sabato 5 ottobre 2013

l’Unità 5.10.13
Primo punto: abolire la clandestinità. Poi servirà una nuova legge-quadro
Legge Bossi-Fini e non solo: tutte le norme e i decreti da cambiare per non vedere più stragi di migranti
di Rachele Gonnelli


ROMA Uscire dalla retorica e anche dalla vergogna di considerare tragedie come quella dell’isola dei conigli solo come la penultima strage di migranti sulle nostre coste è possibile. Proviamo a declinare le parole «mai più» tanto ascoltate in questi giorni, cercando di individuare priorità e modalità di intervento, tutte comunque in mano al Parlamento.
Soccorsi Eliminare il rischio per pescherecci e imbarcazioni civili di incorrere nel reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina è ciò che vede come priorità il presidente del Senato Pietro Grasso, seconda carica dello Stato. La norma, in base alla quale è possibile subire anche il sequestro dell’imbarcazione fino a completamento del percorso giudiziario, è contenuta nell’articolo 12 del testo unico 286 del ‘98 così come modificato dalla legge 189 del 2002, la famigerata legge Bossi Fini. C’è poi la possibilità di modificare il ruolo dell’agenzia europea Frontex alla quale è affidato un compito di monitoraggio del mare e delle coste. Finora il Frontex non si è occupato se non in casi isolati di soccorso dei barconi di profughi. La sua missione è rimasta confinata al contrasto e controllo dell’immigrazione clandestina. Il Frontex è però dotato di attrezzature sofisticate che potrebbero essere utilizzate per compiti umanitari cioè per intercettazione e primo soccorso dei barconi in avaria. Questo però attiene ai compiti che gli vengono affidati dalla Commissione europea e dal Consiglio d’Europa.
Reato di clandestinità Il reato, introdotto nel cosiddetto «pacchetto sicurezza» la legge 94 del 2009 in quanto sospettato di vizi di incostituzionalità, non è stato applicato se non in pochissimi casi. Abolirlo è possibile sia con un decreto governativo sia con una proposta parlamentare e c’è un referendum radicale che lo chiede su cui si stanno raccogliendo le firme. Il vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico sostiene che «anche se viene raramente applicato questo reato contribuisce a creare una situazione di incertezza e timore nel migrante e quindi ad alimentare i canali occulti di arrivo, offrendo spazi alle organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani».
Diritto d’asilo Come sottolinea anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e fa notare il Consiglio d’Europa bocciando in toto la nostra politica migratoria, l’Italia non ha ancora una legge sul diritto di asilo. Il che non significa che non sia riconosciuto come diritto. Ciò che manca del tutto è una legge quadro. Esistono tutta una serie di norme e codicilli dispersi in diversi provvedimenti, a volte in parziale contrasto gli uni con gli altri. I Cara, centri di idetificazione per i richiedenti asilo, non molto diversi dai Cie Centri di identificazione e esplusione hanno una «detenzione» più corta e le condizioni di vita poco migliori.
Identificazione I Cie attualmente aperti sono 7, perché altri sono stati danneggiati da incendi e rivolte a causa delle condizioni di vita che, con le gare per la gestione a massimo ribasso, stanno progressivamente peggiorando. Costano annualmente 55 milioni di euro l’anno escluso i fondi per le forze di polizia che li sorvegliano e inclusi quelli per l’accompagnamento alle frontiere (fonte Rapporto Lunaria 2012). La stima è che incluso gli stipendi per i turni dei poliziotti il costo raggiunga i 100 milioni annui. La detenzione massima nei Cie è stata allungata fino a 18 mesi per decreto dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni. L’attuale vice ministro Bubbico fa notare che «dal punto di vista statistico l’identificazione per la maggior parte dei casi si fa nei primi 45 giorni, costringere le persone a un periodo di permanenza più lungo, da un punto di vista puramente costi-benefici non conviene. Espone gli operatori a reazioni violente difficilmente contenibili e gli ospiti a sofferenze e costrizioni non in linea con il rispetto delle condizioni di dignità che sono le stesse per le quali spesso decidono di intraprendere il rischioso viaggio verso l’Europa». Per Bubbico «non c’è alcuna ricaduta positiva dalla permanenza del sistema Cie e le forze di polizia lì impiegate sono distolte da compiti ben più importanti». Oltretutto solo la metà dei migranti detenuti viene poi espulsa e riaccompagnata nel Paese di partenza (solo 4015 su 7.944 i rimpatriati nel 2012), con altri costi. I Cie sono corollario della Bossi-Fini.
Canali regolari Non esistono possibilità di immigrare nel nostro Paese per via regolare se non attraverso provvedimenti di sostanziale sanatoria come l’annuale decreto flussi. Non esiste neppure la possibilità di chiedere l’asilo in una ambasciata estera italiana. Esistono proposte di legge articolate per sostituire la Bossi Fini e un inizio di coordinamento interministeriale. Ma, come spiega Bubbico, «sono tali e tanti gli elementi di criticità dell’impianto della nostra normativa sull’immigrazione che andrebbero visti insieme dal Parlamento in un quadro aggiornato». Per Bubbico «l’intervento di Napolitano evidenzia come non basti più una interlocuzione tra ministri ma serva una sintesi, espressione di una volontà politica e di un contesto mutato, per correggere errori e lacune».
Fondi Sprar Al consiglio dei ministri europei dell’Interno di martedì prossimo in Lussemburgo, presieduto dalla commissaria Cecile Malmstrom, è possibile che si arrivi con l’unica misura concreta del rifinanziamento dei fondi Sprar per dislocare i rifugiati nei piccoli centri, (dai 3mila posti a 16mila). Una goccia nel mare, per quanto insanguinato.

il Fatto 5.10.13
Colpevoli: Bossi, Fini e Maroni
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, dopo quello che è successo a Lampedusa, perché non viene abrogata subito la stupida e inumana legge detta Bossi-Fini?
Angela

STO PER DIRE che sono stupito delle esitazioni di governo e Parlamento che ti dicono (persino il ministro Kyenge) che adesso dobbiamo vedere, verificare, fare insieme, concordare e poi sono costretto a ricordarmi che questo governo è – secondo la missione che gli è stata affidata – un treno fermo. Nessuno ci ha spiegato il perché, ma nel migliore dei casi amministra con cura, impone le giuste tasse e non deve avventurarsi nei viaggi che non lo riguardano. Per questa ragione neppure una tragedia come Lampedusa ha portato alla promessa, almeno alla promessa, di rivedere una legge folle, che vuole che i trecento bruciati in mare arrivino con un contratto di lavoro in tasca, stipulato chissà dove, chissà da chi. E non si occupa affatto dell'enorme fenomeno (enorme nel numero, enorme nella qualità morale dell'evento) di coloro che fuggono dalla guerra e hanno diritto di asilo. Quel diritto – che non ha nulla a che fare con la povera e gretta cultura leghista a cui si è conformato Fini, aggiungendo ricordi fascisti sull'intangibilità dei confini – è sacro e non può essere violato da alcun Paese civile. Lampedusa ci dice (come ci dice il “Vergogna!” del Papa) che non siamo un Paese civile anche se ci lodiamo a vuoto tutto il tempo. Infatti, morti e sopravvissuti di Lampedusa venivano da Eritrea e Somalia. Paesi in guerra perenne. Non vedete le immagini degli scampati? Non sono immagini di chi fugge dalla fame per cercare di infiltrarsi nella presunta ricchezza degli altri. Sono persone evidentemente di ceto medio urbano, probabilmente con buona scolarizzazione, in cerca di asilo per scampare alle persecuzioni. Molti contavano di attraversare l’Italia, immaginata come un luogo normale, per andare in altri Paesi. Ma tre pescherecci hanno visto e fatto finta di non vedere provocando la tragedia delle coperte incendiate. Infatti, i pescatori avrebbero rischiato l'incriminazione in caso di aiuto a profughi del mare, fraternamente definiti, dalla legge italiana, come “clandestini”. Si sovrappongono molte vergogne in questa storia. L'ultima riguarda la risposta passiva e inutile di questo governo.

l’Unità 5.10.13
Quegli accordi con i dittatori che Bruxelles ci rinfaccia
In Italia non esiste «politica dell’accoglienza». I dati sull’asilo condannano
il nostro Paese: altrove gestiscono emergenze molto più grandi
di Umberto De Giovannangeli


L’orrore offusca la memoria. La memoria di accordi bilaterali che facevano di dittatori senza scrupoli i «Gendarme» del Mediterraneo. La memoria di leggi o accordi-capestro condannati dall’Europa. Quell’Europa a cui oggi, dopo l’immane strage di migranti, chiediamo di agire. Cosa giusta e saggia, ma ancor più se l’Italia avesse le carte in regola per battere i pugni sul tavolo. Ma purtroppo, così non è. «Nel Mediterraneo non si muore per caso né per fatalità ricorda Amnesty International Italia si muore per l’assenza di una politica di accoglienza vera per chi fugge da persecuzioni, conflitti, torture e altre violazioni dei diritti umani. Si muore perché in questi anni governi italiani di qualsiasi colore politico hanno fatto accordi con la Libia sulla pelle di migranti e rifugiati, promettendo al contempo di fermare gli sbarchi dei clandestini al loro elettorato».
PROMEMORIA
La «nostra vergogna» è anche questa colpevole dimenticanza, un virus che ieri ha influenzato anche il ministro dell’Interno, e vice premier, Angelino Alfano. All’Europa chiediamo di farsi carico dell’emergenza migranti. Giusto. Ma agli «smemorati» eccellenti va ricordato, ad esempio la sentenza sul «caso Hirsi» della Corte europea dei diritti dell’uomo (2012), che ha stabilito che, respingendo i migranti verso la Libia, l’Italia ha violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e in particolare il principio che vieta di rimpatriare i migranti nei Paesi dove potrebbero subire persecuzioni o trattamenti inumani e degradanti. La Libia sotto i riflettori. E sotto i riflettori anche gli accordi che l’Italia ha stipulato con il defunto raìs di Tripoli, Muammar Gheddafi, e reiterato con la nuova leadership libica. L’ultimo atto ufficiale tra Italia e Libia risale a pochi mesi fa. Il 4 luglio il ministro Alfano e il ministro degli Esteri Mohamed Emhemmed Abdelaziz, firmano a Palazzo Chigi un accordo di cooperazione che prevedeva un impegno di Tripoli a controllare le coste in cambio di quello italiano nella formazione e addestramento delle forze di polizia. Alfano annunciò anche l’istituzione di un «gruppo di lavoro permanente di alto livello» incaricato di dare seguito concreto all’accordo per «far fronte all’immigrazione clandestina». Di tutto ciò non si è saputo più nulla.
LASCITO DEL PASSATO
Nonostante le prove sostanziali e di pubblico dominio sul fatto che migranti, rifugiati e richiedenti asilo siano ancora soggetti a gravi abusi dei diritti umani in Libia, il 3 aprile 2012, l’Italia ha firmato un nuovo accordo sul controllo dell'immigrazione con questo Paese, denuncia Amnesty International. L’Italia rimarca l’Ong continua a chiedere supporto alla Libia per fermare le partenze dei migranti e si impegna a fornire strumenti per i controlli delle frontiere libiche, chiudendo un occhio sulle gravi violazioni che migranti e rifugiati subiscono in Libia. Gli accordi non contengono alcuna salvaguardia concreta per i diritti umani né meccanismi di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Nel febbraio 2012, la prassi dei respingimenti in mare attuata in precedenza dall'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani, per l’appunto, nel caso «Hirsi Jamaa e altri». L’Italia, attraverso il governo, si è pubblicamente impegnata a dare attuazione alla sentenza.
Eliminare il reato di clandestinità, dunque. Abolire la Bossi-Fini, certo, ma non solo. La Libia ricorda Amnesty non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiati e considera tutte le persone come «migranti», anche se tra di esse vi sono persone, come eritrei, etiopi e somali, che fuggono dalla persecuzione. «Di fronte a tutto questo, è assai preoccupante la mancanza, nel nuovo accordo, di garanzie per i richiedenti asilo. Sembra rileva ancora Amnesty che anche il governo italiano (allora guidato da Mario Monti, ministra dell’Interno era Anna Maria Cancellieri, ndr) pensi che in Libia non ci siano persone bisognose di protezione internazionale. Non si prevede ad esempio un meccanismo di riferimento all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) per accedere a procedure di asilo». «La lotta ai clandestini riparte da Gheddafi», titolava La Stampa. Aggiungendo: «Ecco l’accordo Italia-Libia: una fotocopia di quello siglato con il dittatore». I migranti sono detenuti in Libia in condizioni disumane», ricorda Amnesty International in una lettera aperta inviata al premier Enrico Letta alla vigilia dell' incontro col primo ministro libico Ali Zeidan (4 luglio 2013). Questi accordi bilaterali sono ancora in vigore. Tutti.
Nel suo intervento alla Camera, il vice premier Alfano agita l’ultimo dato di Eurostat sulle richieste di asilo: nel primo trimestre 2013 sono state 4.910 le richieste d’asilo, il 31% in più rispetto allo scorso anno. Peccato che il ministro dell’Interno, abbia dimenticato di aggiungere che l’Italia si colloca al sesto posto al sesto non tra i primi in Europa per numero di richieste. Così come, si è «dimenticato» di dire Nel 2012 sono state presentate in Italia 17. 352 domande d’asilo, circa la metà dell’anno precedente (rapporto annuale Global Trends, sulle tendenze a livello globale in materia di spostamenti forzati di popolazione). I rifugiati in Italia alla fine del 2012 erano 64. 779. In Germania 589. 737; Francia 217. 865; Regno Unito 149. 765; Svezia 92. 872; Olanda 74. 598. Ma nessuno di questi Paesi si è sentito «invaso».

l’Unità 5.10.13
Quando il silenzio diventa negazionismo
di Marco Rovelli


DOPO IL ROGO E L'AFFONDAMENTO DI DUE GIORNI FA, ritengo mio dovere dirlo e ripeterlo in ogni luogo, reale e virtuale: il negazionismo non è solo quello di chi nega l’esistenza dei lager. È anche il silenzio diffuso e continuo sulle dimensioni spropositate dello sterminio che ha luogo nel Mediterraneo, che fa del Mediterraneo il più grande cimitero del mondo. Oggi c’è un tappeto di morti, su quel mare, ma quello sterminio avviene con regolarità. Eppure noi fingiamo di non vedere, di non sapere. Ci chiediamo spesso come fosse possibile che i tedeschi non sapessero dei lager, come fosse possibile lasciar correre quella catastrofe immane. Rispondere è facile. Basta guardare ciò che siamo noi. Che lasciamo correre un’altra catastrofe immane, nella perfetta buona coscienza. Basta fingere che non accada nulla. Come quei pescatori che sono passati per quelle acque, che hanno visto quegli uomini e quelle donne affogare, e che sono andati oltre. Lo fanno perché la legge impone di non intervenire, pena il sequestro della barca, e magari l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Hanno i loro motivi, e sono motivi voluti da una legge barbara. Una legge che riduce gli uomini a pensare esclusivamente alla propria salvezza. Non sono mostri quei pescatori. Sono come noi, che vediamo e passiamo oltre. Che accettiamo in buona coscienza le leggi che determinano tutto questo, rendendo illegale l’ingresso in Europa (gli scafisti non sono la causa, ma l’effetto). La Bossi-Fini (ma ancora prima, ricordiamolo, Turco-Napolitano) è la legge più repressiva e escludente d’Europa, che pure il governo di centrosinistra si è ben guardato dal cambiare. Proviamo sgomento per quelle centinaia di morti? Sì? E allora vogliamo continuare con la nostra ipocrisia? Non basta un ministro nero, a salvarsi l’anima. Ci vogliono fatti concreti, avere il coraggio di pronunciare parole non di compassione, ma di azione.

