domenica 6 ottobre 2013

l’Unità 6.10.13
Un’altra vergogna
Lampedusa, salvarsi è reato
L’assurdo destino dei migranti: o muoiono o vengono indagati
Boldrini: «L’unico reato è non soccorrere. In fondo al mare ci sono ancora 252 cadaveri»
di Manuela Modica


Se non arrivi sul fondo sabbioso delle acque italiane, se sopravvivi alla morte, hai commesso un reato: sei un criminale. E il nome che non entra nella lista dei cadaveri da inviare nei cimiteri disponibili, verrà impresso nei fascicoli delle procure. Quella di Agrigento li ha incriminati per reato di immigrazione clandestina tutti e 155 ma non c’era altro da fare secondo la legge Bossi – Fini. Dopo la tragedia, dopo il dolore, questa assurda beffa. «Dovuta», come dicono i giudici, che hanno solo quella legge a cui fare riferimento.
Le braccia che li hanno afferrati dal mare e la lunga mano della giurisprudenza italiana: il paradosso di Lampedusa è questo. E non lascia margini: «È un fatto obbligato, per cui questi naufraghi, come tutti i migranti che entrano con queste modalità nel territorio italiano, sono denunciati per immigrazione clandestina», il procuratore aggiunto di Agrigento Ignazio Fonzo ha solo esercitato l’obbligo dell’azione penale. Una beffa per i superstiti ma anche per i soccorritori: «Ora vogliono denunciarmi? Sequestrarmi la barca perche abbiamo salvato delle persone? Vengano pure, non vedo l’ora», commenta fuori di sé Vito Fiorino, uno dei primi soccorritori.
E sul paradosso della tragedia è lapidaria la presidente della Camera Laura Boldrini, tornata sull’isola dove già era stata più volte come commissario dell’Onu per i rifugiati: «Soccorrere è un dovere non soccorre è un reato». Così l’ex commissario oggi terza carica dello Stato perlustra l’isola: ha visitato il centro di accoglienza, ha incontrato i rappresentanti del progetto Praesidium e il gruppo interforze. Incontri scanditi dalle dichiarazioni: «C’è bisogno di fare chiarezza sulla legislazione. Con l'introduzione del reato di clandestinità in qualche modo è passata l'idea che soccorrere in mare è un problema, può esporre a problemi giudiziari. La legge del mare dice tutt'altro e se c'è un reato, questo si chiama omissione di soccorso. Con le uniche misure repressive non risolveremo mai questo problema. Chi fugge da guerre e dittature, non sarà fermato da leggi più dure. È un’illusione». Ma sui soccorsi interviene anche Giorgio Bisagna, avvocato del foro di Palermo, esperto di diritto dell’immigrazione: «I pescatori che aiutano i migranti in mare in difficoltà non compiono reato e quindi non sono perseguibili penalmente. E lo prevede sia il codice della navigazione che la tanto criticata legge Bossi-Fini che all’articolo 12 comma due prevede che fermo restando quanto previsto dall'articolo 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato». Il paradosso è nel cavillo: «Tutto ruota intorno al concetto di stato di pericolo o di bisogno in cui si trova il migrante. Le indagini in passato sono scattate nei confronti di marinai che hanno soccorso extracomunitari che solcavano il mare in situazioni non di immediato pericolo, secondo i magistrati. Insomma se il migrante non sta per affogare chi lo aiuta corre il rischio di finire sotto processo». Mentre: «Nel caso del naufragio di Lampedusa – osserva ancora Bisagna il reato potrebbe essere stato commesso da chi non è intervenuto a prestare i soccorsi ai profughi in acqua».
Ieri pomeriggio, intanto, è stato il momento della celebrazione religiosa mista musulmana e cristiana nell’hangar dove sono stipate le 11 bare delle vittime. Un rito straziante officiato da don Stefano Nastasi a cui, oltre al presidente della Camera, alla delegazione parlamentare e al sindaco Giusi Nicolini, hanno preso parte alcuni dei sopravvissuti e una decina degli ospiti del centro arrivati nei giorni scorsi. Lacrime e urla, disperazione e odore di morte in quello stanzone dove una decina di altre bare attendono il ritrovamento dei corpi che sono ancora in fondo al mare. «Tutti avrebbero dovuto sentire il loro pianto», ha commentato trattenendo le lacrime la sindaca. Una processione dolente in cui uomini e donne hanno pianto fratelli, amici o semplici compagni di sventura. E sono stati sempre loro a chiedere di poter riconoscere le salme dagli effetti personali trovati addosso.

l’Unità 6.10.13
Ignazio Fonzo
Il procuratore di Agrigento già in passato ha sollevato la questione di costituzionalità alla Corte
«Le sanzioni sono state annullate, il reato è rimasto»
«Obbligati all’atto, quella legge è ingiusta e inutile»
di Salvo Fallica


«Per la legge italiana appena i migranti mettono piede sul suolo italiano commettono reato di immigrazione clandestina. Sia chiaro a tutti che questa è una misura prevista dalla legge Bossi-Fini, noi dobbiamo applicarla. Come si suol dire, è un atto dovuto». Parla così il procuratore aggiunto di Agrigento, Ignazio Fonzo, uno dei due magistrati che coordinano le indagini sulla recente tragedia avvenuta nel mare che bagna Lampedusa. Fonzo aggiunge: «Per la legge italiana i migranti commettono il reato di immigrazione appena arrivano, salvo che poi venga loro riconosciuto lo status di rifugiati, venga concesso l’asilo politico, o comunque il processo venga definito con una sentenza di non luogo a procedere per la speciale tenuità del fatto. Appena arrivano noi dobbiamo indagarli. In passato abbiamo sollevato eccezioni di costituzionalità, ma la Corte le ha respinte. Ha ritenuto il reato compatibile con il nostro ordinamento».
Giuridicamente la genesi di tutto è la legge Bossi-Fini?
«La questione nella sua drammaticità è molto semplice, nel 2009 con uno dei tanti pacchetti sicurezza, per quello che riguardava il fenomeno dell’immigrazione clandestina, nel nostro ordinamento è stata introdotta una nuova fattispecie di reato, l’articolo dieci bis della legge Bossi-Fini, che punisce chi si introduce nel territorio dello Stato con una pena di euro 5000. Fu anche introdotta un’aggravante comune per altri delitti talora fossero stati commessi da clandestini. L’aggravante è stata cassata dalla Corte, il reato di immigrazione clandestina invece è rimasto nell’ordinamento».
Come potrebbe intervenire il legislatore?
«Il legislatore dovrebbe rendersi conto che il reato di immigrazione clandestina è del tutto inutile, sia sul piano preventivo che repressivo. Trattandosi di un reato che non serve né dal punto di vista della prevenzione generale né di quella speciale si potrebbe addivenire alla sua abrogazione».
Può spiegare ai lettori l’inutilità del reato?
«Sul piano repressivo è inutile perché chi sta fuori e viene dall’estero non conosce la legge italiana e non viene informato del reato. Ma anche se ne fosse informato, che preoccupazione può avere una persona che fa una lunga traversata nel mare della sussistenza di un reato che viene punito con una pena pecuniaria di 5000 euro? Che mai sarà chiamato a pagare dal momento nel quale verrà espulso dall’Italia. Aggiungo, anche se vi sono state condanne passate in giudicato, nessuno ha mai pagato questa somma. Bisognerebbe eliminare questa fattispecie di reato che non ha alcun carattere pratico».
Vi sono state polemiche sui soccorsi in mare. Vi è qualche inchiesta in corso? «Non vi è alcuna inchiesta, perché non vi è alcuna denuncia. Vi sono state solo segnalazioni di privati che hanno raccontato fatti a cui avrebbero assistito. Ma si tratta di dichiarazioni alla stampa, alle televisioni, non vi è alcuna denuncia formale. Negli atti non risulta alcun elemento attendibile per verificare se vi siano stati omissioni o ritardi».
Come procedono le indagini?
«È indagato uno scafista di nazionalità tunisina. Sul barcone in cui vi erano tutti somali ed eritrei, vi era un soggetto di nazionalità tunisina, già in passato respinto e rimpatriato nel suo Paese dopo un tentativo di sbarco. Vi sono in corso indagini della polizia giudiziaria. Non posso aggiungere altro».
Quando le luci dei riflettori si spegneranno l’emergenza immigrati non si fermerà...
«Il punto è proprio questo. L’immane tragedia dell’altro giorno ha avuto giustamente un grande clamore, ma la vicenda immigrati va avanti da tempo. Se non vi fosse stata la drammatica conclusione di questo sbarco, purtroppo la vicenda avrebbe lasciato per lo più indifferente il 90% dell’opinione pubblica. È un problema all’ordine del giorno che va affrontato con costanza. Purtroppo in Italia ogni volta che vi è una problematica complessa, si pensa che la soluzione la debba trovare la magistratura. Poi però le soluzioni non piacciono all’uno o all’altro. Questa è un problema che va affrontato in ambito internazionali. Le organizzazioni del traffico di essere umani sono estere e vanno perseguite all’estero».

il Fatto 6.10.13
Il protocollo dell’isola dei conigli
di Antonio Padellaro


Ma quali imperdonabili colpe hanno i poveri morti di Lampedusa abbandonati, bruciati, annegati e adesso usati, maneggiati, falsificati ed esibiti come una qualunque, dozzinale merce politica e televisiva? Che dire del ministro Alfano che “unendosi alla vergogna del Papa” ne tradisce il pensiero e lesto se ne appropria avendo, al contrario, Francesco rivolto il grido sdegnato anche e soprattutto a quegli uomini di governo che potevano fare e non hanno fatto. E che poco hanno intenzione di fare visto che Angelino mette le mani avanti e ci comunica che “forse non sarà l’ultima tragedia” come se gli oltre 6mila migranti, che in un decennio hanno concluso la loro traversata in fondo al mare morto siciliano, fossero la conseguenza di una fatalità imperscrutabile e inevitabile. Cosa dunque dobbiamo pensare quando la presidente della Camera Boldrini ci dice che “nulla dovrà essere più come prima”, visto che “prima” c’era lei che per conto dell’Onu si occupava a tempo pieno di quei rifugiati di cui ora non risulta che si occupi più nessuno? E quel tutto che deve cambiare perché nulla sia più come prima come potrà farlo in presenza di leggi infami e imbecilli come quella Bossi-Fini che prevede l’accusa di favoreggiamento anche per chi soccorre in mare persone stremate che stanno per morire? (Senza contare il reato di immigrazione clandestina che sarà contestato ai superstiti, colpevoli forse, di essere rimasti vivi). Come può cambiare la burocrazia vigliacca del nulla impastato col niente che, mentre le barche dei pescatori affondavano stracolme di corpi disperati, avrebbe risposto alla richiesta di trasbordarli sulle motovedette, “non possiamo, dobbiamo aspettare il protocollo”.
 Frase talmente abietta che l’unica cosa da augurarsi è che non sia mai stata pronunciata. E se il premio Nobel per la Pace andrebbe giustamente assegnato alla nobile gente di Lampedusa, per il senso profondo che hanno dato alle parole accoglienza e soccorso, quale solenne menzione di biasimo si dovrebbe appuntare sul petto di chi doveva intercettare il barcone con il dispositivo Frontex o per lo meno, avvistarlo con i radar e che avrà per sempre sulla coscienza quella moltitudine implorante e sommersa a poche centinaia di metri dalla costa? Vicino a quell’Isola dei Conigli, dalla notte del 2 ottobre luogo geografico della disperazione e dell’ignavia. Che hanno fatto di male i poveri corpi di Lampedusa per essere esposti infine nei talk show della sera, vittime che i consueti ospiti urlanti si sono rinfacciate nel solito pollaio tra finta commozione e autentica oscenità? Potrebbe non essere l’ultima pena riservata a questi eritrei e somali colpevoli di essere fuggiti dalla fame se, come si teme, il minuto di silenzio loro tributato negli stadi dovesse essere interrotto dai fischi e cori razzisti. Sarebbe la degna marcia funebre per un Paese che è naufragato molto tempo fa.

l’Unità 6.10.13
Livia Turco : la politica dell’immigrazione tutta fondata sul sistema penale è fallita con risultati disastrosi. Bisogna rendere praticabili le vie legali
«Via la Bossi-Fini. Sì a una nuova legge sul diritto d’asilo»
intervista di Jolanda Bufalini


ROMA La notizia è che i sopravvissuti alla strage sno indagati per immigrazione clandestina.
Cosa ne pensa?
«Una beffa atroce, una insensatezza inqualificabile. Cosa devono subire ancora questi poveri cristi? È inequivoco che vengono da Eritrea ed Etiopia, fuggono dalla guerra. Questo è il frutto della Bossi-Fini e della Berlusconi-Maroni».
Che relazione c’è fra le leggi e la tragedia di Lampedusa?
«Non è che la tragedia è causata da quelle leggi tremende, che vanno cambiate a prescindere. Ma io soffro della confusione, del fatto che non si riesce a fare la banale distinzione fra gli immigrati che vengono nel nostro paese per cercare lavoro e i richiedenti asilo, i rifugiati che fuggono dai conflitti. Questa distinzione basilare non appartiene al lessico politico, al lessico pubblico del nostro paese. E questa è una gravissima responsabilità delle politiche del centrodestra, sciagurate per il clima culturale che hanno creato, le esemplificazioni per cui saremmo invasi dai clandestini».
Bossi lo ha ribadito ancora ieri, che la sua legge è l’unica barriera all’invasione.
«Poveretto, è la riprova di quanto dura e ostinata e pervicace sia quella posizione che tanto danno ha fatto. Io spero che questa tragedia faccia capire agli italiani che quelle persone non vengono qui a cercare lavoro ma fuggono dalla guerra e dai conflitti»
Il presidente Napolitano ha chiesto una legge sul diritto d’asilo
«Ha ragione, la nostra Costituzione è chiarissima e lui, da ministro dell’Interno, fece la proposta di legge. E voglio ricordare anche Bruno Trentin che, da presidente del Cir (Centro italiano rifugiati), si batteva per questo. In 20 anni non siamo stati capaci di costruire una rete dell’accoglienza per rifugiati e richiedenti, non siamo riusciti ad uscire dalla logica della emergenza. C’è la rete dei comuni (Sprar, sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati, ndr), 8000 posti. Ma, quando arrivavano i tunisini, durante le primavere arabe, l’Italia è andata in tilt, siamo riprecipitati nella emergenza gestita dalla protezione civile, li abbiamo messi negli alberghi, gli abbiamo dato dei soldi e li abbiamo rispediti via. Il clima politico e culturale per cui esistono solo i clandestini ha prodotto come risultato che l’Italia non ha un sistema decente di accoglienza».
Cosa c’entra la BossiFini con l’asilo?
«Nella Bossi-Fini ci sono due articoli che dettano pessime norme sul diritto d’asilo, questo non si dice mai. La Bossi-Fini è animata dall’intento di limitare le richieste d’asilo e, allora, a Lampedusa e negli altri approdi del Mediterraneo trovi commissioni che devono attuare procedure complicate e farraginose, i requisiti per il diritto d’asilo sono assolutamente restrittivi. La legge Bossi-Fini va cancellata non solo per i disastri che ha provocato sugli ingressi per chi cerca lavoro e sulle espulsioni. Va abrogata anche per le norme sul diritto d’asilo che devono essere in coerenza con l’Europa».
Già, l’Europa. Ci lascia soli?
«L’Italia deve farsi ascoltare, deve battere il pugno sul tavolo. Ma dov’era quando si decideva, con Dublino 2, la norma secondo cui chi arriva deve obbligatoriamente fermarsi nel paese dove è sbarcato, anche se quello non è il paese dove voleva arrivare? L’Italia, soprattutto deve fare gioco di squadra, con la Spagna, con la Grecia, i paesi le cui coste affacciano sul Mediterraneo. Fare politica in Europa, come la fanno i paesi del Nord. Certo, è urgente una politica europea di solidarietà e ci si deve rendere conto del dramma del Mediterraneo. Però noi dobbiamo fare il nostro dovere, non è vero che l’Italia abbia le carte in regola. Siamo stati richiamati per gli standard inqualificabili dell’accoglienza, per li incidenti in mare, per i trattamenti ai rifugiati. Francia e Germania non è con non facciano il loro dovere, hanno i loro asylantes, che arrivano via terra, i numeri dicono che ne hanno di più».
L’Europa, attualmente, nel Mediterraneo, fa solo pattugliamento con Frontex «Il controllo delle frontiere è importante perché tiene sotto scacco gli scafisti, così come è importante avere le risorse per l’accoglienza, ma è chiaro che noi dobbiamo cambiare le nostre norme per il diritto d’asilo».
Cosa può fare il governo Letta-Alfano?
«La legge Bossi-Fini non è emendabile ma un governo di concordia nazionale dovrebbe almeno abrogare quegli articoli sul diritto d’asilo, abrogare il reato di clandestinità. Si deve capire che la politica dell’immigrazione tutta fondata sul sistema penale è fallita. L’immigrazione irregolare è aumentata. È tutto l’impianto che è stato fallimentare, dal contrasto agli ingressi all’accompagnamento coatto alla frontiera».
Il suo discorso si è ampliato a tutta la politica di immigrazione
«Il punto è rendere praticabili le vie legali, il governo deve vincere questa sfida. Noi ci avevamo provato, con gli sponsor, con l’incotro domanda offerta, con la formazione in loco. E con gli accordi bilaterali. Si ricorda i morti e le tragedie dai Balcani, dall’Albania? Oggi, grazie all’accordo bilaterale fatto con Prodi e Napolitano, in Albania si fa il contrasto alla tratta e non c’è più immigrazione clandestina».

l’Unità 6.10.13
Kais Zriba, giornalista e blogger, tra i protagonisti della «rivoluzione jasmine» tunisina: «La nostra battaglia di libertà continua. Non siamo vinti»
«Ponti umanitari per chi fugge da miseria e dittature»
intervista di U. D. G.


