna quattro punti e diventa la terza forza
L’Fpoe guadagna quattro punti; i socialdemocratici ottengono il 27,1% (contro il 29,26% nel 2008) e i popolari il 23,8% (26%)
Ce
l’hanno fatta per una manciata di voti, con il peggior risultato
elettorale di sempre, ma ce l’hanno fatta. L’Austria ha scelto senza
troppa convinzione la Grande Coalizione di governo tra i
socialdemocratici della Spo e il partito popolare Ovp. Nonostante lo
storico calo di preferenze (il più pesante dal 1945) potrà controllare
il Parlamento senza dover cercare l’aiuto di una terza formazione. Il
partito socialdemocratico del cancelliere uscente Werner Faymann ha
ottenuto il 27,1% per cento dei voti, mentre i popolari dell’Ovp hanno
conquistato il 23,8%. Con una perdita di oltre 2 punti per ciascuna
formazione.
Ma dalle urne austriache esce soprattutto un altro
risultato: quello che sancisce l’inarrestabile affermazione
dell’ultradestra in Europa. Ieri il vero vincitore è stato
Heinz-Christian Strache, il successore di Jörg Haider alla guida
dell’Fpoe. Con il 21,4% dei voti ha guadagnato quattro punti rispetto al
2008 (17,5%) e si è confermato terzo partito in Parlamento, tallonando
da vicino l’Oevp. Ha faticato a lungo, Strache, per liberarsi dallo
schiacciante confronto con il governatore della Carinzia morto cinque
anni fa in un incidente d’auto. Con il suo «carisma» Haider era arrivato
al 30% di preferenze, e l’Fpoe era diventato il secondo partito
nonostante, o forse grazie alle posizioni estremiste del suo leader:
Haider elogiava Hitler, era antisemita, islamofobico, xenofofo,
ultranazionalista.
Ieri i sei milioni di elettori austriaci hanno
dato un’altra spinta ai movimenti euroscettici e populisti, confermando
di essere perfettamente in linea con la maggioranza degli europei. Solo
venti giorni fa era stata la volta della virata a destra della Norvegia
(che si è «conformata» così al resto della Scandinavia).
Quest’anno,
come già nelle passate elezioni, l’Fpoe ha condotto una campagna
elettorale all’insegna di slogan anti-israeliani, contro la criminalità
causata dagli stranieri e contro i parassiti, sempre stranieri, del
welfare. Questa volta però i nipotini di Haider hanno scelto un registro
meno diretto: anziché fare una propaganda apertamente xenofoba, la
campagna era impostata all’«amore per il prossimo», laddove il prossimo
erano ovviamente i soli austriaci. Altro cavallo di battaglia, come già
ai tempi di Haider, la corruzione e lottizzazione all’ombra dei due
grandi partiti di governo, e la difesa degli interessi dell’uomo della
strada.
A differenza dei «cugini» tedeschi dell’Afd, nel
Parlamento austriaco entrerà per la prima volta anche il Team Stronach
(5,8%), il partito anti-euro fondato un anno fa dal miliardario
austro-canadese Frank Stronach: partito populista che propone meno tasse
e più lavoro. I Verdi arrivano al 11,5% (rispetto al 10,43%), molto al
di sotto delle loro aspettative (15%). Entrano anche i liberali di Nuova
Austria (Neos), sostenuti dagli industriali e resta fuori l’Alleanza
per l’Austria (Bzoe) fondata da Haider nel 2005, che ha ottenuto il
3,6%.
il Fatto 30.9.13
Passato che ritorna
Ungheria, l’incubo dittatura
di Martina Castigliani
LIBERTÀ
A RISCHIO Dritti per la propria strada. L’Ungheria di Viktor Orbàn, il
primo ministro euroscettico, populista e nazionalista eletto nel 2010,
non guarda in faccia nessuno. È andato avanti con le riforme, non ha
ascoltato le opposizioni, si è messo nella condizione di guidare il
Paese senza nessuna voce contro. Il gioco di prestigio è stato
abbastanza semplice: Costituzione modificata con voto del Parlamento,
Corte costituzionale indebolita nei suoi poteri e messa sotto il
controllo del governo. Poi libertà d’espressione limitata e un testo
fondamentale che riconosce solo le coppie eterosessuali. Ma anche un
debito con il Fondo Monetario Internazionale estinto prima del tempo e
un tasso di occupazione superiore ai livelli pre crisi (insieme solo a
Germania, Lussemburgo, Austria e Malta). C’è chi si è spinto oltre e
l’ha chiamata la “dittatura” nel cuore della vecchia Europa, ma
l’Ungheria chiusa nei suoi confini non sta solo a guardare. “Le
istituzioni europee”, commenta Riccardo Noury di Amnesty International
Italia, “sono così severe con gli stati che sono al di fuori dei loro
confini e poi rischiano di essere troppo indulgenti con chi fa parte
dell’Unione”. Sorveglianza e attenzione chiedono i delegati di Amnesty
International perché un Paese che fa passi indietro nelle regole della
democrazia sia fermato in tempo e non faccia scontare ambizioni di
grandezza sulla pelle delle persone. L’Europa chiama, ma dall’altra
parte Orbàn non risponde perché di istituzioni e aiuti in fin dei conti
non ne ha poi così tanto bisogno. “Non entriamo nell’E u ro”, ha
ribadito, “non ci interessa ora come ora”. Ma soprattutto ha scritto una
lettera al Fondo monetario internazionale: andatevene dal Paese,
chiudete il vostro ufficio, perché noi abbiamo estinto il debito. Il
ministero dell’Economia ungherese ha infatti annunciato che Budapest ha
ripagato, in anticipo, l’intera quota di denaro che doveva all’Fmi: 2,15
miliardi di euro, con un risparmio sugli interessi di circa 11 milioni
di euro. E se l’Ungheria non dipende da nessuno, allora può quasi
considerarsi libera. Nel 2014 ci saranno le prossime elezioni: la
sinistra ci arriva frammentata e il premier uscente ringrazia. La
partita è ancora aperta, ma c’è chi gioca con le spalle più coperte
degli altri. “È una nazione che teniamo sotto stretta sorveglianza”, ha
aggiunto Noury, “per le difficoltà in termini di discriminazione e
libertà dei singoli. Uno dei tasti dolenti riguarda la Costituzione,
entrata in vigore a gennaio 2012 e poi emendata nel marzo 2013 con
quello che è stato definito ‘go l p e bianco’”. Tanti gli interventi
controversi. È stata creata ad esempio l’Autorità di sorveglianza dei
media: alla guida una fedelissima di Orban. Il Partito comunista è
diventato fuorilegge e gli studenti laureati in Ungheria sono costretti
per legge a non lasciare il Paese per i primi dieci anni. Anche perché
negli ultimi anni c’era stata una vera e propria fuga dal Paese. Ma il
provvedimento ha il sapore di quello che fu il regime sovietico:
frontiere chiuse ai neolaureati è un provvedimento intollerabile in
quella che dovrebbe definirsi una democrazia o qualcosa che almeno si
avvicina. “Senza dimenticare le discriminazioni”, conclude Noury,
“quella sistematica della popolazione Rom e quella delle minoranze
sessuali”. L’Ungheria resta un sorvegliato speciale, ma nella partita
con l’Europa può dire di giocare senza debiti sulle spalle dei
cittadini.
il Fatto 30.9.13
Straniero, non deciderai la nostra vita
di Viktor Orbán
dal discorso tenuto a Budapest il 15 marzo 2012, giorno del “golpe bianco
STORIA
DA RICOSTRUIRE Il programma politico e intellettuale del 1848 era
questo: noi non saremo una colonia! Il programma e il desiderio degli
ungheresi del 2012 dicono lo stesso: noi non saremo una colonia.
L’Ungheria non avrebbe resistito sotto la pressione delle riforme
dettate dall’estero, nell’inverno 2011-2012, se non fosse stato per le
centinaia di migliaia di persone che hanno tenuto duro per dimostrare
che gli ungheresi non vivono come gli dettano gli stranieri, che non
cederanno la loro indipendenza e la loro libertà. O la Costituzione che
stanno finalmente scrivendo dopo vent’anni. Grazie a tutti! E non
fatevi fuorviare se domani sulla stampa internazionale leggerete che
c’erano poche centinaia di persone e che perfino queste si erano riunite
contro il Governo. Non siamo mai stati così forti, da decenni. Siamo
abbastanza per combattere per una vita libera in Ungheria, dopo aver
combattuto per la nostra libertà. La libertà per noi significa che non
siamo inferiori a nessuno, che meritiamo rispetto. Che decidiamo le
nostre leggi e quello che è importante per le nostre vite. Da una
prospettiva ungherese, con un mentalità ungherese. E seguendo il ritmo
dei nostri cuori ungheresi. Quindi ci scriviamo le nostre costituzioni
senza bisogno di linee guida. Senza assistenza non richiesta di
stranieri pronti a guidarci le mani. Noi conosciamo fin troppo bene
quell’assistenza amichevole e non richiesta anche se arriva vestita con
abiti di sartoria e senza divise militari... Dobbiamo rispondere alla
più grande delle questioni: ci sottometteremo per essere alla mercé
degli altri fino alla morte o confideremo nelle virtù che hanno fatto
gli ungheresi ungheresi e la storia storia? Sceglieremo il destino di
servi o ci affideremo a ciò che ci ha reso grandi?
il Fatto 30.9.13
Matvejevic: “Alle democrature può opporsi solo l’Europa”
intervista di Oliviero Ponte di Pino
Nello
sguardo di Predrag Matvejevic c’è grande attenzione per la realtà: una
realtà spesso dolorosa, feroce, difficile anche sul piano personale, con
i lutti e le minacce. C’è l’esperienza di chi ha attraversato decenni
sanguinosi e conosce le pieghe della storia. E c’è l’attenzione dello
scrittore alle parole, al loro uso: è stato lui a parlare, nei titoli
dei suoi libri, di “Altra Europa”, di “Mondo ex”, di “asilo ed esilio”,
circostanze storiche ben precise, ma prima ancora condizioni dell'anima.