il Fatto 5.10.13
“Ci hanno impedito di salvarne altri”
di E. F. inviato a Lampedusa


Come è stato possibile? Come è potuto accadere che un barca stracarica di disperati partita tre giorni prima dalla Libia, porto di Misurata, arrivasse a ottocento metri dalla costa senza essere avvistata? Senza che uno dei tantissimi radar destinati a controllare il Mediterraneo sia riuscito a inquadrarlo? E poi, i soccorsi, sono arrivati in tempo, erano sufficienti, si è fatto tutto quello che si doveva e poteva per evitare questa strage? Sono le domande che agitano la mente di fronte a quei 111 corpi (49 donne, un numero altissimo, 2 bambini, 58 uomini), chiusi nei sacchi di plastica e messi in fila in un hangar dell’aeroporto di Lampedusa, in attesa di un nome, una sepoltura degna, una preghiera.
Qualcosa si è inceppato nella catena dei soccorsi
“I radar, li hanno messi anche a ponente di Lampedusa, non servono a un tubo, sono utili solo per far prendere i tumori”. Undici del mattino, sede del Comune dell’isola della morte, la gente aspetta le autorità che verranno da Palermo. Parla una giovane pacifista mentre srotola uno striscione: “Basta indifferenza, basta F-35, Muos, Frontex…”. Ma è un ragazzo abbronzato a raccontare quello che ha visto all’alba di giovedì. Si chiama Marcello Nizza, marinaio per sport. “Il mare – ci dice – era calmissimo, piatto, un olio, c’era bonaccia. Con un gruppo di amici avevamo deciso di passare la notte in barca. All’improvviso l’inferno”.
Fermiamoci per cercare di stabilire l’orario. Un dato, però, è già certo: la barca proveniente dalle coste libiche è a circa 800 metri dalla riva. Le donne, gli uomini, i bambini a bordo la vedono, ma da almeno tre ore sono in difficoltà. Non sono riusciti a segnalare la loro presenza come di solito fanno i migranti, col satellitare o col telefonino gps, e allora incendiano delle coperte con la speranza che qualcuno dalla terraferma si accorga di loro. Da quel momento è il panico, la barca prende fuoco, la gente urla, si muove troppo, l’imbarcazione si capovolge. Sono le 6:30 stando alla ricostruzione offerta da Nizza, quando la sua barca, un gozzo di 10 metri con a bordo altri otto diportisti, interviene. “Abbiamo visto gente in mare che urlava disperata, persone che annaspavano, altri che annegavano. Alle 6:45 abbiamo dato l’allarme, mentre con tutti i mezzi tiravamo la gente a bordo. Ne abbiamo presi 47, ma la cosa più drammatica è stata scegliere chi salvare sapendo che gli altri sarebbero annegati”. Anche Grazia Migliosini era a bordo della barca da diporto: “Erano le 6:30 quando abbiamo cominciato a soccorrere le persone, a quell’ora abbiamo lanciato l’allarme”. Ma la cosa che scandalizza di più Marcello Nizza è un’altra: “Abbiamo chiesto alla Guardia Costiera se, una volta fatti sbarcare i 47 salvati, potevamo tornare in mare per continuare l’opera di soccorso. Ci hanno risposto che aspettavano un protocollo da Roma”.
La ricostruzione del capitano di Vascello
È andata davvero così? Dopo molte insistenze riusciamo a parlare con il capitano di Vascello Filippo Marini del Comando generale delle Capitanerie di Porto. “Parliamo del radar, per dire che ci dà solo un punto, un bersaglio, non ci dice lì c’è una barca con 300 o 500 a bordo. E parliamo dell’avvistamento, che avviene tramite mercantili, o pescherecci o altre imbarcazioni che ci segnalano la presenza di barconi in difficoltà. Spesso sono gli stessi migranti che chiamano il Comando generale o la Capitaneria di Porto di Palermo, con i loro satellitari o i gps. Questa volta non lo hanno fatto, forse per mancanza di strumenti. L’allarme è arrivato alle 7, tre ore prima, alle 4 del mattino, le nostre motovedette erano arrivate al porto con 300 persone a bordo salvate dal mare, alle 7:14 eravamo sul posto. Le ricordo che, grazie al nostro coordinamento, abbiamo salvato 155 persone. Le abbiamo salvate da morte certa, perché questi viaggi fatti su barconi fradici con strutture prossime al cedimento, o su gommoni stracarichi, hanno un dato certo, la partenza, e uno fortemente incerto, l’arrivo”.

Corriere 5.10.13
Grande dolore e risposte vere
di Fiorenza Sarzanini


I soccorritori impegnati in queste ore in Sicilia hanno avuto un coraggio e una dedizione impagabili. Le forze dell'ordine, le organizzazioni umanitarie, i vigili del fuoco, i volontari e soprattutto i cittadini di Lampedusa hanno dato prova di immensa generosità, ma hanno anche evidenziato una volta di più la solitudine dell'Italia di fronte alla tragedia.
Non ci sono più controlli o pattugliamenti nel Mediterraneo. Siamo gli unici a fronteggiare un'emergenza che nei prossimi mesi rischia di diventare ancor più drammatica. Perché quanto accaduto due notti fa di fronte all'isola di Lampedusa potrebbe succedere di nuovo con un bilancio di perdite umane che non è sopportabile. L'Africa è un continente in fermento. Ci sono centinaia di migliaia di profughi disposti a tutto pur di trovare un posto migliore dove vivere. Il nostro Paese è la loro porta d'ingresso per l'Europa e da qui continueranno a passare.
Ci sono già migliaia di cadaveri in fondo al Mediterraneo. Migranti che a bordo di barconi o pescherecci hanno cercato di raggiungere l'Italia. Invece sono andati alla deriva, morti di stenti, oppure annegati. Uomini, donne e bambini che prima di giungere in Libia avevano viaggiato per settimane nel deserto, in fuga dalla fame e dalla guerra. Spesso di queste tragedie non si sa nulla.
Il governo spagnolo ha emesso ieri un comunicato di solidarietà e vicinanza all'esecutivo guidato da Enrico Letta, assicurando il proprio sostegno per uno sforzo comune dell'Europa. Il portavoce del commissario europeo per gli Affari interni Cecilia Malmström ha garantito un impegno concreto per far entrare subito in vigore il sistema di intercettazione e soccorso delle imbarcazioni che già mesi fa doveva essere operativo. Non basta.
Ben altri sono gli sforzi che bisogna fare se si vogliono evitare nuovi disastri. Perché è necessario poter contare su finanziamenti consistenti e politiche comunitarie che guardino agli Stati africani. Ma soprattutto bisogna rivedere le regole dell'accoglienza, accettare il fatto che questi migranti approdano in Italia, però la maggior parte di loro vuole andare altrove. Il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha annunciato che la prossima settimana andrà in Lussemburgo e chiederà la revisione del Trattato di Dublino che assegna al primo Paese di ingresso l'onere dell'accoglienza.
È un'istanza giusta, eppure difficilmente sarà accettata. Perché, come è già accaduto in passato, si avrà la sensazione che siano tutti d'accordo ma passata l'onda emozionale, nulla cambierà. Ecco perché l'Italia deve mostrarsi unita nel pretendere aiuti immediati. Ecco perché tutti i partiti devono parlare con una sola voce senza far di nuovo divampare la polemica sulla revisione della legge Bossi-Fini ipotizzando modifiche impossibili da realizzare in questo clima politico. Il tempo della chiacchiere è finito. Adesso bisogna agire, in nome di quelle centinaia di persone morte due notti fa in Sicilia. E di tutti gli altri migranti che non ce l'hanno fatta.

Repubblica 5.10.13
Le tre cose da fare per poterci dire umani
di Gad Lerner


TRAGHETTI. La prima cosa che ci vuole sono traghetti sicuri verso porti accoglienti, quand’anche i politici non possano dirlo apertamente.
È questa la prima ovvia necessità se si vuole evitare che il Canale di Sicilia si trasformi in una nuova Fossa delle Marianne. Quel tratto di mare non è di per sé insidioso per la navigazione; diventa tale quando lo solcano barche malconce e stipate all’inverosimile. Peggio dei vagoni merci diretti a Auschwitz esattamente settant’anni fa, se proprio vogliamo fare il calcolo del numero di persone ammucchiate in una superficie più o meno analoga.
La differenza è che ad Auschwitz ci si andava deportati a morire, contro la propria volontà. Mentre sulle carrette del mare le persone si imbarcano volontariamente, pagando cifre con cui sugli aerei si viaggia in business class, nella speranza di vivere.
Per questo la prima urgenza sono i traghetti che garantiscano un trasporto civile e sicuro dalle coste africane verso porti europei attrezzati. Non solo perché lo impone il codice fondamentale dell’umanità. Ma anche perché il metodo inverso dei respingimenti in mare, dopo quattro anni di applicazione e dopo migliaia di morti, non è risultato dissuasivo. Sono disperati ma non certo stupidi i fuggiaschi dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia. Se continuano a partire assumendosi una così elevata percentuale di rischio, significa che lo considerano il male minore. Probabilmente hanno ragione. Hanno conosciuto ben altra ferocia che non la voce grossa di qualche politicante italiano. Hanno già visto morire troppa gente per tornare indietro dopo un naufragio.
Organizzando un adeguato servizio di navigazione per i migranti in fuga dalla guerra e dalla miseria — che resteranno peraltro una quota esigua rispetto al totale dei milioni di profughi accampati in attesa di fare ritorno alle loro case — le Nazioni Unite e l’Unione Europea infliggerebbero un duro colpo alle organizzazioni criminali degli scafisti. Esse lucrano enormi profitti, grazie ai quali diventano sempre più forti e pericolose. Fino ad impadronirsi di intere regioni e fino a sottomettere le istituzioni locali, com’è già avvenuto con i trafficanti d’armi e di droga. Illudersi di risolvere questo problema per via militare, rafforzando — come pure è necessario — il monitoraggio del canale di Sicilia con altre motovedette italiane o europee, è pura demagogia.
La seconda cosa da fare è restituire ai profughi il fondamentale diritto perduto: uno status giuridico certificato. Documenti d’identità validi. La convenzione di Ginevra del 1954 è superata. Oggi il diritto internazionale può avvalersi di una rete di codificazione informatica ben più efficiente, in grado di tutelare e sorvegliare le moltitudini di persone costrette alla mobilità. Se siamo stati capaci di organizzare il monitoraggio sistematico delle merci, cui viene garantita la libera circolazione, non si vede perché lo stesso non possa avvenire per gli esseri umani. È questione sovranazionale di volontà politica, ma anche di civiltà giuridica: la condizione di profugo ridotto all’apolidia, cioè deprivato di un passaporto valido e quindi impedito sia nel diritto a un lavoro regolare sia nel diritto alla mobilità regolare, ormai riguarda decine di milioni di persone. Va regolamentata prima che dia luogo a guerre di nuovo tipo. Non bastano le sanatorie, come quella promulgata dal governo Berlusconi nell’aprile 2011 in seguito alle primavere arabe. Anche se vale la pena ricordare che quella sanatoria riguardò in tutto 22 mila fuggiaschi, e che in quell’anno fatidico sbarcarono sulle nostre coste meno di 50 mila profughi. Fate voi la proporzione: 50 mila profughi in un paese di 60 milioni di abitanti. Restiamo sempre ben al di sotto delle cifre allarmistiche sparate dagli imprenditori politici della paura. Occorrerà certo attrezzarsi per accogliere e smistare un flusso in crescita dalla sponda sud del Mediterraneo, ma per favore non ci si venga a parlare di invasione.
La terza cosa da fare è una modifica della legge Bossi Fini del 2002 che ha di fatto irrigidito la normativa per il riconoscimento degli aventi diritto all’asilo politico. Sembra incredibile, ma ne ospitiamo una quota infima rispetto ai nostri partner europei, il che oggi ci rende poco credibili quando chiediamo aiuto a Bruxelles. Tanto più dopo l’introduzione del reato di clandestinità nel 2009, rivelatosi utile solo a “legittimare” la pratica illegale dei respingimenti in mare. È giusto pretendere che l’Europa non si volti dall’altra parte e che, potenziando le strutture comunitarie di Frontex, partecipi all’opera di accoglienza e monitoraggio dei profughi. Purché tale richiesta sia preceduta da un doveroso ripasso della storia e della geografia. La forma allungata della nostra penisola che si protende grazie a migliaia di chilometri di coste verso la sponda sud del Mediterraneo, ne determina una vocazione naturale; che i nostri antenati hanno saputo trasformare più volte in supremazia culturale, commerciale, finanziaria. Ciò che è valso per il passato, vale anche per il futuro: non c’è crescita, non c’è progresso italiano che non si avvalga di una relazione armoniosa con l’insieme del bacino Mediterraneo. Oggi la sponda sud è in fiamme, ma nel mare non si possono costruire dighe. E la penisola non può rattrappirsi.
Il lutto nazionale proclamato ieri dal nostro governo deve quindi essere valorizzato nel suo significato più profondo, che va oltre l’umana pietà: gli uomini, le donne e i bambini che muoiono nel tentativo di approdare sulle nostre coste appartengono alla nostra comunità, abbiamo un destino condiviso.