«Di fronte a tragedie come quella di Lampedusa, l’Italia e l’Europa devono saper assicurare accoglienza, garantire asilo, praticare giustizia e chiedere perdono». La strage di migranti vista dalla sponda Sud del Mediterraneo. Speranze, paure, di un mondo arabo che chiede un dialogo alla pari con l’Europa. E ancora: presente e futuro delle «Primavere arabe»: l’Unità ne discute con uno dei giovani protagonisti della «rivoluzione jasmine»: Kais Zriba, giornalista, blogger e attivista tunisino, co-fondatore del blog di citizen journalism Le Capsien. Zriba è uno dei protagonisti del Festival di Internazionale in corso, con successo, a Ferrara. Vista dalla sponda Sud del Mediterraneo, cosa si prova davanti alla strage di migranti che ha sconvolto Lampedusa e scioccato l’Italia?
«Personalmente non sono molto sorpreso anche se fa ovviamente molto male al cuore vedere e rivedere le stesse cose riprodursi più volte. È una catastrofe umanitaria quella che è successa, ma non sono scioccato nel senso che è semplicemente una continuità della falsa politica migratoria Europa e maghrebina. E se posso dire anche a livello mondiale non si rispetta il diritto delle persone di viaggiare, il diritto alla libera circolazione, di essere liberi nel movimento. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Credo che le autorità italiane dovrebbero assumersi le proprie responsabilità verso le vittime di questa tragedia e le loro famiglie e lo stesso dovrebbe fare l’Unione Europea, assente, se non apertamente ostile, rispetto ad una politica di accoglienza e di asilo degni di questo nome. Il senso di giustizia deve far sì che si faccia luce anche su altre tragedie, colpevolmente dimenticate, che si sono susseguite in questi anni nel Mediterraneo. Penso, ad esempio, ai tanti tunisini “scomparsi”. Di loro non si sa se sono morti o dispersi. In tanti, avevano cercato una via di fuga su quelle carrette del mare affondate nel Mediterraneo».
In una intervista a l’Unità, Predrag Matvejevic ha definito il Mediterraneo come «la tomba della speranza». cosa chiedono i giovani dell’altra sponda all’Italia e all’Europa?
«Di guardare con occhi sgombri da pregiudizi agli eventi che hanno segnato e continuano a segnare i Paesi del Sud del Mediterraneo. Costruire “ponti” di dialogo e non Muri divisori. Fare del Mediterraneo un’area di cooperazione e non , per l’appunto, una “tomba della speranza”. Per quanto riguarda la Tunisia, il mio Paese non fa ogni due anni o tre anni una rivoluzione, erano
circa cinquant’anni che eravamo sotto due dittature. Oggi ci sono molti problemi rispetto alla crisi economica, gli assassinii politici, con i ritardi della giustizia, ma cercheremo di rafforzare la società civile continuando a lavorare notte e giorno. Il cambiamento, quello vero, è un processo che richiede tempo e energie».
Guardando all’oggi della Tunisia, cosa è rimasto della rivoluzione jasmine?
«I giovani chiedono quattro cose, quelle che erano alla base della rivoluzione: lavoro, libertà, dignità nazionale e rompere il vecchio sistema non solo in Tunisia ma a livello mondiale. Questo sistema mondiale che ha dimostrato il suo fallimento, sia nei Paesi arabi che in quelli occidentali. Una nuova generazione è scesa in campo; ragazze e ragazzi che vogliono combattere questo sistema che ha fallito. Una generazione che crede davvero di poter cambiare il mondo, e prova a farlo. E non è davvero poca cosa».

il Fatto 6.10.13
Cronaca da Lampedusa: obbligo autocensura
di Paolo Ojetti


Cosa resta della tragedia di Lampedusa? Poco, quasi niente. In tutti i telegiornali sono passate immagini ripetitive e di maniera. Possiamo elencarle: una distesa di sacchi di plastica nera, un via vai di soccorritori, qualche motovedetta dondolante, un migrante raccolto su un gommone, un altro afferrato da un sommozzatore. Dov’era la percezione reale delle dimensioni dell’accaduto? Forse in un unico e breve fotogramma: una donna della protezione civile, sopraffatta dalla fatica e dal dolore, che piangeva silenziosa aggrappata al corrimano di una passerella di acciaio. Adesso, di corsa, fiaccolate, funerali, omelie, fiori, pianti e coscienze di nuovo assopite. C’erano altre immagini. Dure, crude, insopportabili. Di quelle immagini che le nostre televisioni – fatta salva la libertà di ogni testata – accompagnano con un’avvertenza: “Quelle che stiamo per mandare in onda sono immagini molto crude che potrebbero urtare la sensibilità del telespettatore…”, eccetera. Perché sono state oscurate e tagliate? Non è la prima volta che le televisioni (ma anche i giornali sotto altro profilo) si trovano davanti a questo dilemma: pubblicare o non pubblicare? I casi sono innumerevoli e le soluzioni diversissime. Si sono viste le torture di Abu Ghraib e di Guantanamo. Non si è mai vista la strage del villaggio vietnamita di My Lai. Si sono viste le impiccagioni dei criminali nazisti a Norimberga, ma non i marines che seppellivano vivi gli iracheni durante Desert Storm. Si sono visti pochi frammenti della strage di Utoja, quasi niente della mattanza di Columbine. Le immagini, tutte, anche le più spiacevoli e insopportabili, servono?
LA DOMANDA è stata portata alle estreme conseguenze a proposito della Shoah: senza i filmati degli orrori di Auschwitz, Treblinka, Bergen Belsen i negazionisti avrebbero avuto la strada spianata? E allora la polemica è sempre quella: cosa resterà delle 350 vite perdute a Lampedusa se i Tg hanno in definitiva dedicato più attenzione alla visita di Alfano e di Laura Boldrini (e al Papa ad Assisi, nonostante si sia lamentato del monopolio delle “verità televisive”) che ai corpi gonfi di donne e bambini? In proposito non esistono sondaggi, ma abbiamo il fondato sospetto che la politica dello struzzo e delle tre scimmiette vincerebbe. È, alla fine, anche la politica delle televisioni nazionali: un tanto di ipocrisia e un tanto di autocensura mascherate da compiti “educational” mettono al riparo da fastidiosissime grane.

il Fatto 6.10.13
Governo Letta per forza. Ma non si sa bene perché
di Furio Colombo


Sì, ma Enrico Letta chi è? Non intendo discutere la persona, che è una brava persona, con buoni studi e buoni maestri. Ma il criterio è che, se scarti il segretario di un partito che non è in grado di formare un governo, come ti regoli dopo? Scegli il vicesegretario e così via, oppure c’è qualcosa di speciale che guida i rabdomanti verso Letta?
Infatti, a turno, capannelli di persone stimabili si riuniscono per dirci: “Questo Letta va bene”. A confronto con chi? In base a quale criterio? Certo, sa l’inglese, e non è poco, nella politica italiana. E dobbiamo ammettere che ha un tratto anche più insolito, in questa politica: è gentile, ti saluta, e vi assicuro che questa piccola abitudine non è affatto comune, nei corridoi del nostro Parlamento.
Tutto bene, ma da dove discende una così condivisa primogenitura? Volendo allargare il materiale per risolvere il quiz, ci si potrebbe soffermare a ripensare due piccoli episodi avvenuti nelle ore della vittoria del citato Letta al Senato e alla Camera.
IL PRIMO – NEL MOMENTO in cui Berlusconi fa la mossa di arrendersi – è quello stringersi la mano di Letta e Alfano sotto il banco del governo, scambiando un sorriso sodale (ma anche giovane, allegro, fraterno) e intanto sillabando sottovoce (Letta ad Alfano) “grande”. Qui ci troviamo di fronte a un legame che è andato molto al di là di una alleanza politica forzata dalla drammatica circostanza di non lasciare l’Italia senza governo. L’altro episodio è quando il capo dello Stato dice “abbiamo vinto una sfida”. Ma di chi? Contro chi? In che senso questa sfida (un voto alle Camere) coinvolge il presidente della Repubblica? In che modo si stanno ridisponendo i pezzi del gioco? Ma proviamo a vedere se viene un po’ di luce tentando di rispondere alla domanda: qual è la missione? Come nel thriller The Bourne Identity , nel corso dell’avventura cambia l’identità del protagonista. Prima era una persona nuova, ma con una qualche esperienza di governo, che avrebbe occupato in modo non troppo vistoso il posto di numero uno in modo da non squilibrare troppo il numero due Alfano (ripagato, comunque, con due posizioni) alla guida di un drappello di persone caute, provenienti da una parte e dall’altra, per far fronte all’emergenza. Dunque missione breve, per la quale erano richiesti toni soft, tiro preciso e pochi bersagli.
IMPROVVISAMENTE ci troviamo di fronte a questo cambiamento: Enrico Letta è l’unico, il suo governo non può essere sostituito o cambiato con un altro governo. Non è più una buona soluzione. È l’unica risposta possibile – lui e le persone che lo accompagnano – alla crisi che ci circonda, ma anche alla domanda di riforme del Paese.
Le stesse fonti che, anche da lontano, anche dalle agenzie di rating, ci avvertono, continuamente e malignamente, che il pericolo perdura, tengono ad aggiungere che il governo Letta è l’unico che può portarci (o tenerci) sul giusto percorso.
E lo fortificano avvertendoci: siete ben lontani dall’essere arrivati alla soluzione. Questa strana situazione, confermata anche dal presidente della Repubblica e dai migliori commentatori politici del Paese, non è mai seguita da una spiegazione, come accadeva per il prof. Monti e il suo illustre curriculum di economista noto nel mondo.
La risposta a tutti i nostri problemi è Letta e basta. Ti viene fatto capire che discuterne è fastidioso, ma anche inutile. Misteriosa non è la persona ma l’unicità del ruolo e il riserbo sulla missione. Si deve tenere testa alla crisi, va bene. Ma dove porta il viaggio guidato e da non discutere? Quali istruzioni sono state date al capo gita?
INTANTO è cambiato l’equipaggio senza che alcuno, dal secondo ufficiale al mozzo, sia sbarcato o sia stato sostituito. È cambiato, come dire, dentro di sé. Adesso abbiamo un governo stabile né di destra né di sinistra, né conservatore né progressista, né Pd né Pdl, né con Berlusconi né contro Berlusconi. Occasionalmente il Pdl di lotta e quello di governo si scambiano i ruoli, come nella difesa di Berlusconi nella Giunta delle Immunità del Senato. Oppure tipi come Alfano diventano due persone nella stessa occasione. Il vicepremier torna da Lampedusa, si presenta alla Camera, e nella prima parte della frase grida “vergogna!” come il Papa, e nella seconda definisce una “stupidaggine” cancellare la legge Bossi-Fini. La domanda resta, ingombrante. Chi sono? Che cosa vogliono? Dove ci portano? Seguendo quale mappa? Disegnata da chi? E perché, pur non essendo stati votati (non in questa formazione) sono quelli giusti, indispensabili, unici?

l’Unità 6.10.13
Il governo va avanti. Riparte il congresso Pd
La crisi si allontana e i democratici tornano a pensare alle assise
Oggi Rosy Bindi riunisce i suoi e annuncia con chi si schiera
Cuperlo: «Dobbiamo dire che tipo di partito vogliamo»
di Maria Zegarelli


ROMA Oggi Rosy Bindi, che riunisce «democratici davvero» a Roma, per la quinta convention dei suoi, annuncerà con chi si schiererà al congresso e quale sarà il suo contributo all’appuntamento che deciderà il prossimo segretario del Partito democratico. Con Matteo Renzi, Gianni Cuperlo, Pippo Civati o Gianni Pittella? «Di sicuro non Civati che non ha votato la fiducia al governo», fanno sapere dal suo entourage. Ed è difficile che appoggi chi ha chiesto la sua rottamazione, Matteo Renzi, anche se su congresso e statuto le posizioni dell’ex presidente Pd e quelle del sindaco di Firenze erano identiche: no a modifiche in corso d’opera e nessun rinvio del congresso.
Ancora in itinere, invece, il percorso di Beppe Fioroni che non smette di sperare in un grande centro, soprattutto dopo la frattura congelata ma non rimarginata nel Pdl. Matteo Renzi, dal canto suo, per ora tiene gli occhi puntati su quanto accade in Parlamento: se davvero nascono i gruppi dei dissidenti Pdl che, pur restando «tutti figli di Berlusconi», come dice la ministra Nunzia De Girolamo, di fatto sarebbero la vera forza dell’esecutivo Letta. Quelli cioè in grado di garantirgli la maggioranza necessaria per una navigazione meno burrascosa, se non proprio tranquilla. Per Renzi sarebbe lo scenario più complicato da gestire, con un esecutivo che potrebbe andare ben oltre il semestre europeo e dunque una premiership difficile da coltivare e tenere fresca così a lungo, e un Enrico Letta nelle condizioni di crescere nei consensi se davvero riuscisse a portare a casa legge elettorale, riforme istituzionali e, soprattutto, interventi in grado di contrastare la disoccupazione e far ripartire l’economia aggacciando la ripresa. «In realtà Letta ha fatto sapere che i suoi orizzonti alla fine del mandato a Palazzo Chigi potrebbero essere altri racconta una deputata di Areadem e quindi non è detto che in caso di elezioni si andrebbe a uno scontro Letta-Renzi». Ma in politica tutto cambia velocemente e il tempo se per alcuni è un ottimo alleato per altri può trasformarsi in un nemico crudele. A breve termine l’unica certezza è il congresso: Renzi ha incaricato Graziano Del Rio di lavorare al programma e il ministro ha già iniziato a ragionarci su insieme a Matteo Richetti, mentre a coordinare la campagna delle primarie potrebbe essere l’attuale segretario dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini.
Gianni Cuperlo più che al programma pensa al partito, racconta all’Huffington post: «Non penso a un congresso programmatico, scriveremo il programma quando metteremo in campo un nuovo centrosinistra di governo. Ora dobbiamo pensare al modello di partito che vogliamo. Renzi lo vuole fondato sul ruolo degli amministratori e dei parlamentari, io penso che non ci serva schiacciarlo sulle istituzioni, ma penso a un partito che riscopra i valori del radicamento, della partecipazione, della democrazia, rivoluzionato e non vecchio, che sia rete e che stia in rete, cosa che finora abbiamo sottovalutato da noi».
IL PD E IL GOVERNO
Civati, che non ha votato la fiducia a Letta e parla di un problema serio di democrazia e «di alternanza», incalza Renzi: «Dica se vuole appoggiare un governo che dura tre anni perché è evidente che la data delle elezioni si è spostata in avanti». E questo è l’altro tema: il Pd e il governo, con questa nuova maggioranza di cui ha parlato il premier ma che allo stato è ancora la stessa di prima, da Berlusconi a Brunetta, passando per Alfano. Cuperlo guarda alla fase 2 e chiede: «Sarà capace il governo di rafforzare la sua azione attraverso un’agenda di priorità su cui noi dobbiamo chiedere di agire con più determinazione ed efficacia? Ci sono banchi di prova immediati. Da Lampedusa al terreno economico e sociale, con la necessità di recuperare il potere d’acquisto dei salari medio-bassi». E se lo chiede anche il renziano Richetti: «Quello che fa la differenza è se il governo entra nella fase 2 e quindi inizia a fare provvedimenti che non sono nella logica dei ricatti e dei compromessi al ribasso perché è arrivato il momento di fare delle cose e non di rimandarle».
Pittella, che ha definito una «tragicommedia» quella in atto nel Pdl chiede il voto in primavera, «insopportabili le larghe intese con Berlusconi», dice senza credere troppo che dallo strappo interno il governo tragga benefici. Per capire se davvero questa maggioranza è stabile ci vorrebbe un fatto politico incisivo come la riforma della legge elettorale, per la quale Roberto Giachetti domani annuncerà nuove iniziative. Perché uno dei tanti scogli da superare prima di tornare al voto è proprio questo: il Porcellum.

Corriere 6.10.13
Guida del partito e leadership alle elezioni Il punto fondamentale su cui ancora i democratici non trovano l’accordo riguarda la modifica dell’articolo 3 dello Statuto, secondo cui il segretario del partito è anche il candidato premier. D’Alema e altri vorrebbero distinguere i ruoli. I renziani, al contrario, chiedono che le due figure siano coincidenti

La Stampa 6.10.13
Matteo Renzi
“Con me segretario Pd Letta sarà più forte”
Il sindaco di Firenze: “Sono contro i poteri forti e molto ambizioso.
Se Enrico durerà ancora 10 anni farò altro. Allora avrò l’età che ha lui adesso
intervista di Massimo Gramellini

qui

Corriere 6.10.13
Il candidato alla guida dei Democratici: non ci sono più equivoci, seve un leader a tempo pieno
«Ora è chiaro: segretario e premier separati»
Cuperlo: il partito difenda il bipolarismo e allontani le operazioni neocentriste
intervista di Daria Gorodisky


ROMA — «Se davvero dal Pdl emergerà una forza collocata nel campo del conservatorismo europeo, di impianto costituzionale e repubblicano, sarà un elemento positivo per il sistema politico e istituzionale. In parallelo, a noi questa novità impone di intervenire su due fronti: sostenere il governo con convinzione, anche incalzandolo sulle risposte alla crisi; e, con il nostro congresso, mettere mano alla riorganizzazione del campo di centrosinistra». In fatto di riorganizzazione, ci sono due punti che Gianni Cuperlo, deputato e candidato dalemian-bersaniano alla prossima segreteria del Pd, vorrebbe incidere nella pietra: ancoraggio al bipolarismo e divisione di incarichi fra guida del partito e candidato alla presidenza del Consiglio.
Lei non vede un forte movimento verso il centro, un generale ritorno alla Dc?
«No, non penso che sia questo il destino del Paese. E credo che dobbiamo difendere il bipolarismo allontanando tentazioni centriste o neocentriste».
In che modo?
«Per quanto ci riguarda, credo che il nuovo centrosinistra non possa essere solo la somma di sigle esistenti o il ritorno a una coalizione che non ha vinto le ultime elezioni di febbraio. Il nostro congresso dovrà servire a definirne la natura e il profilo».
Qual è la sua proposta?
«Il nostro compito non può essere quello di avere un Pd più piccolo e più di sinistra. Al contrario, dobbiamo far confluire culture diverse dando a ciascuna lo stesso diritto di cittadinanza: sinistra, popolarismo, cattolicesimo democratico, ambientalismo, il pensiero delle donne… Serve questo per rilanciare il centrosinistra: mantenere i principi di sinistra, ma guardando avanti».
Un obiettivo già dichiarato molte altre volte...
«Sì, ma oggi la situazione complessiva ci offre delle chance in più. Questa crisi ha cambiato il Paese. Abbiamo perso 8 punti di Pil negli ultimi 6 anni, centinaia di migliaia di posti di lavoro, decine di migliaia di imprese. E non torneremo più quelli di prima. Quindi, abbiamo l’obbligo e l’occasione per ripensare e disegnare quella che sarà, per esempio, la nostra politica industriale dei prossimi 10-20 anni».
Qualche esempio concreto?
«Se non vogliamo perdere la siderurgia, abbiamo bisogno di nuovi criteri di sostenibilità. Oppure, quando parliamo di rivoluzione digitale, non possiamo non considerare che servono ricerca e formazione: settori sui quali la Germania ha aumentato gli investimenti del 15%, mentre l’Italia li ha diminuiti del 20. Ancora: la tutela di suolo e territorio è una leva di crescita, come lo è l’Expo».
A proposito di occupazione, non crede che il governo abbia peccato di leggerezza nella vicenda Telecom: nessun intervento per garantire l’occupazione di migliaia di lavoratori, né per salvare un settore di solito ritenuto strategico dagli Stati?
«Su questo il governo non può rinunciare ad avere un ruolo, non deve dare per scontato il meccanismo di cessione a partire da una revisione della legge sull’Opa».
Matteo Renzi è un suo rivale alle prossime primarie…
«La sua candidatura è un elemento di chiarezza. Ma ora non ci sono più equivoci: l’8 dicembre si terranno le primarie per eleggere il segretario del Pd e non per scegliere il prossimo candidato a Palazzo Chigi».
Che tipo di segretario?
«Un segretario a tempo pieno, che si dedichi soltanto al partito per l’intero mandato congressuale. Un segretario che non si chieda quanto il Paese ha bisogno di lui, ma se l’Italia ha bisogno di noi. Perché ormai è chiaro che la leva del governo non basta: non si cambia il Paese con un riformismo senza popolo. Le vere riforme hanno bisogno di un consenso dal basso».
Vede il nuovo Pd nel Pse?
«Non penso a una pura confluenza. Credo che, se davvero l’Europa è il nostro spazio politico, lì servirà un nuovo partito dei democratici e dei socialisti. La sinistra di prima, da sola, non è una risposta sufficiente».
Secondo lei la denuncia nei confronti di 5 saggi della commissione per le riforme deve comportare conseguenze nella commissione stessa?
«Credo che prima si debba capire bene di che cosa si tratta. Userei un criterio rigorosamente garantista, come sempre».

