mercoledì 2 ottobre 2013

«La grande apertura di Francesco ha bisogno di trovare uguale disponibilità anche nel mondo dei non credenti, dove spesso prevale una rigida chiusura rispetto alle domande latenti del nostro tempo»
l’Unità 2.10.13
Il commento
Francesco e il destino della modernità
di Mauro Magatti


Le notizie che, in questi anni difficili, arrivano dal mondo suscitano grande trepidazione: focolai di guerra e di violenza, una crisi economica che non si riesce a domare e che colpisce duramente le donne e i più deboli.
Si aggiungono democrazie in difficoltà e non solo l’Italia, ma anche gli Usa; fatti drammatici come le recenti, tragiche morti dei giovani etiopi sulle spiagge siciliane; vite dimenticate di tanti anziani che si muovono come relitti nelle strade delle nostre città o di tanti giovani che, insieme al lavoro, si vedono negare il futuro.
Il quadro non è tutto fosco, ci mancherebbe. Ci sono tanti che costruiscono, che lavorano per la pace e la giustizia, che reagiscono alla perdita del senso. Ma non si può negare che il tempo in cui ci capita di vivere sia colmo di incognite. La crisi economica del 2008 ci ha immesso, definitivamente, nel XXI secolo, che si staglia con le sue dinamiche così differenti da quelle del periodo storico alle nostre spalle. Al di là della propaganda quotidiana, sappiamo benissimo che il problema non è tornare indietro cosa che, oltre a essere impossibile, non è nemmeno desiderabile quanto capire come andare avanti, come immaginare e realizzare il nostro futuro.
È in questa cornice di profondo mutamento storico che deve essere collocata la figura di Francesco, il primo Papa non europeo, così lontano dalle logiche di piccolo cabotaggio della nostra politica e dalle preoccupazioni mondane di tanta parte della Curia. Con la sua elezione, è accaduto qualcosa di simile all’elezione di Woityla. Allora, la vicenda del Papa polacco si intrecciò con la caduta dell’Unione sovietica. Oggi, quella del Papa sudamericano si incrocia con i destini della globalizzazione.
Francesco sa che il suo compito è, prima di tutto, quello di rinnovare la Chiesa. È questo il senso del nome che ha scelto. La vuole rinnovare non solo perché conosce i tanti guasti che l’hanno ammalata, ma anche perché, mai come in questo momento, c’è un enorme bisogno di una chiesa rinnovata. Il mondo di oggi, infatti, appare sperduto. Mi pare di trovare qui la chiave di lettura del modo di procedere del pontefice e della sua disponibilità al dialogo con la modernità. Siamo tutti sulla stessa barca: la storia dell’uomo e della sua libertà. Anche la Chiesa, in questo decenni, ha sentito dolorosamente l’urto della storia che avanza, con le sue conquiste e i suoi fallimenti. Essa non è immune dalle trasformazioni che investono la comune condizione umana. A differenza di altri, però, la Chiesa non si stanca di denunciare che molti dei nostri problemi derivano da alcune distorsioni che si sono prodotte lungo il cammino che faticosamente l’uomo moderno sta percorrendo.
Alla sua Chiesa, Francesco sembra chiedere di guardare con più amicizia e coinvolgimento il destino della modernità. Che non riguarda gli altri (i non credenti). Ma che ci coinvolge tutti. Proprio perché tiene ai destini dell’umano, la Chiesa non può limitarsi a giudicare il mondo. Quasi ne fosse al di fuori. Ma se ne sente profondamente coinvolta, a partire naturalmente dal punto di vista che per un cristiano è quello privilegiato: quello dei poveri e degli ultimi, in senso materiale ma non solo. Da questo punto di vista, Francesco non cambia, rispetto ai predecessori, il suo giudizio sul mondo. A mutare è solo l’approccio, nella convinzione che ciò si possa rivelare più proficuo per tutti. Secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II.
Al tempo stesso, a coloro che si dichiarano non credenti, Francesco chiede di condividere le sue preoccupazioni e le sue trepidazioni per una umanità smarrita. E che rischia di essere schiacciata da quegli stessi sistemi che avrebbero dovuto proteggerla e porsi al suo servizio. Francesco vuole provocare la superbia dell’uomo che si sente completamente autonomo, che smette di farsi domande, che si richiude in una immanenza assoluta. Proprio come il suo gemello religioso, il fondamentalista antireligioso è ugualmente cieco e non riconosce più nemmeno la realtà.
Francesco sembra così allestire uno spazio di dialogo nuovo. Dove credenti e non credenti possano ritrovarsi, al di là degli steccati ideologici, per mettere in comune la propria visione del mondo e, senza infingimenti, interrogarsi attorno alla comune condizione umana.
La grande arte di Francesco è di sapere fare tutto questo a un livello che non è intellettuale. Francesco parla direttamente alla vita, che è di tutti, del ricco e del povero, del colto e dell’ignorante. Un piano in cui possiamo essere tutti coinvolti in quanto membri di un popolo che cammina lungo i sentieri della storia.
Le prima reazioni e non poteva essere diversamente sottolineano le implicazioni che le idee di Francesco sembrano poter avere sulla Chiesa cattolica e sul suo rinnovamento. Che è quanto mai necessario. Ma non deve sfuggire a nessuno che la grande apertura di Francesco ha bisogno di trovare uguale disponibilità anche nel mondo dei non credenti, dove spesso prevale una rigida chiusura rispetto alle domande latenti del nostro tempo. Ai non credenti, Francesco chiede di riflettere sulla drammaticità della nostra condizione e di riconoscere che c’è qualcosa che non va nella vicenda moderna.
Se riuscirà in questo duplice intento, Francesco avrà raggiunto un straordinario risultato. Ma è molto difficile che ce la possa fare da solo. Il suo appello è lanciato a tutti gli uomini di buona volontà. A noi, il compito di accoglierlo e di rispondere positivamente, accettando di camminare sulla medesima strada.

«se li conosci li eviti»
Walter Tocci è direttore del Centro per la Riforma dello Stato, il covo dei soi disant “marxisti ratzingeriani” di cui è presidente e capofila il famigerato Mario Tronti
l’Unità 2.10.13
A un giovane militante
 
«Sulle orme del gambero»: anticipiamo l’introduzione di Walter Tocci al suo libro
Il volume edito da Donzelli è il racconto di una storia al contrario per cercare nel passato le ragioni degli affanni di oggi
di Walter Tocci


Walter Tocci, Sulle orme del gambero pagine 133 euro 18,50 Donzelli

SE AVESSI VENT’ANNI, OGGI, ANDREI IN PIAZZA. PASSEREI LE MIE GIORNATE A ORGANIZZARE LE LOTTE POPOLARI. Così facevo del resto all’epoca dei miei vent’anni. Poi, insieme a tanti della mia generazione, ci siamo imborghesiti e oggi ci sembrerebbe demodé ripercorrere le gesta giovanili. Eppure non mancherebbero i motivi e le necessità. Il modo in cui il mondo si è trasformato non piace a molti di noi, di certo a chi non ha venduto l’anima; eppure non possiamo dirlo con certezza perché in parte ne portiamo la responsabilità. E lo vediamo negli occhi dei giovani di oggi, in modo ancora più lancinante in quelli dei nostri figli, quando ci guardano con l’animo sospeso di chi vorrebbe almeno una spiegazione dell’insuccesso. Ma spiegarlo è quasi più difficile che viverlo.
Appartengo a una generazione fortunata. Abbiamo fatto in tempo a conoscere la grande politica, e anzi a succhiarne la linfa vitale proprio nel momento della formazione, traendone l’insegnamento che si potesse plasmare contemporaneamente la nostra vita e l’organizzazione sociale. Non è andata proprio così, ma quella volontà di potenza ci è rimasta dentro per sempre. E intorno ai quarant’anni abbiamo avuto la grande occasione per esercitarla. Siamo entrati nella maturità proprio in quel passaggio d’epoca segnato dal crollo del muro di Berlino e dalla promessa di un mondo nuovo. Quelli impegnati nella politica di sinistra hanno avuto la possibilità di cambiare il paese e le sue città. Ancora di più, quelli che erano stati comunisti da sempre all’opposizione hanno avuto la fortuna di poter dimostrare, prima di tutto a loro stessi e poi agli altri, che avevano le capacità di governare meglio delle vecchie classi dirigenti. È stata la grande occasione della nostra vita politica e l’abbiamo mancata. Non solo non siamo riusciti a indirizzare il paese in un tornante nuovo della sua storia, ma non abbiamo saputo impedire che un personaggio inaudito ne prendesse la guida e lo portasse fuori strada. A me è toccato il privilegio di contribuire al governo della capitale, ed è stata l’impresa più appassionante della mia vita, a cui ho dedicato ogni energia. Abbiamo tentato davvero di cambiare Roma, ma non possiamo dire di esserci riusciti. Avremmo dovuto introdurre dei cambiamenti impossibili da cancellare per qualsiasi malgoverno successivo. Le vere riforme sono irreversibili.
I BILANCI DI UNA GENERAZIONE
La mia generazione ha dunque l’obbligo di stilare un bilancio. Finora lo ha sempre evitato, senza mai spiegare a se stessa e alle generazioni successive le ragioni dell’insuccesso. Non lo ha fatto perché avrebbe voluto dire mettere in discussione quella funzione di comando che ancora presidia, seppure in modo traballante. Una generazione che è stata capace a suo tempo di conquistare il potere sa bene anche come conservarlo.
Con il Sessantotto abbiamo fatto la rivoluzione dei costumi. Per la verità volevamo fare anche la rivoluzione sociale, ma non essendoci riusciti ci siamo accontentati di gestire il potere senza modificarne gli assetti. E abbiamo avuto modo di prolungare il nostro primato anche a causa della debolezza delle generazioni successive. Quella degli anni ottanta persa dietro ai miti del rampantismo; quella degli anni novanta illusa dalla globalizzazione, e quella degli anni duemila, presto intimidita dalla repressione e dai silenzi di Genova. Ma i ventenni di oggi sono la prima forte generazione politica davvero simile a noi. Non nei contenuti, ma nella forma. Non nel modo di pensare, forse ancor più lontano di quanto dica l’anagrafe, ma nella forte condivisione di esperienze collettive. Noi figli del miracolo economico e loro figli della crisi, ci siamo formati durante fasi di transizione, quando viene meno il vecchio mondo e il nuovo non si sa come sarà.
Mi incuriosiscono questi ventenni e cerco di capirli. Esprimono una forte intensità generazionale poiché si trovano a vivere cambiamenti quasi antropologici. Intanto sono i primi autentici nativi digitali che hanno conosciuto la rete quasi mentre apprendevano il linguaggio verbale. E poi sono cresciuti in un mondo già pienamente globalizzato. Ma ne hanno conosciuto subito il lato oscuro appena si sono affacciati al mondo del lavoro, senza diritti e spesso senza qualità. Non sono novità: anche i fratelli maggiori, quelli di trenta o quarant’anni che ancora vengono chiamati giovani, hanno vissuto queste esperienze, ma indorate dall’ideologia liberista che le rendeva affascinanti o perlomeno inevitabili. I ventenni sono più disincantati e non credono agli annunciatori di magnifiche sorti. Proprio l’esperienza dei fratelli maggiori li rende più consapevoli che non vale la pena aspettare lo schiudersi del guscio, sono più determinati nel romperlo. Sono una generazione più combattiva, non in forza di un’ideologia, ma proprio perché privi di un’ideologia. In questa carenza c’è il realismo che li salva dalle bugie raccontate dall’establishment.
Spero ardentemente che tra questi ventenni sorga anche una nuova leva di militanti politici. Non so se è una speranza fondata o se è solo un’illusoria proiezione a conclusione della mia lunga esperienza. In ogni caso, in politica la volontà deve essere sempre un passo avanti alla certezza.
La nostra è una generazione fortunata, ma qui bisogna aggiungere anche massimamente ingenerosa. Molto abbiamo ricevuto dalla generazione precedente, e ben poco abbiamo consegnato a quella successiva. Ci siamo nutriti in gioventù degli insegnamenti di grandi personalità incontrate nei partiti, nei sindacati, nelle organizzazioni culturali. Quando ripenso alla mia esperienza, alla fortuna di aver conosciuto uomini come Berlinguer, Ingrao, Petroselli, Trentin, alle riflessioni provocate dai loro discorsi e alla scuola di rigore che veniva dalla loro autorità, provo un senso di colpa per la sterilità educativa della mia generazione. Ben poco abbiamo saputo restituire del privilegio ricevuto. Certo, si possono addurre molte attenuanti, essendo venuti a mancare i luoghi e le culture adatte ad alimentare una paideia politica, ma c’è stata anche una deliberata rinuncia da parte della mia generazione. La comunicazione ha sopraffatto la formazione. Non c’è da stupirsi, poi, se i criteri di valutazione di un giovane politico che si affaccia al mestiere diventano la bella presenza e la battuta facile. Il Beruf weberiano è stato scarnificato, immiserito e tecnicizzato fino a ridursi a un mero prolungamento della comunicazione con altri mezzi. Se l’obiettivo è il titolo sul giornale di domani, non rimane tempo per formare i giovani.
Non pretendo certo di risolvere il problema con le mie forze, ma sento almeno come obbligo di risarcimento quello di dedicare tutto il mio impegno al dialogo con i giovani militanti di sinistra. Penso oltretutto di aver molto da imparare dai ventenni, e anzi proprio dal confronto tra noi e loro possono venire non solo rielaborazioni del passato ma soprattutto invenzioni per il futuro. A questo dialogo immaginario con un giovane militante sono dedicate le pagine che seguono. Nel torrente della storia bisogna andare indietro sulle orme del gambero per scovare sotto le pietre le cause delle sconfitte. Solo così si prendono le decisioni che ribaltano le pietre, che lasciano nella sabbia il lato inciso dalle delusioni e che portano alla luce invece il lato delle ambizioni, perché possano farsi accarezzare dal flusso del cambiamento. C’è un riconoscimento da elaborare, prima di tornare a vincere.

Sul sito del CRS (qui)  di Walter Tocci vedi la pagina “Teologia politica” quiMario Tronti il 19 scorso su l’Unità affermava: «L’agire politico, trasformativo, non può ora che pensarsi e praticarsi in sintonia, in alleanza, con forme, libere, di sensibilità religiosa» e «L’oltre della sinistra è l’oltre di questo mondo. Questo linguaggio evocativo va riempito di contenuti, cioè di scelte, decisioni, atteggiamenti, programmi, che parlino all’esistenza quotidiana delle persone semplici. Semplici è il nome politico, tradizionale, e proprio per questo oggi innovativo, per dire il concetto cristiano degli ultimi.» (cfr qui)

Repubblica Tv 1.10.13
La rivoluzione del pontefice
di Ezio Mauro

il video qui

Repubblica Tv 1.10.13
La modernità di Francesco
di Vito Mancuso

il video qui

«Nel corso di tutto il dialogo tra Francesco e Scalfari non c’è un singolo tono sbagliato»
Repubblica 2.10.13
Scalfari, Bergoglio e l’arte del dialogo
di Hans Küng


IO CREDO che sia un evento di grande valore e di cui rallegrarsi moltissimo, il fatto che il dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari non sia terminato con un epistolario, ma sia continuato con un’intervista. Quella pubblicata ieri su Repubblica è il documento straordinario di un incontro da uomo a uomo con un’intensa e profonda volontà reciproca di proseguire e approfondire il dialogo. Una delle cose che colpisce all’inizio del colloquio è che abbiano saputo trovare anche la dimensione dello humour: entrambi dicono di essere stati ammoniti e avvertiti dai loro collaboratori a non lasciarsi convertire l’uno dall’altro, né alla fede cristiana né al laicismo.
Ed entrambi — lo trovo straordinario anche sul piano della comunicazione — hanno reagito ridendo e assicurando che nessuno dei due aveva questa intenzione. Ma poi, passando con disinvoltura al discorso serio, hanno sottolineato che il loro colloquio aveva e avrebbe avuto lo scopo di accrescere con uno sforzo reciproco la conoscenza. Questo si proponevano di fare e questo hanno saputo fare trovando punti significativi di convergenza e punti di leale disaccordo. Un confronto tanto più straordinario perché nessuno dei due voleva fare proselitismo. Uno dei punti interessanti dell’intervista è il giudizio sul comunismo. Francesco afferma che non avrebbe mai aderito al materialismo, ma che ciò nonostante, attraverso i docenti che ebbe e conobbe all’università, da quella dottrina imparò moltissimo. Imparò e capì molto sulle questioni sociali di cui parlavano i comunisti. Non è un caso che Francesco abbia sottolineato l’importanza di alcuni temi che sollevava il movimento (che era sia politico che di fede) della Teologia della Liberazione. Poi c’è la questione della Curia, o diciamo anche della Corte romana. Il Papa ha usato parole molto dure, parole che non mi aspettavo, parole che persino a me avrebbero causato estremo disagio se le avessi usate: «La Corte è la lebbra del Papato». In quel momento del loro dialogo, Francesco e Scalfari hanno davvero colto il punto essenziale, cioè che la Curia romana deve essere posta di nuovo al servizio del genere umano e non al servizio di un sistema romano che non ha nulla a che vedere con la lezione del Vangelo. E che da un punto di vista veramente cattolico il Vaticano non può divenire la necessità suprema, ma al contrario tutte le strutture della Chiesa, anche quelle della Curia, devono porsi al servizio del Popolo di Dio. E infine, il Papa ha rifiutato di pronunciare una gerarchia dei santi: ha detto che è possibile fare una classifica dei migliori calciatori argentini ma non dei Santi. Poi si è espresso in favore di San Paolo, quale interpretazione del cristianesimo che è rimasta valida per millenni, di Sant’Agostino e di Francesco d’Assisi. Nel corso di tutto il dialogo tra Francesco e Scalfari non c’è un singolo tono sbagliato. Si può solo sperare che questo dialogo resti d’esempio per il dialogo tra credenti e non credenti.

Repubblica 2.10.13
Da Benedetto a Francesco. Così è rinata la mia speranza nella Chiesa
di Hans Küng


Prima vedevo la morte davanti alla vita, oggi al contrario vedo la mia vita alle spalle della morte. Io non so quando e come morirò. Forse verrò chiamato all’improvviso, e mi sarà risparmiata una scelta individuale. Sarebbe bene così. Ma nel caso che io stesso debba decidere di persona sulla mia morte, prego tutti di attenersi ai miei auspici e desideri. Non dovrebbe accadere in un’atmosfera triste e sconsolata, in quel clima in cui i reportage televisivi descrivono il decesso scelto da chi si rivolge ad associazioni per l’aiuto alla morte dolce. Il mio desiderio sarebbe di essere accompagnato e consolato nello spirito, nella mia casa a Tubinga o sul lago Sursee. Accompagnato nell’ultimo viaggio dai miei colleghi, dalle mie collaboratrici, dai miei collaboratori, così vorrei dire addio in modo degno. Poi, una gioiosa messa di ringraziamento potrebbe essere celebrata nella parrocchia, con il canto «Ora ringraziate tutti Dio», e poi verrebbe la mia sepoltura nel cimitero cittadino di Tubinga dove io già dieci anni fa mi sono cercato una tomba per me fianco a fianco di Walter e Inge Jens… Che rimane a uno studioso non più in grado di leggere e di scrivere? Non voglio continuare a vivere come un'ombra di me stesso. Una persona ha il diritto di morire, se non ha più alcuna speranza di continuare a vivere in modo umano secondo la sua concezione personale.
L’Inquisizione di Ratzinger
Nel 1981 il cardinale Joseph Ratzinger fu convocato da Monaco a Roma: come prefetto del Santo Uffizio, oggi chiamato Congregazione per la dottrina della fede…. Su questo periodo della sua vita, quasi un quarto di secolo fino alla sua elezione a Papa, Joseph Ratzinger nella sua autobiografia non dice una parola. Perché questo silenzio? Nei fatti egli appoggiò in ogni modo possibile la linea conservatrice restauratrice di Giovanni Paolo II, e fu quindi il mio più potente antagonista in tutto il gigantesco apparato della più grande multinazionale religiosa del mondo. Che i “servizi” della Curia, con l’aiuto delle moderne tecniche di comunicazione, siano diventati molto “svelti”, me lo aveva fatto notare già il cardinale Montini, sotto Pio XII.
Benedetto XVI invita il suo critico
Ci pensai sopra a lungo, poi inviai la lettera. Proponevo un incontro con Benedetto XVI per parlare delle questioni della fede, quelleche ci uniscono e non quelle che ci dividono. La risposta arrivò da lui: «La ringrazio per l’amichevole lettera. Naturalmente sono pronto a un colloquio con lei». Il 31 agosto 2005 il segretario privato del Papa, dottor Georg Gaenswein, mi chiamò, per concordare la data dell’incontro.
L’incontro col Papa fu intenso. Rividi il Ratzinger che ricordavo da anni prima: amabile, attento, amichevole, sempre veloce a capire, sempre pronto a una risata spontanea. «E allora, di cosa vogliamo parlare? », mi chiese. Io risposi: «Abbiamo convenuto di non parlare di questioni controverse bensì di questioni chiave della Chiesa e della società». Parlammo a lungo, egli convenne dell’importanza di un Ethos mondiale. Parlammo anche dei dibattiti sull’omosessualità. Allora in Italia si discuteva della registrazione di unioni gay, favorita da Romano Prodi. Purtroppo il Vaticano allora preferiva a Prodi il frivolo Berlusconi, che teoricamente difendeva la morale cristiana e poi organizzava feste erotiche anche con minorenni.
L’addio al Concilio
Joseph Ratzinger come Papa si lasciò sfuggire la chance storica di trasformare il Concilio Vaticano II nella bussola della Chiesa. Al contrario, minimizzò i testi del Concilio e li interpretò contro i padri del Concilio. Lui parlò di “ermeneutica della continuità”. II 15 dicembre 2008 tolse la scomunica contro i vescovi ordinati illegalmente e al di fuori della Chiesa dalla Confraternita ultraconservatrice dei fratelli di Pio, che contesta il Concilio su punti centrali, e conta esponenti come il vescovo Richard Williamson, negazionista dell’Olocausto, ciò che riaprì un conflitto tra il papa e l’ebraismo. Poi reintrodusse la messa medievale tridentina e l’eucarestia somministrata in latino con le spalle al popolo dei fedeli.
Le dimissioni a sorpresa di Benedetto: torna la speranza
Il fatto che il mio ex compagno di studi teologici Joseph Ratzinger fosse pronto ad abdicare, è una cosa su cui non dubitai mai. Egli è un uomo segnato dal senso del dovere e della responsabilità. Ne aveva già parlato in una conversazione con un giornalista. Ma il momento dell’annuncio del suo ritiro mi sorprese totalmente: fu l’11 febbraio 2013, proprio la festa tedesca del Rosenmontag, per cui molti di noi pensarono a uno scherzo di carnevale. Ma Ratziner spiegò il suo ritiro con argomenti seri: le forze gli venivano meno, non si sentiva più capace di garantire quella responsabilità. Posso solo immedesimarmi nella sua situazione: affrontava crescenti critiche, soffriva sempre più dello scandalo degli abusi sessuali, poi venne il caso Vatileaks. Per questo commentai la coraggiosa decisione di Joseph Ratzinger con grande elogio e rispetto.
Papa Francesco: un paradosso?
Avevo deciso di dimettermi da ogni incarico nel mio 85mo compleanno. Non mi aspettavo che si realizzasse il sogno di un nuovo risveglio della Chiesa, come fu sotto Giovanni XXIII. E invece il 19 marzo 2013, il mio compleanno e l’onomastico di Ratzinger, un nuovo Papa col sorprendente nome Francesco assume l’incarico. Chi sa se Jorge Mario Bergoglio ha pensato al perché nessun altro papa abbia scelto il nome Francesco. In ogni caso l’argentino sapeva bene di richiamarsi a Francesco d’Assisi, il figlio di ricchi mercanti che scelse di abbandonare ogni ricchezza. Bergoglio ha subito cambiato stile:niente più mitra con oro e pietre preziose, niente porpore e mantelli, né ermellini, niente scarpe rosse confezionate su misura, niente trono sontuoso con la tiara.
Mi posi subito delle domande, se e come Francesco avrebbe potuto realizzare nella Chiesa d’oggi, contro la Curia, gli ideali di fede di Francesco d’Assisi: Paupertas, Humilitas, Simplicitas. Si pone un’altra domanda: una riforma della Chiesa non affronterà serie resistenze? Certo il papa affronterà forze contrarie, soprattutto nella Curia, gli uomini del potere in Vaticano non abbandoneranno volontariamente il potere che hanno il mano dal Medioevo.
Un segnale di speranza da Roma
Dopo poche settimane dall’elezione, papa Francesco convocò otto cardinali a Roma per studiare la riforma della Chiesa e della Curia. Una nuova forma di direzione collegiale della Chiesa si annuncia. Presi questo evento come occasione, per scrivere a papa Francesco una lettera personale, il 13 maggio 2013. Lettera in cui espressi la mia gioia per la prima elezione di un latino- americano e di un gesuita a Papa, e sottolineai la mia gioia per il cambiamento di stile nello spirito di San Francesco d’Assisi. Poi scrissi il passaggio chiave: «Per uscire dall’attuale crisi della nostra Chiesa, servono certo riflessioni, anche sulla lezione morale, e prima di tutto su riforme strutturali. Sarà molto difficile imporre ciò, per questo Le auguro molta saggezza, coraggio e forza di resistere».
Con mia sorpresa, papa Francesco mi ha risposto. Con una lettera personale scritta a mano. Firma: “F., Domus sanctae Mariae”. Ecco il testo: «Gentilissimo dottor Küng, ho ricevuto la sua lettera del 13 insieme a un articolo e due libri, che “con gusto” leggerò. Grazie di cuore per la sua amicizia, rimango a Sua disposizione. La prego, preghi per me, perché ne ho davvero bisogno. Che Gesù la benedica, e possa la Vergine aiutarla. Fraternamente, Francesco».
Il 28 giugno ringraziai il papa e gli raccontai di una mia lettera aperta ai cardinali prima del conclave del 2005, accolta con tensione in Vaticano. Negli stessi giorni un alto prelato fu arrestato con due complici per transazioni illegali allo Ior. Poco dopo i vertici della banca dovettero dimettersi. Papa Francesco aveva già nominato una commissione indipendente sulla Banca vaticana. Molte scelte, le prende aggirando la Curia. Sono tutti segni che questo Papa vuol far seguire fatti alle parole e sembra deciso a vere riforme.