Corriere 5.10.13
Il governo dell'Italia riparte dal centro
di Paolo Franchi


Si tratterà pure di un «caso psicoanalitico», come sostiene, intervistato dal Mattino, Ciriaco De Mita. Ma sono sempre di più, sui giornali come nei talk show televisivi, quelli che ci intrattengono su un imminente ritorno in grande stile della Democrazia cristiana. Che troverebbe nei volti, nelle biografie, nel linguaggio e nello stile dei principali protagonisti della giornata (forse storica, sicuramente campale) del 2 ottobre, a cominciare da Enrico Letta e Angelino Alfano, la più clamorosa delle conferme. Si tratta, in generale, di chiacchiere più o meno colte, ma destinate a lasciare il tempo che trovano. Ma, a loro modo, segnalano una questione reale, e ingombrante. Proviamo a enunciarla seguendo un percorso a ritroso. Partendo, cioè, dalla fine.
Non è detto che nella tarda mattinata del 2 ottobre, a Palazzo Madama, si sia concluso il tempo di Silvio Berlusconi leader politico. Molti lo hanno dato per politicamente finito almeno quattro volte (nel 1994, nel 1996, nel 2006 e alla vigilia delle ultime elezioni) e, come è noto, si sono dovuti ricredere, prendendo malinconicamente atto che il Cavaliere dispone di sette vite come i gatti: se fosse così, decadenza o non decadenza, gliene resterebbero altre tre. Di sicuro, però, è finito e non si riaprirà, anche e forse soprattutto perché un Paese allo stremo non se lo può più permettere, un ciclo ventennale (quello del bipolarismo selvatico della cosiddetta Seconda Repubblica) che su Berlusconi è stato, nel bene e nel male, imperniato. Ma gli interrogativi cominciano proprio qui.
Può darsi che il domani ci riservi quel bipolarismo virtuoso, quella democrazia dell'alternanza finalmente matura, che nel trascorso ventennio sono stati occasione pressoché solo di nobili auspici e di commenti pensosi: e dunque una destra e una sinistra finalmente di stampo europeo, capaci di contendersi consensi al centro senza perdere troppi voti nel loro elettorato tradizionale, e di alternarsi al governo o, al contrario, di dare vita a grandi coalizioni nello spirito di chi laicamente considera tutte e due queste possibilità politicamente fisiologiche. Sarebbe, probabilmente, la soluzione migliore. Ma è anche la soluzione più difficile. Perché di questa destra (e, se vogliamo, pure di questa sinistra) in Italia ci sono scarse tracce. Con l'eccezione di due ventenni di cui è molto difficile andare fieri, quello fascista e quello della Seconda Repubblica, l'Italia è sempre stata governata dal centro di volta in volta possibile. Da un centro capace di tagliare le ali alla destra e alla sinistra e nello stesso tempo di cooptarne parti più o meno consistenti. A questo si riferisce, immagino, chi oggi (impropriamente) parla, per dolersene o per compiacersene, di un ritorno della Dc. All'idea che, in Italia, per motivi in larga misura ascrivibili ai caratteri di fondo della nostra storia, il centro sia quasi per necessità il motore, e non immobile, della politica intesa come arte, o scienza, delle soluzioni concretamente, storicamente possibili. Un motore che non può essere né asportato né cambiato in corsa (come proponeva di fare per il capitalismo, con le riforme di struttura, Riccardo Lombardi) senza che vengano meno le basi stesse di una stabilità politica che tutti considerano come un valore in sé.
A guardar bene, non ragionavano così solo i democristiani, ma persino i comunisti (Enrico Berlinguer con la sua strategia del compromesso storico, certo, ma prima ancora Palmiro Togliatti, che enunciò questa tesi anche per il Pci, e addirittura in forma di principio, in un aureo libretto, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, meritevole, nell'imminenza del cinquantenario della morte del Migliore, di attenta rilettura). E forse anche il Bettino Craxi dei suoi tempi migliori non la pensava troppo diversamente: che cos'era mai, altrimenti, quella «centralità socialista» che vagheggiava e si riprometteva di guadagnare, a costo di andare troppo per le spicce? Perdere il centro significava perdere la stabilità e la governabilità. Di diverso, anzi, di opposto avviso, è stata invece la gran parte non solo dei politici a vario titolo «nuovisti», ma pure larga parte della pubblicistica che vent'anni fa accompagnò con simpatia il combinato disposto tra iniziativa giudiziaria e strategia referendaria che prese il nome di «rivoluzione italiana». Altro che mettersi in cerca, dopo la consunzione, o peggio, di quelli tradizionali, di nuovi centri di gravità: per venire a capo dei nostri guai, corruzione compresa, non c'era che liberarsi, facendo appello alle virtù del sistema maggioritario, da questa ossessione. Difficile dire quanti tra quelli, numerosi, che all'epoca sposarono questa tesi siano ancora della stessa opinione, e quanti invece siano arrivati a conclusioni opposte. Ma, se non vogliamo diventare centristi per stato di necessità, o anticentristi per fedeltà a un antico atto di fede, piuttosto che stare a chiedersi pensosi quali e quanti tratti neodemocristiani siano rintracciabili in Letta o in Alfano, sarebbe bene discuterne. E magari anche fare qualche autocritica per talune nostre indebite euforie del passato.

l’Unità 5.10.13
Ricominciamo da sinistra
di Michele Ciliberto


È di moda in questi giorni parlare dei moderati, e si capisce. Del resto, proprio l’Unitàtempo fa aveva avviato una discussione su questo argomento diventato particolarmente importante, e urgente, in questi giorni.
Ma non è possibile affrontarlo in modo isolato, senza porre, contemporaneamente, il problema dei democratici, della sinistra. Vorrei provare a intervenire cambiando il punto di vista e utilizzando due categorie: «dominio» e «direzione» (avrebbe detto Gramsci); «forza» e «consenso» (secondo il lessico di Croce). In che modo si sono configurate nella storia italiana, e in che modo si è trasformato se e quando è accaduto il loro rapporto?
La mia tesi è questa: le classi proprietarie italiane si sono mosse alternativamente lungo questi due poli nella loro azione politica e di governo; e questa scelta è stata determinata dal tipo di rapporto che hanno deciso di avere con le classi subalterne. A sua volta, questa scelta è dipesa in modo diretto dai livelli di organizzazione delle classi subalterne, dal loro grado di autonomia ideale, culturale, politica. Sono, storicamente e politicamente, processi intrecciati. Procedo in modo sommario, e me ne scuso. Nel Risorgimento, Cavour e la classe dirigente da lui formata riuscì a «dirigere», oltre che a «dominare», il Partito d’Azione, cioè le forze democratiche: fu questo il suo «capolavoro», anche se va detto che, senza Mazzini, Vittorio Emanuele di Savoia avrebbe continuato per tutta la vita ad andare a caccia nella riserva del Gran Paradiso. Discorrendo di Cavour e di Garibaldi, Omodeo, secondo una logica idealistica, arrivò a parlare, addirittura, di due forze distinte e opposte che si riunificavano nell’alveo unitario della costruzione del nuovo Stato nazionale. Si può discutere il «provvidenzialismo» di questa tesi, ma al fondo è corretta.
Le cose cambiarono però quando le classi subalterne si organizzarono idealmente, culturalmente e politicamente con la costituzione del Partito socialista: allora il momento del «dominio» divenne prevalente nelle classi proprietarie, fino alle scelte di carattere militare, come avvenne a Milano con Bava Beccaris.Sta qui, per contrasto, la grandezza di Giolitti: capì che non era questa la via da battere e che se si voleva costruire, come egli voleva, un Paese moderno occorreva puntare sul «consenso», fare cioè i conti con il Partito socialista e i suoi dirigenti riformisti, una scelta che lungo il primo decennio del secolo scorso egli fece con coraggio e determinazione. Le difficoltà e il carattere «minoritario» del suo progetto sono testimoniati dalle reazioni che provocò nella generazione dei giovani come Papini o in personalità come Salvemini; o anche in Benedetto Croce che, molti anni dopo, riscattò l’età giolittiana nella Storia d’Italia. Giolitti fu una felice stagione nella vita del Regno d’Italia, permanentemente insidiata e per certi versi irripetibile. Con la guerra ritornò il tempo della forza, del «dominio», culminato nell’avvento del fascismo: «dominio» allo stato puro, disfatta politica delle classi subalterne, dittatura.
È con la fine del Regime, la Resistenza, la nuova Costituzione, che la situazione cambiò, e in Italia arrivò al potere la Dc, che avviò e sviluppò una politica imperniata sia pure con gravissimi momenti di caduta sul «consenso» delle classi subalterne, situandosi, in modi strategici, sul terreno della democrazia di massa. Ma questo mutamento di rotta, oltre che da posizioni democratiche maturate fra i cattolici, fu reso possibile, e inevitabile, dalla riorganizzazione ideale, culturale e politica delle classi subalterne e dalla loro assunzione di un ruolo da protagoniste nella storia nazionale, sotto la guida del Pci e del Psi.
Con la Dc al governo e le forze della sinistra in Parlamento, le tendenze «estremistiche» delle classi proprietarie furono controllate e contenute, nel quadro di una politica che dal centro guardava a sinistra. Il berlusconismo è stato la rottura drastica di questa tradizione: l’estremismo è tornato al posto di comando, e il «dominio» si è imposto sulla «direzione» e sul «consenso» tradizionalmente concepito. Dico tradizionalmente perché e qui sta la sua specificità esso ha intrecciato in forme nuove «direzione» e «dominio», riuscendo a estendere, in forma mai vista, il proprio «consenso» grazie a due elementi: un uso del tutto nuovo dei media e la diffusione di nuovi modelli culturali, sociali, antropologici; e, soprattutto, la crisi delle organizzazioni politiche e dell’autonomia culturale e ideale delle classi subalterne, entrate in un buco nero da cui stentano ancora oggi ad uscire, accentuata dalla connessa disgregazione dei loro blocchi sociali. Senza questa crisi, favorita dalle trasformazioni a livello internazionale, il berlusconismo non si sarebbe imposto per venti anni.
Oggi Berlusconi è alla fine. Ma la sua fine coincide con quella del berlusconismo, cioè con un sistema di governo delle classi proprietarie basato sulla forza e su un nuovo intreccio di «direzione» e di «dominio»? Con il capo è finito il sistema? Fa una certa impressione vedere oggi presentarsi come «Italia nuova» gente che gli è stata intorno per anni come collaboratori, non voglio dire cortigiani, fedeli; gente che ha compiuto sotto la sua ala tutto il suo cursus honorum. Non credo, francamente, che di qui possa venire una svolta.
Sono, certo, persuaso che le forze proprietarie italiane debbano assumersi, in forme nuove e direttamente, le loro responsabilità, chiudendo la lunga stagione del berlusconismo. Ma, come si vede in questi giorni, non è un processo facile, lineare. Così come è una illusione pensare che esse si avviino, per libera scelta, su questa strada; tutta la loro storia dice un’altra cosa e se trovassero spazio, sarebbero prontissime a riprendere la vecchia strada. Come diceva quel tizio, la politica non si fa con i paternostri: e con questa battuta si torna all’analisi che ho cercato di svolgere prima. Come insegna la storia d’Italia, se si vuole uscire dal berlusconismo e cominciare a scrivere un diverso libro, è indispensabile che le forze della sinistra si riorganizzino, e a fondo, sul piano ideale, culturale, politico; ed è necessario che esse ricostruiscano la loro autonomia, costruendo un forte schieramento in grado di raccogliere tutte le forze del cambiamento. Solo in questo modo, esse possono costringere le forze proprietarie a muoversi in nuove direzioni e a liquidare la strategia degli ultimi venti anni. Sono processi che procedono di pari passo; ma oggi è soprattutto la sinistra che ha la massima responsabilità, se si vuole aprire una nuova stagione nella vita della Repubblica: è tempo che prenda, con forza, l’iniziativa.

l’Unità 5.10.13
Come uscire dal berlusconismo
L’orologio della storia non consente ritorni nostalgici. Io non credo alle «rifondazioni»
Il Pdl deve diventare europeo. Ma anche il Pd deve sciogliere il nodo del Pse al congresso
di Emanuele Macaluso


Di fronte alle drammatiche immagini di immigrati in cerca di un lavoro e di pane, morti annegati nel Mediterraneo, il ministro Alfano e altri dirigenti politici del Pdl e del Pd hanno invocato una politica e un intervento europeo. Giusto. Ma cosa hanno fatto Pdl e Pd per costruire una politica europea in questo campo come in altri?
Nel Pdl ha covato un antieuropeismo mascherato dalle polemiche contro la Merkel, mentre questo partito con la leadership di Berlusconi non ha avuto più voce né nel Partito popolare europeo, né nei governi e nella Ue. Casini si agita, anche giustamente, per costruire in Italia un partito omogeneo al Ppe, ma la confusione nel Pdl-Forza Italia è grande. La odiata Merkel non è l’anima e buona parte della sostanza politica del Ppe? Capisco che uscire dal berlusconismo è un’impresa politica complessa dopo vent’anni di partito personale. Ho visto segnali importanti manifestatisi nei giorni scorsi in Parlamento, ma l’approdo
della crisi, per molti versi irreversibile, del Pdl-Forza Italia, non è ancora visibile. E, se le cose restano tra l’essere e il non essere, il ruolo di questo partito in Europa sarà ancora zero.
Nel Pd la vocazione europeista è più evidente ma la prospettiva politica, l’approdo, anche congressuale, di questo partito in cerca di identità, sono incerti. La scelta europea è necessaria anche per definire il sistema politico italiano. Io considero un fatto positivo, molto positivo, la fiducia ottenuta dal governo Letta dopo il fallimento dei tentativi di Berlusconi di metterlo in crisi per aprire una falla ancora più grave, coinvolgendo le stesse istituzioni. E ancora una volta essenziale è stato il ruolo del presidente della Repubblica, che ha tutelato interessi vitali del Paese. Non a caso la signora Santanché ha dichiarato che l’errore più grave del Pdl è stata la rielezione di Napolitano. È la stessa analisi di Padellaro e Travaglio. «Tanto peggio, tanto meglio» è la vocazione dell’estremismo parolaio a destra e a sinistra.
Ora il governo ha tempo e possibilità di attuare il programma esposto con chiarezza da Enrico Letta anche nel campo delle riforme costituzionali ed elettorali per razionalizzare e rendere più democratico il sistema politico. Ma i partiti devono fare la loro parte e rendere chiare le loro identità e prospettive. Dico questo perché in questi giorni si è molto chiacchierato sul ritorno della Dc, sul fatto che Letta e Alfano, come Franceschini e Lupi, come Renzi e Mauro, hanno radici nella Dc e nel mondo cattolico e possono avere un comune progetto politico. Io non ho mai creduto alle «rifondazioni» comunista, democristiana, socialista, ecc... L’orologio della storia non consente ritorni nostalgici. Osservo invece con interesse che nel mondo cattolico qualcosa si muove anche sull’impegno politico: ne ha parlato il Papa. E non ci sono sfuggiti gli scritti apparsi sull’Osservatore Romano, su l’Avvenire, su Famiglia Cristiana per incoraggiare le forze che nel Pdl vogliono chiudere la fase del berlusconismo. Ma so anche che non c’è e non ci sarà più una unità politica coatta dei cattolici, figlia della guerra fredda, spezzatasi con la fine di quella fase. Il problema non è dei cattolici e dei presunti rifondatori della Dc, ma del Pd e solo del Pd: o col congresso si dà una netta identità, o negli equivoci si dissolverà. In Germania la piattaforma politica dei socialdemocratici era chiaramente alternativa a quella della Merkel. La quale ha vinto le elezioni, ma non ha la maggioranza. E, se ci sarà la grande coalizione, questa nascerà sulla base di un transitorio compromesso. Il Pd non può avere come referenti, insieme, i democristiani tedeschi e i socialdemocratici. Il presidente del Consiglio fa bene a tessere rapporti con tutte le cancellerie europee. Ma il Pd non può stare con un piede in due scarpe. E spero che anche nel centrodestra maturi una forza nettamente integrata nel Ppe. Attenzione, o il congresso del Pd scioglie questo nodo o anche il governo, senza un profilo chiaro, sarà molto più debole.

il Fatto 5.10.13
Corruzione, truffa e falso ideologico: inchiesta a Bari sulle nomine dei professori
Associazione a delinquere per pilotare i concorsi per docenti negli atenei italiani
Pressioni sulla supercommissione denunciati 5 saggi di Napolitano
Avrebbero condizionato la composizione dell’organismo nazionale che decide l’accesso alla professione
Tra i 38 finiti nel mirino dei magistrati i nomi di Barbera, Caravita, De Vergottini, Salazar e Violini, voluti dal capo dello Stato lo scorso giugno nel pool di esperti per “riformare” la Costituzione
di Antonio Massari


