venerdì 4 ottobre 2013

«I dati 2011 parlano di 571.000 rifugiati per la Germania; 210.000 per la Francia; 194.000 per il Regno Unito; 87.000 per la Svezia; 75.000 per i Paesi Bassi contro 58.000 per l'Italia»
Corriere 4.10.13
Quei 19.142 caduti
di Gian Antonio Stella


«Sul mare galleggiavano scarpe da bambino e merendine…». Tolgono il respiro le testimonianze dei soccorritori impegnati a Lampedusa a tirar su cadaveri, cadaveri, cadaveri. E noi lì, a guardare impotenti. A chiederci: cosa possiamo fare? Poco, oggi. Possiamo solo raccogliere quei corpi, chiuderli in una bara di cellophane, dire una preghiera, lasciarci strattonare da papa Francesco: «È una vergogna…».
È il momento del soccorso, della pietà e del lutto, oggi. Ma, asciugate le lacrime e sfogato lo sdegno contro quei criminali che gestiscono la tratta dei disperati e ammassano cinquecento persone su una barca di pochi metri, bisognerà poi dire basta. Ieri pomeriggio, il sito fortresseurope.blogspot.it, che da anni tiene con furente compassione il conto delle vite inghiottite dal mare, era già aggiornato: con quelli di ieri, siamo a 19.142 morti. Almeno. Più tutti quelli annegati senza avere due righe su un giornale.
La commissione migrazioni del Consiglio d'Europa ci aveva bacchettati mercoledì, rinfacciando all'Italia di non essere «in grado di gestire un flusso che è e resterà continuo» e di essere diventata «una calamita per l'immigrazione» a causa soprattutto «di sistemi di intercettazione e dissuasione inadeguati». Cioè?
Lo stesso direttore del Consiglio italiano per i rifugiati Christopher Hein, che suggerisce come unica possibilità la creazione di percorsi sicuri che sottraggano chi ha diritto all'asilo ai trafficanti di anime, confessa: «Non ho capito cosa propongano, lassù. Il fatto è che i barconi approdano qui, non in Gran Bretagna o in Olanda». Vogliamo tornare al cinismo dei respingimenti, che violando la Convenzione di Ginevra del 1951 e la stessa Costituzione delegavano il lavoro sporco agli aguzzini di Gheddafi i quali secondo la Chiesa violentavano l'85% delle donne in viaggio verso il sogno europeo? Davvero è quella la soluzione? Il messaggio «non veniteci a morire sotto gli ombrelloni»?
Guai a voi, ha detto Strasburgo. Con varie sentenze di condanna. Il problema, però, resta intatto. E quella Europa che ogni giorno pretende d'aver bocca nelle nostre scelte perché riguardano tutti non è poi ansiosa di spartire con noi la rogna delle frontiere Sud.
Sia chiaro, come ricorda lavoce.info, gran parte di quanti sbarcano proseguono verso Nord: «I dati 2011 parlano di 571.000 rifugiati per la Germania; 210.000 per la Francia; 194.000 per il Regno Unito; 87.000 per la Svezia; 75.000 per i Paesi Bassi contro 58.000 per l'Italia». In rapporto alla popolazione, certi strilli xenofobi sono ancora più immotivati: ogni mille abitanti ci sono 9 rifugiati in Svezia, 7 in Germania, 4,5 nei Paesi Bassi e in fondo in fondo ci siamo noi: uno.
Ma quelle ondate di sbarchi non possono essere un problema italiano. Riguardano tutti. E come il sindaco di Lampedusa invoca Letta «venga a contare i morti con noi» per urlare il senso di solitudine, lo stesso urlo dovrebbe essere girato a Bruxelles. Vengano a contare i morti nel Mare Nostrum. Sono anche loro.

Corriere 4.10.13
Sulle coste libiche altri ventimila pronti a partire
di Giuseppe Sarcina


La scia dei morti di Lampedusa conduce fino al porto libico di Zuwarah, 102 chilometri a ovest di Tripoli, circa 60 dal confine con la Tunisia. Da qui, dal lungo frangiflutti e da due piccoli moli partono i barconi carichi di migranti. In questi giorni, nel retroterra desertico, stipati nei centri di detenzione, ci sono almeno 10-12 mila volti spaventati in attesa. Sono arrivati dalla Somalia, dall’Eritrea, oppure dal Ciad, dal Niger. In fuga dalle guerre. In fuga dalla fame. Secondo le stime degli osservatori internazionali altri 10 mila migranti sono imprigionati nei campi clandestini, sistematicamente malmenati se non torturati. Su queste spiagge bianche si affaccia il favoloso anfiteatro romano di Sabrata. Ma ora il mare, il vento e tutto ciò che si muove lungo la striscia che arriva fino alla dogana tunisina di Ras Jedir rispondono agli ordini di 5-10 mila uomini armati. Spezzoni di tribù berbere, milizie che hanno combattuto e rovesciato Gheddafi e, soprattutto, bande di criminali «professionisti», magari ex contrabbandieri di benzina, oggi convertiti a traffici più redditizi: droga, esseri umani. Si calcola che il giro d’affari tocchi i 3-4 miliardi di dollari all’anno, poco meno del 10% della ricchezza libica (56 miliardi di dollari) ancora galleggiante sul petrolio. Nella periferia fuori controllo, lontano dal debole governo di Tripoli, i trafficanti hanno messo in piedi un’organizzazione tanto crudele quanto efficiente. Una filiera capillare molto più pericolosa della dimensione quasi artigianale sperimentata sulle coste del porto tunisino di Zarzis, nella primavera-estate del 2011. I clan di Zuwarah non hanno fretta. Non hanno bisogno di fare il giro dei bar per convincere i giovani a saltare sui barconi. Gli uomini, le donne, i bambini che arrivano stremati sulla costa libica vengono facilmente catturati da questi sciacalli. Chi ha i soldi alla mano si può imbarcare. Ma serve l’equivalente di 1.500-2.000 euro: un’enormità per quei disperati. E allora via nei centri di detenzione, quelli legali o quelli improvvisati. In attesa che dal Paese d’origine qualcuno, un parente, un amico, mandi i soldi. Se sono sufficienti si tenta la traversata fino a Lampedusa con un peschereccio malandato. Altrimenti c’è il gommone con un motore da 40 cavalli che si ferma regolarmente dopo sole 30-40 miglia di navigazione. Ai profughi viene consegnato un telefono satellitare e un ordine: «Chiama quando sarete in panne. Gli italiani verranno a prendervi».

il Fatto 4.10.13
“La colpa? È della legge Bossi-Fini”
di Silvia D’Onghia


È come se telefonaste alla signora che, dalla finestra di casa sua, ha appena assistito a un incidente stradale per chiederle cos’ha visto. Ma perché non andate a intervistare la Turco, Napolitano, Bossi o Fini? Perché, lo sapete anche voi, sono loro ad avere la responsabilità di quest’ennesima tragedia”. Paola La Rosa è un avvocato palermitano che tanti anni fa, insieme con suo marito Melo, ha fatto la scelta della vita: lasciare la grande isola per una piccola isola a due passi dall’Africa. A Lampedusa la conoscono tutti, è molto amica del sindaco Nicolini, ma soprattutto è uno dei pilastri della battaglia per l’abolizione delle leggi sull’immigrazione. Dall’altra parte della sua terrazza, a Cala Pisana, c’è il cimitero con le sue tombe, troppe, senza nomi. Accogliente come lo sono i lampedusani, sempre disponibile, Paola La Rosa invece da ieri è in “silenzio stampa”.
È ARRABBIATA, e tanto, con chi sull’isola si fa vedere soltanto quando avvengono le tragedie. “Ma che qui nel Centro di accoglienza ci sono 1300 persone da settimane non lo scrive nessuno? E perché soltanto adesso vi accorgete che Lampedusa è collegata male (dopo l’estate, la maggior parte dei voli viene soppressa, ndr)? Sto ricevendo telefonate e messaggi di solidarietà da molti amici, e li capisco pure, ma io che c’entro?”. Non vuole più sentir parlare di “tragedie annunciate”, di “proverbiale accoglienza” e di tutte quelle frasi fatte che la stampa e i politici rispolverano a ogni naufragio. “Se noi ci rifiutiamo di parlare, forse andrete a chiedere agli eritrei perché vengono qua. Sarebbe ora, visto che continuiamo a considerarli meno di niente”. Lo sguardo e il pensiero vanno a quel cimitero, troppo piccolo per contenere altri corpi senza nome. Quelle bare andranno trasferite altrove. “Ma se butta maltempo e dura 15 giorni, mi dite questi 300 cadaveri dove li mettiamo?”.

il Fatto 4.10.13
Mare di morti, ma nessuno muove un dito
La più grande tragedia nelle acque di Lampedusa: forse 300 morti tra i migranti somali ed eritrei nel barcone andato a fuoco
Il sindaco: “Tre pescherecci non si sono fermati, per paura della Bossi-Fini”
di Furio Colombo


"Non so dove mettere i morti. Non so dove mettere i vivi”, grida alla fine della mattina il sindaco di Lampedusa. Lo grida al governo, intento a celebrare una sua festa di sopravvivenza, lo grida agli altri cittadini italiani che sono stati forzati a vivere in un mondo imbottito di politica indecifrabile, che non li riguarda, che ottunde ogni voce e ogni suono vero. La politica impedisce di sentire l’urlo della gente che muore in mare proprio qui, davanti all’Italia. Inutilmente il Papa ci aveva avvertito, andando a Lampedusa a buttare fiori ai morti, uomini giovani e disperati, donne, bambini che avevano già popolato il fondo del mare. Inutilmente aveva detto: “Non fatelo mai più”. E ha detto ieri “Vergogna!”. Le sue parole, bene accette come uno spot simpatico o come un ornamento tra gli eventi quotidiani, non sono mai arrivate né a Roma, dove si fa la politica e si discute tutto il tempo di Berlusconi e della sua prigione, né in Europa, dove si decide ogni giorno e ogni ora l’acqua alla gola del debito, ma non l’acqua che affoga(questa volta a centinaia) migranti abbandonati in mare. L’Italia è una terra popolata da gente sola e disinformata, circondata da un mare di gente morta. C’è in comune solo il terrore che nessuno arrivi in tempo a salvarti. Infatti le teste che decidono sono rivolte altrove. Sono riuscite a non notare, mentre avveniva, un disastro che stava provocando centinaia di morti. Sono riusciti a restare fermi mentre avveniva una strage di esseri umani nel mare italiano. Non parlo dei soccorritori, che hanno fatto ciò che era possibile oltre ogni limite. Parlo della mente di un paese malato, avvolto in una patologia di separazione dai fatti. C’è un’isola, Lampedusa, senza mezzi, senza forze, circondata di cadaveri che galleggiano sull’acqua e si accumulano sul molo. E un’isola, Roma, dove tutte le risorse gravitano intorno all’agibilità politica di un pregiudicato di riguardo. Ci sono leggi odiose (la Bossi-Fini) che non sono mai state cancellate. E c’è chi provvede, adesso, in Parlamento, a felicitarsi per tanti annegati, e a cogliere l’occasione per insultare il ministro dell’Integrazione perché nera, e la presidente della Camera perché indignata. È un brutto giorno per il Paese. E minaccia di protrarsi.

l’Unità 4.10.13
Christopher Hein, presidente del Centro italiano per i rifugiati:
«Ai rifugiati va garantito l’ingresso protetto»
«Non c’è altro modo per fermare questa carneficina, che si ripete con una regolarità spaventosa»
«Assurdo pensare di fermare i flussi di chi fugge dalle persecuzioni. I flussi vanno gestiti»
intervista di U.D.G.


«Dolore, innanzitutto, per le vittime di questa immane tragedia. Ma anche preoccupazione e indignazione. Quest’anno abbiamo visto un fortissimo intensificarsi degli sbarchi e l’aprirsi di nuove rotte migratorie, come quelle che stanno portando nel nostro Paese i siriani. Rotte pericolose e percorse con barche inadeguate, guidate da trafficanti senza scrupoli. E la maggior parte di chi sta arrivando a Lampedusa, sulle coste della Sicilia e della Calabria sono persone in fuga da guerre e conflitti, sono siriani, eritrei e somali. Ormai è chiaro: o continuiamo ad assistere a questa carneficina o per evitare che i rifugiati continuino a mettere a rischio la loro vita per arrivare in Europa dobbiamo dare loro delle alternative di ingresso protetto».
A sostenerlo è Christopher Hein direttore del Centro italiano per i rifugiati (CIR) «Altrimenti dice l’unica possibilità che diamo loro è quella di attraversare un mare che continua a inghiottire vite. E non credo che questa sia una posizione ancora sostenibile per Paesi democratici e civili». «Quanto a questa tragedia aggiunge il direttore del Cir c’è una domanda che attende risposta: Come è possibile che una barca di queste dimensioni, rimanga inosservata per giorni e giorni nel Canale di Sicilia?». «Mi viene una sola parola: Vergogna!». Così Papa Francesco reagisce alla immane tragedia di Lampedusa. Condivide questo grido d’allarme e di indignazione lanciato dal Pontefice?
«Assolutamente sì. Vergogna, certo, perché non siamo di fronte a un terremoto, a uno tsunami, a un disastro naturale. No, siamo di fronte ad una tragedia annunciata. Annunciata da altre, sia pur con un bilancio di vittime meno devastante, tragedie che negli ultimi venti anni, hanno fatto del Mediterraneo la tomba di oltre 20mila persone. Ciò che oggi sconvolge, è una tragedia che si ripete con una regolarità spaventosa. Mi auguro che un disastro di queste dimensioni provochi una scossa di coscienza, alla quale devono seguire politiche concrete».
Quali, ad esempio? Più in generale, qual è, a suo avviso, l’approccio giusto, più efficace per fronteggiare queste «tragedie annunciate»?
«I flussi di chi è costretto a fuggire dalle persecuzioni non si possono fermare, per questo è indispensabile gestirli. La possibilità di richiedere asilo in Italia e nell’Unione Europea ad oggi dipende dalla presenza fisica della persona nel territorio di uno Stato membro. Ma le misure introdotte nell’ambito del regime dei visti e delle frontiere dell’Ue hanno reso praticamente impossibile per quasi tutti i richiedenti asilo e rifugiati raggiungere i territori dell’Ue in modo legale».
Come intervenire concretamente su questo nodo cruciale?
«Ci sono diverse modalità con cui i richiedenti asilo e rifugiati potrebbero entrare in Europa in modo regolare, ma sono poco utilizzate dagli Stati europei: il reinsediamento di rifugiati da un Paese di primo asilo, le operazioni di trasferimento umanitario attivate nel contesto di emergenze umanitarie, l’uso flessibile dei visti e le procedure di ingresso protetto che consentono ad un cittadino di uno Stato terzo di poter chiedere asilo già nel Paese di origine o di transito. L’Italia e l’Europa devono dotarsi di questi strumenti: è un passaggio indispensabile per cercare di dare alternative alla lotteria della morte del Mediterraneo». Cos’altro è possibile fare per dare un senso concreto alle tante parole che stanno accompagnando la tragedia di Lampedusa?
«Bisogna anche esigere che nei Paesi terzi di transito, come la Libia, siano create le condizioni, conformi al Diritto internazionale, affinché rifugiati possano ottenere protezione lì. Così non è. Registriamo, infatti, che attualmente in Paesi di transito, come appunto la Libia, a queste persone continua ad essere riservato un trattamento disumano, senza alcuna possibilità di ottenere protezione: ciò avveniva sotto Gheddafi, e ciò continua ad accadere della «nuova Libia». Va sottolineato, peraltro, che tra le circa 25mila persone arrivate via mare in Italia, da gennaio ad oggi, c’è un numero crescente di rifugiati e un numero relativamente molto minore di migranti per motivi economici. Coloro che muoiono in mare fuggono da guerre, persecuzioni, pulizie etniche. Non dobbiamo dimenticarlo. Mai. Perché anche questi non sono “disastri naturali”».