Repubblica 2.10.13
Hans Küng
di Andrea Tarquini


Escono in Germania le memorie del teologo Il difficile rapporto con Ratzinger, suo compagno di studi, ma ostile al Concilio E le attese di un rinnovamento affidate all’elezione del nuovo pontefice

BERLINO – «La vita continua, ma dove ci conduce? Prima o poi finisce, ed ecco giunto il momento di fare il punto, ecco il tempo giusto per pubblicare il terzo e ultimo volume delle mie memorie». Così il professor Hans Küng, il più autorevole e influente teologo cattolico critico del mondo, esordisce nella prefazione al suo libro che esce ora in Germania, Erlebte Menschlichkeit (Umanità vissuta), pubblicato da Piper Verlag, e di cui anticipiamo alcuni brani in questa pagina. Un libro straordinario perché rivela per la prima volta dell’epistolario e carteggio tra Küng e papa Francesco sulla riforma della Chiesa. Dunque questo libro, ancor più dei volumi precedenti, Erkämpfte Wahrheit (Verità conquistata) e Umstrittene Wahrheit(Verità contestata), ci porta nel centro dei drammi e delle speranze attuali della Chiesa.
Küng attraverso tre papati, potrebbe essere un altro titolo del libro. Dopo l’ostracismo sotto Wojtyla ecco il teologo ribelle di Tubinga sperare in una ripresa del dialogo con il Vaticano di Ratzinger. Speranza ben presto delusa. Ma ecco poi la sorpresa. Ratzinger trova il coraggio di dimettersi, e il conclave elegge a sorpresa Bergoglio. Il quale sceglie il nome della speranza, Francesco, e avvia passi di riforme. Scambiandosi epistole e segnali col grande teologo ribelle. Epistole straordinarie, prive di ogni formalità: il papa venuto da Buenos Aires si firma “Francesco” e basta, e non perde l’occasione per esaltare in ogni riga il ruolo critico di quel teologo che da decenni la Curia aveva messo al bando. In qualche modo anche un thriller di prima classe insomma, ma scritto da un intellettuale della Chiesa.

«Dio che è “oscurità sovraessenziale, che non ha nome e non avrà mai nome” (Eckhart)»
Repubblica 2.10.13
Il dialogo e la verità da vivere
di Mattew Fox


È un piacere poter prendere parte all’importante dialogo ispirato dallo scambio di lettere tra Eugenio Scalfari e papa Francesco. Nel corso del lavoro preparatorio per il mio libro Lettere a papa Francesco ho letto il libro che riporta le conversazioni tra Bergoglio e il rabbino argentino (e scienziato) Skorka, per cui so bene quanta importanza attribuisca il nuovo pontefice al dialogo e a un profondo scambio di idee, e soprattutto quanto sia «vulnerabile» all’ascolto attento e all’apprendimento. È questa, a mio parere, la chiave del dialogo: parlare e ascoltare per imparare, non semplicemente per «segnare dei punti». È questo che fa di papa Francesco una boccata d’ossigeno dopo trentaquattro anni di papi che sembravano più inclini a dettare le risposte e anche le domande, senza dare quasi mai la sensazione di avere qualcosa da imparare. La modestia del pontefice attuale è palese non solo dal suo rifiuto di trasferirsi nei palazzi pontifici, ma anche dalla sua disponibilità a prendere la penna in mano e rispondere con sincerità, dal profondo del cuore, alle domande poste da Scalfari. Papa Francesco, come molti gesuiti, conserva la smania di apprendere, e questo per me è motivo di lode. Sono i saccenti, che avvolgono tutte le loro risposte in dogmi rigidi e congelati e domande preconfezionate, che tradiscono il significato più profondo e lo spirito di avventura che una religione sana dovrebbe avere.
La verità, che la si apprenda da una persona che si autodefinisce «atea», o «laicista», o «credente », o «agnostica», o «non credente», non è vincolata a un’unica espressione. Quello che conta nel dialogo è quella parte di verità che impariamo gli uni dagli altri. La verità è qualcosa che viviamo, non qualcosa che congeliamo in dogmi e credenze liofilizzati. E poiché la viviamo, siamo in grado, a prescindere dalla nostra ideologia, di provare un’ammirazione comune per persone che ci hanno mostrato, attraverso la vita che hanno vissuto, la verità della giustizia, della bellezza, della gioia o della generosità.
La domanda diventa: in che genere di Dio crediamo? Che genere di Dio rifiutiamo? Cantiamo le lodi di un Dio del Controllo e degli imperi? O di un Dio dei poveri e di chi non ha voce? Un Dio del razzismo, del sessismo, dell’omofobia o dell’antropocentrismo, oppure un Dio della Condivisione, dei poveri, della giustizia razziale. Voglio proporre qualche altro genere di Divinità che vale la pena di venerare.
La Divinità apofatica è il Dio del silenzio, della contemplazione, dell’ascolto attento, del niente più proiezioni, il Dio che è «oscurità sovraessenziale, che non ha nome e non avrà mai nome» (Eckhart). Questo Dio ci insegna a tacere, ad apprezzare il silenzio e ad andare in profondità, e a non presumere più che chiunque di noi conosca la grandezza di Dio. In questo modo ci aiuta a placare il cervello rettile (sì, la «bestia» che è in tutti noi) lasciando spazio alla nostra intelligenza più recente, la Compassione.
Un’altra dimensione della Divinità su cui vale la pena dialogare è quella della Luce. Con la scienza che oggi ci insegna che «la materia è luce congelata » (parole del fisico David Bohm), possiamo fare piazza pulita del pericoloso dualismo tra materia e spirito, perché lo Spirito in tutte le culture del pianeta è definito come «Luce » (vedi ilBuddha – «Sii una luce per te stesso» – e il Cristo – «Io sono la luce del mondo»), ma la materia secondo la scienza odierna incorpora la luce. L’incarnazione dello spirito è ovunque, anche nella materia in tutte le sue dimensioni. Vale la pena discuterne e dialogarne.
Naturalmente, l’insegnamento che Dio è Giustizia (Tommaso d’Aquino: «Dio è giustissimo ») è un terreno comune, in questo momento critico della storia della Terra e dell’umanità, dove tantissime cose sono messe a rischio dai cambiamenti climatici e da sistemi economici che favoriscono i ricchi e rendono i poveri più numerosi e più poveri. La giustizia ecologica, la giustizia di genere, la giustizia economica: sono tutti nomi di lavoro per Dio, il Dio della giustizia. Quanto alla giustizia ecologica, il poeta Bill Everson commenta che «la maggioranza della gente conosce Dio nella natura o non lo conosce affatto». La natura è sacra. Dio è dentro la natura, non al di sopra o al di là di essa. È questo che significa lo spirito; è questo, sicuramente, che significa l’Incarnazione.
Sono stato felice di leggere Enzo Bianchi, nel suo contributo a questo scambio, parlare di Dio in quanto Vita e di come «ognuno di noi sia uno specialista, un esperto della vita». Dio è intrinseco alla natura e alla storia, alla materia e alla vita, perché la vita è sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di meraviglioso, qualcosa di straordinario, qualcosa di bello.
Un modo utile per definire attraverso il linguaggio le nostre esperienze del Dio in quanto Vita è dare nome al dispiegarsi e svelarsi (la rivelazione) del Dio in quanto Vita come la Via Positiva (le nostre esperienze di sgomento, meraviglia, gioia, bellezza), la Via Negativa (le nostre esperienze di silenzio, oscurità e anche dolore, sofferenza e cuore spezzato), la Via Creativa (l’impeto di co-creazione e creatività, e lo sgomento che si genera in questo processo) e la Via Trasformativa (l’opera di giustizia, compassione, guarigione e celebrazione). Dio non è un sostantivo. Dio è un verbo. Se non sperimentiamo queste dimensioni della Divinità siamo destinati a parlare soltanto e non agire: solo parole e niente cammino.
Voglio proporre alcuni modi per tenere vivo questo importante dialogo e celebrare la vita in tutte le sue variazioni e meravigliose dimensioni, e gli aspetti Sacri legati a tutto questo. Sì, siamo in parte «bestia» e la nostra avidità, la nostra brama di potere, la nostra invidia, la nostra capacità di odiare parlano alle nostre ombre e alla nostra necessità di autoesaminarci e cercare assistenza nella psicologia, oltre che nella religione, per guarire e trovare perdono e cambiare nel profondo. Dialoghiamo fra noi e impariamo le lezioni profonde e spesso antiche dei nostri antenati: possiamo innalzarci al di sopra del nostro cervello rettile e dare corpo al nostro cervello mammifero, che è compassionevole. Non mi dite qual è l’ideologia di cui vi ammantate. Ditemi piuttosto quale contributo date alla Vita, la Vita Sacra. Questo è il tipo di dialogo che cerco.
Matthew Fox è l’autore di “In principio era la gioia”, Creatività e, di prossima pubblicazione, “Lettere a Papa Francesco”, entrambi di Fazi Editore. (Traduzione di Fabio Galimberti)

il Fatto 2.10.13
La banca vaticana
Ior, utile record speculando sulla crisi dell’euro
Primo bilancio on line della storia: in attivo di 86 milioni grazie ai titoli di Stato


Lo Ior, la banca vaticana, pubblica il suo primo bilancio consultabile sul web e il risultato è ottimo per questi tempi di crisi: un utile 2012 di 86,6 milioni di euro, 54,7 dei quali andranno alla Santa Sede come dividendi. É aumentato di quattro volte rispetto ai 20,3 milioni di euro del 2011. Merito soprattutto delle operazioni sui titoli di Stato: lo scorso anno la banca del Papa ha ridotto gli investimenti sulle obbligazioni emesse da istituzioni finanziarie (cioè le banche) e ha puntato tutto sul debito sovrano. Nel 2011 le attività di trading erano state un costo da 38 milioni di euro, mentre nel 2012 hanno dato un utile di 51,1 milioni di euro. Lo Ior ha scommesso in modo massiccio sull’Italia, aumentando di 300 milioni in un anno la sua esposizione sul nostro debito pubblico (in totale i titoli di Stato in portafoglio sono 1,17 miliardi). La banca guidata da Ernst von Freyberg, presidente del consiglio di sovrintendeza e direttore generale ad interim, aveva avuto a che fare con un contesto di mercato molto più pesante nel 2011, quando ha dovuto chiudere posizioni in derivati rimettendoci parecchio, risolvendo contratti su 120 milioni di euro di nozionale (la somma cui è agganciato il derivato). In realtà chiamare lo Ior “banca” è un po’ improprio, è soprattutto un gestore di fondi, delle immense ricchezze finanziarie vaticane: ha un portafoglio di risparmio gestito pari a 3,2 miliardi, mentre nel portafoglio non gestito ce ne sono altri 3,1. Gli investimenti in azioni sono ormai molto ridotti, sono lontani gli anni Settanta in cui lo Ior di Paul Marcinkus era un protagonista a Piazza Affari: è rimasta una quota in Cattolica Assicurazioni e nella sofferente Banca Carige, entrambe le partecipazioni sono state svalutate rispettivamente per 1,4 milioni e 528mila euro.
Negli ultimi mesi von Freyberg ha annunciato una operazione di pulizia affidata alla società Promontory Financial e il risultato è riportaro in bilancio: tra 2011 e 2012 sono stati chiusi 2100 conti correnti, un taglio del 10 per cento, quindi ora ne restano 18.900. Quelli chiusi erano inattivi o fuori linea rispetto ai criteri dell’istituto (in teoria lo Ior non può fare operazioni con chi non ha rapporti diretti con la Santa Sede). “Stanno revisionando ogni singolo conto e stanno anche facendo indagini speciali per noi. In aggiunta, e insieme a loro, abbiamo esaminato le nostre procedure nel prendere clienti e nel trattare con loro per assicurarci che non si verifichi nessuna azione di riciclaggio nell’Istituto”, ha spiegato ieri von Freyberg. E il presidente ha anche annunciato che "Siamo pronti per un’ispezione da parti terze”.

l’Unità 2.10.13
Se la destra si spacca nascerà un’altra Italia
di Bruno Gravagnuolo


TUTTO PRECIPITA MA NEL MASSIMO DEL PERICOLO C’È UNA GRANDE OCCASIONE Questa: spaccare il blocco berlusconiano e aprire la strada a un nuovo centrodestra. Isolando il nocciolo duro di questa destra. E mettendolo ai margini nel senso comune del paese. Il punto chiave è il rilancio, senza se e senza, ma del governo Letta, come che vada la fiducia in Parlamento. Mettendo al bando tatticismi, e convenienze di leader o di partito. Perché lo snodo è chiaro: un nuovo governo Letta, strategico e finalizzato a mettere l’Italia in sicurezza può sconfiggere il calcolo sfascista del Cav (elezioni e colpo di spugna sulla sua decadenza per tentare di mutare poi la Severino). Se all’Italia sarà chiaro che Berlusconi gioca sulla pelle di tutti, le pressioni centrifughe in Forza Italia diventeranno fortissime. Già ci sono quelle dell’Europa. E con essa fanno blocco Confindustria grande e piccola, Vaticano, Sindacati, informazione. E ora anche una quota consistente di elettori del Cav: 42-43% secondo Pagnoncelli e il 36% secondo Mannheimer. Tutti contro la crisi.
E però che fa il Pd? Assiste? Aspetta? Tifa a bordo campo? Magari mettendo le mani avanti contro eventuali «governicchi» fatti di transfughi? Non basta, e anzi sarebbe sbagliato. Perché ciò farebbe il gioco di Grillo e Berlusconi che vogliono andare alla rissa, per radere al suolo Europa, Giustizia e Conti pubblici. E comandare sulle macerie. E allora il Pd, come che vada la fiducia, se vuole essere un Partito, deve scommettere su una nuova statualità: per risanare, redistribuire, rilanciare l’economia e mutare in prospettiva le regole europee. Senza restarne vittima. Il momento è gravissimo. Perché non si è lanciata una mobilitazione di massa per salvare l’Italia come al tempo del terrorismo e del sequestro Moro? È chiaro che sconfitto e spaccato l’avversario con un Letta fiduciato e rilanciato anche dai moderati post-Cav ci sarà già un’altra Italia. E di lì ricomincerà anche il Pd.

il Fatto 2.10.13
Il governo degli apprendisti stregoni
di Antonio Padellaro


Le larghe intese, la sciagurata operazione trasformistica benedetta dal Quirinale, esplodono in mille pezzi dopo appena cinque mesi di stentata esistenza con la scissione del Pdl, le furibonde accuse di Berlusconi contro Napolitano e Letta e una santabarbara di insulti, minacce e dossier pronta a esplodere. Ma c’è qualcosa di molto peggio di una formula politica fallita: riproporre a un Paese sfibrato e disorientato la stessa scadente minestra, ma questa volta condita con la stricnina. Tale appare la nuova maggioranza raccogliticcia, inzeppata di transfughi e voltagabbana che starebbe maturando nelle segrete stanze. Oggi ne sapremo di più dal premier dimezzato Enrico Letta, ma cause ed effetti del disastro presente e di quello che si annuncia sono già sotto i nostri occhi.
Primo. La guerra civile in corso tra gli scherani di Berlusconi non è tra falchi e colombe, ma tra opportunisti di varia specie. I ministeriali guidati da Alfano si sono troppo sbilanciati per non temere la vendetta del Caimano e ora cercano rifugio all’ombra di un governicchio Napolitano-Letta. Quanto al pregiudicato, perduta ogni speranza di farla franca, anche da decaduto continuerà a fare danni guidando per interposta persona (la rampolla Marina) la nuova e più aggressiva Forza Italia, una sorta di Alba Dorata che pescherà nella destra più intollerante.
Secondo. Non si capisce quale interesse avrebbe il Letta nipote ad accettare un simile pateracchio che contribuirà a rafforzare in Europa l’idea di un’Italia con un governo ancora più debole e non in grado comunque di fare fronte ai propri obblighi.
Terzo. Dopo il confuso risultato delle ultime elezioni tutto consigliava la creazione di un esecutivo di scopo per tamponare la crisi e portare al più presto il Paese alle urne con una nuova legge elettorale. Come se non fossero bastati i disastri dell’inciucio Pd-Pdl, ora sul Colle si sperimentano altre strane alchimie da apprendisti stregoni. A che scopo?

La Stampa 2.10.13
Battaglia nel movimento cattolico
“Tracce” e “Tempi”, ciellini divisi. Chi dissente e chi resta con Silvio
«Tracce» ieri ha pubblicato sul suo sito internet un editoriale critico verso Berlusconi
«Tempi», Il settimanale diretto da Luigi Amicone ospita sul numero in uscita una lunga lettera di Berlusconi contro Napolitano e Letta
di Andrea Tornielli


La spaccatura nel Pdl sul mantenimento in vita del governo Letta si riflette anche nelle diverse posizioni interne al movimento di Comunione e liberazione, al quale appartengono due ministri dell’esecutivo, Maurizio Lupi (Forza Italia) e Mario Mauro (Scelta Civica). Lo attestano due diversi giudizi resi pubblici nelle ultime ore. Sul sito web di «Tracce», la rivista mensile di Cl, è online un editoriale nel quale si legge: «Lascia stupiti e addolorati la leggerezza con cui il Pdl, uno dei pilastri del governo di larghe intese e dell’intera politica italiana, si sta avventurando nel tunnel di una crisi. Si reclama giustizia per Silvio Berlusconi, si parla di “eversione” e di “lesione della democrazia”, si scambiano accuse con gli alleati-avversari del Pd, ma si fa tutto questo evitando di fare i conti davvero con una domanda capitale: e dopo? ».
Il dopo, scrive «Tracce», sono «nuove elezioni, con una legge elettorale che sembra fatta apposta per impedire di governare. O una nuova, imprevedibile maggioranza, messa insieme in qualche modo dagli sforzi di Giorgio Napolitano ma sicuramente più debole di quella che c’era. Oppure, alla peggio, le dimissioni di Napolitano stesso e l’avvitamento totale del sistema nel buio».
Mentre è un altro magazine di area ciellina, «Tempi», diretto da Luigi Amicone, ad anticipare sul suo sito web ampi stralci di una lettera ai moderati italiani che Silvio Berlusconi ha inviato al settimanale e che sarà pubblicata nel prossimo numero in edicola. Un messaggio molto duro con il presidente della Repubblica e con il premier: «Enrico Letta e Giorgio Napolitano avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria? ». Il Cavaliere accusa il Pd di «atteggiamento irresponsabile», e della necessità di evitare «un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale». Per tutto questo, scrive Berlusconi al settimanale ciellino, «pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta».

Corriere 2.10.13
Un finale convulso che sottolinea la crisi del berlusconismo
di Massimo Franco


L’immagine di confusione che sta dando il Pdl conferma la perdita della bussola politica e della lucidità da parte di Silvio Berlusconi. Così, oggi al Senato il centrodestra si presenta preceduto da un’intervista concessa un paio di giorni fa, nella quale il Cavaliere definisce Giorgio Napolitano ed Enrico Letta inaffidabili, e chiede elezioni anticipatissime: in puro stile «tanto peggio tanto meglio». Mentre ieri il vicepremier Angelino Alfano e il ministro Maurizio Lupi hanno dichiarato che «l’intero Pdl, non un gruppo o un gruppetto debbono votare la fiducia al governo». Il paradosso è che alla fine Letta potrebbe davvero farcela: lo ha fatto capire respingendo le dimissioni dategli sabato dai cinque ministri del Pdl.
L’incognita è con quali numeri: se spinto da Pd, Scelta civica e un gruppo di transfughi del Pdl; oppure da una maggioranza uguale a quella che aveva prima: perché tra voci di rottura e ipotesi di tregua, non si esclude che Berlusconi ritorni sui propri passi irresponsabili. La strategia dello sfascio sembrerebbe arginata, almeno per il momento; e forse battuta. In apparenza, hanno pagato la fermezza del Quirinale, trasmessa a palazzo Chigi, intenzionato a ottenere un chiarimento definitivo; quella del Pd, e anche dei ministri berlusconiani che, tranne smentite in extremis, sembrano avere colto il pericolo della deriva estremista di Berlusconi e dei suoi suggeritori.
Hanno fatto capire al loro leader che questa volta sta mettendo a rischio l’unità del partito. Se confermato, l’elemento di maggiore novità sarà questo. Ma è difficile che il Cavaliere si rimangi minacce, ultimatum e insulti ai vertici istituzionali per fingere di avere ancora la guida delle sue truppe; e piegarsi alla linea di quelli che aveva fatto bollare e bollato come potenziali traditori. Sarebbe il prezzo pagato a un errore marchiano di calcolo; e alla pretesa di subordinare alle sue vicende giudiziarie Parlamento, capo dello Stato e del governo e le cancellerie occidentali.
Evidentemente, non ha previsto né la reazione dei suoi avversari, né quella di alcuni dei suoi alleati più fedeli. Non si è reso conto che in una fase di crisi economica acuta, i rischi di un “contagio italiano” sul resto dell’Europa non permettono scarti e avventure. I danni provocati da queste giornate di instabilità dichiarata, minacciata e non ufficializzata potranno essere valutati solo a posteriori. Ma nessuno si illude che la credibilità dell’Italia sia uscita indenne da uno scossone come questo. Rimane da capire se l’esito di oggi riuscirà a essere davvero rassicurante per il governo e la sua maggioranza anomala; e in grado di proiettarlo almeno al 2014 e oltre. Oppure se la soluzione presenterà lati ambigui tali da far temere possibili agguati e nuove tensioni di qui a qualche settimana o mese.
In teoria, un “sì” del Parlamento dovrebbe scoraggiare le frange più estremiste e antigovernative, a destra e a sinistra. In questo caso, i “falchi” berlusconiani promettono di uscire malconci da una prova di forza che ha messo nei guai e isolato in primo luogo il Cavaliere. E a sinistra, il colloquio di ieri fra Letta e Matteo Renzi, da tempo ansioso di sostituirlo, sembra preludere a una divisione dei ruoli fra segreteria del Pd e Palazzo Chigi, e dunque a un’interruzione degli attacchi. Ma la notte consegna un Pdl chiuso a Palazzo Grazioli e diviso fra conati di scissione e rinnovato unanimismo; e una sinistra che assapora la rottura fra Berlusconi e i suoi ministri. Il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, invoca il “sì” dei settori del Pdl “sensibili agli interessi dell’Italia”. Significa scommettere su una sconfitta tutta da verificare nell’aula del Senato. I colpi di coda di un berlusconismo morente sono imprevedibili.