Da Zagabria continua a osservare la realtà dell’Europa con
preoccupazione e speranza. La xenofobia e il razzismo che stanno
infettando l’Ungheria sono un caso isolato? Purtroppo no. Sono fenomeni
che possono nascondersi, ma non scompaiono del tutto. Anche nella ex
Jugoslavia. Basta andare allo stadio: in Croazia i tifosi delle squadre
di calcio gridano “Ammazza il serbo”, e in Serbia “Facciamo come a
Srebrenica”, dove nel 1995 sono stati 8.000 morti... La Federazione
Internazionale voleva sospendere i campionati. Sono fenomeni marginali,
o possono avere influenza sulla politica di un intero Paese? Quando
sono dovuto andare via da Zagabria, più di vent’anni fa, i politici si
facevano vedere con il braccio alzato a urlare slogan nazionalisti
insieme ai tifosi... Ogni mattina vediamo gli slogan che hanno scritto
sui muri durante la notte. Oggi nella ex Jugoslavia la situazione più
grave è quella della Bosnia-Erzegovina, dove ci sono tre nazionalità:
nella zona occidentale c’è una maggioranza croata, più a Est i sono i
serbi ortodossi, e un po’ ovunque sono disseminati i musulmani. Sotto
Tito si chiamavano semplicemente “i Musulmani”, adesso i nazionalisti
islamici vogliono imporre il termine “Bosniaci”: ma i bosniaci sono
tutti quelli che sono nati in Bosnia... È vero che durante le guerre
jugoslave sono stati loro a subire le atrocità peggiori, a Srebrenica ci
sono 8.000 tombe, e possiamo leggere i nomi di quelli che sono stati
uccisi dai mercenari serbi. Ma i musulmani bosniaci sono una nazione
slava, non sono turchi, si sono convertiti ai tempi dell’occupazione
ottomana. Parliamo la stessa lingua, siamo tutti slavi del Sud. Avevamo
l’impressione che in Serbia e in Croazia il nazionalismo, alla radice
delle guerre balcaniche degli anni Novanta, fosse superato. ... E c’è
anche la volontà di far parte dell’Unione Europea. Quell’atteggiamento è
stato superato, ma non è sparito. Se in Croazia entri in una bottega,
se hai un nome serbo-ortodosso spesso il negoziante ti guarda male. I
nazionalismi balcanici si sono indeboliti, ma restano presenti.
Rispetto al nazionalismo ungherese, ma più in generale rispetto a
queste situazioni, quale dovrebbe essere il ruolo dell’Europa? Credo
che l’Europa possa attenuare il peso di questi nazionalismi. L’Unione
Europea non può certo risolvere tutti i problemi, ma è la soluzione meno
cattiva. Entrando in Europa, questi Paesi almeno non possono più farsi
la guerra tra loro. La prova del successo di questa politica sarebbe
l’ingresso di tutti i Balcani in Europa, in modo da impedire qualsiasi
azione militare. Gli accordi di Dayton nel novembre 1995 hanno
interrotto la guerra civile jugoslava, creando però frontiere
improvvisate: oggi non sono del tutto rispettate e soprattutto non sono
più sufficienti. Anche i Paesi vicini creano problemi: la Bulgaria non
permette alla Macedonia di chiamarsi così, vogliono che si chiami
ufficialmente “Vecchia Repubblica Jugoslava Macedone”. Anche i greci
avevano problemi analoghi, con la Macedonia... E nel Kosovo non sono
finiti i problemi dei serbi con gli albanesi, malgrado i passi avanti.
Gli interventi di cui hai parlato finora riguardano i rapporti tra
comunità, nazionalità, Stati. Nel caso dell’Ungheria, che cosa può fare
l’Europa per evitare derive fasciste all’interno di un Paese membro
dell’Unione? Ci sono accordi e trattati con i singoli Paesi, ma
servirebbe una strategia che l’Europa finora non ha avuto. Da questa
parte del continente possono venire sorprese, la crisi mondiale qui è
arrivata proprio quando iniziava ad affermarsi un certo neoliberalismo.
Ora questi Paesi sono travolti da un neocapitalismo selvaggio, e inizia a
serpeggiare un certo euroscetticismo. Per fortuna le classi dirigenti
si rendono conto che l’Europa non è la peggiore delle soluzioni. Però la
crisi ha conseguenze drammatiche sul debito delle nazioni e sui salari:
in Croazia le paghe sono del 35% più alte che in Serbia, e in Serbia
del 30% più alte che in Bosnia. Differenze che si aggiungono alle altre.
Anni fa, quando si celebrava il trionfo delle democrazie, hai coniato
il termine “democratura”. È un ibrido di democrazia e dittatura, si
proclama la democrazia mentre si praticano forme di dittatura nascosta. È
una patologia che per fortuna non riguarda tutti i Paesi dell’Est: la
Polonia se l’è cavata bene, così come la Repubblica Ceca, la Slovacchia e
i Paesi baltici. Anche Romania e Bulgaria si sono avvicinate
all’Europa, la situazione è più grave dal punto di vista economico che
da quello politico. In Serbia, in Croazia, in Bosnia, le democrature si
sono introdotte nel potere, anche usando la retorica del nazionalismo, e
il ricordo della guerra che lo nutre. Uno dei miei libri si intitola
Mondo ex: qui predomina un “ex” da cui non si riesce a uscire. Questi
paesi hanno abbandonati i regimi autoritari, che però ci ossessionano
ancora. Crediamo di costruire il presente, ma non riusciamo a
controllare il passato. Abbiamo denunciato la storia, e continuiamo a
farci invadere dallo storicismo. Riconosciamo le libertà, ma non
sappiamo cosa farne. Abbiamo difeso un retaggio nazionale, adesso
dobbiamo difenderci da questo retaggio. Abbiamo voluto salvaguardare la
memoria, e adesso la memoria sembra punirci: vengono alla luce anche i
massacri compiuti dai croati, con decine e decine di morti, durante le
guerre nell’ex-Jugoslavia. Per fortuna ci sono anche esempi positivi.
In Vojvodina vive una minoranza ungherese, che come tutte le minoranze
si sente minacciata: hanno un atteggiamento diverso dal nazionalismo
ungherese, se lo adottassero per loro sarebbe controproducente. In
Istria la minoranza italiana, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha
vissuto un periodo difficilissimo: in italiano c’era un termine che
aveva senso solo in Dalmazia, “esodati”, quelli che erano stati
costretti ad abbandonare le case e a fuggire in Italia. Sono stato
testimone di questo dramma quando facevo il servizio militare a Fiume.
Le ferite inferte cinquant’anni fa hanno però creato una consapevolezza.
Oggi so di famiglie croate che mandano i bambini alla scuola italiana,
perché imparino una lingua europea.
il Fatto 30.9.13
Racconti del dissenso
“Figlio, in questo Paese si vince solo con la forza”
di György Spiró
György
Spiró (Budapest 1946) è tra gli scrittori ungheresi più noti e
apprezzati degli ultimi decenni. Il suo ultimo libro pubblicato in
Italia è “Collezione di primavera” (Guanda 2012)
Stava
portando a casa suo figlio, che era allacciato sul sedile dietro. Gli
stava chiedendo come era andata la sua giornata a scuola, con chi aveva
fatto a pugni, perché avrà fatto a pugni, anzi avrà di nuovo fatto a
pugni, e in effetti perché mai non dovrebbe farlo? Cercava di spiegargli
che ci sono anche altre soluzioni. Davanti a loro c’era una Skoda
Favorit che procedeva più lenta rispetto il ritmo del traffico. Lui si
era accostato sulla corsia di destra e aveva notato che la Favorit aveva
messo la freccia verso sinistra e si stava spostando sulla corsia di
svolta a sinistra. Dopo averlo sorpassato era rientrato nella corsia di
sinistra. Nello specchietto vide che quello nella Favorit di colpo aveva
sterzato a destra e veniva dritto addosso a lui. Non poteva accelerare
perché il semaforo era rosso. La Favorit li tamponò e poi li spinse per
una breve tratta, poi si fermò accanto a loro in modo che non potesse
aprire la porta. Così tirò giú il finestrino urlando a squarciagola.
Anche quello nella Favorit abbassò il finestrino, sul lato passeggero
c’era un giovane imberbe, al volante invece una ragazza con accanto un
radiotelefono. Per un po’ si urlarono a vicenda, non riusciva nemmeno a
scendere dalla macchina, il bambino sul sedile dietro li ascoltava
intimidito. Non riusciva a controllare quanto gli avesse sfregiato la
macchina, di sicuro non valeva la pena di chiamare la polizia, perché
non verrebbe nemmeno; e poi se si allontanasse per chiamare quei due se
ne andrebbero e non troverebbe mai dei testimoni. Quindi appena il
semaforo divenne verde se ne andò, nel retrovisore però vedeva quei due
che invece erano ancora lí a perder tempo. Chiaramente la ragazzetta non
aveva ancora la patente, non riusciva nemmeno a far partire la
macchina. Cercava di proseguire una conversazione naturale col figlio,
della scuola, di qualsiasi altra cosa. Non erano lontani da casa, quando
per attraversare i binari mise la freccia verso sinistra. Da un pó li
seguiva una Volkswagen piuttosto grande, gli si era appiccicata ma non
poteva andare più forte di cosí, non c’era posto per sorpassare e in
quel momento doveva dar precedenza anche alla Fiat che era intenta a
girare a destra. La Fiat passò, quindi lui sterzò a sinistra
accelerando, con la coda del-l’occhio vide che il tizio con la
Volkswagen saltava fuori dalla fila per sorpassarlo in curva. A stento
riuscì a frenare per non venirgli addosso. Suonò il clacson, allora
quello nella Volkswagen rallentò e si fermò proprio sui binari. Nel
frattempo dalla destra arrivava il tram che per fortuna lì doveva far
fermata. Erano fermi sui binari. Suonò nuovamente il clacson, allora la
Volkswagen avanzò un po’, per poi inaspettatamente frenare di nuovo per
farsi tamponare. Frenò per miracolo. Anche l’altro si era fermato.
Quindi il guidatore scese dalla macchina, anche lui scese dalla sua.
Urlava lui. Urlava anche l’altro. Era un ragazzone molto più alto di
lui, aveva forse sedici-diciassette anni. Nel frattempo il tram era
andato via, non c’era più nessuno. Suo figlio sul sedile dietro legato
con le cinture era spaventatissimo. Il ragazzone rideva. Gli passò per
la mente di colpirlo subito sul mento, altrimenti sarebbe stato il
giovanotto a stenderlo e allora cosa avrebbe detto suo figlio. Erano
ancora lì a gridare uno con l’altro, quando li raggiunse un’altra
macchinona di marca occidentale, si era fermata accanto a loro e era
sceso un tipo alto due metri, di almeno duecento chili, il compare del
ragazzone. Dovrei decidermi a comprare una pistola, stava pensando e
saltò sulla macchina, voleva partire ma i due idioti erano lí a ballare
davanti alla sua macchina. Cosa fare, li tiro sotto? Deficienti. Fece
retromarcia, poi con le ruote cigolanti imboccò un’altra stradina.