In quali mani è la nostra Costituzione? Una risposta ce l’hanno i pm e gli investigatori della Guardia di Finanza che, sull’asse Roma – Bari, indagano con la procura di Bari: cinque “saggi”, incaricati dal presidente Napolitano di riformare la Carta Costituzionale, sono stati denunciati dalla Gdf per truffa, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e falso ideologico.
L’INCHIESTA conta ben 38 persone al momento denunciate: docenti accusati d’aver costituito un’associazione per delinquere che ha pilotato, negli ultimi tre anni, i concorsi per diventare professori nelle università italiane. Tra loro anche i cinque “saggi” Augusto Barbera e Giuseppe de Vergottini dell’università di Bologna,? Carmela Salazar dell’’Università di Reggio Calabria, Lorenza Violini dell’Università di Milano e Beniamino Caravita della Sapienza di Roma. Quest’ultimo ha subito una perquisizione già due anni fa. Ma secondo il suo legale, Renato Borzone, il professor Caravita “non ha alcuna responsabilità e, a giudicare dal numero di proroghe, l’indagine dovrebbe essere già conclusa”. In realtà siamo in fase d’indagine preliminare, quindi tutti gli eventuali reati sono da accertare nelle sedi giudiziarie, ma lo spaccato che emerge dall’inchiesta appare da un lato desolante, dall’altro devastante, per l’intera università italiana. E non solo. Mentre erano in corso le indagini, infatti, ben 5 denunciati sono stati elevati al rango di saggi della Repubblica, con incarico conferito direttamente dal presidente Napolitano. E oggi, alla luce dell’inchiesta, possiamo rileggere alcune cronache dell’epoca: “Se si dà retta alle indiscrezioni – scriveva laStampa - Napolitano pare abbia personalmente depennato svariati nomi che non gli sembravano consoni al ruolo o comunque al-l’altezza della sfida istituzionale”. Oppure il Foglio: “Trentacinque prof. d’obbedienza quirinalizia per fiancheggiare Letta e attutire le intemperanze dei partiti”, titolava, menzionando una frase del Presidente - “Ricordatevi che la vostra non sarà una lotta tra guastatori e difensori della purezza costituzionale” – e aggiungendo: “Li ha coccolati con lo sguardo mentre li ha accolti al Quirinale, tutti e trentacinque quanti sono questi suoi professoroni costituzionalisti, il meglio degli atenei d’Italia, i suoi “saggi”, lo strumento ricorrente e permanente della politica presidenziale di Giorgio Napolitano…”.
Cinque di loro, però, sono finiti denunciati nell’inchiesta condotta dal pm di Bari Renato Nit-ti, in collaborazione con la Guardia di Finanza, e le accuse sono piuttosto dure. L’inchiesta nasce quattro anni fa, nel 2009, quando Nitti indaga su un concorso bandito dall'Università telematica Giustino Fortunato. È quello il primo momento in cui, la procura barese e la Gdf, incappano nelle vicende dell’istituto di diritto Costituzionale. Gli investigatori intercettano il professor Aldo Loiodice, che è professore ordinario di Costituzionale ed è anche il rettore della Giustino Fortunato, ma nel frattempo interviene la riforma del-l’ex ministro Gelmini, che cambia le regole del concorso.
IL LOCALISMO è destinato a finire: nasce una super commissione nazionale, per ogni singolo istituto universitario, che dovrà poi nominare i futuri professori. Il primo concorso dovrebbe chiudersi proprio nelle prossime settimane. La Finanza, nel frattempo, ascolta in diretta telefonate e strategie dei docenti, che si confrontano con il modello Gelmini, e scopre il tentativo di far eleggere, nella commissione nazionale, professori ritenuti avvicinabili: lo scopo, secondo l’accusa, è quello di manipolare i concorsi e pilotare le nomine. I 38 denunciati – tra loro anche Annamaria Bernini e Federico Gustavo Pizzetti di diritto pubblico comparato - appartengono a ben 8 diverse università. Gli istituti finiti nel mirino degli investigatori, per il concorso in questione, sono tre: diritto Costituzionale, diritto Canonico ed Ecclesiastico e diritto Pubblico Comparato.
Il professor Augusto Barbera nega qualsiasi coinvolgimento: “Non potevo ricevere pressioni, poiché non sono in commissione, e non ne ho esercitate, quindi non capisco in che modo possa essere coinvolto. Se qualcuno ha fatto il mio nome a sproposito non posso saperlo. Posso soltanto dire di essere estraneo alla vicenda. Con la riforma Gelmini, poi, gli accordi non sono possibili: la commissione è sorteggiata su centinaia di nominativi. Certo, poi può sempre accadere che un collega faccia qualche pressione”.
UN ‘SAGGIO’, dinanzi a un eventuale avviso di garanzia, non dovrebbe rimettere il proprio mandato? “La commissione s’è chiusa il 17 settembre 2013: il nostro compito è finito. Se poi arriva un avviso di garanzia, e io non ne ho ricevuti, ognuno si comporta secondo la propria sensibilità: potrei dire che sono disposto a dimettermi, anche se avendo concluso il mio compito non sono più un saggio e, soprattutto, un avviso di garanzia non significa nulla, anzi, si tratta di un atto a garanzia del-l’indagato. Piuttosto, posso dire che se dovessi ricevere un avviso di garanzia, sarei immediatamente disponibile a collaborare con la magistratura perché questo è il mio primo dovere”.

il Fatto 5.10.13
Roma, arrestati per stupro tre poliziotti
di Rita Di Giovacchino


È una storia di straordinaria violenza contro le donne quella di cui sono accusati tre poliziotti del commissariato di San Basilio, caserma alla periferia di Roma, arrestati ieri dalla squadra mobile guidata da Renato Cortese con l'accusa di aver stuprato due giovani donne “abusando” della loro autorità e dello stato di soggezione delle vittime, in quel momento prive della libertà personale.
Uno di loro è Massimo Selva, facente funzione di commissario capo, gli altri due sono l'ispettore Sandro Contardo e il collaboratore tecnico Alessandro Stronati. Per loro c'è anche l'aggravante della violenza di gruppo. Due storie diverse, avvenute a distanza di un anno l'una dall'altra, ma che per i comportamenti e la disinvoltura manifestati fanno temere una certa “abitualità nella gestione di situazioni analoghe”, come scrive il gip Tiziana Coccoluto in una delle ordinanze.
Il primo episodio risale al giugno 2012 ed è quello che più colpisce per la giovane età della vittima. I. T. è una ragazzina che ha poco più di 18 anni, è incensurata e ha aspettato oltre un anno prima di denunciare l'accaduto, troppo spaventata e traumatizzata per confidarsi con la madre che per caso, ascoltando una telefonata con l'ex ragazzo, ha scoperto cosa era avvenuto e l'ha convinta a sporgere denuncia.
La giovane era stata fermata in compagnia del fidanzato e di tre amici dopo una partita degli Europei di calcio, tutti e cinque sono stati portati in caserma per accertamenti essendo stato trovato uno dei ragazzi in possesso di uno “spinello”.
All'interno della caserma I. T. è stata separata dagli amici non per essere affidata a un’assistente donna, ma per restare in balia del commissario che abusivamente, secondo l’accusa, l'ha trattenuta negli uffici del commissariato fino all'alba. Nessun motivo giustificava il fermo: la giovane era stata identificata, non aveva commesso reati, non era in possesso di droga.
L'intera ricostruzione della nottata fa sospettare che ci fosse una sorta di premeditazione da parte del commissario Selva che, soltanto dopo che gli ultimi due colleghi erano usciti, ha braccato la ragazza, le ha tirato giù i pantaloncini e l'ha violentata. Questa la ricostruzione dell’accusa. I. T. ha raccontato di aver tentato di allontanarsi, di sfuggirgli senza avere la forza di ribellarsi fino in fondo se non di fronte alla richiesta di un rapporto orale.
Il commissario fino a quel momento aveva agito con autorità, gli aveva lasciato intendere che il suo ragazzo era nei guai e all'alba, quando si è trovata fuori la caserma, ha raggiunto gli amici e con loro si è confidata, convinta di averli salvati dall'arresto per quello che era successo. Non aveva avuto il coraggio di parlarne con la madre, lo aveva però detto ai genitori del suo ragazzo, ma ha resistito mesi all'idea di presentare una denuncia temendo ritorsioni. Anche di fronte ai magistrati è apparsa impaurita e titubante.
La storia della giovane cubana è diversa: A. L. è una prostituta, ha il marito in carcere. Sono frequenti gli episodi in cui i poliziotti abusano di donne di vita per ottenere prestazioni sessuali. In questo caso si è trattato di una violenza brutale, annunciata da due visite preliminari, non giustificate in alcun modo da esigenze di ufficio, e già in una di queste la donna era stata costretta a spogliarsi nuda. La seconda volta in modo esplicito le era stata annunciata un “controllo” notturno e lei, temendo quel che sarebbe accaduto, aveva nascosto sotto il letto un registratore. Sul nastro ci sono le urla di dolore, gli insulti volgari: una violenza a due, che si è protratta per ore, non ha escluso sodomizzazioni e altre forme di violenza fisica. Cosa accade al commissariato San Basilio? Ma soprattutto, accade soltanto al commissariato San Basilio?

l’Unità 5.10.13
Addio al generale Giap
Muore la leggenda del Vietnam, che creò l’esercito di liberazione del suo Paese
Vo Nguyen aveva 102 anni ed era alto solo un metro e mezzo. Eppure fu un grande: riuscì prima a scrollarsi di dosso l’occupazione coloniale francese e poi a costringere alla fuga gli americani
di Gabriel Bertinetto


AVEVA CON SÉ 33 COMPAGNI VO NGUYEN GIAP IN QUEL GIORNO DI DICEMBRE DEL 1944, IN CUI NEL CUORE DELLA JUNGLA GIURÒ SOLENNEMENTE DI COMBATTERE FINO ALLA MORTE PER SOTTRARRE LA PATRIA AL DOMINIO STRANIERO. Di quel drappello di fieri nazionalisti, armati di inesauribile entusiasmo, due pistole, diciassette mitra e una mitragliatrice, Giap era il capo. A lui il leader del Partito comunista indocinese Ho Chi Minh aveva affidato il compito di costruire dal nulla l’esercito di liberazione del Vietnam.
Giap è morto ieri all’età di 102 anni in un ospedale di Hanoi dove era ricoverato da tempo. È anche grazie alle sue straordinarie doti di stratega, se il Vietnam riuscì prima a scrollarsi di dosso l’occupazione coloniale francese e poi a costringere alla fuga gli americani che avevano tentato di tenere in vita un regime amico nel sud del Paese.
Per i connazionali Giap è una leggenda, tanto che per consacrarne il mito nel 2012 gli è stato dedicato un museo, come si fa di solito con gli eroi scomparsi. Di fatto Giap era fuori gioco da molto tempo. Abilissimo a vincere i nemici sul campo di battaglia, non è stato altrettanto bravo o fortunato a scontrarsi con i rivali nell’arena politica. La sua progressiva emarginazione inizia, per così dire, quello stesso 30 aprile 1975, in cui l’ultimo elicottero si alza in cielo dal recinto dell’ambasciata Usa a Saigon, stracarico di americani e vietnamiti anticomunisti in fuga. Da quel momento in poi Giap come guida militare e dirigente di partito diventa ingombrante. Alla causa della riunificazione e della ricostruzione una venerabile icona serve molto di più che un individuo che non nasconde le riserve critiche verso l’operato dei compagni di partito.
A poco a poco gli incarichi ufficiali perdono di peso. Nel 1976 gli tolgono il comando delle forze armate. Quattro anni dopo decade da ministro della Difesa. Nel 1982 esce dal Politburò. Compare alle manifestazioni pubbliche per le grandi feste nazionali, ma i suoi discorsi vengono censurati. Durante un dibattito del Comitato centrale gli strappano il microfono di mano per tappargli la bocca. Nel 1996 viene estromesso dal Comitato centrale e perde la carica di viceministro dell’Economia. Ma è troppo popolare e troppo noto a livello internazionale per essere eliminato del tutto dalla scena. Anche perché Giap resta un convinto sostenitore del sistema, pur schierandosi dalla parte di coloro che vorrebbero spingere sul tasto delle riforme. L’ultima presa di posizione anticonformista nel 2009 ha per bersaglio progetti di sviluppo ecologicamente disastrosi riguardanti lo sfruttamento dei giacimenti di bauxite.
Era altro un metro e mezzo. Chi l’ha conosciuto da vicino lo descrive come «un vulcano nascosto sotto una coltre di neve». L’espressione vietnamita è molto più concisa: Nui Lua. Freddo e arrogante in superficie, ma dotato di una formidabile energia, capace di paurose esplosioni di collera. Mostrava attitudine al comando già ai tempi della scuola e dell’insegnamento in un liceo di Hanoi.
Lo chiamavano «Napoleone», non a caso, perché del generale corso era un grande ammiratore. Come combattente della causa anti-imperialista, Giap non poteva apprezzarne il disegno politico di conquista. Ma ne aveva studiato attentamente le tecniche di conduzione bellica, soprattutto il ricorso frequente all’«effetto sorpresa». Ed è ispirandosi a quel criterio d’azione che Giap gestì le due cruciali campagne del 1954 contro i francesi e del 1975 contro gli americani. Nel primo caso resistette alle pressioni dei cinesi (allora alleati) per attaccare a Dien Bien Phu già nel gennaio, ritirò le truppe e mosse al contrattacco solo quando fu sicuro che i francesi erano certi di avere sgominato il nemico. Nel 1975 finse di colpire a Danang dove erano asserragliati i sudvietnamiti e puntò invece dritto su Saigon.
Figlio di contadini, brillante negli studi. Aveva quindici anni nel 1926 quando gli capitò fra le mani l’opuscolo di un illustre connazionale, dal titolo ambiziosamente problematico: «Colonialismo alla prova». E come raccontò più volte in seguito, il suo destino fu da quel momento segnato. Quel connazionale si chiamava Ho Chi Minh che in seguito nel 1937 lo convinse a iscriversi al partito comunista. Con lui nel 1940 passò in Cina in cerca di aiuti per organizzare la rivoluzione in patria.
Quando tornò in Vietnam cercò invano la moglie sposata nel 1939, dalla quale gli era nata una bambina. Seppe solo molti anni dopo che la polizia francese l’aveva arrestata e rinchiusa nel carcere che con macabra ironia veniva chiamato Hanoi Hilton. Ancora non si sa se morì sotto tortura o suicida.

il Fatto 5.10.13
Il Napoleone vietnamita nemico n° 1 di Francia e Usa
Il generale Giap muore a 102 anni- In sodalizio con Ho chi min combattè i giapponesi, cacciò i francesi, sconfisse gli americani
L’intero Paese è in lutto
di Stefano Citati