l’Unità 4.10.13
Predrag Matvejevic, scrittore croato:
«È naufragata la tolleranza: il mare nostrum divide i popoli»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Piango di fronte alle immagini di quella fila senza fine di corpi recuperati dal mare. Piango e mi ribello, come feci di fronte ai corpi straziati nelle fosse comuni a Srebrenica. È un pianto di dolore, di rabbia, di indignazione. Per quello che poteva essere fatto e non è stato. Per il silenzio complice di chi poteva intervenire e ha voltato gli occhi da un’altra parte. Per i grandi della terra che stringono patti militari e mai patti di solidarietà e di aiuto verso i più indifesi tra gli indifesi». Ha la voce incrinata dalla commozione, Predrag Matvejevic, l’intellettuale il cui percorso culturale e umano è stato quello di costruire «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte. In un suo libro, pluripremiato, «Breviario Mediterraneo», cosi come nel precedente «Il Mediterraneo e l'Europa» (Garzanti), ha raccontato ciò che è stato e cosa ha rappresentato, il «mare nostrum». Da ciò parte il nostro colloquio: «Un’umanità disperata bussa alle nostre porte riflette Matvejevic e ad attenderla trova spesso, troppo spesso, muri di ostilità. Barriere non solo fisiche ma mentali. Il Mediterraneo non deve trasformarsi in un abisso di inciviltà. In gioco non è solo il futuro, la vita di milioni di esseri umani. In gioco ci sono anche i valori, i principi che hanno fondato la civiltà dell’Europa». Nell’affrontare l’ennesima, immane tragedia, consumatasi ieri, viene alla mente un passo di «Breviario Mediterraneo»: «Certamente riflette Matvejevic ancora oggi il Mediterraneo è custode della vita di molti popoli, rievocandone le radici e le origini comuni. Ma il Mediterraneo, crocevia di civiltà, non è destinato a rappresentare un mito del passato. Che cosa resterà nella nostra cultura mediatica e tecnologica delle sedimentazioni millenarie e delle culture stratificate che hanno alimentato i popoli del mare? Che cosa oggi ha preso il posto dei viaggi e delle esplorazioni, degli scambi e delle migrazioni dei popoli mediterranei? Come il Mediterraneo è vissuto da questi stessi popoli, oggi?». La risposta che danno quella fila di corpi senza vita, sottolinea con amarezza il grande scrittore, è che «il Mediterraneo si sta trasformando nella tomba della speranza».
A Lampedusa si è consumata una tragedia immane: una strage di migranti. «Tragedia. Strage. Sono parole terribili, ma anche parole abusate, consunte, che da sole non danno conto dell’enormità di questi eventi. Così come non basta la parola, gridata da Papa Francesco: “Vergogna!”. Occorre qualcosa d’altro, di più forte, di più impegnativo. Occorre un nuovo umanesimo. Di fronte a quella fila senza fine di corpi adagiati su una banchina del porto di Lampedusa, altre sono le parole che andrebbero pronunciate e sostanziate con atti conseguenti».
Quali sono queste parole, professor Matvejevic?
«Compatire. Condividere. Parole di cui dobbiamo saper cogliere il senso più profondo, quello che porta al cuore della sofferenza indicibile che spinge migliaia e migliaia di persone a mettere in gioco la loro vita su quelle carrette del mare. Condividere la sofferenza ma anche condividere politiche che cerchino di dare una risposta a quella sofferenza e alla disperazione torna a riemergere dalle acque e dalla sponda Sud del Mediterraneo. Un Mediterraneo che è lacerato da tempo e più che un mare che unisce appare un mare ostile, che divide. Un mare in cui fa naufragio la tolleranza, in cui si
disperde la solidarietà. Ci sono momenti in cui queste lacerazioni diventano più evidenti e tragiche. Ed è ciò che racconta la strage di migranti. Già in passato, abbiamo osservato qualcuno distrattamente altri indignandosi per questo scempio di vite umane e di diritti inalienabili i loro viaggi e naufragi organizzati dalle tante mafie che infestano il mondo. Il volto dei sopravvissuti, siano essi maghrebini o albanesi, eritrei o somali, kosovari o siriani, appare a noi sempre eguale: il volto della sofferenza, di chi chiede conforto e trova spesso solo ostilità e umiliazioni inflittegli. Lo sguardo perso nel vuoto di chi ha abbandonato l’inferno ma ha paura di venirne rigettato dentro. Ma è nostro dovere saper distinguere i vari aspetti e le diversità che connotano il fenomeno dell’immigrazione dalle sponde Sud del Mediterraneo». Quali sono queste differenze?
«Dai Paesi del Maghreb, dall’Algeria, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Libia, ed ora anche dalla martoriata Siria, bussano alle nostre porte gente molto più giovane di noi e di molto più povera (non dimentichiamo che la sponda Nord del Mediterraneo è quella dei già invecchiati): a spingerli è soprattutto il miraggio del benessere economico che sembra loro lì, a portata di mano, a un "passo" da casa. Poi vi sono i più disperati ancora, quelli che provengono dall’interno dell’Africa che passano attraverso l’aridità del deserto e una povertà umiliante. Questa parte dell’immigrazione è la più disperata e la loro disperazione è pronta a tutto. Non hanno niente da perdere, il rischio non li spaventa. Sperano solo di salvarsi. Questa emergenza nell’emergenza non trova risposta adeguata nell’aiuto di singoli Paesi e di organismi sovranazionali».
L’Italia è sotto shock per questa immane tragedia.
«L’Italia da solo non può farcela, anche moltiplicando, ognuno per ciò che gli compete, il proprio impegno, a cominciare da chi ha responsabilità di governo. Bisognerebbe almeno che i Paesi euromediterranei unissero le loro forze per accogliere questa gente, dando prova di lungimiranza, guardando a quella umanità come risorsa e non come minaccia, e di una solidarietà praticata e non predicata. Le bandiere a lutto non bastano. Quel lutto va elaborato e trasformato in un nuovo umanesimo. E questa, a ben vedere, è anche la sfida che dovrebbe riguardare la politica e i politici».

l’Unità 4.10.13
Cecile Kyenge: «Dobbiamo rivedere le leggi, sia in Italia che in Europa»
intervista di Rachele Gonnelli


Cecile Kyenge convoca i giornalisti nella sala monumentale di largo Chigi in tarda mattinata. Lo sguardo è serio come sempre solo gli occhi sono un po’ più grandi, lo sguardo fisso come schiacciato dal peso degli eventi mentre confessa di provare «un dolore molto forte per questi morti», «una tragedia immane che ci impone la necessità di affrontare in maniera radicale il tema dei migranti in fuga da situazioni di conflitto». Si associa alle parole del Capo dello Stato nel chiedere «maggiore intensità per dare impulso a nuove politiche che interrompano questa serie di tragedie». La sua richiesta appare però un po’ debole rispetto agli enunciati di partenza: chiede «fin da subito» un coordinamento interministeriale sotto l’egida della Presidenza del Consiglio per mettere in essere un piano comune di aiuto ai profughi e di sostegno alle comunità locali su cui al momento pesa l’onere più grosso dell’accoglienza e della solidarietà. Tutti intorno allo stesso tavolo, lei con i colleghi Alfano agli Interni, Mauro alla Difesa, Cancellieri alla Giustizia, Bonino agli Esteri. È cosciente di una responsabilità molto grande che l’Italia si trova ad avere e vuole condividerla, ma soprattutto insiste sul metodo del dialogo, «la condivisione dice è la prima cosa».
Per approntare un piano serviranno mesi. Dopo quanto è successo non sarebbe meglio dare un segnale forte di svolta come l’abolizione della Bossi-Fini?
«Chiedo un coordinamento proprio per affrontare anche la questione delle modifiche delle norme sull’immigrazione, che devono essere riviste all’interno di questo quadro di condivisione e dialogo. Il dialogo è il punto principale e perciò dobbiamo distanziarci nettamente da chi dà messaggi opposti, di paura e di minaccia. Io sono per una legge che parta dalla visione del fenomeno migratorio come fenomeno naturale. Ma le risposte devono adattarsi a tutte le categorie di persone».
La Bossi-Fini crea problemi anche alla Libia, da cui gli immigrati partono ma dove non possono tornare, pena l’arresto. Come risolvere questo problema?
«Ci sono stati degli accordi, stipulati anni fa, con i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo che vanno presi in esame. Domenica prossima mi recherò a Lampedusa e in questa visita farò accertamenti e cercherò ulteriori risposte. Ciò che è certo è che i migranti fuggono da Paesi in cui ci sono guerre e conflitti e che a tutto ciò deve dare risposta anche una politica internazionale che deve tendere a rafforzare la pace e la democrazia». L’Europa ci critica per la nostra normativa inadeguata sull’immigrazione ma non dovrebbe fare di più? Si è assunta la sua parte di responsabilità?
«Il Consiglio d’Europa giudica sbagliata la nostra normativa e ci chiede di dare risposte positive che vadano nel senso dell’inclusione, della legalità, della cittadinanza. Durante il nostro turno semestrale di presidenza, che inizierà nel luglio prossimo, l’immigrazione sarà in agenda e già abbiamo iniziato a lavorare sul tema per una nostra iniziativa. Italia e Grecia oggi sono i Paesi più in prima linea rispetto ai flussi migratori. Lo scorso 23 settembre a Roma 18 Paesi della comunità europea hanno avuto un primo summit ed è possibile che l’immigrazione assuma presto un senso di priorità negli interventi. È chiaro che tutti devono rimboccarsi le maniche, non soltanto noi. L’Europa deve fare la sua parte e ad esempio alleggerire le norme comunitarie sulla libera circolazione e la convenzione di Dublino, garantendo nei Paesi d’arrivo la possibilità di un visto di transito per gli asilanti che vogliono andare in altri Paesi, coinvolgendo dunque tutta la Comunità europea per l’ospitalità dei profughi».
Cosa pensa della proposta di creare un corridoio umanitario con base nel porto di Lampedusa?
«Modificare le norme per l’immigrazione regolare e creare dei corridoi umanitari sono appunto due risposte all’esigenza di sottarre i migranti al ricatto delle organizzazioni criminali che si occupano di traffico di esseri umani. Se si vuole operare una reale strategia di contrasto dei trafficanti si devono affrontare questi due nodi».
Cosa risponde a Gianluca Pini, vice capogruppo della Lega a Montecitorio, che attacca oggi lei e la presidente Boldrini per gli sbarchi?
«Attribuire a me e alla presidente Boldrini la responsabilità morale di ciò che è successo è profondamente offensivo. E credo che sia un insulto anche a tutti i cittadini italiani si stanno adoperando per aiutare i superstiti. Questo attacco in queste ore è per me un punto di non ritorno nel rapporto con questi signori. Io cerco soluzioni, loro fomentano odio e paura, la distanza è ormai incolmabile».

l’Unità 4.10.13
Cancelliamo il reato di clandestinità
di Luigi Manconi, Valentina Brinis


Molte le cause della tragedia di ieri. Ma, tra esse, non può essere ignorata certo quella che rimanda ai dispositivi della legge Bossi-Fini (2002): e proprio perché, su quei dispositivi, è possibile finalmente intervenire.
Ci hanno provato i Radicali, ma per responsabilità di quasi tutti quel sacrosanto referendum non ha raggiunto il numero di firme necessarie. Ora è richiesta, come è ovvio, una forte decisione politica: ed essa non può essere rinviata se teniamo conto che quella normativa, così com'è, altro non fa che irrigidire, fino alla chiusura, il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo. E fatalmente finisce col considerare idonei all'accesso in Italia solo i migranti lavoratori, con molte eccezioni, e attraverso una procedura che si rivela sempre più dissuasiva e disincentivante. La normativa attuale ha apportato alcune modifiche alla precedente legge, la Turco-Napolitano (1998) concentrandosi sul controllo dell'ingresso e della permanenza regolare dei migranti in Italia. Ciò ha fatto sì che le persone in fuga verso il nostro Paese, se sprovviste del regolare visto necessario all'imbarco in aereo, dovessero trovare vie alternative e irregolari per poter raggiungere le coste italiane. Tutto ciò si inserisce in una politica europea che molto ha investito nella vigilanza sulle frontiere esterne, alimentando costantemente il fondo dell'Agenzia Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea), principale addetta a tale attività.
L'esito di ciò è stato che in numerose circostanze i migranti rintracciati in mare venissero rimpatriati senza che prima fossero identificati, ascoltati e soprattutto, prima che gli fosse data la possibilità di presentare la domanda di asilo. Il ministro dell'Interno dell'ultimo governo Berlusconi, Roberto Maroni, ha sempre negato che si effettuassero simili pratiche e, quando messo alle strette, le attribuiva ai così detti accordi Italia-Libia. Ma ecco che il 23 febbraio del 2012 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato l'avvenuta violazione del divieto di tortura, di quello di espulsioni collettive e del diritto ad un ricorso effettivo. E con ciò ha accolto l'esposto di 24 migranti che nel 2009 erano stati riportati in Libia dopo essere stati intercettati in mare dalle forze di polizia italiane. Si è opportunamente parlato di sentenza storica in quanto ha dimostrato come, almeno in un caso, il respingimento collettivo fosse davvero avvenuto. Resta il fatto che gli essenziali connotati della «Turco-Napolitano» sono stati modificati dalla «Bossi-Fini» a danno dell'ingresso regolare degli stranieri, in particolare in materia di visti, permesso di soggiorno, carta di soggiorno e diritto di asilo. Per poter richiedere e ottenere la documentazione necessaria, i criteri sono diventati più selettivi, tanto da rendere difficoltosa la permanenza legale. Si pensi alla complicata richiesta dell’idoneità alloggiativa, alla frequente negazione del visto per non motivate ragioni di sicurezza e, in generale, al complesso iter burocratico per rinnovare i titoli di soggiorno.
Ecco perché sono così numerose le persone diventate irregolari negli ultimi anni. Il governo Monti ha fatto qualcosa in questo senso, portando a un anno la durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione. Un timido passo avanti, ma tantissimo ci sarebbe ancora da fare, perché la «Bossi-Fini» non solo ha enormemente complicato il quadro amministrativo, ma ha anche recepito, attraverso il pacchetto sicurezza del 2009, quel meccanismo di vera e propria criminalizzazione rappresentato dal reato di clandestinità e dall’aggravante per clandestinità (dichiarata successivamente incostituzionale). Il risultato è stato, tra l’altro, un ulteriore incremento della già ampia popolazione carceraria costituita da stranieri (nel maggio del 2013 erano oltre settecento i reclusi responsabili esclusivamente di non aver ottemperato all’ordine di espulsione). Volendo trarre una rapida conclusione, si può dire che la legislazione in materia di immigrazione, dal 2002 a oggi, si è irrigidita e inasprita, producendo come effetto principale l’estensione delle aree di irregolarità e di marginalità. L’intero impianto normativo in materia di immigrazione deve essere radicalmente modificato, a partire da due atti essenziali: a) abrogazione del reato di clandestinità, che ha assimilato secondo un’ispirazione che rimanda a una concezione giuridica precedente lo stato di diritto la categoria dei migranti a quella di una «classe pericolosa», da perseguire non per i reati commessi ma per la sua stessa condizione esistenziale (non per ciò che si fa, ma per ciò che si è); b) introduzione del visto di ingresso per ricerca di occupazione, al fine di favorire l’incontro tra offerta e domanda nel nostro Paese, contribuendo a regolarizzare una quota notevole degli ingressi e dei soggiorni non regolari.
In altre parole, se questa strage di cui i morti di oggi sono appena un episodio non ci induce a modificare radicalmente una normativa che, quei morti, contribuisce a perpetuare, il nostro cordoglio rischia di risultare un vuoto rito.

Corriere 4.10.13
Solo guardando tutti i dettagli capiremo la follia di questa tragedia
di Emanuele Trevi


Le uniche cose buone che compie il genere umano, forse, dipendono dalle famose gocce che prima o poi fanno traboccare tutti i vasi. Di per sé, la tragedia di ieri non è diversa dalle innumerevoli altre che si succedono senza tregua intorno alle coste di Lampedusa e della Sicilia meridionale. Ma il numero delle vittime, e l’atrocità della loro fine e delle sue cause, la ragnatela dei casi e dei destini che si è tessuta fino allo scoppio dell’incendio sono cose tali da imporre che cambi decisamente il vento, nelle menti di chi osserva tutto questo dalla riva, a casa sua. Perché ci siano gesti efficaci, c’è bisogno di pensieri diversi, e migliori, che li guidino. Tutte le abitudini e i riflessi condizionati vanno sottoposti a verifica, e neutralizzati da un diverso tipo di attenzione.
Bisogna cominciare con l’ammettere che questa cosa è di una gravità così immane da risultare quasi misteriosa, sovrannaturale, e ci spaventa. Legittimamente, possiamo anche pensare che non ce lo meritavamo, questo castigo. Tanto più che non ha nessuna spiegazione logica il fatto stesso che cinquecento esseri umani, somali ed eritrei, vagassero per il Mediterraneo abbandonati alla loro sorte, in balia di un paio di scafisti incapaci come loro di evitare il peggio. Considerato da dove vengono, darei a questa gente il nome di profughi, più che di migranti, ma che importa? Non sono i nomi collettivi che contano, né i famosi «flussi» né le statistiche stagionali degli approdi. L’essenziale non è lì, perché l’essenziale rifugge tutto ciò che è collettivo, e risiede semmai nel nome proprio, nella diversità del singolo individuo da ogni altro, con i suoi motivi e i suoi desideri e i suoi calcoli giusti o sbagliati.
Ci si para davanti, invece, un tipo di tragedia che deriva proprio dall’indistinzione e dall’anonimato il suo aspetto più odioso. Quello che realmente ci raffiguriamo all’interno di noi stessi è una moltitudine famelica e disperata, che non contenta di invaderci da viva, lo fa anche con i corpi di chi muore lungo la strada. E questa specie di animale collettivo è un mostro, che possiamo combattere in mille maniere: dichiarandolo illegale, respingendolo al luogo di partenza, cannoneggiandolo. Ed è proprio qui che si impone a tutti noi un radicale cambiamento del punto di vista. Dobbiamo finalmente imparare a pensare che, quali che siano le condizioni di miseria e di pericolo da cui proviene, ogni singolo individuo che tenta di arrivare alle nostre coste lo fa a modo suo, mettendo alla prova il suo carattere e la sua capacità di resistenza perché quello che si lascia alle spalle è ancora peggio del rischio di annegare o di morire di stenti.
L’istinto di sopravvivenza, che è il motore di tutti questi viaggi disperati, differisce da persona a persona, e non si può trasmettere nemmeno ai propri figli, che devono imparare a svilupparlo da soli. È come una fiammella che ognuno protegge come può, ben sapendo che non ci vuole nulla a spegnerla. Per gli altri animali è un lavoro più semplice, perché ignorano di dover morire. Ma noi non possiamo far finta di non saperlo, e questo fa di noi, anche nel momento in cui ci stipiamo su una carretta del mare assieme a centinaia di nostri simili, quello che siamo sempre stati fin dai primi giorni della nostra vita: esseri soli e spaventati, aggrappati all’unica speranza di rimandare l’incontro con la sorte. Ed ecco che, ridotta la questione all’osso, l’infamia diventa insopportabile.
Facendo finta che si tratti di «flussi» e di quantità, dimentichiamo che sotto tutto questo si agita il più elementare dei diritti individuali, quello di salvarsi la pelle, e non corrispondiamo a questa esigenza, nella quale pure è facilissimo identificarsi, una capacità di soccorso adeguata. È una cecità che rasenta la follia. Ma non è forse una cosa da pazzi furiosi definire clandestino un uomo che ha paura di morire? E non è forse il più triste, il più turpe dei destini quello di rimanere a contemplare questi naufragi quotidiani di barche che non hanno nemmeno un nome da ricordare?