Erano arrivati a casa e si stavano preparando per scendere dalla
macchina quando la macchinona li raggiunse e si fermò proprio dietro di
loro. Annotò la targa. Non c’era anima viva nei paraggi. Nessun
testimone. Scesero dalla macchina e si avvicinarono. Fece risalire suo
figlio in macchina e cosí fece anche lui. Li raggiunsero e aprirono la
porta con la forza. Lui diede il gas e partì di colpo, mentre uno di
loro si era aggrappato alla porta della macchina. Schiacciò
l’acceleratore con più forza, quindi quello aggrappato alla porta cadde a
terra. Proseguì fino all’incrocio poi tornò indietro. Dunque uno ormai
non può nemmeno rincasare con il proprio figlio? I due tontoloni
stavano lì in mezzo la strada. Tra le mani di uno di loro era apparso
una spranga o era forse un bloccavolante. Almeno avesse avuto un
tirapugni, pensava. Cosa succede ora, chiedeva il bambino. Non
rispose. In quel momento ne aveva abbastanza del suo passato, non ne
poteva più del proprio futuro, non ne poteva più nemmeno del futuro di
suo figlio. Mise la seconda e partì facendo imballare il motore. Uno lo
prese proprio in pieno, l’altro invece lo scansò via. Il parabrezza era
intatto, solo il cofano si era piegato appena il corpo ci era caduto
sopra. Fece altri dieci metri poi si fermò, prese l’asta del
bloccavolante in mano e scese dalla macchina. L’imberbe saltò in piedi
sull’asfalto, salì in macchina e se ne andò. Il corpo del-l’altro era lí
steso e appiattito per terra. Risalì in macchina e andò giú in garage.
Il bambino taceva. Lui entrò in garage con la macchina, poi chiese di
salire subito in casa. Il bambino ubbidì. Lui nel frattempo lavò le
macchie di sangue dalla carrozzeria, osservava l’ammaccatura, in fondo
non era nemmeno così profonda. Naturalmente se arrivasse la polizia la
noterebbe lo stesso. Perché non aveva comprato al mercatino polacco una
pistola? Oppure perché non si era comprato anni fa una carabina a canne
mozze dai russi? Potrebbe accogliere con quella la polizia. Salì in
casa, il bambino giocava tranquillo, non c’era bisogno di parlare
del-l’accaduto. Guardava fuori alla finestra. Quel buono a nulla giaceva
ancora lì. Era quello che poco prima gli aveva tagliato la strada sui
binari. Rifletteva se era il caso di chiamare la polizia o l’ambulanza,
eventualmente ambedue. Sarebbe un attenuante. Bisognerebbe controllare
se sia vivo ancora. Se è vivo, bisognerebbe aiutarlo in qualche modo.
Non raggiunse il corpo e non chiamò la polizia. Un’ora e mezza più
tardi arrivò l’ambulanza, sistemarono il cadavere e lo portarono via. Si
è fatto vedere anche un poliziotto in moto, ha scattato qualche foto
del luogo e poi se ne è andato. Per settimane girò con il cofano
ammaccato ma nessuno gli chiese nulla. Acquistò una pistola che ora
tiene nel cruscotto. Nella tasca sinistra ha sempre un tirapugni.
Passavano le settimane e non cercavano più il colpevole. Hanno cose più
importanti da fare. Col bambino non ne fecero più parola. A volte si
svegliava di notte per sentire se il piccolo avesse degli incubi ma suo
figlio dormiva tranquillo. Forse il piccolo lo sapeva giá ma se non lo
sapesse e un giorno glielo chiedesse, gli risponderà così: questo è il
Paese del più forte, qui morte tua è vita mia.
(traduzione di Krisztina Sándor)
La Stampa 30.9.13
Neonazi sotto accusa
Ad Atene si costituisce il numero due di Alba Dorata
di E. St.
ATENE
In manette anche il «numero due» di Alba Dorata, partito filo-nazista
che dalle ultime elezioni siede per la prima volta nel Parlamento greco.
Il deputato Christos Pappas si è costituito ieri alla polizia di Atene.
«Non ci spezzeranno! Viva Alba Dorata! », ha gridato ai sostenitori che
lo attendevano fuori dal commissariato. Pappas era ricercato in seguito
a un mandato di custodia cautelare emesso contro di lui e altri 35
militanti.
Gli arresti, che hanno portato in carcere ventuno
persone, tra cui il leader Nikos Michaloliakos, il portavoce del partito
Ilias Kassidiaris e altri tre parlamentari, sono scattati sabato
mattina. Il punto di non ritorno è stato l’omicidio del rapper
anti-fascista Pavlos Fyssas, assassinato a freddo dal militante Georgos
Roupakias. Fyssas fu pugnalato senza pietà e morì tra le braccia della
fidanzata il 17 settembre scorso.
Nelle dieci pagine di ordinanza
di custodia cautelare, Alba Dorata è accusata di undici fra omicidi e
aggressioni e di essere un’organizzazione criminale.
Michaloliakos
e gli altri deputati compariranno davanti ai giudici martedì prossimo.
La Grecia ha cominciato così la sua lotta per difendere la democrazia.
La Stampa 30.9.13
“All’armi, la Francia ci invade” Le esercitazioni svizzere mandano Parigi su tutte le furie
Berna: il Paese è sull’orlo del crac, potrebbe attaccarci
di Alberto Mattioli
In
piena bancarotta, schiacciata dal deficit e devastata dalla crisi, la
Francia si è spaccata in varie entità macroregionali. Sulle rovine di
Hollandia è nata così la Saônia, corrispondente appunto alle zone
attraversate dal fiume Saône: grosso modo, la Borgogna e la Franca
Contea. Ora, un’organizzazione paramilitare, la Bld (Brigata Libera di
Digione), braccio armato del governo saonese in difficoltà finanziarie,
decide di «andare a cercare il denaro che la Svizzera ha rubato alla
Saônia» e invade quindi il sacro suolo della Confederazione, marciando
su Ginevra, Losanna e Neuchâtel. Gli svizzeri, ovviamente, resistono
eroicamente: tutti Guglielmi Tell.
Non è un racconto di
fantapolitica. È il presupposto sul quale l’esercito elvetico ha basato
le (concretissime) manovre estive delle sue forze blindate. L’operazione
«Duplex-Barbara», rivela «Le Matin dimanche», si è svolta dal 26 al 28
agosto nella Svizzera romanda. Naturalmente, giurano gli svizzeri, è del
tutto casuale che Parigi e Berna siano attualmente ai ferri corti
perché la Francia cerca di stanare i suoi cittadini che hanno portato i
soldi dall’altra parte della frontiera. «L’esercitazione - spiega il
comandante della brigata corazzata svizzera, Daniel Berger - non ha
nulla a che vedere con la Francia che apprezziamo ed è stata preparata
nel 2012, quando le relazioni fiscali franco-svizzere erano meno tese». E
tutta la storia della Saônia è stata inventata solo per dare ai soldati
«un quadro realistico» (si fa per dire).
Fantastici svizzeri.
L’anno scorso, per la manovra «Stabilo Due», avevano immaginato
un’Europa nel caos per il crollo dell’euro con un conseguente massiccio
afflusso di rifugiati nella Confederazione. Ne avevano parlato perfino i
grandi giornali americani. Tipico, però: da sempre, la neutralità si
basa su solide tradizioni militari e una non meno solida preparazione
bellica. Il Paese che non entra mai in guerra è prontissimo a farla.
Domenica scorsa, il 73,2% degli svizzeri ha votato contro la proposta di
sostituire con un’armata di mestiere l’esercito di popolo, basato sul
principio che chi vuole la libertà dev’essere disposto a battersi per
lei. I cittadini-soldati continuano a tenere il fucile nell’armadio e a
presentarsi alle esercitazioni a intervalli regolari. La linea
fortificata sul confine italiano è stata smantellata solo alla fine
degli Anni Settanta. Meglio essere pronti, casomai fosse saltato in
mente a Fanfani o Andreotti di invadere il Ticino irredento...
Corriere 30.9.13
Benvenuti nella Shanghai «liberata». Prove di democrazia (finanziaria)
Via alla zona di libero scambio: un modello di riforme per la Cina
di Guido Santevecchi
SHANGHAI
— La scritta rossa in cinese e inglese annuncia: «China (Shanghai)
Pilot Free Trade Zone». Il cartellone a forma di arco, a cavallo della
superstrada a otto corsie, è il segno più chiaro della grande novità: la
Cina ha lanciato la sua prima zona pilota di libero scambio. Intanto è
stato liberato l’arco, che era rimasto ingabbiato dalle impalcature per
giorni (mentre a Pechino il partito dibatteva in segreto): da questa
porta si entra in una striscia di capannoni industriali, magazzini,
grattacieli, sedi di multinazionali, banche e moli portuali che si
estende su 28 chilometri quadrati a Est di Shanghai. In questi 28
chilometri quadrati il governo cinese promette di lanciare una nuova
fase di riforme di mercato.
La «Zona pilota» di Shanghai è stata
inaugurata ieri, ma in Cina se ne parla da mesi come di una svolta
cruciale quanto quella voluta dal timoniere Deng Xiaoping nel 1979,
quando cominciò a sperimentare il capitalismo socialista dichiarando
l’enclave meridionale di Shenzhen «Zona economica speciale». Da allora
il Prodotto interno lordo della Repubblica popolare si è moltiplicato
molte volte e oggi è il secondo del mondo.
Nella zona di Shanghai
liberata da altri guinzagli con cui il partito comunista guida il
«mercato con caratteristiche cinesi», gli investitori potranno muovere i
capitali in entrata e in uscita dal Paese con maggior facilità e le
banche, non il governo, decideranno i tassi d’interesse sui depositi.
Il
premier Li Keqiang, che è un economista, ha fatto annunciare il nuovo
corso con articoli entusiasti sui giornali del partito comunista. Ma i
contenuti reali del progetto ancora oggi sono tutti da chiarire.