Repubblica 2.10.13
Lo spirito della Costituzione
di Barbara Spinelli


FORSE è venuta l’ora di dire in termini chiari che l’imperatore è nudo: in Italia, e in tutti i Paesi dell’Unione europea immersi nella crisi. Non ha più scettro némanto.
Enon è vero quello che i nostri capi di governo vanno dicendo: che saremmo in mano allatrojkadi Bruxelles, se svanisse il bene molto equivoco di una stabilità politica che dipende dal condannato Berlusconi.
Quel condizionale –saremmo – va sostituito con l’indicativo. L’Italia non rischia commissariamenti se cade il governo Letta, così come non li rischiava quando caddero Berlusconi o Monti, perché da tempo siamo sotto tutela. I nostri imperatori sono oltre che nudi, finti. La stabilità tanto vantata, da salvare ad alti costi, è in realtà stasi sanguigna, imperio di un’oligarchia che fa capo non a un re ma a un reggente.Nel vocabolario Treccani, reggente è colui che «esercita le funzioni della Corona in sostituzione del re, in via straordinaria e in determinati casi (incertezza su chi ha diritto al regno, incapacità giuridica o impedimento fisico del monarca)». Tanto più perniciosa una stabilità che dovesse scaturire dalla spaccatura, clamorosa ma forse provvisoria, del Pdl. Anche abbandonato dai suoi, Berlusconi non cesserà di influenzarli. Surrettiziamente, continuerà a esser lui la garanzia della nostra solvenza finanziaria e della nostra onestà: soprattutto se in extremis voterà la fiducia.
Monti d’altronde lo annunciò, il 16 ottobre 2011 sulCorriere,un mese prima di divenire Premier: «Siamo già oggetto di “protettorato”: tedesco-francese e della Banca centrale europea». Il protettorato ha assunto fattezze più civili, ma protettorato resta. Inutile continuare a dire che siamo sull’orlo del commissariamento. Ci siamo dentro, come Atene, Lisbona, Dublino, Madrid. A forza di fissare l’abisso, l’abisso guarda dentro di noi e ci inghiotte. Se le cose non stessero così, non ci allarmeremmo: «Chi sarà capace di parlare con Draghi, dopo Monti e Letta?» In altre parole: chi amministrerà, conscio di non essere che un reggente?
Questo non vuol dire che i giochi siano fatti per sempre. Che subordinazione e reggenza siano fatali leggi della natura. Vuol dire però che tutto va mutato, a Roma e in Europa: i vocabolari mistificatori che usiamo, le politiche che ne discendono, il nostro sguardo sulle istituzioni, le Costituzioni. Dice lo scrittore austriaco Robert Menasse, dei monarchi europei: «Uno Stato nazionale non può più risolvere problemi da solo,la sovranità è già ceduta». Tanto più in Italia, le cui anomalie hanno dilatato la subalternità oltre misura. Non solo l’anomalia di Berlusconi. È anomalia anche governare con un partito estraneo alla cultura giuridica. È anomalia anche un Parlamento che con bradipica lentezza espelle (se espelle) un senatore condannato per frode fiscale, quando la legge ordina di farlo «immediatamente».
Senza fare chiarezza impossibile affrontare l’instabilità vera: il disfarsi delle democrazie, e in primis della nostra. Lo dice chi proprio per questo s’aggrappa alla Costituzione, e il 12 ottobre a Roma scenderà in piazza per difenderla. Se trema la democrazia, per forza tremerà la sua Carta fondativa. Cosa significa oggi avere governi di reggenza, ipocritamente sovrani? Significa che «il monarca tradizionale è in una condizione di incapacità giuridica, di impedimento fisico». Lo scettro è in mano a potenze esterne, e il reggente lo sa ma non lo dice.
Gli effetti già li vediamo, li viviamo. La nostra Repubblica si è fatta presidenziale, sotto Napolitano, e la metamorfosi non è stata decisa dal popolo sovrano: è avvenuta come se l’avesse dettata,motu proprio,la natura. L’antagonismo politico piano piano è stato bandito, bollato come populista secondo la già collaudata, emergenziale logica degli opposti estremismi. È populista Berlusconi, che entrò in politica per restaurare un’oligarchia corrotta dopo Mani Pulite. Sono definiti specularmente populisti Syriza in Grecia o i movimenti cittadini vicini a Grillo, che dell’era Mani Pulite sono figli.
Ne consegue l’impotenza crescente delle costituzioni nazionali, quasi ovunque in Europa. Il popolo di cittadini non può far valere bisogni e paure, quando è amministrato (non governato) da oligarchie che pretendono regalità che non hanno più. Quando un rapporto della JP Morgan (28 maggio ’13) definisce infide le costituzioni nate dalla Resistenza, caratterizzate come sono «da esecutivi deboli verso i parlamenti; dai diritti dei lavoratori; dall’eccessiva licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo». Nella storia francese, il periodo in cui Filippo d’Orleans amministrò al posto di Luigi XV si chiama reggenza ed è sinonimo di governi brevi, dediti a sanare bilanci. Orleanismo è predominio delle coterie:cioè delle consorterie, o cricche.
Perché, visto che siamo sotto tutela, battersi perché la Costituzione incompiuta si compia? Perché è il suo spirito che conta: i suoi articoli sono la confutazione vivente degli imperatori apparenti come dei commissariamenti fatali. Nelle costituzioni democratiche non è scritto che lo Stato-nazione è sovrano. Pienamente sovrani sono i cittadini, e ciascuno di essi deve contare ai vari livelli del potere: comunale, nazionale, ed europeo. La democrazia è oggi postnazionale: le elezioni europee del 22-25 maggio prossimo sono importanti come quelle nazionali, ma governi e partiti fanno lo gnorri.
Non è nemmeno scritto, nelle costituzioni, che una sola politica sia buona, e le vie diverse illegittime o populiste. La Carta sta lì a dirci le forme della democrazia che vogliamo, ma anche i suoi contenuti: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; il lavoro, l’istruzione e la stampa libera come fondamenti; la tutela del patrimonio naturale e artistico; la separazione dei poteri; la protezione dei deboli, degli svantaggiati, di chi dissente.
Nelle crisi le Carte sono preziose perché aprono possibilità, non congelano i rapporti di potere esistenti. Consentono politiche alternative, non organizzano solo alternanze: né da noi né in Europa. Muoiono, se niente si muove. Oggi sono i nazionalisti a reclamare il nuovo (in Germania o in Austria, dove le destre estreme, antieuropee, hanno raccolto domenica il 30,8 % dei voti) ma perché la sinistra classica ha smesso da tempo di incarnare l’alternativa.
Prima del voto tedesco, su Spiegel on line, il giornalista Wolfgang Munchau ha messo in relazione il declino socialdemocratico con il rifiuto di un’alternativa, nazionale e europea, all’austerità della Merkel. Risale agli anni ’90 la rottura con Keynes, quando Schröder concepì la terza via: che non era affatto terza ma – come per Blair, per il Pd – adesione al mercato senza freni naufragato nel 2007-2008. Erano ancora keynesiani Brandt e il suo ministro del Tesoro Karl Schiller, nel ’69. Lo fu anche Schmidt, negli anni ’70. Solo l’estrema sinistra tedesca (la Linke) resta keynesiana.
Un’alternativa è possibile, se non se ne ha paura. Alexis Tsipras, capo di Syriza in Grecia, ha chiesto il 20 settembre al Forum Kreisky di Vienna un’Europa non frantumata dall’austerità, e una lotta «contro l’alleanza fra cleptocrazia ellenica e élite europee». Simile la lotta in Italia: il fronte costituzionalista di Rodotà e Landini, Zagrebelsky e Settis, dice questo. Quanto a Berlino, una maggioranza parlamentare alternativa alla Merkel esiste già (socialdemocratici, verdi, Linke), ma solo sulla carta. Da otto anni i socialdemocratici rinunciano a gettar ponti verso la Linke, a liberarla dal passato comunista.
Da noi l’alternativa potrebbe nascere se il Pd non proponesse solo reggenti, e scoprisse che per vent’anni la Carta è stata l’arcinemico della destra berlusconiana. Se dicendo il vero sul commissariamento, separasse la sovranità dei cittadini da quella degli Stati, e si battesse per una Costituzione che sarà compiuta quando i suoi princìpi s’estenderanno all’Europa.

Repubblica 2.10.13
La fedeltà alla legge
di Nadia Urbinati


Indipendentemente dagli esiti del sommovimento interno al Pdl, è certo che il Paese sta subendo (non da oggi) le conseguenze della crisi della democrazia dei partiti e della rappresentanza. Paga il prezzo di una democrazia deformata. Le comunità politiche come le persone hanno una figura che le rende identificabili. Tra i tratti distintivi della democrazia costituzionale ci sono elezioni regolari, separazione dei poteri, diritti civili fondamentali e, non ultimo, l’autonomia dei rappresentanti tanto da chi li elegge quanto da chi li mette in lista. La rappresentanza senza mandato imperativo è una componente essenziale dell’immagine della democrazia perché da essa dipende l’autonomia decisionale del Parlamento e, per diretta derivazione, la libertà politica dei cittadini. Alterare lo statuto della rappresentanza equivale a sfigurare la democrazia, a deformarla.
Nel corso di questi anni la democrazia italiana ha subito deformazioni evidenti rispetto al profilo originale definito dalla Costituzione. Tra queste, vi sono i tentativi ripetuti e a volte riusciti di assoggettare i rappresentanti alla volontà di qualcuno. Qui sta il segno macroscopico della crisi dei partiti politici i quali, proprio come la rappresentanza che contribuiscono a creare, non sono equiparabili ad associazioni di interessi o a imprese private, nemmeno se (come la deludente proposta di legge ora in discussione vorrebbe) a contribuire alla loro esistenza sono direttamente i privati, con i loro finanziamenti e le loro donazioni. La crisi politica che si sta abbattendo sul Paese è il segno esplicito dell’assalto alla rappresentanza e ai partiti, del tentativo di catturarli nell’orbita di un qualche interesse particolare.
Il fondatore, sponsor e leader del Pdl, Silvio Berlusconi, strumentalizzando la debolezza oggettiva del quadro parlamentare, tiene da settimane sotto ricatto il Paese con la richiesta di conservare il seggio al Senato e quindi l’immunità parlamentare. Perciò ha imposto ai ministri del suo partito di dimettersi. Al momento dell’insediamento, questi ministri avevano giurato nelle mani del presidente della Repubblica con la seguente formula di rito: »Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione ».La fedeltà alla legge e alla nazione può entrare in conflitto con altre fedeltà; non dovrebbe succedere ma può succedere. E quel giuramento serve a tutelare i ministri (e noi tutti) da possibili fedeltà a poteri che sono antitetici alla legge e all’interesse “esclusivo” della nazione. Berlusconi ha cercato di imporre ai “suoi” ministri di stracciare quel giuramento nel nome di una fedeltà superiore alla loro stessa coscienza e alla loro ragione (una richiesta umiliante, come si intuisce). Quale che sia il destino di questa maggioranza, l’immagine della Repubblica ne risulta gravemente compromessa. Se non corretta, la deturpazione della rappresentanza può cambiare la fisionomia della nostra democrazia, facendone un campo di battaglia tra due sovranità, quella della nazione e della legge e quella dell’uomo forte. Il rischio è altissimo.
Da anni assistiamo ad attacchi all’autonomia delle istituzioni. L’emergenza che si sta consumando in queste ore è però di una gravità estrema. La lotta verte sull’autorità degli eletti dal committente: di chi sono i ministri e in quali mani hanno giurato? Se sono ministri della nazione essi non dipendono da nessuno in particolare e sono autonomi da ogni volontà. Lo stesso vale per i rappresentanti, come recita l’Art. 67 della Costituzione. La richiesta del mandato imperativo era già stata ventilata da Beppe Grillo, quando si avvide che una volta eletti in Parlamento i rappresentanti del M5S avevano il potere di rivendicare la loro libertà di decisione. Anche in quel caso si trattò di una lotta tra fedeltà inconciliabili: alla legge o alla volontà del capo di partito. La tensione ritorna periodicamente, e non sembra destinata a rientrare in tempi brevi. Essa mette in luce una verità fondamentale: non ci può essere Parlamento senza libertà dei parlamentari. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini, che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche la libertà di decisione di chi siede in Parlamento o di chi, come ministro, giura fedeltà alla Nazione. Come sanno bene i partiti politici, nemmeno la loro più ferrea disciplina può togliere al singolo rappresentante la libertà di decidere e votare secondo il proprio giudizio. La dignità delle istituzioni e quella personale coincidono. Da questa coincidenza dipende la nostra libertà come cittadini.
La tensione in corso nel Pdl sta a dimostrare che un partito politico non può essere un’azienda, anche qualora lo voglia il suo fondatore. Non lo può perché non può preventivamente escludere il dissenso interno e quindi la libertà dei suoi aderenti. Il partito politico è per necessità un’associazione pubblica e libera, insofferente a padronanze e a una dipendenza più o meno suddita. Ridare alla nostra democrazia la sua immagine originale, quella tratteggiata dalla Costituzione, significa mettersi sulla strada maestra della rigenerazione dei partiti politici e della rappresentanza. Liberando entrambi da lealtà private e da mesmerismi carismatici che mentre saziano le emozioni trascurano i problemi del Paese e deturpano l’immagine della nostra Repubblica.

Repubblica 2.10.13
Soros: il vostro Paese è come collassato
“Il governo andrà avanti ma senza riforma elettorale per l’Italia sarà il disastro”
intervista di Federico Fubini


KIEL — George Soros, padre e mente di uno degli hedge fund di maggior successo della storia, da qualche tempo si occupa d’altro. Invece che di accrescere la sua fortuna, la spende. Ha donato otto miliardi di dollari in ospedali, scuole o media indipendenti in decine di paesi, da Myanmar all’Ucraina. Ultimamente sta usando i suoi fondi per cibo e farmaci da distribuire in Grecia, per quella che lui chiama “assistenza umanitaria alle vittime dall’eurocrisi”. E sarà per questo, ma non smette un solo giorno di seguire l’Italia.
Che impressione ha della crisi politica in corso?
«Probabilmente il governo terrà e spero che riesca a far approvare un’altra legge elettorale. Quella attuale, con premio di maggioranza su basi diverse alla Camera e al Senato, e due camere con gli stessi poteri, non funzionerà mai. Dovete cambiare il sistema, nuove elezioni con questa stessa legge produrrebbero un altro disastro».
Cosa le fa credere che il governo di Enrico Letta sopravviva?
«Il centrodestra ha iniziato a dividersi, no? Il governo deve tenere, perché altrimenti anche l’economia va in pezzi. E serve un esecutivo in carica per cambiare la legge elettorale. Ciò che mi preoccupa è che in Europa i sistemi politici si stanno differenziando. In Germania la democrazia funziona bene, ma il resto dell’area euro passa da una crisi all’altra. L’Italia è il caso più evidente».
Il paese vive le scosse prodotte dal declino di Berlusconi o c’è anche altro?
«La crisi finanziaria ha messo una pressione enorme su tutti i paesi, sono venute alla luce debolezze che prima erano latenti. Da tempo l’Italia aveva un gran bisogno di modernizzarsi e ora ciò diventa evidente. Avete una storia, una cultura e dei talenti fantastici, ma il paese è come collassato sotto lo stress del sistema dell’euro».
Cosa intende dire?
«Prendiamo il confronto con l’Austria o la stessa Germania. Come l’Italia, sono economie basate sulle piccole e medie imprese, aziende familiari. Era la forza di questi paesi. Ma l’Austria adesso prospera, l’Italia invece è indebitata all’eccesso. Le sue imprese familiari sono in grande tensione perché, per stare sul mercato europeo, devono crescere. Ma non sono riuscite a farlo con più capitale, dunque si sono affidate al debito. È un problema che si trascina da 15 anni. Prima era graduale, ora invece probabilmente metà di queste aziende sono così indebitate che non troverebbero credito neanche se i tassi fossero bassi in Germania. Le banche non concederebbero loro altri prestiti comunque».
Come si risolve una situazione del genere?
«I problemi dell’Italia non sono risolvibili in Italia solamente. In tutti i paesi europei vediamo un dibattito politico sempre più introverso, concentrato su temi interni, ma la politica a livello locale non è in grado di affrontare queste questioni. Abbiamo bisogno di un autentico processo politico europeo, non solo di una gestione europeadell’economia».
C’è chi dice che la Spagna è in ripresa perché ha fatto più riforme e l’Italia è nel caos perché le ha rinviate.
«C’è anche chi sostiene che l’Italia potrebbe fare default, cioè dichiarare insolvenza sui debiti, e stare meglio perché la sua posizione dei conti con l’estero è in equilibrio e l’export beneficerebbe da un’uscita dall’euro. Dunque il paese finalmente crescerebbe».
È il suo consiglio?
«Niente affatto. L’effetto positivo durerebbe poco, sarebbe la fine dell’euro e la crisi che ne deriverebbe travolgerebbe anche il vostro paese. Ma è vero che l’Italia potrebbe dire alla Germania che deve far qualcosa per gestire i debiti italiani e per permettere più crescita, oppure il vostro paese prenderà un’altra strada».
Non sarebbe una minaccia vuota o tardiva, di un paese che ormai è troppo debole?
«In effetti si può dire che la crisi dell’euro sia già finita, nel senso che il sistema ormai ha trovato un assetto. Non c’è più nessuno che possa ribellarsi senza infliggere danni a se stesso. Nessuno può più cambiare il sistema, se non la Germania. Ma durante la campagna elettorale tedesca di Europa non si è neanche parlato».
Non trova che Angela Merkel sia stata efficace nel tenere i populisti e gli anti-euro fuori dal parlamento?
«È stata fantastica come leader di una democrazia nazionale. Ha raccolto il consenso dei filo-europei e di quelli che le chiedono di proteggere gli interessi tedeschi. E in effetti la Germania esce vincente dall’eurocrisi, è all’apice del sistema. Merkel ha ricordato ai tedeschi che hanno avuto quattro anni positivi, ed è vero. Però li hanno avuti a spese del resto d’Europa ».
I tedeschi dicono che anche gli italiani starebbero meglio, se affrontassero le riforme da loro attuate dieci anni fa.
«Pensano che la loro sia la formula vincente, è il letto di procuste in cui la Germania mette il resto d’Europa. Ma è più difficile che funzioni ora, perché siamo in deflazione e perché ci sono differenze storiche e culturali. La realtà è che i tedeschi non ambivano alla posizione egemone in cui ora si trovano, dunque non sono pronti ai sacrifici che comporta. Non agiscono così per malvagità. È una tragedia storica, una vera tragedia greca».

La Stampa 2.10.13
Il Pd
Renzi ora teme che si andrà avanti ben oltre il 2015
Ma sigla una tregua con Letta, “non farò tranelli” Il Pd compatto ma chiede una rottura col Cavaliere
di Carlo Bertini


Spero che prevalga l’interesse del Paese. E continuo a fare il tifo per un Governo solido che faccia bene per le famiglie, per le imprese, per l’Italia
Matteo Renzi Sindaco di Firenze

Sollievo.
Se finisce come spero, è anche un merito nostro La linea per ora è senza subordinate
Guglielmo Epifani Segretario Pd

Non si può riaprire un’interlocuzione con chi ha calpestato le regole e ha usato toni intollerabili
Gianni Cuperlo Candidato alla Segreteria Pd

Tutti con Letta, ma solo se spacca il Pdl e se riesce in un’operazione che avrebbe «una portata storica»: togliere dal governo l’impronta di Berlusconi, ormai non più digeribile dal Pd e dalla sua base. Tutti compatti, nel terrore che il Cavaliere in nottata faccia retromarcia, una mossa che getterebbe il Pd nel panico e il fantasma da scacciare è questo. Consapevoli dei rischi anche elettorali che un Letta bis pure se de-berlusconizzato, tra qualche mese potrebbe comportare.
Ma la linea del Pd è questa, «per ora senza subordinate», lo dimostra l’applauso con cui in serata si chiude senza nessun intervento l’assemblea dei gruppi parlamentari: aperta da Epifani con la rivendicazione di un merito, «se finisce come spero, è anche merito nostro». E la garanzia che la rottura ci sarà: «Enrico mi ha detto che il suo sarà un discorso molto fermo, senza sconti e netto». Ma una giornata da incubo, con voci d’ogni sorta a turbare gli animi, dimostra che come sempre dietro all’unità di facciata convivono preoccupazioni ben diverse.
Tutti allineati dunque per ora, compreso Matteo Renzi, al quale Enrico Letta ha chiesto l’altro ieri cosa avesse intenzione di fare di fronte a una prospettiva di questo tipo: un Pdl diviso con Berlusconi fuori gioco. Incalzato, il premier, da Alfano che gli chiedeva garanzie sul fatto che il rottamatore non avrebbe fatto saltare tutto se pure lui si fosse imbarcato in un’operazione simile. Renzi ha subito detto che sarebbe venuto a Roma per dare un segnale di lealtà: siglando così una sorta di tregua, che come viatico ha avuto pure la rassicurazione pronunciata ieri mattina da Epifani in segreteria che le primarie si faranno sì l’8 dicembre.
Falso però che i due abbiano sottoscritto patti sul 2015 come durata limite del governo in cambio di una non belligeranza, almeno così dicono i renziani. Vero invece che il sindaco, malgrado in molti lo spingano a far saltare il banco, abbia deciso di stare fermo: garantendo che non farà trabocchetti, «nessun baratto, ma non ho intenzione di far tranelli, sono una persona seria». Anche se è ben conscio delle controindicazioni. Se oggi nasceranno le nuove larghe intese, tutto concorrerebbe per impedire un ritorno alle urne a breve o medio termine, «perché quelli là, alfaniani e non, avrebbero una paura fottuta di tornare a votare», ragionano i suoi.
Ed è indicativa la reazione di Renzi di fronte ai lanci di agenzia sul presunto patto per il 2015 con Letta: «Spero che prevalga l’interesse del Paese. E continuo a fare il tifo per un Governo solido che faccia bene per le famiglie, per le imprese, per l’Italia. Tutto il resto lo lascio ai professionisti della chiacchiera».
Invece, un’altra preoccupazione l’ha espressa al premier Gianni Cuperlo, dopo che per tutto il giorno gli ex Ds tremavano al solo sentir dire che Berlusconi stava per rientrare. «Se finisce così non reggiamo, ci vuole una rottura, se no lasciamo una prateria a Renzi e quando torniamo a casa i nostri ci sparano pure addosso», sbottavano due segretari regionali di peso. Che via sms avvisavano Epifani di fare qualcosa subito. Un incubo che attraversava tutte le tribù, «Enrico deve stare attento, in Senato non può arretrare di un passo dalle cose che ha detto in tivvù», sibilava la Bindi.
Ma gli animi si calmavano solo dopo le rassicurazioni giunte da chi di dovere: Letta non avrebbe accettato i voti di Berlusconi e dei suoi falchi e non avrebbe trattato nulla.

Corriere 2.10.13
Partito rafforzato ma torna la paura di una nuova Dc
di Maria Teresa Meli


ROMA — Diversi stati d’animo si alternano nel gruppo dirigente del Pd: la soddisfazione per le lacerazioni del Pdl, la paura che quanto stia accadendo si possa ritorcere contro il centrosinistra. Già, perché quella frase affidata da Maurizio Lupi a un amico rimbalza di bocca in bocca tra i parlamentari del Partito democratico: «Letta mi ha promesso che se va in porto questa operazione del Ppe un domani ci ritroveremo tutti insieme».
Un’affermazione che ha messo molti sul chi va là. Tanto che ieri Nicola Fratoianni, di Sel, prendeva in giro i colleghi del Pd con queste parole: «Bravi darete vita a una nuova Dc che vi fregherà, così si torna all’antico, ma noi non ci staremo». Non ci stanno no gli esponenti della sinistra: Nichi Vendola lo spiega chiaro e tondo a Enrico Letta che gli chiede di votare la fiducia o quanto meno di far uscire i suoi dall’Aula perché i numeri sono ballerini. La prospettiva di una nuova operazione centrista rallegra invece gli ex dc come Beppe Fioroni: lui non vede l’ora e paragona Letta a Helmut Kohl. Paolo Gentiloni, al contrario, è preoccupato: «Non vorrei che nascesse una nuova forza centrista per metterci all’angolo». I renziani fanno mostra di non essere sotto botta per questa prospettiva ma sanno bene che metterebbe in difficoltà il loro leader perché un governo del genere non avrebbe data di scadenza se non quella della fine della legislatura.
Tra un sospetto e un sospiro di sollievo per la sconfitta e l’isolamento di Berlusconi, i parlamentari del Pd compulsano i colleghi del Pdl in cerca di notizie: vogliono capire quali siano le vere intenzioni del gran capo. Una voce si sparge in Transatlantico e semina il panico: oggi tutto il centrodestra, Berlusconi incluso, potrebbe votare la fiducia. Gentiloni scuote il capo: «Sarebbe un pastrocchio, difficile da gestire per noi». Cuperlo che gli si è avvicinato non vuole credere alle sue orecchie: «Noi una cosa del genere non riusciamo mica a gestirla con il nostro elettorato». Sì, era il timore che aveva evocato l’altro giorno Matteo Renzi, conversando con un gruppo di fedelissimi: «Come potremmo mai rimetterci a governare come se nulla fosse con un signore che fino a un’ora prima abbiamo accusato di essere un eversore? Ma chi ci capirebbe mai?».
E Renzi ieri è venuto a Roma per parlare con Letta. È stato il premier a cercarlo al telefono il giorno prima per essere certo che il sindaco di Firenze non avrebbe preso le distanze pubblicamente da questo suo tentativo di andare avanti con il governo. Due ore e mezzo di colloquio in cui Renzi ha tranquillizzato il suo interlocutore: «Capisco le difficoltà in cui ti muovi e non voglio crearti dei problemi. Se riesci a fare un governo che abbia una maggioranza solida e un senso politico per me va bene. Quello che invece non si può fare è una robetta di corto respiro, perché non gioverebbe al Paese, non sarebbe in grado di fare quello che serve all’Italia». I due, poi, hanno parlato a lungo di Alfano: «Bisogna capire che fa e se ha veramente un buon numero di senatori con sé», ha osservato Renzi. E Letta ha convenuto con lui. Nel menù anche il congresso. Il presidente del Consiglio ha assicurato: «Non ho intenzione di rallentare i tempi e non ti metterò i bastoni tra le ruote».
Sindaco e premier si salutano amichevolmente e il primo elude i giornalisti infilandosi in un’auto con i vetri oscurati procuratagli da Letta. Il suo prossimo colloquio è con Epifani.