l’Unità 4.10.13
Festival «Internazionale»
India, la protesta è donna
Grazie alle loro battaglie politiche il Paese sta cambiando
di Urvashi Butalia

attivista, scrittrice ed editrice indiana, oggi prenderà la parola a Ferrara

È SABATO POMERIGGIO, UNA MATTINA MITE NEL NORD DELL’INDIA. IN UN PICCOLO VILLAGGIO NEL CUORE DEL RAJASTHAN ci incontriamo con un centinaio di donne, vecchie, giovani, studentesse universitarie, nonne. Sono in maggioranza donne che sono entrate in politica grazie alle quote riservate una legge del 1992 ha portato al 33 per cento la quote riservate alle donne nelle elezioni nei villaggi e nelle grandi città oppure studentesse che sperano di iniziare un loro percorso nella vita politica. Sono interessate e curiose. Con me ci sono due donne che hanno una lunga esperienza di politica e di militanza, Sivakami, una politica Dalit che ha da poco fondato un proprio partito politico, e Salma, una donna musulmana che è entrata in politica grazie alle quote e che ha avuto un enorme successo col suo lavoro. Lei è una dei milioni e più di donne che hanno assunto ruoli di responsabilità in questo modo, e il cui numero è destinato ad aumentare, quando le quote per i villaggi e per le città saliranno dal 33 per cento al 50 per cento.
Salma e Sivakami, che sono anche entrambe scrittrici, ci raccontano le loro storie. «Quando sono entrata in politica», dice Salma «non avevo mai neppure fatto un passo fuori di casa. Ma una volta che ho cominciato a parlare con la gente e ad ascoltarla, qualcosa dentro di me è cambiato. Ho sentito che dovevo fare qualcosa per loro». E così ha fatto, utilizzando la sua carica quinquennale per affrontare questioni come la fornitura di acqua, l'elettricità, le strade, le scuole. «È stato difficile, nessuno pensa che una donna può fare una cosa del genere, dicono un sacco di cose su di te, ma è esaltante, e una volta che hai successo in una cosa, nessuno può più fermarti».
Le donne gridano la loro approvazione, urlano, si lanciano in canzoni e danze. E poi Sivakami comincia a parlare. Il suo percorso politico è stato diverso: era funzionario del Servizio Amministrativo Indiano, una burocrate. Stufa di smistare scartoffie, ha lasciato il lavoro e si è iscritta ad un partito politico. Ma la delusione per mancanza di spazio per le donne e di attenzione per le esigenze e i problemi dei poveri, l’ha portata a fondare un proprio partito che oggi conta circa 10.000 membri e rappresenta una voce autorevole per le caste più basse e le persone emarginate. «Non bisogna credere quando vi dicono che le donne non sono in grado dice dovete credere in voi stesse, utilizzare tutte le risorse che avete a disposizione, e assicurarvi di non lasciare indietro nessuno». Un altro boato di approvazione saluta il suo discorso.
Poche ore dopo, ci prepariamo per partire. Le donne vengono a salutarci. «Tornate presto ci dicono la prossima volta che verrete queste giovani saranno diventate dei leader. Ora sappiamo cosa significa avere il potere, e non ce lo lasceremo scappare». Hanno ragione, hanno dimostrato a tutto il paese che il potere può essere usato in modo responsabile, e che il cambiamento è possibile. Questo è il motivo per cui, un tentativo di avere quote simili nel parlamento nazionale è stato bloccato.
Una settimana più tardi, sono a Delhi, la mia città natale. Un gruppo di sessanta o settanta donne in uniformi verdi affollano la stanza, sono tutte autisti, parte di un gruppo di sole donne conducenti di auto e taxi. Ognuno ha una storia di disagio, spesso di violenza, di lotta contro la povertà. Ma ora sono fiduciose, sorridenti, pronte ad affrontare il mondo. Raccontano la loro vita, i problemi che devono affrontare la mancanza di servizi igienici pubblici è uno di questi. Come la maggior parte delle città indiane, Delhi ha troppo poche strutture pubbliche per le donne. Questo crea loro ancora più problemi del rischio di violenza sessuale «Ci dobbiamo convivere – dicono abbiamo sempre con noi i di assistenza, abbiamo imparato un po’ di autodifesa, non facciamo salire passeggeri soli uomini la notte». La minaccia della violenza in un lavoro come questo, dicono, è un rischio del mestiere: «anche gli autisti maschi devono farci i conti» dicono. Molte vivono situazioni di violenza domestica. «Ma questo lavoro ci ha rese più forti raccontano e una volta che inizi a guadagnare, comincia a valere». Ogni tanto, aiutano le loro società a reclutare conducenti donne per assumerle come tirocinanti. «Questo è un lavoro fantastico, e siamo autisti molto migliori degli uomini, perché quindi solo loro dovrebbero esercitare la professione?» chiedono.
L’India ha ricevuto così tanta pubblicità negativa per la situazione delle donne da dicembre dell’anno scorso dopo il brutale stupro di gruppo di una giovane donna, che storie come queste possono sembrare false. Ma sono reali, e non sono isolate, anzi sono sempre di più. Non c’è dubbio che l’India stia cambiando, e che al centro del cambiamento ci siano le donne.
Oggi, centinaia e migliaia di donne in tutta l’India stanno lavorando sodo per cambiare la realtà in cui vivono combattono la violenza, creano imprese, rifiutano i luoghi di lavoro dove vengono sfruttate, scelgono di non avere figli. Ma queste realtà non ricevono molta attenzione.
Naturalmente, non tutte le notizie sono buone. A credere alle statistiche, la violenza contro le donne sembra essere in aumento in India. L’India ha più uomini che donne (914 donne ogni 1000 uomini), e la selezione del sesso attraverso l’aborto svolge un ruolo importante in questo disparità. Nonostante delle buone leggi, le relazioni di lavoro formali e informali non rispettano la parità di condizioni e secondo il censimento del 2011, circa 200 milioni di donne in India ancora non sanno leggere e scrivere.
Ma i numeri non raccontano mai la storia completa. E spesso, possono essere letti in modo diverso, a seconda di ciò che si sta cercando: quindi se 200 milioni di donne in India non sanno né leggere né scrivere, significa che 800 milioni di donne invece lo sanno fare. Se i numeri mostrano un aumento della violenza, forse è perché più donne ora sono fiduciose e disposte a parlare.
È difficile dire quanto velocemente la realtà della vita delle donne indiane potrà cambiare. Ma che cambierà non è mai stato in discussione, perché lo spirito di protesta e di resistenza, è presente nei cuori e nelle menti di milioni di donne qualsiasi in India.
Questo è il motivo per cui lo stupro del dicembre scorso che per molti nel mondo ha dimostrato la presunta 'arretratezza' dell’India invece in India ha portato a grandi proteste, a un documento straordinario che parla non solo di diritto, ma circa dei costi sociali, economici, psicologici della marginalizzazione delle donne, e ha condotto a cambiamenti nelle leggi.
Ha reso evidente, in altre parole, la voglia e la determinazione verso un cambiamento. Una giovane donna ha perso la vita. Spetta a noi far sì che il cambiamento che sognava diventi reale. Forse è su questo che dobbiamo concentrarci.

Ospiti da tutto il mondo
Da oggi e fino al 6 ottobre Ferrara si trasforma nella redazione più grande del mondo. Sono i giorni di «Internazionale» a Ferrara, il festival di giornalismo organizzato dal settimanale Internazionale e dal Comune di Ferrara. Ci saranno 198 ospiti, tra i quali Natalie Nougayrède; Nate Silver; Urvashi Butalia, che sarà che oggi alle 16 interverrà su «La guerra contro le donne. La violenza di genere, un’emergenza globale».

Repubblica 4.10.13
Il bene del mondo e la Chiesa
di Vito Mancuso


Inizierà davvero una nuova epoca per la Chiesa, e quindi inevitabilmente anche per la società, come prefigurava Scalfari a conclusione dell’intervista a papa Francesco?
Ciò che sorprende nelle risposte del Papa è il punto di vista assunto, un inedito sguardo extra moenia o “fuori le mura” che non pensa il mondo a partire dalla fortezza-Chiesa, ma, esattamente all’opposto, pensa la Chiesa a partire dal mondo. Nei suoi ragionamenti non c’è traccia della consueta prospettiva ecclesiastica centrata sul bene della Chiesa e la difesa a priori della sua dottrina, della sua storia, dei suoi privilegi e dei suoi beni così spesso oggetto di cura gelosa da parte degli ecclesiastici di ogni tempo (un monumento del pensiero cattolico quale il Dictionnaire de Théologie Catholique dedica 9 pagine alla voce “Bene” e 18 alla voce “Beni ecclesiastici”!). C’è al contrario un pensiero che ha di mira unicamente il bene del mondo e per questo il Papa può dire che il problema più urgente della Chiesa è la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi. Non le chiese, i conventi e i seminari semivuoti; non il relativismo culturale; non il sentire morale del nostro tempo così difforme dalla morale cattolica; non la minaccia alla vita e al modello tradizionale di famiglia. No, la disoccupazione dei giovani e la solitudine degli anziani.
L’aver assunto il bene del mondo quale punto di vista privilegiato ha condotto il Papa alle seguenti due affermazioni capitali: 1) la Chiesa non è preparata al primato della dimensione sociale, anzi c’è in essa una prospettiva vaticanocentrica che produce una nociva dimensione cortigiana («la corte è la lebbra del papato»); 2) storicamente essa non è quasi mai stata libera dalle commistioni con la politica – e a questo proposito la Chiesa italiana di Ruini e Bagnasco dovrebbe recitare non pochi mea culpa per non aver denunciato l’immoralità pubblica e privata di chi per anni governava l’Italia, di cui al contrario si è giunti persino a contestualizzare benignamente le pubbliche bestemmie.
Ma l’azione del papa e la nuova epoca per la Chiesa che prefigura può non avere effetti anche sul mondo laico? Dei mali della Chiesa e delle riforme di cui necessita si è detto, ma penso sia saggio domandarsi se non esista anche qualcosa nella mente laica che occorre riformare. È solo la Chiesa che deve cambiare, oppure il cambiamento e la riforma interessano anche chi si dichiara laico e non credente? Naturalmente sotto queste insegne si ritrovano gli ideali più vari, dall’estrema destra all’estrema sinistra, e io qui mi limito a discutere il pensiero laico progressista rappresentato da Scalfari. Alla domanda del Papa sull’oggetto del suo credere, Scalfari ha risposto dicendo «io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti», e poco dopo ha precisato che «l’Essere è un tessuto di energia, energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità», attribuendo a combinazioni casuali l’emergere delle forme tra cui l’uomo, «il solo animale dotato di pensiero, animato da istinti e desideri», ma che contiene dentro di sé anche «una vocazione di caos». Insomma Scalfari si è professato, come già nei suoi libri, discepolo di Nietzsche.
Ma cosa manca a questa visione del mondo? Trattandosi di un’eredità di colui che volle andare “al di là del bene e del male”, manca ovviamente la possibilità di fondare l’etica in quanto primato incondizionato del bene e della giustizia. Per Nietzsche infatti l’Essere è un “mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea”, il mondo “è la volontà di potenza e nient’altro”. Ma se il mondo è questo, ne consegue che il liberismo, in quanto volontà di potenza che vuole solo incrementare se stessa, ne è la più logica conseguenza. Perché mai quindi si dovrebbe lottare nel nome della giustizia, della solidarietà, dell’uguaglianza? Come non dare ragione a Nietzsche che considerava questi ideali solo un trucco vigliacco dei deboli, incapaci di lottare ad armi pari coi forti? Se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento.
Da tempo vado pensando che la cultura progressista viva la grande aporia dell’incapacità di fondare teoreticamente la propria stessa idea-madre, cioè la giustizia. Darwin ha sostituito Marx, e Nietzsche (attento lettore di Darwin) è diventato il punto di riferimento per molti. Il risultato è Darwin + Nietzsche, ovvero “l’eterno ritorno della forza”, cioè una cupa e maschilista visione del mondo secondo cui la forza e la lotta sono la logica fondamentale della vita.
Se è giunto il tempo di una Chiesa che dia più spazio al femminile, è altresì tempo di un pensiero laico altrettanto capace di ospitare il femminile, intendendo con ciò una visione del mondo e della natura che fa dell’armonia e della relazionalità il punto di vista privilegiato. Da Aristotele a Spinoza a Nietzsche, la sostanza è sempre stata pensata come prioritaria rispetto alla relazione: prima gli enti e poi le relazioni tra essi. Oggi la scienza ci insegna (questo è il senso filosofico della scoperta del bosone di Higgs) che è vero il contrario, che prima c’è la relazione e poi la sostanza, nel senso che tutti gli enti sono il risultato di un intreccio di relazioni e tanto più consistono quanto più si nutrono di feconde relazioni. Questo è il pensiero femminile, un pensiero del primato della relazione, di contro al pensiero maschile basato sul primato della sostanza, e va da sé che pensiero femminile non significa necessariamente pensiero delle donne, perché ogni essere umano contiene la dimensione femminile e vi sono donne che pensano e agiscono al maschile (si consideri per esempio Margaret Thatcher, per tacere di alcune politiche italiane), mentre vi sono uomini che pensano e agiscono al femminile (si pensi per esempio a Gandhi e prima ancora al Buddha o a Gesù).
Io penso che il nostro tempo abbia veramente bisogno di un nuovo paradigma della mente, di una ecologia della mente nel senso etimologico di riscopertadellogosche informa oikos,il termine greco per “casa” da cui viene la radice “eco” e che rimanda alla natura. Scalfari nel suo credo insiste sul caos e non sbaglia, perché il caos è una dimensione costitutiva della natura; non è la sola però, c’è anche il logos, alla cui azione organizzatrice si deve l’emersione dalla polvere cosmica primordiale degli enti e della loro meraviglia, tra cui la mente e il cuore dell’uomo. I grandi sapienti dell’umanità l’hanno sempre compreso, chiamando il logos anche dharma, tao, hokmà ecc. a seconda della loro tradizione. Cito volutamente un pensatore non cristiano, il pagano Plotino: «Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io; in quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio» (Enneadi IV, 8, 1).
L’unione di logos + caos è la dinamica dentro cui il mondo si muove ed evolve. Essa ci fa comprendere che la verità non è un’esattezza, una formula, un’equazione, un dogma o una dottrina, insomma qualcosa di statico; la verità è la logica della vita in quanto tesa all’armonia, quindi è un processo, una dinamica, un flusso, un’energia, un metodo, una via. La verità è il bene in quanto armonia delle relazioni. In questo senso Gesù diceva “io sono la via, la verità e la vita”, non intendendo certo con ciò innalzare il suo ego in un supremo narcisismo cosmico, ma prefigurando il suo stile di vita basato sull’amore come ciò che al meglio serve l’Essere. Ne viene una visione del mondo nella quale l’ontologia cede il primato all’etica, nella quale cioè il vero non si può attingere se non passando attraverso i sentieri del bene, e l’amore diviene la suprema forma del pensare.
Amor ipse intellectus,insegnava il mistico medievale Guglielmo di Saint-Thierry.
I credenti sono chiamati a rinnovarsi e penso che con umiltà sotto la guida di questo papa straordinario in molti stiano iniziando a farlo; anche i non credenti però sono chiamati a rinnovare la loro mente alla luce dell’Essere non solo caos ma anche logos, cioè relazionalità originaria a livello fisico che fonda il bene a livello etico. Forse così l’ideale della giustizia e dell’uguaglianza al centro del pensiero progressista mondiale sarà distolto dalle nebbie del buonismo dei singoli e radicato su una più armoniosa visione del mondo.