Solo
venerdì il Consiglio di Stato (il governo di Pechino) ha pubblicato le
linee guida. Un comunicato esile. La «Free trade zone» comprende sei
settori: servizi finanziari; spedizioni e logistica; commercio; servizi
professionali; cultura e intrattenimento; salute e istruzione. Segue un
elenco di 18 nuove possibilità di impresa libera nel settore dei
servizi: si va dagli studi legali alle assicurazioni, alle cliniche,
alle agenzie turistiche.
Il cuore di questo laboratorio
riformista è il settore finanziario: Li Keqiang vuol provare a lasciare
che sia il mercato a fissare i tassi di interesse, permettere alle
aziende di cambiare liberamente yuan in valuta straniera e di muovere
questi capitali verso l’estero. Le banche internazionali (comprese
alcune italiane) si stanno preparando ad allargare le operazioni, ma
Pechino ha già avvisato che gli esperimenti «avanzeranno quanto sarà
consentito dalle condizioni... i rischi saranno controllati». E il
periodo del test sarà di non meno di tre anni. Poi si vedrà se il
modello Shanghai potrà essere allargato al resto della grande Cina. Il
comunicato ricorre anche al linguaggio saggio e ispirato tipico della
burocrazia in mandarino: «Ciò che sarà maturo sarà colto prima e poi si
avanzerà un passo dopo l’altro».
I banchieri di alcuni grandi
istituti cinesi a Shanghai avvertono che le direttive sono troppo vaghe e
quindi anche loro non sanno ancora quello che potranno davvero fare. Il
professor Chao Gangling, dell’Università di economia di Shanghai dice
al Corriere che «sulla convertibilità dello yuan Li Keqiang ha
incontrato resistenze da parte della Banca centrale e dei ministeri
coinvolti».
Lu Ting, analista di Bank of America Merrill Lynch
sostiene che il paragone con la zona speciale di Shenzhen lanciata da
Deng all’inizio della via cinese al capitalismo non regge: «La finanza
non è come il commercio dei prodotti, la finanza è invisibile e scorre
da un luogo all’altro con grande rapidità...».
L’agenzia
Bloomberg ha fatto un sondaggio tra i principali gruppi di analisti
finanziari: 8 su 15 hanno risposto che la zona libera di Shanghai non
avrà effetto o quasi sulla crescita della Cina per i prossimi cinque
anni. Secondo questi osservatori l’impatto sulla crescita potrebbe
essere tra lo 0,1 e lo 0,5%. Il professor Chao replica: «Non è il Pil di
28 chilometri quadrati di Shanghai che conta, ma il valore
dell’esperimento. Se riuscirà sarà allargato...».
Quelli che
l’affare l’ha già fatto sono gli immobiliaristi: nell’ultimo mese i
prezzi del mattone intorno al perimetro della Free trade zone sono
cresciuti tra il 20 e il 30%. Ma non tutti sono felici: nella Zona
libera pilota, su un bell’edificio di appartamenti circondato da
grattacieli, gli inquilini hanno appeso uno striscione: «Protestiamo
energicamente contro i palazzinari dal cuore nero». I palazzinari
vogliono abbattere le loro case per costruire uffici.
Deluso
anche chi avevano sperato che nella Zona pilota sarebbe stato liberato
dalla censura Internet: la voce dello sblocco di Facebook e Twitter è
stata smentita. Con l’economia il potere fa esperimenti, con la
democrazia non si vuol cimentare.
Confermato invece che alle
industrie straniere all’interno della zona sarà permesso di produrre e
vendere le console per i loro videogame, finora bandite in Cina. Quelli
di Nintendo stanno già festeggiando, anche se dovranno fare i conti con
le copie pirata che si vendono spudoratamente agli angoli delle strade.
Piccole
prove di grande riforma. Un altro esempio è Christie’s: la casa d’aste
ha potuto tenere la sua prima vendita in territorio cinese allo
Shangri-la di Shanghai. Incassi per 24,9 milioni di dollari: la migliore
offerta è arrivata per una collana di rubini aggiudicata a 3,4 milioni.
Il battitore era una battitrice vestita di rosso, molto scenografica.
Tra i lotti un Picasso, un Warhol e un Morandi. La serata è stata
inaugurata da 12 bottiglie di Chateau Latour 2000 e sei magnum per 49
mila dollari; tre Chateau Margaux del 1986, 1990 e 2009 sono andate via
per 62 mila dollari. Ai nuovi cinesi piace investire nel vino europeo.
Siamo
venuti qui a celebrare la grande apertura della «Zona pilota di libero
scambio» di Shanghai: ma la domenica sembra un giorno strano per
lanciare un’iniziativa finanziaria, visto che i mercati internazionali
sono chiusi. E poi, da domani e per tutta la settimana, sarà la Cina a
fermarsi per la festa nazionale che celebra la fondazione della
Repubblica popolare. Anche questo è un segnale della cautela con cui la
Cina cambia passo.
Repubblica 30.9.13
Nigeria, Boko Haram fa strage di studenti
Assalto
ad un collegio nel nord del Paese: almeno 50 morti, colpiti mentre
dormivano“Vogliono distruggere le scuole per condannarci alla povertà
eterna”
Parla la scrittrice Lola Shoneyin: “Gli estremisti sognano un popolo senza speranze”
“Per vincere davvero questa guerra ci vogliono insegnanti, posti di lavoro e una società senza corruzione”
di Francesca Caferri
L’EDUCAZIONE,
quella di una giovane donna in particolare, è centrale nelle pagine del
suo primo e acclamato romanzo “Prudenti come Serpenti”. Naturale dunque
che Lola Shoneyin, voce fra le più importanti della nuova letteratura
africana, abbia le idee chiare sul nuovo attacco, l’ultimo di una serie,
condotto da Boko Haram contro una scuola. «Stanno cercando di tagliare
alle radici il futuro di questo paese», dice alla vigilia della sua
partenza per l’Italia, dove sarà fra i protagonisti del festival della
rivistaInternazionale.
Lola Shoneyin, perché sempre più spesso gli estremisti di Boko Haram scelgono le scuole come obiettivo?
«La
risposta sta nel loro nome: Boko Haram, ovvero l’educazione occidentale
è proibita.Sparare su una scuola vuol dire uccidere giovani ma
soprattutto terrorizzare centinaia di genitori che domani non manderanno
in aula i figli per timore che la prossima volta tocchi a loro. Questo
in una zona come il Nord della Nigeria, dove ci sono aree in cui il
tasso di istruzione femminile è del 5%, significa mettere un’ipoteca sul
futuro di un’interagenerazione».
Sta dicendo che non è solo una questione religiosa a muovere Boko Haram?
«Certo,
non è solo religione. La fede ha un ruolo, perché parliamo di
estremisti motivati da un credo deviato e estremamente conservatore. Ma
la questione di fondo è la povertà: Boko Haram va a pescare fra chi non
ha speranze e pensa che morire aspirando al paradiso sia meglio che
vivere senza prospettive. La colpa della situazione che sta minando alle
basi la stabilità della Nigeria è della politica, di chi 20 o 30 anni
fa ha lasciato migliaia di giovani senza istruzione e quindi senza
possibilità di fare qualcosa nella vita. Sono questi ragazzi a militare
frale fila di Boko Haram oggi».
Il presidente Goodluck Jonathan ha
fatto della sconfitta di Boko Haram una priorità, inviando forze
speciali ad affrontare i terroristi. Sta funzionando?
«Il governo
centrale sta provando a fare qualcosa. Quello che non capisce è che non
basteranno i militari: non arrivano a percepire quanto il
fondamentalismo religioso abbia scavato a fondo nella società, occupando
gli spazi lasciati liberi dalla politica stessa. Per vincere davvero
questa guerra ci vogliono scuole, posti di lavoro e una società libera
dalla corruzione».
È Boko Haram il problema principale della Nigeria, come appare a noi occidentali, o la sua visione è un’altra?
«Il
problema vero della Nigeria si chiama corruzione. Siamo un paese
ricchissimo in cui il gap fra i pochi che hanno moltissimo e la
maggioranza che non ha nulla non fa che aumentare. La rabbia monta
sempre di più: Boko Haram è riuscito a incanalarla».
il Fatto 30.9.13
La guerra mite del generale Mini
di Furio Colombo
Fabio
Mini è un caso raro di militare scrittore. Non perché il genere sia
nuovo. Ma per una certa lieve serenità che scorre sulle sue pagine.
Eppure sono pagine sulla guerra (La guerra spiegata a..., Einaudi pag.
164) che cominciano con queste parole: “Mi chiedo spesso perché si debba
spiegare qualcosa di ovvio come la guerra, che riempie le biblioteche,
le cronache le fantasie”. Ecco, è in quella parola, “ovvio”, che Mini
trova il percorso (e il linguaggio) originale di questo suo scrivere in
cui l’autore, che è un militare con molte missioni nel mondo alle
spalle, compie tre mosse felici.
CON LA PRIMA ci fa sapere che
tutta la sua carriera non fa di lui un esperto. Infatti dimostra fin
dalle prime pagine del libro che questo tipo di vanto è improprio, tanto
quanto dichiararsi esperto della realtà o della vita, solo per il fatto
di essere vivi. Con la seconda lui, militare, che dovrebbe essere tutto
fatti provati e basta, segue invece (una pura ma illuminante
coincidenza) il percorso intellettuale di chiedersi - sezione per
sezione del libro - che cosa è la guerra. In questo modo resta accanto
all’ordigno senza farlo esplodere (la metafora è del recensore) ma non
ne diventa mai il finto e poco credibile oppositore o il realistico,
antico campione della frase ancora più ovvia che ripete “la guerra è
guerra”. La terza mossa è il pensare umanistico piuttosto che tecnico.
Infatti noto la curiosa affinità del procedere di Mini verso la guerra
con quello di Luciano Berio quando si è messo al lavoro sulla musica,
rivolgendo a tutti, compositori, esperti, amici, la domanda: “Che cosa è
la musica” (e ricavandone un bellissimo programma televisivo, C’è
Musica e Musica, 1972 ).
Mini non dice, non dice mai: “C’è guerra e
guerra”. Vede e considera come tanti oggetti diversi i vari modi di
sentire o volere o chiedere o accettare la guerra, passando anche da
Tommaso d’Aquino o da Machiavelli o dalla Harvard Kennedy School of
Government. Resta però sempre accanto, mai dentro l’oggetto osservato, e
in questo senso, nonostante il buon linguaggio umanistico, appare
scienziato fedele all’ammonimento: conoscere ma mai alterare il
fenomeno.