Repubblica 2.10.13
Dubbi nel Pd: via il Porcellum o soffriremo
Epifani: Berlusconi perdente. I bersaniani: però non logoriamoci noi
di Giovanna Casadio


“Per citare la Primavera di Praga,  Continuons le combat”
Domenico Scilipoti deputato del Pdl

ROMA — «Berlusconi è comunque perdente... «. Epifani sa che la notte è ancora lunga prima di arrivare al “giorno della verità”, e ammette che nulla si può dare per scontato. Però i parlamentari democratici, riuniti in assemblea, decidono di votare la fiducia a Letta e sono convinti che il Caimano è stato messo all’angolo, che tanto decadrà da senatore e, se anche tirasse fuori dalla manica una carta a sorpresa, la partita del berlusconismo è “game over”. «Possiamo dare al governo quella traiettoria netta che vogliamo — sostiene il segretario del Pd — non avremo un governicchio ma l’esecutivo stabile che serve all’Italia; Berlusconi ha perso nel paese, contro la crisi si sono schierati associazioni di impresa, tutta l’opinione pubblica, la Chiesa, da tutti sono arrivati attestati positivi a Letta, e poi ci sono l’Ue, Obama, il presidente francese, la cancelliera tedesca». Epifani ha appena sentito il premier. I numeri e soprattutto la spaccatura del Pdl sembrano esserci. «Parte del Pdl voterà sicuramente la fiducia, e questo grazie anche all’unità che i Democratici hanno dimostrato, alla capacità di portare la questione in Parlamento proprio perché era nata come una pagliacciata...».
Nessuno interviene nell’assemblea dei gruppi parlamentari e Epifani ironizza, ricordando com’è andata nel Pdl l’altro giorno quando Berlusconi ha stoppato Cicchitto e la richiesta di dibattito invitandolo a cena. In casa dem non funziona così: «Il dibattito è aperto... intendiamoci io non invito nessuno a cena». Poi nessuno ha voglia di dibattere, anche se non è tutto così pacifico nel partito. Il rischio di un Letta bis, con Berlusconi che manovra dietro le quinte, è ben presente. «Se il Pdl non si spacca in modo chiaro, logora Letta e soprattutto distrugge il Pd», confida Nico Stumpo, bersaniano. Bersani a sua volta ha avuto colloqui sia con Letta che con Epifani. È un giro di incontri, il più delicato dei quali èstato quello tra il premier e Renzi. Stefano Fassina, vice ministro dell’Economia, è più ottimista: «È la fine di vent’anni di berlusconismo ». Sarcastico invece Roberto Giachetti, il renziano che è stato isolato a inizio legislatura sull’urgenza della riforma elettorale: «Ministri Pdl, diversamente in carica » scrive in un tweet dopo che Letta respinge le dimissioni dei ministri berlusconiani che ormai hanno lasciato il Cavaliere. La scommessa del premier Letta è diportare avanti il governo delle larghe intese de-berlusconizzate fino al 2015. Sarà la fine di un’epoca? O il Pd non ne pagherà comunque un prezzo alto? Fabrizio Barca, che nel partito non vuole misurarsi nella sfida per la leadership però bacchetta sul cambiamento, lancia un ultimo appello: «Il Pd subordini il sì alla legge elettorale e a quella di stabilità».
Ma non sarà breve la navigazione del Letta bis, se nascerà, nelle intenzioni del premier e della maggioranza che lo sosterrà: deve comunque andare oltre il semestre di presidenza italiana della Ue. Pippo Civati, che alle larghe intese atto primo votò no, commenta: «Tanto tuonò che non piovve, ha mollato anche Renzi». Di maggioranze alternative, di governo di scopo non si parla più nel Pd, anche se bisogna vedere come va a finire oggi. Le incognite cominciano dopo: su quale legge elettorale puntare, ad esempio. Con il proporzionale puro, che avvantaggia l’eventuale Ppe italiano, costola moderata di Forza Italia, quale sarà il destino del Pd?

Repubblica 2.10.13
L’amaca
di Michele Serra


Da vecchio sostenitore del deputato Giachetti (Pd), che della lotta al Porcellum ha fatto una ragione di vita, mi tocca ripetere che non solo Enrico Letta, ma l'intero Pd hanno ben poco diritto di lamentarsi del perdurante incombere di quella orrida legge elettorale. Quando ebbero l'occasione di uccidere il Porcellum (era lo scorso mese di maggio) votando la proposta di Giachetti non lo fecero, nel nome delle solite “superiori strategie istituzionali” che il volgo non è in grado di afferrare. Se in seguito quelle “superiori strategie” avessero partorito una riforma elettorale sensata e condivisa, allora i vertici del Pd avrebbero avuto ragione. Ma in politica contano i risultati, e la pachidermica e ondivaga macchina riformatrice allestita nei sotterranei delle “larghe intese” non ha neppure scalfito il Porcellum: tanto che, se si dovesse tornare al voto, lo si farebbe nelle medesime condizioni che hanno prodotto la sostanziale ingovernabilità di questa legislatura.
Il problema della sinistra italiana è, da anni, sempre lo stesso: è terrorizzata dal conflitto, lo vive come sinonimo di irresponsabilità. Diffida di ciò che è drastico e di ciò che è netto, adora ciò che è “complesso”, sfumato, intricato. Lo si direbbe “gesuitico”, questo atteggiamento, non fosse che il nuovo Papa, assai netto e per niente sofista, è un gesuita.

Corriere 2.10.13
Prodi: «Da una telefonata con D’Alema capii che non sarei salito al Colle»
L’ex premier: mi disse che avrebbero dovuto coinvolgere i dirigenti
di Alan Friedman


È il giorno più lungo di Romano Prodi.
Quel venerdì 19 aprile del 2013, il Professore si sveglia intorno alle 7 nella sua camera dell’hotel Laico L’Amitié a Bamako, capitale del Mali, e ancor prima di prendere un caffè legge un sms della sua portavoce, l’onorevole Sandra Zampa, che riporta un momento «commovente» al teatro Capranica di Roma, in cui si sono alzati in piedi quasi tutti per «una standing ovation» alla sua nomina per il Quirinale, appena lanciata da Pierluigi Bersani.
È il giorno del quarto scrutinio nella tormentata votazione. Il giorno in cui il Pd si è spaccato, facendo perdere a Prodi la Presidenza della Repubblica per una mancanza di 101 voti. Ed è anche il giorno delle recriminazioni, delle dimissioni di Pierluigi Bersani e delle forti smentite da parte di Massimo D’Alema, accusato di aver ispirato i franchi tiratori all’interno del Pd ad affondare Prodi.
D’Alema ha sempre smentito qualsiasi complotto. Ma stando alla testimonianza di Prodi, intervistato per un mio nuovo libro («Ammazziamo il Gattopardo», che uscirà con Rizzoli all’inizio del 2014) non c’è più bisogno di cercare i franchi tiratori, di interrogarsi su quanti dalemiani abbiano votato contro Prodi. Perché per Prodi la situazione era palese nel momento in cui ha parlato al telefono con Massimo D’Alema, da Bamako, intorno all’ora di pranzo di quel fatidico 19 aprile.
A Roma, Bersani ha già annunciato verso le 9 di mattina la nomina di Prodi ai grandi elettori del Pd. A Bamako Prodi è in missione, nella veste di Inviato Speciale per il Sahel del Segretario-Generale dell’Onu, Ban Ki-moon.
Quella mattina Prodi telefona ai suoi collaboratori storici, Arturo Parisi e Sandra Zampa, per capire cosa è successo. «Mi hanno confermato la standing ovation, poi però abbiamo riflettuto che era opportuno fare alcune telefonate», ricorda Prodi.
La prima telefonata che Prodi fa da Bamako («Perché i rapporti personali») è a Stefano Rodotà. E poi chiama D’Alema.
È l’intervallo del convegno a Bamako, e quindi Prodi si allontana dall’aula del Palazzo dei Congressi per parlare con Roma. E sente una sensazione quasi surreale, nell’oscillazione di temi e circostanze tra Bamako e Roma.
A Bamako, ricorda Prodi «stavamo parlando proprio dei problemi molto forti che vi erano in quel momento, quindi per una ragione importante anzi molto importante. Tutto questo è avvenuto nell’intervallo, se ben ricordo erano le 11 e mezzo a Bamako quindi un paio d’ore prima, l’una e mezzo dell’Italia, insomma… ora di pranzo in Italia. Ho telefonato a Marini, mi ha detto “tutto bene, tutto tranquillo”».
Marini fa gli auguri a Prodi.
Poi c’è la telefonata con Massimo D’Alema.
Prodi ricorda senza esitazione la telefonata: «Mi ha detto: “Benissimo, tuttavia queste decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti”. Cioè facendone, come si fa sempre in questi casi, una questione di metodo e non di merito. E quando ho ascoltato questo ho messo giù il telefono, ho chiamato mia moglie e le ho detto “Flavia vai pure alla tua riunione perché di sicuro Presidente della Repubblica non divento”».
Da Bologna, al telefono con suo marito, Flavia Prodi capisce subito e accantona l’idea di partire per Roma. Invece va alla sua riunione scientifica alla Biblioteca dell’istituto linguistico di Bologna.
Dopo la telefonata con D’Alema, Prodi non ha dubbi. Per lui tutto è chiaro nel momento in cui Massimo D’Alema ne fa un problema di metodo.
D’Alema, anche lui intervistato per questo libro, conferma la sostanza della telefonata, anche se reagisce male quando gli si fa notare come sia stato accusato di aver ispirato un voto contro Prodi da parte dei suoi. In effetti D’Alema, quando viene interpellato su questo tema, reagisce con una faccia che mi ricorda la reazione sconvolta del Capitano Louis Renault nel film Casablanca, scioccato nello scoprire l’esistenza di giochi d’azzardo dentro il bar di Humphrey Bogart, il Rick’s Café Américain.
Così, quando chiedo a Massimo D’Alema se ha fatto fallire Prodi nella corsa per il Quirinale, D’Alema mette le mani avanti. Taglia corto, con fermezza, e risponde: «Io non ho ispirato niente!».
Poi aggiunge che forse era anche all’estero quel giorno, forse a Bruxelles, e racconta: «Lui mi ha telefonato, credo che fosse nel Mali, e ha detto “ma tu cosa pensi?” e io ho detto “io penso che il modo come ti hanno candidato è una follia».
Prodi non ricorda che D’Alema abbia usato la parola «follia» e racconta una conversazione più formale, ma D’Alema lo racconta così.
Chiedo a D’Alema perché in un momento drammatico per il Paese abbia voluto insistere così sul metodo e lui risponde che «il nostro gruppo esce dalla vicenda Marini, naturalmente con tutti i rancori, immagino che gli amici di Marini non saranno stati contenti del fatto che Marini è stato candidato e poi fucilato».
Poi D’Alema ricorda di aver detto a Prodi che la sua nomina era «un’imprudenza» e che «questa vicenda rischia di finire male» e dice che ha dato a Prodi un suo consiglio. «Il mio consiglio è che tu puoi essere candidato, però adesso li farei votare scheda bianca e aprire un confronto per vedere se almeno Monti, Scelta Civica eccetera convergono sul tuo nome».
Così ricorda D’Alema. Ma Prodi di una discussione sulla tattica di un voto con la scheda bianca non ricorda nemmeno una parola. Lui ricorda soltanto di aver capito che D’Alema fosse contrario, e di aver telefonato a Flavia.

l’Unità 2.10.13
Dramma dei giovani il 40% è senza lavoro
Nell’ultimo anno persi 400mila posti. Il 2013 annus horribilis dell’economia
di Giuseppe Caruso


MILANO Salari più bassi e sempre meno posti di lavoro. Soprattutto per i giovani. Non è un quadro entusiasmante quello che emerge dai dati forniti ieri da Istat e Cnel (Consiglio nazionale economia e lavoro) sulla situazione italiana, in modo particolare se inseriti nell’attuale contesto di grande incertezza politica.
UNA QUESTIONE STRUTTURALE
Il problema più grave è quello che riguarda la mancanza di lavoro tra i giovani italiani e quindi un futuro nebuloso per tutto il Paese. Secondo l’Istat il tasso di disoccupazione giovanile (ragazzi di età compresa tra i 15 ed i 24 anni che non studiano) è arrivato al 40,1%, in rialzo di 0,4 punti percentuali su luglio e di 5,5 punti su base annua. Viene così superata, per la prima volta, la soglia del 40% e anche in questo caso viene raggiunto il livello più alto della storia, visto che da quando esistono le rilevazioni una situazione analoga si era verificata solo nel lontano 1977. Tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 667 mila e rappresentano l’11,1% della popolazione in questa fascia d’età.
Il problema però, come viene spiegato nel ritratto del mercato del lavoro fatto da uno studio del Cnel, è che non si tratta più di un’emergenza dovuta alla crisi, ma di un problema ormai divenuto strutturale. I giovani rappresentano la categoria della popolazione più penalizzata dal deterioramento del mercato del lavoro: secondo il Cnel nel 2012 è diminuito il tasso di attività nella fascia d’età compresa tra i 15 ed i 29 anni, nonostante rappresentino meno del 7% degli attivi, laddove gli over 55 sono ormai più del 12%. Ancora più preoccupante è l’ampia platea di giovani sospesi nel limbo del non studio e del non lavoro, i cosiddetti Neet, arrivati a 2 milioni 250 mila, pari al 23.9%, ovvero circa un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni.
La situazione, sul fronte occupazionale, non migliora allargando l’orizzonte. L’Istat infatti segnala come la disoccupazione ad agosto sia salita al 12,2%, in rialzo di 0,1 punti percentuali su luglio e di 1,5 punti su base annua. Eguagliato il massimo già raggiunto a maggio. Ad agosto 2013 gli occupati sono 22 milioni 498 mila, sostanzialmente invariati rispetto al mese precedente e in diminuzione dell’1,5% su base annua (-347 mila). Il tasso di occupazione, pari al 55,8%, rimane invariato in termini congiunturali e diminuisce di 0,8 punti percentuali rispetto a dodici mesi prima. Quanto invece al numero di disoccupati, pari a 3 milioni 127 mila, aumenta dell’1,4% rispetto al mese precedente (+42 mila) e del 14,5% su base annua (+395 mila).
SI ESTENDE IL DISAGIO SOCIALE
Una situazione così drammatica da far dire al Cnel che «il 2013 è l`anno peggiore della storia dell’economia italiana dal secondo dopoguerra. La crisi, iniziata nel 2007, ha eroso le capacità di resistenza delle famiglie e delle imprese, generando condizioni di diffuso disagio sociale, un cambiamento radicale nelle abitudini dei consumatori. La contrazione del prodotto cumulata dall`avvio della crisi ha raggiunto l`8%: una caduta di tale entità non poteva non lasciare tracce profonde nel tessuto produttivo e sulle opportunità occupazionali. Per non parlare della riduzione dei salari reali».
«Negli ultimi anni» continua il Cnel «abbiamo perso 750mila posti di lavoro, una caduta che avrebbe potuto essere più profonda se la produttività del lavoro non fosse rallentata, se le ore lavorate per occupato non si fossero ridotte, se il ricorso alla cig non fosse aumentato per tutelare i redditi dei lavoratori e le potenzialità di ripartenza delle imprese».
Ma quanto tempo ci vorrà per recuperare il terreno perso? Secondo lo studio del Cnel per riportare il tasso di disoccupazione all’8% entro il 2020, il tasso di crescita del pil dovrà superare il 2% l’annoi. L’Italia è tra i paesi dell’area euro che negli ultimi anni hanno mostrato una «buona capacità di resistenza del mercato del lavoro» alla crisi, spiega lo studio.
La riduzione delle ore lavorate per occupato, così come la stessa flessione della produttività del lavoro, «ha contribuito a contenere l’entità delle perdite occupazionali». Nonostante ciò, se l’economia italiana non si riporterà su un «sentiero di crescita, sarà molto difficile un’inversione di tendenza».
Per il Cnel sarà poi fondamentale un’ intesa sindacati-Confindustria per una «politica economica che fronteggi finalmente l`eccessivo carico fiscale che grava sul lavoro e sull`impresa».

Corriere 2.10.13
Quei numeri (spaventosi) da decifrare
di Dario Di Vico


In base ai dati resi noti dall'Istat da oggi politici, imprenditori, sindacalisti si sentiranno autorizzati a sentenziare che il 40% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è disoccupato. Per fortuna non è così e con un po' di pazienza cercheremo di capire il perché.
La trappola delle Statistiche (da decifrare) Treu: «Non si può considerare senza un posto chi è ancora in età scolare» Siamo arrivati all’incredibile quota 40 e quindi urge ragionare con freddezza sui numeri della disoccupazione giovanile per evitare evidenti errori di comunicazione. In base ai dati resi noti ieri dall’Istat da oggi tutti, politici/imprenditori/sindacalisti, si sentiranno autorizzati a sentenziare che il 40% dei giovani italiani tra i 15 e i 24 anni è disoccupato. Fortunatamente non è così e con un po’ di pazienza cercheremo di capire il perché. I giovani italiani tra i 15 e i 24 anni sono in tutto 6 milioni e poco più, di questi ben 4 milioni e 357 mila sono considerati inattivi. La stragrande maggioranza è composta da studenti e il resto (circa 700 mila) sono una fetta dei famosi «Neet», i ragazzi che non studiano e non cercano lavoro. Questi 4 milioni e più di giovani però restano fuori dal conteggio dell’Istat e quindi non concorrono a determinare quel risultato-monstre del 40% di disoccupati.
Per essere ancora più precisi e forse tranchant possiamo dire che se fosse vero che il 40% dei giovani è disoccupato si arriverebbe in valori assoluti a 3 milioni di persone! E invece il numero assoluto di ragazzi con età 15-24 che si può considerare statisticamente disoccupato è di 667 mila, molto meno. In termini percentuali vuole dire 11,1 se rapportato alla popolazione giovanile, ma diventa 40 se forzatamente lo si calcola sul campione di 1 milione e 662 mila persone considerate «attive» ovvero occupate (circa un milione), o disoccupate in cerca di impiego (per l’appunto 667 mila).
Ma perché è tanto difficile orientarsi nelle statistiche dell’occupazione? Perché non si taglia la testa al toro e si comunica correttamente il dato dell’11,1% di disoccupati giovani e non quel 40% o giù di lì che ci fa accapponare la pelle ogni volta? La causa principale sta nei parametri comuni di Eurostat: usiamo un criterio di rilevazione standardizzato a livello di Ue, altrimenti si perderebbe la possibilità di effettuare comparazioni tra i singoli Paesi. L’obbedienza statistica europea la paghiamo in termini di cattiva comunicazione (e di peggioramento del mood del Paese già tendente al nero) al punto che l’Istat sotto la presidenza di Enrico Giovannini (diventato poi ministro del Lavoro) ha preso tutte le volte a organizzare appositi briefing per i giornalisti tesi a distinguere puntigliosamente campioni e risultati in percentuale. Una tela di Penelope che viene ogni volta scucita in nome di una semplificazione fatalmente abborracciata. «I dati statistici specie se attinenti all’occupazione sono una materia delicata – dice Giuliano Cazzola (Scelta civica) e non vanno usati come arma di lotta politica. Si finisce per rappresentare una condizione del Belpaese talmente grave da scoraggiare chi volesse raggiungere le nostre coste emigrando persino dal Burkina Faso. Il lavoro è sicuramente un’emergenza ma è bene delineare una rappresentazione corretta dei problemi». Aggiunge l’ex ministro Tiziano Treu: «La comunicazione finisce per peggiorare le cose. Crea un effetto valanga sui dati della disoccupazione che non giova a nessuno. Non si possono considerare disoccupati i giovani che sono in età scolare e assimilarli a chi lavora o comunque cerca un impiego». La querelle statistica, continua Treu, rende ancora più difficile la spiegazione dei provvedimenti all’opinione pubblica. Se si confondono i perimetri di applicazione tutto diventa più difficile e caotico.

l’Unità 2.10.13
Scuola, ogni anno lasciano in 700mila
di Nicola Luci


ROMA In Italia sempre più banchi restano vuoti: quasi 700mila ragazzi ogni anno, circa 2 su 10, abbandonano la scuola fermandosi spesso alla licenza di scuola media inferiore e a volte anche prima.
Un dato che colloca l’Italia in fondo alla classifica europea. Sono i dati illustrati a Roma da Intervita Onlus, Ong di cooperazione allo sviluppo, in occasione della presentazione di «Lenti a contatto», il primo dossier sulla dispersione scolastica che raccoglie gli interventi portati avanti in tre regioni italiane e illustra gli obiettivi del progetto triennale.
La dispersione scolastica in Italia ha dimensioni allarmanti. Con il 17,6% di ragazzi che abbandonano gli studi, l’Italia è in fondo alla classifica europea e continua a scontare un gap con gli altri Paesi la cui media è pari al 14,1%, come ad esempio la Germania dove la quota è sensibilmente più bassa (10,5%), o la Francia (11,6%) e il Regno Unito (13,5%). Un divario che aumenta se guardiamo al Sud del nostro Paese, dove la media è del 22,3%, mentre si riduce nel centro-nord dove si attesta al 16,2%.
Anche se va sottolineato che, rispetto alla situazione del 2000, quando gli early school leavers (bambini che abbandonano la scuola) risultavano il 25,3%, è stato fatto un primo passo importante per il raggiungimento degli obiettivi della strategia di Europa 2020 nel campo dell’istruzione che prevedono una riduzione del tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10%.
Durante l’incontro, Intervita ha lanciato una ricerca nazionale sulla dispersione scolastica per quantificare l’incidenza della dispersione scolastica sul Pil italiano e i relativi investimenti del privato sociale. La ricerca, promossa in collaborazione con l’Associazione Bruno Trentin di Cgil e Fondazione Giovanni Agnelli, è «un progetto innovativo ed indispensabile per comprendere l’impatto economico della dispersione scolastica nel nostro Paese», spiega la Onlus.
Un dato su cui è prudente il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria: «C’è un lento miglioramento dei dati sulla dispersione, assolutamente insufficiente, che deriva dallo sforzo immane delle scuole pubbliche». «Il danno alle possibilità di sviluppo e il fallimento formativo sono stati finalmente messi in relazione con strumenti molto più fini che in passato», ha aggiunto intervenendo alla presentazione degli obietti della ricerca. «Colpisce soprattutto - per Valeria Fedeli, vice presidente del Senato che al Sud quasi un ragazzo o una ragazza su 4 abbandonino la scuola: in un circuito esponenziale che unisce dispersione scolastica e disoccupazione giovanile con la criminalità. Con un danno per la società che perde capitale umano».
La ricerca che parte il prossimo mese e i cui risultati saranno presentati tra un anno, ha come aree di riferimento le province di Milano, Roma, Napoli e Palermo. Il fine è identificare la tipologia e il numero di ragazzi che lasciano i banchi di scuola e i tipi di intervento e la loro efficacia. Intervita ha già lanciato lo scorso anno un progetto pilota con Frequenza 200, duecento come il numero dei giorni di lezione che la scuola deve garantire per legge, che prevede attività di un centro diurno operativo 5 pomeriggi a settimana.

il Fatto 2.10.13
G8 Condannato per stupro un agente di Bolzaneto


Confermata dalla Cassazione la condanna a 12 anni e sei mesi di reclusione per quattro violenze sessuali commesse nel 2005, nei locali della Questura di Genova, dall’agente Massimo Pigozzi ai danni di donne in stato di fermo. Il poliziotto era già stato condannato a 3 anni e 2 mesi di reclusione per aver lacerato i legamenti della mano di un manifestante portato nella caserma lager di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Proprio questo precedente doveva indurre il Viminale a non adibire più Pigozzi ad occuparsi di persone fermate: ribaltato dunque il verdetto della Corte di Appello che il 12 giugno 2012 aveva escluso la colpa del Ministero dell’Interno per gli abusi sessuali perpetrati da Pigozzi, in quanto tale "comportamento dell’imputato - per i giudici di secondo grado - non era finalizzato al raggiungimento di fini istituzionali". Questo punto di vista non è stato condiviso dalla Cassazione che ha accolto il ricorso di una delle donne abusate che aveva chiamato in causa anche lo Stato a pagare, insieme al poliziotto, la cifra (non nota) fissata come risarcimento per gli abusi subiti nelle celle di sicurezza.