Repubblica 6.10.13
Epifani: Berlusconi ha perso, per il Pd sondaggi eccellenti
“Alfano faccia i gruppi autonomi o il governo torna nel pantano Letta, ora giù le tasse sul lavoro”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA — «Se Alfano costituisce i gruppi autonomi è tutto più chiaro. Darebbero molta più forza e coesione alla maggioranza. Non è tanto un problema di durata del governo, ma di qualità della sua azione. Perché il pericolo di finire di nuovo nel pantano c’è». Guglielmo Epifani si prende finalmente la soddisfazione di dettare la sua agenda a Palazzo Chigi e ai partiti delle larghe intese. Il Pd può perfino liberarsi dal guinzaglio del Cavaliere che imponeva le sue parole d’ordine: Imu e Iva. «Un’immagine che non è mai stata vera — precisa il segretario dei democratici — . Ma oggi potrei dire: ride bene chi ride ultimo». Per dimostrare che siamo davvero a una svolta storica, da Letta però ci si aspetta un cambio di passo. «Il premier finora ha preso tanti provvedimenti importanti ma con risorse limitate. Comprensibilmente, visto che è salito su un treno in corsa. Ma con la legge di stabilità il governo deve dare la sua impronta di politica economica, facendo delle scelte nette, concentrando tutto su due o tre grandi questioni».
Senza gruppi autonomi, ha vinto di nuovo Berlusconi?
«Al momento, la sua sconfitta è piena. Dal voto di mercoledì sono usciti rafforzati Letta e il Partito democratico. Ci vado cauto con i sondaggi, ma quelli arrivati oggi sulla mia scrivania sono molto chiari: il Pd raggiunge percentuali che non si vedevano da tempi immemorabili. L’idea di far cadere l’esecutivo su un terreno scivoloso come la decadenza, ha provocato una sconfitta sonora di Berlusconi. Mentre ha vinto la determinazione del Pd sulla linea “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”. Detto questo, vediamo se Alfano si prende il Pdl o fa dei gruppi nuovi. Se chi voleva far cadere il governo tornasse a sostenerlo, sarebbe più difficile andare avanti. Meno condizionamenti significa priorità più chiare e più forti».
Quali sono le priorità?
«La crisi sta decelerando ma non è alle porte una ripresa in grado di trascinare l’occupazione. Anzi, potremmo avere una crescita senza lavoro in una fase abbastanza lunga. Per questo si deve chiedere alla politica economica di utilizzare ogni margine a sostegno di investimenti e occupazione. Nelle tante analisi sulla crisi non viene quasi mai citato il dato che conta di più: il meno 25 per cento negli investimenti. La politica deve far ripartire questa voce. L’innovazione si fa con gli investimenti, l’occupazione pure».
Con quali risorse?
«Bisogna innanzitutto allentare il patto di stabilità dei Comuni. È l’unica misura che consente di mettere in circolo denaro in tempi brevi. E nella pancia dei Comuni ci sono le uniche risorse pubbliche disponibili. Se ne parla sempre, ma io chiedo formalmente che questo problema venga risolto. Poi bisogna scegliere una politica fiscale. Il cuneo di Prodi, lo ricordo bene, diede pochissimo alle imprese e per qualche lavoratore addirittura le tasse aumentarono. Stavolta occorre ridurre le imposte sul lavoro. La vera anomalia italiana non è la tassa sulla casa e nemmeno quella sui consumi, che sono in linea con l’Europa. Noi paghiamo molto di più sui redditi da lavoro. Per le imprese bisogna intervenire o sulla base dell’Irap o sulla detassazione degli investimenti».
Servono molti soldi per questo programma.
«Bisogna vedere cosa troviamo nella differenza tra il saggio tendenziale del deficit e quello reale. E comunque non parliamo più di provvedimenti tampone. Possiamo programmare un intero anno».
Se c’è Brunetta è tutto più difficile?
«Non è questione di nomi. Non chiedo la testa di nessuno. Ma c’era un pezzo del Pdl che voleva far cadere il governo. Come possiamo credere che lo sosterrà in futuro con la coesione necessaria? Semplice logica».
Il temuto scambio tra le vicende giudiziarie di Berlusconi e la vita dell’esecutivo non c’è stato, come aveva garantito lei. Stiamo tranquilli anche sul voto segreto del Senato?
«Metto le due mani sul fuoco rispetto al comportamento dei senatori democratici. Anche perché la difesa dello stato di diritto si è rivelata, oltre che un valore intoccabile, anche una linea vincente».
Teme qualche trucco grillino?
«Be’, il loro atteggiamento è inquietante. Non ho mica capito cosa c’era dietro quell’incredibile post di Crimi? Solo gigionismo e pressapochismo? E se un domani qualcuno volesse impugnare il suo voto nella giunta, ci sarebbe spazio per un ricorso?».
Letta, Alfano, Franceschini e Lupi puntano a un progetto centrista?
«Una nuova Dc? È una sciocchezza sia il temerlo sia il pensarlo. Non conviene a nessuno e per me la strada del bipolarismo è irreversibile. Dobbiamo essere sempre più simili al sistema europeo. Più ci avviciniamo all’Europa più siamo virtuosi. Diverso è il discorso sul riassetto nel centrodestra del dopo Berlusconi. Che sarebbe arrivato comunque, prima o poi».
Qual è la legge elettorale più adatta per favorire questo schema?
«Una legge che favorisca il bipolarismo pur sapendo che oggi, finché non si asciuga il bacino di Grillo, abbiamo un tripolarismo. Perciò il mio è no netto al proporzionale. In un modo o nell’altro, c’è bisogno di un premio di maggioranza o di coalizione che renda chiaro lo schieramento vincente. E che le grandi coalizioni sono un fattore temporaneo».
Quanto dura il governo?
«Resto alle parole del premier: l’orizzonte è la primavera del 2015».
Chi sceglierà alle primarie?
«Non mi sono candidato perché mi è stato affidato un compito di garanzia che intendo portare a termine. Sono un uomo della sinistra riformista. Ma, detto questo, quel ruolo di garanzia mi impone di non schierarmi».
Eleggerete un segretario o un candidato premier?
«Un segretario che indichi un progetto per il Paese in uno scenario improvvisamente trasformato. Il Pd doveva essere in grado di battere Berlusconi mentre oggi ci troviamo di fronte a un leader che può essere considerato già battuto».
Che partito vorrebbe lei?
«Saranno i candidati a indicarlo. Io posso solo dire che abbiamo bisogno di un soggetto politico aperto, inclusivo, ma che sia un partito. Non c’è democrazia senza democrazia parlamentare e non c’è democrazia parlamentare senza partiti. Come succede in tutta Europa, del resto».

Corriere 6.10.13
Nel Pd cambiano gli equilibri
La tentazione di virare a sinistra
Timori per il nuovo asse Letta-Renzi. La battaglia riparte dall’Imu
di Maria Teresa Meli


ROMA – Gli ultimi travagli del governo e della sua maggioranza hanno finito per ribaltare i rapporti nel Partito democratico. Coloro (in prevalenza gli ex ds) che, in qualche modo, tentavano di contrapporre Enrico Letta a Matteo Renzi per evitare l’arrivo del «marziano» fiorentino alla segreteria del Pd ora non pensano più che appoggiare il premier sia la strada giusta. Anzi. Ormai danno per scontata l’elezione alla segreteria del Partito democratico del sindaco e guardano con sempre maggior sfiducia alle larghe intese.
Per paradossale che possa sembrare, coltivano più sospetti su quell’alleanza di quanti ne avessero all’epoca del Berlusconi vincente, perché temono la nascita di una nuova Democrazia cristiana versione anni 2000, che raccolga trasversalmente i cattolici di diverse forze politiche, come spiega il neodeputato Davide Faraone: «C’è chi pensa di trasformare il partito in una bad company e, contestualmente, di dare vita a una forza neocentrista».
In questo quadro, come osserva un autorevolissimo esponente del Pd, diventa altissimo e più che mai concreto «il rischio che il congresso si faccia sulla fiducia al governo: da un lato Enrico Letta e Dario Franceschini, dall’altro Massimo D’Alema, i Giovani turchi e i bersaniani, in mezzo Matteo Renzi, che farà il responsabile ma che se l’esecutivo non combina niente non lo difenderà certo con le unghie e con i denti».
Però prima ancora delle assise nazionali dell’otto dicembre l’appuntamento cruciale tra il governo e gli ex ds del Pd (che su alcuni temi avranno dalla loro anche Renzi) sarà rappresentato dalla legge di Stabilità. Il primo segnale di quello che potrebbe accadere a breve è arrivato l’altro giorno dalla segretaria della Cgil Susanna Camusso, che ha criticato il discorso di Enrico Letta in Parlamento: «Non ha usato la parola equità». E ancora: «Ci vuole una redistribuzione fiscale, la stabilità senza i contenuti determina la palude, la stabilità senza il cambiamento è inutile».
Ma anche nel Pd si cominciano a scaldare i motori. Sottolinea l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano. «Sarebbe ora che la sinistra battesse un colpo. I temi non mancano: per ridistribuire bisogna che la legge di stabilità metta un po’ di miliardi sul sociale. E poi sento troppo silenzio dal governo sulle pensioni, ma noi non possiamo stare zitti». E Matteo Orfini allarga il campo d’azione, annunciando: «Faremo le nostre battaglie sulla legge di Stabilità e non solo». Che cosa intenda dire con quel «non solo» il leader dei “Giovani turchi” lo spiega subito: «Per esempio, l’altro giorno il ministro Alfano su Lampedusa è stato sconcertante: retorica e nient’altro. Noi lavoreremo per la creazione di un corridoio umanitario e per l’abolizione della Bossi-Fini». «Insomma — aggiunge Orfini — tanto più adesso che è venuto meno l’alibi di Berlusconi bisogna fare un salto di qualità».
E c’è una battaglia su cui la sinistra vuole tastare da subito il terreno e capire se il berlusconismo è effettivamente al tramonto come si dice: quella sull’Imu. Il Cavaliere aveva legato la sua campagna elettorale all’abolizione di quella tassa sulla casa per tutti. Orfini è da giorni che va dicendo che «l’Imu va rimodulata». Renzi ne è profondamente convinto. E Stefano Fassina ha ammesso che «dentro il governo c’è una discussione in atto». Sarà il modo, dicono al Pd, con cui Alfano può dimostrare la differenza con Berlusconi visto che «poi ha deciso di non fare nessun gruppo autonomo ma ha preferito restare con il Cavaliere». Decisione che non è stata molto gradita dai dirigenti del Partito democratico: «Alfano — ironizza Angelo Rughetti — cincischia, Nunzia De Girolamo fa la paciera, Fabrizio Cicchitto va a palazzo Grazioli, non è che torniamo al via e siamo punto e a capo?».
Insomma, il rischio che, con il passare del tempo, l’elettorato del Pd, non vedendo dei cambiamenti radicali e non assistendo a un divorzio all’interno del Pdl, possa alla fine pensare che non sia cambiato granché preoccupa il gruppo dirigente del Partito democratico. Un motivo in più per sterzare a sinistra e per cercare di costringere il governo a fare altrettanto. E il paradosso è che i tanti che accusavano Renzi di filo-berlusconismo ora intravedono in lui il possibile paladino delle istanze di sinistra. Sentire il sindaco dire al governo, dopo la sconfitta politica di Berlusconi, che è «ora di voltare pagina» placa le tante insoddisfazioni dei «Democrat». Del resto, persino Vendola, un tempo diffidente nei confronti di Matteo Renzi, adesso confida ai suoi: «Rispetto a Letta è un interlocutore più credibile».

il Fatto 6.10.13
Silvio chiederà i servizi sociali. Obiettivo: i Radicali di Pannella
Tv e giornali di corte già mobilitati per creare l’evento mediatico
Intanto al Senato avanza l’ipotesi del voto palese sulla relazione Stefàno
di Car. Tec.


Il partito può aspettare. Qui fra i moderati e i lealisti, e le varie adesioni ornitologiche, di mezzo c’è la condanna Mediaset. Silvio Berlusconi ha consultato avvocati e consiglieri, poi ha ordinato a Franco Coppi, chissà se Niccolò Ghedini l’avrà presa bene, di fare l’annuncio: “Entro la prossima settimana presenteremo un’istanza per l’affidamento ai servizi sociali di Berlusconi”. Il Cavaliere deve scontare un anno su quattro, non vuole i domiciliari perché vuole mostrare il sacrificio: “Così gli italiani vedranno a cosa è costretto un uomo che ha ricevuto milioni di voti. E questo è per me il male minore”. Le televisioni sono già mobilitate. Il Cavaliere vuole creare un evento mediatico e, soprattutto, usufruire di una buona condotta per ridurre i dodici mesi a nove. Il Cavaliere vuole passare per prigioniero politico, e così venerdì pomeriggio ha deciso di consegnarsi ai giudici di sinistra: “Andrò ad aiutare le persone bisognose”. Anche se spera di prestare servizio per il partito Radicale, ne ha già parlato con Marco Pannella: a quel punto, oltre le riprese televisive, un abile regista potrebbe girare un colossal. La resa mediatica di Berlusconi non presuppone una resa per la decadenza. Il fluido Renato Schifani, sta un po’ con Alfano e sta un po’ con i lealisti, ha battagliato per l’intero sabato contro l’ipotesi di voto palese in Senato e contro il Movimento Cinque Stelle che accusa preventivamente il Partito democratico: “Il presidente Grasso dovrà confermare la formula segreta, non ci saranno sorprese. E vi garantisco che i senatori Pdl sono compatti. Berlusconi sta lavorando per l'unità”. Forse a Schifani è sfuggita la dichiarazione-liberazione di Maurizio Lupi: “Il ricatto non poteva essere l’ordine del giorno per il governo”.
DARIO STEFÀNO di Sel, che apre al voto palese in aula, giura di riuscire a scrivere (e spedire) la relazione in un tempo inferiore al limite dei venti giorni. Prima la Giunta archivia la decadenza e prima Grasso potrà convocare l’aula per il timbro finale (o la salvezza estrema). Il calendario non è affidabile. Ma il centrosinistra vuole evitare che la sentenza di Palazzo Madama coincida – o peggio sia in ritardo – con l'udienza in Corte d'appello a Milano per ricalcolare le pene accessorie a Mediaset (19 ottobre). Sembra scontata la mossa di Ghedini: far slittare palazzo Madama, guadagnare almeno tre mesi, mentre il Cavaliere lima i calli o condisce la pasta in una struttura pubblica.
Berlusconi ha trascorso mattina e pomeriggio a palazzo Grazioli, in serata era in programma il ritorno a Milano. Il Cavaliere ha incontrato Angelino Alfano e riascoltato le richieste del ministro: la separazione è sempre possibile. Ma Berlusconi racconta di aver chiarito con Angelino, di aver compreso le sue ragioni. E continua il tiro a bersaglio contro Daniela Santanchè: “Ha creato un pasticcio”. Non difende per niente il direttore Alessandro Sallusti, nonostante ieri pomeriggio abbia approvato il comunicato del fratello Paolo per non certificare quanto influente sul Giornale. Anche il destino di Sallusti resta sospeso, non il giudizio: “Ha esagerato tante volte”. Non è un caso che l'irrequieto Fabrizio Cicchitto sia stato riammesso a corte, mentre la Santanchè risulti ancora in punizione. Berlusconi ha offerto la segreteria unica (Pdl), ma non ha rassicurato su Forza Italia e non cederà di un millimetro su Denis Verdini. C’è chi minaccia scissioni. C’è chi vuole un ministero. E chi, e sono tanti, vuole vendette. Ma Berlusconi ha un’immagine, fissa davanti agli occhi, che non elimina nemmeno se Dudù fa le capriole: finire in prigione il giorno dopo la decadenza in Senato.

il Fatto 6.10.13
Lavoro e ritorno a casa il tran tran dell’affidato


Cesare Previti fece i suoi servizi sociali al Ceis di don Picchi, a Castel Gandolfo da “consulente legale”. Il giudice di sorveglianza decise che avrebbe potuto uscire di casa dalle 7 alle 23, recarsi al lavoro, e rincasare un’ora prima della mezzanotte.
È infatti la figura del giudice di sorveglianza a dover vagliare le eventuali proposte di affidamento alle misure alternative al carcere proposte dalla difesa del reo e verificarne l’andamento. Previti, ad esempio, aveva proposto di fare il consulente legale a Operation Smile, ma finì da don Picchi. La norma, disciplinata dall’articolo 47 dell’Ordinamento Penitenziario, prevede la pena alternativa alla carcerazione per un periodo uguale a quello della pena da scontare. Può essere concessa solo a chi deve scontare una condanna, anche come residuo di pena, non superiore ai tre anni di reclusione (ma questi limiti non valgono se il reo è un malato affetto da Aids conclamata) a condizione che il suo comportamento faccia ritenere che questa misura possa avere per lui effetti rieducativi. Se il condannato è in libertà, come nel caso del leader del Pdl, l’istanza per accedere al-l’affidamento in prova va presentata al pubblico ministero: la decisione è però del tribunale di sorveglianza competente, che decide con ordinanza, dopo aver valutato, sulla base di un’inchiesta del Centro di servizio sociale a cui deve essere affidato, se ricorrono i presupposti necessari e se non c’è pericolo di fuga. Con l’ordinanza vengono anche fissate le prescrizioni che il condannato dovrà seguire: sul lavoro e sui rapporti con il Centro di Servizio Sociale, innanzitutto, ma anche sulla sua stessa libertà di movimento; obblighi che possono arrivare sino al divieto di frequentare determinati posti o di svolgere attività o avere rapporti personali che possono portare al compimento di altri reati. Se il condannato rispetta quanto gli è stato prescritto, per il periodo corrispondente alla condanna da scontare, la pena ed ogni altro effetto penale si estinguono.