Mini riesce a imporsi di stare lontano dalla
celebrazione e dallo scandalo. In compenso la sua analisi è precisa e
necessaria, due caratteri desiderabili nella poesia e nella medicina. E
infatti c’è qualcosa di lieve e di perentorio nel suo linguaggio che
spinge a seguirlo volentieri come si segue una bella voce.
Con lui
si scopre che nulla è stato mai predetto dei o sui conflitti, che la
politica è la madre di tutte le guerre. E che la mente umana può ben di
più che distruggere. I diritti umani possono essere la nuova frontiera
(la nuova strategia) della mitica sicurezza.
Corriere 30.9.13
Annibale, guerriero perfetto ma eroe delle cause perse
Umiliò i Romani, poi Cartagine lo tradì negandogli i rinforzi
di Paolo Mieli
Polibio
ne lodò esplicitamente «il modo di esercitare il comando, il valore e
la forza sul campo». Napoleone Bonaparte ne esaltò la grandezza e lo
collocò sullo stesso piano di Alessandro Magno e Giulio Cesare. Sigmund
Freud, fin da giovane, ne scrisse con ammirazione, idealizzandolo come
un «semita» che aveva avuto il coraggio di sfidare Roma. Nel 1934, il
presidente turco Mustafa Kemal Ataturk gli dedicò un panegirico a
Libissa, luogo in cui 2117 anni prima il comandante cartaginese si era
dato la morte con il veleno per non essere catturato dai romani.
Panegirico che doveva suonare a monito nei confronti di Benito
Mussolini, il quale si proponeva come restauratore dei fasti di
quell'antica Roma che, pur dopo essere stata da lui umiliata, alla fine
era riuscita a sconfiggere il generale africano. In anni recenti gli
afroamericani lo hanno considerato il grande eroe nero dell'antichità
(anche se probabilmente non era di pelle scura). Adesso, in un libro che
sta per essere pubblicato da Laterza, L'arte del comando (nella
convincente traduzione di Giuliana Scudder), Barry Strauss sostiene che,
per certi versi, il grande generale cartaginese superò Alessandro e
Cesare. «Probabilmente», scrive, «fu Annibale il più grande comandante,
sia in combattimento sia sul campo... Con la battaglia di Canne realizzò
uno degli esempi di accerchiamento più eleganti e distruttivi che gli
annali della storia militare ricordino». Si può dire che fu «l'eroe
della cause perdute e delle battaglie perfette».
Come Alessandro
con Filippo II, Annibale aveva appreso l'arte militare dal padre:
Amilcare Barca. Quando attaccò Roma aveva 29 anni e da 20 non aveva più
messo piede a Cartagine. A fianco del padre, in Spagna, aveva fatto sua
l'«abilità del sorprendere». Quando varcò le Alpi, portando con sé gli
elefanti, «lasciò il nemico a bocca aperta». Accerchiò i romani «con una
serie di stratagemmi inauditi»: riuscì «a forzare le porte di una città
inespugnabile»; caricò il nemico con la cavalleria da un nascondiglio
alle sue spalle; in una notte riuscì a portare in salvo il suo esercito
sotto il naso dei romani. Non ebbe remore di carattere umanitario: la
prima cosa che fece, quando nel 218 a.C. giunse in Italia, fu massacrare
gli abitanti di Torino per spezzare la resistenza nell'area
circostante; e quando 15 anni dopo, nel 203 a.C., lasciò l'Italia,
uccise gli italici che si rifiutavano di seguirlo. Ugualmente crudeli,
del resto, furono gli altri due condottieri: Alessandro rase al suolo
Persepoli con una dose non necessaria di sadismo; Cesare, scrive
Plutarco, sterminò in Gallia un milione di persone (e ne ridusse in
schiavitù altrettante).
Roma controllava i mari e i porti vitali
della Sicilia e della Sardegna. Così Annibale, non potendo cercare
rifornimento nei porti delle due isole, fu costretto a compiere un
viaggio di 1.600 chilometri, dalla Spagna meridionale all'Italia
settentrionale. A quei tempi Roma aveva a disposizione un esercito
potenziale di 760 mila uomini, Annibale di 60 mila, che si sarebbero
ridotti a 26 mila dopo l'attraversamento delle Alpi. La sua arma
principale, oltre a quella di colpire il nemico a sorpresa, era (avrebbe
dovuto essere) quella di provocare defezioni nel campo degli alleati di
Roma. Ci riuscì davvero e fino in fondo solo con i celti. In ogni caso
comunicava agli italici di essere sulle loro terre non come
conquistatore, ma come liberatore e, dopo ogni vittoria, riduceva in
schiavitù i romani, ma liberava tutti i prigionieri italici.
Annibale,
a detta di Strauss, «impersonò la figura del vendicatore e del
liberatore e trovò la via per avvicinarsi agli dei». A Cartagine promise
di restituire l'onore perduto a causa dell'antica sconfitta subita da
Roma nella Prima guerra punica; agli italici disse che avrebbe loro
restituito «la libertà dalla dominazione romana» (anche se Cartagine,
diffidente nei confronti della famiglia Barca, nel momento decisivo gli
lesinò gli aiuti). Affermò, Annibale, di essere protetto dal dio
cartaginese Melqart, da Ercole e si descrisse come un eroe tratto dalla
mitologia celtica. Ma, precisa Strauss, «a differenza di Alessandro non
dichiarò mai di essere un dio, e si limitò ad affermare di essere sotto
la protezione divina». Per questo «il fascino che Annibale esercita sui
diseredati ha radici solide». Nessuno stratega «è riuscito a realizzare
una invasione così rischiosa come la marcia di Annibale attraverso i
Pirenei, il Reno e le Alpi fino in Italia; nessun comandante ha ottenuto
una vittoria tattica così definitiva come quella di Annibale a Canne...
Nessuno ha saputo riorganizzare con tanta fermezza i popoli invasi come
lui quando entrò in Italia al grido "l'Italia agli Italici"». Dopo
«aver sfidato un impero arrogante e averlo scosso fino alle radici,
perse tutto; ma conservò la propria dignità; nella sconfitta reinventò
se stesso come amministratore, ricominciò la lotta contro Roma in
Oriente, e rifiutò l'umiliazione di una marcia trionfale del nemico…
Morì da sconfitto, ma non piegato».
Tito Livio definì il conflitto
che oppose Annibale a Roma (218-201 a.C.) «la più memorabile di tutte
le guerre che vennero mai combattute». «A mio parere», ha scritto Werner
Huss in Cartagine (Il Mulino), «i romani non potevano accampare nessuna
valida ragione di diritto internazionale quando nel 218 a.C. entrarono
nella guerra che doveva decidere dell'egemonia nell'area del
Mediterraneo occidentale». Questo semplice fatto «fu però messo in ombra
dalle affermazioni dei politici e storici romani, che da un lato
ritennero politicamente inopportuno dire la nuda verità, dall'altro
erano intimamente convinti che ogni guerra combattuta da Roma fosse una
"guerra legittima"». Se i romani, prima dello scoppio della guerra, si
videro costretti ad agire in base a un pretesto giuridico — il presunto
obbligo di alleanza nei confronti della città iberica di Sagunto, cuneo
romano nella Spagna cartaginese, espugnata da Annibale nel 219 a.C. —
questo, secondo Huss, «non solo dimostra che erano consapevoli della
illegittimità della loro azione, ma lascia anche pensare che si
rendessero pienamente conto della grande importanza della loro
decisione».
Se poi dobbiamo accettare la massima napoleonica
secondo cui «in guerra non sono gli uomini ma l'uomo che conta», ha
scritto Basil H. Liddell Hart in Scipione Africano (Bur), «il fatto più
significativo è che Alessandro e Cesare ebbero il terreno spianato dalla
debolezza e dall'ignoranza dei comandanti che li contrastarono».
Annibale, no. Solo Annibale («al pari di Scipione») combatté
regolarmente contro generali esperti. Però, prosegue Liddell Hart, «le
sue tre vittorie decisive — Trebbia, Trasimeno e Canne — vennero
riportate su generali non solo ostinati e precipitosi, ma anche
scioccamente refrattari a qualsiasi tattica che contasse sull'astuzia
piuttosto che sul puro e semplice impiego della forza bruta». Annibale
ne era consapevole, tant'è che alla vigilia della battaglia della
Trebbia, esaltando l'attitudine a individuare le opportunità e la
prontezza nel coglierle, avvertì i suoi: «Avete a che fare con un nemico
ignaro di queste arti della guerra». Barry Strauss lo descrive invece
come un generale senza scrupoli che «con una élite esperta e un piccolo
esercito riesce a mettere fuori combattimento un gigante d'argilla»:
tipo Hernán Cortés, che nel 1519 con appena seicento uomini affrontò gli
aztechi e nel 1521 avrebbe conquistato l'intero Messico.
Già
Pirro, re dell'Epiro, nel 280 a.C. aveva invaso l'Italia meridionale e
aveva quasi piegato Roma. Generale dotato dello stesso carisma di
Annibale, scrive Strauss, «anche Pirro aveva un esercito piccolo ma
esperto, completo di cavalleria e di elefanti... Al contrario di
Annibale, aveva anche numerosi alleati italici». Vinse due importanti
battaglie campali contro Roma, ma subì perdite talmente gravi che le
vittorie si trasformarono in sconfitte: Roma rifiutò di arrendersi,
riguadagnò gli alleati che fornirono nuove truppe e ottenne l'appoggio
di Cartagine, timorosa che Pirro potesse invadere la Sicilia. Così,
cinque anni dopo, nel 275 a.C., il re dell'Epiro fu costretto a
tornarsene a casa a mani vuote.