Corriere 2.10.13
Il Viminale condannato a risarcire le donne violentate da un agente
Il poliziotto era stato coinvolto nei fatti della Bolzaneto durante il G8
di Erika Dellacasa


GENOVA — Sarà il Viminale a risarcire una delle donne che l’assistente capo di polizia Massimo Luigi Pigozzi violentò negli spogliatoi della questura di Genova nel 2005. Lo ha deciso la terza sezione penale della Cassazione confermando la condanna di Pigozzi a dodici anni di reclusione per violenza aggravata nei confronti di due prostitute e di una donna senza fissa dimora e a sei mesi per abbandono del posto di lavoro. La Cassazione ha accolto il ricorso di una delle donne che sollevava il problema della responsabilità del Viminale per l’incarico ricoperto da Pigozzi, a contatto con persone detenute, dopo che il poliziotto era già stato condannato per le violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova.
L’assistente capo era stato riconosciuto colpevole di aver divaricato le dita di una mano di uno dei No global fermati fino a che la pelle della mano si era lacerata, praticamente aperta in due (per fermare il sangue erano stati necessari venticinque punti di sutura, a vivo e senza alcuna anestesia), un atto di raccapricciante e gratuita violenza. Il ragazzo, Giuseppe Azzolina, ha riportato una invalidità permanente alla mano. Nonostante questo e la condanna a tre anni e due mesi di reclusione Massimo Luigi Pigozzi era tornato a svolgere le sue abituali mansioni nella questura di Genova. Nel 2005 due prostitute romene e una giovane donna che erano state fermate lo denunciarono per violenza sessuale: affermarono di essere state prelevate da Pigozzi dalla cella di sicurezza e portate negli spogliatoi dove avevano subito violenza. L’assistente capo è stato condannato in primo e secondo grado, la Cassazione ha confermato i dodici anni e mezzo di reclusione ma a differenza della sentenza d’appello che la escludeva ha affermato la responsabilità del ministero degli Interni. Questo perché c’è stata una colpa omissiva «in vigilando», ha stabilito la Cassazione, accogliendo la tesi del legale di una delle donne che hanno subito lo stupro. Pigozzi non doveva essere messo a contatto con persone detenute.
«È stato accertato — scrive la terza sezione — che i fatti si sono svolti all’interno di un ufficio di polizia e durante il servizio di vigilanza alle persone fermate, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti la funzione pubblica di agente di polizia». «Sussistendo quindi il rapporto di occasionalità necessari tra il fatto e le mansioni svolte — argomentano i magistrati — andava confermata la responsabilità civile dello Stato che, peraltro, nonostante il Pigozzi fosse già stato coinvolto in fatti di violenza contro soggetti in stato di fermo e condannato in primo grado, ha ritenuto adibirlo ancora una volta allo svolgimento di mansioni che prevedevano il contatto diretto con le persone arrestate o fermate». Il Viminale dovrà quindi risarcire una delle vittime del poliziotto, questo perché soltanto una di esse si è costituita parte civile e ha presentato ricorso contro la sentenza di non responsabilità del Viminale emessa dalla Corte d’Appello. L’incarico di sorveglianza affidato a Pigozzi, ha scritto il legale della donna nel ricorso, «ha grandemente agevolato la condotta criminosa».
Pochi mesi fa, il 14 giugno, la Cassazione ha confermato nei confronti dell’assistente capo (sospeso dal servizio dal 2005) anche la condanna a tre anni e due mesi per i fatti di Bolzaneto. Con la sentenza di giugno la Suprema Corte ha chiuso l’ultimo dei grandi processi del G8 del 2001 a Genova, quello delle violenze nella caserma di Bolzaneto usata come primo centro di detenzione per i fermati: «Contro i manifestanti portati in caserma — hanno scritto i giudici — furono messe in atto violenze per dare sfogo all’impulso criminale», e questo in un «clima di completo accantonamento dei principi cardine dello Stato di diritto». Insieme a quella dell’irruzione e della «macelleria messicana» nella scuola Diaz una pagina nerissima per le nostre istituzioni. Sia il processo per la Diaz sia quello per Bolzaneto si sono conclusi con il riconoscimento di risarcimenti alle vittime, non ancora onorati da ministeri.

Repubblica 2.10.13
“Io e i miei figli, in fuga dalla fame su quel barcone abbiamo visto l’inferno”
Ragusa, parla una sopravvissuta eritrea. Gravi due feriti. Arrestati 7scafisti
di Francesca Viviano


SCICLI (RAGUSA) — Continua a pregare a ringraziare Dio di avercela fatta, di non essere annegata sul litorale di Scicli come è accaduto a 13 suoi connazionali. Adesso che l’incubo è finito Fatima Mahemed, eritrea, 32 anni, passeggia nel centro di accoglienza di Pozzallo. E sembra una chioccia perché in braccio tiene il figlio più piccolo mentre gli altri tre (tra i 4 e i sette anni), le girano intorno come pulcini. Pulcini che Fatima temeva potessero morire affogati quando la barca si è arenata su una secca ed è successo il finimondo con gli scafisti (5 siriani e 2 egiziani arrestati ieri) che picchiavano tutti, spingendoli in mare per alleggerire l’imbarcazione e tornare indietro, in Libia, da dove erano partiti.
Fatima vorrebbe dimenticare quello che ha vissuto negli ultimi anni e nelle ultime ore, ma non riesce a togliersi dalla mente quei momenti drammatici, i 13 uomini morti affogati, i feriti (due dei quali ora versano in condizioni disperate, mentre 5ricoverati sono fuggiti e tra i dispersi 22 sono stati rintracciati nelle campagne e condotti al centro di Pozzallo). E così ci racconta il suo viaggio, lungo tre anni e iniziato ad Agordat, 160 km. a ovest di Asmara, Eritrea. «È stato mio marito a decidere: per salvare i nostri bambini dalla fame e dalla guerra non restava che provare a raggiungere l’Italia. Ma lui è rimasto perché i soldi non bastavano. Mi ha detto: “Andate, e se Dio vorrà vi raggiungerò”».
DUE ANNI A KHARTOUM
«Un nostro conoscente mi aveva dato l’indirizzo di Khartoum di una persona che organizza questi viaggi clandestini e siamo partiti, con i soldi raccolti tra i parenti, a bordo di un camion diretto verso il Sudan. E lì sono rimasta: per raccogliere altri soldi lavoravo da cameriera, ma non avevo nessuno a cui lasciare i miei bambini. Due anni dopo avevo mille dollari da parte: 800 sarebbero serviti per il “trasferimento” in Libia. “Prendere o lasciare” mi dicevano. Ho anche pensato di tornare indietro ma avrebbero preteso gli stessi soldi per riportarmi in Eritrea. Così ho accettato: eravamo più di 300, stipati in due camion che viaggiavano solo di notte. Faceva freddo e non avevo coperte per i miei figli. Ma in una settimana siamo arrivati. Ad Al Zuhara e da lì, il 5 settembre i sudanesi ci hanno consegnati ad un gruppo di libici che ci hanno portato in una fattoria in aperta campagna, vicino a Tripoli. Eravamo sorvegliati, come prigionieri. Ho visto picchiare con i manganelli, senza motivo. Abbiamo patito la fame: ci davano soltanto un pezzo di pane algiorno e acqua, che però era salata e ci faceva stare male».
LE LUCI DI MALTA
«Dopo settimane, all’improvviso, la sera di venerdì 27 settembre ci hanno ordinato di prepararci a partire. Siamo andati a piedi fino alla spiaggia, ma altri, 100 o 200, sono arrivati sui camion. Un gommone faceva avanti e indietro fino al barcone, dopo che avevi pagato: nel mio caso, 1.600 dollari, tutto quello che avevo raccolto in Eritrea, “i tuoi figli viaggiano gratis” mi hanno detto. A bordo c’erano uomini con la pelle piùchiara (gli scafisti arrestati ieri,ndr).
E siamo partiti: da mangiare, qualche tozzo di pane e acqua, stavamo appiccicati l’uno all’altro, mancava lo spazio anche per respirare. Gli scafisti si davano il cambio al timone: ogni tre ore spegnevano i motori per farli raffreddare e ci fermavamo. Il mare era tranquillo, ma noi stavamo male. Dopo due giorni così abbiamo visto le luci delle case su un’isola, pensavo fosse la Sicilia e invece era Malta. Nessuno ci diceva nulla. E io pregavo».
“LI HO VISTI AFFOGARE”
«La notte dopo abbiamo visto altre luci, quelle della costa siciliana. Eravamo stremati, i miei bambini soffrivano la fame e soprattutto la sete, vomitavano e piangevano, ma ormai pensavo che fossimo salvi: stavamo per arrivare in Sicilia, in Italia». «All’alba di lunedì il mare ha iniziato ad agitarsi e il barcone ha finito per fermarsi, incagliata su un banco di sabbia. È stato in quel momento che è scoppiato l’inferno. Gli uomini “con la pelle più chiara” (gli scafistindr)ci urlavano di scendere da prua, spingevano e picchiavano, mentre il barcone veniva investito dalle onde. Qualcuno si è tuffato, altri sono caduti in acqua, ma pochissimi sapevano nuotare. Ed è così che hanno cominciato a morire. Li ho visti affogare uno dopo l’altro: tentavano di riemergere ma affondavano. Io sulla barca stringevo i miei bambini, terrorizzata da quel che stava succedendo. Troppo debole per reagire. Eppure la riva era lì, a poche decine di metri. Non so quanto è durato quel caos. Ma so che quando ho infine deciso di scendere con i miei piccoli, altri uomini e quegli altri con le divise (i carabinieri,ndr)mi hanno aiutata a raggiungere la spiaggia. “Ce l’abbiamo fatta”, ho pensato. Ma intorno a noi il caos continuava: urla, gente che scappava. E quei corpi, tredici uomini eritrei come me, morti sulla vostra spiaggia».

il Fatto 2.10.13
Cresce il razzismo, cresce il fascismo
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, dai cori negli stadi agli insulti sugli autobus fino alle minacce al presidente della comunità ebraica di Roma, si moltiplicano nel nostro Paese i gravi episodi di razzismo. Noto un continuo impegno di sminuire, di rinchiudere fatti anche gravi nello “vicenda isolata”. Perché nessuno vede il pericolo?
Marta

NELLA RISPOSTA che sto per dare non giocherò a fare il paradossale. Ma credo che sia il punto da cui partire. Smettiamo di dire (lo fanno, con le migliori intenzioni, un po’ tutti i leader e le personalità politiche che hanno ancora credibilità e rispetto) che “l'Italia non è un Paese razzista”. Anche molti americani lo hanno detto, del loro Paese, persino ai tempi di Sacco e Vanzetti. Ma solo quando Martin Luther King li ha svegliati si sono accorti che non era vero, che il razzismo era un tratto nazionale, destinato a crescere senza la rivoluzione dei diritti civili. L’Italia ha due alibi. È un Paese cattolico e tutti credono di essere buoni. Per fortuna è arrivato Francesco che, per prima cosa, è andato a Lampedusa, da cui ha lanciato il suo grande ammonimento: “Vi supplico, non fatelo più”. Avrete notato che i salvataggi si sono moltiplicati dopo la visita del Papa, e dopo due decenni di velenosa Lega Nord. Ma il secondo alibi è tenuto in vita dalla sventurata frase “non siamo un Paese razzista”. Se vuol dire che molta gente non prova l’ignobile impulso che induce a insultare negli stadi e ad aggredire sugli autobus, e a pubblicare gli indirizzi delle famiglie ebree, allora occorre ricordare che anche negli Usa, ai tempi del Ku Klux Klan e delle croci bruciate davanti alla case dei neri condannati, la maggior parte dei cittadini non partecipava a quegli eventi malefici o alle impiccagioni notturne. Ma faceva finta di non sapere, come in Italia ai tempi delle persecuzioni razziali. La frase “non siamo razzisti” è una consolazione pericolosa. La lotta al razzismo non è l'atteggiamento passivo di chi non fa nulla di male, ma non si immischia. Chi non si immischia è complice. Attenti al fenomeno: il fascismo sta crescendo e ritrovando un po’ dovunque in Europa il suo vecchio coraggio omicida. Vedete, chi ha imparato questo nel tempo in cui fascismo e razzismo dominavano l'Europa, è portatore di tristi certezze. Questa per esempio: il fascismo è sempre razzista. Il razzismo è sempre fascista, persino se non lo sa. Ogni tolleranza è colpevole e pericolosa.

il Fatto 2.10.13
Qui muore l’arte contemporanea
Le opere all’aperto di Villa Glori a Roma sepolte da anni di incuria e spazzatura
di Claudia Colasanti


“Jannis Kounellis. 1997”. È rimasta solo la targa, sepolta da aghi di pino ed escrementi, su uno dei vialetti di Villa Glori, tra i quartieri Flaminio e Parioli, a Roma. Sparita nel nulla e senza spiegazioni, “Il bosco delle apparizioni” era un’emozionante installazione luminosa, composta da cento lampade appese a mezz'aria tra i tronchi, firmata dal greco Kounellis, fra i più importanti artisti del mondo. L’opera era parte di un progetto promosso dal Comune per la realizzazione permanente del Parco di Scultura Contemporanea (l’unico, ancora ad oggi, nella Capitale), che inaugurò nel 1997. Villa Glori, ex Parco della Rimembranza, con un piazzale centrale e un tessuto di viali – oltre 6.000 tra alberi e arbusti di pini, querce, ippocastani ed ulivi – possiede anche un ‘merito storico’ di ospitalità: dal 1988, nelle strutture del vecchio casale, vi risiede una casa-famiglia affidata alla Caritas romana. NEL 1997, la curatrice Daniela Fonti formulò il titolo “Varcare la soglia” per l’avvio del parco, con l’intento di dare all’arte la possibilità di trasmettere valori non solo formali e favorire una di riflessione sui temi dell’emarginazione e del pregiudizio, in un tentativo di confronto (e conforto) verso i giovani affetti da AIDS, ospiti della Caritas. Gli artisti erano dieci, in gran parte di caratura internazionale: oltre Kounellis, Maria Dompè, Nino Caruso, Pino Castagna, Eliseo Mattiacci, Maurizio Mochetti, Nunzio, Franco Purini e Mauro Staccioli, ai quali nel 2000 si aggiunsero altre due opere, una di Paolo Canevari, l’altra di Giuseppe Uncini. A distanza di circa 15 anni (un tempo breve per opere destinate a stare all’aperto), la visita al Parco dell’Arte si è trasformata in una desolante caccia al tesoro. Ai due ingressi una puntuale piantina, redatta dal Comune di Roma, indica le 11 tappe della parte commemorativa (anch’esse per la maggior parte recintate e malridotte) e le 10 del parco di Scultura Contemporanea. Dopo il Kounellis sparito, c’è la Porta del Sole di Uncini, portale in cemento rivestito in peperino grigio e rosa, che si trova facilmente, ma è tristemente sporca; Ordine, il disco di Mattiacci, accerchiato da bidoni della spazzatura e automobili; e l’Arco Laser di Mochetti da cui pare sparito il laser. Ancora si vedono, pur se nascoste da sterpaglie, la Linea di Nunzio e la lunga sequenza di grandi ruote, immensi cerchi rossi rotolanti di Staccioli. ANCORA peggio è andata all’Uomoerba di Canevari: il suo muretto di tufo dalla sagoma di bimbo scavato nel terreno, lungo 18 metri, è introvabile, seppellito dall’erba. Langue maltrattata e come scossa nelle fondamenta da un terremoto anche l’evocativa Meditazione, di Maria Dompè. Un altro infelice esempio della poca considerazione delle nostre stesse risorse, di un’assenza totale del concetto di manutenzione, anche nel mondo del contemporaneo, al-l’estero maggiormente rispettato. A Roma in questi giorni, si decidono – legittimamente – le sorti e i finanziamenti a contenitori d’arte come Maxxi o Macro, ma un bene da tempo acquisito come questo parco, per nulla facile da realizzare, con nomi di prestigio e in un luogo invidiabile, sparisce nel nulla o, in questo caso, sotto chili di erbacce.

l’Unità 2.10.13
Oslo, L’ultradestra nazionalista xenofoba e populista al governo in Norvegia
La futura premier conservatrice Erna Solberg ha presentato le linee guida di un esecutivo di minoranza
Sotto attacco il modello nordico
di Paolo Boroni


In Norvegia sta per nascere il primo governo scandinavo con la partecipazione diretta della destra populista. Sarà un esecutivo di minoranza formato dai populisti del «Partito del progresso» e dagli xenofobi della «Destra». L’appoggio esterno sarà fornito dai centristi.
Pare quindi certo: il primo governo scandinavo con partecipazione diretta della destra populista verrà formato in poche settimane e governerà la Norvegia. Ma non sarà, stando alle notizie riportate ieri dalla stampa norvegese, un governo di maggioranza: sarà sostenuto dall’esterno dai più moderati partiti liberale e democristiano. Capovolta la formula che aveva governato in Danimarca fino al settembre 2011: a Copenaghen erano stati i nazional-populisti del Dansk Folkeparti ad appoggiare dall’esterno conservatori e liberali, a Oslo invece i populisti del Partito del Progresso governeranno con i conservatori del partito detto Destra, l’appoggio esterno sarà invece fornito dai partiti centristi.
A convincere questi ultimi ad una posizione più defilata i molti segnali di malessere da parte per esempio del mondo associativo cristiano rispetto ad un patto di governo organico così spostato a destra. Le istituzioni del volontariato religioso avevano con forza dichiarato che l’apertura del welfare ai privati doveva distinguere fortemente fra aziende a fini di lucro e puro privato sociale. Ad influire su questo aspetto del negoziato, di certo, anche la catastrofica esperienza svedese: l’introduzione di aziende for profit nell’ambito della erogazione di servizi comunque finanziati dal pubblico ha sortito pessimi risultati a fronte di grandi ricchezze accumulate dai privati.
Incertezze verso una collaborazione di governo a quattro erano anche emerse nell’ambito della destra populista, in gran parte favorevole ad un lavoro parlamentare più libero e spregiudicato, che cercasse consenso sui singoli provvedimenti. I conservatori, il vero collante del centro-destra, e gli unici ad essere avanzati sensibilmente alle ultime elezioni, sono riusciti tuttavia a giungere ad un accordo: governo senza centristi ma intesa programmatica di massima con questi, che così entro un certo limite si legano all’esecutivo più di destra d’Europa.
Il nuovo governo in ogni caso favorirà maggiori privatizzazioni sia nel welfare sia nell’economia, e assumerà caratteri più chiaramente restrittivi sull’immigrazione, dato che per la prima volta per gli immigrati respinti sarà previsto anche l‘arresto. Più risorse andranno inoltre sia alla difesa sia alle forze dell’ordine. Centrale è come sempre l’uso del grande fondo sovrano petrolifero, fin qui limitato alla resa del suo investimento, senza intaccare il capitale. È confermata questa regola di fondo, assieme al criterio che prelievi e utilizzi vanno comunque utilizzati per la sanità, la ricerca e l’istruzione. È però molto verosimile anche un utilizzo finalizzato al taglio delle tasse: i populisti del Partito del Progresso potranno facilmente giustificare questo loro obbiettivo con la scarsa crescita. Del resto, anche la spesa per gli enti locali verrà tagliata per poter permettere questo taglio fiscale, con accorpamenti radicali e più o meno forzati di molti comuni.
IL NODO DELLE TASSE
Scelte che potrebbero rivelarsi molto problematiche per la coesione di un Paese a popolazione fortemente dispersa in un grande territorio. I socialdemocratici e i loro alleati del partito agrario si erano infatti opposti al taglio delle tasse e all’uso indiscriminato del fondo petrolifero proprio per evitare di dissolvere oggi risorse utili nel futuro. E qui incrociamo la versione norvegese della sindrome socialdemocratica della sconfitta: il partito socialdemocratico norvegese ha perso anche per avere alla fine proposto una versione troppo rigida di tale cautela, di sicuro negli ultimi quattro anni di mandato (2009-2013). Anche nella ricchissima Norvegia, insomma, la socialdemocrazia paga l’intreccio causale fra bassa crescita europea e mancata redistribuzione verso il basso. In sostanza, se potesse contare su una maggiore e più equa crescita nella Ue, la sinistra norvegese (come le altre) opererebbe una maggiore distribuzione delle grandi ricchezze, assicurando ulteriore crescita. Così potrebbe distinguersi dai populisti non per un diverso uso delle entrate petrolifere, non per una maggiore e alla lunga impopolare cautela nell’usarle. Ad ogni modo, con un governo di destra comincia un nuovo attacco al modello nordico. Come detto, perplessità sono già emerse. Nel 2005 la sinistra vinse e riuscì a respingere le prima ondata di ridimensionamento del modello. Per rendere efficace il secondo attacco è stato necessario includervi per la prima volta i populisti. Una svolta storica, che ha le radici in un’Europa asfittica, che rende impossibile per le sinistre uscire dalla soggezione al neoliberismo.

l’Unità 2.10.13
La Linke sfida la maggioranza platonica delle sinistre
Proposto a Spd e Verdi un piano per approvare misure condivise, tagliando fuori Cdu/Csu
Sul salario minimo posizioni vicine ma resta il non possumus socialdemocratico
di Paolo Soldini


Un’iniziativa parlamentare della sinistra per approvare riforme che la Cdu della cancelliera Merkel non accetterebbe mai, neppure in un governo di coalizione con i socialdemocratici. È quanto hanno proposto, ieri, i dirigenti della Linke, il partito della sinistra radicale, in una lettera indirizzata alla Spd e ai Verdi. La lettera, firmata dai due capi del partito Bernd Riexinger e Katja Kipping e dal presidente del gruppo parlamentare Gregor Gysi, parte da una premessa incontestabile: le trattative tra Cdu/Csu e i socialdemocratici per formare la grosse Koalition, se mai arriveranno a una conclusione positiva, dureranno settimane se non mesi. E d’altra parte è assai dubbio che si prospetti una coalizione dei partiti dc con i Verdi. In attesa che l’alleanza di centro-sinistra maturi, niente impedisce che i tre partiti di sinistra utilizzino la maggioranza di cui sulla carta dispongono al Bundestag (319 seggi contro 311) per approvare provvedimenti che sono nei loro programmi elettorali e sui quali, tra loro, sarebbe relativamente facile trovare un accordo. Riexinger, Kipping e Gysi vanno sul concreto e indicano, come primo terreno d’intesa, la legge sul salario minimo garantito. Qui le posizioni dei tre partiti sono abbastanza vicine: la Spd e i Grünen chiedono la fissazione di una base minima oraria di 8,5 euro per tutti i tipi di lavoro e tutte le forme di contratto. La Linke nel suo programma elettorale ha indicato una base di 10 euro. Cdu e Csu sono contrarie invece alla fissazione della soglia minima per legge.
Non mancano altre misure su cui si potrebbe costruire un’iniziativa parlamentare comune della sinistra sulla base delle convergenze nei programmi.
Per esempio in materia di politica fiscale, con misure perequative delle tasse, e in materia di assistenza sociale, con l’abolizione del Betreuungsgeld, il sussidio sostitutivo degli asili-nido voluto soprattutto dai cristiano-sociali.
DISTANZE POLITICHE
Al di là dei contenuti appare evidente il senso politico dell’iniziativa: l’affermazione di una maggioranza riformatrice che, pur se non può farsi governo, riesce comunque a incidere sulla realtà economica e sociale. Ma proprio in questo aspetto «politico» si nasconde la debolezza del progetto. La Spd e i Verdi hanno qualche ragione di considerare con un certo sospetto l’iniziativa della Linke: come un tentativo un po’ strumentale di aggirare il rifiuto politico che hanno opposto, finora, ad una alleanza con la sinistra radicale. La maggioranza delle sinistre nel Bundestag è del tutto platonica, visto e considerato che né la Spd né i Verdi ritengono attualmente praticabile lo scenario di un governo con la Linke. A livello locale magari sì, di coalizioni rosso-rosso-verdi o anche solo rosse-rosse ce ne sono e ce ne sono state, ma a livello nazionale no. Non possumus: la Linke nei Länder dell’est puzza ancora di Ddr e raccoglie i voti di molti «nostalgici», mentre in quelli dell’ovest ha una certa propensione al radicalismo anti-sistema. Le due cose, messe insieme, la rendono indigeribile alla maggioranza degli elettori della sinistra classica. O almeno così ritengono gli stati maggiori degli altri due partiti.
Questo spiega perché le prime reazioni dei dirigenti socialdemocratici e Verdi siano state, ieri, non negative ma abbastanza tiepide. Nella Spd soltanto dall’organizzazione giovanile degli Jusos, tradizionalmente orientata a sinistra, e da Jan Stöß, capo del partito a Berlino (dove c’è stato in passato un governo locale rosso-rosso-verde) sono venuti inviti a rispondere positivamente. Sull’altro fronte, il più duro è stato Hubertus Heil, vice del presidente del gruppo parlamentare Frank-Walter Steinmeier, secondo il quale «il salario minimo garantito è un progetto per noi troppo prezioso per farne oggetto di giochetti politici». Tra i Verdi, che al momento mancano di organismi dirigenti dopo le dimissioni di Jürgen Trittin e di Katryn Göring-Eckart, nessuno tra gli altri destinatari della lettera, Claudia Roth, Cem Özdemir e Renate Künast, finora si è espresso.
L’iniziativa, comunque, pare che abbia provocato qualche inquietudine negli stati maggiori di Cdu e Csu. Le trattative con i Verdi, coi quali c’è stato un incontro ieri, sono quasi puramente formali e quelle con la Spd si annunciano molto complicate. La proposta della Linke potrebbe avere qualche margine in queste difficoltà e non a caso qualche giornale vicino alla cancelleria l’ha denunciata come un tentativo di far passare dalla finestra l’ipotesi di un governo di sinistra che per la porta certo non passerebbe mai.