Repubblica 6.10.13
Al Capone è all’angolo ma può colpire
di Eugenio Scalfari


IL CAIMANO del regista Nanni Moretti aveva già previsto tutto con qualche anno d’anticipo sui politici e così pure la “ballata” di Roberto Benigni; l’ho ricordati nel mio articolo di domenica scorsa e li ricordo quiancora una volta. Ma l’attore Moretti che nell’ultima parte del film impersona il Caimano ha poco a che fare con Silvio Berlusconi: è un uomo lucido, severo, terribile e soprattutto coerente. Afferma davanti al Tribunale che lo condannerà, che l’uomo (lui) eletto dal popolo a grande maggioranza non può esser giudicato dalla magistratura e rafforza questa sua posizione anche dopo la condanna esortando il popolo alla rivolta senza mai costruire una qualsiasi alternativa e senza affidarsi al consiglio d’un amico o d’un consulente o d’un esperto.
Non ha dubbi, non ha incertezze, non ha ripensamenti, non ragiona con le viscere ma col cervello.
Il Berlusconi vero non è affatto così, anzi è l’opposto di così e lo si vede chiaramente con quella sorta di film dal vero che si è svolto mercoledì scorso sotto i nostri occhi.
Alle dieci del mattino esce da Palazzo Grazioli di fronte al compatto muro di telecamere e fotografi che lo aspettano al varco e va a Montecitorio dove è riunito il grosso dei dirigenti del partito e dei gruppi parlamentari. Li arringa, ribadisce la necessità di votare contro il governo Letta, non apre contraddittori e se ne va.
Palazzo Grazioli però è una porta aperta e i suoi consiglieri lo seguono e salgono fino al suo appartamento. Falchi e colombe fanno ressa, litigano tra loro, alcuni vengono chiamati nello studio dove sta il Capo, con l’ansia e l’angoscia che gli rodono il fegato e gli pesano sulle palpebre. Alfano, Lorenzin, Gelmini, Cicchitto, Sacconi, sostengono la fiducia al governo; Bondi, Santanchè, Verdini, Brunetta, Carfagna, il contrario. Lui ascolta, si tormenta le dita, si passa le mani sul volto, si dimena sulla poltrona. Poi quasi li caccia coadiuvato dalla fidanzata. Soffre ed è evidente a tutti. Fa pena o almeno questo è il racconto che alcuni di loro fanno a chi li attende fuori. Un nuovo confronto è indetto a Montecitorio per il primo pomeriggio.
Intorno alle ore 14 la votazione sulla fiducia sta per cominciare. Letta ha già parlato ed è stato chiaro e deciso, ha esposto le linee del programma economico e di riforma della Costituzione, ha manifestato l’intenzione che il governo duri fino alla fine del 2014, appena terminata la presidenza semestrale del Consiglio europeo. Ma ha anche aggiunto che non vi saranno mai più leggi «ad personam» o «contra personam» riaffermando che le azioni di giustizia, quali che siano, riguardano fatti privati e non debbono avere alcuna conseguenza sul governo che deve soltanto occuparsi degli interessi generali del paese.
Intanto la discussione ferve sempre più accesa nella sala dove il gruppo dirigente del Pdl è riunito attorno al suo «boss». Ma il boss sempre più aggrondato, cupo, tormentato, sudato, che ha perso il piglio dell’Al Capone dei tempi d’oro che gli è stato abituale per trent’anni, ed ora sembra un Re Travicello, sbattuto tra le onde e gli alterchi che s’incrociano intorno a lui. E loro, quelli che disputano sul da fare, sul voto che tra poco ci sarà, sulle conseguenze che ne deriveranno, non si curano più di lui.
Gridano, qualcuno prende a spintoni qualcun altro, alcuni sospirano, altri addirittura piangono. Lui spesso chiude gli occhi che ormai sono diventati due fessure a causa dell’ennesimo liftingmal riuscito e della rabbiosa emozione che lo tormenta.
Ogni tanto un commesso bussa alla porta e avvisa che la «chiama» sta per cominciare. A quel punto lui si scuote, si alza e con voce decisa annuncia che si voterà la sfiducia.
Chi non se la sente resti fuori dall’aula o non voti, che al Senato equivale al voto contrario.
Quasi tutti sciamano, escono nella galleria dei «passi perduti», gremita di giornalisti, infine entrano in aula.
Bondi annuncia pubblicamente con piglio tracotante che il Pdl voterà «no» e così, nell’aula della Camera, fa Brunetta. Non ci sono sorprese in nessun settore delle due assemblee e sui banchi del governo.
Ma Alfano e Lupi sono rimasti dentro e Gasparri con loro.
Per l’ennesima volta gli espongono le ragioni che militano a favore del voto di fiducia. Lui continua a negarle e rifiutarle anche se il sudore riappare sulla sua fronte e le mani sono strette e quasi aggrovigliate l’una nell’altra. A un certo punto – la «chiama» è già cominciata – arriva affannato il vice di Schifani, presidente del gruppo parlamentare in Senato, e gli consegna un foglio di carta dove sono incollate le foto scattate da un fotografo in aula alle spalle di Quagliariello con sopra scritti i nomi dei senatori pidiellini pronti a varcare il Rubicone e a schierarsi a favore del governo Letta. Sono 23 ma si sa già che stanno per arrivare altre due adesioni ed altre ancora arriveranno. In quelle condizioni, scrive Schifani nel suo biglietto, lui non si sente di fare una dichiarazione di voto a nome di un gruppo ormai spaccato e chiede a Berlusconi di farla lui.
Risultato: il boss si avvia con passo alquanto incerto verso l’aula, va al suo seggio, gli viene data la parola e dice a bassa voce quello che abbiamo sentito in tivù e che tutti i giornali di giovedì hanno pubblicato: il Pdl voterà la fiducia ma insulta per l’ennesima volta la magistratura e il Pd. Luigi Zanda, immediatamente dopo di lui, rinvia all’ancora Cavaliere gli insulti ricevuti con parole dure e annuncia la fiducia a nome del partito da lui rappresentato.
Lo spettacolo, perché di questo si tratta, continua con le telecamere che dal loggione riservato alla stampa inquadrano ininterrottamente Berlusconi che si copre gli occhi con le mani e Letta che dopo quella dichiarazione rivolgendosi ad Alfano seduto accanto a lui gli dice «grande» alludendo ironicamente all’ex boss del centrodestra che ormai ha sancito la propria irrilevanza tentando però di coprire la spaccatura del suo partito. * * * Così più o meno sono andate le cose nella giornata- culmine della storia degli ultimi vent’anni. La fine di Berlusconi è anche quella del berlusconismo? Il rafforzamento del governo e la sua stabilità? La crescente forza attrattiva del Pd che sembrava perduta da un pezzo? Così sembrerebbe e così è sembrato quel pomeriggio di venerdì. Ma poi sono sorti alcuni dubbi non infondati che Letta e i suoi più stretti collaboratori stanno valutando e che in questi due giorni drammatici seguiti alla strage degli immigrati a Lampedusa, sono avvenuti sotto traccia anche se qualche indicazione è stata cautamente manifestata.
Se Berlusconi avesse la natura del Caimano recitato da Nanni Moretti, a questo punto non avrebbe avuto dubbi: avrebbe dato ad Alfano la guida del Pdl, si sarebbe dimesso da senatore e si occuperebbe soltanto delle questioni proprie e delle sue aziende. Il Caimano di Moretti fece l’opposto: chiamò il popolo alla rivolta, ma con coerenza, senza mai aver oscillato come il pendolo d’un orologio. Se avesse indicato la strada della conciliazione, l’avrebbe seguita con altrettanta coerenza.
Ma qui, nel Berlusconi vero, sono le viscere a parlare. E’ bugiardo, segue gli umori, non ha alcuna visione del bene comune, odia lo Stato e le istituzioni, è un fantastico venditore di frottole, posseduto da un narcisismo finto spinto all’egolatria.
Perciò farà di tutto per vendere ad Alfano e ai suoi moderati un moderatismo di carta d’argento con dentro cioccolatini avvelenati. Tenterà di logorare il governo facendo leva sui ministri chel’hanno ancora nel cuore (Beatrice Lorenzin l’ha detto e ripetuto a “Porta a Porta” di Vespa). Non sarà più senatore ma sarà ancora e sempre presidente della coalizione, perfino se dovesse andare in galera. Impedirà — fingendosi definitivamente persuaso ad appoggiare il governo — che si formi un gruppo parlamentare fuori dal Pdl.
Metterà in disparte pitoni e pitonesse.
Accetterà che i giornali di famiglia siano diretti da persone gradite ad Alfano. Ma coverà la rabbia e la vendetta aspettando che possano manifestarsi con effetti efficaci. E fidando sulla sopravvivenza del berlusconismo in una parte comunque ragguardevole del corpo elettorale.
A queste evenienze occorre che tutti quelli che hanno una visione del bene comune, moderata o progressista che sia, guardino con la massima attenzione.
Il modo migliore sarebbe di far nascere nuovi gruppi parlamentari e un nuovo partito di centrodestra o di centro. E che insieme al Pd governi questa fase di necessità e approvi la legge elettorale proposta da Violante, fondata su criteri proporzionali con ballottaggio tra i primi due partiti o coalizioni che abbiano riscosso più voti.
Quest’ultimo risultato è essenziale, anche in assenza di gruppi elettorali che dividano in due il Pdl.
Il primo appuntamento sarà tra una ventina di giorni: il voto al Senato sulla decadenza di Berlusconi da senatore.
È un voto pieno di insidie. I pidielle voteranno in massa per Berlusconi, forse con qualche defezione ma poche. Il Pd in massa per la proposta approvata dalla Giunta. I grillini altrettanto. Quindi una maggioranza schiacciante sulla decadenza. Ma andrà veramente così? Pesa ancora il ricordo dei 101 voti contro Prodi di cui ancora si ignora la provenienza; in questo caso possono venire da grillini che li attribuiscano a dissidenti del Pd o da dissidenti del Pd che li attribuiscano ai grillini; o da tutti e due che fanno lo stesso gioco. Dunque molta attenzione.
Il serpente è tramortito ma ci mette poco a riaversi e mordere ancora.

il Fatto 6.10.13
Ricette dal Colle
Caro Macaluso, abbi pietà di te


Capita di tutto, in Italia. Anche di ricevere lezioni da Emanuele Macaluso su “Come uscire dal berlusconismo”. Il corazziere capo del Quirinale spiega sull’Unità che “la fiducia ottenuta dal governo Letta” contro “i tentativi di B. di metterlo in crisi” sarebbe “ancora una volta” merito del “ruolo essenziale del presidente della Repubblica”. Forse è sfuggito a Macaluso che Napolitano non ha votato, diversamente dal Pdl che invece ha votato la fiducia al governo Letta, B. compreso. Poi, con notevole salto logico, equipara la sparata della Santanchè contro Napolitano (“la sua rielezione è stata l’errore più grave del Pdl”) alle “analisi di Padellaro e Travaglio”, che dimostrerebbero come “‘tanto peggio tanto meglio’ è la vocazione dell’estremismo parolaio a destra e a sinistra”. Forse Macaluso non ricorda che fu B. a proporre la rielezione di Napolitano, votato anche dalla Santanchè, mentre purtroppo Padellaro e Travaglio non votavano. E fu ancora Napolitano a imporre le larghe intese con B. (sconfitto alle elezioni), salutate con gran giubilo dai Macaluso, non da Padellaro e Travaglio. Ora questo bel tomo spiega a noi come si fa a “uscire dal berlusconismo”, dopo aver contribuito col suo amato ri-Presidente a farvici rientrare. Ma ci faccia il piacere.

Corriere 6.10.13
Le carte dell’inchiesta in 9 università su presunti favoritismi per le nomine
«Un sistema di malaffare per manipolare i concorsi»
La Finanza fa i nomi di 35 docenti: 5 i saggi di Letta
di Giusi Fasano

qui

il Fatto 6.10.13
I cinque saggi di Letta finiti sotto accusa


É STATO IL GOVERNO delle larghe intese, quello votato al risanamento economico e alle grandi riforme, a scegliere uno strumento straordinario per cambiare faccia all’Italia: una commissione di saggi. I 35 esperti di diritto nominati da Enrico Letta hanno prodotto un documento che il premier ha promesso di tenere in alta considerazione nell’azione dell’esecutivo. Anche perchè l’idea di affidarsi al parere di un organismo esterno aveva avuto l’a s-senso formale del presidente della Repubblica. Ora il coinvolgimento di 5 membri della commissione speciale provoca un silenzio istituzionale rumorosissimo: a parte le difese dei singoli docenti coinvolti, nè il governo nè il Quirinale hanno avuto nulla di dichiarare.

Repubblica 6.10.13
“Così i costituzionalisti si spartivano le cattedre”
La Finanza: almeno 15 concorsi truccati. Spunta una sentenza del Tar scambiata con un posto in ateneo
di Carlo Bonini, Giuliano Foschini


BARI— Concorsi truccati? I saggi del premier invischiati in traffici accademici? Accade che si trovi qualcuno pronto a sostenere che la Guardia di finanza e la procura di Bari non abbiano capito niente. A farlo è Aldo Loiodice, il professore ordinario di Diritto costituzionale da cui questa storia è partita. Un concorso per un dottorato di ricerca a Bari sospetto, l’inchiesta che prende le mosse dopo un articolo diRepubblica, il telefono del professore che finisce sotto controllo e l’indagine che si allarga in tutta Italia. Questo è l’argomento di Loiodice: «Hanno preso una cantonata. Altro che cattedre pilotate. Altro che associati a delinquere. Questa è semplice trasmissione della scienza». Trasmissione di che? «I contatti dei commissari con i capiscuola sono la prova dell’umiltà di un commissario che invece di scegliere in solitudine e con superbia il vincitore si lascia illuminare dalle opinioni autorevoli dei colleghi: una scelta umile, controllata e documentata».
Con buona pace di Loiodice, però, la Guardia di Finanza si è convinta del contrario. Ritiene di avere ricostruito — annota negli atti di indagine — «un sistema di corruttele basato su scambi di favore, protezioni reciproche tra i più autorevoli docenti ordinari che tramite accordi clandestini preferivano la logica clientelare rispetto a quella del merito». Erano loro — sostengono — a indirizzare volta per volta la decisione dei membri della commissione che doveva scegliere il professore migliore. I concorsi al centro dell’inchiesta sono una quindicina, da ordinario, associato e ricercatore in Diritto ecclesiastico, pubblico comparato e costituzionale. Dodici le universitàcoinvolte. Tra le prove sospette, quella da ricercatore in Diritto ecclesiastico a Bari, da ordinario in Pubblico comparato alla Università europea di Roma, da associato alla Lum di Casamassima, da ordinario in Costituzionale alla Università europea di Roma, da associato a Macerata e Teramo. I denunciati dalla Guardia di finanza alla magistratura sono 38: tra di loro c’è il gotha del diritto costituzionale, compresi — come ha dato conto ieriRepubblica — cinque dei 35 saggi scelti dal presidente del Consiglio, Enrico Letta per la commissione per le riforme costituzionali. Si tratta di Augusto Barbera, Giuseppe de Vergottini (entrambi dell’università di Bologna), Carmela Salazar (Reggio Calabria), Lorenza Violini (Milano) e Beniamino Caravita di Toritto (Sapienza di Roma). Quest’ultimo ha subìto una perquisizione ormai due anni fa, quando l’inchiesta ora alla sua ultima proroga, era appena cominciata. La circostanza non è neutra. Perché al momento della sua nomina a saggio Caravita sapeva di essere indagato. «Fatti antichi, il nostro assistito è estraneo » replicano i suoi legali, Nicola Quaranta e Renato Borzone che per altro hanno già contestato la legittimità della proroga delle indagini. «Stupefatta e indignata » Anna Maria Bernini, exministro del Pdl, tirata in ballo per il concorso da ordinario in Diritto pubblico comparato. «Di questa storia e di questa inchiesta non so nulla» dice. Eppure quella cattedra — sostiene l’accusa — doveva essere sua. Anche se il concorso (tra rinvii e dimissioni di commissari) in realtà non si è mai concluso.
Si tratta di una di quelle prove bandite tra la vecchia e la nuova legge: tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 l’allora ministro Mariastella Gelmini cambiò infatti le regole concorsuali prevedendo il sorteggio da un elenco di docenti eletti dagli stessi colleghi. Fatta la norma, dicono gli investigatori, trovato l’inganno. Prima —spiega una fonte investigativa — provarono a fare pressioni sul ministero affinché non fosse istituita la nuova norma. Poi, cominciarono a muoversi, proponendo scambi di favori.
Del resto nell’inchiesta di Bari di scambi di favori ce n’è uno particolare perché coinvolge l’università privata Lum e il Tar dellacittà. La figlia di un giudice, Amedeo Urbano, ottenne un contratto proprio mentre il padre decideva di un ricorso da milioni di euro presentato dalla famiglia del Rettore, Emanuele Degennaro, noti imprenditori della città. Risultato: sono indagati sia il magistrato sia il magnifico.

il Fatto 6.10.13
Il senso dei baroni per gli affari. Esami venduti, famiglie piazzate
Da Messina a Roma, i santuari del potere accademico: dove è scandalo continuo
di Luca De Carolis


Dai concorsi truccati per piazzare parenti e amici, agli esami venduti o addomesticati. Sino alle truffe contabili. Lontane dall’essere luoghi di elevazione culturale, tante università italiane sono sentine dove si accumulano reati in serie. Commessi da o per conto dei baroni, poco professori e molto burattinai.
MESSINA. L’università degli Studi messinese è forse la più citata nelle cronache giudiziarie. L’ultima grana risale allo scorso 30 settembre, quando la Guardia di Finanza ha arrestato due docenti “per aver gravemente inquinato” un concorso per ricercatore in microbiologia, bandito nel 2010. Ai domiciliari sono finiti Giuseppe Teti, docente di microbiologia e componente della commissione esaminatrice, e il direttore del dipartimento di Farmacia, Giuseppe Giovanni Bisignano. Proprio Bisignano avrebbe chiesto e ottenuto una corsia preferenziale per il figlio Carlo, che ha poi vinto il concorso. Oltre ai due docenti arrestati, altri cinque gli accademici indagati, tra cui l’ex rettore Francesco Tomasello. Secondo la procura di Messina, “sia la commissione giudicatrice che il vincitore del concorso venivano stabiliti a monte dagli arrestati, con la collaborazione dei colleghi”. In un’intercettazione,TetieBisignano senior recitavano una massima latina: “Pacta sunt servanda” (i patti vanno rispettati). L’università li ha sospesi entrambi. Ma a Messina i guai piovono di continuo. Lo scorso luglio, la Dia di Catania ha arrestato sei persone, tra cui un docente della facoltà di Economia, Marcello Caratazzolo, e un ex consigliere provinciale, Santo Galati Rando, entrambi posti ai domiciliari. Secondo gli inquirenti, erano membri di spicco di un gruppo che corrompeva o intimidiva i professori per condizionare gli esami. A tirare le fila della compravendita sarebbe stata la ‘ndrangheta, che da anni considera l’ateneo come un diplomificio per i rampolli dei boss.
SIENA. Come se non bastassero gli infiniti guai per il Monte Paschi, nella città del Palio sono tempi duri anche per l’università. L’elezione dell’attuale rettore Angelo Riccaboni, risalente al luglio 2010, è stata oggetto di un’inchiesta che in marzo ha portato al rinvio a giudizio del presidente e del segretario di un seggio elettorale per falso ideologico commesso da pubblico ufficiale. Ma il vero bubbone è il buco da 200 milioni nei conti dell’ateneo. Nel giugno scorso, il gup ha rinviato a giudizio 14 persone per accuse che vanno dal peculato al falso ideologico sino all’abuso di ufficio. Tra questi, gli ex rettori Piero Tosi e Silvano Focardi (il predecessore di Riccaboni), direttori amministrativi, revisori di conti, segretari di dipartimento.
ROMA. In riva al Tevere c’è l’università La Sapienza, la più affollata d’Europa (oltre 140 mila studenti). Il campo da gioco del rettore Luigi Frati, ex preside di Medicina. L’ateneo è stipato dei suoi familiari: dalla moglie Luciana Rita Angeletti in Frati, docente di Storia della Medicina, alla figlia Paola (Medicina legale) al figlio Giacomo, diventato professore associato a soli 31 anni: nella facoltà di Medicina. Come raccontò Report, Frati junior discusse la prova orale sui trapianti cardiaci davanti a una commissione composta da due professori di igiene e tre odontoiatri. In questo contesto, pochi giorni fa è scoppiato il caso del concorso pilotato per l’accesso alla scuola di cardiologia del Policlinico universitario Umberto I. In una mail inviata a Repubblica il 13 giugno, c’erano già i nomi dei sei vincitori delle prove per Cardiologia 1, iniziate il 7 luglio. Tra i promossi, un ragazzo che per tre anni è stato l’autista di Francesco Fedele, titolare della prima cattedra di cardiologia alla Sapienza. La replica di Fedele? “A parità di cavallo scelgo quello che conosco”.