Annibale, passate le Alpi, dove,
come si è detto, aveva perso oltre la metà del suo esercito, anziché
fermarsi a riprendere fiato, come tutti si aspettavano, inflisse due
terribili sconfitte ai romani: sul Ticino, dove umiliò Scipione, padre
di quello che sarebbe divenuto l'Africano, e sulla Trebbia, dove circa
28 mila uomini (due terzi dell'esercito di Roma) furono uccisi o presi
prigionieri. Qui Tito Sempronio Longo non ebbe il coraggio di dire a
Roma la verità circa l'accaduto e raccontò che una tempesta «aveva
ostacolato la vittoria». Nel 217 a.C., l'anno successivo a quello del
passaggio delle Alpi, Annibale attraversò gli Appennini e si impantanò
nelle paludi dell'Arno, un luogo acquitrinoso, che causò notevoli
perdite alle armate cartaginesi. Ma anche stavolta non si perse d'animo e
inflisse ai romani un nuovo scacco sulle rive del Trasimeno. Tra
uccisi, feriti o catturati, altri 30 mila romani furono fatti fuori,
mentre l'esercito di Annibale subì la perdita di 1.500 uomini,
prevalentemente celti. Qui si pone per la prima volta la questione di
Maarbale, il valoroso generale cartaginese che, secondo gli approfonditi
studi di Dexter Hoyos, già allora avrebbe fatto pressione per attaccare
immediatamente Roma, che dista appena 137 chilometri dal luogo della
battaglia e che in quel momento era difesa da non più di 10 mila militi.
Ma Annibale sceglie di aggirare la città nemica per dirigersi verso
sud, in cerca di nuovi alleati e di una ricompensa per le sue truppe. E
gli storici sono pressoché unanimi nel giudicarla una buona scelta.
Roma
a questo punto corre ai ripari affidandosi a un dittatore: Quinto Fabio
Massimo, grande esperto nell'arte di temporeggiare, non attaccare
frontalmente l'avversario (limitandosi a infastidirlo con azioni di
guerriglia). Il suo piano, secondo Plutarco, era di «mandare piuttosto
soccorso agli alleati, perché, conservando essi le loro città,
logorassero le forze di Annibale come fiamma che brucia alimentata da
scarsa e leggera materia». Si discute ancora, ha scritto Fabio Mini in
Eroi della guerra. Storie di uomini d'arme e di valore (Il Mulino), se
il Temporeggiatore avesse trovato «una tattica asimmetrica» o fosse
soltanto «un inetto che si accontentava di sopravvivere». Di certo «era
più attento al clima politico del Senato che alla ricerca dello scontro
con Annibale, il quale poté continuare a muoversi con relativa
facilità». Annibale, ha proseguito Fabio Mini, «comprese che la
strategia indiretta del sollevamento locale contro Roma non dava i
frutti sperati e i romani mantennero il controllo del territorio». Ma
«anch'essi erano vicini al collasso psicologico». Tra l'altro, scrive
Strauss, la cultura romana amava l'offensiva e disprezzava la strategia
difensiva, i soldati scalpitavano per la passività del loro comandante e
il popolo di Roma gli diede lo spregiativo nomignolo di «servo di
Annibale». A compensare, parzialmente, questa inattività romana, arriva
la notizia della splendida vittoria navale alla foce dell'Ebro e di
altre prodezze terrestri di un altro Scipione a danno di Asdrubale,
fratello di Annibale, da lui lasciato a presidio della Spagna.
A
fine 217 a.C. il Temporeggiatore lascia l'incarico, viene sostituito da
due consoli e il 2 agosto dell'anno successivo Roma perderà in un giorno
tante persone quante il Giappone oltre duemila anni dopo a Hiroshima.
Stiamo parlando della battaglia di Canne, dove i romani, pur disponendo
del doppio di uomini dei loro nemici, furono travolti da Annibale, che
ne uccise 48 mila e ne fece prigionieri altri 20 mila (il 75 per cento
del loro esercito). I nuovi consoli, Gaio Terenzio Varrone e Lucio
Emilio Paolo, avevano deciso di farla finita con le tattiche di Quinto
Fabio Massimo e di cercare, perciò, lo scontro. Comandavano, però, a
giorni alterni: Paolo, il più prudente, decise il 1° agosto di non
rischiare; Varrone, il giorno successivo, attaccò e per Roma fu la fine.
O quasi. Annibale accerchiò e travolse i romani con un modulo di
battaglia che sarebbe stato studiato nei secoli: nel 1905 la strategia
cartaginese ispirò il piano del generale tedesco Alfred Graf von
Schlieffen, ma nel 1914 l'esercito della Germania imperiale non riuscì
ad applicarlo e a ripetere l'impresa a danno dei francesi. Per Roma
l'agosto del 216 a.C. a Canne fu un ricordo terribile: «L'elenco dei
morti era un "chi è" della élite romana: vi appartenevano 80 senatori o
persone eleggibili come membri del Senato, 29 tribuni militari, numerosi
ex consoli e il console Paolo, uno dei comandanti dell'esercito
romano», nota Strauss. Sopravvisse Publio Cornelio Scipione, che trovò
rifugio a Canosa. E qui torna in scena per la seconda volta Maarbale,
che suggerisce ad Annibale di puntare dritto su Roma. Nel giro di cinque
giorni, gli diceva, avrebbe potuto cenare sul Campidoglio. Si offrì di
andare avanti lui e di affrontare la parte più impegnativa della
battaglia. Ma Annibale gli rispose di no. Al che Maarbale, secondo Tito
Livio, gli avrebbe detto: «Evidentemente gli dei non hanno concesso
tutti i doni a uno stesso uomo: tu, Annibale, sai vincere, ma non sai
approfittare della vittoria». Il grande condottiero cartaginese, però,
non si lasciò persuadere. Pretendeva, prima di impegnarsi nello scontro
decisivo, di avere una migliore disposizione sul campo delle alleanze. A
questo punto Strauss si domanda se Maarbale avesse ragione e, a
differenza di quasi tutti gli storici che si sono occupati delle guerre
puniche, conclude che difficilmente, con la strategia d'attacco
suggeritagli dal proprio braccio destro, il comandante cartaginese
avrebbe costretto Roma alla resa. Forse avrebbe dovuto attaccare Canosa,
per dare un ulteriore colpo all'esercito nemico in rotta e togliere di
mezzo l'uomo che lo avrebbe sconfitto, il giovane Scipione (questo però
Annibale non lo poteva immaginare).
Dopo Canne, in ogni caso, la
maggior parte dell'Italia meridionale (ma non di quella centrale) passò
con Annibale e così anche Filippo V di Macedonia. Il condottiero
africano promise che non avrebbe arruolato i loro uomini: gli era
sufficiente che non fossero più a disposizione di Roma. Ma, in un acuto
saggio dedicato a questa vicenda, Siegmund Ginzberg ha fatto notare come
fosse di fatto impossibile mandare in frantumi l'intelaiatura di
rapporti creata dai romani. E ha condiviso la tesi centrale del celebre
libro di Robert O'Connell, The Ghost of Cannae (Random House): «Annibale
analizzava la struttura delle alleanze di Roma come se studiasse una
radiografia ai raggi X, vedeva le strutture ossee; invece avrebbe avuto
bisogno di una risonanza magnetica, che gli mostrasse il tessuto
connettivo fatto dalle relazioni personali che Roma era riuscita a
stabilire tra i membri del proprio gruppo dirigente e quelli dei gruppi
dirigenti degli alleati, nonché i rapporti di clientela... Era proprio
quello l'elemento che teneva insieme l'alleanza romana; Annibale non
riuscì mai a cogliere fino in fondo quanto fosse forte, quindi non
riuscì a spezzarla del tutto, anche dopo aver vinto una battaglia dietro
l'altra».
Ma torniamo al dopo Canne. La città più importante che
passa dalla sua parte è Capua e lì stabilisce il suo quartier generale.
Annibale, ricostruisce poi Fabio Mini, «girovaga per l'Italia
meridionale. Sosta, ozia, attacca, si lascia invischiare nelle
meschinità locali. Dalla Campania organizza una spedizione, attraversa
il Sannio e punta su Roma. Arriva a tre chilometri dalla città e si
ferma. Non ha le forze per distruggerla, né per piegarla; combattendo
sotto le sue mura costituirebbe un obiettivo per tutte le legioni romane
e gli alleati, sa di non avere il controllo delle linee di rifornimento
e non è sicuro del supporto di Cartagine in mano ai politicanti».
Preferisce tornare in Apulia, sconfigge i romani a Oderno e a Locri, ma
quelli riescono a riprendere il controllo del Sannio e della Campania.
In
merito a tali circostanze, Barry Strauss rende esplicito omaggio al
fondamentale volume di Michael Fronda, Between Rome and Carthage.
Southern Italy during the Second Punic War (Cambridge University Press),
nel quale è ben argomentata la tesi secondo cui, avendo Roma un numero
pressoché illimitato di soldati (Polibio ne calcolava circa 800 mila,
comprendendo quelli «prestati» dalle città italiche), l'unica iniziativa
di Annibale che avesse senso strategico era quella di sottrarle il
maggior numero possibile di alleati e con questi alleati la metà degli
uomini in armi su cui avrebbe potuto contare. Cioè quello che provò a
fare. Inviando suo fratello Magone a Cartagine, nel 215 a.C., con un
cesto di anelli d'oro sottratti ai nobili romani uccisi o fatti
prigionieri a Canne, per chiedere un aiuto che il Senato della città
concesse malvolentieri. Roma a questo punto riuscì con un assedio di due
anni, dal 213 al 211 a.C., a riconquistare Siracusa, che era passata
con Cartagine (nella battaglia fu ucciso il grande matematico Archimede,
il quale si era messo a disposizione della difesa della città) e la
Sardegna. Poi attaccò Nuova Cartagine in Spagna. E sfondò nella penisola
iberica. Annibale, scrive Strauss, non aveva tenuto conto di una
fondamentale legge di guerra: se invadete un Paese, non permettete che,
per rivalsa, questo invada il vostro.
Qui entra in scena Publio
Cornelio Scipione, che sarà detto l'Africano. È nato nel 235, ha 12 anni
meno di Annibale, contro il quale ha combattuto, diciassettenne, a
fianco del proprio padre nella battaglia del Ticino: padre che sarà
ferito e che lui stesso trarrà in salvo con un'azione davvero eroica.
Mentre Annibale è in Italia, travolge i romani e conosce successo dopo
successo, Scipione si fa nominare proconsole per la Spagna e riesce a
riconquistare la penisola iberica. Forte di questa impresa, si propone
di attaccare Cartagine, costringendo in questo modo Annibale a tornare
in Africa per difendere la sua città. Ma il Senato lo osteggia, Quinto
Fabio ironizza sulla sua giovane età e, scrive Fabio Mini, «allude al
fatto che si tratti di una sua manovra per avere gloria lontano da dove è
il pericolo, cioè Roma». Quinto Fabio, secondo Mini, attribuisce a
Scipione «un vizio comune a quel tempo come oggi, un vizio di cui lui
stesso era esempio vivente»: le armate «sono reclutate per la protezione
della città, non per i consoli che, come sovrani, le portino per il
mondo ove loro aggrada per motivi di vanità personale». La risposta di
Scipione è caustica: «Affronto il nemico che voi mi assegnate, ma voglio
essere io a trascinarlo dietro a me piuttosto che sia lui a
trattenermi... Chi porta il pericolo su di un altro ha più spirito di
chi deve respingerlo, il terrore si moltiplica con la sorpresa e
l'inaspettato… purché non sorgano impedimenti, qui presto sentirete che
in Africa è scoppiata una guerra e che Annibale sta lasciando l'Italia».