Ha ricacciato gli invasori giapponesi, francesi, americani, divenendo un simbolo vivente del Vietnam, quasi immortale. Incarnò il destino di una “rivoluzione permanente” contro gli aggressori non solo occidentali. Ma a 102 anni, il leggendario generale Vo Nguyen Giap si è arreso: il “Napoleone rosso” - come lo definì la rivista Time - si è spento nel Vietnam che lui contribuì a riunificare. Era l’ultimo erede della vecchia guardia rivoluzionaria, lo stratega militare che sconfisse i colonizzatori francesi a Dien Bien Phu, secondo solo al padre della patria Ho Chi Minh (lo ‘zio Ho’) nel cuore dei vietnamiti.
Giap è morto ieri sera nell’ospedale militare dove era ricoverato da 4 anni, indebolendosi progressivamente. La notizia, ancor prima di essere annunciata ufficialmente dal Partito comunista di Hanoi, ha fatto il giro dei social network - divenuta nel frattempo una nuova “Tigre asiatica”, aperta agli investimenti stranieri e meta alternativa alla Cina - anche in Vietnam, dando il via a un fiume di commenti di cordoglio.
AGITATORE anti-francese già durante gli studi di giurisprudenza e poi come insegnante di storia (con una passione per Robespierre), Giap incontrò Ho Chi Minh in Cina nel 1940: fu l’inizio di un sodalizio durato tre decenni. Sebbene privo di formazione militare formale (“Mi sono diplomato all’accademia della giungla”), Giap fu incaricato dal leader rivoluzionario di guidare la resistenza agli invasori giapponesi durante la II guerra mondiale. Con la fine del conflitto e il ritorno dei francesi, gli scalcagnati ma determinati guerriglieri Vietminh iniziarono a logorare ai fianchi le truppe di Parigi. La progressiva escalation culminò nel 1954 con l’assedio di Dien Bien Phu. I francesi lo consideravano un fortino inespugnabile e il perno da dove schiacciare la guerriglia. Ma Giap, meticoloso e irruente genio della logistica soprannominato “vulcano coperto di neve”, lo assediò per 56 giorni, facendo capitolare i colonialisti, che lasciarono il Paese da lì a breve. Con un Vietnam diviso in due dagli Accordi di Ginevra, e l’arrivo degli americani a sostegno del Sud, Giap guidò l'esercito del Nord per tutto il conflitto contro il gigante Usa, che sapeva di non poter vincere in modo convenzionale. “Volevamo rompere la volontà del governo di Washington di continuare la guerra”, dichiarò poi.
Ci riuscì, fiaccando un nemico dall’enorme superiorità militare con una guerriglia tenace e trovate logistiche come il “sentiero di Ho Chi Minh” tra Laos e Cambogia per i rifornimenti verso il Sud. L’offensiva del Tet, scatenata dalle truppe nord-vietnamite e guerriglieri Vietcong alla fine di gennaio del 1968, fu l’ultimo momento di gloria sul campo.
Ma dopo la scomparsa di ‘zio Ho’ nel '69, anche per l'incompatibilità col successore Le Duan, Giap fu gradualmente emarginato dai vertici militari e poi politici: uscendo definitivamente nel 1982 dal Politburo di un regime sempre più mummificato nel socialismo reale. La sua aura non fu compromessa: ritiratosi nella lussuosa residenza di Hanoi, dove riceveva leader mondiali, rimase un simbolo di memoria storica e ispirazione morale di un Paese uscito a pezzi da decenni di conflitti, con prese di posizione anticonformiste che lo resero ancora più caro alla popolazione.

Corriere 5.10.13
Quando incontrai il piccolo uomo senza pantofole
di Ettore Mo


Quando lo incontrai la prima e unica volta nel febbraio del 1998 il generale Vo Nguyên Giap stava per compiere 87 anni: non avrei mai pensato allora, benché fosse in ottima forma, che avrebbe raggiunto la seconda decade del Duemila. Uomo odiato e venerato, resta comunque uno dei massimi protagonisti e dei miti della storia del Vietnam. Devo a Milena Gabanelli, che era riuscita a instaurare un rapporto privilegiato con la moglie del comandante — Bich Ha — se, dopo tanti rifiuti, mi venne concessa un’intervista: che ebbe luogo nella sua bella casa coloniale al centro di Hanoi. Per una volta, la mia modestissima statura non mi creava problemi, dal momento che l’eroe di Dien Bien Phu e di tante altre epiche battaglie non superava l’uno e sessanta. Aveva trascorso parte della sua vita: nella giungla, in trincea e nelle caverne. «Non sono mai riuscita a fargli infilare le pantofole — si rammaricava la moglie —. Ma anche quando non era al fronte, dedicava il suo tempo ai problemi del Paese, politici, economici, sociali. Da giovane ha fatto anche il giornalista, ma la sua penna era un’arma micidiale».
«Sono stato rivoluzionario fin da bambino — raccontava —. Nel piccolo villaggio di An Xa, dove abitavamo, mio padre mi leggeva i poemi eroici e mia madre mi parlava delle lotte contro i francesi che il nonno aveva combattuto. Poi, a 14 anni, mi spedirono a Hué, al liceo franco-vietnamita, che era una fucina di teste calde. Finii in prigione nel ’30, ero poco più di un ragazzo». Quindi, le tragedie familiari: la prima moglie che finisce in carcere, mentre la sorella maggiore di quest’ultima viene processata e fucilata dai francesi. Alla fine un ricordo particolarmente doloroso nell’Odissea di Giap: suo padre arrestato e condannato all’ergastolo finirà i suoi giorni dietro le sbarre.
La convivenza coi francesi era ormai diventata intollerabile. Il giovane Va Nguyên Giap era affascinato come tanti suoi coetanei dai saggi di Ho Chi Minh che aveva analizzato la struttura del sistema comunista in Europa, a Mosca, a Pechino. «Il Vietnam ha subito molte occupazioni durante il millennio — spiegava il generale durante le lezioni di Storia, aggiornandole al presente — ma questa volta la guerra per l’indipendenza assume caratteristiche nuove, particolari, perché Ho Chi Minh è riuscito a creare un’alleanza tra nazionalismo e movimento operaio e contadino. Dal ’40 in poi questa è una guerra diretta dal popolo e per il popolo e non più dalle teste coronate e dall’aristocrazia del denaro». Non sono pochi gli esperti militari che hanno cercato di ridimensionare la leggenda Giap, rimproverandogli gli 8 mila morti di Dien Bien Phu e i 10 mila di Khe Sanh, pur di assicurarsi la vittoria sul campo. Ma il suo nome resta indissolubilmente legato all’offensiva del Tet quando «posizionò» migliaia di uomini a Sud del 18esimo parallelo per un attacco simultaneo (riuscitissimo) su 35 grossi centri urbani. Purtroppo, dopo tanti successi militari lo sviluppo economico sociale, lamentava il generale, «è stato frenato da una burocrazia viziata e bisogna combattere la concussione e la corruzione che dilagano ovunque». Alla fine, la più grande aspirazione dell’eroe di Dien Bien Phu era quella di essere ricordato come «generale di pace».

Repubblica 5.10.13
Addio al generale Giap il genio della guerra che piegò l’Occidente
Vietnam, muore a 102 anni lo stratega di Dien Bien Phu
di Bernardo Valli


PARIGI MA QUELL’ uomo di non imponente statura, un po’ impacciato, esitante nell’avviare un discorso quasi fosse timido, appassionato di storia, senza la minima frequentazione di un’accademia militare o di una scuola di guerra, nei capitoli di storia, non solo militare, già dedicatigli, supera quei celebri capi di guerra, poiché vi figura come il solo generale che ha sconfitto separatamente due potenze occidentali : la Francia e gli Stati Uniti. Per quel che riguarda questi ultimi è una vittoria senza precedenti. Nessuno li aveva battuti prima di lui. Nessun esercito di quel che chiamavamo terzo mondo aveva mai battuto due eserciti occidentali moderni (a parte la remota vicenda italiana di Adua).
La prima, la Francia, Giap l’ha battuta a Dien Bien Phu nel maggio ’54. I secondi, gli Stati Uniti, li ha costretti ad abbandonare militarmente il Vietnam del Sud, e tre anni dopo, nel ’75, ha sbaragliato il regime che si erano lasciati alle spalle. Costringendo l’ambasciatore americano a fuggire in elicottero con la bandiera stellata sotto il braccio. Se si valutano le conseguenze politiche delle guerre vinte da Giap ci si accorge che ilfiglio di un modesto mandarino del Vietnam centrale è stato uno dei principali personaggi delle seconda metà del XX secolo.
Ha sconfitto l’Armée della Quarta repubblica a Dien Bien Phu avviando il successivo crollo dell’impero coloniale francese, sulle cui rovine, quattro anni dopo, nel 1958, durante la guerra d’ Algeria, sarebbe nata la Quinta repubblica fondata dal generale de Gaulle, richiamato d’urgenza al potere. In quanto all’America, vittoriosa in due guerre mondiali, ha sentito l’umiliazione della sconfitta inflittale da un esercito di contadini. Ma è durante quella guerra, vinta da Giap, che si è consumata la rottura tra Unione Sovietica e Cina, i due grandi sostenitori del Vietnam comunista. Rottura che ha accelerato, ha contribuito all’implosione dell’Urss nel decennio successivo.
È morto dunque, a centodue anni, nel suo Vietnam, non più coloniale come alla sua nascita, non più diviso come nei decenni delle sue guerre, meno comunista di come forse lo voleva, ma saldamente riunificato e indipendente, un personaggio che ha lasciato un segno profondo nel secolo alle nostre spalle. Nato nell’ Annam rurale, popolato oltre che da contadini da una classe di intellettuali nazionalisti, funzionari riluttanti dell’amministrazione coloniale francese, il giovane Giap ha frequentato il liceo e ha divorato la storia dei tenaci strateghi vietnamiti per secoli in lotta contro gli invasori cinesi. Si è appassionato anche delle spedizioni napoleoniche in Europa, ampiamente raccontate nei testi universitari, studiati quando ha poi frequentato, saltando da una all’altra, le facoltà di storia, di legge e di economia. Quando il capo nazional-comunista Ho ChiMinh l’ha incontrato si è trovato davanti un giovane dallo sguardo spiritato, più incline a parlare di guerriglia che di leggi e di economia. Il comunismo li univa in quanto unica ideologia, secondo loro, in grado di combattere il colonialismo. La disciplina e la prospettiva di un mondo migliore per i contadini condannati al lavoro nelle risaie avrebbero favorito l’organizzazione clandestina e la mobilitazione politica.
Così quel giovane appassionato di storia ha cominciato, sotto l’ala di Ho Chi Minh, a preparare l’esercito che avrebbe sconfitto i generali educati a Saint Cyr e a West Point. L’av-vento di Mao al potere in Cina ha trasformato negli anni Cinquanta la guerra che i francesi avevano provocato nel tentativo di conservare l’impero coloniale. Il quale, nei loro intenti, doveva rianimare la grandeur perduta dalla Francia durante l’occupazione nazista nella seconda guerra mondiale. Grazie all’artiglieria fornita dai cinesi, Giap tentò di intrappolare le truppe francesi. Quest’ultime, secondo il generale Navarre, il loro comandante, installandosi nella conca di Dien Bien Phu avrebbero creato un imprendibile campo trincerato contro il quale Giap avrebbe consumato tutte le sue forze.
I principi di Giap erano semplici. Il primo era che bisogna sempre sorprendere il nemico. Un’altra sua convinzione era che dove passa una capra può passare un uomo, e dove passa un uomo può passare un battaglione. Per la battaglia di Dien Bien Phu ha mobilitato 250 mila portatori, più di ventimila biciclette, diecimila zattere, mezzo migliaio di camion e altrettanti cavalli, e ha fatto passare tutto attraverso una fitta foresta, in apparenza impraticabile. Cosi ha sorpreso l’avversario: garantendo il rifornimento di riso, armi e munizioni, agli uomini che assediavano Dien Bien Phu. Il generale Navarre riteneva che fosse impossibile. A causa del cattivo tempo la guarnigione francese si è dovuta difendere senza l’appoggio aereo, e, nonostante il coraggio alla fine si è dovuta arrendere, stremata e decimata.
Giap ha vinto le guerre ma non tutte le battaglie. La creazione del suo esercito è cominciata con la distribuzione di fucili presi ai giapponesi che occupavano la penisola indocinese durante il conflitto mondiale, e di vecchi arnesi rubati nei museo. I combattenti indossavano l’abito nero dei contadini nelle risaie. E ancora nel ’54, a Dien Bien Phu, avevano sandali con la suola fatta di copertoni usati.Quel che ha contato è stata la « guerra psicologica » : la conquista della gente con l’indottrinamento, la disciplina, la minaccia, la solidarietà, l’aiuto. Giap aveva carisma, aveva la fama di un duro, e lo era, ma era giudicato anche un giusto. Era semplice e inflessibile come i soldati che aveva ammirato da ragazzo nei libri di storia. Col partito non è sempre andato d’accordo. Non perché fosse meno comunista, ma perché poco politico. Fu allontanato per anni dal comando dell’esercito e dal governo, durante la guerra americana, ma fu richiamato in vista dell’offensiva finale. Quella del ’75, contro l’esercito del Sud che ha lanciato all’improvviso, vincendola senza difficoltà. Come molti generali celebri aveva un lato sentimentale. Scriveva poesie. La sua vita familiare è stata severa. Ha conosciuto la prima moglie in prigione, e lei, dopo avergli dato una figlia, è morta in seguito alle torture subite dalla polizia francese.

Corriere 5.10.13
Un muro anti immigrati in Grecia non risolve il problema comune
di Giuseppe Sarcina


L'ultima illusione del governo greco, o forse sarebbe più corretto chiamarla l'ultima follia, si chiama muro. Nel giugno scorso il primo ministro Antonis Samaras aveva fatto chiudere, causa crisi, la tv di Stato (poi riaperta per le furibonde proteste anche internazionali). Ora annuncia, tra l'incredulità delle capitali europee, la costruzione di una barriera di dodici chilometri al confine con la Turchia, nella punta orientale del Paese, nel dipartimento che prende il nome dal fiume Evros.
I sondaggi, riferiscono i giornali locali, danno risultati largamente favorevoli alla decisione presa dall'esecutivo di unità nazionale. I cittadini greci subiscono i risultati del ventennale vuoto politico in materia di immigrazione. L'unica certezza è che i nuovi arrivati, in larga parte maghrebini, vengono sistematicamente confinati nelle periferie, che ormai sarebbe più corretto chiamare mondi paralleli o più semplicemente ghetti, come può verificare chiunque visiti Atene uscendo dai percorsi turistici.
È anche vero che il corridoio che collega la Turchia alla Grecia e alla Bulgaria è attraversato ogni mese da migliaia di migranti, in arrivo da Siria, Egitto e dai Paesi sub sahariani: Mauritania, Mali, Niger, Ciad, Sudan, Eritrea. In sostanza è la rotta principale dell'immigrazione che punta verso l'Austria, la Germania, la Scandinavia. Un tracciato molto più facile da percorrere rispetto a quello via mare che ruota su Lampedusa.
Detto tutto questo, resta lo sconforto osservando in che modo disordinato, e dunque maldestro, si stanno muovendo i Paesi europei. Proprio nei giorni in cui il governo italiano appare deciso a porre con la necessaria energia la questione immigrazione sul tavolo di Bruxelles, chiedendo una strategia condivisa da tutti i partner Ue, ecco che la Grecia si mette in proprio, nascondendosi dietro un muro.
La mossa di Atene è forse la migliore dimostrazione di quanto sia difficile mettere in comune idee e risorse. Ma la tragedia di Lampedusa dimostra, una volta di più, quanto ciò sia necessario.