Repubblica 4.10.13
La formula per il bimbo perfetto
Meglio un figlio “con basso rischio di malattie congenite al cuore” o un atleta?
Occhi azzurri e capelli biondi o preferite la certezza di una lunga vita?
Basta cliccare sulla casella giusta: la società americana
“23andMe” ha ottenuto il brevetto informatico per far nascere bambini su misura. Ma gli scienziati insorgono
di Elena Dusi


L’importante è cliccare sulla casella giusta. «Preferisci un bambino con basso rischio di cancro al colon» o «basso rischio di difetti congeniti al cuore»? La scelta del colore degli occhi ha tre opzioni: blu, verde o nero. Sul sesso del bebè i genitori arriveranno già preparati, ma le mirabilie della genetica potrebbero metterli in difficoltà alla domanda seguente: «Preferisci un figlio con una durata della vita lunga», «con l’ammontare minimo di spese mediche nel corso della vita» o «con il numero minimo di giorni passati in ospedale durante la vita»?
Del neonato à la carte,grazie alla recente scoperta che il tipo di fibre muscolari è determinato dai geni, è possibile anche decidere in quale sport eccellerà. Un clic alla casella «performance muscolare» sulla scritta «100% sprinter» (con tanto di icona di un corridore) o su quella «atleta di endurance» (l’immagine è un ciclista) ci permetterà di sognarlo campione nella disciplina del cuore. A questo punto non restano che pochi dettagli, come la tolleranza al lattosio, la predisposizione a una forma di cecità (il sistema non vieta nemmeno di cliccare “sì”) o la capacità di percepire il sapore amaro.
Benvenuti nel mito dell’eugenetica che diventa realtà (o almeno così reclamizza) nel brevetto US 8543339B2, concesso negli Stati Uniti alla ditta di test genetici “23andMe” di Mountain View, California. La sede del colosso mondiale dei test del Dna è a meno di un chilometro da quella di Google e l’algoritmo informatico che sfrutta il calcolo delle probabilità per arrivare alla formula del bambino perfetto parla anche la lingua dei motori di ricerca. Una delle fondatrici di 23andMe — nonché la persona che del brevetto ha fatto richiesta — è poi Anne Wojcicki: 40 anni ed ex moglie di Sergey Brin, cofondatore del più importante motore di ricerca del mondo.
Il brevetto contiene in prima battuta una serie di domande cui sottoporre i futuri genitori. Poi un algoritmo che, attraverso una batteria di calcoli probabilistici, seleziona quale combinazione, fra gli ovuli e gli spermatozoi a disposizione di una banca dei gameti, si avvicina di più ai sogni di mamma e papà.
Di questi genomi la sola 23andMe ne ha 400mila in magazzino. E una vasta banca di ovuli e spermatozoi è quello che in genere offrono le cliniche per la procreazione assistita nei paesi in cui è consentita la fecondazione eterologa: dove uno dei genitori è estraneo alla coppia o dove un single cerca di avere figli con un ovulo o degli spermatozoi donati. È proprio a queste cliniche che 23andMe (dove 23 sta per il numero di cromosomi che ciascun genitore dona al figlio) permetterà di usare il suo algoritmo brevettato di fresco, prevedibilmente a suon di bigliettoni verdi.
Per il momento l’azienda californiana ha scelto un approccio pubblicitario soft. Martedì scorso sul suo sito è comparso l’annuncio di un nuovo «calcolatore per l’ereditarietà dei tratti familiari» che offre «a te e al tuo partner la possibilità di sapere quali tratti vostro figlio potrebbe ereditare». Ma il titolo sul brevetto approvato lo scorso 24 settembre non lascia dubbi sulle finalità reali: «Selezione del donatore di gameti basata su calcoli genetici». Tra il “sapere” e il “selezionare” il salto è evidentemente enorme. E all’interno del testo del brevetto compare l’elenco delle domande a scelta multipla che rende l’operazione particolarmente aberrante.
Che la scienza non sia del tutto capace di mantenere le promesse che 23andMe offre è poi chiaro agli stessi possessori del brevetto. I quali stanno ben attenti a parlare solo di «possibilità» che il bambino nasca con i tratti prescelti. E che quindi potranno declinare ogni responsabilità qualora il risultato, dopo nove mesi di gravidanza, non sia quello «cliccato». Il metodo — mette le mani avanti l’azienda californiana — offre «un’informazione statistica sulle probabilità che le caratteristiche di interesse compaiano nel bambino in base al genotipo dei donatori dei gameti».
Secondo il colosso di Anne Wojcicki, analizzando il Dna di ogni donatore, è possibile determinare quante chance ci sono che ognuno dei caratteri scelti compaia nel figlio. Mettendo insieme tutti i “punteggi” è possibile stilare una classifica. A quel punto la fecondazione assistita potrà procedere con lo sperma o l’ovulo (a seconda del sesso dell’aspirante genitore) che più si avvicina ai propri desideri, fra quelli disponibili nella banca. Qualora le caratteristiche richieste del bimbo à la carte dovessero collidere fra loro, sarà il genitore a stabilire la priorità. Nulla vieta ad esempio di scegliere a tutti i costi un bimbo con gli occhi blu, anche se questo comporta un aumentodel rischio di una malattia.
Che l’ufficio brevetti americano abbia messo il suo timbro su un metodo così controverso è subito diventato oggetto di scontro. Un editoriale pubblicato suGenetics in Medicine (rivista inglese sorella diNature)chiede oggi che la concessione dei brevetti negli Usa sia subordinata a un rispetto più rigoroso dei principi morali (in Europa in parte avviene già). «Nel 1997 — ricordano gli autori, che sono bioeticisti e genetisti delle università di Ghent, Tolosa e Lovanio — Stuart Newman e Jeremy Rifkin chiesero un brevetto su un metodo per creare chimere, metà uomini e metà animali. Chiaramente non volevano generare questi esseri, ma solo farsi rifiutare la richiesta e stabilire un precedente giudiziario che chiudesse per sempre la porta a ipotesi simili. Oggi, non ci sembra che siano questi gli obiettivi dell’azienda in questione».
Quando nel 2012 la 23andMe propose ai suoi clienti un test per prevedere (sempre in termini probabilistici) il rischio di ammalarsi di Parkinson, il suo sito fu sommerso da commenti ostili. L’esame del Dna sugli embrioni oggi è usato abbastanza comunemente per evitare malattie che hanno origini genetiche semplici e ben determinate (come la fibrosi cistica, o molti problemi provocati da una singola mutazione sui cromosomi). Queste diagnosi chiamate “pre-impianto” sono test che nulla hanno a che fare con l’eugenetica, e che per un nascituro possono fare la differenza fra la vita e la morte. Ma tratti più sfumati, determinati dalle interazioni reciproche framolti geni (e il Parkinson è fra questi, così come la maggior parte dei caratteri che il nuovo brevetto permette di ordinare à la carte) ancora sfuggono alle capacità di previsione degli scienziati.
«Altro che eugenetica. Qui stiamo facendo un genoscopo: l’oroscopo che usa i geni al posto delle stelle», commenta Giuseppe Novelli, fresco rettore dell’università di Tor Vergata a Roma e uno dei più importanti genetisti italiani. Il suo ateneo, in collaborazione con il San Raffaele di Milano, sta sviluppando un algoritmo per quantificare il rischio di malattie del cuore a partire dal Dna (undici geni che, in caso di mutazione, possono far aumentare il rischio di aterosclerosi e infarto), ma includendo anche gli stili di vita: attività fisica, pressione, colesterolo, trigliceridi, obesità addominale, eventualmente diabete. «Il nostro calcolo sarà applicato a persone adulte che rischiano di avere un infarto, non certo alla selezione di embrioni».
Ma sia pur tra mille difficoltà, un software intelligente potrà mai creare l’uomo perfetto? «Non esiste l’uomo perfetto», taglia corto Novelli. «Ognuno di noi è pieno di difetti dal punto di vista genetico. E a questo non si può rimediare. Ammettiamo anche di avere i mezzi per selezionare i figli nel più efficiente dei modi. Ebbene, ogni nuovo embrione porta in sé in media 70 mutazioni rispetto al patrimonio genetico ereditato dai genitori. E fra due persone qualunque esistono 4 milioni di differenze all’interno del Dna. Non c’è algoritmo che possa cancellare queste diversità».

Repubblica 4.10.13
L’intervista al professore Dalla Piccola: “Una pericolosa deriva etica”
“I difetti fanno parte della vita non c’è algoritmo che tenga”
di Maria Novella de Luca


«Niente da fare, rassegnatevi, l’imperfezione fa parte della vita, non c’è algoritmo che tenga. E continuare a inseguire il sogno di creare un bambino perfetto è una pericolosa deriva etica della nostra società». Non ha dubbi il professor Bruno Dalla Piccola, genetista di chiara fama e oggi direttore scientifico dell’ospedale Bambin Gesù di Roma. Quell’invenzione americana seppure brevettata farà poca strada. E aggiunge: «Troppi medici cattivi maestri...».
Professor Dalla Piccola, crede davvero che non sia possibile selezionare la “salute” dei bimbi in provetta? In parte già questo avviene per alcune malattie genetiche.
«Per pochissime malattie genetiche, bisogna aggiungere, quelle poche che conosciamo. Sa quante sono le patologie rare? Oltre ottomila, e per molte di queste ancora l’origine non è chiara. Si pensa che selezionando gli embrioni si possa avere la certezza di un figlio sano. E non è così...».
Però analizzando i gameti maschili e femminili è possibile tracciare un profilo del bimbo che verrà?
«In minima parte. Ogni coppia di genitori è portatrice di almeno 70 nuove mutazioni genetiche. Quale attendibilità può avere un profilo così? E poi c’è l’ambiente. Che conta moltissimo».
Ci spieghi.
«Oggi sappiamo che ogni individuo ha delle predisposizioni: al diabete, all’obesità, alle patologie cardiovascolari. Ma sappiamo anche che ci si ammala sempre di più per l’esposizione a stili di vita sbagliati. Quindi se anche potessimo creare un bambino senza la tendenza a ingrassare, quello che poi lo potrebbe rendere obeso è un modo errato di mangiare».
Non le sembra però comprensibile da parte di una coppia di genitori cercare di avere il figlio più sano possibile? E magari anche più bello?
«La mia risposta è che il mondo attuale non accetta l’imperfezione e questo è gravissimo. E la colpa è anche dell’informazione. E di una classe medica che diffonde l’ideache attraverso la selezione degli embrioni, o come in questo caso addirittura di algoritmi, si possano creare degli esseri senza difetti».
Crede che si tratti di una sorta di eugenetica?
«La deriva è quella. Ma dietro c’è spesso soltanto una grande paura e una informazione errata. Proprio ieri ho incontrato due signore incinte, i cui bambini presentano delle piccole imperfezioni. Piccole ripeto. Ho visto l’angoscia nei loro occhi. Poi abbiamo parlato, e ho spiegato loro la vera entità di quelle imperfezioni. E le due mamme in attesa sono cambiate. Hanno capito che non era una tragedia. E accettato la situazione».
E da cosa deriva, secondo lei, professor Dalla Piccola, questa nostra difficoltà a sostenere anche una piccola diversità?
«Proprio da quello che le dicevo. Dall’idea, veicolata anche da molti medici, che sia possibile oggi attraverso ogni tipo di tecnica, mettere al mondo un figlio senza malattie, senza difetti, magari anche bello e intelligente. Ma purtroppo non è così».
A parte però il desiderio legittimo di avere un bambino sano e normale, forse c’è anche la paura che in un mondo che privilegia la perfezione, gli “imperfetti” siano poi esclusi e emarginati.
«Questa è una deriva triste e pericolosa per la nostra società. Però molto nasce dalla mancanza di chiarezza e da messaggi ingannevoli: si ipotizzano figli perfetti, e nello stesso tempo si fa quasi terrorismo sui genitori, parlando di possibili malattie del bambino che aspettano».
Ma allora oggi che cosa siamo in grado di prevedere?
«Alcune, poche, malattie genetiche. Possiamo vedere la predisposizione ad alcune patologie. Ma ripeto: oggi sappiano che la condizione di un individuo e ancora di più di un bambino è determinata dall’incrocio della sua specificità con l’ambiente che lo circonda e in cui cresce».
Dunque il figlio perfetto resta un sogno?
«Se pensiamo di selezionarlo prima che nasca sì, più che un sogno è qualcosa di profondamente sbagliato. L’imperfezione fa parte di noi, accettiamola».

Corriere 4.10.13
Il Leonardo mai visto
Scoperto il ritratto fatto a Isabella d’Este. Risolto un mistero durato 500 anni

di Pier Luigi Vercesi

È lì, rinchiusa in un caveau svizzero, con una corona in testa e una palma impugnata come uno scettro, dettagli quasi certamente aggiunti dagli allievi «più affezionati» (Salaì e Melzi) che il maestro portò con sé a Roma nel 1514. Isabella d’Este, addobbata come fosse santa Caterina d’Alessandria, aspetta di entrare, per la prima volta da quando la dipinse Leonardo, in un museo.
La sua storia — ricostruita in esclusiva da «Sette» — ha gli ingredienti di un thriller. Con buone probabilità di approdare a un epilogo positivo. Era cominciata con un cartone preparatorio (conservato al Louvre) abbozzato da Leonardo nel 1499 durante un soggiorno a Mantova, ospite dei Gonzaga; negli anni successivi, più volte la marchesa inviò lettere e ambasciatori implorando che lo schizzo venisse trasformato «de colore», ma nulla di più, salvo l’«avvistamento», nel 1517, del ritratto di una signora lombarda nel castello di Blois. Poi, un silenzio «assordante» che ha prodotto fiumi d’inchiostro e la conclusione, di sconsolati studiosi, che forse il quadro non era mai stato realizzato o che Isabella non foss’altro che la Gioconda: Mona Lisa, ovvero Mona l’Isa (bella). Tre anni e mezzo fa, infine, il ritratto è riemerso dall’eredità di una famiglia che vive, dagli inizi del Novecento, tra il Centro Italia e la Svizzera, a Turgi, nel cantone Argovia.
Ma andiamo per ordine. Innanzitutto, i proprietari (di cui non conosciamo il nome) apprenderanno da queste pagine che il loro non è più un segreto. Da cronisti, non potevamo attendere: venuti in possesso della fotografia del quadro, della prova del Carbonio 14 (che data i materiali) e, soprattutto, di una lettera con le conclusioni del professor Carlo Pedretti, ritenuto unanimemente il massimo studioso di Leonardo (direttore del Centro Studi Vinciani dell’Hammer Museum di Los Angeles), dovevamo andare a fondo e raccontare tutta la storia, dopo aver raggiunto la ragionevole certezza di non essere incappati in una sorta di «falso diario di Hitler». Anche perché, negli ultimi anni, le polemiche attorno a Leonardo e a sue ipotetiche opere hanno animato le cronache (ancor più dopo il romanzaccio di Dan Brown). Prima di andare in stampa, allora, abbiamo parlato con Pedretti. Il professore ci ha scongiurato di aspettare: «Non ci sono dubbi che il ritratto sia opera di Leonardo, però, dopo tre anni e mezzo di studi, ci serve ancora una manciata di mesi per definire quali sono le parti aggiunte dagli allievi e proporre di cancellarle».
Al professore, il quadro era stato portato da un insegnante d’arte che ha dedicato la vita allo studio di Leonardo, Ernesto Solari, non nuovo a scoperte in materia leonardesca, di cui Pedretti ha stima avendolo citato più volte nei suoi libri. Solari aveva avuto l’intuizione e, soprattutto, sapeva dove cercare. In questi tre anni e mezzo, oltre ai documenti che riportiamo su «Sette», sono stati fatti altri accertamenti scientifici. Il primo, realizzato grazie a tre prelievi dall’opera, ha dimostrato che i pigmenti sono esattamente quelli utilizzati da Leonardo; il secondo, che l’imprimitura della tela è preparata secondo la ricetta scritta da Leonardo nel suo Trattato; infine, la cosa più stupefacente: la fluorescenza ha fatto riapparire, davanti alla mano, il libro, simbolo di Isabella protettrice di Lettere e Arti, presente nel cartone del Louvre.
Ora si apre il dibattito sull’autenticità del dipinto. Se, come tutte le ricerche sembrano attestare, il ritratto è stato realizzato da Leonardo e poi ultimato dai suoi allievi, potrebbe cambiare un pezzo significativo della Storia dell’Arte. Il quadro e la sua tecnica sono precedenti la realizzazione della Gioconda e del San Giovanni Battista, sui quali ha quindi profondamente influito. Dovrebbero anche essere ridiscusse alcune conclusioni a cui è giunto il numero due degli studiosi di Leonardo: Martin Kemp. Le sue teorie sembrano costruite addosso a quest’opera, in particolare quando sostiene che Leonardo non era un pittore di professione e quasi mai ha portato a termine le sue opere, spesso conservandole presso di sé fino alla morte; dice, inoltre, che era uno sperimentatore, soprattutto nella pittura, escludendo, però, che avesse realizzato quadri su tela. Questa Isabella è su tela, una tela preparata secondo la «ricetta di Leonardo». Misteri di un genio. E misteri delle opere a lui attribuite.