Il Senato, «in un costume sopravvissuto fino ad oggi in molte parti del
mondo» (Mini), se la cava con un marchingegno, nominando Scipione
console in Sicilia, così che sia lui nella sua autonomia a prendersi la
responsabilità di attaccare Cartagine. E Scipione se la prende.
Scacciati
i cartaginesi dalla Spagna, sconfitto Asdrubale nella battaglia di
Becula (208 a.C.), si fa eleggere console (205 a.C.), mette insieme un
suo esercito personale il cui nerbo è composto da sopravvissuti di Canne
e sbarca in Africa (204 a.C.). Qui si allea con Massinissa e riesce a
spezzare l'alleanza di Cartagine con la Numidia. I cartaginesi provano a
trattare la pace con Roma, poi inviano (inutilmente) Magone in Italia a
soccorrere Annibale, infine nel 203 a.C. richiamano lo stesso Annibale
in patria. Il comandate non rientra in città, si accampa anzi a 120
chilometri, nei pressi del porto di Adrumeto. E mentre si prepara allo
scontro decisivo, capisce di essere spacciato. Strauss ipotizza che se,
come lo esortava a fare il Senato di Cartagine, avesse attaccato prima,
quando ancora Massinissa non si era ricongiunto a Scipione, forse... Ma
poi lui stesso ammette che Scipione non avrebbe accettato il confronto
militare fino a quando non si fosse congiunto alla cavalleria dei
numidi. Perciò a quel punto non c'era via d'uscita.
Prima della
battaglia di Zama (202 a.C.), Annibale a sorpresa chiede di incontrare
Scipione. «I resoconti di questo colloquio», scrive Liddell Hart,
«devono essere considerati importanti solo nelle loro linee generali e
pertanto — anche a causa delle lievi divergenze tra le varie fonti —
sarebbe più conveniente parafrasarli, ad eccezione di alcune delle frasi
più pregnanti». Il tema principale su cui si sofferma Annibale è
«l'incostanza della fortuna». Annibale sa che perderà e così si rivolge
al suo giovane interlocutore: «Quello che io fui al Trasimeno e a Canne,
quello sei tu oggi... Adesso sono qui in Africa, ridotto a dover
discutere con te, che sei romano, della salvezza mia e di quella dei
cartaginesi; proprio in considerazione di questo io ti consiglio di non
essere superbo». Dopodiché elenca condizioni di pace a tal punto
favorevoli a Cartagine che per Scipione è facile respingerle. Perché
allora aveva voluto quell'incontro? Secondo Strauss, Annibale aveva
intuito che anche Scipione aveva problemi con il suo governo e quello
era un modo di suggerirgli che «c'era tra loro molto in comune, che
erano avversari non nemici e potevano essere utili l'uno all'altro,
comunque fossero andate le cose... Il perdente poteva ottenere clemenza e
il vincitore avrebbe saputo di avere nel campo avverso un uomo che
rispettava». Dopodiché Zama fu una Canne capovolta: i cartaginesi
persero 20 mila uomini e altrettanti ne furono fatti prigionieri; i
morti di Scipione furono 1.500. La sua vittoria fu schiacciante.
Ma
Scipione, probabilmente anche a seguito del colloquio di cui si è
detto, si oppose a che Annibale fosse portato a Roma in catene. Anzi,
consentì che mantenesse ruoli pubblici nella sua città. E qui accade
qualcosa a cui Strauss dedica grande attenzione. Tornato al potere nel
196 a.C., Annibale ritenne che il compito più urgente fosse quello di
riordinare le finanze dissestate. Ci provò e ci riuscì. Ma, nota Werner
Huss, entrò in conflitto con il «ministro delle finanze», che
apparteneva al partito aristocratico. Propose anche una riforma molto
ardita, che ridimensionava il Consiglio dei Centoquattro, organo supremo
della politica cartaginese, e fu a quel punto che i suoi nemici
interni, «senza alcun ritegno», lo indicarono ai romani come se fosse
tornato ad essere pericoloso.
In realtà stava solo diventando un
uomo politico di grande peso. È quello che Barry Strauss definisce il
«paradosso di Annibale»: nel momento stesso «in cui si spegnevano i suoi
sogni di gloria militare, si svelava la sua capacità politica». «Quando
aveva stabilito un rapporto con Scipione, aveva fatto probabilmente
l'unica cosa che poteva fare per salvarsi dall'esilio e dalla morte... A
quel punto cominciò a reinventarsi come statista e riformatore, facendo
per Cartagine quel che Cesare avrebbe fatto per Roma, e anche di più».
Ma, scrive Huss, i romani — nonostante Publio Cornelio Scipione Africano
si battesse in sua difesa e gli desse fiducia — inviarono a Cartagine
una missione per fare chiarezza su questa nuova situazione (anche se lo
scopo ufficiale degli emissari era quello di dirimere una vertenza sui
confini tra Cartagine e Massinissa). Ovvio, afferma Strauss, «dopo
Annibale, Roma non si sarebbe più fidata davvero di Cartagine e avrebbe
finito col vendicarsi di Canne in un modo tale da far sembrare quel
massacro una lotta a cuscinate».
Annibale capì l'antifona e fuggì a
Efeso, alla corte di Antioco. Era l'anno 195 a.C. e da quel momento
avrebbe girovagato, ma non avrebbe mai più rimesso piede a Cartagine.
Dopo la sua fuga, i romani gli diedero la caccia e nel 183 a.C., quando
stava per essere catturato, Annibale si uccise, a Libissa nei pressi di
Istanbul, il luogo in cui — come si è detto all'inizio — lo avrebbe
celebrato Ataturk. Quanto a Cartagine, divenuta anche per merito di
Annibale di nuovo fiorente e prospera, cinquant'anni dopo (146 a.C.) i
romani, che non se ne fidavano, l'avrebbero rasa al suolo in maniera
definitiva. E trascorsi cento anni, nel 46 a.C. Giulio Cesare l'avrebbe
rifondata come colonia romana, popolata da abitanti che provenivano
dall'Italia. Ma da quel momento per Cartagine fu tutta un'altra storia.
Secondo
Strauss gran parte della responsabilità per il fallimento dell'impresa
di Annibale ricade sul governo cartaginese, che nel 215 a.C. aveva
rifiutato di inviargli i rinforzi richiesti. Ma anche lui, dopo la
sconfitta di Asdrubale in Spagna nel 207 a.C., avrebbe dovuto capire che
la sua avventura in Italia non aveva più alcuna possibilità di successo
e non doveva restare lontano dall'Africa altri quattro anni. Nessuno
come lui seppe tenere in pugno i propri soldati che, a differenza di
quelli di Cesare e di Alessandro, mai si ammutinarono. Il suo principale
difetto era che «non sapeva, al contrario di Cesare, immaginare il
futuro». Poi, per paradossale che possa apparire, tutta la sua vita e in
particolare la parte conclusiva dimostra che, a differenza di
Alessandro, «fu un ottimo amministratore, ma non un buon conquistatore».
I conquistatori, afferma Strauss, «continuano ad andare avanti finché
loro e i loro uomini cadono esausti o morti; gli uomini di Stato sanno
quando è il momento di fermarsi». Ma è difficile possedere entrambe le
doti. Ha scritto Winston Churchill: «Quelli che sanno vincere una
guerra, raramente sanno stabilire una buona pace, e quelli che hanno
saputo fare una buona pace, non avrebbero mai vinto la guerra». Annibale
avrebbe potuto essere l'unica eccezione nella storia.
paolo.mieli@rcs.it
Corriere 30.9.13
Luce d'Eramo, alla caduta del Duce in divisa fascista
di Arturo Colombo
Una
delle nostre scrittrici più brillanti, ma purtroppo non altrettanto
nota, è Luce d'Eramo (nata a Reims, in Francia, nel 1925, e scomparsa
dodici anni fa).
Lo conferma questo suo saggio intitolato Il 25
luglio (edizioni Elliot, pp. 59, € 7,50), che racconta in prima persona
come abbia «vissuto» quella giornata del lontano 1943, segnata
dall'improvvisa messa in minoranza di Mussolini da parte del Gran
Consiglio del fascismo. In villeggiatura dalla nonna ad Alatri, poco
prima di mezzanotte la diciottenne Luce viene a sapere dall'amica
Graziella che cos'era successo tanto all'improvviso, compresa la folla
che «a Roma era come ubriaca di gioia».
Così, spirito
controcorrente, non solo decide di tornare subito col treno nella
capitale, ma di andarci indossando addirittura la divisa fascista.
«Quelli furono i primi momenti realmente passionali della mia vita»
scrive; e annota tutto quanto accade in quell'affollato vagone, dove
c'erano viaggiatori che «gridavano e si scalmanavano perché ancora non
ci credevano veramente», mentre altri «con una voce stizzita elencavano i
delitti e gli orrori del fascismo con un'acredine che mi lasciava di
stucco».
Ma che cos'era vero in quelle ore così convulse, dove
ciascuno, pur di farsi sentire, era pronto a liberissime confidenze, non
prive di opposti giudizi? «Quello che dicevano prima o quello che
dicono ora ?», si chiede la d'Eramo, personalmente alla ricerca di
qualche inequivocabile verità. Purtroppo per noi, odierni lettori, il
racconto-testimonianza si ferma qui, perché la d'Eramo confessa di non
aver «più trovato il seguito». Tuttavia, già apparse nel 1999, queste
pagine non solo danno la misura della straordinaria franchezza con cui
l'autrice ha il coraggio di parlare di sé, ma servono a spiegare anche
il suo successivo tormentato iter biografico, che — alla continua
ricerca della verità — poco più tardi la porterà a scappare di casa, a
salire su un convoglio di deportati diretti al Lager di Dachau, poi a
vagare per la Germania sconvolta dai bombardamenti, fin quando il crollo
di un muro la lascerà per sempre paralizzata alle gambe.