Corriere 2.10.13
Ultimatum delle donne Spd: «Quote rosa e riforme o niente Grosse Koalition»
Il partito ha perso terreno tra le elettrici
di Paolo Lepri


BERLINO — Basta promesse, evitiamo ulteriori rinvii. Elke Sommer, la parlamentare che guida l’Associazione delle donne socialdemocratiche, non ha dubbi. Vuole dare battaglia. L’introduzione delle quote femminili nei consigli di amministrazione delle aziende e l’abolizione dell’assegno per le famiglie che non mandano i bambini all’asilo-nido devono essere due punti indispensabili del programma di un’eventuale grande coalizione con l’Unione Cdu-Csu di Angela Merkel. Altrimenti, meglio l’opposizione. Sarà un complicato nodo da sciogliere, questo, nei negoziati tra i due grandi partiti tedeschi che inizieranno venerdì e sono destinati ad andare avanti per settimane se non addirittura per qualche mese. Non è difficile prevedere una discussione molto tesa. «Le quote e il no alle sovvenzioni familiari sono stati al centro della nostra campagna elettorale. Abbiamo inserito l’uguaglianza di genere nel nostro programma. Adesso vogliamo una risposta» ha detto allo Spiegel Elke Sommer, convinta che sia impossibile aspettare altri quattro anni, come vorrebbero i cristiano-democratici. «E’ arrivato — ha aggiunto — il momento di agire».
Per le donne socialdemocratiche è ancora bruciante il ricordo del voto del Bundestag grazie al quale fu respinta in aprile (320 no, 277 sì) la mozione di Spd e Verdi che prevedeva la presenza obbligatoria di un 20 per cento di donne nei consigli di amministrazione delle maggiori aziende a partire dal 2018 e del 40 per cento cinque anni dopo. Il gruppo dirigente Cdu-Csu riuscì a vincere lo scontro con l’opposizione dopo un compromesso accettato «a malincuore» dalla ministra del Lavoro Ursula von der Leyen, favorevole da tempo ad una percentuale di posti riservati alle dirigenti di sesso femminile. «Su questo problema non tutte le donne la pensano allo stesso modo, ma non vuol dire che non ci stia a cuore», disse la cancelliera in un’intervista. Ma si rinviò il problema a successive discussioni nel partito. Attualmente sono solo circa il 4 per cento le donne ai vertici della aziende tedesche.
Altrettanto tormentata fu l’approvazione del «Betreuungsgeld», il sussidio per le famiglie che decidono di tenere a casa i bambini invece di portarli all’asilo- nido. Il provvedimento, in vigore da agosto, fu fortemente voluto dai cristiano-sociali bavaresi nonostante molte voci contrarie anche all’interno della stessa maggioranza di governo. E’ stato sempre osteggiato dall’opposizione e da molte associazioni femminili, convinte che costituisca un incentivo contro l’integrazione e danneggi in modo determinante la possibilità di un maggiore inserimento nella società e nel mondo del lavoro delle donne che hanno figli piccoli. «Se sarò cancelliere, lo abolirò subito», aveva annunciato Peer Steinbrück , il leader socialdemocratico sconfitto dal voto del 22 settembre.
L’ex ministro delle Finanze nel primo governo Merkel non è diventato cancelliere, ma le donne socialdemocratiche vogliono che le promesse fatte vengano mantenute anche in un governo di larghe intese. E la pressione è forte all’interno del partito, che è andato poco al di sopra del suo minimo storico, ma che ha soprattutto perso terreno nell’elettorato femminile. Al presidente Sigmar Gabriel, che guiderà la delegazione nei negoziati per il nuovo governo, viene chiesto di far sentire con forza la sua voce per una maggiore uguaglianza sia nella società tedesca che nella stessa Spd, penalizzata da un’immagine troppo «maschile». Le donne socialdemocratiche vogliono contare di più e non sarà facile eludere le loro richieste. Chi tenta di fermare le loro rivendicazioni potrà citare i risultati di un sondaggio pubblicato ieri, secondo cui due uomini su tre ritengono che la parità dei diritti in Germania abbia già raggiunto un livello sufficiente. Si tratta di decidere, però, se credere ai sondaggi o alle statistiche.

Corriere 2.10.13
Per 2 maschi su 3 «hanno ottenuto troppi diritti»


BERLINO — La parità dei diritti ha raggiunto in Germania un grado già molto elevato e non è più il caso di esagerare. Due maschi su tre (64%), secondo quanto rivela un sondaggio dell’Istituto Allensbach eseguito per la rivista Bild der Frau , ritengono che il grado di equiparazione dei diritti da parte delle donne sia ormai sufficiente, mentre il 28% del campione maschile ritiene invece che si stia ormai esagerando e un altro 6% che si considera svantaggiato nella situazione attuale. Oltre un uomo su tre (35%), nel caso dei single uno su due, afferma di essere in difficoltà nell’adeguarsi al ruolo che le donne pretendono dai maschi, con il 62% degli uomini che non è in nessun caso disposto ad accettare un lavoro a tempo parziale per dedicarsi di più alla famiglia. Sul piano dei lavori domestici, l’81% dei maschi di età compresa tra 18 e 44 anni è convinto che le donne siano più dotate per svolgere determinate attività, in particolare quella di stirare. Il 60% degli uomini ritiene poi che le donne possiedano un talento naturale per lavare e pulire bagni e finestre, trovando su questo punto il consenso della maggior parte delle signore di età compresa tra 45 e 65 anni.

Corriere 2.10.13
Stop allo sciopero della fame. La Pussy Riot resta in ospedale
di Sara Bicchierini


Nove giorni senza cibo per gridare al mondo che in Russia i carceri-gulag esistono ancora. Si è interrotta ieri, dopo un ricovero in ospedale, la nuova battaglia di Nadezhda Tolokonnikova, leader della band anti-Putin delle Pussy Riot, detenuta nella colonia penale n. 14 della Mordovia, una repubblica autonoma a 600 chilometri da Mosca. Condannata nell’agosto 2012 a due anni di lavori forzati per «hooliganismo», dopo aver cantato con altre attiviste una preghiera punk contro l’attuale presidente russo nella cattedrale moscovita del Cristo Salvatore, la 23enne Tolokonnikova sta scontando la pena nella prigione femminile considerata, da chi ci è passato, tra le peggiori di tutta la Russia. Diciassette ore di lavoro al giorno tra vecchie macchine da cucire, per sfamarsi un po’ di pane duro, appena 4 ore per poter dormire, pestaggi. E, come se non bastasse, minacce di morte indirizzate alla cantante da parte del vice direttore della colonia. «Non posso rimanere in silenzio», aveva scritto Tolokonnikova nella lettera consegnata dai familiari alla stampa la scorsa settimana. «Chiedo che ci trattino come esseri umani, non come schiavi». Così il 23 settembre aveva dato il via a uno sciopero della fame. Una battaglia portata avanti anche a nome delle altre 800 recluse che non osavano ribellarsi. La protesta aveva preoccupato attivisti e familiari, soprattutto quando le condizioni di salute di Nadia erano peggiorate. La scorsa domenica le autorità avevano ordinato il ricovero in ospedale, dove l’avevano sottoposta a iniezioni. «Mi impediscono di vederla da giorni e di avere sue notizie», aveva dichiarato il marito Pëtr Verzilov. «Sono terrorizzata», confermava l’avvocato della donna. La giovane, madre di un bimbo di 5 anni, sarebbe, secondo le autorità carcerarie, «in condizioni stabili». «Ora spera nel trasferimento in un’altra colonia», rende noto il delegato per i diritti umani Lukin, che ieri le ha parlato.

il Fatto 2.10.13
Il silenzio tombale dei Fratelli musulmani
Il presidente eletto e il leader agli arresti, i militanti sotto controllo
A 2 mesi dalla rivolta di piazza il movimento è stato smantellato
di Francesca Cicardi


Il Cairo Hassan ha paura di parlare e di farsi notare nella metropolitana del Cairo: sta tornando da una delle manifestazioni contro il colpo di stato che ogni giorno hanno luogo in periferia. Questo giovane seguace dei Fratelli Musulmani è più spaventato e preoccupato di quanto non lo fosse durante la campagna a favore del gruppo “clandestino” all’epoca della dittatura dell’ex presidente Hosni Mubarak. Durante le elezioni del 2010, Hassan non aveva bisogno di nascondersi e lavorava all’ufficio della Fratellanza nel quartiere di Ain Sira, al Cairo. Adesso, quel-l’ufficio e tutte le sedi locali, provinciali e nazionali sono chiuse, i leader e i membri dell’organizzazione sono praticamente tutti in prigione.
La repressione è più dura che mai: l’attuale campagna contro i Fratelli Musulmani è tra le più feroci che il gruppo ha subito dagli anni 50, quando l’organizazzione fu messa al bando. Inoltre, un tribunale egiziano ha proibito tutte le attività del gruppo e i movimenti associati, offrendo così l’appiglio legale alle autorità per eliminare definitivamente la Fratellanza dalla vita politica e pubblica.
Dal colpo di Stato contro il presidente Mohamed Morsi il 3 luglio, la sicurezza e l’intelligence egiziane stanno lavorando senza sosta per annientare le capacità di azione dei Fratelli, sia in ambito politico che nelle strade. Le manifestazioni sono praticamente clandestine: nelle ultime settimane non vengono più annunciate, il percorso delle marce è “segreto” e le persone che osano ancora scendere in piazza sanno che rischiano non solo di essere arrestate ma anche attaccate dalla polizia e dai gruppi contrari alla Fratellanza.
L’OSTILITÀ verso i Fratelli ha fatto si che i membri e i simpatizzanti del gruppo siano emerginati non solo dal governo ma anche dai loro vicini, colleghi di lavoro e persino parenti. A ciò hanno contribuito notevolmente i media, schierati apertamente contro gli islamisti.
Nel frattempo, tutte le voci della Fratellanza sono state messe a tacere: persino gli amministratori dei siti internet e dei social media si sono trasferiti definitivamente a Londra. In Egitto, tutti gli esponenti sono in prigione, tranne Issam el Erian, uno storico dirigente della Fratellanza, che è l’uomo più ricercato del momento. L’ex presidente Morsi non è più riapparso in pubblico da quando fu deposto: da 3 mesi è agli arresti in una località segreta, isolato e senza poter comunicare con la famiglia, nelle mani dei generali.

il Fatto 2.10.13
Il governo usa chiude per vendetta: “Crociata ideologica”
Dopo lo shutdown Obama accusa i repubblicani
La Statua della Libertà, appena riaperta, non si potrà visitare
Sprangati anche parchi, musei, uffici pubblici
di Angela Vitaliano


New York Una battaglia ideologica contro la riforma sanitaria”: non usa metafore Obama, nel primo giorno di “shutdown”, presentandosi in conferenza stampa nel Rose Garden della Casa Bianca, per esortare, ancora una volta, i repubblicani a smettere di tenere l’economia del paese in “ostaggio”. E ribadisce che “non è questione di debito o di spese, ma solo il tentativo di negare un’assicurazione sanitaria sostenibile a milioni di americani”.
Dalla mezzanotte di lunedi proprio mentre il mancato accordo sull’innalzamento del tetto del debito faceva scattare, dopo ben 17 anni, il temuto “shutdown”, la riforma sanitaria, nota come Obamacare , entrava ufficialmente in vigore con le nuove formule assicurative, sostenute dal governo, a prezzo accessibile, destinate ai ceti meno abbienti. Per ben 4 volte, nella sola giornata di lunedi, la Camera, a maggioranza repubblicana, aveva passato al Senato, proposte di accordo per posticipare la riforma di almeno un anno. Per 4 volte, il Senato, a maggioranza democratica, aveva risposto “no”. “Una Camera di stronzi”, titolava ieri la prima pagina del Daily News, con tanto di foto di Joe Boehner con lo sguardo truce e vendicativo. A dare il senso immediato delle conseguenze dello “shutdown” è lei, il simbolo dell’America, la Statua della Libertà, da poco riaperta al pubblico, dopo i danni causati dal-l’uragano Sandy lo scorso anno, e di nuovo chiusa, come tutti gli altri parchi nazionali, dal Grand Canyon a Yellowstone. Circa 800mila americani, dipendenti di agenzie e uffici governativi non riceveranno, lo stipendio fino a quando la situazione non si sbloccherà e, per questo, tutti quelli considerati in ruoli “non essenziali” verranno, sin da subito, lasciati a casa. La “chiusura” del governo costerà all’economia del paese circa un miliardo a settimana e, come ha sottolineato Obama, “più a lungo durerà, peggiori saranno le sue conseguenze”.
A essere bloccati nelle loro attività, completamente o parzialmente, anche gli uffici che si occupano di emergenze sanitarie, quelli che fanno capo all’Irs e, dunque, effettuano controlli sul fisco e molti di quelli che si occupano di Istruzione. Gli zoo e i musei chiuderanno per mancanza di personale e di fondi per la loro gestione e, sebbene, le scuole resteranno aperte, ci potranno essere problemi dovuti al rallentamento/sospensione del servizio di raccolta rifiuti. L’unica, piccola, buona notizia, è che la vendita di armi subirà un rallentamento dovuto alla difficoltà degli uffici preposti a rilasciare i permessi. Ritardi sensibili ci potranno essere anche nell’ottenere il rinnovo del passaporto o altri documenti dagli uffici federali.
Quando, nella serata di lunedi, è stato chiaro che le cose si mettevano male, Obama ha firmato un provvedimento per garantire i salari ai militari, fra le prime “vittime” dello “shutdown”. A loro, con cravatta allentata e volto cupo, si è rivolto poco dopo la mezzanotte, chiedendo scusa per un Congresso “non al-l’altezza del popolo americano”.

il Fatto 2.10.13
Altruismo di governo
Il sacrificio di Barack
di Furio Colombo


Il braccio di ferro è questo: Obama deve rinunciare alla realizzazione più importante della sua presidenza, detto Obamacare , ovvero assistenza sanitaria per tutti, oppure i Repubblicani , che hanno la maggioranza alla Camera bloccano l'intero bilancio federale e la macchina dello Stato federale si ferma: niente servizi, niente sportelli, niente processi, niente stipendi a tutta Washington e a tutta la diramazione di presenza federale dentro i singoli Stati come legame per far vivere l'Unione.
COME SI VEDE il confronto è estremo e, per la prima volta dai tempi della Guerra di Secessione per la liberazione degli schiavi, il confronto è ideologico. Persino Franklin Delano Roosevelt era riuscito a far passare il New Deal (la più grande realizzazione americana di un vasto welfare socialista) come una serie di espedienti pragmatici per correggere a uno a uno gli spaventosi errori di egoismo fiscale e avidità imprenditoriale che avevano portato gli Usa alla rovina del 1929. Obama tiene duro sul principio di uguaglianza che è iscritto nelle Carte federali come uno dei fondamenti della democrazia. La sua è stata una guerra durissima (iniziata con i Clinton e con i Clinton perduta) contro il potere di vita e di morte delle compagnie di assicurazione, compreso il diritto di decidere, per quanto tu sia assicurato, se e per quale malattia ti curo, e quando, per convenienza, abbandono, eguali medicine ti spettano, indipendentemente dalla decisione, anche urgente, del medico. La Obamacare prevede che – sulla salute – tutti siano obbligatoriamente assicurati. Ma non alle condizioni arbitrarie del mercato ma secondo tabelle dettate dalla legge, che vanno da un dollaro a mille, a seconda della condizione economica dell'assicurato.
Il principio di buon governo è assicurato, la promessa di restituire a tutti gli americani il diritto alla salute (impegno fondamentale della elezione di Obama, insieme alla fine delle guerre) diventa così un fondamento della democrazia Usa. Ma espropria non tanto il potere economico imperiale delle assicurazioni, quanto il diritto di governare una parte importante della vita americana. Quel potere era immenso anche perché manteneva in posizione ubbidiente e umiliante i cittadini. E dunque l'impero delle assicurazioni non si arrende. Gli fa da scudo il Partito repubblicano nella versione estremista dei tea party, che ha come caratteristica l'irragionevolezza e una certa voluta cecità sulle conseguenze pur di affermare i propri “valori”. Ecco, tutto il popolo americano, e noi, spettatori interessati dell'America, perché legati al suo destino e impressionati dal suo esempio, stiamo osservando un grande e pericoloso scontro con cui il presidente accetta di non cedere a nome di un grande principio.
Persino se c'è qualcuno che pensa che i malati, specialmente i malati gravi, devono arrangiarsi da soli secondo la luminosa guida del mercato, dovrà constatare una grande differenza nel fronteggiarsi di Obama con il suo Congresso, rispetto alla sfida di Berlusconi al suo Parlamento. Obama mette in pericolo se stesso pur di ottenere la sua legge che garantisce cure mediche a tutti. Berlusconi mette a rischio l'intero sistema politico del suo Paese pur di mettere al sicuro se stesso.

Repubblica 2.10.13
Carceri Usa, 40 anni in isolamento
Ordinata liberazione per ex Pantera nera
L'ex membro del gruppo radicale ha 71 anni ed è un malato terminale: ha un tumore al fegato. Ha avuto solo un'ora d'aria al giorno. Il procuratore ha presentato appello

qui

il Fatto 2.10.13
Usa. Chiude la New York City Opera


La New York City Opera dichiara il fallimento. Dopo 70 anni di attività, la storica istituzione newyorchese ha annunciato che la ricerca di fondi privati per evitare la bancarotta ha raggiunto solo i 2 milioni di dollari, mentre ne servivano 7. La prima opera messa in scena fu la “Tosca ” nel 1944. LaPresse

La Stampa 2.10.13
Da “oppio dei popoli” ad arma anti-corrotti Xi riabilita la religione
Cina, svolta del presidente: la fede aiuta la moralizzazione
Gli analisti: favorirà il buddhismo ma più spazi anche per i cattolici
di Ilaria Maria Sala


La campagna contro la corruzione portata avanti da Xi Jinping compie una svolta inattesa. Il presidente cinese ha chiamato in causa perfino il potere della religione allo scopo di portare maggiore moralità in un Paese che sembra aver perso alcuni parametri fondamentali.
Secondo alcune fonti citate dalla Reuters, Xi sarebbe ormai disposto a lasciare maggior spazio a quello che era fino a ieri «l’oppio dei popoli», e conta sulla sua influenza positiva per raddolcire gli animi, induriti da trent’anni di riforme economiche senz’altro credo se non quello del dio denaro.
In questo periodo ancora di assestamento della nuova amministrazione, entrata in carica lo scorso marzo, si assiste del resto a una serie di tentativi di riportare il timone in direzioni più gradite da ognuna dalle varie lobby e fazioni all’interno del potere cinese - e quella per una maggiore tolleranza religiosa starebbe ora facendo sentire la sua voce. Non tanto per improvvisa devozione, appunto, ma al fine tutto pragmatico di combattere crimine, corruzione e amoralità diffuse, tramite un timor di Dio vecchio stampo.
Xiao Wunan, direttore della Asia Pacific Exchange and Cooperation Foundation (Apecf), una Ong con il sostegno del governo centrale che si occupa in particolar modo di scambi con i Paesi e le comunità buddhiste, sostiene che il periodo maggiormente persecutorio nei confronti di religioni e culti sarebbe infatti terminato: «Xi Jinping ha forti simpatie buddhiste, come del resto l’intera sua famiglia - dice - e non è certo l’unico caso all’interno del Partito Comunista».
Come Xiao stesso, del resto, membro di Partito e fervente buddhista, che già da alcuni anni sta promuovendo la Cina come «il più grande Paese buddhista al mondo», per espandere il «soft power» cinese anche in un’area poco esplorata, come per l’appunto quella del buddhismo.
Secondo Reuters, potremmo dunque assistere presto a un progressivo rilassamento dei controlli più repressivi nei confronti delle tre religioni tradizionali cinesi - ovvero il buddhismo, cristianesimo e taoismo - ma, secondo altre fonti, anche nei confronti del cristianesimo qualcosa si starebbe muovendo.
«La Cina sta cambiando atteggiamento anche con la Chiesa cattolica», ha detto una fonte, «e comincia ormai a non sopportare più l’assenza di relazioni diplomatiche con il Vaticano: potremmo forse vedere le prime concessioni in occasione della nomina del vescovo di Shanghai».
Indiscrezioni a parte, però, le religioni che sono state esplicitamente menzionate fino ad ora non comprendono il cattolicesimo, ma si concentrano sulle tre religioni tradizionali. Si tratta però di un segnale notevole: sotto Jiang Zemin, infatti, e dal 1999 in poi, si sono avute le persecuzioni anti-religiose più forti degli ultimi anni, con la messa al bando del gruppo spirituale Falun Gong, e la scomparsa del Panchen Lama riconosciuto dal Dalai Lama, sostituito con un bambino approvato dal governo centrale.
Politiche che non sono state ripudiate sotto Hu Jintao, predecessore di Xi Jinping, e che potrebbero dunque essere ora sotto parziale riesame. «Maggiore apertura e repressione sono due facce della stessa medaglia», commenta Nicholas Bequelin, di Human Rights Watch: «In Cina, la religione è al servizio dello Stato. Se lo Stato decidesse di rilassare i controlli, lo farebbe solo per motivi pragmatici».
Xiao Wunan, del resto, sembra molto ottimista rispetto al futuro del buddhismo nel Paese, pur sottolineando che «in Tibet la situazione è diversa, e le tensioni potrebbero rimanere più a lungo».

La Stampa 2.10.13
Mezzo miliardo di fedeli. In che cosa credono i cinesi


Taoismo: 30%
La principale religione in Cina è il taoismo, anche se può essere classificato sia come un sistema filosofico (categoria alla quale appartiene il confucianesimo) che come una fede. Taoismo e credenze tradizionali sono seguite da un terzo dei cinesi secondo un studio dell’Università di Oxford del 2012.
Buddhismo: 18%
Al secondo posto c’è la religione buddhista, arrivata in Cina dall’India nel I secolo, sotto la dinastia Han. Lo segue il 18% dei cinesi ed è in forte espansione
Cristianesimo: 4%
La Chiesa cattolica è stata fortemente contrastata. Pechino ha istituito una sua gerarchia inquadrata nella Chiesa cattolica patriottica, non riconosciuta dal Vaticano. Per il governo i cattolici sono 4 milioni, in realtà molti di più.
Gli atei sono oltre il 40 %.