Corriere 5.10.13
Berlino, gli intellettuali tacciono
E intanto il ripiegamento tedesco rischia di fermare la Ue
di Giuseppe Sarcina


L'Europa è in trappola, sostiene Claus Offe, 73 anni, uno dei più importanti intellettuali tedeschi, politologo di ascendenze marxiste, già professore all'Università Humboldt di Berlino e oggi docente di sociologia politica nell'Università Hertie School of Governance, nella capitale tedesca.
L'affermazione perentoria («Europa in trappola») è anche il titolo del libro che uscirà in Italia a gennaio, per le edizioni del Mulino e con la presentazione dell'economista Michele Salvati. Dopo aver dominato le elezioni, Angela Merkel si prepara a cristallizzare lo status quo dell'Unione europea, senza intaccarne i limiti politici e gli squilibri economici.
La Germania oggi si sta richiudendo su se stessa con placida naturalezza in una sorta di pax merkeliana: inutile aspettarsi da Berlino la spinta necessaria per ripensare e rifondare l'Europa. Vigilanza, disciplina, manutenzione: questo è il massimo che può offrire ai partner comunitari il Paese più grande e più ricco. Offe ne ha parlato a lungo, ospite di un seminario organizzato dall'Associazione il Mulino, lunedì 23 settembre. Ne è uscito un dibattito in chiave minimalista, a tratti crepuscolare. L'orizzonte appare piatto. Gli antichi motori dell'integrazione, a cominciare dall'alleanza tra Francia e Germania, sono spenti.
L'analisi di Offe parte dal quadro socio-politico emerso nel voto di domenica 22 settembre. Le grandi forze del Paese, i cristiano democratici e, molto più in giù nella scala del consenso, i socialdemocratici, sono riuscite a neutralizzare le spinte eterodosse: la furia anti-euro dell'Alleanza per la Germania; le tentazioni stataliste della sinistra raccolta nella Linke.
Ma sul piano propositivo non c'è nulla di nuovo. La coraggiosa epopea della riunificazione tedesca guidata dal conservatore Helmut Kohl (1989) e la stagione delle grandi riforme del Welfare promossa dal socialdemocratico Gerhard Schroeder (2003) sono come sparite in un denso grigiore, nel piccolo cabotaggio interno. Come se la Germania fosse semplicemente un'Olanda o una Finlandia più grande e non il Paese decisivo per il futuro dell'Europa.
Se le cose stanno così, l'Europa è in trappola perché la Germania è in trappola. Prigioniera di divisioni sociali che spaccano in modo trasversale gli schieramenti. Da una parte spezzoni della classe media sempre più inquieti, sempre più suggestionati da un irrealistico ritorno all'autarchia germanica, senza Grecia, senza Italia, senza conti da regolare per le indiscipline altrui. Sull'altro versante, in modo speculare, si fanno sentire larghe fasce di cittadini più svantaggiati: pretendono che neanche un euro vada disperso all'estero, quando milioni di tedeschi sono costretti ad accettare lavori part-time o precari (i cosiddetti mini-job a 400 euro al mese).
Il risultato, anche se in verità Offe non si è spinto fino a questo punto, è qualcosa che somiglia al Falso movimento, il film di Wim Wenders (1975). Uno scrittore tedesco viaggia in Europa, dal Mare del Nord fino alle Alpi per ritrovarsi alla fine con un senso di indifferenza, di vacuità nei confronti degli altri europei. Difficile aspettarsi qualcosa di più dal terzo governo di Angela Merkel. Ma, e su questo Offe è particolarmente severo, sarebbe illusorio attendersi almeno un sussulto anche dagli intellettuali, dalla cultura tedesca. Una «congiura del silenzio» copre le contraddizioni della Germania. Solo in via incidentale gli analisti spiegano che cosa sarebbe, per esempio, l'economia tedesca senza l'euro. Le esportazioni, il volano della crescita, si rivaluterebbero almeno del 20%; i tassi di interesse sui titoli del tesoro, oggi vicini allo zero, salirebbero inesorabilmente.
Poche idee, allora, anche sull'Europa. Eppure, argomenta Offe, la crisi finanziaria ha messo in chiaro che cosa servirebbe: eurozona più integrata; istituzioni più legittimate; crescita economica più sostenibile. Il politologo tedesco propone anche misure concrete. Qualcuna suggestiva: fissare un obiettivo minimo di redistribuzione del reddito per tutti i Paesi, prendendo come riferimento l'indice di Gini (l'indicatore che misura la disuguaglianza) dell'Olanda. Altre poco convincenti, come l'introduzione della progressività nella tassazione indiretta (Iva ed equivalenti), che con tutta probabilità avrebbe come effetto immediato un ulteriore calo dei consumi.
L'importante è convincere i tedeschi e tutti gli europei, a rimettersi in moto. C'è, però, un ulteriore problema. Offe chiama in causa Jurgen Habermas, il suo principale riferimento culturale. Oggi la politica, sostiene l'epigono della Scuola di Francoforte, più che dalla distinzione tra destra e sinistra, è dominata dalla separazione tra populismo e tecnocrazia. I populisti sono i più abili nella raccolta del consenso, ma non sono in grado di governare. I tecnocrati, invece, sono capaci di applicare le decisioni, ma senza l'appoggio dell'opinione pubblica. In Italia, esemplifica Offe, la linea divisoria corre tra Silvio Berlusconi e Mario Monti. In Europa tra le diverse anime dell'antieuropeismo e i funzionari di Bruxelles. E anche questo rende ancora più scomoda la trappola in cui, sembra, siamo caduti.

Corriere 5.10.13
Risoluzione europea sulla circoncisione
Le ragioni e le zone d’ombra
di Marco Ventura


Fino a che punto possono spingersi gli Stati nel tutelare l'integrità fisica del minore? Hanno il diritto di sfidare le religioni? La polemica esplose in Germania un anno fa, quando la Corte d'appello di Colonia prosciolse dall'accusa di lesioni un medico che aveva circonciso un bambino su richiesta dei genitori musulmani, ma dichiarò illegale la circoncisione. Nel dicembre 2012 il Parlamento tedesco sconfessò i giudici, blindando per legge la circoncisione maschile.
Ora, una risoluzione dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa riapre la questione. Il documento invita i 47 Stati membri a proteggere i minori, quando minacciati da violazioni dell'integrità fisica non giustificate da ragioni mediche. Si chiede agli Stati di sanzionare gli interventi «più dannosi», come le mutilazioni genitali femminili, e di definire a quali condizioni è legittima la circoncisione maschile di minori praticata «in seno a certe comunità religiose». Il Consiglio d'Europa invita a un «dialogo interreligioso e interculturale», nel quale i rappresentanti confessionali cooperino con le autorità pubbliche per verificare che i metodi impiegati siano sicuri e rispettosi dell'interesse dei minori. Inoltre, quando «appropriato e possibile», si raccomanda che il minore sia coinvolto nella decisione.
Il ministero degli Esteri israeliano ha duramente condannato la Risoluzione e ne ha chiesto la revoca. Si tratta, recita il comunicato, di un «attacco intollerabile contro un'antica e rispettabile tradizione religiosa radicata nella cultura europea»; un attacco privo di fondamento alla luce della «moderna scienza medica». La Risoluzione, secondo il governo israeliano, infanga moralmente il Consiglio d'Europa e incoraggia l'odio razzista nel Vecchio Continente. Sono fondate le critiche alle zone d'ombra del documento votato a Strasburgo, a partire dall'equiparazione delle mutilazioni genitali alla circoncisione. Tuttavia, le religioni non sono un'isola: se vorranno difendere le proprie prerogative dovranno mostrarsi sensibili alla preoccupazione dell'Europa su autonomia e salute dei minori.

Repubblica 5.10.13
Idee per la rinascita di un partito di sinistra
I due pamphlet di Fabrizio Barca, uno con il politologo Piero Ignazi
di Sebastiano Messina


Il segnale più chiaro, netto e inequivocabile è arrivato da una cifra disarmante: nell’ultimo anno gli iscritti al Pd si sono dimezzati. Colpa della “non vittoria”, del pasticcio del Quirinale, delle larghe intese, del lungo braccio di ferro sulle primarie, vallo a sapere. Ma il dato è lì, sotto gli occhi di tutti, a indicare un baratro che si avvicina velocissimamente, e mette sul tavolo una domanda ineludibile: può ancora salvarsi, il sogno del Partito democratico? Come un messaggio in una bottiglia, mentre il Pd si avvia verso il congresso, arriva una risposta che è un appello: sveglia, compagni, perché proprio la crisi del Pd può essere un’occasione straordinaria per far rinascere il Pd. I “messaggi” sono in realtà due, i libri di Fabrizio Barca usciti in questi giorni: uno scritto con Piero Ignazi (Il triangolo rotto. Partiti, società e Stato,Laterza) e l’altro pubblicato da Feltrinelli (La Traversata, pagg. 185, euro15). La diagnosi del politologo Ignazi non è diversa da quella del politico Barca. I partiti di massa, spiega Ignazi, quelli con tanti iscritti, tante sezioni e tanti funzionari, sono entrati in crisi non solo in Italia ma in tutta Europa. Abbandonati dagli iscritti, non potendo più estrarre risorse dalla società i partiti hanno cominciato a estrarle dallo Stato: sonodiventati partiti statocentrici, aggrappati al finanziamento pubblico, con strutture e personale pagati dalle istituzioni. Strutture centralizzate, orientate dagli specialisti di marketing politico, vere e proprie “agenzie pubbliche di reclutamento” che individuano i candidati alle cariche pubbliche e li collocano nelle caselle che vogliono. La diagnosi, dicevamo, è comune. Ma è sulle soluzioni che il politologo e il politico divergono. Ignazi vede una via d’uscita nel sentimento di comunità, ancora vivo nella sinistra, e dunque propone di «riattivare e modernizzare l’intuizione novecentesca delle case del popolo», luoghi d’incontro che esaltano la funzione del tempo libero e lo trasformano in cemento identitario.
Barca ha in mente una strada diversa, che ha avvistato quando cercava – da uomo di governo – interlocutori nella società. E non li trovava. È stato allora che s’è inventato la “mobilitazione cognitiva” come motore del nuovopartito (il documento che contiene quella formula è riprodotto nella Traversata). Da agenzia di reclutamento, scrive Barca, il Pd deve diventare un’agenzia per la produzione di idee. Un partito-palestra. Un laboratorio di soluzioni. Dal momento che oggi le conoscenze sono diffuse, e dunque molti possono avere ottime idee per una buona istruzione, una buona cura della salute e persino una buona tassazione, noi dobbiamo fare in modo, spiega, che le persone trovino utile andare a un circolo del Pd per proporre soluzioni ai problemi. Oggi, certo, è difficile immaginare un simile partito. Barca individua tre condizioni indispensabili per il cambiamento: la pressione interna degli iscritti insoddisfatti, la pressione esterna di quelli che non ci credono più e la disponibilità dei gruppi dirigenti, che sentono franare il terreno sotto i loro piedi, a contribuire a una nuova stagione. Forse ci siamo, dice. Forse.

Il triangolo rotto di Fabrizio Barca e Piero Ignazi (Laterza pagg. 106 euro 10)

Repubblica 5.10.13
Il welfare alternativo di immigrati e precari nell’Italia della crisi
Il saggio di Allegri e Ciccarelli “Il quinto stato”
di Roberto Esposito


Se il primo problema che affligge la sinistra italiana, impedendole di vincere i confronti elettorali anche nelle circostanze più favorevoli, è la mancanza di coraggio, il secondo è una forte carenza culturale. L’incapacità di abbandonare vecchie categorie interpretative, di rinnovare il proprio linguaggio concettuale, di cogliere le mutazioni sociali che connotano il nostro tempo. Una di queste è sicuramente l’emergenza di quello che Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli denominano Il quinto statoin un libro omonimo appena edito da Ponte alle Grazie. In verità non si tratta di un termine nuovo. Già usato negli anni Sessanta come titolo di un volume da Wolfgang Kraus, nel 1970 lo scrittore Ferdinando Camon aveva così intitolato un romanzo, comparso con la prefazione di Pasolini.
Ma cosa è, propriamente, il quinto stato e come oggi si configura? Naturalmente l’espressione si riferisce a un soggetto collettivo che ha fatto seguito sia al terzo stato, borghese, già protagonista della rivoluzione francese, sia al quarto stato, proletario, rappresentato nella sua fiera avanzata nel celebre quadro di Pellizza da Volpedo. Ma esso non corrisponde più agli stereotipi precedenti. Né a quello, intellettuale e tecnocratico, di Kraus, né, tantomeno, all’universo contadino e precapitalistico di Camon e Pasolini. Il quinto stato cui rimandano Allegri e Ciccarelli, saldamente piantato nel capitalismo postfordista, è costituito da tutti coloro che a diverso titolo svolgono un lavoro saltuario ed autonomo. Irriducibili alle categorie generiche di “ceto medio” o di “precariato”, ne fanno parte piccoli imprenditori, a volte anche immigrati, titolari di partite Iva, operatori dei servizi e dell’informazione. Si tratta di lavori, spesso generati dalla crisi, stretti tra una situazione di pura sopravvivenza e una nuova opportunità di autonomia rispetto all’amministrazione dello Stato e alle logichedel mercato. Il rilievo non soltanto sociale, ma politico, di questa nuova figura sta intanto nelle sue dimensioni. Si parla di un mondo che rappresenta il ventitré per cento dell’occupazione complessiva in Italia contro una media europea del quattordici. Tale eccezione è dovuta in parte alla debolezza strutturale dell’economia industriale italiana, in parte allo straordinario sviluppo delle attività in proprio avvenuto a partire dagli anni Settanta del Novecento. Naturalmente di un fenomeno così ambivalente possono darsi interpretazioni diverse. Esso è segno di crisi profonda, ma insieme anche della singolare vitalità e fantasia creativa del nostro Paese. Senza perdere di vista i tratti di precarietà esistenziale cui appaiono condannati i lavoratori del quinto stato, il libro ne mette soprattutto in luce gli elementi di emancipazione, costituiti appunto dall’autonomia rispetto ai vincoli imposti dalle istituzioni nazionali ed internazionali.
È proprio questa potenzialità, mista a sofferenza, che la sinistra italiana, legata a una concezione corporativa del partito e del sindacato, non riesce ad afferrare, facendone un punto di forza della propria proposta. Oscillante tra un atteggiamento di malcelato sospetto nei confronti del “popolo delle partite Iva” e il rimprovero paternalistico ai giovani “schizzinosi” –choosey, secondo l’incauto epiteto di Elsa Fornero – essa appare impreparata a rapportarsi a quella che sarà la dimensione più diffusa del lavoro nel prossimo futuro.
Come spesso avviene, la limitatezza della visuale sul futuro nasce da una scarsa consapevolezza del passato, coincidente solo in parte, e non senza forti tensioni, con quella, ben più canonica, del movimento operaio. Che questa attitudine alla condivisione solidale di ferite sociali, ma anche di opzioni di libertà, torni oggi ad affiorare la dice lunga sull’entità dei mutamenti, sociali ed antropologici, che la crisi ha prodotto nei confronti di un universo ancora tenuto insieme dall’asse moderno tra Stato e mercato.
Se il racconto di questa genealogia sociale, narrata in prima persona dagli autori, risulta convincente, l’orizzonte a venire delineato nella parte finale del libro appare più problematico. Al centro di esso si stagliano le tensioni e i conflitti che attraversano le grandi metropoli, prefigurando forme di resistenza e strumenti di contrasto rispetto ai vincoli di austerità ed allo smantellamento del welfare imposti dagli organismi economici internazionali. Che la rete protettiva, e anche produttiva, del quinto stato costituisca una opportunità da cogliere e sviluppare è evidente. Come è condivisibile l’idea che un’Europa delle città sia preferibile a quella delle macroregioni. Convince di meno la tesi che tra spazio municipale e spazio continentale, gli Stati siano destinati a perdere ogni funzione rilevante. Per dubitarne, basti pensare al peso esercitato, nei processi socio-culturali, dalle lingue nazionali. Ma l’importante è aver aperto un primo osservatorio su un fenomeno di simileportata.