il Fatto 6.10.13
Si fa così
Sì, truccare: la tecnica è semplice


Il trucco c’è, e non si deve vedere. Solo che certe volte una traccia resta, a voler essere pignoli. Lo sa Antonio Giangrande, appassionato collezionatore di cronache scandalistiche legate ai concorsi pubblici. Ci ha messo insieme un libro (“Concorsopoli. L’Italia delle raccomandazioni, dei favoritismi e dei concorsi pubblici truccati”) per il quale, dice, non ha alcun merito, tranne la pazienza di mettere insieme uno dopo l’altro i casi che finiscono con clamore su giornali e tivù per finire presto dimenticati.
“E A FORZA DI LEGGERE, mi sono accorto che i punti chiave sono sempre gli stessi - spiega Giangrande -. Dovendo sintetizzare al massimo, bisogna tenere d’occhio il passaggio che sta subito dopo la prova, il colloquio, lo scritto. Già prima il terreno viene preparato, qualche ostacolo rimosso , ma il gioco di prestigio si fa quando le carte sono sottratte agli occhi di troppi testimoni. E si può agire con calma”.
In pratica, che si tratti di esami per avvocati o abilitazioni all’insegnamento, che ci siano da scegliere notai o ricercatori universitari, il passaggio topico arriva quando la prova della persona segnalata è nelle mani giuste : i requisiti preliminari vanno vidimati in ogni caso, il valore del test alzato al massimo, lacune e difetti tralasciati elegantemente. Soprattutto, occorre trattare con estrema severità tutti gli altri candidati.
La controprova scientifica deriva dai casi - ormai costanti - di ricorsi al Tar vinti dagli sconfitti ai concorsi: quasi sempre i giudici verificano che gli esaminatori hanno dedicato alle prove scritte pochissimi minuti, che i testi di prova risultano perfettamene intonsi (privi di correzioni o segni di penna), che i giudizi negativi - espressi con sospetta ripetitività - non corrispondono ai contenuti delle singole performance.
Quando poi è previsto un esame orale, si tende ad assegnare molto punteggio, secondo criteri ampiamente variabili: così il gioco è fatto.
“Certo chi è danneggiato da questi meccanismi si deve mettere lì a fare ricorsi, aspettare anni, inimicarsi l’ambiente Giangrande -. Un girone infernale da cui si può uscire mezzi matti, e comunque già arrabiatissimi prima ancora di iniziare a lavorare”.
SULLA STORIA DEI 38 professori sospettati di aver tessuto una ragnatela asfissiante sul sistema delle nomine universitarie, Giangrande ha un solo commento: “Dopo l’esperienza che mi sono fatto, sono arrivato a una soluzione apparentemente pessima, e in realtà più trasparente: la chiamata diretta. Così se il responsabile di una cattedra, di un dipartimento, di una qualsiasi struttura pubblica ottiene buoni risultati grazie alle persone che sceglie, verrà riconfermato e stimato. Se si circonda di cialtroni raccomandati, farà una figuraccia e saranno tutti cacciati in blocco”.
A patto che chi valuta dall’alto abbia un giudizio puro e immacolato.

il Fatto 6.10.13
L'ex ministro Fabio Mussi
Il kamasutra dei regolamenti è un flop
di Chiara Paolin


L’ex ministro dell’Istruzione Fabio Mussi, causticamente livornese, pone subito l’aut aut: “O i magistrati hanno preso un grosso abbaglio (e prego Dio che sia così), o qui siamo al tracollo definitivo del comparto pubblico”.
   Accidenti: un giudizio tanto severo per qualche spintarella all’università?
   Ennò, il problema è molto serio. Se anche l’élite, l’intelligencija, i più colti della nazione, quelli che studiano dalla mattina alla sera cosa sia il mondo e come funzioni, ebbene se anche questi illustri e magnifici concittadini si dimostrano privi del più elementare senso etico significa che anche l’ultimo baluardo è caduto. Questi qua sono nomi sono grossi, lei capisce.
   Non ci sono sempre state manovre simili nell’università italiana?
   Una quota di favoritismo è sempre esistita, ma aiutare amici e nipoti resta facoltativo, non obbligatorio. E comunque, in proporzione, l’università ha retto meglio di tutto il resto: i nostri ricercatori sono ancora considerati tra i migliori al mondo, anche se guadagnano una miseria.
   In media l’assegno italico è un quarto di quello tedesco, un settimo di quello olandese.
   Esatto, i nostri sono bravi e se possono vanno all’estero dopo che noi li abbiamo formati per bene. Perché sulla ricerca i professori hanno sempre cercato di mandare avanti in gran parte i più dotati, magari con qualche eccezione. Sui colleghi docenti invece la filiera degli amici funziona meglio: finché devo scegliermi i miei ragazzi, che lavorano per me, tengo duro; quando invece si tratta di dare una cattedra che non mi riguarda direttamente, seguo le indicazioni altrui, e so che un domani qualcuno mi sarà riconoscente.
   Si va di cordata.
   Purtroppo sì.
   E le regole per evitare lo scambio di favori?
   Negli ultimi vent’anni sono state tentate tutte le posizioni possibili, un vero kamasutra dei regolamenti locali, nazionali, ministeriali, ordinistici e chi più ne ha più ne metta.
   Non funziona nulla?
   Niente. Trattasi di endogamia, il potere che si autogenera mantenendo intatti gli equilibri interni.
   La Gelmini aveva tentato di spezzare gli abbinamenti tra commissari ed esaminandi mettendo di mezzo  l’estrazione a sorte.
   Bene. Resta la rete logaritmica a lavorare per i baroni.
   Sarebbe?
   Cerchiamo di essere concreti. Esiste un albo nazionale cui i commissari sono iscritti, e domani il mio protetto va sotto esame con alcuni di loro. Io li prendo uno per uno e dico: questo lo faccio chiamare da Tizio, questo da Caio, quello lo conosco io, ed è fatta. L’unico antidoto efficace sa qual è? Semplicissimo: il commissario che ti sbatte il telefono in faccia. E che se ne frega di tutto il contorno.
   Quale contorno?
   Naturalmente queste decisioni comportano spostamenti di potere in àmbiti connessi. Se parliamo di concorsi in medicina, si va a finire sulla sanità. Se stiamo sul diritto, arriviamo ai concorsi di avvocatura e magistratura.
   Interessi forti.
   Massicci. Per questo, ripeto, c’è da sperare che l’indagine di Bari sia solo un tragico errore: stavolta i nomi in ballo sono davvero importanti. Ex ministri, ex presidenti di authority, saggi governativi...
   Se hanno ragione i magistrati?
   Allora è la disperazione per tutti noi.

il Fatto 6.10.13
Presunta parente
Stefania, raccomandata a sua insaputa

L’hanno presa come tirocinante in un laboratorio, certi che fosse parente di un professore universitario. Appena scoperto l’equivoco, hanno messo in chiaro le cose: “Volevamo farti avere una borsa di studio o il dottorato, ma visto che non puoi contare su un appoggio sarà molto più complicato”. Stefania, 26 anni, si è laureata in Biologia in una grande università del Sud. Racconta: “Un anno prima della laurea, come da prassi per la mia facoltà, ho cercato un laboratorio dove svolgere il tirocinio. Un docente mi ha suggerito un ente di ricerca, a suo avviso adatto alle mie attitudini”.
STEFANIA si presenta in laoratorio per il colloquio: “Mi hanno subito chiesto in che rapporti fossi con il professore. Ho detto la verità, ovvero che con quel docente avevo avuto solo un colloquio, e che lui in base al curriculum mi aveva consigliato il loro laboratorio”. Stefania viene presa come tirocinante, ovviamente gratis. Lavora dal lunedì al venerdì “dalle 9 alle 17” e nel frattempo si laurea. In laboratorio l’apprezzano, e le chiedono di restare. Lei accetta. Spera in una borsa di studio. Ma un giorno i capi scoprono che Stefania non ha proprio nessun legame con quel professore: “Erano convinti che fossi sua parente, eppure abbiamo un cognome diverso. Ma in laboratorio sono talmente abituati a gestire raccomandati che non potevano concepire che non fossi una ‘segnalata’, come tanti altri”. Stefania lavora ancora lì, e la borsa non si vede. Sogna la carriera accademica: “Ma senza appoggi mi pare impossibile. I ragazzi che si sono laureati assieme a me fanno tutti i camerieri. Io vado avanti, do una mano all’impresa di famiglia. Ma tanti altri non hanno scelta”. Lasciano, per carenza di parenti.

Repubblica 6.10.13
Augusto Barbera, uno dei saggi nominati da Letta e coinvolti nelle indagini sulle nomine pilotate di ordinari e associati
“Non esiste una cupola di giuristi”
di Vladimiro Polchi

ROMA — «L’idea di una cupola di costituzionalisti è inverosimile ». Augusto Barbera, giurista a Bologna, uno dei 35 saggi sulle riforme scelti da Enrico Letta, non ci sta: «Non ho ricevuto alcun avviso di garanzia e ho saputo dell’indagine dai giornali. In fondo, neppure riesco a immaginare di cosa si tratti davvero».
Eppure professore, stando alle indagini della procura di Bari, lei sarebbe tra quei docenti che pilotavano i concorsi universitari.
«Sono in pensione da tre anni ed è dal 2006 che non siedo in una commissione d’esame. Per quanto riguarda poi Bari, non ho mai fatto parte di commissioni per quell’università, né ho mai avuto candidati per i quali fare il tifo».
Ma secondo l’accusa la rete era ben più vasta e influiva su tutto il territorio nazionale.
«Guardi, un tempo il sistema si poteva prestare ad abusi. Ma oggi è diverso: dopo la riforma Gelmini i concorsi vengono gestiti da commissioni uniche nazionali».
Come funzionano?
«La lista dei commissari è formata da autocandidature di docenti che ritengono di avere i requisiti adatti. Tra questi vengono estratti a sorte quattro commissari italiani e uno straniero. Insomma la platea di partenza è vastissima, centinaia di nomi. Come sarebbe possibile controllarli tutti?».
Vuole dire che non esistono più pressioni?
«Presentare i candidati che si ritengono più forti è normale. Chi vuole farlo, lo fa. Cosa diversa è fare indebite pressioni o addirittura minacce».
Che ne sarà ora del suo ruolo di “saggio”?
«La commissione ha terminato i suoi lavori. Se le notizie di giornale fossero arrivate prima, sarei stato in imbarazzo e avrei posto il problema agli altri membri. Ma ripeto: io di quest’accusa non so nulla e non ho ricevuto nessun avviso di garanzia. Questo è quello che conta».

il Fatto 6.10.13
Educati a truffare: metà degli studenti affitta in nero


OGNI ANNO mancano all’appello del fisco 300 milioni di imposte evase su un imponibile di 1,5 miliardi di euro: è il business degli affitti in nero per gli universitari. Il calcolo arriva da una indagine di Cgil e Sunia “Affitti studenti: cari, senza regole, tutele e benefici fiscali” dalla quale emerge che per circa la metà dei 600 mila studenti fuorisede l’affitto della casa è in nero, mentre per un altro 25% il canone è registrato a un prezzo inferiore a quello effettivamente pagato. Dal monitoraggio condotto nelle principali città sedi di Università su un campione di 2.000 fuori-sede emerge “un quadro allarmante, fatto di ingiustizie e di illegalità”.

l’Unità 6.10.13
Un salto nel vuoto come Monicelli
Il regista, 91 anni, si è tolto la vita lanciandosi dal balcone della sua casa
Il figlio: in un Paese civile si dovrebbe scegliere come uscire di scena
di Salvatore Maria Righi


Lo ricordano tutti molto bene, quel signore alto e distinto che passeggiava lungo Via dei Gracchi, col suo bastone e un sorriso gentile. Ora che il corpo di Carlo Lizzani è ricomposto sotto ad un telo di plastica verde, sulla lettiga della morgue che lo sta portando via con i lampeggianti accesi, sono in tanti a fermarsi davanti al portone, al civico 84. Dritto nella pancia del grande palazzo, uno dei tanti di questa zona, c’è la scala A: sulla targhetta dorata, all’interno 10, c’è scritto semplicemente Lizzani.
Sono passate da poco le 18, quando i poliziotti della scientifica portano via le loro borse nere con le attrezzature con cui hanno fatto i rilievi sul luogo dove è stato trovato il cadavere del regista, che circa tre ore prima ha aperto la finestra
della camera da letto e si è buttato nel vuoto. Intorno, la tranquillità del quartiere Prati viene appena scalfita. Con molta discrezione, chi passa per lo struscio del sabato si avvicina e chiede lumi sulle telecamere, i fotografi e i giornalisti fermi in attesa.
Si cerca di capire come, e soprattutto perché, l’uomo di spettacolo abbia deciso di uscire di scena in un modo così crudo e secco. «Ho sentito come un tonfo sordo, pensavo fosse caduto un vaso» racconta una signora coi capelli biondi alla famiglia che abita al pianterreno dell’edificio giallo, con le ringhiere interne e i lumi di vetro, come non se ne vedono ormai più. Loro malgrado, hanno vissuto il suicidio in diretta, col corpo di Lizzani che è precipitato proprio davanti a uno dei loro usci affacciati sul cortile interno. «Sembrava quasi rannicchiato, con le gambe lievemente piegate» spiega una vicina che abita di fronte e, affacciandosi, è stata tra le prime a vedere il regista a terra, ormai privo di vita dopo un volo di almeno 15 metri. La finestra da cui si è buttato, tra l’altro, ha un condizionatore appeso sotto al davanzale, quindi è presumibile che per lanciarsi nel vuoto, pochi minuti prima delle quindici, il regista si sia in qualche modo issato sul bordo del muro, per poterlo scavalcare e abbandonarsi alla caduta. Nel precipitare, tra l’altro, Lizzani si è infilato in uno spazio molto stretto e squadrato, buttandosi da una finestra che fa angolo col muro perimetrale. Per pochi centimetri, avrebbe potuto schiantarsi sopra alla copertura del vano garage e forse avere un impatto molto più violento e oltraggioso, visto che dai racconti dei testimoni, tutto sommato, sembrava quasi che dormisse, dopo aver approfittato dell’ora del riposo per mettere in atto il suo proposito. Ha chiuso la porta e lasciato di là Edith Bieber, la moglie, l’amore di una vita, nel suo letto dove si trova ammalata da tempo. E la badante, che pare viva con loro. In effetti, raccontano, aveva addosso solo una maglietta bianca e un pigiama azzurro, proprio come per passare dal sonno terreno a quello ulteriore. Ha lasciato un biglietto per i figli, «stacco la chiave», pare ci abbia scritto con la sua solita lucida sobrietà. Ma nemmeno i suoi familiari hanno potuto leggerlo. «Il magistrato lo ha portato via senza nemmeno che potessimo vederlo»: questo, almeno, dice con poca voce Francesco che non si presenta nemmeno, perché è una goccia d’acqua col padre, lo stesso sguardo penetrante ma garbato. «Se fossimo in un Paese più evoluto e civile, si potrebbe anche scegliere la propria fine, e non aggiungo altro», dice, prima di abbracciare Flaminia, la sorella.
I suoi figli se ne vanno mentre le ombre della sera complicano la fine del lavoro agli uomini che stanno togliendo le tracce del suicidio dal cortile, per restituire al palazzo e al quartiere la solita compostezza. Difficile immaginare gli ultimi pensieri del regista, l’ipotesi che sia stato spinto giù dalla depressione è forte. Si può morire anche di malinconia, l’unica certezza sullo stato di salute di Lizzani sarebbe un by pass messo anni fa. Malato di cuore o malato nell’anima, ha voluto portarsi con sè la risposta, dopo aver scelto di vivere in una zona dove non mancano gli inquilini famosi: Giuliano Montaldo abita qualche porta più avanti, e un signore coi capelli argentati e la voce commossa ricorda in questo palazzo anche Fellini e Giulietta Masina, tanti anni fa.
«Lo vedevamo tutti i giorni, prendeva un caffè e una pasta, veniva qui anche per farsi fare le interviste dalle tv» ricorda Valerio al bar dell’angolo: «Però da un po’ lo vedevamo meno, forse era malato». Che le cose non fossero più come prima, e che forse Lizzani portasse con sè pensieri pesanti, lo avevano capito anche altri. «L’ho visto l’ultima volta pochi giorni fa, gentile come sempre, ma serio. Serio e stanco. Vederlo così mi ha fatto impressione, non c’eravamo abituati» aggiunge Diego Moriconi che dal suo negozio l’ha visto passare tutti giorni, mille e mille volte, tranne ieri pomeriggio.

l’Unità 6.10.13
Citto Maselli: «Ci fece conoscere Man Rey e René Clair durante il fascismo. Era serio, pensoso, curioso di tutto. Diventammo amici durante la Resistenza»
«Un militante anche al di là del grande schermo»
di Gabriella Gallozzi


«Un grande intellettuale, serio, pensoso, curioso di tutto. Con uno sguardo sempre originale anche dal punto di vista politico che sfuggiva ad ogni semplificazione...». Citto Maselli ricorda Carlo Lizzani a poche ore dalla tragica notizia. Con rispetto e commozione. «Come Mario Monicelli...», dice con voce bassa. Ma non azzarda nessuna «spegazione» o «semplificazione», appunto, per la sua scelta estrema. Carlo 91 anni e Citto, quasi 83, si conoscevano da una vita. E insieme hanno condiviso non solo il cinema, ma anche la militanza politica, che poi per quella generazione, è stata la stessa cosa. L’ultimo impegno comune il film collettivo Scossa sullo storico terremoto di Messina, presentato a Venezia un paio di anni fa. Mentre il primo lavoro in comune l’esordio di Maselli, ancora una volta in un film collettivo, Amore in città del 1953. L’incontro tra i due, però, risale a molto prima. Negli anni del fascismo. «Carlo faceva parte prosegue Citto dei Guf, i gruppi universitari fascisti e come responsabile romano ebbe l’idea geniale di aprire una sala in via Borgognona, il Cineattualità dove proiettava tutti i film dell’avanguardia francese e tedesca. Noi ragazzi appassionati di cinema abbiamo conosciuto così René Clair, Germaine Dulac, Man Ray... Allora però non lo conoscevo bene».
Il vero incontro è avvenuto anni dopo sul fronte della Resistenza romana, alla quale Lizzani è arrivato come tanti altri giovani dopo la presa di coscienza e l’allontanamento dal fascismo. «È stato un autorevole membro del Partito Comunista e come tale responsabile della zona Centro-Salario», ricorda Maselli che aderì alla lotta partigiana ad appena 13 anni. Così è stato naturale, all’indomani della Liberazione, portare l’impegno politico anche nel cinema. Lizzani con Zavattini ed Antonioni gettano le basi per la prima associazione (Acci) che farà da punto di partenza per l’Anac, quella storica degli autori nella quale Lizzani, a quel punto anche con Blasetti, Camerini i più grandi ha continuato la sua «militanza» fino ad oggi, occupandosi insieme a tutti gli altri delle battaglie di politica culturale per il cinema e non solo.
I primi passi sui set, Lizzani li ha mossi con Roberto Rossellini, continua Citto. «Di Germania anno zero ha girato lui gran parte delle scene. La loro è stata una collaborazione molto stretta e alla stesura del soggetto ha preso parte anche Marlene Dietrich. Quindi immaginatevi la scena: Rossellini, Lizzani e la Ditrich che scrive a macchina come una semplice segretaria...». Il debutto per Lizzani è avvenuto con Achtung! Banditi, grazie anche in quel caso «all’idea geniale della cooperativa».
Il resto è stato tantissimo cinema, critica e passione politica. Sempre segnati dalla sua innata curiosità. «Basta pensare al suo film sulla Cina La muraglia cinese del ‘58 girato in anni insospettabili, quando quel Paese era per noi del tutto sconosciuto. Ebbene anche in quel caso fece un film di grande originalità in cui si guardava con ammirazione alla rivoluzione, ma introducendo evidenti elementi di dubbio».
Di Carlo Lizzani, poi, Citto ricorda anche la grande prolificità: «Raccontava sempre che nel cassetto aveva setto o otto soggetti così, scherzando, diceva che uno degli otto riusciva pure a farlo».
Ricorda poi anche la sua forma invidiabile. «Faceva ginnastica tutte le mattine e mai un filo di pancia... lo invidiavamo tutti. Lui così alto e magro e noi con quell’orrenda pancetta».
Ultimamente, però, rammenta soprattutto come proprio la sua passione politica l’abbia portato ad essere molto critico nei confronti della sinistra.
«Sentiva profondamente la crisi della sinistra. Il suo senso critico lo portava a non identificarsi più in nessuno schieramento, seppure si è sempre mostrato molto rispettoso delle scelte degli altri. Non credo riuscisse a sentirsi più vicino neanche al Pd. Direi, insomma, che ha vissuto con grande travaglio questi ultimi tempi».
Duri per tutti, ma tanto più per chi ha vissuto ben altri entusiasmi della Storia.