Repubblica 2.10.13
Cina L’autocritica maoista diventa un reality show
La versione postmoderna della gogna: confessioni in lacrime di funzionari davanti alle telecamere
Per i leader di Pechino è una nuova strategia anti-corruzione, ma il Paese è diviso tra entusiasmo e paura
di Giampaolo Visetti


PECHINO «Sono impaziente, interrompo gli altri e non seguo i funzionari di basso livello». Du Jiahao piange e ammette di non essere un buon capo. Il segretario comunista dello Hunan suda vergognosamente, mentre il neo-leader cinese Xi Jinping lo guarda in silenzio, con espressione di rimprovero. Confessa anche il vice del partito, Xu Shousheng, inginocchiato davanti alla scrivania: «Per avere statistiche positive, ho firmato rapporti senza controllarli». Il governatore di Chongqing invece attacca i colleghi: «Non fanno nulla, come un commerciante che lascia il negozio in mano ai commessi». E Qin Guangrong, stella dello Yunnan, censura i giovani dirigenti: «Dopo la promozione si adagiano sugli allori». È la trasmissione della tivù di Stato più seguita dai cinesi: «Sessioni di critica e autocritica».
Mao Zedong, nelle grotte di Yanan, lanciò l’auto-gogna rossa sessant’anni fa, alla vigilia della vittoria proletaria. Più tardi, durante la cosiddetta “Rivoluzione culturale”, la ripropose come strumento di epurazione di massa nelle mani delle Guardie Rosse. A sorpresa la diretta dei mea culpa show di regime viene rispolverata ora dal leader asceso al potere con l’etichetta del “riformista”, amato dall’Occidente per aver mutuato dagli Usa lo slogan kennedyano del “sogno cinese”. Xi Jinping li chiama «Incontri di vita democratica», e se qualcuno osa osservare che le sue «sedute moralizzatrici » davanti alle telecamere stanno seminando il panico non solo nella seconda economia del mondo, esibisce un sorriso bonario: «La nuova linea di massa – dice – impone di eliminare edonismo e stravaganza sia tra le mosche che tra le tigri».
L’ultima vittima dell’autocritica di Pechino, nel 1987, era stato il riformista Hu Yaobang, deposto mentre già si alzava il vento di piazza Tiananmen. Oltre un quarto di secolo dopo, proprio nell’anniversario della vittoria della Rivoluzione, il primo di ottobre, la Cina si scopre così divisa tra entusiasmo e terrore: metà forcaioli, esasperati dalla corruzione che contagia sia lo Stato che il Mercato, e metà garantisti, spaventati dalla caccia dei vincitori contro gli sconfitti nella corsa al potere per il prossimo decennio. «Ho ceduto al piacere – confessa al telegiornale della Cctv il vice-governatore dell’Anhui, Ni Fake, appena destituito - e per la Festa della luna ho acquistato troppe torte». L’accusa della Commissione di Ispezione e Disciplina del partito non gli lascia scampo: «Degenerazione morale», sentenza che ogni cinese traduce in «abuso di concubine». È l’onta pubblica con cui il regime, sommerso da denunce “anonime”, elimina da sempre i propri dirigenti caduti in disgrazia, a cui corrisponde la “sovversione agli interessi dello Stato”, riservata ai dissidenti.
A prevalere su entusiasmo e paura, in queste ore, è però lo stupore. La nazione, da Xi Jinping, si aspettava riforme liberiste e aperture democratiche. Il messaggio era stato spettacolare: arresto del leader neo-maoista Bo Xilai, in piena corsa per il politburo, e condanna all’ergastolo alla vigilia delprimo plenum, fissato in novembre. Domenica il premier Li Keqiang aveva infine inaugurato a Shanghai la prima “zona di libero commercio”, destinata a trasformare la metropoli nella capitale della finanza in Asia, ridimensionando la «troppo democratica» Hong Kong. Addio a Mao, scomunica per i nostalgici della sinistra estrema e “balzo in avanti” per superare in Borsa lo stesso Deng Xiaoping.
La Cina, all’improvviso, assiste invece alle «sessioni di autocritica» di Xi: quattro nell’Hebei, a fine settembre, poi decine in tutte le regioni, con alti funzionari ripresi mentre riconsegnano ai colleÈghi orologi di lusso, biglietti aerei e bottiglie di vino francese. «Sono diventato il signor Simpaticone – la confessione di Zhu Denshun – dimenticando di essere pragmatico». Centinaia, da agosto, gli arresti di dirigenti di partito e manager di aziende private, tutti accusati di intascare mazzette milionarie. Allarme scattato anche nelle multinazionali straniere, costrette ad assistere, sempre in diretta tv, alla confessione dei propri “ad”, rei di aver costruito carriere e bilanci a colpi di tangenti. Pulizia o epurazione? I sostenitori di Xi Jinping assicurano che la «trasparenza politica» serva per accelerare le aperture economiche, rassicurando i mercati sulla certezza del diritto. I suoi crescenti avversari affermano che le «purghe» sono al contrario necessarie per «rafforzare un non-leader» ancora privo di un «sostegno pieno». L’agenzia Xinhua ieri ha ammesso che decine di «milionari rossi » risultano «scomparsi» dopo la visita di ispettori del partito nelle loro aziende. E in attesa di rivederli prostrati in televisione, i media di Stato rilanciano l’ultimo appello presidenziale al popolo: «Recuperare le fedi tradizionali per colmare il vuoto che ha permesso alla corruzione di fiorire». Xi Jinping, assieme alla gogna maoista, riscopre Confucianesimo, Buddhismo e Taoismo, proprio le religioni messe al bando dalla Rivoluzione, per contrastare il «declino morale di una società ossessionata dal denaro».
I numeri, del resto, inchiodano il partito. Un rapporto della Corte Suprema, stranamente pubblicato, rivela che in quattro anni i funzionari condannati sono stati 143 mila, 78 al giorno. Una montagna d’oro, in fuga verso l’estero. «Ma reimporre la fede per salvare il partito – dice Nicholas Bequelin diHuman Rights Watch – conferma che a Pechino la religione deve servire lo Stato e che la tolleranza è funzionale alla repressione». Come la propaganda, appena rafforzata dalla legalizzazione della censura contro Internet e social network. «Non sono un buon cittadino – ha singhiozzato ieri sera un funzionario in tv – bevo caffè e perdo tempo sul web». Stravaganze imperdonabili, per il nuovo Kennedy della Città Proibita.

La Stampa 2.10.13
Londra, basta alla legge sui diritti umani
Il ministro dell’Interno conservatore May : “La Ue ora ci impedisce di cacciare gli immigrati criminali”
di Claudio Gallo


A poco meno di due anni dalle prossime elezioni, la Gran Bretagna sembra vivere una campagna elettorale permanente. Qualche giorno fa il segretario laburista Ed Miliband aveva detto che i caso di vittoria nel 2015, il Labour bloccherà le tariffe dell’energia. Ieri, al congresso conservatore di Manchester la ministra dell’Interno Theresa May ha promesso di cancellare la legge sui diritti umani (voluta dai laburisti nel 1998 per armonizzare la legge britannica con la convenzione europea), che impedirebbe al governo di espellere gli immigrati colpevoli di reati, come rumorosamente chiede la grancassa dei media popolari e conservatori.
Tra un paio di settimane dovrebbe vedere la luce, ha promesso dal palco la ministra, una nuova legge sull’immigrazione che consentirà di rispedire a casa almeno i criminali. Lo scorso anno il ministero aveva approvato, con l’appoggio del parlamento, una direttiva in tale direzione, che però era stata resa inefficace dagli appelli in tribunale degli immigrati, spesso vittoriosi.
Con involontari echi berlusconiani, la May ha detto: «Alcuni giudici hanno scelto di ignorare il parlamento e hanno messo la legge al servizio dei criminali piuttosto che dei cittadini. Ora voglio mandare un chiaro messaggio a quei giudici: il parlamento chiede che la legge stia dalla parte della gente, la gente chiede che la legge stia dalla propria parte e i conservatori nel governo metteranno la legge nelle mani della gente una volta per tutte».
Un’ovazione scuote la platea, tutta per Theresa «piccole-lady-di-ferro-crescono» May, la donna che dopo decenni di impotenza governativa, è riuscita a cacciare l’islamista radicale Abu Qatada. Pazienza se in Gran Bretagna il predicatore non avesse commesso alcun reato. In fondo è la retorica vincente con cui l’Ukip, il partito anti-europeo e anti-immigrati di Farange, ha eroso i voti conservatori in questi ultimi anni.
Il verbo che i tory al governo pronunciano con più voluttà è tagliare: il cancelliere Osborne vorrebbe tagliare qualsiasi cosa ma specialmente il welfare. La ministra dell’Interno invece ha detto che taglierà i possibili casi di ricorso degli immigrati da 17 a 4. Spera così di dimezzare gli attuali 70 mila appelli l’anno. Non solo: «I criminali stranieri saranno deportati e potranno fare appello solo dall’estero».
Il nemico numero uno del ministero è di conseguenza la Convenzione europea per i diritti umani. «È chiaro che se la condizione per realizzare la nostra nuova legge sull’immigrazione sarà di abbandonare la Convenzione europea, lo faremo senza esitazione». Il primo ministro Cameron già nei giorni scorsi aveva detto che Londra potrebbe lasciare la Convenzione. Ieri si è affrettato ad applaudire e ha dato il suo sostegno a una «legge britannica sui diritti».
La battaglia conservatrice rischia di porre dei problemi con gli alleati liberal-democratici al governo: il vicepremier Nick Clegg aveva da poco detto che la legge non si tocca. Tim Hancock, dirigente di Amnesty Uk ha dichiarato: «Il rullo di tamburi che annuncia l’indebolimento della protezione dei diritti umani è preoccupante, il rischio è di limitare l’accesso alla giustizia in questo Paese».
Mentre il partito tuona contro i diritti umani (o perlomeno quella che giudica una loro distorsione) in casa, il ministro Hague continua a farne un pilastro della politica estera e flagellare tutti quei Paesi che non li applicano.

Repubblica 2.10.13
Miliband, sfida nel nome del padre “Marxista? Sì, ma un vero patriota”
Il Daily Mail attacca il papà del leader laburista. Ed è bufera
di Enrico Franceschini


LONDRA — «Quest’uomo odiava la Gran Bretagna». Il titolo del Daily Mail di sabato parlava chiaro, ma la foto accanto all’articolo non ritraeva un terrorista, un nemico straniero o Adolf Hitler: bensì Ralph Miliband, storico marxista di origine ebraica, emigrato in Inghilterra per sfuggire all’Olocausto e padre di Ed, l’attuale leader del partito laburista. Perché il professor Miliband, scomparso nel 1994, ce l’avrebbe tanto avuta con il proprio paese adottivo? Perché era comunista, e dunque detestava tutte le istituzioni del regno: la regina, la Chiesa anglicana, l’esercito, afferma il quotidiano conservatore, aggiungendo che il figlio Ed, ora accusato di voler riportare il Labour e (se vincesse le elezioni del 2015) il Regno Unito al socialismo, ha ereditato dal padre un’ideologia anti-britannica, anti-patriottica.
Di attacchi velenosi destra e sinistra se ne scambiano anche qui, seppure in genere più civilmente che altrove. La sparata del tabloid londinese ha tuttavia provocato una rabbiosa reazione da parte di Ed Miliband. Il figlio è sceso in campo per difendere la memoria del padre, con un articolo inviato al Mail:«La Gran Bretagna ha salvato la vita a mio padre, dandogli asilo dai campi di concentramento del Terzo Reich. E mio padre ha ricambiato andando a combattere per la Gran Bretagna appena ottenuta la cittadinanza, aveva vent’anni e c’era anche lui fra le truppe che parteciparono allo sbarco in Normandia, combattendo contro i nazisti. Mio padre amava la Gran Bretagna. E io amavo mio padre e sono orgoglioso di lui. È vile cercare di infangare i morti». La sua morale: si può essere stati comunisti ed essere ugualmente patrioti.
Il Daily Mail ha pubblicato ieri la replica di Miliband. Ma ci ha messo vicino lo stesso articolo di sabato, con un titolo ancora più duro: «Lo ripetiamo, quest’uomo odiava davvero la Gran Bretagna ». E in un editoriale la direzione del giornale si «rifiuta di chiedere scusa» al leader laburista, definendo gli insegnamenti che Ed ha ricevuto dal padre come una «eredità diabolica», contraria a tutto ciò in cui crede l’inglese medio: «E’ troppo facile dimenticare che il marxismo fornì la filosofia a un regime mostruoso come quello dell’Urss, e che Ralph Miliband, marxista convinto fino all’ultimo dei suoi giorni, avrebbe voluto una rivoluzione della classe operaia anche nel nostro paese». Ed chiude la polemica: «Invece di riconoscere il proprio errore, ilMail insiste. Si scredita da solo». Ma alla Bbc per tutto il giorno non si parla d’altro. E a sera il vice-premier Nick Clegg, leader del partito liberaldemocratico, alleato dei conservatori del premier David Cameron nella coalizione di governo, prende le distanze dal tabloid: «Esprimo tutto il mio sostegno a Ed Miliband». La memoria di un padre non si tocca, anche se è il padre di un avversario politico.

Corriere 2.10.13
I Caraibi fanno causa agli europei «Risarcimenti per lo schiavismo»
Richiesta all’Onu per miliardi di euro e riparazioni commerciali
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — «Maafa», ancora oggi molti studiosi africani lo chiamano così: «Grande disastro», in lingua swahili, o anche «Olocausto». «E se gli ebrei sono stati indennizzati per l’Olocausto, perché non dovremmo esserlo anche noi?», tuona Ralph Gonsalves, appena eletto presidente della Caricom, la comunità che raccoglie 15 piccoli Paesi caraibici fra cui le Bahamas, Giamaica, Saint Lucia. Detto, e fatto: come indennizzo per la «Maafa», la tratta degli schiavi organizzata dalle potenze europee che deportarono dall’Africa alle Americhe 12-15 milioni di esseri umani, la Caricom chiede a Francia, Gran Bretagna e Olanda diversi miliardi di euro (la richiesta deve essere ancora quantificata nei dettagli) e una serie di riparazioni commerciali. La «Maafa» durò oltre due secoli, dalla fine del ’500 in poi. «Apprendisti a vita», così venivano beffardamente classificati i deportati, quando si imbarcavano con le catene. E chi vive oggi nei Caraibi belli e pacifici, popolati anche da turisti e banchieri, discende pur sempre da quegli schiavi, dice di pagare ancora il prezzo di quell’ingiustizia.
La richiesta di riparazioni è stata preannunciata pochi giorni fa all’assemblea generale dell’Onu. La condividono, finora, 14 dei 15 Paesi aderenti alla Caricom. Ed è già stato ingaggiato Martin Day, un celebre avvocato britannico che a suo tempo costrinse Londra a pagare circa 16 milioni di euro ai kenyoti vittime della repressione inglese, durante la rivolta nazionalista dei Mau Mau. Ingaggerà questo duello giuridico con i governi dei 3 Paesi chiamati in causa. Se le trattative non andranno in porto, allora Day presenterà un ricorso all’Aja, alla Corte internazionale di giustizia, che è il massimo organismo giuridico delle Nazioni Unite.
Quanto al capo politico della «crociata», Gonsalves è oggi il primo ministro delle isole St. Vincent e Grenadine, e a dicembre assumerà ufficialmente la sua nuova carica di presidente di turno della Caricom. «Chiederemo delle riparazioni a causa del genocidio e della schiavitù sponsorizzati dagli Stati — ha detto all’Onu —. Gli inglesi hanno ucciso l’80% degli indigeni Callinago nelle mie isole. E ancora oggi, là, le persone di discendenza africana hanno una più alta incidenza di diabete e ipertensione che in qualsiasi altro luogo: come mai questo non c’è nell’Africa Occidentale?». Risposta sottintesa: è stata la «Maafa» con i suoi supplizi secolari: coloro che non affrontarono quei viaggi disumani e poi l’odissea delle piantagioni mantennero un po’ di salute e si lasciarono dietro figli e nipoti più forti.
La questione non è certo nuova, viene dibattuta da molto tempo e a volte con duri scontri di idee: «Ma allora — ironizza per esempio uno dei critici sui blog collegati alla Caricom — secondo voi potrò chiedere anch’io un indennizzo all’Italia? Perché io sono ceco, anzi moravo, e l’imperatore Tiberio invase la mia Moravia negli anni intorno al 6 avanti Cristo. Oppure potrei far causa all’odierno governo della Mongolia, per rifarmi dell’invasione mongola del 1241?».
Gonsalves non sembra però incline allo scherzo. Nei suoi discorsi cita l’ingordigia di Napoleone, che avrebbe chiesto 90 milioni di franchi d’oro per riconoscere l’indipendenza di Haiti. E butta lì: anche l’ex presidente haitiano Jean Bertrand Aristide, anni fa, sollevò la questione degli indennizzi, ma il governo francese «fece in modo, diciamo così, che andasse in esilio volontario».
Ognuno rilegge la cronaca, e la storia, dal suo punto di vista. Ma certi fatti restano, è difficile contestarli. «Wic», così era chiamata con un acronimo la Compagna olandese delle Indie occidentali, fondata nel 1602: nel 1640 deportava «solo» tremila schiavi all’anno, nel 1660 erano già centinaia di migliaia e «Wic» controllava tutta la sua «Costa degli schiavi». Partivano in 600 su un brigantino. Poi li seppellivano là nei Caraibi, dove oggi incrociano gli yacht.

Corriere 2.10.13
Ungheria
Sanzioni e prigione per i clochard


BUDAPEST — Il Parlamento ungherese ha approvato una legge che proibisce agli homeless di dormire per strada. Chi verrà sorpreso sdraiato in luoghi pubblici sarà condannato ai servizi sociali o a pagare una multa mentre rischiano il carcere i senzatetto che si costruiscono una baracca.
Centinaia di senzatetto hanno protestato ieri davanti al Parlamento con cartelli «Siamo poveri, non criminali!» e anche in Aula deputati verdi e di sinistra hanno manifestato contro la legge, che è passata grazie ai voti della maggioranza guidata dal premier Orbán. L’esecutivo di destra nell’ultimo anno ha moltiplicato i rifugi per clochard. Ma l’associazione «La città appartiene a tutti» lamenta: ci sono 6 mila posti letto mentre i senzatetto sono 10 mila

il Fatto 2.10.13
Belgio
Cambia sesso ma non basta: chiede l’eutanasia


Ha chiesto la ‘dolce morte’ a 44 anni, dopo operazioni per il cambio di sesso. Nathan Verhelst pur non essendo affetto da malattia incurabile, ha chiesto e ottenuto l’eutanasia: in Belgio è consentita non solo per sofferenze fisiche insopportabili ma anche psichiche. Ansa

Repubblica 2.10.13
Sofferenze psichiche dopo il cambio di sesso
Il Belgio concede l’eutanasia di Stato


BRUXELLES — A 44 anni, ha ottenuto l’eutanasia di Stato per mettere fine alle sofferenze psichiche seguite al cambiamento chirurgico di sesso. Nathan Verhelst, nato femmina, per diventare uomo aveva affrontato due interventi, l’ultimo nel 2012. Ma il risultato lo faceva sentire «un mostro», come ha lui stesso spiegato al giornale Het Laatste Nieuws 24 ore prima della morte volontaria. Il caso fa discutere in un Belgio dove le eutanasie, legali dal 2002, l’anno scorso hanno raggiunto la cifra record di 1.413 casi, il 25% in più del 2011, e dove si sta dibattendo la loro estensione ai minori di 18 anni.

La Stampa 2.10.13
Libertà e tradizioni Il Consiglio d’Europa
“La circoncisione una violazione dei minori”
E’ Israele a detenere il primato di uomini circoncisi
di E. Cap.


STRASBURGO La circoncisione è una violazione dell’integrità fisica dei minori. Lo ha sancito l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che nel documento approvato ieri ha messo sullo stesso piano la tradizionale pratica alle mutilazioni genitali femminili.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha stimato che a livello mondiale il 30% dei maschi (oltre i 15 anni) è circonciso: la maggior parte di questi, circa il 70%, sono musulmani. Non sorprende pertanto che il testo siglato a Strasburgo sia stato fortemente osteggiato dalla delegazione turca, dove la circoncisione è una praticata ancora molto diffusa.
Tuttavia, è Israele a detenere il primato di uomini circoncisi: tra gli ebrei, infatti, l’asportazione del prepuzio è una praticata ancora obbligatoria.
Il Consiglio d’Europa ha approvato il documento con 77 sì, 19 no e 12 astensioni. Due i punti principali: bisogna pretendere il rispetto delle condizioni sanitarie e gli interventi non possono essere eseguiti su minori non sufficientemente grandi da poter essere consultati.
A Strasburgo sono stati condannati anche piercing, tatuaggi e interventi medici su bambini intersessuali (soggetti con caratteristiche anatomo-fisiologiche sia maschili che femminili).

Repubblica 2.10.13
Netanyahu: “Pronti ad agire da soli contro l’Iran”
Il premier israeliano all’Onu: “Rohani è un lupo travestito da agnello”
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK — Pronti ad agire anche da soli. Dalla tribuna delle Nazioni Unite Benjamin Netanyahu attacca l’Iran e il nuovo presidente Rohani («un lupo travestito da agnello»), chiede alla comunità internazionale di mantenere le sanzioni e avverte che se dovesse essere necessario Israele è pronto a colpire militarmente il regime degli ayatollah. A 24 ore dall’incontro alla Casa Bianca con Obama, il premier israeliano rende in modo ancora più chiaro quanto aveva detto ieri — tra le righe e il dovuto atteggiamento diplomatico — anche al suo potente alleato a Washington. Netanyahu non crede che ci sia alcunasvolta a Teheran («Hassan Rohani è come i suoi predecessori, un servitore leale del regime») e, dallo stesso podio in cui il presidente iraniano aveva aperto il “dialogo” con Usa e paesi occidentali, ricorda come dalla rivoluzione del 1979 si siano alternati in Iran «presidenti moderati e falchi, che hanno sposato e servito, tutti, lo stesso credo implacabile».
Da quando è stato eletto Rohani «il programma nucleare iraniano è proseguito senza interruzione» e i fatti dimostrano («perché un paese con miliardi in petrolio dovrebbe avere un programma nucleare a scopi pacifici?») che quello che l’Iran fa «contraddice completamente » quanto il nuovo presidente sostiene. Il regime degli ayatollah vuoleche vengano cancellate le sanzioni, ma in cambio non ferma il suo programma nucleare (alla Casa Bianca Netanyahu aveva detto, portando anche prove da parte dell’intelligence israeliana, che il nucleare pacifico è un bluff), quindi secondo il premier israeliano per capire se quanto afferma Rohani è vero, sono necessarie queste condizioni: lo «smantellamento completo e verificabile» del programma nucleare: la fine dell’arricchimento dell’uranio, il trasferimento all’estero dell’uranio arricchito, lo smantellamento delle infrastrutture per l’arricchimento, la fine dello sviluppo di un reattore ad acqua pesante. In caso contrario «Israele è pronto ad agire da solo», perché sanzioni «dure e minaccia militare credibile» sono l’unica strada percorribile per fermare «pacificamente lo sviluppo del nucleare».
Con il suo intervento alle Nazioni Unite Netanyahu cerca di bloccare sul nascere un dialogo (tra Iran e Occidente) che agli occhi di Gerusalemme altro non è che un cedimento agli ayatollah in un momento in cui il regime iraniano è in grande difficoltà. Non va avanti neanche il disgelo tra Iran e l’altra potenza regionale islamica (Arabia Saudita). Rohani ha infatti respinto — su pressione dei falchi di Teheran — l’invito del re Abdullah a partecipare all’Hajj, il pellegrinaggio dei fedeli musulmanialla Mecca.

il Fatto 2.10.13
Libia. Sempre più torture nelle carceri


È in aumento la pratica della tortura nei centri di detenzione gestiti dalle milizie emerse durante la rivoluzione del 2011 contro il regime Gheddafi. Lo rivela il rapporto del'Alto commissariato per i diritti umani Onu, che chiede a Tripoli di mettere le strutture sotto il pieno controllo dello Stato. LaPresse

l’Unità 2.10.13
La ricerca fa 90. Festa per il Cnr
La storia dell’ente corre di pari passo con quella del Paese e dei suoi cervelli
Un libro, pubblicato per l’occasione, ripercorre le vicissitudini e i capitoli memorabili della «creatura» voluta da Vito Volterra
Oggi, nonostante i tagli, resta una delle eccellenze italiane nel mondo
di Cristiana Pulcinelli


ROMA IL CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE COMPIE NOVANT’ANNI. IL DECRETO CHE LO ISTITUÌ, DATATO 18 NOVEMBRE 1923, È FIRMATO DAL RE VITTORIO EMANUELE E CONTROFIRMATO DA MUSSOLINI, DE STEFANO E GENTILE. Basta guardare quel pezzo di carta ingiallito per capire quanta acqua è passata sotto ponti, quanto diversa fosse l’Italia di allora da quella di oggi. Dopo quella data ci sono state le leggi razziali, una seconda guerra mondiale, la fine del regime fascista, il passaggio da monarchia a repubblica, la ricostruzione, gli anni del boom, l’avventura spaziale, tangentopoli, l’inizio e la fine del nucleare, la crisi economica, tanto per segnalare solo alcuni fatti macroscopici.
Il Cnr è passato attraverso tutte le forze che hanno modellato il nostro Paese, a volte guidando alcuni cambiamenti, a volte subendo qualche danno. Oggi è il più grande ente di ricerca nazionale dove lavorano oltre 8000 persone e, nonostante le critiche che gli sono state mosse nel passato, nell’ultima edizione del World Report sulla qualità e produttività scientifica pubblicato nel 2012 dalla Scimago Institution Ratings, occupa il ventunesimo posto a livello internazionale, il quinto a livello comunitario e il primo a livello nazionale. Tuttavia, si può fare di meglio. Lo ha sottolineato proprio quest’anno la valutazione sulla qualità della ricerca dell’agenzia governativa Anvur secondo cui solo in due delle 14 aree disciplinari prese in considerazione il Cnr ha avuto una valutazione superiore alla media. L’ente aspira a fare di meglio e, siccome per costruirsi un futuro, bisogna partire dall’analisi del passato, per festeggiare i suoi primi novant’anni il presidente Luigi Nicolais ha voluto pubblicare un volume che ripercorre tutta la storia dell’ente, curato da Gennaro Ferrara e dalla storica Raffaella Simili che figura anche tra gli autori dei testi: «Abbiamo costituito un gruppo di lavoro e ci siamo attivati su due fronti – racconta Simili scrivere una storia sintetica del Cnr che comprendesse anche gli ultimi anni e corredare il testo con immagini a colori che rendessero accattivante il volume». Il risultato è un libro che si sfoglia come un catalogo e che contiene belle immagini frutto di una ricerca iconografica complessa fatta in archivi e giornali d’epoca.
LA RICOSTRUZIONE DI UN’EPOCA
Ma, al di là della piacevole ricostruzione di un’epoca, vale la pena soffermarsi sull’inizio della storia del Cnr. Tutto nasce dalla prima guerra mondiale e, in particolare, dalla cooperazione tecnico scientifica in campo sia industriale che militare che si era creata fra le potenze dell’Intesa, ovvero Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti. Nel 1919 questa cooperazione sfocia nella nascita dell’International Research Council con sede a Bruxelles. È proprio per organizzare la rappresentanza italiana presso questo ente internazionale che nasce il Cnr. Ma dietro alla sua creazione c’è il pensiero lungimirante di Vito Volterra, matematico sì, ma anche uomo politico in quanto senatore del Regno. L’idea di Volterra era quella di creare un ente pubblico che avesse il compito di promuovere la scienza, applicata ma anche fondamentale, in tutti i più diversi settori al fine di creare un sistema di ricerca analogo a quello dei grandi Paesi e in grado di modernizzare l’economia dell’Italia, puntando sull’industria avanzata. Insomma, spiega Simili «l’idea forte era quella di promuovere un’organizzazione che stabilisse un legame tra ricerca scientifica, forze produttive e apparati statali». Il Cnr avrebbe dovuto operare in collaborazione con l’università, ma anche con gli istituti di ricerca delle amministrazioni statali e con le grandi realtà industriali del Paese tenendo al centro l’idea di innovazione, non solo tecnologica. Il tutto condito da una forte propensione all’internazionalità.
L’idea era talmente buona che un altro matematico, questa volta americano, Vannevar Bush, passò alla storia per averne sfornata una simile nel 1945. Bush, convinto che gli Usa per diventare leader del nuovo ordine mondiale dovessero sviluppare una forte attività di ricerca scientifica, propose la creazione di un’agenzia federale che finanziasse i progetti di ricerca, di base e applicata, in ogni campo delle scienze in totale autonomia e sulla base del merito. Nacque così la National Science Foundation. Sappiamo che quella idea ha contribuito a fare degli Stati Uniti il Paese leader del mondo negli anni successivi.
Ma l’Italia non era gli Stati Uniti. Il progetto di Volterra incontrò infatti resistenze da più parti, compresi gli ambienti universitari, mentre il matematico cominciava ad essere in difficoltà anche sul piano politico perché aveva firmato il manifesto antifascista di Croce. Alla scadenza del mandato, nel 1927, Volterra viene allontanato dal Cnr. A sostituirlo viene chiamato Guglielmo Marconi, persona gradita al governo, sotto la cui presidenza comincia una politica di sganciamento dall’International Research Council. Nel 1937 Marconi muore, si inaugura la nuova sede del Cnr accanto alla Città universitaria (dove si trova ancora oggi) e alla guida dell’ente viene chiamato Pietro Badoglio.
Dobbiamo arrivare agli anni Cinquanta e Sessanta per ritrovare una spinta propulsiva del Cnr. Negli anni Cinquanta nascono nuovi istituti come l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e l’Istituto nazionale della nutrizione e, negli anni Sessanta, con la presidenza di Giovanni Polvani, il Cnr si apre al settore umanistico: nascono così i comitati di scienze storiche, filosofiche e filologiche, quelli di scienze giuridiche e politiche e quelli di scienze economiche, sociologiche e statistiche.
Dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta il Cnr è impegnato su più fronti: dal riequilibrare la rete di ricerca nazionale, fino ad allora tutta sbilanciata verso il Nord del Paese, con la creazione di aree di ricerca nel Mezzogiorno, all’aumentare la partecipazione a programmi internazionali di ricerca. Nel 1999 una riforma cruciale: il Cnr perde il ruolo di agenzia e smette di finanziare i progetti esterni. Arriviamo così agli anni 2004-2007, quelli della presidenza Pistella, quando un’ulteriore riorganizzazione viene fortemente criticata per il carattere aziendalistico e per la mancata partecipazione della comunità scientifica alla sua elaborazione. E infine eccoci all’oggi, con un Cnr che combatte con le ristrettezze finanziarie che impediscono di assumere giovani ricercatori, ma nello stesso tempo sale alle vette della ricerca con alcuni progetti come quelli sul grafene o sull’Antartide. E che, nelle parole del suo presidente, sogna di riuscire a far vedere alla società il valore strategico della scienza e dell’innovazione.