Repubblica 4.10.13
Beni culturali
Da Pompei alla lirica sì definitivo alla legge


Sì della Camera diventa legge il decreto “Valore Cultura” voluto dal ministro per i Beni culturali Massimo Bray. Un direttore generale si occuperà di Pompei, la cui soprintendenza si separa da quella di Napoli. 8 milioni sono destinati per completare i nuovi Uffizi. 5 milioni l’anno andranno al MAXXI di Roma e 4 milioni per il museo dell'ebraismo a Ferrara. Resteranno interamente al ministero gli introiti da biglietti e i proventi del merchandising (che dal 2008 erano ridotti al 15 per cento). 500 giovani verranno selezionati per un tirocinio di 12 mesi e si occuperanno di inventari e cataloghi. Il tax credit per il cinema viene portato a 90 milioni. È istituito un fondo di 75 milioni per le fondazioni lirico sinfoniche. Vengono rifinanziati una serie di istituti culturali, fra i quali l’Accademia della Crusca.

giovedì 3 ottobre 2013

l’Unità 3.9.13
Le lacrime del despota
di Michele Ciliberto


UN FILOSOFO DELL’OTTOCENTO ERA SOLITO DIRE CHE LA FINE ILLUMINA IL «PRINCIPIO» E IL SUO SVILUPPO. IN CHE SENSO SI PUÒ UTILIZZARE QUESTO PRECETTO RISPETTO ALLA VICENDA DI BERLUSCONI? È sempre stato il triste personaggio di questi giorni, l’Ermete Zacconi in diciottesimo che abbiamo visto all’opera al Senato, con lacrime finali, come si conviene a un bravo protagonista di un dramma che si rispetti? E se non è stato sempre questo, su cosa getta luce questo triste, e lacrimoso, tramonto?
Non è facile dare una risposta perché Berlusconi è stato un personaggio centrale della vita politica italiana, anzi ne è stato a lungo il dominatore, anche se molti tendono ora a dimenticarlo, specie nel cerchio dei suoi seguaci. Nei primi anni Novanta intuì lo spazio che gli apriva la crisi della prima Repubblica, in tre mesi costruì un partito nuovo di zecca e vinse le elezioni, radicalizzando a destra lo schieramento moderato italiano, diretto fin ad allora dalla Dc. E ottenne questi risultati interpretando il risentimento degli italiani e presentandosi come un rinnovatore e un «modernizzatore» della vita politica italiana: bipolarismo, cambio della classe dirigente, nuove forme di individualismo, riforma della Costituzione, un modello di democrazia dispotica imperniato sulla subordinazione del potere giudiziario a quello esecutivo. Naturalmente, Berlusconi vinse le elezioni perché riuscì a raccogliere intorno a sé un ampio, a volte, amplissimo blocco sociale, reso a sua volta possibile dalla crisi degli schieramenti tradizionali e da una ideologia basata su un programmatico rovesciamento tra apparenza e realtà un nucleo centrale prima della vittoria, poi della disfatta di Berlusconi. Politicamente, è vissuto di parole, è morto di parole.
Ora, se si riflette su cosa siano diventati, in concreto, i suoi obiettivi programmatici, si constata un vero e proprio abisso: il bipolarismo si è trasformato in una forma di deteriore trasformismo; la nuova classe dirigente è stata formata da servi e cortigiani, preoccupati solo del loro potere personale; il nuovo individualismo si è trasformato in un bellum omnium contra omnes... Gli unici obiettivi su cui è rimasto fermo e inossidabile sono stati l’attacco alla Costituzione repubblicana e la lotta sfrenata contro la magistratura.
Ma sono proprio i problemi giudiziari, giunti a conclusione in questi giorni, a gettare luce sul «principio» della sua vicenda, facendone comprendere lo sviluppo. Come ha dimostrato la recente sentenza della Cassazione, quella vicenda si è basata fin dall’inizio su un intreccio di corruzione, clientele, violazione di regole civili e giuridiche fondamentali; è stata, insomma, fin dalle origini un potere al limite, e spesso fuori, della legge. Questo è il dato di fondo, permanente, e questo ha inquinato fin dalle origini anche gli obiettivi «modernizzatori» che aveva dichiarato di voler conseguire. Essi appaiono per quello che sono stati: chiacchiere, propaganda... Mentre tutti i suoi governi sono stati ossessionati dal varo frenetico di leggi ad personam, con una confusione di «pubblico» e
di «privato» che ha corroso, e fatto degenerare, la Costituzione interiore della nazione italiana, oggi assai più corrotta di quanto fosse prima della sua presa del potere. La fine di questi giorni illumina un «principio» che non è mai cambiato, è sempre stato eguale a se stesso.
C’è poco da gioire, o da ridere, di fronte a questo triste tramonto, alle lacrime che ha versato, al tentativo grottesco di tenere impigliato il governo nelle sue vicende personali. L’Italia che Berlusconi lascia è profondamente indebolita e incrinata nella sua fibra morale, nel suo carattere. E non è consolante constatare che la sua lunga vicenda non sarebbe finita se non ci fosse stata una crisi internazionale che ha fatto saltare il suo governo e il suo potere. Noi siamo circondati da rovine ed è difficile dire quale sarà l’esito della situazione italiana. Alcuni punti però appaiono chiari: la sinistra deve ricostruire se stessa, come forza autonoma: Berlusconi è finito anzitutto per la disgregazione del suo partito e per il precipitare dei suoi problemi giudiziari. Ma anche i moderati devono riorganizzarsi, impedendo che prevalgano forze estremistiche di destra. E non mi riferisco ai dirigenti o ai ministri che ora cambiano campo; tanto meno a una «società civile» che dovrebbe per la sua positività contrapporsi alla politica. Né parlo di grandi o piccole intese.
Mi riferisco alle forze delle imprese e delle industrie italiane che dovrebbero uscire da una dimensione corporativa o dalla subordinazione alle correnti estremistiche, come è accaduto negli ultimi anni. Mi riferisco, in breve, a quelle forze che dovrebbero finalmente compiere, nella storia italiana, la loro «rivoluzione» politica e culturale, riorganizzando il loro campo, e non certo nei termini di Montezemolo.
Quello che sta avvenendo in questi giorni è un punto di partenza, non un punto di arrivo. Guai a non capirlo.

il Fatto 3.9.13
Una storica farsa
di Antonio Padellaro


Alla fine Enrico Letta ha parlato di “giornata dai risvolti storici”, affermazione del tutto stupefacente a meno che il premier bis non alludesse allo spettacolo tragicomico andato in scena ieri mattina al Senato, questo sì storico poiché niente di simile si era mai visto in un’aula parlamentare. Sulla farsa berlusconiana non aggiungeremo una sillaba a quanto detto al Tg3 dall’insospettabile Vittorio Feltri che di fronte alle giravolte di Berlusconi ha chiesto l’intervento degli infermieri. Ma cosa avesse Letta da esultare resta un mistero. Cinque mesi fa, Napolitano gli fece gentile dono del governo delle larghe intese e di una maggioranza bulgara e cinque mesi dopo si è ritrovato in mano un catorcio inutilizzabile con una maggioranza raffazzonata e dai contorni incerti. Il giovane Enrico si è detto stufo dei continui ricatti del pregiudicato di Arcore e ha le sue ragioni, ma è davvero convinto che d’ora in poi la navigazione sarà quieta e sicura e la coalizione “più forte e coesa”? I nuovi compagni di viaggio sono un gruppo ancora imprecisato di transfughi dal Pdl guidati da personaggi come Formigoni, Cicchitto e Giovanardi e non aggiungiamo altro. A parte lo spessore morale e politico degli acquisti, cosa garantisce che chi è uscito così frettolosamente da Palazzo Grazioli non possa rientrarvi convinto dai solidi argomenti del Caimano o dalle telefonate notturne di Verdini? Senza contare le due parti in commedia di Angelino Alfano, nello stesso tempo leader degli scissionisti e segretario del Pdl di cui rivendica l’uso del marchio e della cassa. Quanto alla pretesa del condannato di essere salvato da decadenza e ineleggibilità, sembra cambiato poco. Per coda di paglia e per non finire impalati nelle pagine del vendicativo Giornale di Sallusti, i disertori si dicono pronti a immolarsi per salvare l’amato Silvio dalla persecuzione giudiziaria e conservargli il posto in Senato. Infine, non una parola del premier sull’aumento dell’Iva e sul ripristino dell’Imu che sopravviverà con un nome diverso. Insomma, B. non è messo bene, ma potrebbe aver scaricato su Letta nipote la zavorra dei “traditori” e le tasse da far pagare agli italiani. Chi ha fatto l’affare?


Corriere 3.10.13
E nell’Aula Irruppe lo Spirito Santo
di Gian Arturo Ferrari


E così alla fine lo Spirito Santo si è poi deciso a scendere nell’aula tutt’altro che sorda e grigia (ma quella era Montecitorio...), bensì rutilante di rosso e oro, del Senato. Ma che cosa c’entra lo Spirito Santo, si chiederà il lettore? C’entra, c’entra. Perché è stato evocato — prudentemente, cautamente, copertamente, cioè indirettamente e obliquamente — da Enrico Letta. Il quale nel suo discorso di cui adesso, a cose fatte, si possono apprezzare le asciutte eleganze, ma che deve essere stato pronunciato con la bocca secca, ha inserito una nobile e severa citazione di Benedetto Croce. «Ciascuno di noi — disse Croce alla Costituente l’11 marzo 1947 e ha ripetuto Letta — si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso». Una frase da etica protestante, che riecheggia la lapide posta nell’Abbazia di Westminster di fronte alle tombe delle sorelle regine, Maria (cattolica) ed Elisabetta (anglicana), dove si auspica che «vengano qui ricordati tutti coloro che nell’età della Riforma diedero la vita per amore di Cristo e di fronte alla propria coscienza». Un richiamo alla coscienza, specie se profonda, non abituale nella nostra cultura e nel nostro costume. Quest’aria più fina (Letta aveva iniziato citando un altro padre della patria, Luigi Einaudi) deve aver colto un po’ di sorpresa i senatori e fatto correre un brivido nelle loro menti. Che così spronate hanno cercato di mostrarsi all’altezza, rispolverando antichi soprammobili ovvero cercando di far fuoco con la legna che avevano sottomano. E dunque il senatore D’Anna ha riagguantato un Voltaire (non dei più incisivi, per la verità): «quando i diritti di un uomo sono minacciati, sono in pericolo i diritti di tutti», l’uomo essendo naturalmente Berlusconi. Il medesimo Berlusconi, in anticipo sul discorso di Letta, aveva fatto ricorso, nell’intervista di Panorama, a Giovannino Guareschi e al suo bellissimo «non muoio neanche se mi ammazzano». Ma scambiando la prigionia nazista con la molto successiva condanna penale per diffamazione, aveva destato le ire dell’Anrp, Associazione nazionale reduci dalla prigionia, e del suo presidente, Enzo Orlanducci, dato che la frase di Guareschi è il motto dei militari italiani internati in Germania per non aver voluto aderire a Salò. I quali internati non gradiscono che il loro motto venga fatto proprio da chi è stato condannato per evasione fiscale. Da ultimo l’ineffabile senatore Scilipoti, dicendosi intenzionato a seguire ad oltranza Enrico Letta, ha concluso trionfalmente «Insomma, per dirla con una citazione della Primavera di Praga, “continuons le combat”». Incurante del fatto, ma qui la lingua avrebbe dovuto insospettirlo,che il «continuons le combat» (continuiamo la lotta), preceduto dal canonico «ce n’est qu’ un debut» (non è che l’inizio), costituisce non uno qualsiasi, ma «il» motto per eccellenza del Maggio francese e nulla ha a che vedere né con Praga né con la sua primavera. Per non dire che si fa un po’ fatica a immaginare il medesimo Scilipoti, ma se è per questo anche Enrico Letta, nei panni di un sessantottino o di un giovane praghese di fronte ai carri armati. Per tornare o meglio per venire allo Spirito Santo, il saggio Letta nella sua citazione del discorso di Croce che risale al 1947 ha omesso il seguito. Che suona così: «Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime: “Veni, creator spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus”. Soprattutto a questi: ai cuori». E proprio in cuor suo, senza dirlo, Enrico Letta deve aver sperato che lo Spirito Santo visitasse quelle menti. È stato accontentato, ma oltre ogni più rosea aspettativa. Lo Spirito Santo, tenuto come una carta coperta dentro la citazione di Croce, ha dato prova della sua potenza esplosiva. Non conosce mezze misure. Li ha illuminati tutti, anche Berlusconi. Troppa grazia.

il Fatto 3.9.13
All'orizzonte spunta una nuova Dc
di Mario Frattarelli


In Senato, dopo Bondi che farnetica come oppositore di se stesso, arriva il colpo di teatro disperato di B. per scompaginare la scissione in atto. Tutto torna. B. è ormai una zavorra, ha ancora processi che lo affonderanno ma non molla. L'Italia è un Paese importante e i “poteri forti” interni ed internazionali non sono più garantiti da un pregiudicato. Dopo l’accordo con i cosiddetti “moderati” riciclati, il Pd parla di una grossa coalizione alla tedesca. Questa operazione, benedetta da chi conta, prende tre piccioni con una fava. Fa fuori l'impresentabile Caimano, emargina l'antipolitica di Grillo e propone il governo stabile che auspicano Europa, mercati e banche. Ora, il Nipote ha avuto la fiducia, il partito azienda si frantuma fra insulti surreali come quelli tra Sallusti e Cicchitto a “Ballarò”, mentre procede l'operazione nuova verginità dei moderati. È la nuova Dc. Ancora una volta, tutto cambia affinché nulla cambi. Il nuovo partito “deberlusconizzato” è la risposta dell'establishment per la nuova alleanza Pd-moderati già tentata e fallita con Monti.

Corriere 3.10.13
La riscossa di ex dc e socialisti ecco chi ci ha messo la firma
La squadra dei dissidenti pdl. «Ora siamo più europei»
di Marco Galluzzo


ROMA — Cinque calabresi e sei siciliani. I due blocchi portanti, una sorta di nucleo «normanno». Dietro di loro, vincolo politico e di stretta amicizia, il Governatore del Pdl in Calabria, Scopelliti, e il vincitore della giornata, Angelino Alfano. Durante la notte erano arrivati a 32 . Il Cavaliere li ha chiamati quasi tutti, a cena, dopo cena, alle ore piccole: ne ha riconquistati solo nove.
Il più giovane, politicamente, Vincenzo D’Ascola, detto Nico, 59 anni, di Reggio Calabria, avvocato, già ordinario alla Sapienza, allievo di Giuliano Vassalli, entrato nel Pdl a febbraio, si racconta così: «Mi sono chiesto cosa avrei fatto se avessi avuto 18 anni, ho scelto subito il mio Paese. Berlusconi mi ha chiamato, è stato molto civile, quando ci aveva incontrati aveva detto che mai avrebbe fatto cadere il governo. Se non avessi firmato per la fiducia mi sarei dimesso».
Il più vecchio, politicamente, Paolo Naccarato, una volpe della politica, per anni uomo di fiducia di Cossiga, eletto insieme a Tremonti, è senza alcun vincolo di partito. Ne ha viste tante, ma quella di ieri è degna di memoria ulteriore: «Ho incontrato Berlusconi e l’ho abbracciato, gli ho ricordato quello che diceva Cossiga, che nei momenti più importanti bisogna che accetti l’aiuto degli altri, anche contro la sua volontà». E le ha risposto? «Che è vero». Una morale? «Siamo diventati più europei».
Ventitré firme, altrettante storie. Al Senato, tutte per Letta. È la frattura nel Pdl che condiziona la giornata. Andrea Augello, ex An, ex missino, già Fronte della Gioventù, come Scopelliti, firma anche lui: è da sempre ideologo di qualcosa, apprezzato per le sue analisi («abbiamo evitato una ridotta del ’94»), appassionato di storia, difensore del Cavaliere in Giunta. «Penso ai Ronin: i samurai erano organizzati per famiglie, quando restavano senza clan diventavano Ronin, guerrieri solitari e raminghi. Oggi mi sento così». La sua battaglia l’ha combattuta per conto del Pdl originale, contro «la disinformazione alla quale Berlusconi è stato sottoposto. E un omaggio va a Paolo Romani, al fotofinish ha fatto incontrare Alfano e Berlusconi».
Li hanno chiamati traditori, li hanno ingiuriati, sono volate parole grosse. Fitto e Alfano sembra abbiano rotto un’amicizia, due notti fa. Bondi ne ha puntati tanti, apostrofati molti; a Mario Mauro, che è di Scelta Civica, ma ha giocato un ruolo importante, ha detto di «vergognarsi». Di cosa? Si chiede Antonio Caridi, calabrese, 12 mila voti alle ultime elezioni: «I miei elettori sono imprenditori, aziende, famiglie, tutti mi hanno chiesto di proteggere il governo. Se tradivo il governo tradivo il Paese».
Gli altri calabresi, Piero Aiello, Antonio Gentile, Giovanni Bilardi, si sono riuniti nella sede della Regione, a Reggio, e hanno deciso; due notti fa uno di loro, mentre passeggiavano al Pantheon, ha ricevuto la chiamata del Cavaliere. È stato diretto, come sempre: «È una vicenda personale...». Poco dopo sono arrivati i siciliani, era successo anche a loro. Hanno riflettuto sulle provenienze: ex missini, ex democristiani, ciellini, liberali; quasi un sussulto della Prima Repubblica.
Salvo Torrisi, 55 anni, a 18 ha già la tessera, a Paternò, in provincia di Catania: una famiglia con la scudocrociato nel cuore, il padre e lo zio due big della politica siciliana. È avvocato civilista, ex presidente dell’ordine, un passaggio nei Popolari, infine Forza Italia: 13 mila voti nel ’90. È convinto di questo: «Restano le ragioni delle larghe intese, le elezioni sarebbero la deriva del Paese. Questo è un buon governo, il migliore che il Paese potrebbe avere, ha qualità, Letta è un ottimo premier, la stagione del bipolarismo per me è fallita, sinistra e destra hanno fatto solo danni».
Insieme a lui hanno firmato gli altri fedelissimi di Alfano: Pippo Pagano, Bruno Mancuso, Francesco Scoma, Marcello Gualdani, Giuseppe Marinello. Due settimane fa erano a cena dal Cavaliere, sembrava una riconciliazione, era un’apparenza.
Restano fra gli altri Roberto Formigoni, che sino all’ultimo cerca di arruolare più di un collega; Guido Viceconte, da 20 anni al fianco di Berlusconi, quattro volte sottosegretario: impensabile! Come Francesco Colucci, dieci legislature, classe 1932, già socialista, berlusconiano doc come pochi altri. Come fu socialista Maurizio Sacconi. E come Luigi Compagna, per tutti i colleghi un galantuomo liberale: si mette a piangere in Aula, non ha mai amato i magistrati. Aveva difeso Andreotti, non riesce più a difendere Berlusconi.