È
quanto lei stessa vorrà raccontare parecchi anni dopo nelle pagine di
Deviazione (1979), un testo autobiografico carico del vigore narrativo e
della stessa genuina sincerità che troviamo in questo già nella
descrizione di questo 25 luglio.
La Stampa 30.9.13
Il telescopio che parla con l’universo
Costruito in Sardegna è il più moderno in Europa: lancerà messaggi mirati verso altri pianeti
di Giovanni Bignami
Il
Sardinia Radio Telescope è alto circa 70 metri ed è stato costruito con
tremila tonnellate di acciaio Alto come un palazzo di 20 piani ma con
un diametro di 64 metri. Ecco Srt, il Sardinia Radio Telescope, il più
moderno e il più performante radiotelescopio europeo, che s’inaugura
oggi a San Basilio, a nord di Cagliari. È fatto con 3.000 tonnellate di
acciaio, diecimila saldature, tolleranze di frazioni di millimetro: una
specie di incrociatore che deve puntare con la precisione di un
microscopio e ruotare meglio di un orologio svizzero. Una sfida
incredibile, durata molti anni e alla fine vinta da Inaf, Asi e Regione
Sardegna, insieme con un pool di industrie italiane ed europee.
Srt
guarderà il cielo profondo, cercando oggetti lontanissimi, mai visti
prima, per capire come è nato l’Universo o almeno se, quando era ancora
molto giovane, avesse già fatto stelle e galassie. L’Universo giovane e
perciò lontano è ancora un mistero per l’astronomia, eppure dobbiamo
decifrarlo: nell’Universo appena nato c’era già scritta tutta la nostra
storia. Nel nostro vicinato galattico, invece, si aggirano i misteriosi
pulsar e magnetar. Sono resti di stelle morte, densissimi, in rapida
rotazione e con enormi campi magnetici, i più alti dell’Universo. Sono
la miglior palestra per mettere alla prova la fisica che conosciamo, a
partire dal vangelo secondo Einstein, e per fortuna Srt potrà studiare
anche questi oggetti come mai nessuno ha fatto.
Per di più, Srt è
inserito in una rete mondiale di radiotelescopi, capaci di portare il
cielo sulla Terra, e di legare i due insieme. Sincronizzate fra di loro,
queste grandi antenne al suolo possono puntare insieme su uno stesso
oggetto, lontanissimo ed immobile. Anche se sembra incredibile, in
questo modo il sistema diventa capace di vedere come si spostano le
antenne, ed il terreno dove sono incementate, le une rispetto alle
altre. Si può così misurare accuratamente la deriva dei continenti sulla
Terra: per esempio, si vede che l’Africa sbatte contro l’Europa alla
velocità alla quale crescono le unghie di un neonato.
Ma una
grande antenna, oggi la migliore in Europa, fa gola anche alle Agenzie
spaziali, come Esa e Nasa, che hanno oggi e lanceranno domani sonde
planetarie lontanissime. Dai satelliti in orbita intorno a Marte, a
quelli che stanno per arrivare alle lune di Giove, a quelli che andranno
al di là dei confini del sistema solare, arrivano segnali sempre deboli
ma fondamentali per capire il nostro sistema solare. Srt è previsto
anche per questo scopo di servizio, e anche per questo Asi partecipa al
progetto.
Inaf ha già offerto Srt al grande pubblico, con un
progetto molto speciale: si tratta di scrivere ad ET, o almeno mandargli
un saluto. Sappiamo che molte delle stelle vicino a noi hanno pianeti,
alcuni dei quali sono abitabili (se non abitati). Con Srt possiamo
lanciare dei segnali, mirati accuratamente alle singole stelle, e
sperare che gli ET locali sappiano ascoltarli. Devono essere brevi:
inventiamo il twitter spaziale. Abbiamo già molti candidati. Eccone uno,
per epsilon Eridani, di autore che teniamo segreto: «La Terra è un
pianeta bellissimo, ma abitato dall’Uomo, il quale, sebbene dotato di
Divina intelligenza, è spesso cieco, avido e stupido e sta
sconsideratamente depredando il mondo sino alla distruzione. PER FAVORE,
AIUTO !!! ». L’originale è anche in inglese, perché l’autore non sa che
lingua parlino su epsilon Eridani. 60 3000 milioni tonnellate È il
costo dell’impianto, È il peso del radiotelescopio finanziato
principalmente alto circa 70 metri e che dal Miur, dall’Agenzia lavora
con un intervallo Spaziale Italiana e dalla di frequenza Regione
Sardegna da 0,3 z a 100 GHz.
La Stampa 30.9.13
Braque, l’emozione ha le sue regole
A
Parigi una grande mostra ripercorre la carriera di uno dei protagonisti
del ’900: la sua sperimentazione cubista ha cambiato il modo di vedere e
fare pittura
di Francesco Poli
Parigi. Nel mio
ricordo è Braque che ha realizzato il primo dipinto cubista. Aveva
portato dal Sud un paesaggio mediterraneo che rappresentava un villaggio
sul bordo del mare, visto dall’alto». Così scrive Matisse nella
Testimonianza contro Gertrud Stein, redatta nel 1935 da un gruppo di
artisti e critici per smentire gli ingiusti giudizi contro il pittore
normanno che si leggono nell’ Autobiografia di Alice Toklas. Matisse
(che peraltro è il primo a parlare di pittura fatta di «piccoli cubi»)
fa riferimento a uno dei paesaggi de L’Estaque esposti nel novembre 1908
nella galleria di Kahnweiler, in cui le distorsioni spaziali cézanniane
vengono portate all’estremo fino alla soglia della rottura della logica
prospettica tradizionale.
Anche se la precedente esperienza fauve
è significativa, è a partire da questa mostra che inizia la fase
cruciale della sperimentazione artistica di Georges Braque, quella
dell’invenzione e dello sviluppo analitico e sintetico della
scomposizione cubista, in stretta collaborazione con Picasso, dal 1909
al 1914. E in questa invenzione il contributo di Braque è stato per
certi aspetti più determinante, in particolare per quello che riguarda
l’inserimento di caratteri tipografici, e l’invenzione nel settembre
1912 dei papiers collés. Dopo aver creato insieme i presupposti per una
radicale rivoluzione del linguaggio plastico pittorico, le strade dei
due artisti si dividono. Mentre Picasso continuerà in maniera
travolgente a dominare la scena con un’evoluzione continua sempre
provocatoria della sua ricerca, Braque dal dopoguerra in poi, porterà
avanti il suo lavoro con mirabile coerenza, con evoluzioni e variazioni
mai eclatanti, riassorbendo la straordinaria tensione innovativa
dell’eroica stagione cubista all’interno di una più tranquillizzante e
meditata dimensione pittorica.
Gli aspetti fondamentali del suo
linguaggio (la frammentazione dei piani spaziali, la composizione intesa
come una partitura visiva, la separazione fra colore e forme,
l’elaborata fisicizzazione delle materie pittoriche) rimangono costanti.
Nel 1915 Braque viene gravemente ferito in guerra e ricomincia a
dipingere solo nel 1917. Questo trauma sembra cambiare definitivamente
il suo carattere, tanto che molti (tra cui per esempio Breton) pensano
che la sua energia inventiva si sia inesorabilmente affievolita. Ma è un
giudizio sbagliato, basato anche su un improponibile confronto con
l’effervescenza vitalistica di Picasso. Per capire veramente l’arte di
Braque bisogna guardare tutto l’insieme della sua produzione, bisogna
capire quello che è il peculiare registro della sua sensibilità, del suo
raffinatissimo senso della misura («la regola che corregge
l’emozione»), della sua sottile ironia metalinguistica, e della sua
profonda integrità allo stesso tempo etica ed estetica. E ci si può
rendere conto di questo, nel migliore dei modi, visitando la magnifica
esposizione che si aperta al Grand Palais, la più importante e completa
retrospettiva sull’artista dopo quella del 1973 all’Orangerie.
La
mostra, che ha una classica impostazione cronologica, è divisa in una
serie di sezioni che documentano con opere della più alta qualità, le
principali fasi della sua lunga avventura creativa: la coloratissima
esperienza fauve; tutti i passaggi essenziali delle sperimentazioni
cubiste (dal protocubismo cézanniano alla frammentazione analitica, dai
papiers collés alle solide composizioni sintetiche) ; le nature morte e
le figure degli Anni 20 (tra cui le classicheggianti Canéphores) ; le
nature morte e gli interni con figure degli Anni 30; l’affascinante
serie di figurazioni lineari ispirate alla Teogonia di Esiodo (1930-32) ;
i sorprendenti e sghembi Billards del 1944-49; le complesse e
stratificate composizioni dei grandi Ateliers (1949-56) che sono un
mirabile sintesi della sua sapienza pittorica; e infine, degli ultimi
anni, i semiastratti Oiseaux, con forti valenze poetiche metafisiche, e i
melanconici paesaggi quasi figurativi, di una accentuata orizzontalità
senza futuro.
L’impostazione cronologica impone un senso
filologico e documentario alla visita, certamente utile ma troppo
istituzionale (Braque è un monumento storico per i francesi), ma
impedisce, per certi versi, una visione meno eterodiretta. E quindi è
consigliabile alla fine del percorso ritornare indietro e guardare in
modo più libero le singole opere secondo criteri più anarchici, e forse
così si può arrivare a scoprire il vero segreto della visione estetica
di un grande artista come Braque. E in questo senso è bene ricordare
quello che ha detto Giacometti per rendere omaggio a Braque, in
occasione della sua morte: «Di tutta la sua opera, io guardo con più
interesse, curiosità e emozione i piccoli paesaggi, le nature morte
degli ultimi anni. Io guardo questa pittura quasi timida, imponderabile,
questa pittura nuda, di una ben diversa audacia, di una ben più grande
audacia di quella degli anni lontani; pittura che secondo me si situa al
vertice dell’arte d’oggi con tutti i suoi conflitti». Forse, questa
interpretazione esistenzialista di un artista che ha sempre
(apparentemente) evitato ogni valenza personale esplicita nel proprio
lavoro, è la più vera.
Organizzata in modo cronologico, permette di valutare l’evoluzione della sua ricerca
GEORGES BRAQUE PARIGI, GRAND PALAIS AVENUE WINSTON-CHURCHILL FINO AL 6 GENNAIO