l’Unità 6.10.13
Ciao Carlo Lizzani cronista del 900
Da vero intellettuale gramsciano non ha mai disdegnato neppure il cinema di genere
Non era solo un cineasta: è stato molto di più. Per noi de l’Unità un compagno di strada che va salutato a testa alta con il rispetto che si deve ai grandi
di Alberto Crespi


In questo giorno così triste poca è la voglia di parlare di cinema. Carlo Lizzani, scomparso ieri all’età di 91 anni (era nato a Roma il 3 aprile 1922), era molto più di un semplice regista. Per noi dell’Unità era prima di tutto un amico e un compagno di strada, che tante volte ha scritto per il giornale (ad esempio in occasione del Nobel a Dario Fo, vecchio amico che diresse nel film Lo svitato, del 1956) e ci ha raccontato storie importanti a cavallo fra arte e politica.
L’amico e compagno va salutato a testa alta, rispettando la sua scelta estrema che già ieri, nei resoconti dei siti web, veniva paragonata a quella di Mario Monicelli: altro amico, altro maestro. Massimo rispetto per chi decide come e quando andarsene, anche se per chi rimane il dolore è terribile e il rimorso incancellabile.
Venendo all’opera di Lizzani, la parola «regista» continua a essere riduttiva. Carlo è stato uno storico, un intellettuale, un operatore culturale (memorabile la sua direzione di Venezia, che rilanciò la Mostra a cavallo fra anni ’70 e ’80), un attivista politico, in una parola: un instancabile cronista del Novecento. Non a caso aveva voluto intitolare la sua autobiografia Il mio lungo viaggio nel secolo breve (Einaudi, 2007). È un libro emozionante, che sarebbe utile leggere in parallelo a Volevo la luna, l’autobiografia di Pietro Ingrao uscita sempre per Einaudi l’anno prima, nel 2006. I due erano vecchi amici e avevano condiviso la lotta partigiana a Roma, avevano frequentato la storica rivista Cinema e conosciuto Luchino Visconti, in un’esperienza che aveva incrociato politica e cinema, sogni artistici e sogni di radicale cambiamento della società. Come tanti altri ragazzi che erano studenti sotto il fascismo, Lizzani esce dalla guerra con l’intento di contribuire a scrivere la storia, di fare dell’Italia un Paese nuovo. Non è un caso che nei giorni esaltanti della Liberazione Carlo sia a Milano, ufficialmente per sondare la possibilità di aprire una rivista di cinema in quella città, in realtà per essere dove tutto sta accadendo: la caduta e la cattura di Mussolini, la cacciata dei tedeschi, i partigiani che sfilano nelle città, la speranza di un futuro diverso.
Il cinema lo cattura e non lo molla più. Uno dei lavori più formativi per Lizzani è l’aiuto-regia per Roberto Rossellini, in Germania anno zero: vedere Berlino subito dopo la guerra, girare sequenze memorabili (alcune sono nel film finito) tra le macerie, conoscere una popolazione disperata che tenta di ritornare alla vita sono esperienze indelebili. Sempre in quegli anni (1946, per la precisione) partecipa a Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, dove interpreta un giovane sacerdote fucilato dai tedeschi. Collabora anche con Giuseppe De Santis, in Caccia tragica e in Riso amaro. Poi, nel 1951, il debutto con Achtung! Banditi!, in cui tiene a battesimo (come attore) un giovanissimo Giuliano Montaldo accanto a due star come Gina Lollobrigida e Andrea Checchi. È uno dei pochi film sulla Resistenza cittadina – fra gli operai di Genova – ed è prodotto con una formula innovativa, una «cooperativa di spettatori» che finanzia il film dal basso con il decisivo contributo delle sezioni del Pci. Con la stessa struttura, coordinata dal produttore/ partigiano Giuliani De Negri, realizza nel 1954 Cronache di poveri amanti. È il film che fa di lui un regista importante. Sempre negli anni ’50 dirige il citato film con Fo, Lo svitato, primo di una lunga serie di opere realizzate a Milano, città che – da romano sobrio e taciturno – adora. Sono «milanesi» due dei suoi film più belli, La vita agra da Bianciardi (1964) e Banditi a Milano sulla banda Cavallero (1968), antesignano del «poliziottesco»: il primo con uno splendido Ugo Tognazzi, il secondo con un travolgente Gian Maria Volontè.
Lizzani non è stato solo un regista di film storico-politici. Certo, ha rievocato nei suoi film momenti importanti della nostra storia: la tragedia degli ebrei romani in L’oro di Roma, le vicende di Edda e Galeazzo Ciano in Il processo di Verona, gli ultimi giorni del Duce in Mussolini: ultimo atto, la vita di Giorgio Amendola nel televisivo Un’isola, addirittura l’Urss delle purghe staliniane in Caro Gorbaciov. Ma ha frequentato anche il cinema di genere, sfiorando la commedia, dirigendo due western (Requiescant, con Pier Paolo Pasolini attore, e Un fiume di dollari) e dando il meglio di sé nel thriller, dal citato Banditi a Milano a titoli come Crazy Joe e Svegliati e uccidi. Non ha mai disdegnato, da vero intellettuale gramsciano, la narrazione popolare; è sempre stato convinto che un artista sia tale solo se non perde il contatto con il pubblico.
Oltre alla citata autobiografia, Carlo Lizzani ha pubblicato un’antologia di scritti critici intitolata Attraverso il Novecento e un libro, Il giro del mondo in 35 mm., dove racconta con orgoglio di aver attraversato, da cineasta, tutti e cinque i continenti.
A Venezia 2013, un mese fa, lo si è visto nel documentario di Gianni Bozzacchi Non eravamo solo ladri di biciclette, dove raccontava un aneddoto inedito e gustoso: nella famosa sequenza di Riso amaro in cui Vittorio Gassman balla il boogie-woogie con Silvana Mangano, fu Lizzani a fargli da controfigura perché ballava meglio dell’attore. Ci piace, oggi, salutarlo così: pensando a un ragazzo nemmeno trentenne che balla nell’Italia del dopoguerra, sognando un futuro che ha riservato molte delusioni, ma anche tante gioie e tante, mirabolanti avventure.

il Fatto 6.10.13
Il ricordo Compagni di viaggio
Quando ci dividemmo l’Asia. Memoria confusa di un amico
di Furio Colombo


Non c’è niente di più caotico e imprevedibile del morire, per quanto possa essere contenuto nei dieci secondi di uno schianto. Non c'è niente di più ordinato, ovvio e prevedibile della recensione che segue la fine. Ci provi, come modo di mandare con affetto un ultimo saluto, ma non puoi riassumere una vita di cui sai sempre pochissimo, perché ognuno di noi fa sapere pochissimo. E la parte di cui non sai niente è grande persino se devi parlare di una persona celebre e di un amico. Dirò che mi è restato impresso fin dai primi incontri, da giovani, quello strano corrispondersi dei tratti fisici con quelli psicologici: entrambi netti, angolosi, con qualcosa di ripido. Era gentile di maniere e netto di toni. Aveva orizzonti grandi e un rigoroso senso del possibile, dunque dei limiti. Sapeva che lo spazio mondo-vita era immenso e che riesci ad acciuffarne solo dei pezzi.
Lui, che fa parte di coloro che hanno realizzato molto di ciò che volevano, stringeva fra i denti la nostalgia di ben altro. Era preciso come un ingegnere e stranamente privo di quella gelosia che pervade quasi tutti nel mondo dello spettacolo. Al contrario, nel lavorare insieme era generoso. Non come una virtù, ma come osservando un codice. Un po’ era il suo modo di dirti che lui conosceva bene il lavoro e dunque voleva vedere come lo avresti fatto tu. Ma in parte più grande per una natura cavalleresca rara, anzi inesistente nel mestiere del cinema, dove persino Kubrick ti si mette davanti quando scattano la fotografia. La sua persuasione, che lo ha spinto ad attraversare la storia e la geografia del mondo, sempre senza l’aria affaticata e del “non disturbatemi” dell’addetto ai lavori, era che lui apparteneva al cinema, non il cinema a lui.
Perciò lui non regnava, condivideva. Abbiamo fatto insieme cinema per due anni, tra il 1970 e il 1972. Un consorzio di televisioni europee, tra cui la Rai, ci ha chiesto dodici documentari sulle grandi trasformazioni che già si intravedevano in Asia. Il titolo sarebbe stato Changing Asia in Europa, e Facce dell’Asia che cambia in Italia. Avevamo i mezzi, il produttore era Franco Cristaldi, i direttori di fotografia (per la mia parte, Franco Lazzaretti e Alberto Corbi, tra i migliori in Italia). A quel tempo Lizzani aveva già realizzato, sia nei documentari che nella “fiction”, alcune delle sue cose più belle e più importanti. Io avevo fatto molti documentari, ma quasi sempre dagli Usa e quasi sempre con persone e luoghi che conoscevo bene. Mi aspettavo la richiesta di firmare tutto “con la collaborazione di...”. Invece (la proposta è stata sua) ciascuno dei due autori avrebbe avuto la responsabilità e la firma di sei dei dodici film. Nella sigla introduttiva i nostri due nomi comparivano insieme. Ma ciascuno firmava come l’unico autore del suo film nei titoli di testa e di coda. Ma un’altra cosa devo ricordare perché è tra le sequenze meno credibili di un lavoro come quello che sto descrivendo. Insieme alle persone che più strettamente avrebbero lavorato con noi (nel mio caso Lazzaretti e Corbi, ma anche il produttore esecutivo Millozza) un grande Atlante è stato messo sul tavolo e la proposta di Carlo Lizzani, a quel tempo già considerato un regista importante, ha fatto questa proposta: scegli tu. Con i due miei collaboratori abbiamo indicato Vietnam, Pakistan, Malesia, Hong Kong e Macao (a quel tempo non parte della Repubblica cinese) Singapore, Indonesia, Filippine (con Bali) e Australia che non è Asia ma sponda allo stesso tempo ostile e amichevole dell’Asia che cambia. Mia anche la scelta del commentatore per la versione inglese, il celebre (a quel tempo) giornalista del New York Times Harrison Salisbury. Insomma, ho sperimentato un’offerta di amicizia rara da sempre nel mondo del cinema.
   Eravamo a Bangkok, era un giorno bellissimo, di cui non ricordo il terribile caldo umido, e mentre decine di gechi arrampicati sulle pareti e sul soffitto ci facevano da testimoni, e un ventilatore girava furiosamente, siglavamo il nostro patto di lavoro dividendoci l’Asia. Gli incontri, in quegli anni di lavoro, a volte occasionali, a volta concordati in luoghi strani e insoliti dell’Asia di cui eravamo in cerca, sarebbero buone pagine per un libro di Chatwin. In Birmania ho visto Lizzani filmare a uno a uno i templi d’oro di Rangoon (uso ancora i vecchi nomi di allora) e lui mi ha visto al lavoro nelle infernali lavanderie di Karachi e nella apparente pace spirituale di Lahore. A Singapore il punto di riferimento era il Raffles Hotel (luogo di rumorosi e violenti incontri di leader politici), a Manila era importante evitare gli inviti a palazzo di Imelda Marcos che ci avrebbero tolto ogni credibilità. Perché mi dilungo in questo ricordo? Perché è pieno di vita e di luce, non tanto del sole (che in quasi tutti i luoghi citati è implacabile) quanto la luce del cinema che, come ci ha insegnato Tornatore, è un misto fra la luce della macchina da presa (“la camera”, mentre “giri”) e quella del proiettore. Negli anni ci vedevamo poco, con abbracci da compagni di scuola. Abbiamo fatto insieme un festival di cinema dedicato all’Oriente, dove il nostro lavoro appariva antichissimo. E poi lo incontro oggi, mentre scrivo, a un’ora dalla notizia.

La Stampa 6.10.13
Quella vita invivibile
di Ferdinando Camon

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Corriere La Lettura 6.10.13
Potere in maschera
La recita di Augusto nel ruolo di statista
di Luciano Canfora


Fu il primo imperatore di Roma ma restò il capo di una fazione I l bimillenario augusteo del 1937 coincise con l'acme del regime fascista e ne incarnò la più compiuta autorappresentazione. In una prima fase — quella del fascismo «rivoluzionario» — fu Cesare il modello assunto come antecedente. Ciò non sorprende se si considera che il mussolinismo si proponeva — per dirla con la formula adoperata da Gramsci per definire il cesarismo e in particolare il mussolinismo — come risolutore di un «conflitto a prospettiva catastrofica»: quel conflitto tra capitalismo liberale e comunismo socializzatore, ispirato al bolscevismo europeo, che aveva percorso e scosso l'Italia nell'immediato dopoguerra. Escogitando quella cruciale e significativa formula, Gramsci riconosceva, sia al cesarismo che al fascismo, una funzione storica pur tuttavia positiva, un ruolo positivo che lo sviluppo delle forze in campo assegnava per l'appunto alla soluzione cesaristica e interclassistica, portatrice comunque di una novità anche — e non è poco — per quel che attiene alle forme e alla struttura del potere.
Quando il fascismo si assesta come regime e il volto conservatore e restauratore prepondera e il patto con i ceti usciti vincitori dalla guerra civile italiana del 1919-22 si fa più saldo, Augusto subentra a Cesare, nell'autorappresentazione del regime. La fondazione dell'impero conseguente alla conquista dell'Etiopia contribuisce validamente a questa svolta. Si giunge così al potente dispiegamento di energie intellettuali e pratiche confluite nella «Mostra augustea della Romanità» (1937-1938), di cui fu pubblicato un amplissimo e molto ben curato Catalogo. Innovazione rivestita di conservazione, rafforzamento del potere personale senza apparentemente stravolgere la Costituzione (si pensi — ad esempio — alla creazione sin dal dicembre 1926 della figura del «capo del governo» in sostituzione del «primo ministro») furono gli ingredienti fondamentali.
Una larga parte del ceto universitario e intellettuale gravitante sul settore antichistico — archeologi (immessi abilmente nei canali della politica estera), storici, letterati e in genere studiosi di cose romane — si sentì in quella occasione memorabile direttamente mobilitata. Erano anche questi, non soltanto i giuristi e gli economisti, gli intellettuali organici del fascismo. Si produsse allora non soltanto un'assunzione diretta di ruolo ideologico-politico da parte di un pezzo importante della intellettualità italiana, ma anche una lettura corretta della realtà augustea. Lo ha rilevato bene Paul Zanker nelle pagine introduttive del ben noto volume einaudiano Augusto e il potere delle immagini.
Non è privo di interesse gettare uno sguardo al complesso di testi antichi, medievali, moderni, contemporanei, che costellavano e illustravano le sale della gigantesca ed efficacemente organizzata «Mostra augustea della Romanità» inaugurata per l'appunto nella ricorrenza bimillenaria della nascita di Augusto, il 23 settembre 1937, e destinata a restare aperta per un intero anno (venendo così a coincidere, alla sua conclusione, con il varo delle leggi razziali, nel settembre del 1938).
Innanzitutto una considerazione merita l'imponente schiera di classicisti impegnati nell'impresa, i cui nomi erano posti in grandissima evidenza all'apertura stessa del Catalogo (da Amedeo Maiuri ad Arnaldo Momigliano, da Evaristo Breccia a Domenico Mustilli, da Doro Levi a Massimo Pallottino, da Attilio Degrassi a Nicola Turchi etc.). Non creò problema a nessuno di loro trovarsi collocati, con tanta enfasi, come veri costruttori della mostra al principio di un Catalogo che si apriva nel nome del Duce e che, nella sezione XXVI, intitolata Immortalità dell'idea di Roma e Rinascita dell'Impero, culminava nella formulazione strettamente «mazziniana» di Mussolini: «Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento. È il nostro simbolo o se si vuole il nostro mito. Noi sogniamo l'Italia romana cioè saggia e forte. Molto di quello che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo: romano è il littorio, romana la nostra organizzazione di combattenti, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio. Civis Romanus sum».
Nella Sala dell'impero (la seconda), in apertura Mussolini avverte: «Io non vivo del passato», e precisa: «Per me il passato non è che una pedana»; quindi si alternano Livio («Roma caput orbis terrarum»), Carducci («E tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora»), Elio Aristide, daccapo Livio («Et facere et pati fortia Romanum est», gesta forti e sofferenze forti sono entrambe degne dei Romani), Ammiano, di cui viene trascelta la frase «victura, dum erunt homines, Roma» con la chiosa che victura è «voce verbale tanto di vivere quanto di vincere» e che dunque «nella frase è implicito il concetto che Roma sarà sempre vittoriosa» finché ci saranno uomini; quindi una frivolezza imperialistica del povero Tibullo («Roma, il tuo nome è designato dal fato a reggere tutte le terre...»: terris regendis viene un tantino forzato, nella traduzione, in «tutte le terre»).
Nella X Sala (Augusto) — che è anche la più importante vista l'occasione e il senso della mostra — l'assimilazione tra Augusto e Mussolini diventava esplicita. La scelta dei brani è parlante: a) le parole di Augusto sulla durevolezza del suo riordino statale (Svetonio, Augusto, 28); b) Augusto pater patriae (Svetonio, Augusto, 58); c) la definizione di «capo» da parte di Mussolini nel 1925: «Nella silenziosa coordinazione di tutte le forze, sotto gli ordini di uno solo, è il segreto perenne di ogni vittoria». Da notare però che in Mussolini è ben chiaro il distacco dalla mera tautologia rispetto al passato antico: «Io non vivo del passato/ Per me il passato non è che una pedana...».
Oggi — com'è ovvio — una mostra augustea — quale quella che si inaugura il 18 ottobre alle Scuderie del Quirinale — nel bimillenario della morte (14 d.C.) non ha più la forza immediatamente politica di quella voluta dal Duce. Augusto è stato, nella coscienza degli studiosi, ridimensionato e restituito al suo ruolo di «capoparte», da lui incarnato dal primo all'ultimo giorno della lunghissima sua carriera (44 a.C.-14 d.C.).
Morendo egli chiese agli astanti — lucido fino all'ultimo minuto come ce lo rappresenta Svetonio — se avesse interpretato bene, da bravo attore, la sua parte. Quella schietta autorappresentazione del «principe», massimo cultore del potere in quanto tale, e intimamente persuaso che il suo potere personale e il bene generale coincidessero, valgono più di tanti pur pregevoli sforzi moderni miranti a collocare la sua azione politica dentro categorie generali (restaurazione dei costumi, pace civile, privilegiamento dell'Occidente, ruolo dell'Italia all'interno della costruzione imperiale, maggiore mobilità sociale). Tutto ciò che leggono nella sua opera i moderni è spesso la proiezione dei loro convincimenti e delle loro categorie. Augusto — il bravo attore morente — avrebbe sorriso di loro: al solo Ronald Syme, al Syme del saggio La rivoluzione romana, avrebbe forse reso l'onore delle armi.