La Stampa TuttoScienze 2.10.13
“Prima di Galileo e Newton la rivoluzione dimenticata”
Non solo matematica ma astronomia e geografia: “La scienza araba cambiò il mondo”
di Gabriele Beccaria


Jimal­ Khalili: È PROFESSORE DI FISICA TEORICA ALL’UNIVERSITÀ DEL SURREY (GRAN BRETAGNA)
IL LIBRO : « LA CASA DELLA SAGGEZZA. L’EPOCA D’ORO DELLA SCIENZA ARABA» ­ BOLLATI BORINGHIERI

Il padre dell’algebra Al­Khwarizmi fu un maestro nelle soluzioni delle equazioni lineari e di secondo grado

Molti manoscritti sono perduti, così come gli imperi che li custodivano si sono sbriciolati. E allora se si vuole ricostruire una storia straordinaria - quella che riporta alla luce Jim Al-Khalili, fisico britannico di origini irachene e autore del saggio «La Casa della Saggezza» - è meglio cominciare dalle cose che resistono meglio ai colpi del tempo, le parole. Per esempio al-kimiya e al-Jebr. Che suonano famigliari, perché ricordano - giustamente - termini come alchimia e algebra. Insieme con tanti altri vocaboli - alcool, alcali, alambicco, amalgama, elisir - che celano la stessa origine. Sono gusci di suoni e significati ereditati dall’arabo molto tempo fa, quando il mondo era - se lo si guarda con i nostri occhi - sottosopra. Mentre l’Occidente languiva nella povertà, oltre che in una tremenda ignoranza, la civiltà scintillava in Medio Oriente e in Asia. Merito degli Omayyadi e degli Abbasidi e della fetta di mondo che plasmarono. Un melting pot che avrebbe unito popoli e culture dalla Spagna all’India.
Questa storia, che spesso sembra flirtare con esotiche esagerazioni, comincia intorno all’anno 800 e si evolve - tra trionfi, crisi e colpi di scena - fino all’alba del XVI secolo, quando l’Europa si riprende la leadership e ha inizio il Rinascimento. Non a caso è la storia di un’altra «Mille e una notte», parallela a quella di cui tutti hanno sentito parlare. E’ la «Mille e una notte» della matematica, dell’astronomia, della medicina, della geografia (e dell’alchimia e dell’algebra). Insomma di quella che oggi si definisce «scienza araba», ma che all’epoca era scienza tout court. Prima che sul palcoscenico si affacciassero i soliti noti, Kepler, Galileo, Newton.
Sono, invece, tanti ignoti quelli che il professor Al-Khalili evoca (a parte il duo Avicenna-Averroè): tra IX e XIV secolo celebrità assolute, oggi in una bolla d’oblio. Dissolti come la Casa della Saggezza - «la Bayt al-Hikma» - che il califfo al-Mamum innalzò a Baghdad e di cui oggi non resta nulla. Un mega-laboratorio ante-litteram, esempio di «Big Science» con secoli d’anticipo, come la definisce il fisico britannico: un misto di mecenatismo illuminato, infrastrutture d’avanguardia, cervelli cosmopoliti e libertà di ricerca. Lì si concentrano personaggi che - secondo Al-Khalili - cambieranno la storia del pensiero, anche occidentale. I nomi sono difficili da tenere a mente, ma vale la pena elencarne qualcuno.
Al-Khwarizmi, padre dell’algebra, al-Jahith, che abbozzerà una teoria evoluzionistica di stampo lamarckiano, e al-Farghani, protagonista di straordinarie osservazioni astronomiche. Erano le supernovae di un cosmo che espanderà i propri centri di studio, arrivando a Damasco, al Cairo, a Isfahan, a Samarcanda, a Bukhara, coinvolgendo figure da romanzo: Ibn Wahshiyya (studioso dei geroglifici), al Kindi (pioniere della crittografia), Ibn Firnas (un Leonardo da Vinci islamico che tentò il primo test al mondo di volo controllato), al-Razi (inventore della medicina clinica) e al-Haytham (teorico dell’ottica). A proposito degli ultimi due, Al-Khalili arriva a sostenere che siano approdati alla logica dell’esperimento e della verifica (cioè del metodo scientifico) in straordinario anticipo, bruciando le future pretese di Bacone e Cartesio. Professor Al­Khalili, c’è un ec­ cesso di figure eccezionali nel suo libro: non è facile credere che 700 anni fa la lingua fran­ ca della scienza fosse l’arabo. Cosa ribatte agli scettici? «La ragione che mi ha spinto a scrivere è ricordare che tutti condividiamo la stessa eredità culturale, che però abbiamo quasi completamente dimenticato. E infatti, quando ci si sforza di capire qualcosa di più, si pensa subito allo zero e si fa spesso confusione tra arabi e indiani! Eppure basta partire proprio dalle parole - prima tra tutte algoritmo - per ricordare le influenze della civiltà araba e di un impero che era più esteso di quello romano. E’ così che l’arabo diventò l’equivalente dell’inglese di oggi: lo si doveva conoscere, se si voleva entrare nei circuiti del sapere». Circuiti che lei descrive come un clamoroso caso di globa­lizzazione, che dal mondo islamico tracimò fino all’Euro­pa: come fu possibile? «In effetti parlo di “scienza araba” nell’accezione più ampia e non di “scienza islamica”, dal momento che i personaggi che riporto alla luce comunicavano in arabo, ma non erano necessariamente arabi né devoti del Corano: erano anche persiani, oltre che cristiani ed ebrei». L’esplosione di scienza (e filo­ sofia) fu graduale: prima le traduzioni dal mondo classico e poi una produzione sempre più originale. Quale fu la cau­ sa del «miracolo»? «Geografi, matematici e astronomi lavoravano insieme. A Baghdad si verificò una collaborazione internazionale di cervelli - per costruire telescopi o tracciare mappe del Pianeta - che non c’era mai stata prima, nemmeno ai tempi di Roma e della Grecia. Fondamentale fu la spinta dello Stato». L’Occidente «rubò» dati e idee alla scienza araba, ma perché le origini di quel lascito furono rapidamente dimenticate? Nella «Scuola di Atene» di Raf­ faello c’è un solo «orientale», Ibn Rushd, vale a dire Averroè. «In realtà antesignani come Fibonacci e Copernico riconobbero il debito con i matematici e gli astronomi arabi, mentre Dante e Colombo ammisero di aver utilizzato le osservazioni di al-Farghani. Poi, però, la rivoluzione scientifica del XVII secolo fu così spettacolare da cancellare di colpo quasi tutto il passato». Lei elenca molte ragioni per la fine della scienza araba, ricor­ dando che il naufragio si sen­ te ancora oggi: in un anno 17 Paesi arabi hanno prodotto le stesse pubblicazioni di Harvard. Quanto pesò la religione? «Di certo nel declino del pensiero filosofico, meno in settori come la matematica o l’astronomia. Più importante fu la crisi politica, che bloccò i fondi pubblici, oltre alla mancata diffusione della tecnologia della stampa. Ne derivò uno spirito conservatore che ribaltò l’idea di scienza: non più libera indagine, ma il prodotto pericoloso del presunto ateismo occidentale!».

La Stampa TuttoScienze 2.10.13
“La morale? Impariamola da bonobo e scimpanzè”
Il primatologo De Waal: «La religione si è evoluta dall’etica che accomuna molti mammiferi»
Frans de Waal è professore di «Primate behavior» alla Emory University di Atlanta (Usa)
di Gianna Milano


Gli scimpanzé vivono sotto la finestra del suo ufficio. E da oltre 20 anni, alla scrivania al Centro di ricerca sui primati Yerkes di Atlanta, Frans de Waal, uno dei maggiori primatologi al mondo, osserva il comportamento di questi nostri parenti più prossimi nell’albero evolutivo. All’attuale maschio alfa, Socko, uno scimpanzé, e alla femmina alfa, Georgia, faceva il solletico quando erano piccoli e ridevano perché continuasse. «Considerano me e il mio ufficio parte del loro territorio e le persone che vengono a trovarmi non sempre sono gradite: lo fanno capire con gesti come lanciare manciate di fango», dice lo studioso olandese, autore del saggio «Il bonobo e l’ateo: in cerca di umanità fra i primati» (Raffaello Cortina).
Dall’osservazione di questi «cugini» genetici lo studioso ha dedotto che «non c’è bisogno di essere uomini per essere umani». Empatia, altruismo, tenerezza e perfino desiderio di equità e senso morale - come la capacità di distinguere tra ciò che è «giusto» e «sbagliato» e quindi gran parte delle nostre qualità positive - non sono prerogativa esclusiva dell’uomo, ma affondano le radici nel mondo animale. Al punto che si addentra ad analizzare le connessioni tra legge morale e religioni, «che non hanno la funzione di produrla, ma di farle da supporto». Professore, lei sostiene che i nostri antenati avrebbero sviluppato comportamenti «morali» in modo naturale: com’è stato possibile? «La moralità non è un’innovazione umana, come ci piacerebbe pensare. Alla base della nostra etica ci sono compassione, empatia e consapevolezza dell’altro. Se non si prova tutto questo, è difficile avere senso morale. E poi? C’è la reciprocità dei gesti che significa equità, ossia ricambiare chi fa una cosa buona o giusta per noi, ed essere riconoscenti. Lo si può chiamare senso di giustizia. Anche nei primati tutto questo esiste, ma loro non sono morali nel modo in cui lo siamo noi. Non elaborano “norme”, ma si dimostrano sensibili alle emozioni dei consimili, tanto che spesso si offrono di aiutarli».
Per esempio? «La femmina Washoe, il primo scimpanzé ad aver imparato il linguaggio dei segni, sentì gridare un’altra femmina che conosceva appena e rischiava di affogare. Washoe superò due recinzioni elettriche, la raggiunse e la trasse in salvo. L’adozione di un piccolo non imparentato, poi, non è ignota tra gli scimpanzé». Che cosa ci dimostra il con­ fronto tra noi e loro? «Che la moralità umana non si è sviluppata da zero. E che esistono analogie. Quando parlo di senso morale dell’uomo, intendo dire che abbiamo la tendenza a giudicare noi stessi e gli altri in base a comportamenti buoni o cattivi, ma ciò non significa che agiamo sempre in modo morale, e lo stesso vale per loro. Altruismo, empatia e tenerezza convivono con violenza, crudeltà e intolleranza. Quali di queste tendenze emerge dipende dalle circostanze. Tra i bonobo, il senso della comunità si riflette nei tentativi di ripristinare l’armonia, magari dopo un conflitto, ricorrendo al sesso. Se noi umani abbiamo sentito il bisogno di elaborare norme etiche, è perché non siamo perfettamente morali. Anzi». Lei si professa ateo, ma am­ mette di avere per le religioni la curiosità dello scienziato. Quale ruolo attribuisce loro? «Non sono dell’avviso che la religione debba essere vista in modo negativo. Se gli esseri umani l’hanno sviluppata, io - come biologo - dico che devono avere un ruolo positivo e costruttivo. Non sono dogmaticamente contro la religione, ma curioso verso il ruolo che ha nelle società. Non accetto, ovviamente, il dogmatismo di certi credenti che negano la teoria dell’evoluzione, proprio come ritengo che la scienza non possa diventare la nuova religione». Qual è la funzione che attri­ buisce alla religione? «L’etica si è evoluta partendo da forme embrionali di socialità, da modi di sentire e di agire già presenti a vari livelli nei mammiferi, e ha contribuito alla sopravvivenza di tutti e del singolo. Lo sviluppo delle religioni, invece, è relativamente recente: sono successive alla rivoluzione agricola del Neolitico, all’incirca 10 mila anni fa». Lei sembra screditare il fon­ damentalismo darwiniano secondo il quale le nostre azioni, buone o cattive, siano dettate dai geni. «L’evoluzione ha sviluppato le capacità fisiche e psicologiche, come prendersi cura degli altri, ma anche la capacità di uccidere: spetta poi all’individuo decidere. E non è la biologia a determinare quale decisione si prenderà. Faccio parte di quei biologi che non accettano gli scenari secondo l’evoluzione è avvenuta sotto la guida dei geni, quelli che Richard Dawkins definisce “egoisti”. Sono soltanto “pezzi” di Dna che non sanno niente e che non si propongono niente. Non siamo nati per obbedire ai geni».

La Stampa TuttoScienze 2.10.13
L’anniversario
I 50 anni del Nobel tradito
Giulio Natta Ingegnere e accademico fu insignito del Premio Nobel per la chimica nel 1963
di Massimiano Bucchi

Università di Trento

A 50 anni dal conferimento del premio da parte dell’Accademia Reale delle Scienze di Svezia (1963), poco più di un italiano su 10 (il 14%) sa identificare Giulio Natta come Nobel. E, tra questi, meno di uno su due lo colloca correttamente come unico premiato italiano per la chimica.
Sono i risultati di una rilevazione condotta dal centro ricerche «Observa Science in Society» su percezione e ruolo pubblico dei Nobel in campo scientifico. Più nota al pubblico la figura di Carlo Rubbia (il 39% lo riconosce come premiato) e soprattutto quella di Rita Levi Montalcini (87%). Significativo il caso di Antonino Zichichi e Umberto Veronesi, a cui rispettivamente il 33% e il 45% degli intervistati attribuiscono in modo scorretto il premio (dati che confermano come il Nobel venga spesso sovrapposto alla visibilità pubblica dello scienziato).
Natta Nobel dimenticato, dunque, eppure di grande impatto scientifico e pratico. Formatosi al Politecnico di Milano negli Anni 20 del secolo scorso, nel 1932 aveva conosciuto Hermann Staudinger, direttore dell’Istituto di chimica di Friburgo, che all’epoca stava sviluppando le proprie teorie su struttura e proprietà dei polimeri. Nel 1947 un viaggio negli Usa con Pietro Giustiniani (futuro amministratore della Montecatini) contribuì a fargli comprendere l’importanza che avrebbero assunto i derivati del petrolio per l’industria chimica. Così, quando venne al corrente dei risultati del collega tedesco Karl Ziegler nella produzione di polimeri, Natta convinse tramite Giustiniani la Montecatini a investire nel settore, acquisendo licenze e assumendo giovani chimici da coinvolgere nel proprio gruppo di ricerca. Il risultato di quell’intuizione e di quegli investimenti fu registrato con uno scarno appunto nell’agenda dello scienziato alla data dell’11 marzo 1954: «Fatto il polipropilene». «Operando in presenza di particolari catalizzatori - spiegò lo stesso Natta -si possono ottenere grandi molecole caratterizzate da strutture spaziali ordinate e prestabilite».
Una ricerca inedita sugli archivi dell’Accademia delle Scienze - consultabili soltanto dopo 50 anni dall’assegnazione - rivela che Natta fu «nominato» per la prima volta nel 1955 e poi, sistematicamente, ogni anno dal 1957 fino al 1963, anno del premio che ricevette insieme con il tedesco Karl Ziegler «per le loro scoperte nella chimica e nella tecnologia dei polimeri». Le «nomine» - si sa - sono il primo passo per ottenere il riconoscimento istituito da Alfred Nobel. Scienziati autorevoli e precedenti Nobel segnalano ogni anno i candidati ritenuti più meritevoli, ma l’ultima parola spetta sempre ai comitati Nobel dell’Accademia delle Scienze (per la fisica e la chimica) e al Karolinska In­stitutet (per la medicina).
Natta ebbe tra gli «sponsor» più significativi proprio il collega Staudinger, Nobel per la chi­ mica nel 1953, ma fu nominato, tra gli altri, an­ che da un Nobel italiano, Emilio Segrè, Nobel per la fisica nel 1959 (Segrè stesso, peraltro, era stato nominato anche come possibile premiato per la chimica e simili sovrapposizioni discipli­ nari non erano infrequenti ancora in quegli an­ ni: basti pensare che Watson e Crick, nel 1962, erano stati a un passo da ottenere il Nobel per la chimica, anziché quello per la medicina, per la loro scoperta della struttura del Dna).
«Il professor Natta ha rotto il monopolio della Natura nella sintesi di polimeri stereoregolari», concluse trionfalmente, presentandolo a Stoc­ colma, il collega Fredga. Le cronache della ceri­ monia raccontano che il re di Svezia, avendo notato che Natta, già ammalato, non era in gra­ do di muoversi facilmente, ruppe il protocollo e gli si fece incontro con un gesto affettuoso che scatenò l’applauso del pubblico. In quegli stes­ si anni la produzione mondiale del polipropile­ ne aveva già raggiunto le 250 mila tonnellate.
Facile concludere che l’oblio di Natta nella me­ moria pubblica corrisponda al tramonto di quel fecondo sodalizio tra ricerca e industria. Ma per una volta c’è anche una storia positiva da rac­ contare ed è quella di un sito web che pochissi­ mi premi Nobel possono vantare. Grazie a Italo Schiavo, al Politecnico di Milano, alla famiglia Natta e anche a numerose aziende e istituzioni, il sito (all’indirizzo www.giulionatta.it) rende accessibile in formato digitale l’intera opera dello scienziato: scritti, brevetti, corrisponden­ za e perfino i suoi appunti di lezioni.

La Stampa 2.10.13
Dalla scienza della longevità un secondo Rinascimento
Il progetto per trasformare l’Italia nel leader delle ricerche sull’invecchiamento
E’ ora di provare a ripartire. I posteri ce ne saranno grati.
di Luigi Fontana e Vincenzo Atella


Pubblichiamo la lettera aperta di Luigi Fontana e Vincenzo Atella intitolata «Il nuovo Rinascimento italiano. Salute dell’uomo e dell’ambiente per uno sviluppo economico ecosostenibile», a cui hanno già aderito diversi scienziati: Sergio Pecorelli (Università di Brescia), Riccardo Pietrabissa (Politecnico di Milano), Francesco Salvatore (Università Federico II di Napoli), Umberto Veronesi (Istituto Europeo di Oncologia). Anziani ma in salute: per un approfondimento sul tema della longevità si può consultare lo studio di Fontana, Atella e Kammen «Energy and resource efficiency as a unifying principle for human, environmental and global health» sul sito http: //f1000 research.com/ articles/2­101/v1
A partire dagli ultimi decenni del XIV secolo un gruppo di intellettuali ed artisti italiani iniziarono un processo di rinnovamento culturale e scientifico che segnò il passaggio dal Medioevo all’era moderna prima in Italia e poi in Europa. Secondo lo storico Richard Goldthwaite, quel processo di rinnovamento fu tale per cui «il benessere fu riciclato e investito in capitale umano e trasformato nel patrimonio dell’architettura urbana, dell’arte e di una tradizione artigianale mai eguagliata». Un’eredità impressionante che ancora oggi il mondo ci riconosce.
Pensiamo sia giunto il momento per rilanciare l’Italia come attore principale di un Nuovo Rinascimento, che ponga al centro delle politiche sociali e industriali la valorizzazione della salute dell’uomo e dell’ambiente, il capitale culturale, artistico e naturale per uno sviluppo economico duraturo perchè ecosostenibile.
L’attuale modello economico non è sostenibile. Nel breve periodo un ulteriore avanzamento tecnologico per estrarre più risorse naturali, per produrre più cibo, farmaci, energia, e generare crescita economica è possibile, ma nel lungo termine avrà conseguenze disastrose sulla salute dell’uomo e dell’ambiente ed in ultima analisi sul benessere sociale ed economico del pianeta.
Salute, benessere, risparmio energetico, conoscenza, cultura e sviluppo economico ecosostenibile devono quindi diventare i pilastri su cui costruire il futuro della «nuova» Italia. L’invecchiamento della popolazione, l’epidemia di obesità e di patologie croniche associate agli scorretti stili di vita, il crescente inquinamento ambientale e lo sfruttamento sconsiderato delle risorse energetiche e naturali sono problemi gravi, che, se affrontati in modo scientifico e con una nuova visione globale e transdisciplinare, potrebbero non solo far risparmiare ingenti risorse al Paese, ma generare nuova ricchezza.
Per i nostri figli e nipoti vogliamo immaginare un’Italia figlia di un nuovo Rinascimento in cui le città sono verdi e silenziose, con auto sospinte da motori ibridi elettrici e a idrogeno (che emettono solo vapore acqueo) ed edifici efficienti dal punto di vista energetico che non richiedono dispendiosi sistemi di riscaldamento e aria condizionata, ma estraggono dal sole e dal vento l’energia necessaria. Un’Italia in cui l’aria e l’acqua emesse dalle industrie sono più pulite di quelle che erano entrate, in cui le discariche sono state eliminate e un innovativo sistema agricolo ecosostenibile produce cibo sano in abbondanza. Un’Italia in cui la pressione fiscale è stata ridotta, perché una buona parte della spesa pubblica improduttiva è stata eliminata e quella produttiva è stata limitata, in cui i cittadini sono sani ed efficienti e il modello di produzione si è trasformato in direzione di un’economia sostenibile. Un’Italia, infine, che i turisti di ogni angolo del mondo vogliono visitare e prendere a modello perchè è diventata il Giardino dell’Eden.
Non si tratta di un’utopia. Molte delle conoscenze scientifiche per azzerare l’inquinamento, per prevenire con adeguati stili di vita la maggior parte delle malattie croniche (e i costi sociali connessi), per costruire case super-coibentate che non consumano ma producono energia, per ideare auto super-leggere in fibre di carbonio e per molte altre innovazioni destinate a una vita lunga, sana e felice sono già disponibili e sono state applicate molto al di là dei semplici prototipi. Il passo successivo, quindi, dev’essere l’applicazione integrata di tutte queste conoscenze a favore della salute dei cittadini e dell’ambiente, garantendo un nuovo sviluppo economico e industriale che valorizzi, e non distrugga, le risorse naturali.
Purtroppo, una visione riduzionistica e arretrata di questi problemi ha impedito finora che ciò accadesse. E’ ora di invertire la rotta, secondo una logica non convenzionale. Abbiamo idee, capitale umano e tecnologie per farlo. L’Italia può e deve diventare leader nel mondo su queste tematiche, investendo massicciamente in questi settori e promuovendo progetti di ricerca armonici e interdisciplinari.

Le adesioni al manifesto si raccolgono sul sito www.ceistorvergata.it/ blog/?page_id=98