Il quinto stato di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli Ponte alle Grazie pagg. 272 euro 14

il Fatto 5.10.13
Povero Leonardo: il capolavoro ritrovato è solo una crosta
di Tomaso Montanari


A OCCHIO NUDO Il “Leonardo dimenticato” è in realtà un dipinto a colori (Santa Caterina d’Alessadria) che ricalca il ritratto leonardesco (in bianco e nero) di Isabella d’Este conservato al Louvre

Leonardo, il capolavoro ritrovato”, “Potrebbe cambiare un pezzo significativo della storia dell’arte”: sulla copertina di Sette e sul Corriere di ieri è ricomparso tutto l’armamentario retorico del “grande scoop” .

INFORTUNIO DI “SETTE”: SPACCIA PER OPERA AUTENTICA UNA (BRUTTA) COPIA DIPINTA DI UN DISEGNO CONSER VATO AL LOUVRE. ENNESIMO ESEMPIO DI COME IN ITALIA, QUANDO SI PARLA DI ARTE, LA VERIFICA DELLE FONTI SIA UN OPTIONAL

Leonardo, il capolavoro ritrovato”, “Un mistero durato 500 anni”, “Potrebbe cambiare un pezzo significativo della storia dell’arte”: sulla copertina di Sette e sul Corriere della Sera di ieri è ricomparso, come per incanto, tutto l’armamentario retorico del “grande scoop” artistico che ciclicamente affligge i giornali italiani.
E, come nel 99% dei casi, anche questa volta lo si è estratto dalla naftalina senza ragione: perché si tratta dell’ennesima bufala inflitta alla memoria del povero Leonardo da Vinci, un artista così maltrattato che se esistesse il telefono azzurro dei grandi maestri gli converrebbe chiedere la linea diretta.
Stavolta si tratta di un quadro che raffigura Santa Caterina d'Alessandria, e che riprende testualmente un’invenzione (questa sì) leonardesca, attestata in un celebre disegno del Louvre in cui il Vinci ritrasse Isabella d’Este. Un documento storico di un certo interesse, dunque: che però Carlo Pedretti (decano dei leonardisti) attribuisce nel volto allo stesso Leonardo, e nel resto a un allievo (il “Salai o il Melzi”, scrive nell'expertise pubblicato integralmente da Sette).
MA BASTA guardare anche solo la fotografia per capire che siamo di fronte a una (brutta) copia. Certo, a meno che sotto quel che si vede non si nasconda tutta un’altra stesura pittorica. Ma allora tanto varrebbe pubblicare la foto di una tenda, e scrivere: “Fidatevi, dietro c’è un Leonardo”.
Ma stiamo a quel che si vede. Chi di voi se la vorrebbe mettere in casa, una simile crosta? E questo è il punto: la storia dell’arte non è una disciplina tanto arbitraria ed esoterica da ribaltare la realtà e il senso comune fino a poter stabilire che un quadro che appare francamente brutto a chiunque abbia occhi sia invece nientemeno che un capolavoro di Leonardo! Se la si racconta così, il risultato inevitabile è che il pubblico si senta preso in giro, allontanandosi. Ed è uno spreco assurdo: perché se è vero che il culto di massa di Leonardo è anche il frutto di un martellante conformismo mediatico, è anche vero che la gente fa la fila perché quei quadri sono capaci di comunicare la loro straordinaria bellezza anche a chi non sa nulla di storia dell’arte.
Dopo che l’Ansa pubblicò con straordinario clamore i cento disegni “di Caravaggio” (che nessuno oggi ricorda più, anche se è passato solo un anno), scrissi su queste pagine: “La prossima volta che qualcuno si presenterà con cento terrecotte di Leonardo o cinquanta marmi di Michelangelo verrà dunque sottoposto a una qualche verifica? Tutto lascia credere di no: per la prossima bufala storico-artistica è solo questione di giorni”.
Ed eccoci qua: non è servito l’infortunio dell’Espresso col finto Raffaello in copertina, né quello del Sole 24 Ore col finto Caravaggio in prima. E uno si chiede, per l’ennesima volta, ma perché un giornale come il Corriere della Sera sdogana una simile enormità?
LA RISPOSTA è: perché non ha ritenuto di dover controllare la fonte, fidandosi a scatola chiusa della pretesa auctoritas che ha proposto l’attribuzione, il professor Carlo Pedretti. Ma per non fare figuracce sarebbe bastato, non dico consultare la bibliografia scientifica, ma almeno interrogare l'archivio storico dello stesso Corriere. Lì si trova, per esempio, la mirabile notizia che nel 1998 Carlo Pedretti pubblicò ed espose come di Leonardo il disegno di un cavallo che il pittore contemporaneo Riccardo Tommasi Ferroni (1934-2000) aveva eseguito in gioventù. Il disegno fu riconosciuto come suo dallo stesso Tommasi Ferroni, che visitava la mostra insieme a Vittorio Sgarbi: e quest’ultimo racconta che mentre l’artista era in fondo lusingato, fu l’accademico a offendersi, sentendosi gabbato. Un precedente che avrebbe potuto indurre la redazione a un minimo di prudenza: e che non è l’unico che si potrebbe raccontare. Pedretti è, per esempio, l’unico leonardista che abbia appoggiato la scervellata ricerca della Battaglia di Anghiari cavalcata da Matteo Renzi.
Accanto al culto acritico del-l’autorità, c'è poi la venerazione altrettanto prona del dato scientifico presunto esatto. Alludo all’immancabile esame del carbonio 14, che stabilisce che il dipinto sarebbe stato realizzato tra 1460 e 1650: cioè da quando Leonardo aveva otto anni a quando era morto da 231. Un dato utile, non c’è che dire! E anche ammesso che sia vero, cosa mai può aggiungere a ciò che l’occhio immediatamente rivela: e cioè che si tratta di una (brutta) copia dipinta (se è vero) in quel lasso di tempo?
E allora, che si dovrebbe fare quando si riceve una notizia del genere? Semplice: seguire regole elementari, quelle che gli stessi professionisti applicherebbero istintivamente in tutti gli altri ambiti, ma che sembrano evaporare a contatto con l’ineffabile magia che circonfonde la “critica d’arte”. E cioè: verificare l’attendibilità delle fonti, sentire pareri terzi, fidarsi dei propri occhi e non genuflettersi alla (presunta) autorità.
SAREBBE davvero importante che questo messaggio passasse, una volta buona. E non per il buon nome del giornalismo italico (che ha ben altri problemi!): ma perché ogni lancio di agenzia, articolo di giornale o servizio televisivo che contribuisca a propalare la bufala figurativa di turno non solo comunica il falso e promuove l’eradicamento del senso critico, ma – nei rigidi palinsesti italiani – toglie spazio a un discorso sulla storia dell’arte che possa educare al patrimonio diffuso, denunciarne lo stato rovinoso, promuoverne la conoscenza e la frequentazione. Ed è questo che è grave.

Corriere 5.10.13
Il Giudizio Universale? Forse è già qui
I pensieri di Friedrich Hebbel, l'uomo che ispirò i tormenti metafisici di Kafka
di Pietro Citati


Ricevo un libro dal titolo bellissimo: Giudizio universale con pause (dai diari di Friedrich Hebbel, a cura di Alfred Brendel, traduzione di Elisabetta Dell'Anna Ciancia, Adelphi), e mi chiedo chi sia questo Hebbel. Poi la memoria stanca e vagabonda si rischiara: di lui parlò Franz Kafka nelle lettere a Felice Bauer (Mondadori, I Meridiani, 1972).
Kafka aveva conosciuto Felice Bauer, un'impiegata ebrea berlinese, a casa dei genitori di Max Brod, la sera del 13 agosto 1912. Subito si sentì avvinto senza rimedio. Avvertiva uno squarcio nel petto, attraverso il quale, per la prima volta, il sentimento d'amore entrava ed usciva. Scopriva di appartenere completamente, anima e corpo, a quella donna dai capelli senza luce, dai denti guasti e dall'espressione vuota che, per cinque anni, trasformò nel cuore radioso della propria vita. Dallo «squarcio» del petto di Kafka usciva un torrente tumultuoso, dove fluttuavano, e si ingorgavano e si scontravano spumeggiando, brandelli di vita, confessioni di letteratura, — il tesoro della sua genialità che non si era ancora espresso nei libri. Malgrado le caute raccomandazioni di lei, non voleva moderarsi, a nessun costo. Continua a meravigliarci che quest'uomo così pudico, così discreto, così elusivo, si confidasse senza riserve, come se avesse sempre conosciuto Felice. Egli proiettava Felice fuori di sé, e si identificava totalmente con la sua proiezione: si dedicava a lei, si consacrava a lei, come se fosse Felice e non la letteratura a dare un senso alla sua esistenza.
Tra il 26 e il 27 gennaio 1913, e tra il 28 e il 29 gennaio (le lettere erano scritte di notte), le parlò a lungo di Friedrich Hebbel. «Era un uomo, che sapeva sopportare il dolore ed esprimere la verità. Nemmeno una linea del suo essere sfuma, egli non trema… poteva sempre dare notizia di qualsiasi cosa avesse fatto, cominciando con le parole: "se la calma della coscienza è la prova dell'azione". Come sono lontano da uomini simili! Se volessi fare anche una sola volta questa prova della coscienza, dovrei passare la mia vita guardando le oscillazioni di questa coscienza. Così preferisco volgermi da un'altra parte, non voglio sapere di controllo… Lo sento di fatto (sebbene io, misurato con occhi tranquilli, sia lontano da lui come la più piccola luna dal sole) vicinissimo al mio corpo, egli si lamenta al mio collo, mette immediatamente le dita sulle mie debolezze e, qualche volta, abbastanza di rado, mi trascina via con sé come se fossimo due amici… Hebbel pensa con assoluta precisione, e senza nessuno di quei sotterfugi, nei quali uno cerca così volentieri di salvarsi con la propria disperazione».
Le storie della letteratura aggiungono: Hebbel nacque nel 1813 e morì nel 1863. Scrisse molti testi teatrali, che non ho mai letto. Morendo a cinquant'anni, lasciò una gran mole di appunti che, in una edizione mutila e inadeguata, furono pubblicati per la prima volta nel 1885-87: sono i cosiddetti Diari dai quali Alfred Brendel ha tratto la sua breve scelta.
* * *
Nei Diari, Hebbel scrive cose terribili sulla sua vita. «Com'è stata cupa e desolata la mia infanzia! Mio padre in realtà mi odiava, anch'io ero incapace di amarlo. Lui, schiavo del matrimonio, incatenato all'indigenza, al nudo bisogno, non era in grado di avanzare di un solo passo, pur profondendo tutte le sue forze e l'impegno più smisurato; però odiava anche la gioia: l'accesso al suo cuore le era precluso da cardi e rovi, e così non poteva sopportarla nemmeno sui volti dei figli, la lieta risata che allarga il cuore era per lui un sacrilegio, un oltraggio alla sua persona…». E ancora. «Da Monaco non posso più partire, perché un viaggio a piedi in questa stagione è più che problematico, e in vettura mi costerebbe troppo. Come riuscire a superare l'inverno non lo so. Di essere così privo di qualsiasi stimolo, di qualsiasi sollecitazione a operare, non mi era mai accaduto prima. In tutta la settimana non vedo una sola persona, non ho occasione di parlare con nessuno, eppure questo per me è un bisogno… Io temo queste privazioni spirituali molto più che non quelle materiali, anche se vorrà pur dire qualcosa il fatto che da due anni e mezzo a questa parte, se si esclude una sola estate, non ho più consumato un pasto caldo».
Tutta la gioia che non provò nella sua vita, Hebbel la riversò negli aforismi, nei quali fu un maestro non meno grande di Nietzsche e Kafka. Un lettore moderno avverte qualcosa di simile negli aforismi di Cioran. Il gusto del paradosso; l'amore del totale rovesciamento; il lampo violentissimo che illumina l'oscuro; la rapidità vertiginosa; l'intero mondo concentrato in due righe. Una frase contiene un sistema; e la frase successiva ne contiene un altro, opposto o contraddittorio al primo. «Brevità di discorso produce vastità di pensiero», diceva Jean Paul. Ed Hebbel: «È una vera disdetta che, mentre diciamo una cosa, non possa dire contemporaneamente anche l'altra».
Faccio qualche esempio (questo articolo è un elenco di citazioni). «Il confine del bello è una linea precisissima e si può superare di sole mille miglia. L'infinitesimo è tutto». «Ha superato se stesso! Il che nella maggior parte dei casi, a dire il vero, è impresa molto facile». «Le persone virtuose rovinano la virtù». «Quando Dio si trovò in imbarazzo a causa della turba di uomini che non sapevano cosa fare di sé stessi, creò allora la felicità». «Io resto fedele a me stesso! È proprio questo il tuo guaio; vedi di essere infedele una buona volta»; «Viviamo in tempi di Giudizio Universale, di quello muto, però, in cui le cose crollano da sole».
«Sacrificare la sofferenza: supremo sacrificio». «Il mondo è il peccato originale di Dio». «Poiché Dio ha creato il mondo dal nulla, il nulla vi occupa sempre il posto più alto». «Umorismo è riconoscere le anomalie». «Se esistesse una condizione in cui nessuna cosa consegue dall'altra e nessuna segue all'altra? Una condizione per la quale non abbiamo che la parola miracolo». «Persone che al posto del cervello sembrano avere nella scatola cranica un pugno serrato; tanto si ostinano nella loro stupidità». «Un tale consegna al boia un documento, la propria condanna a morte. Il boia non sa leggere, lui stesso sa solo compitare… come finisce di sillabare e lascia cadere il foglio dallo spavento, gli viene tagliata la testa». Così Il processo di Kafka.