Corriere La Lettura 6.10.13
Saggezza buddista
Lo zen finisce in una bettola
Un antico testo cinese illumina il percorso di conoscenza verso il Vuoto. Ma ogni vero maestro alla fine torna al mondo materiale
di Emanuele Trevi


Quando un uomo raggiunge l'essenza della verità, la quale non è altro che la sua natura più intima e originaria, egli vola via, insegnano i maestri dello zen, come un uccello che non lascia tracce, «oltre ogni legge e ogni norma». Si tratta dell'obiettivo più importante della vita, la vera libertà. Ma non è una dottrina filosofica o religiosa che si possa leggere in un libro, o imparare passivamente dalla bocca di un maestro. Sarebbe come illudersi di essere uno sportivo standosene comodi sul divano a guardare i mondiali di atletica, ingurgitando patatine e Coca-Cola. Gli spettatori abituali di eventi sportivi sanno bene che l'unico vero atleta è quello che corre stringendo i denti, schiva un gancio micidiale, porta la palla oltre la linea di meta. Molto meno consapevoli, in questo caso, sono i tanti cultori nostrani di saggezze orientali, appesi all'assurda ipotesi che un libro, o un insegnamento, possa cambiare la loro vita. Nel migliore dei casi potranno suggerire un'idea nobile di se stessi, finendo per rinchiuderli ancora più in fondo nella prigione della loro identità.
Il fatto è che la verità può essere una sola, ma le vie da percorrere sono tante quante gli esseri viventi. Spetta a ognuno liberarsi a suo modo dai vincoli dei pregiudizi, sconfiggere i propri terrori, e avanzare in direzione di se stesso come ognuno è in grado di fare, ci fosse pure Buddha in persona a suggerirgli un altro modo.
L'unica cosa vera dello zen è la realizzazione, la piena e diretta esperienza di quel Vuoto dove non ci sono più né l'io né il mondo, ma la pace sovrana dell'indistinto. E allora giustamente ci si chiede perché tanti libri sullo zen, i quali puntualmente finiscono per ammettere che i libri non servono a nulla? La risposta è semplice: se il balzo o l'«irruzione» nella verità è istantaneo, e si realizza come e quando deve realizzarsi, esistono pure le pratiche, i consigli, gli strumenti di meditazione. Verrà il momento di dimenticarsene, ma conviene servirsene: sempre a patto di non confondere l'impalcatura con la costruzione.
Proviene da una delle più antiche tradizioni del buddhismo zen cinese un esempio straordinario di questi strumenti didattici che potremmo definire usa-e-getta. È una specie di parabola, di percorso iniziatico che si intitola Il bue e il suo pastore, e probabilmente era destinata all'addestramento dei novizi. Il nucleo originario consiste in dieci disegni, ai quali si sono aggiunti nel corso del tempo dei commenti scritti, in prosa e in poesia. Ma come spiega Antonio Tamaro, nell'ottima edizione di Vuoto/Pieno curata per Laterza, l'energia simbolica dell'avventura del pastore alla ricerca del suo bue è di quelle che i secoli non esauriscono minimamente, arrivando a fecondi intrecci con le punte più acuminate del pensiero europeo. Fu Martin Heidegger, fulminato dalla bellezza di un disegno di un ramo in fiore (il nono dell'opera), a promuovere la prima pubblicazione in una lingua occidentale, nel 1957.
Il primo a disegnare le dieci tappe dell'avventura del pastore alla ricerca del suo bue fu un maestro chiamato Kuo-an, vissuto alla metà del XII secolo. Questo archetipo è andato perduto, ma da allora, in moltissimi conventi cinesi e giapponesi, la sequenza dei dieci disegni non smise mai di essere eseguita. I più belli sono dovuti al pennello di Shubun, un pittore zen vissuto in un convento di Kyoto nel Quattrocento. Sono quelli riprodotti anche nell'edizione italiana, e il semplice contemplarli nella loro successione equivale a una sorpresa salutare, e al contatto con una fonte di energia potente e incorrotta.
Come in tutte le grandi visioni spirituali dell'umanità, al centro c'è una metafora tanto semplice quanto potente: è del proprio «cuore», simboleggiato dal bue, che il pastore va in cerca. Questa ricerca, come si può facilmente intuire, è assurda, poiché non si può perdere ciò che è sempre stato nostro; ma nello stesso tempo, è necessaria. Solo nel momento in cui il pastore scopre le tracce del bue nella foresta, «comprende che le cose, sebbene di forme diverse, sono tutte costituite dallo stesso unico oro», come afferma un antico commento, «e che la natura di ogni cosa non è diversa dalla propria natura». E quando finalmente scopre il bue, se apre davvero gli occhi, non scorge nient'altro che se stesso. Ma non basta: al livello della suprema realizzazione, non esistono più né il bue né il pastore. Tutto questo è indicato nell'ottavo disegno della serie, il più affascinante, che rappresenta un cerchio vuoto. Dopo avere inseguito le orme del bue, averlo domato e ricondotto a casa, l'identità fra l'individuo e la sua natura originaria è perfetta. Attraverso una pratica indefessa, lo studente dello zen può accedere a questo Grande Vuoto che soggiace a ogni forma, sperimentando l'indistinzione e l'unità di ogni aspetto e fenomeno del mondo: quell'«oro» che è sostanza inviolabile di tutte le cose.
Ci sarebbe altro da aggiungere, dopo questo limite? Eppure, l'ottava figura non è l'ultima. Non si può dimorare indefinitamente nel Vuoto. Alla figura del cerchio ne seguono altre due: un ramo fiorito e un vecchio che discorre con un giovane, su quella che potrebbe essere la strada di un mercato affollato. Ed è proprio attraverso questo «ritorno al mondo» successivo all'esperienza del Vuoto che la favola mistica del bue e del pastore riesce ancora a parlarci, a riguardarci. Perché quel mondo profano, con tutte le sue illusorie contraddizioni e il labirinto delle opinioni fallaci che ne derivano, non può essere spazzato via dall'orgoglio di chi lo ha superato. In ogni singolo aspetto del vivente, infatti, è presente tutta intera, anche se in modo inconsapevole, la capacità di risveglio propria del Buddha. E dunque il mondo illusorio delle differenze e delle contraddizioni non va disprezzato e contrapposto semplicemente all'Assoluto, come accade nella maggior parte degli itinerari mistici.
Dalla perfetta chiarezza dell'illuminazione suprema si torna indietro, sporcando i sandali nella polvere dei fenomeni, perché tutte le creature vanno redente, risvegliate, come in una specie di benefico contagio. Ed è una figura indimenticabile quella del saggio che, terminato il suo percorso di realizzazione, esce dal Vuoto perché «gli piace frequentare bettole e bancarelle del pesce, così da poter risvegliare a se stessi gli uomini ubriachi». Se disdegnasse il mondo, compiacendosi solo della sua solitudine o ancora peggio della compagnia dei suoi simili, non sarebbe un risvegliato, ma un volgare impostore. Quest'uomo che si aggira sorridente nei bassifondi del mondo mi ricorda molto il Cristo della Vocazione di san Matteo di Caravaggio, quando irrompe nella stanza intrisa di vizio dei doganieri. In fondo, i veri maestri sono tutti uguali, e sanno sempre bene dove andare a cercare chi ha bisogno di loro.

«Vuoto/Pieno. Il bue e il suo pastore: una storia zen dell'antica Cina», con il commento del maestro Daizohkutsu R. Ohtsu (a cura di Antonio Tamaro; Laterza, pp. 115, 16)
Bibliografia
Deshimaru Taïsen, «La tazza e il bastone. Storie Zen» (SE); «Centouno storie zen», a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps (Adephi); Alan W. Watts, «Lo zen. Un modo di vita, lavoro e arte in Estremo Oriente» (Bompiani); e il secondo volume della fondamentale «Storia del pensiero cinese» di Anne Cheng: «Dall'introduzione del buddhismo alla formazione del pensiero moderno» (Einaudi)

alcuni disegni di Shubun, pittore zen vissuto in un convento di Kyoto nel Quattrocento

Corriere La Lettura 6.10.13
Un antico planisfero
Le due Americhe di Tolomeo
di Antonio Carioti


Claudio Tolomeo smentisce il primato di Cristoforo Colombo (o dei vichinghi). Perché dal planisfero realizzato in epoca medievale in base all'opera Geographia del suddetto autore alessandrino, vissuto nel II secolo d.C., si ricava la prova che i popoli dell'antichità conoscevano e frequentavano il continente americano. Lo afferma Lucio Russo nel saggio L'America dimenticata (Mondadori, pp. 260, € 18): attraverso una serie di calcoli riguardanti le coordinate geografiche, giunge alla conclusione che le Isole Fortunate raffigurate nel planisfero non sono le Canarie, bensì le Antille, che i Cartaginesi avevano esplorato secoli prima e che Tolomeo aveva spostato erroneamente verso Est. Ma anche Elio Cadelo, in un libro uscito nel 2009, Quando i Romani andavano in America (Palombi), tira in ballo Claudio Tolomeo. Solo che, nello stesso planisfero, vede il Nuovo Mondo dalla parte opposta, all'Estremo Oriente, dove è disegnata una costa a suo parere identificabile con quella peruviana. Al lettore viene quindi da domandarsi se i Cartaginesi abbiano raggiunto l'America lungo la rotta atlantica, come ritiene Russo, o se il mercante greco Alexandros, citato da Cadelo, vi sia approdato attraversando il Pacifico. Però le due ipotesi non sono incompatibili. Si potrebbe pure immaginare un incontro fra navigatori dalle parti dell'istmo di Panama.

Corriere La Lettura 6.10.13
Braque, l’artigiano anti Picasso
di Sebastiano Grasso

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Repubblica 6.10.13
Universo Hawking. Se arrivano i marziani per noi saranno guai
Hawking, la beautiful mind “Vi racconto il mio universo”
Il più famoso scienziato del nostro tempo ha da poco finito di scrivere la sua autobiografia e apre le porte di studio e casa all’amico e collega
Ecco il racconto di un incontro molto speciale
di José Edelstein


CAMBRIDGE STEPHEN Hawking soffre di una malattia neurodegenerativa che ha immobilizzato il suo corpo quasi interamente. Comunica grazie a un computer: «Il futuro dell’umanità e della vita sulla Terra è molto incerto. Rischiamo di distruggerci a causa della nostra avidità e della nostra stupidità ».

I corridoi delle moderne pagode che formano il Centro di scienze matematiche dell’Università di Cambridge invitano allo stupore. Una struttura di anelli intrecciati, al piano terra, contribuisce ad aumentare il disorientamento. Al primo piano spicca una porta nella coreografia confusa da un’infinità di uffici tutti uguali. Vi si notano ancora quattro piccoli fori nei quali, fino a poco tempo fa, altrettante viti sostenevano una discreta targa dorata con diciassette caratteri neri: “Lucasian Professor”. La stessa targa era stata avvitata nel 1669 presso lo studio di un giovane professore di appena ventisei anni che rispondeva al nome di Isaac Newton. Da allora, essere titolare della cattedra lucasiana è diventato un lustro superlativo, leggendario, condiviso con giganti della storia della scienza come Paul Dirac, o come colui che mi aspetta dall’altra parte della porta dell’ufficio B1.07. Stephen Hawking.
Se un incontro con Hawking è un evento che si attende con ansia, questo lo è stato doppiamente dopo che è fallito il primo tenta-tivo. In principio avevamo fissato l’appuntamento a casa sua, ma all’ultimo momento era sorto un problema e si era dovuto annullare. Così mi sono armato di pazienza, ho scelto una nuova bottiglia di vino (la porto sempre con me quando vado a trovarlo) e ho rinunciato all’ambiente accogliente e sobrio di casa sua per quello del suo ufficio, moderno e luminoso. L’ultima volta che mi aveva invitato a cena a casa lo avevo trovato intento a rilassarsi davanti alla libreria in legno su cui i libri convivono con decine di disegni che gli mandano i bambini di tutto il mondo. Stava ascoltava Wagner: «Nessuno, né prima né dopo, è riuscito a trasmettere delle emozioni con la musica come lui».
Stephen Hawking soffre di una malattia neurodegenerativa che ha immobilizzato il suo corpo quasi interamente. Nonostante questa grave disabilità, i cui primi sintomi apparvero quando compì ventuno anni, è stato in grado di sviluppare una carriera scientifica che lo colloca tra i più grandi fisici della seconda metà del XX secolo. I più importanti aspetti teorici di cui siamo a conoscenza circa l’origine del tempo e i buchi neri, la cui attrazione gravitazionale è così forte che nemmeno la luce può sfuggire loro, sono stati opera sua.
A causa della sua difficoltà a comunicare, di solito i giornalisti che vogliono intervistarlo devono inviargli le domande con un mese di anticipo. Lui ne sceglie alcune, prepara le risposte e poi di fronte all’intervistatore si stabilisce una conversazione fluente, ma programmata. Il mio incontro con Hawking ha il valore aggiunto e la difficoltà che comporta il fatto eccezionale di poter parlare con lui senza un copione, non essendo io un giornalista bensì un fisico teorico.
Quando entro nel suo studio lo trovo alla scrivania. Il più famoso scienziato del nostro tempo porta occhiali dalle lenti molto scure. Jonathan Wood, l’assistente tecnico che custodisce con grande cura il suo sistema di comunicazione, spiega: «Ne ha bisogno per poter usare il sistema quando c’è molta luce». Hawking comunica grazie a un computer inserito nella sua sedia a rotelle e a un programma speciale con il quale compone le frasi che un sintetizzatore trasforma poi in una voce metallica dall’accento americano. Non ne vuole sapere di migliorare la qualità del sintetizzatore, né di cambiare accento. «Questa è la mia voce», sostiene con logica schiacciante.
Lo conobbi a Santiago del Cile nel 1997. Come succede a tutti quelli che lo vedono per la prima volta, rimasi impressionato dalla dignità e dalla forza di volontà con cui portava avanti la sua vita. «Voglio fare le cose nel miglior modo possibile. Ovviamente, a causa della mia disabilità, ho bisogno di assistenza, ma ho sempre cercato di superare i limiti della mia condizione e di vivere il più possibile una vita piena. Sono più felice ora che prima della mia infermità». Il suo rapporto con la disabilità è cambiato in modo significativo nel corso degli anni. Per molto tempo è stato contrario a farsi identificare con essa. Poi, con atteggiamento di sfida, si può dire che le ha voltato le spalle e ha scelto di ignorarla. «Non ho mai voluto compatirmi». Lo incontrai di nuovo in Cile, a dieci anni da quella prima volta, navigando sui fiumi di Valdivia, un viaggio che poi lui proseguì fino all’Isola di Pasqua. E poi al faro di Finisterre: «Sono felice di aver raggiunto la fine del mondo» mi disse. Con il passare degli anni, e con la crescente dipendenza da badanti e infermiere e la consapevolezza della sua posizione privilegiata, è diventata una voce di riferimento nella lotta per l’inserimento delle persone disabili. Ha accettato con orgoglio di partecipare all’inaugurazione delle Paraolimpiadi di Londra. «Il loro grande successo ha dimostrato che gli atleti disabili sono come qualsiasi altro atleta e dovrebbero aiutare a far sì che le persone disabili siano accettate dalla società. Penso che la scienza debba fare tutto il possibile per prevenire o curare le disabilità. Nessuno vuole essere disabile, se può evitarlo. Spero che il mio esempio incoraggi e dia speranza ad altri che si trovano in situazioni simili perché non si arrendano mai».
Fino all’inizio dell’ultimo decennio Hawking era in grado di muovere le dita della mano destra con un’agilità sufficiente per usare un mouse. Con la perdita della mobilità si è dovuto ricorrere al riconoscimento facciale. Un sensore che sporge dai suoi occhiali, come una minuscola lampada flessibile, registra i movimenti della sua guancia. Il nuovo sistema dipende da una singola azione e gli impedisce di navigare sullo schermo come faceva prima. La velocità di scrittura è crollata a picco: una parola al minuto. Pur avendo trascorso anche un’intera settimana con lui, a Santiago di Compostela, cinque anni fa, la prospettiva di affrontare un colloquio così pieno di silenzi mi turba sempre. Mi siedo accanto a lui, e lui mi osserva attentamente. Soprattutto quando gli dico che Maria, una bella ragazza che lo avevaavvicinato quando venne in Galizia, e alla quale avevano diagnosticato una malattia simile alla sua, sta molto bene e mi scrive regolarmente ricordandomi di quell’incontro per lei indimenticabile. L’effetto che fa lo sguardo dei suoi occhi chiari quando si posa sui nostri, moltiplicato dall’immobilità del resto del corpo, è fortissimo. In quel momento si è certi che sta comunicando con te. È un breve istante di comunione, di intensa connessione.
Quando venne a Santiago, viaggiando con una compagnia low cost per ricevere il Premio Fonseca per la divulgazione scientifica, assaggiò ogni genere di frutti di mare nonostante la difficoltà che comporta per lui il mangiare, dimostrando anche in questo la caparbia determinazione chetutti gli riconoscono. Mangiò polpo e crostacei a volontà. Gli ricordo ora che in quell’occasione mi confessò, sapendo che sono argentino, la sua passione per la carne (che ho potuto condividere a cena a casa sua) e per il tango. Ora aggiunge anche quella «per il Papa. Sono membro della Pontificia Accademia delle Scienze e spero di vederlo alla prossima riunione». E non so se sorprendermi più del fatto che abbia presente la nazionalità del nuovo pontefice o che un agnostico come lui faccia questo tipo di commento.
Si è scritto già molto sulla sua vita ed era ora che lo facesse lui stesso. Qualche settimana fa ha presentato My Brief History, le sue memorie (in arrivo per Mondadori nella versione italiana, ndr), e poco dopo è comparso al Festival del cinema di
Cambridge per la prima diHawking, un biopic alla cui sceneggiatura ha collaborato lui stesso. Già trent’anni fa si propose di scrivere un libro, ma quella volta fu per spiegare la fisica di frontiera al grande pubblico. Il processo di scrittura fu lento e reso ancor più difficile da un terribile contrattempo. A metà del 1985, durante una visita al Cern, una polmonite lo ridusse in fin di vita e fu necessaria una tracheotomia per salvarlo. Da allora è rimasto muto. Nonostante questo, nel 1988 uscìUna breve storia del tempo, libro che ha catapultato la divulgazione scientifica nella categoria dei bestseller.
Anche se Hawking ha contribuito, insieme a Roger Penrose, a trasformare l’ipotesi del Big Bang in una teoria scientifica, i suoi contributi piùspecifici hanno a che fare con i buchi neri. Già costretto su una sedia a rotelle, scoprì che questi dovevano avere un’entropia, una sorta di disordine interno. I contributi di Hawking hanno dato corpo a queste creature che, nell’emettere radiazioni, evaporerebbero portando con sé tutto ciò che hanno inghiottito. Nessuna di queste previsioni ha potuto essere verificata: più freddi dello spazio esterno, è impossibile rilevare l’emissione termica dei buchi neri. Questo non significa che non vi siano solide prove della loro esistenza, ma questo è il motivo per cui non ha vinto il Nobel. È stato premiato nel 2006, tuttavia, con un riconoscimento ancor più prestigioso, la medaglia Copley, il più antico premio scientifico. Mentre il Nobel premia ogni anno tra i sei e i nove scienziati, la Copley si concede a una sola persona. L’hanno ottenuta Charles Darwin, Benjamin Franklin, Albert Einstein e Louis Pasteur. E anche Giovanni Plana e Alessandro Volta.
Se la sua connessione con l’universo astratto della fisica teorica è miracolosa, non lo è di meno la sua preoccupazione per questioni sociali che ci si potrebbe immaginare distanti da lui. Hawking è un ferreo sostenitore dell’assistenza sanitaria pubblica e della necessità di investire nella ricerca scientifica. Si definisce ideologicamente un socialista, ma questo non gli ha impedito di esprimere il suo fermo rifiuto rispetto alla guerra in Iraq voluta da Tony Blair. Dice: «Il futuro dell’umanità e della vita sulla Terra è molto incerto. Rischiamo di distruggerci a causa della nostra avidità e della nostra stupidità». La sua sensibilità ideologica traspare anche quando affronta questioni diverse e apparentemente esotiche: «La scoperta di vita intelligente extraterrestre sarebbe la più importante scoperta scientifica della storia, ma sarebbe rischioso tentare di comunicare con civiltà extraterrestri. Se decidessero di farci visita, il risultato potrebbe essere simile a quello che si verificò quando gli europei giunsero in America. Una vicenda che non andò a finire molto bene per i nativi». Ai primi di maggio aveva accettato l’invito a partecipare a una conferenza organizzata sotto l’egida di Shimon Peres, a Gerusalemme, ma un mese e mezzo prima ha scritto agli organizzatori che rinunciava. «Stavo per andare in Israele a condizione di poter tenere una conferenza in Cisgiordania, perché sento che le università palestinesi hanno bisogno di contatti con il mondo esterno. Ma tutti gli accademici palestinesi mi hanno detto che avrei dovuto sostenere il boicottaggio. Mi è dispiaciuto molto non andarci. Se lo avessi fatto, avrei detto che Israele deve parlare con i palestinesi e con Hamas, come ha fatto la Gran Bretagna con l’Ira. Non fai la pace parlando con gli amici, la fai parlando ma con i nemici. Sono felice che ora stiano riprendendo i colloqui. Se questo fosse accaduto prima sarei andato in Israele».
Come spiegavo all’inizio, quando si parla con Hawking è consuetudine sederglisi accanto per poter vedere lo schermo del computer. Nell’angolo in alto a destra, ci sono due piccoli riquadri. In quello superiore ha le lettere dell’alfabeto, in quattro gruppi di sette lettere. In quello inferiore, i numeri e alcuni tasti funzione. Un cursore lampeggia eseguendo una danza perpetua su quei riquadri. Quando il sensore flessibile rileva un movimento della guancia, attiva un clic. Il cursore rimane nel riquadro selezionato e inizia a scorrere le diverse righe. Scelta una riga, si sposta su ogni lettera o segno. Quando comincia a scrivere si apre una finestra, attaccata alle altre, che suggerisce dieci parole. Se sbaglia, deve aspettare che il cursore ricominci la sua danza incessante per dirigerlo verso l’icona del cestino. Spesso la lettura della prima metà di una frase preannuncia la fine della stessa senza possibilità di equivoci. Tuttavia, continua il suo sforzo titanico per portarla a termine. Senza errori di ortografia o segni di punteggiatura mancanti. Forse per una questione di fatica muscolare gli si socchiudono le palpebre, in un movimento involontario che interferisce con il suo sistema di comunicazione e lo induce in errore. Hawking sfrutta la sua gestualità limitata a sottili movimenti, impercettibili a coloro che non vi sono abituati, per comunicare, per assentire o dissentire rapidamente. La rigidità del suo volto scompare in modo esplosivo quando ride. Chi conosce il suo senso dell’umorismo riesce a suscitare la sua risata con insolita facilità. In quei momenti, come quando sostiene lo sguardo, si affaccia in tutta la sua pienezza l’essere umano che giace nelle profondità del suo corpo immobile.
Il suo spirito ludico è straordinario. Nelle sue conferenze non mancano mai momenti divertenti e lui si gode le risate del pubblico prolungando il proprio silenzio. Sembra molto orgoglioso della sua presenza neI Simpson, a giudicare dai pupazzetti che ha nel suo studio. E anche della sua partecipazione aStar Trek e a The Big Bang Theory. Poche settimane fa ha partecipato in videoconferenza alla Comic-Con di San Diego. La sua presenza nella cultura popolare lo ha reso un’icona. Appese alle pareti ci sono le foto di lui con Barack Obama o Steven Spielberg, ma la vista si perde facilmente su una sensuale Marilyn Monroe avvolta in una pelliccia bianca come la neve. Ma è Galileo Galilei a occupare, con Albert Einstein, l’altare personale di Stephen Hawking. «Galileo è stato il primo scienziato moderno, capì l’importanza dell’osservazione, ed Einstein è stato il più grande, ma per nostro sollievo si trovò in diversi vicoli ciechi come la meccanica quantistica e il collasso gravitazionale». Sente che c’è qualche tipo di causalità nel fatto di essere nato esattamente trecento anni dopo l’8 gennaio del 1642, l’ultimo giorno della vita di Galileo.
È facile scordarsi quanti anni abbia. L’uomo che doveva morire prima di compierne venticinque ha festeggiato i suoi settanta lo scorso anno. Circa duecentocinquanta persone ricevettero l’invito per la cena nella splendida sala da pranzo del Trinity College, il più illustre di Cambridge. Ero tra quelli, ma l’unico a cui lo smoking di rigore stesse con la naturalezza del vestito di tutti i giorni era l’attore Daniel Craig. Ci fu anche un grande assente alla cena, e fu lo stesso Hawking. Problemi di salute. Venne invece sua madre Isabel, con la quale ha mantenuto un rapporto molto stretto fino alla sua scomparsa, avvenuta pochi mesi fa, all’età di novantotto anni.
Prima di salutarci ci trasferiamo nella Potter Room, luogo nevralgico del Dipartimento di matematica applicata e fisica teorica, per scattare qualche foto — anche se la presenza di Hawking in questo salone è già stata immortalata in un busto. Un gioco di luci e ombre fanno apparire reale la statua e irreale il vero Hawking. Sembra contento di stare in posa e di rispondere alle frasi di simpatia con la sua risata e il suo sguardo attento. Poi le voci si spengono, gli sguardi si incrociano e i nostri passi tornano a perdersi nello stupore di quel labirinto di corridoi.
Traduzione di Luis E. Moriones