Repubblica 3.10.13
Dal coniglio mannaro a Letta torna tra perfidie e segreti la sapienza democristiana
L’arte del potere per fare fuori l’avversario
di Filippo Ceccarelli


UCCI ucci, si diceva un tempo, sento odor di democristianucci. Anche nella caduta di Berlusconi, evento cui tuttora si guarda con la più disponibile incredulità, pare di scorgere una mano invisibile, un po’ umida, ma ferma al momento giusto; qualcosa di gommoso e avvolgente, però ad un tratto soffocante.
UN’ENERGIA gentile e lievemente soporifera fino a quando — zàc— il colpo di Palazzo non è andato a segno.
Oh, crudele sapienza democristiana, già tante volte applicata tra Palazzo Sturzo e il Gesù, oltre che in conventi, badie, cenobi e istituti religiosi divenuti teatri di maestosi complotti e perfidi avvelenamenti.
Non ci si fermi ai nomi dei principali congiurati: Letta, Franceschini, Alfano, democristianucci doc. C’è una magnifica foto ed eloquente assai che li ritrae quattro mesi orsono, a maggio, durante una conferenza stampa all’Abbazia di Spineto. C’è Franceschini — che negli sms di quei giorni Renzi chiamava per scherzo «Arnaldo » (Forlani) o addirittura «Mariano» (Rumor) — dunque, si vede Franceschini che va a dire una cosa segreta all’orecchio di Letta, che gliene risponde un’altra ancora più segreta, ma coprendosi la bocca con lamano. Al loro fianco c’è Alfano, «volto e testa a pera del berlusconismo » l’ha dipinto ieri ilGiornale,apparentemente imbronciato. O meglio: le cronache di allora lo diedero per imbronciato, i portavoce suoi e di Letta confermarono, di più: raccontarono ai quattro venti che durante il viaggio nel pulmino che li portava a Sarteano premier e vicepremier non avevano fatto che litigare. Dopo un po’ si venne a sapere che non era veroniente, non c’era stata nessuna lite: da buoni dc, i due si erano messi d’accordo per simularne una, ai danni di chi non è ancora tanto chiaro, ma da ieri un po’ di più.
Ucci ucci, povero Cavaliere, ma anche lui ha tirato troppo la corda. Pensare che dopo Noemi, per la precisione tra la D’Addario e Ruby, sollecitò una nota in cui Mauro, Lupi, Quagliariello, Sacconi, Formigoni e la Roccella, in pratica il futuro nucleo scissionista, arrivarono a richiamare a sostegno del Cavaliere l’Imitatio Christi come modello di vita. Mai sottovalutare la memoria lunga dei cattolici, di conio vecchio e supernuovo.
Errore perfino sottovalutare, o fidarsi, se si vuole, di Giovanardi, che voleva l’emissione di un francobollo con la faccia di Berlusconi. Inutile poi sorprendersi che ilproprio destino, e anche quello dell’Italia per la verità, è appeso di nuovo ai democristiani. Tra i quali tra parentesi va annoverato anche Renzi, che peraltro qualche settimana fa si era concesso la grazia di notare polemicamenteche nel governo c’era «un eccesso di democristianeria, e non di quella buona».
Sta di fatto che quando si formò il Letta-Alfano, Cirino Pomicino volle celebrarlo con un tweet: «Un giovane e ottimo governo a larga partecipazione democristiana». Di Berlusconi, in effetti, il presidente del Consiglio e il suo vice potrebbero essere i figli. Ma lo scudo crociato è ben più vecchio del Cavaliere, e se una rivista del Movimento giovanile dc al tramonto di De Gasperi (direttore Franco Maria Malfatti) si chiamava Terza generazione, con Alfano e Letta, che al Mgdc aderirono più o meno nel settennato demitiano, dovrebbe essere la quinta, o forse la sesta.
E tutto torna. Anche l’archetipo del «Coniglio Mannaro», come Gianfranco Piazzesi battezzò il flemmatico Forlani. A chiudere gli occhi e a sentire ieri Letta che al Senato parlava e parlava e parlava, per giunta rivendicando i bei governi del tempo che fu (1947-1968) e anche i suoi buoni propositi per il comparto agroalimentare, giungeva alle orecchie come una nenia antica, e insieme un modo quasi domestico e insieme professionale di combinare e al tempo stesso di spezzettare, triturare, nebulizzare i problemi. Dopo tante dionisiache esagerazioni, veniva da pensare: ecco un giovane educato e a modo; dopo tante esotiche stranezze, tra cui perfino un finto vulcano, e dopo troppe peripezie corporali tornavano alla mente le foto di quest’estate in cui Letta si faceva il bagnetto nella piccola piscina di gomma coi figli, e in braghette faceva un po’ l’effetto tipo «il primo della classe è deboluccio in ginnastica », ma meno male.
E’ strano come nella Seconda Repubblica si sia parlato spesso di post-comunisti e post-fascisti, ma molto meno di post-democristiani. Forse perché la Dc non c’è più, come dice spesso Marco Follini, ma ci sono ancora i democristiani. «Per anni — osserva oggi — Berlusconi ha governato contro lo spirito dello scudo crociato, ma con i suoi elettori. Ecco, penso che proprio in questi giorni questo schema sia saltato». In altre parole, l’elettorato dc, per il tramite di Alfano e degli altri «traditori» che vengono da quel mondo di cortese cinismo e narcotica spudoratezza, ha mollato il Cavaliere. Al suo peggior destino, eamen.
In un tempo di autodidatti (Bossi, Berlusconi, Di Pietro) si è finito per trascurare l’importanza di una scuola politica che è stata anche — eccome! — di potere. A tale proposito rientrano i modi per defenestrare qualcuno. Per citare un titolo sulla prima pagine delGiornale di ieri: «E’ da oltre un anno che tramavano da democristiani ». C’è tutta una agghiacciante casistica di nefandezze a base di parricidi e fratricidi e infanticidi consumati all’insegna del «sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire». Sennonché, fa notare Follini con realistica naturalezza, «la tecnica dc consisteva nel far fuori chi si era già messo fuori da solo». Come dire che se Berlusconi ha esagerato, è inutile poi prendersela con il fantasma di un partito che con il tempo si rivela qualcosa di più e di meno di un partito, un modo di essere del potere nel suo indecifrabile enigma.

il Fatto 3.10.13
1,3 miliardi di motivi, il partito ciellino abbraccia l’esecutivo
Da ormigoni a Lupi, fino al ministro Mauro: tutti legati a Comunione e Liberazione tifano per il governo anche perché c’è la grande torta dell’Expo 2015
di Gianni Barbacetto


Era dai tempi dei bei viaggi gratis (anzi, a spese del faccendiere Pierangelo Daccò) che Roberto Formigoni non era tanto presente in tv e sui giornali. In questi giorni è stato inseguito, invitato, intervistato e coccolato come un protagonista politico di prima grandezza. Insieme a lui, i ministri Maurizio Lupi e Mario Mauro. Nel momento della quasi-crisi di governo e della quasi-rottura con Silvio Berlusconi, si è reso visibile il “partito di Cl”, schierato in prima fila in difesa del governo Letta. Con Bernhard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, che esce dal silenzio per ribadire che all’Italia “serve stabilità politica”: ossia “grandi intese per le riforme”, pensando “al bene comune”. OLTRE CHE AL BENE comune, Formigoni deve aver pensato anche al bene di alcuni progetti e grandi affari che si nutrono di “larghe intese”: primo fra tutti l’Expo di Milano, ma anche di una galassia di business che stanno sbocciando all’ombra dell’alleanza tra mondo ciellino e coop rosse. L’Expo, Formigoni lo conosce bene, perché da presidente della Regione Lombardia ha tenuto a battesimo l’operazione immobiliare che ha segnato la sorte dell’esposizione universale 2015: ha imposto che si svolgesse su aree della Fondazione Fiera (allora a controllo ciellino), con un conseguente esborso di fondi che hanno rimesso in sesto i conti della Fiera, ma hanno condannato l’Expo a rientrare della spesa, a fine manifestazione, quando dovrà smontare i padiglioni e rivendere aree e volumetrie, trasformando la zona in una colata di cemento. Restano vaghi (e con finanziamenti tutti da trovare) i progetti di respiro più pubblico, che ipotizzano di portare sull’area l’università, o il nuovo stadio, oppure la sede della Rai. Oppure impiantarci le strutture delle Olimpiadi a cui Milano vorrebbe candidarsi. Assai più probabile che si faccia cassa costruendo, in una zona che sarà resa più appetibile dalle infrastrutture (strade e metrò) almeno 600 mila metri quadri di edifici, residenziali e commerciali. In attesa di quel banchetto luculliano che potrà essere apparecchiato dopo il 2017, intanto c’è da gestire subito l’affare Expo. Che non è più così ricco come i suoi promotori speravano nel 2008 (4,1 miliardi di euro), ma comunque niente male: 1,3 miliardi di fondi pubblici, 833 messi sul piatto dal governo, il resto da Regione Lombardia, Comune di Milano, Provincia e Camera di commercio. Formigoni, uscito a Milano dalla “cabina di regia” di Expo con la sua caduta da presidente regionale, è rientrato nell’affare a Roma come autorevole esponente del “partito di Cl”, sempre attento ai lavori per l’esposizione universale. Partiti in grandissimo ritardo. Due i grandi appalti già assegnati (su entrambi sono state già aperte inchieste della magistratura): quello per la rimozione delle interferenze, che vuol dire la pulizia dell’area; e quello per la costruzione della piastra, che significa l’impianto della base su cui saranno costruiti viali, strutture e padiglioni. Tra i vincitori degli appalti, coop rosse (Cmc di Ravenna) e aziende vicine a Cl (Mantovani spa, Ventura spa, associata alla Compagnia delle opere). Ci sono poi altri soldi in arrivo, per lavori fuori dal sito dell’Expo: opere che attendono di essere realizzate da anni e che dovrebbero finalmente giungere a compimento grazie all’evento. Sono strade, autostrade e linee metropolitane per un investimento di 11 miliardi. I ritardi impediranno di completare i lavori in tempo per l’esposizione. Non saranno pronte né la Pedemontana, né la Brebemi, né la Tangenziale esterna est. Quanto alle metro, la linea 6 è stata cancellata e della linea 4 per il 2015 saranno realizzate solo due delle 21 fermate previste. Ma intanto i cantieri, seppur a rilento, sono aperti. Altri 500 milioni dovrebbero arrivare nel 2014 per rimettere a nuovo Milano: il Comune potrà però impegnare quei soldi solo se otterrà dal governo, proprio in vista dell’Expo, una deroga al patto di stabilità. La chiedono il sindaco Giuliano Pisapia e il presidente della Regione Roberto Maroni, che con la Lega fa opposizione al governo Letta in Parlamento, ma sugli affari in vista dell’esposizione 2015 fa squadra con Pisapia e Formigoni. E non c’è solo l’Expo a catalizzare le attenzioni del “partito di Cl”. In giro per l’Italia sono innumerevoli gli affari e gli appalti gestiti da aziende della Compagnia delle opere, spesso insieme alle coop rosse, come nel caso del nuovo ospedale di Niguarda a Milano. “L’EXPO è un volano per la nostra economia”, ha detto Enrico Letta. Tanti soldi per le opere da realizzare, più 25 miliardi di euro previsti come indotto, da qui al 2020. Si capisce allora perché, al netto delle scelte ideologiche, morali e politiche, il “partito di Cl” ha dimostrato di essere ormai più fedele a Letta che a Berlusconi. Del resto, l’attuale presidente del Consiglio, già nel 2003, da parlamentare del centrosinistra, aveva fondato, insieme a Maurizio Lupi, parlamentare di Forza Italia, l’“Intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà”. Oggi, dieci anni dopo, i due si ritrovano insieme al governo.

La Stampa 3.10.13
Al titolo Mediaset fa bene il governo Letta
In Borsa il Biscione guadagna dopo il sì al governo
di Luca Fornovo

qui

l’Unità 3.9.13
Cuperlo: «Ora il congresso può preparare il cantiere dell’alternativa»
«Siamo a un passaggio decisivo. E bisogna che noi per primi decidiamo, tutti insieme, di sostenere l’azione di governo. Incalzandolo sull’emergenza sociale»
intervista di Maria Zegarelli


Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria Pd, parla di una «frattura senza ritorno» che ieri si è consumata ieri nel Pdl. Nulla sarà mai più come prima, anche se l’ evoluzione di questo strappo non è ancora completamente scritta. Secondo il parlamentare Pd è Silvio Berlusconi il grande sconfitto di questa ennesima giornata scandita dai colpi di teatro di un partito al cui interno è successo tutto e il contrario di tutto. Il colpo di scena in Senato di Berlusconi è l’ammissione di una sconfitta?
«Direi che è stata la capitolazione di un leader che ha segnato più di chiunque altro la vicenda italiana dell’ultimo ventennio e che è giunto da tempo alla fine della sua parabola pubblica. In questo la giornata di ieri è uno spartiacque e non solo per la durata del governo che da un passaggio delicatissimo esce rafforzato. La novità riguarda la direzione che la crisi italiana è destinata ad assumere. In particolare l’impatto che la frattura della destra potrebbe avere su un sistema democratico scosso da un sentimento popolare di rifiuto. La capriola di Berlusconi nel voto di fiducia ha certificato la fine di una egemonia ventennale sulla sua creatura padronale. Penso davvero che egli non possegga più una sola parola che parli al presente o al futuro dell’Italia. E noi, per nessuna ragione, possiamo restituire un ruolo da interlocutore a chi ha violentato in modo sistematico le regole e la concezione liberale della democrazia».
È una nuova maggioranza quella che sostiene Letta o la riedizione di quella che c’era fino a qualche giorno fa?
«Impossibile dire che non è cambiato nulla. Per certi versi anzi può cambiare tutto. Al fondo la seconda Repubblica sta finendo assieme all’agonia del suo primo attore. La bancarotta del suo modello, di partito, di democrazia è sotto agli occhi». Sarà un governo più forte, libero dagli ultimatum, o si ricomincerà a ballare? «Questo dipenderà anche da noi e dalle condizioni che sapremo dettare. Ne indico due. La prima è il bisogno che questa novità coincida con un governo dotato della forza, politica e numerica, per aggredire alla radice il dramma sociale che scuote il Paese e ne mette a rischio la tenuta. Tradotto vuol dire che la nostra agenda di governo dovrà indicare per nome le questioni che riteniamo non più rinviabili a cominciare dal contrasto a diseguaglianze divenute immorali e a un impoverimento del ceto medio che ha messo in ginocchio la parte più offesa della società. La seconda condizione, dopo anni di una regressione civile e culturale, deve esaltare la dignità della persona che lavora, che un lavoro lo cerca o che ha smesso persino di cercarlo. Questo è il terreno dove, più che in passato, la sfida etica lanciata dal nuovo pontificato si salda coi fondamenti di una sinistra che ha il dovere di immaginare l’economia, i diritti, i rapporti di forza nello Stato e nel mercato, dopo la destra e la sua egemonia».
La nascita di un nuovo gruppo segna di fatto la fine del ventennio berlusconiano? «Segna una frattura che mi auguro sia senza ritorno. Il punto è se, per la prima volta dalla nascita di questa destra, una sua componente si mette alla guida di un nuovo campo conservatore, in un solido ancoraggio repubblicano. È vero che Casini e Fini avevano già contestato il dominio di un Capo. Ma erano espressione di culture esterne al ceppo originario. Adesso invece può entrare in campo un’altra cultura che, pure se generata dentro l’imprinting di Arcore, rompe con quella matrice. Ci troviamo in una terra di mezzo. Tra un “prima” che non regge più di fronte alla crisi del sistema-Paese. E da qui, l’isolamento di Berlusconi da parte di interessi e poteri dell’economia, dell’informazione, e praticamente di tutte le agenzie di senso che orientano la grande opinione pubblica. E un “dopo” che potrebbe cambiare la natura degli eventi molto oltre i confini della cronaca. Penso che noi abbiamo il dovere di sostenere questa prospettiva con il rilancio di riforme nette nell’impatto che avranno su un sistema pervaso da rendite e incrostazione».
Non crede che questo segni l’inizio di un percorso che porta a un sistema proporzionale?
«Non lo so ma eviterei di perseverare nell’errore degli anni passati, l’idea che le regole fossero da sole in grado di plasmare il sistema politico secondo gli umori dei vari ingegneri elettorali. Ripeto, siamo di fronte a un fatto che potrebbe avere delle conseguenze profonde sull’assetto del sistema istituzionale e delle culture in grado di farci uscire da questa fallimentare seconda Repubblica. Quanto alla legge elettorale penso che valga l’impegno preso: si metta la riforma all’ordine del giorno delle Camere e si veda lì chi vuole davvero inchiodare il paese al suo passato». Il Pd come esce da questa giornata che Letta ha definito storica?
«Come una forza popolare e responsabile, che ha retto compatta il tentativo di una spallata ai principi costituzionali. Per noi esiste un legame solido tra l’assetto del sistema politico e l’uscita dalla crisi che divora redditi e fiducia. L’idea che la politica sia l’ostacolo da abbattere è una sciagura prima di tutto sul piano culturale. Ma questo rende la funzione del nostro partito ancora più decisiva. E allora non si va avanti soltanto nel nome della stabilità. Si va avanti, e io penso che lo si debba fare sotto la guida autorevole di Enrico Letta, per parlare a tutti ma in particolare a quella parte che si trova oggi sull’orlo di una caduta, senza che partiti e istituzioni abbiano avuto la forza per garantire a milioni di persone, e a due generazioni di ragazzi, la speranza di un riscatto possibile. E bisogna farlo rivendicando il primato di una democrazia che dovrà ricostruire una trama di principi, a cominciare dalla legalità, slabbrati da anni di prepotenze». Questo giro di boa mette in sicurezza il congresso e i tempi stabiliti?
«Me lo auguro per il bene del Pd. Se davvero siamo a un passaggio decisivo bisogna che noi per primi decidiamo, assieme, di sostenere con lealtà e incalzandolo l’azione del governo. E allo stesso tempo dobbiamo riaprire adesso, non tra un anno, quel cantiere dell’alternativa e di un centrosinistra ampio e invaso dal meglio della società consapevole e dei movimenti, senza dei quali perderemmo di vista l’orizzonte di una grande partito democratico e della sinistra dopo la parentesi di oggi. Il nostro futuro è nelle nostre mani a cominciare dall’idea di Paese e dal modello di partito. Sono certo che nel congresso su tutto ciò sapremo dire parole di verità».