La raccolta: «Giudizio universale con pause», dai diari di Friedrich Hebbel, a cura di Alfred Brendel, traduzione di Elisabetta Dell'Anna Ciancia, Adelphi, pp 172, 12

Corriere 5.10.13
Il nuovo avamposto dell’etica globale
di Giuseppe Galasso


C'è, può esservi un'etica della globalizzazione? L'interrogativo non nasce per caso, bensì dalle cose, dallo sviluppo del grandioso fenomeno di quella globalizzazione che ha cambiato, e va cambiando, oltre la faccia, tutto, si può dire, della realtà materiale e dello spirito del mondo, già dalla metà del secolo XX, ma poi in modi e a ritmi accelerati, inarrestabili e incontrollabili.
Una prima questione etica nasce da questa inarrestabilità e incontrollabilità. Il progresso e i mutamenti nella vita materiale dell'uomo nascono da iniziative e azioni dell'uomo stesso. Non sono iscritti in nessun piano preordinato e fatale di sviluppo delle cose dell'uomo. Il tempo delle «filosofie della storia», che con bella sicurezza disegnavano punti di partenza, percorsi e approdi del mondo e dell'uomo, appare del tutto consumato nell'attualità della cultura mondiale, e ancora di più appare esaurito nella sensibilità dell'uomo contemporaneo. In passato il progresso spingeva alle certezze e all'ottimismo.
Un grande poeta italiano poteva perciò amaramente ironizzare su le magnifiche sorti e progressive dell'uomo e della sua storia. Oggi il mutare veloce di tutto, a cominciare dagli strumenti e dai meccanismi più comuni ed elementari della vita quotidiana, induce a incertezze molto maggiori delle certezze. Sull'orizzonte di un mondo, in cui tutto appare potenziato e facilitato dall'inaudita potenza tecnologica raggiunta dall'uomo, e tutto il meglio o il più arduo appare possibile e certo, si proietta costantemente l'ombra scura e letale del black out, di una qualsiasi Cernobyl, della crisi petrolifera o di altre fonti di energia, dell'inquinamento ambientale, delle sofisticazioni in tutti i campi, a partire da quello alimentare, del surriscaldamento dell'atmosfera, e via dicendo. Il contrasto non potrebbe essere più drastico e disorientante.
Il senso delle lunghe durate nasceva nel mondo preindustriale, con tutta probabilità, innanzitutto dal ritmo lentissimo, dal quasi immobilismo della strumentazione, domestica e non domestica, di cui ci si serviva. Con la «rivoluzione industriale» questa condizione atavica mutò rapidamente, fino ad assumere ritmi e modi, appunto, della globalizzazione. Una trasformazione che è stata, poi, addirittura più veloce nel campo delle idee e della sensibilità.
Facile sarebbe addurre, al riguardo, un'esemplificazione impressionante. Forse, però, in nessun campo i grandi mutamenti possono essere esemplificati più che in quello del diritto. Basti pensare alle trasformazioni in materia di diritti personali e del diritto di famiglia, o, in generale, del diritto privato, oppure al rapido consolidarsi di quella nebulosa che inizialmente apparvero costituire i cosiddetti «diritti diffusi».
Tutto ciò, e quant'altro vi si può aggiungere, non poteva che avere echi e riflessi profondi sulla vita pubblica contemporanea, sia per le vicende di ciascun paese o area del mondo, sia per le relazioni internazionali; e ve ne sono stati, infatti, ben più che echi e riflessi. Le grandi ideologie connesse all'era che fu ancora delle filosofie della storia totalizzanti e profetizzanti si sono in gran parte dissolte, e dissolti si sono pure i regimi che ne facevano la base teorica di un dominio totalitario.
La struttura geopolitica del mondo è cambiata dalla metà del secolo XX molto di più che nei due secoli precedenti. La grande politica conosce oggi protagonisti che, se non sono inediti, danno, però, tutto un altro senso ai conflitti di potenza e al confronto diplomatico. Più ancora è mutato il quadro della potenza economica, fino a far parlare di un declino inevitabile, dopo cinque o sei secoli, del primato mondiale dell'Europa. E sono risorte questioni che sembravano consunte da ripetute, sfavorevoli esperienze: la guerra giusta; il diritto d'intervento a tutela dei diritti dei cittadini di un Paese e contro il governo dello stesso Paese; la repressione del terrorismo sviluppatosi di gran lunga al di là di quello tradizionale degli anarchici europei; il diritto-dovere della comunità internazionale di intervenire in una determinata area a tutela della pace…
Anche qui, come si vede, una serie di questioni le cui implicazioni etiche sono profonde. E si noterà pure che per più di un ventennio dopo la fine della guerra, nel 1945, dilagò il terrore di un «olocausto nucleare» e di un'«ultima spiaggia» sulla quale si sarebbe dovuto rifugiare, nelle più misere condizioni possibili, qualche individuo residuo di un'umanità sterminata dal contagio atomico dopo l'ultima guerra della storia. Poi, certo, anche l'atomo rimase fra le preoccupazioni esistenziali più diffuse dell'uomo attuale, ma sempre più insieme con quegli altri e non meno affliggenti timori planetari ai quali abbiamo accennato. Ed è appunto in rapporto a questi e agli altri problemi qui accennati che si pone il problema di etica che abbiamo indicato.

Repubblica 5.10.13
Cézanne e gli italiani
Al Complesso del Vittoriano di Roma vanno in scena le opere del grande francese e quelle dei nostri maestri che nella prima metà del ’900 furono influenzati dal suo stile
di Lea Mattarella


ROMA Parigi 1907. Paul Cézanne è morto da un anno e il Salon d’Automne gli dedica, finalmente, una grande retrospettiva. Tra i visitatori, oltre a Rainer Maria Rilke che, rapito, la va a vedere tutti i giorni, c’è il pittore Ardengo Soffici. Questo è l’antefatto alla mostra Cézanne e gli artisti italiani del ’900aperta al Complesso del Vittoriano da oggi e fino al 2 febbraio, curata da Maria Teresa Benedetti e organizzata da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia (catalogo Skira). Succede infatti che al rientro in Italia Soffici scriva un lungo articolo sul pittore francese in cui lo definisce «pazzo e primitivo... al modo scontroso dei mistici cristiani, di Jacopone da Todi e di Giotto». E l’Italia loscopre facendone la guida per il grande salto verso l’arte moderna e internazionale. «Cézanne è una specie di Caronte – spiega la Benedetti – gli italiani lo seguono e ne traggono molte suggestioni interpretandolo in maniera sempre diversa».
In mostra di questi artisti traghettati ce ne sono 18, da Sironi a Severini, da Donghi a Trombadori, in una divisione tematica che offre la possibilità di andare a scoprire i segreti di un’influenza potente e duratura. E così il percorso tra Paesaggi, Nudi, Nature morte eRitratti diventa un’affascinante viaggio alla scoperta del maestro di Aix-en- Provence visto con gli occhi degli altri, artisti come lui. Pronti a nutrirsi della sua pennellata, della sua volumetria, dei suoi temi. Si tratta quindi di una mostra in cui, oltre alla bellezza delle opere, c’è la forza di un’idea. Di un’ipotesi che viene confermata in maniera convincente attraverso i confronti tra i quadri. Anche quando questi sono lontani per tematiche. Straordinaria è, ad esempio, la felicità cromatica che unisce un capolavoro di Cézanne come ilPaesaggio blucon ilRitratto del Maestro Busoni, un pezzo da novanta di Umberto Boccioni: gli ocra, i verdi, i blu vibranti hanno la stessa consistenza, come fossero passadanno da un quadro all’altro. Li dipingono entrambi sul finire delle loro vite: il primo tra il 1904 e il 1906, l’altro nel 1916. In mezzo, per l’italiano, c’è l’avventura futurista dalla quale si sta allontanando proprio attraverso una meditazione su Cézanne. Purtroppo non sappiamo quali altre possibilità avrebbe aperto a Boccioni questa riflessione. Morirà infatti proprio nel 1916 a 34 anni. Pochi ma sufficienti a fare di lui un gigante della pittura, com’è evidente in queste sale dove sono raccolti altri quadri dal fascino misterioso in cui le tracce del dinamismo futurista sono evidenti nella libertà della pennellata e della luce:Silvia, ilRitratto della Signora Cragnolini Fanna, laNatura morta di terraglie, posate e fruttasono tappe fondamentali di un cézannismo che diventa linguaggio individuale, unico e irripetibile. Il confronto con Victor Chocquet, Il Giardiniere Vallier, le superbe mature morte Frutta e Buffetl’idea del livello elevato dell’incontro.
Se Boccioni torna a Cézanne nell’ultima fase della sua esistenza, Giorgio Morandi lo guarda fin dalla formazione. Già Cesare Brandi aveva notato come, con il suo “prezioso intuito”, questi «avesse saputo trar profitto da umili, casuali riproduzioni (chéoriginali non poté certo averli visti) del maestro di Aix». In mostra, a ribadire il contatto, oltre ad alcune incantate Nature morte e ai suoi solidi e austeri paesaggi, ci sono leBagnanti del 1915 che hanno la medesima struttura di quelle dipinte da Cézanne e conservate a Firenze nella collezione Fabbri. Com’è noto il tema è molto amato dall’artista francese. Con i suoi e le sue Bagnanti egli cerca l’armonia tra l’uomo e il paesaggio, desiderando «rifare Poussin sulla natura». Qualche tempo prima, in un questionario, alla domanda su quale fosse il suo profumo preferito aveva risposto «l’odore del campi» e aveva affermato che il modo più piacevoleper distendersi per lui fosse il nuoto. Ecco le due cose unite in questa parete dominata dal verde dove Cézanne cerca di ricostruire un’alleanza panica tra corpi e vegetazione. Viene in mente anche la sua biografia, i ricordi di giovinezza quando, con quello che per anni sarà il suo amico e sostenitore Émile Zola, andava a fare il batigno nel fiume Arc a sud di Aix. Quanta nostalgia di quel periodo lì deve esserci in questo quadro che raffigura giovani uomini in felice comunione con la natura datato al 1892, cioè quando il sodalizio con lo scrittore era terminato da circa sei anni? E qui si può vedere quanto queste figure di spalle siano state da suggestioneper gli italiani: eccole in un’opera densa di ritualità come iNeofitidi Corrado Cagli, ne La Famiglia di Franco Gentilini, nelNudo di Felice Carena. E se per Casorati il gruppo di nudi si raccoglie in un interno nella magia di un bizzarro Concerto costruito seguendo il ritmo astratto di vuoti e pieni del pittore francese, c’è anche chi trasferisce sulla tela la sua ricerca di verità attraverso la deformazione. È Fausto Pirandello, potentissimo in quella macchina fantastica che è la costruzione de Il bagnoe nella folla carica di espressività che occupa la suaSpiaggia.
Ci sono altre tappe fondamentali per la penetrazioni di Cézanne in Italia: laPrima mostra del-l’Impressionismo francese e di Medardo Rosso aperta a Firenze nel 1910 in cui i suoi quadri sono quattro, la II mostra della Secessione, a Roma nel 1914, dove è presente con 12 acquerelli e la Biennale del 1920 viene con l’allestimento di una personale nel padiglione francese, resa possibile dalla presenza di Cézanne nelle collezioni fiorentine Fabbri e Loeser. Quello che colpisce di questo viaggio tra l’artista francese e i grandi italiani che lo hanno ammirato e interpretato, è la doppia lettura della sua influenza. Se da una parte Cézanne è stato l’iniziatore dell’avanguardia aprendo la strada alla scomposizione cubista, è vero anche che a lui si deve il recupero di masse e volumi che l’Impressionismo aveva reso evanescenti, la sostanza di una costruzione pittorica capace di ridare solidità alla natura (diceva che bisognava trattarla «secondo il cilindro, la sfera, il cono »), di una luce pronta a scolpire le forme. Soffici lo collega a Giotto ed è in quest’ottica che viene recuperato da Carlo Carrà, anche lui nella fase successiva al Futurismo. I suoi dipinti che aspirano a penetrare la natura per coglierne l’essenza sono sicuramente figli della pennellata robusta del francese. E dello spirito quasi religioso che Cézanne ha saputo conferire al paesaggio.

Repubblica 5.10.13
La geometria è l’anima della realtà
Il genio di ieri visto con gli occhi di un pittore di oggi
di Marco Tirelli


Dagli impasti spessi di colore e i toni cupi degli esordi alle pennellate di luce leggere, rarefatte, con le quali negli ultimi anni osservava Mont Sainte-Victoire: Paul Cézanne ha sempre cercato la struttura delle cose. Si può dire che ciò che maggiormente lo interessava era l’ossatura, lo scheletro delle forme. Che fossero gli oggetti disposti sui tavoli e tra i drappi delle nature morte, l’ovale di sua moglie nelle decine di ritratti che le dedicò, i profili dei paesaggi mediterranei o i corpi delle mitiche bagnanti, lo spirito che lo muoveva nell’approccio alla natura era fatto di sintesi ed essenzialità. Ripenso alla celebre frase in quella lettera dell’aprile 1904 da Aix-en-Provence al pittore Émile Bernard nella quale Cézanne lo consigliava di «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto posto in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto o di un piano si diriga verso un punto centrale». Ecco, un artista come lui, legato agli impressionisti sin dalla prima mostra del 1874 e alla pittura en-plein-air fatta di tocchi e di luce, nella geometria vedeva un aspetto strutturale e costruttivo. La riduzione a relazioni geometriche del mondo era, per Cézanne, strumentale all’edificazione delle forme, un po’ come nel Rinascimento fu la prospettiva, anche se, questa, nata su intenti tecnico- rappresentativi, ha portato in certi artisti a connotazioni metafisiche.
Per Cézanne, invece, non vi è mai stato, mi pare, un intento metafisico e trascendente, ma la geometria era strumento per trovare una simmetria tra la realtà e la sua rappresentazione. «Voglio dire – e qui prendo le parole di un’altra lettera del 1904, ma di luglio, sempre a Bernard – che in un’arancia, in una mela, in una palla, in una testa, c’è un punto culminante; e questo punto è sempre – malgrado il terribile effetto di luce ed ombra, sensazioni di colore – il più vicino al nostro occhio; i bordi degli oggetti fuggono verso un centro posto sul nostro orizzonte». La lettura geometrica del mondo era per lui un modo di mettere ordine alla visione, il suo era un “occhio razionale” che cercava l’ordine oggettivo delle cose. Di Cézanne io ho sempre condiviso l’aspetto riduzionista, di distillazione, di essenza per le cose, anche se nella mia pittura lo sguardo ha ben poco a che fare con l’oggetto in sé. Il corpo nudo della realtà lo si può solo vestire di nuovi panni e maschere, ma non lo si può separare da questi: la realtà è la relazione, la somma del nostro sguardo e la cosa stessa. Non esiste uno sguardo oggettivo. Non sono le apparenze ad ingannarci, ma siamo noi ad ingannare loro.
C’è un altro aspetto che amo molto di Cézanne. «Ho lavorato tutta la vita – scrive Cézanne in una lettera del 1896 a Joachim Gasquet – per arrivare a guadagnarmi il pane, ma credevo che si potesse fare della buona pittura senza attirare l’attenzione sulla propria vita privata. Certo, un artista desidera elevarsi intellettualmente il più possibile, ma l’uomo deve rimanere nell’ombra». Parole sante. Penso invece ad oggi, alla mitologia che viene creata ad arte dal mercato intorno alla figura dell’artista. Il pittore deve scomparire, deve rimanere solo l’opera.