l’Unità 3.9.13
Prodi e il Colle
D’Alema: basta accuse stupide
di Marcella Ciarnelli


La speranza di Massimo D’Alema è che «tutta questa vicenda ce la possiamo lasciare alle spalle». Ma prima di esprimere questo auspicio il presidente di Italianieuropei non ha mancato di rispondere punto su punto alla rinnovata polemica sulle presunte manovre per bloccare l’elezione di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica.
Questione di fine aprile e di quei 101 voti che nel segreto dell’urna sbarrarono la strada al Professore. Il tema è tornato d’attualità per la ricostruzione affidata dallo stesso Prodi ad Alan Friedman. Lui comprese che non sarebbe stato eletto al termine di una telefonata con D’Alema che gli disse: «Benissimo, tuttavia queste decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti».
In altre parole, peraltro ribadite più volte fin dai primi momenti, una decisione importante come la scelta del candidato alla presidenza della Repubblica avrebbe dovuto essere presa in un altro modo, seguendo un altro metodo. Quello utilizzato, secondo D’Alema, è stato «francamente assurdo». Così disse D’Alema al telefono con Prodi, e il Professore nel colloquio con Friedman ricorda di aver ascoltato quelle parole e subito dopo di aver chiamato la moglie. Era il 19 aprile, il professore era Bamko per partecipare ad un convegno nella sua veste di inviato speciale per il Sahel del segretario dell’Onu, Ban Kimoon.
Prodi aveva già parlato al telefono con Franco Marini. E ora dice che la situazione gli apparve chiara all’improvviso. «Flavia vai pure alla tua riunione perché di sicuro presidente della Repubblica non divento». E la signora Flavia restò a Bologna.
Il giornalista in un pezzo pubblicato sul Corriere della Sera che anticipa il suo libro «Ammazziamo il Gattopardo» in uscita ai primi del 2014, trae la conclusione che «non c’è più bisogno di cercare i franchi tiratori, di interrogarsi su quanti dalemiani abbiano votato contro Prodi».
Ma Massimo D’Alema non ci sta. «Oltre ad essere irritato sono perfino indignato per il fatto che si continuano ad alimentare sospetti su complotti. Anche una persona stupida può capire che se uno fa un complotto non avverte per telefono la vittima di quel complotto». E poi fornisce ancora una volta la sua ricostruzione di quelle ore già fatta in diverse occasioni anche nei giorni immediatamente successivi allo straordinario evento di quella bocciatura che ai più sembrò imprevedibile.
«Mi pare che lo stesso Prodi giustamente dica che dopo che ci siamo sentiti al telefono ha compreso che la prospettiva della sua candidatura diventava improbabile». In effetti era la previsione possibile di quanto avvenne poi sulla base di come quella candidatura fu proposta anche per il clima che si era creato nel Pd dopo la bocciatura di Marini. Nessuna altra forza politica era stata coinvolta nella decisione, l’applauso di senatori e deputati democratici fu ritenuto sufficiente per andare alla prova dell’aula mentre forse, proprio per portare avanti l’operazione politica, sarebbe stato necessario votare scheda bianca alla votazione imminente per avere a disposizione il tempo che poi nei fatti si è rivelato essere necessario. Ma Romano Prodi afferma di non ricordare neanche una parola su quella ipotesi di strategia prospettata da D’Alema. Rammenta solo di aver avvertito la contrarietà alla sua candidatura e di avere, quindi, fatto quella telefonata alla moglie.
«Adesso spero che tutta questa vicenda ce la possiamo lasciare alle spalle» ha ribadito D’Alema che ricorda: «Io nella riunione dei grandi elettori non c’ero e non sono parlamentare. In che modo avrei potuto organizzare un complotto? È un’idiozia». Ma il futuro? La possibilità che Romano Prodi al termine delle presidenza di Napolitano possa essere un candidato a prenderne il posto? «Abbiamo un presidente della Repubblica più che mai in carica» ha detto D’Alema. «Non vorrei in alcun modo offenderlo avviando il dibattito su come sostituirlo. Non mi pare corretto sul piano istituzionale».

il Fatto 3.10.13
Prodi, il Colle e lo zampino (del solito) D’Alema
Il professore rivela ad Alan Friedman: “Ho capito dopo la sua telefonata”
L’esponente Pd: “Questa è una idiozia”
di Giampiero Calapà


Romano Prodi esce allo scoperto e rompe il silenzio su quel 19 aprile 2013, giorno in cui non diventò presidente della Repubblica per la mancanza di 101 voti del Partito democratico. La versione di Prodi è inequivocabile: a bloccare la sua elezione fu Massimo D’Alema. Per rivelarlo sceglie il nuovo libro di Alan Friedman (“Ammazziamo il Gattopardo”, in libreria nel 2014 per Rizzoli), anticipato ieri dallo stesso autore sul Corriere della Sera. “Io ero a Bamako. Mi telefonò Bersani dicendomi che pensavano al mio nome. Io risposi: state attenti, perché conosco la nobiltà del casato, forse non val la pena. Poi, però, mi ha fatto un’altra telefonata dicendo: ‘Ho chiesto a tutti i parlamentari, c’è stata la standing ovation. Ho chiesto il voto segreto, mi hanno detto che non ce ne era bisogno, quindi puoi stare tranquillo’. Ho ringraziato, ho telefonato a Parisi e Zampa, che hanno confermato. Ho ritenuto però opportuno fare alcune telefonate : a Rodotà, per motivi personali. Marini. Monti. E al presidente della Repubblica. Io stavo partecipando ad una riunione molto importante in Mali. Marini mi ha detto ‘tutto bene, tranquillo”. Poi ho voluto chiamare anche D’Alema, che mi ha detto: ‘Va bene, tuttavia, decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti’. Cioè, facendone, come si fa sempre in questi casi, una questione di metodo e non di merito . Quando ho ascoltato questo ho messo giù il telefono e ho chiamato mia moglie: ‘Flavia, presidente della Repubblica non divento”. Ironia della sorte, ieri D’Alema era proprio nella Bologna del Professore. E ha replicato: “In effetti è vero: gli dissi che per il modo in cui la sua candidatura era stata proposta, per il clima che c’era nel partito dopo la bocciatura di Marini e per il fatto che la sua candidatura non aveva il consenso di nessun’altra forza politica, neppure di Monti, non avevamo i numeri per eleggerlo. Oltre ad essere irritato sono persino indignato per il fatto che si continuino ad alimentare sospetti su complotti; anche una persona stupida può capire che se uno fa un complotto, non avverte per telefono la vittima del complotto. È un’idiozia, una scemenza”.

Corriere 3.10.13
Ior: «Massaggi, crociere e appalti truccati»
Il racconto del prelato Scarano: favorita un’unica impresa
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Massaggi e crociere regalati a prelati e alti funzionari del Vaticano per facilitare i rapporti con l’Apsa, l’amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica. Appalti truccati per favorire il titolare della «Edil Ars» Angelo Proietti, costruttore noto per aver pagato l’affitto della casa di via di Campo Marzio dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
Sono le rivelazioni clamorose di monsignor Nunzio Scarano in un interrogatorio del 24 luglio scorso rimasto finora inedito. Arrestato con l’accusa di aver riciclato soldi degli armatori D’Amico, ha cominciato a collaborare con il procuratore aggiunto Nello Rossi e il sostituto Stefano Fava, raccontando retroscena degli affari conclusi all’interno della Santa Sede. E confermando quanto era già emerso dalle indagini sull’esistenza di «conti laici» e sul trasferimento di soldi e documenti sfruttando l’immunità concessa ai cittadini vaticani. «Plichi diplomatici» che — ha sostenuto — vengono fatti partire dalla segreteria di Stato. Poi ha voluto sottolineare quanto accaduto con il cardinale Angelo Sodano «al quale ho fatto richiesta di essere ricevuto prima di presentare le mie dimissioni e dopo quattro giorni di attesa mi chiama il mio superiore e mi chiede perché l’avevo chiesto. Ma io non sapevo che il cardinale Sodano era un nostro cliente particolare». Su tutto questo i magistrati hanno affidato nuove verifiche agli specialisti del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza guidati dal generale Giuseppe Bottillo, che avevano già effettuato gli accertamenti sulle «operazioni sospette» e i trasferimenti di denaro da e per l’estero gestiti da Apsa e dallo Ior, l’Istituto per le Opere Religiose. E — in questa fase che potrebbe preludere a una collaborazione giudiziaria — i pubblici ministeri chiederanno ai nuovi vertici della «banca» l’elenco dei conti che si è deciso di chiudere per stabilire eventuali altri illeciti commessi.
Viaggi e regali
Il monsignore parla dei rapporti tra Apsa e le banche. Accanto ha il suo avvocato Francesco Caroleo Grimaldi che ha sollecitato la sua scelta di collaborare.
Scarano: le banche, le banche per avere un buon cliente, per farsi il nome che avevano il Vaticano in mano, ma comunque non è che lo facessero gratis, i nostri superiori non lo facevano gratis...
Pm Rossi: ho capito, quindi praticamente lei dice che i suoi superiori avevano dei vantaggi nei casi in cui si spostassero...
Scarano: molti vantaggi, molti vantaggi...
Pm Rossi: ho capito; lei ha notizia di qualche fatto specifico però, perché questo...
Scarano: mah... viaggi, le crociere, gli alberghi di cinque stelle, massaggi, eccetera, insomma...
Pm Rossi: ho capito
Scarano: quando loro si sono resi conto che... una volta mi hanno invitato a partecipare a una riunione in Svizzera e mi dovevano dare in quella occasione, 5.000 franchi, credo. Ho detto «vengo» al mio collega, però vengo gratis perché il mio servizio alla Santa Sede. Ho detto poi al mio collega, ho detto «caro Stefano, io ho servito la Chiesa, non mi sono servito della Chiesa, la cosa è ben diversa».
Gli appalti truccati
Dopo aver esaminato i documenti consegnati dallo stesso Scarano, i magistrati affrontano il capitolo legato agli appalti. E il monsignore non si sottrae. Anzi.
Scarano: Angelo Proietti ha una società immobiliare, a via della Conciliazione ma chi gli prestava nome o gli dava il lavoro era il dottor Menchini (direttore amministrativo di Apsa, ndr ) e il dottor Giorgio Stoppa (ex direttore, ndr ) i quali turbavano gli appalti sempre a favore di Angelo Proietti; su cinquanta persone che fanno una gara di appalti, le sembra mai possibile che vince sempre la stessa persona?
Pm Fava: ma gli appalti li bandiva Apsa?
Scarano: tutti i palazzi che lei vede a via della Conciliazione
Pm Fava: quindi Apsa bandiva appalti per ristrutturazione di immobili di proprietà?
Scarano: abbiamo un patrimonio immobiliare abbastanza consistente
Pm Fava: Apsa è soggetta a una normativa che impone la gara pubblica?
Scarano: ci sono delle gare di appalto. Vengono delle persone che fanno delle proposte, che sanno che ci sta da fare quel tipo di lavoro per l’amministrazione o per un palazzo. Si presentano e poi mandano i loro curriculum, mandano i loro prezzi, mandano le loro gare
Pm Fava: Menchini si occupava delle gare, di queste gare?
Scarano: È un elemento molto fine, intelligentissimo e preparatissimo. Riusciva a portare fuori i lavori del Vaticano presso Angelo Proietti e se li dividevano.
Pm Fava: cosa si dividevano?
Scarano: gli utili.

Repubblica 3.10.13
“Nella Santa Sede una banca parallela viaggi e regali a chi faceva girare i soldi”
L’ex contabile dell’Apsa insiste: denunciai tutto aBertone, non mi considerò
di Maria Elena Vincenzi


ROMA — L’Apsa, l’Amministrazione patrimonio Sede Apostolica, era una cosa privata. Un ente gestito come se avesse scopo di lucro, con l’unico obiettivo del profitto. Meglio, il profitto di chi ci lavorava. È questa la descrizione che monsignor Nunzio Scarano fa dell’amministrazione in cui ha lavorato ai pm che il 24 luglio scorso lo hanno interrogato nel carcere di Rebibbia dove era detenuto con l’accusa di riciclaggio. Centoquarantotto pagine di verbale per spiegare ai magistrati che lo accusano di aver fatto rientrare in Italia 20 milioni degli armatori D’Amico come funzionavano le cose Oltretevere. Atti depositati con la richiesta di giudizio immediato: il processo che lo vede imputato insieme a Giovanni Maria Zito e al broker Giovanni Carenzio inizierà il 3 dicembre. Il sacerdote parla di spostamenti continui di denaro, di flussi in costante movimento a seconda degli interessi. I dirigenti «cambiavano banche. Dieci, venti, cinquanta, settanta, cento volte. Le banche per avere un buon cliente, per farsi il nome cheavevano il Vaticano in mano... Non è che lo facessero gratis. I nostri superiori avevano molti vantaggi. Viaggi, crociere, alberghi a cinque stelle, massaggi, eccetera, insomma...».
APPALTI PILOTATI
«Noi siamo stati banca in maniera sporca», ammette Scarano ai magistrati. E in effetti, una delle prime domande che il procuratore aggiunto Nello Rossi, titolare del fascicolo insieme ai pm Stefano Fava e Stefano Pesci, rivolge al sacerdote indagato, riguarda proprio una frase da lui usata durante l’interrogatorio di garanzia: che vuole dire «facevamo banca?». «L’amministrazione — risponde Scarano — sidivide in due sezioni, ordinaria e straordinaria. La prima si interessa di beni immobili, la seconda dell’amministrazione del patrimonio e dei proventi degli investimenti. L’Apsa non dovrebbe essere una banca ma in realtà tante volte ha fatto operazioni bancarie appoggiandosi su altre banche. Eravamo investitori dei titoli, settore della Nestlè o di altre aziende internazionali. Compravamo azioni e obbligazioni. L’Apsa aveva anche dei clienti esterni, laici, che il più delle volte avevano conti cifrati, con delle lettere. C’era anzitutto un vantaggio che si pagavano meno tasse, gli investimenti erano sicuri, tranquilli, non c’erano tassazioni particolari. Il nostro superiore, il dottorGiorgio Stoppa (ora in pensione, ndr) se lo Ior dava l’1%, offriva il 2%. Erano i suoi scheletri negli armadi».
LA DENUNCIA A BERTONE
Cerca di difendersi come può, il monsignore arrestato. Chiamando anche in causa alti prelati: «Queste cose le ho fatte notare ai miei superiori e in particolare al cardinale Tarcisio Bertone». L’ex capo della Segreteria di Stato ha già smentito di averlo mai incontrato, ma Scarano non molla: «Gli ho confidato la mia situazione perché non volevo che ci fosse mai uno scandalo all’interno dell’Apsa e si potesse dire che io non avevo detto nulla ma non sono stato per niente considerato ». Scarano ha cercato anche altri contatti. «Ho fatto richiesta di essere ricevuto dal cardinale Sodano. Ho detto faccio come Don Chisciotte, una battaglia contro i mulini a vento. Dopo quattro giorni mi chiama il mio superiore, Giorgio Stoppa, e mi dice: “Come mai hai chiesto di essere ricevuto da Sodano?”. Io non sapevo che fosse un nostro cliente particolare.
GLI AFFARI CON IL COSTRUTTORE
Tra le vicende citate da Scarano spunta anche quella di Angelo Proietti, costruttore coinvolto nell’inchiesta sull’ex braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese: era lui ad aggiudicarsi quasi tutti gli appalti della Sogei, lui a pagare l’affitto della casa nel cuore di Roma incui viveva l’ex ministro del Tesoro. «Il signor Proietti aveva una società immobiliare in via della Conciliazione, ma chi gli prestava nome o gli dava lavoro erano il dottor Stoppa e il dottor Menchini, i quali turbavano gli appalti sempre in suo favore ». I finanzieri del Nucleo speciale di polizia valutaria chiedono che ruolo avesse Piero Menchini in Apsa: «Era direttore amministrativo. Si occupava della gare. Faceva fare i lavori a Proietti e si dividevano gli utili».
I RAPPORTI CON LA POLITICA
Scarano parla anche dei rapporti di Carenzio con Clemente Mastella e Antonio Di Pietro. All’ex leader dell’Udeur, secondo Scarano, sarebbero state pagate le spese di matrimonio di un figlio. «La moglie di Carenzio mi disse “sai, abbiamo dovuto pagare anche tutte le spese degli abiti, non è stato poco”». Poi Di Pietro. «Mi telefonò un giorno Carenzio e mi disse che mi voleva venire a salutare, io ero in ufficio. Disse “allora casomai se vuoi ci vediamo questa sera, ti vengo a salutare con l’onorevole Di Pietro”».

Repubblica 3.10.13
Quella mia telefonata con il papa
di Carlo Petrini


Sabato 28 settembre la vita mi ha riservato una sorpresa che mai avrei potuto immaginare. Verso le sette di sera ricevo una telefonata con il numero schermato, rispondo con curiosità e dall'altro capo una voce ormai familiare si è dichiarata: «Sono Papa Francesco. Ho ricevuto il libro, la sua lettera e volevo ringraziarla ». Stupore e gioia hanno accompagnato una chiacchierata con una persona che sentivo amica, nelle corde di una terra piemontese che ci unisce, nell'affetto e nella stima verso l'umanità di Terra Madre, quella rete di contadini, pescatori, nomadi e artigiani del cibo che ogni due anni si riunisce in Torino. Infatti, il 7 settembre, giorno della mobilitazione pacifica per la pace, avendo aderito al digiuno, ho pensato di inviare a Papa Francesco il libroTerra Madrecon i volti dei delegati, un mio articolo sull'emigrazione piemontese apparso su Repubblica nei giorni della visita papale a Lampedusa e una mia lettera di presentazione. Tutto ciò è stato motivo della nostraordinariostra telefonata. Nelle parole del Papa il ricordo nitido della storia “piccola” della sua famiglia: «I miei si stabilirono a Torino dall'astigiano, aprendo un piccolo caffè in una casa d'angolo con via Garibaldi»; poi la migrazione verso la terra d'Argentina: «Mio papà doveva imbarcarsi sul Mafalda, poi per disguidi dovette posticipare la partenza di un anno». È un segno del destino? La motonave Principessa Mafalda diretta a Buenos Aires affondò il 25 ottobre 1927 al largo della costa brasiliana, e centinaia di migranti morirono tra le onde del mare.
Parlando poi del mondo contadino, Francesco ha voluto sottolineare come le buone pratiche delle comunità rurali siano preziose per il destino della terra. Proprio su questo tema il Papa ha avuto parole forti: «il lavoro di queste persone è »,«accumulare denaro non deve essere il fine principale », «mia nonna mi diceva che quando si muore il sudario non hatasche per mettere i soldi».
In questi anni ho sentito molti parlare del lavoro dei piccoli contadinicome pratica virtuosa ma irrilevante per l'economia; per contro, molte personalità del mondo hanno espresso solidarietà e comprensione per il mondo degli umili e per il loro ruolo nel difendere i beni comuni del pianeta. La convinta vicinanza a queste ultime tesi della più alta autorità religiosa del cattolicesimo è straordinaria. Il mio amico Ermanno Olmi mi ha detto che «la primavera è arrivata». Edgar Morin sostiene che «tutto deve ricominciare e tutto è già ricominciato ». Nella mia lettera ho aperto il mio cuore a quest’uomo nel raccontare la mia infanzia e adolescenza nella fede cristiana insegnatami da una nonna che ho molto amato. Praticava la fede cattolica e, al contempo, condivideva lo spirito libertario e socialista del suo uomo. Superò con dignità i tempi della condanna papale verso i comunisti, rimanendo fedele a Gesù e a suo marito da tempo scomparso. Dai tempi della mia giovinezza ho maturato e mantengo uno spirito agnostico, ma l'assenza di religiosità non mi ha impedito in questi anni di condividere esperienze e civili battaglie con donne e uomini di fede. Non ho le capacità o le conoscenze per aprire un dialogo profondo e colto sui temi della fede, ma avverto che, se l'umanità vuole uscire dal deserto di idee che la circonda, persone che sanno dialogare come Papa Francesco sono preziose e io sento il bisogno di testimoniarlo. Anche lo strumento che usa, il telefono, senza alcuna mediazione, è segno di un modo schietto e diretto, dove gli interlocutori sono i più vari, come varie sono le motivazioni e gli argomenti; si ha l'impressione di parlare con un amico. È così si chiude la nostra conversazione telefonica, con l'augurio di buona salute e un abbraccio reciproco: un mondo dove si può fraternamente abbracciare un Papa è davveroun mondo bello.

il Fatto 3.10.13
Rive fatali
Nel Delta del Nilo i porti di (s)ventura
di Francesca Cicardi


Il Cairo Qualche migliaio di dollari e il rischio di perdere la vita: questo è il prezzo che pagano i rifugiati siriani e palestinesi che cercano di scappare disperatamente dall’Egitto e si imbarcano per l’Italia.
Da agosto oltre 3.000 siriani – tra cui 230 bambini - sono approdati sulle coste italiane provenienti dall’Egitto, secondo le statistiche Onu. Il fenomeno è scoppiato subito dopo il colpo di stato del 3 luglio: “Dovuto al crescente sentimento anti siriano, i rifugiati non si sentono più al sicuro ne benvenuti in Egitto, e sperano di raggiungere l’Europa per trovare una vita migliore”, spiega il portavoce dell’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr). Edward Leposky assicura a Il Fatto che esiste una amplia rete clandestina nel Delta del Nilo, conosciuta ormai dalla comunità siriana che vuole “comprare” un viaggio verso l’Italia: i trafficanti raccolgono i soldi e i migranti in diversi punti, e li fanno partire in piccoli gruppi. “Ogni giorno diverse barche partono dalla costa mediterránea e del basso Nilo, e si trovano con le navi più grandi a qualche centinaio di metri dalla riva”.
Gli incidenti che vedono protagonisti questi migranti sono sempre più frequenti: due siriani sono morti a metà settembre quando la guardia costiera egiziana ha sparato contro una nave che stava uscendo dal porto di Alessandria con un centinaio di profughi a bordo. Gli emigranti vengono spesso fermati prima che si imbarchino al porto di Alessandria, principale punto di partenza, oltre ad altre località della costa mediterranea: da Marsa Matruh, vicino al confine con la Libia, a Rosetta, dove il Nilo sfocia nel mare.
Oltre 850 rifugiati sono stati arrestati negli ultimi due mesi mentre cercavano di partire dalla costa egiziana verso l’Italia, assicura l’attivista egiziano Nader Attar, fondatore del Movimento di Solidarietà con i Rifugiati. Sono siriani e palestinesi, tra di loro ci sono oltre 150 bambini, 67 dei quali viaggiavano da soli, senza i genitori. “Se la famiglia non ha soldi per partire con loro, cercano almeno di mandare i figli, perché sanno che riceveranno assistenza sanitaria ed educazione in Europa”, afferma Attar, che ad Alessandria segue i drammatici casi dei profughi detenuti.
SONO ACCUSATI di emigrazione illegale, che per il codice penale egiziano è un reato grave. Inoltre, sono in attesa di essere deportati anche se la legge internazionale proibisce la deportazione dei rifugiati di guerra, e potrebbero essere rimandati persino in Siria. Attar spiega che L’Egitto vuole mandare un chiaro messaggio al-l’Europa: “in mancanza del sostegno europeo, non fermeremo gli emigranti”.
Oltre 111.000 rifugiati siriani sono registrati ufficialmente dall’Onu in Egitto, ma il Governo calcola che oltre 300.000 risiedono nel paese. Dalla deposizione da presidente di Mohamed Morsi, i siriani devono ottenere un permesso dalle autorità per poter entrare e rimanere in Egitto, e addirittura devono presentare un certificato “penale” rilasciato dal governo di Damasco: una trappola perfetta per dissidenti e profughi che non possono avere facilmente questo documento dal regime di Bashar al Assad, dal quale sono fuggiti. “La situazione per loro è insostenibile: vengono perseguitati dalle autorità egiziane e non riescono più a trovare un lavoro, ne una casa, ne una scuola per i figli dovuto alla campagna dei media contro i siriani e i palestinesi”, spiega Attar. Entrambi vengono associati all’ex presidente Morsi e ai Fratelli Musulmani, e accusati di essere “nemici” e “spie” straniere.

il Fatto 3.10.13
La base della Spd deciderà con il voto la Grosse koalition
La linea del partito in mano a 470mila iscritti socialdemocratici
Il nodo delle tasse sull’intesa
di Mattia Eccheli


Düsseldorf Comunque vada, l'ultima parola la avranno i 472.000 iscritti alla Spd, i cui vertici incontreranno domani la delegazione dell'Unione (Cdu/Csu) per sondare una possibile intesa per un'eventuale Grande coalizione. Al summit sono attesi 21 dirigenti, di cui appena 7 socialdemocratici. Lo scorso venerdì, i 200 delegati del partito che voleva sfrattare la cancelliera Angela Merkel ma che è riuscita a strappare appena il 2% di consensi in più rispetto al minimo storico del 2009, avevano licenziato un documento a larghissima maggioranza (5 contrari e 3 astenuti) che apriva la strada ai primi incontri formali. Il segretario Sigmar Gabriel era stato chiaro: “Non è un via libera alla Grande coalizione”. Che molti, soprattutto nel Nord Reno Westfalia, “regno” di Annelore Kraft, governatrice che potrebbe venire candidata alla cancelleria nel 2017, vedono come fumo negli occhi in seguito la sconfitta umiliante sofferta nel 2009 dopo aver appoggiato la Merkel.
Il documento dice che l'eventuale accordo di programma con l'Unione verrà sottoposto alla valutazione dei delegati, il cui parere sarà vincolante. Gabriel ha così imboccato la via del “non ritorno”: o riesce a strappare aperture significative alla Cdu oppure gli iscritti rischiano di bocciare politicamente non solo l'intesa, ma anche lui.
IL TEMA DELLE TASSE è centrale. Tanto che due dei settimanali più seguiti – Der Spiegel e Focus – hanno proposto una copertina pressoché identica con Merkel e Gabriel con mascherina e fazzoletto da banditi d'altri tempi. L'uno titola “Fuori i soldi” l'altro “Quanto mi costerà (l'accordo) nero-rosso?”.
Le modalità della consultazione degli iscritti non sono state ancora rese note, anche perché non è escluso che le trattative possano durare mesi: pochi azzardano un'intesa prima di dicembre. La prossima settimana, il 10 ottobre, la Merkel vedrà anche la delegazione dei Grüne, i Verdi. Che con Katrin Göring-Eckardt, esponente dell'ala moderata, tendono la carota, ma con il segretario Cem Özdemir esibiscono il bastone: “Non è che la signora Merkel può tenere la Spd in una stanza e noi nell'altra e vedere dove ottiene di più”.
Secondo gli immancabili sondaggi, la riproposizione della Grande coalizione è auspicata dal 58% die tedeschi. La percentuale sale al 68% tra gli elettori dell'Unione. E fra gli stessi simpatizzanti socialdemocratici è un'ipotesi ritenuta “buona” dal 64% del campione. Un accordo nero-rosso avrebbe delle ripercussioni sui meccanismi democratici perché le minoranze di Linke e Verdi disporrebbero di appena 127 seggi du 630, poco più del 20%. Difficile fare opposizione con questi numeri.

Repubblica 3.10.13
L’intervista
“Un errore la linea dura di Netanyahu a Teheran adesso soffia un vento nuovo”
Grossman: le sanzioni sono state utili, ora serve il dialogo
di Fabio Scuto


Il messaggio all’Onu era rivolto anche agli Usa
È stato chiaro: siamo pronti ad agire, perciò è vostro interesse neutralizzare la minaccia di Teheran

GERUSALEMME — «Benjamin Netanyahu da un lato ha fatto bene a ricordare dal podio delle Nazioni Unite che l’Iran è un Paese che da decenni minaccia di voler distruggere di Israele e che non ha mai nascosto la sua volontà di arrivare a possedere armi atomiche, ma da un altro lato ha sbagliato: è stato troppo aggressivo e bellicoso, ha bloccato ogni possibilità di dialogo con gli iraniani. E, in un certo senso, ha espresso anche sfiducia nella capacità del presidente Obama di gestire questa nuova prospettiva di relazioni con Teheran. Non credo sia stata un’idea saggia». Lo scrittore David Grossman — famoso in tutto il mondo per opere come “Vedi alla voce amore”, “Che tu sia per me il coltello”, “Con gli occhi del nemico”, — parla con l’abituale franchezza che contraddistingue il suo pensiero. Da tempo in Israele e nel mondo non è più un privato cittadino, ma un’icona, un punto di riferimento per una generazione che crede nella pace e nel dialogotra Israele ed il mondo arabo.
Sarebbe stato difficile per un uomo come Netanyahu andare all’Onu e comportarsi come una colomba. Ci sono molte incognite sulle vere intenzioni dell’Iran.
«È importante che il premier abbia rivestito il ruolo di colui che ricorda al mondo che questa non è la trama di un film hollywoodiano, l’Iran è responsabile di un numero infinito di attacchi terroristici contro l’Occidente e contro gli ebrei in diverse parti del mondo.Ma forse avrebbe dovuto lasciare più spazio alla possibilità di dialogo, alla possibilità che a Teheran adesso spiri un vento diverso, anche se non è il frutto di un entusiasmo verso Obama o Israele, ma una conseguenza delle sanzioni internazionali che hanno isolato l’Iran».
La frase “siamo pronti ad agire da soli per difenderci dall’Iran” ha fatto correre un brivido nella schiena a mezzo mondo.
«Netanyahu con quella frase si è rivolto anche all’opinione pubblica europea e agli Stati Uniti. Il suo messaggio è stato chiaro: Israele è pronto ad agire in modo estremo, perciò è interesse di Stati Uniti e Europa di neutralizzare il pericolo iraniano. Israele non esiterà a colpire l’Iran anche se questo potrebbe mettere in grossi guai l’America e gli europei, per cui siete voi a dover costringere Teheran a comportarsi ragionevolmente. È una tattica che può essere efficace ma anche distruttiva».
Un anno fa l’attacco contro gli impianti atomici in Iran sembrava davvero vicino, l’orologio dell’Apocalisse era vicino all’Ora Zero. E Adesso?
«La possibilità che Israele attacchi l’Iran o viceversa sono eventualità terribili, non oso nemmeno immaginare alle conseguenze atroci per tutti noi, per l’Iran e anche per l’Europa. Preferisco fidarmi dell’assicurazione del presidente Obama, che ha promesso di impedire che Teheran si doti di un’arma atomica. So bene che la distanza tra nucleare civile e militare non è poi così grande, per questo i negoziatori di Stati Uniti e Europa dovranno essere determinati per evitare che questo possa essere solo un “gioco” per prendere tempo».
I giornali israeliani hanno sottolineato stavolta una certa solitudine del premier israeliano nel suo scetticismo sulla svolta iraniana. Non teme che questo porti a un isolamento di Israele?
«Netanyahu ha la tendenza a presentare Israele come la vittima perenne, la Nazione che si trova sempre sola e gioca per la sua sopravvivenza, anche quando la metà del mondo ci appoggia e abbiamo al nostro fianco un superpotenza come l’America, come se lui — che comunque guida una potenza regionale — non ne avesse ancora introiettato la forza reale. Quello che pensa Netanyahu ècomune a molti israeliani: la Storia potrebbe ripetersi. È certamente una possibilità, ma prediligerla come l’unica è la migliore ricetta per la realizzazione dei nostri incubi»
Cosa è mancato in quel discorso?
«Un approccio molto più serio sul processo di pace con i palestinesi. È facile strillare e allarmarsi per ciò che succede sul fronte del-l’Iran, ma pericoli esistenziali non meno gravi esistono — per Israele, per i palestinesi e per tutta la regione — per la mancanza di una seria trattativa di pace. Ci sono solo dei primissimi tentativi di esplorazione, pieni di riserve e minacce. Alla fine può anche essere che, come Obama è riuscito a trasformare la quasi disfatta del mancato attacco alla Siria in una vittoria per la rinuncia di Damasco alle armi chimiche, si riesca a legare la risposta dell’Occidente alla minaccia nucleare iraniana alla fine del conflitto israelo-palestinese. Sarebbe un vantaggio pertutti; persino gli iraniani potrebbero presentarlo come un loro successo e non come una inequivocabile resa al diktat di Netanyahu».
Lei immagina una “pace dei coraggiosi”...
«Il modo migliore per eliminare la minaccia rappresentata dall’Iran, è la composizione del conflitto con i palestinesi. Dobbiamo arrivare a una pace che mi auguro possa durare  dalle storture provocate dalla nostra tragica storia ».