Repubblica 6.10.13
Effetto Steiner
Cent’anni di antroposofia la vita a passo di bambino
di Maria Novella De Luca


L’antroposofia è una via di conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale esistente nell’uomo allo spirituale che è nell’universo
Sorge nell’uomo come un bisogno del cuore e del sentimento
Si può insegnare con la paura, l’ambizione, l’amore Noi rinunciamo ai primi due. Per i primi anni di un bambino è importante il modo in cui gli adulti si comportano accanto a lui
Il nostro obiettivo è elaborare una pedagogia che insegni ad apprendere dalla vita stessa... Si deve poter pensare attraverso colori e forme, così come si pensa attraverso concetti e pensieri
I campi della vita sono molti. Per ognuno di essi si sviluppano scienze speciali. Deve esistere un sapere che cerchi nelle singole scienze gli elementi per ricondurre l’uomo alla vita piena...

Nelle scuole più ambite della Silicon Valley non si usano pc né iPad, ma stilografiche, pennelli, telai per tessere la lana cardata e danza e ritmo per imparare verbi e tabelline. Scriveva Rudolf Steiner all’inizio del secolo scorso: «Si deve poter pensare attraverso i colori e le forme, così come attraverso i concetti e pensieri». E i guru dell’universo “It” lo sanno bene: gli algoritmi del sapere tecnologico possono aspettare, perché il cervello resti creativo non lo si può imprigionare troppo presto in sentieri artificiali e precostituiti. E sarà per questo che nel polo informatico più famoso del mondo, West Coast, California, si sono radicate non poche scuole che applicano con successo la pedagogia steineriana, quel mondo dove al centro di tutto c’è l’essere umano bambino, i suoi ritmi lenti e naturali, dove si impara plasmando, creando e ascoltando le proprie emozioni. Un gioco di opposti che nel regno di Google e Apple prende le distanze dal culto dell’infanzia digitale, e ben racconta un fenomeno crescente anche in Italia. La nascita di una nuova community, che sta riscoprendo e applicando soprattutto nella vita quotidiana, il pensiero del fondatore (esattamente cent’anni anni fa) dell’antroposofia. E sarà per quella radice, antropos, per quell’idea che nell’adulto come nel bambino il pensiero, il sentimento e la volontà possano convivere armoniosamente con ciò che ci circonda, che oggi le teorie di Rudolf Steiner, scienziato, pedagogo, medico, filosofo, esoterista, vivono una fortuna crescente. Dall’insegnamento all’agricoltura biodinamica, dalla medicina antroposofica al movimento dell’architettura organica, il pensiero di Steiner (celebrato con una grande mostra, la prima in Italia, al Mart di Rovereto) sembra possedere quegli elementi «curativi» a cui il mondo contemporaneo ammalato di globalità guarda come ad una nuova frontiera.
Laureato al Politecnico di Vienna nel 1883, grande studioso di Goethe, Steiner vive tra Weimar, Berlino, Monaco, in quell’incredibile fermento politico, artistico e filosofico che caratterizza ilfinde- siècleaustro-tedesco e che verrà poi spazzato via dal nazismo. Nel 1919 Rudolf Steiner, noto per le sue idee all’avanguardia sull’istruzione dei bambini, viene incaricato del progetto di una scuola per i figli degli operai della fabbrica di sigarette Waldorf-Astoria aStoccarda. Qui nasce quella particolare «arte di educare» diffusa oggi in oltre mille istituti Waldorf in tutto il mondo e in decine di scuole in Italia. «Il nostro obiettivo — scrive Steiner — è elaborare una pedagogia che insegni ad apprendere per tutta la vita dalla vita stessa».
Ha da poco superato il mezzo secolo di vita la Scuola Steiner di Milano, la prima a radicarsi pionieristicamente in Italia nell’immediato dopoguerra, che oggi conta 360 allievi, dalla materna al liceo, e sempre maggiori richieste soprattutto nelle classi elementari. «Quello che ci caratterizza — dice la direttrice Maria Paola Fantini — è un’attenzione continua all’individuo, è solo da uno sviluppo armonioso del pensare, sentire e volere che nasce il vero apprendimento. Per questo nella nostra pedagogia l’arte è un mezzo fondamentale per approfondire le materie curriculari, che siano l’italiano o la matematica, la storia o la geometria. I nostri ragazzi entrano brillantemente all’università con il bagaglio di un sapere non solo tecnico, ma anche umano».
Scriveva Steiner: «Esistono tre modi efficaci per educare: con l’ambizione, con la paura, con l’amore: noi rinunciamo ai primi due». «Sempre più spesso — aggiunge oggi Sabino Pavone, vicepresidente della Federazione Waldorf Italia — arrivano da noi bambini che si sono sentiti respinti nelle scuole tradizionali, schiacciati dal nozionismo e dalla competizione. Noi pensiamo invece che in ogni bambino esista un talento, e che compito dell’insegnante sia quello di valorizzarlo». Un mondo privato ed elitario però, come sottolineano i non pochi critici del metodo, sia per gli alti costi delle rette, sia per i criteri di insegnamento poco compatibili poi con i percorsi tradizionali.
Critiche naturalmente respinte da alunni e insegnanti, mentre il pensiero di Steiner, la sua via della conoscenza battezzata nel 1913 con il nome di antroposofia, cioè il tentativo di creare un rapporto cosciente con il mondo spirituale, si esprime e dirama sempre di più in molteplici aspetti del vivere quotidiano. L’agricoltura biodinamica per esempio, di cui si trovano prodotti ormai anche nei grandi supermercati (il più famoso è il marchio Demeter): nasce dagli studi di Steiner come risposta «ecologica» ai metodi di coltivazione basati sull’uso dei primi concimi chimici. Racconta Carlo Triarico, presidente dell’Associazione per l’agricoltura biodinamica: «Un esempio di quanto la figura di Steiner sia oggi presente in Italia l’abbiamo avuto due anni fa, nel corso di un convegno che ricordava la riunione internazionale dei filosofi avvenuta nel 1911 a Bologna, cui partecipò anche Steiner. A questa giornata di studi che noi credevamo avrebbe coinvolto pochi addetti ai lavori, si sono presentate invece centinaia di persone, tutte interessate ad approfondire il pensiero del fondatore dell’antroposofia».
E se si pensa che alla riunione dei filosofi del 1911 parteciparono figure come Croce, Bergson, Enriques, Papini, colpisce quanto fuori dall’Accademia la difficile e anche controversa eredità di Steiner (quaranta volumi e seimila conferenze trascritte) trovi invece oggi un’applicazione tanto concreta. Nel cibo appunto, o nella medicina antroposofica ai cui principi si ispirano colossi delle cure naturali come Weleda e seguita oggi da un numero crescente di italiani. E poi il movimento architettonico Forma e flusso, gli oggetti delle scuole Waldorf, dalle bambole ai telai, dall’uso della cera d’api ai colori di alta qualità, perché per i bambini acquerelli e matite (niente pennarelli) siano un’esperienza tattile e artistica il più vicino possibile alla natura. Le famose lavagne poi, quei fogli di carta nera sui quali durante le conferenze Steiner “disegnava” le sue teorie scientifiche e filosofiche, esposte adesso alla Biennale d’Arte diVenezia nel Palazzo Enciclopedico.
Il cibo, la vita, la terra. L’humus da cui tutto dipende. Carlo Triarico ricorda che i principi dell’agricoltura biodinamica sono tre: mantenere la fertilità della terra, rendere sane le piante in modo che possano resistere ai parassiti, produrre alimenti di qualità più alta possibile. «Pur essendo stata concepita all’inizio del Novecento questo tipo di agricoltura ha un metodo estremamente evoluto nel rispetto dei suoli, oggi depauperati e resi sterili da coltivazioni intensive. L’idea di Steiner è quella di portare la terra al massimo del suo rendimento, nutrendola e rispettandola con un particolare tipo di humus, o compost, che incrementa l’humus della terra stessa».
Acqua, minerali, argilla, funghi, microrganismi: nutrito di questo formidabile concime naturale, il terreno esprime le sue massime potenzialità con cibi “vivi”, come un frutto che profuma e che ha tutte le sue vitamine. Qualcosa di assolutamente semplice diventato qualcosa di unico. E per molti esperti di food strategy la biodinamica, settore in forte espansione, rappresenta la vera sfida del futuro per una agricoltura sostenibile. Proprio nella grande area verde che circondava quello che è il simbolo della comunità antroposofica mondiale, il Goetheanum di Dornach in Svizzera, si svilupparono tra anni Venti e Trenta del Novecento le prime sperimentazioni di coltivazioni biodinamiche. Lo stesso Goetheanum, massiccia costruzione emblema dell’idea steineriana di architettura “organicavivente”, viene costruito simile ad una pianta, in cui ogni parte, forma e colore si trova in «intima relazione con il tutto ». Costruito in legno e distrutto una prima volta nel 1923 da un incendio doloso ad opera (probabilmente) dei nazional socialisti, il Goetheanum venne poi riedificato in cemento armato a partire dal 1925. L’architettura organica vivente, come spiega Stefano Andi del gruppo milanese Forma e flusso, «cerca di esprimere attraverso geometrie, colori, e materiali la natura dell’essere umano nella sua globalità, non solo corporea ma spirituale».
In Italia, a differenza che nel Nord Europa, gli esempi di questa particolare (e discussa) teoria del costruire sono pochi e recenti. Non è un caso se tra le opere più riuscite ci sia proprio una scuola materna, l’asilo statale di Cardano al Campo in provincia di Varese, progettata nel 2000 da Andi. Un luogo dell’infanzia pensato come architettura della vita in divenire. I bambini cioè, il sorriso del futuro.

Repubblica 6.10.13
Il Nobel Nash Machiavelli i leader coreani e il presidente Assad
di Piergiorgio Odifreddi


Lo scorso lunedì l’associazione Iseo, fondata da Franco Modigliani e presieduta da Robert Solow, ha invitato all’università di Bergamo il premio Nobel per l’economia John Nash: il più famoso matematico del mondo, anche in seguito alle tragiche vicende personali raccontate nel popolare film A beautiful mind. Nonostante i suoi ottantacinque anni, Nash rimane una mente lucida e penetrante, sempre sorprendente nel suo modo di pensare. Durante il dibattito pubblico, sapendo che aveva lettoIl principe di Machiavelli, gli ho domandato quali legami trovasse tra i consigli del Segretario fiorentino e la teoria dei giochi. E lui ha risposto: «Nelle pagine di quel capolavoro si ha l’impressione che Machiavelli cerchi di insegnare a dei mafiosi come operare in modo efficiente e spregiudicato. Fornisce consigli tattici a principi crudeli ed egoisti, e nella sua opera descrive effettivamente i “giochi di corte” che venivano praticati nelle stanze vaticane e nei palazzi fiorentini». L’ho incalzato domandandogli se ci sono collegamenti tra Il principe e i governanti moderni, e lui non si è tirato indietro: «Anche aWashington le lobbies giocano i loro giochi, per far sì che il Congresso approvi certe leggi, e non ne approvi altre. Ma i veri analoghi moderni di un principe sono altrove: nei dittatori africani, nei leader coreani, e soprattutto nel presidente siriano Assad». Quanto al ruolo dell’etica nel Principe,Nash nota: «I consigli di Machiavelli sono slegati dalla morale. Ma è difficile rendere scientifica l’etica, soprattutto quando si vuol farla derivare dalla religione. E poiché la scienza richiede scientificità, forse Machiavelli ha fatto bene a lasciare l’etica fuori dal discorso sulle decisioni».

Repubblica 6.10.13
La stanchezza dell’Occidente
di Massimo Recalcati


L’esaurimento è una reazione alle sirene dell’edonismo esasperato che produce anche la precarietà sociale ed economica Il fenomeno nasce dal “principio di prestazione”, che costringe la vita a essere “produttiva” e l’individuo ad affermare se stesso

Recentemente il sociologo coreano Byung-Chul Han ha proposto l’immagine della stanchezza come chiave interpretativa della nostra epoca. Qualcosa si è esaurito, è scaduto, è divenuto privo di forza. In contrasto solo apparente con questa stanchezza di fondo il nostro tempo sembra sostenuto da una corrente eccitatoria permanente. Come intendere questa oscillazione bipolare tra frenesia e stanchezza? Tutti ci lamentiamo di come il tempo della nostra vita sia incostante accelerazione. Rocco Ronchi per definire questa tendenza ha evocato l’immagine della “mobilitazione generalizzata” con la quale Ernst Jünger aveva definito il tempo caotico della prima guerra mondiale. La nostra mobilitazione permanente non ha però come bussola la difesa del suolo, dell’identità, dei confini. Noi non abitiamo piuttosto il tempo della liquefazione di ogni identità, della contaminazione, della globalizzazione, della relativizzazione di tutti i confini?
Questo significa che l’attuale mobilitazione in cui tutti siamo coinvolti non ha un obbiettivo fuori dalla riproduzione di se medesima. Siamo tutti stanchi e al tempo stesso tutti mobilitati. Siamo bipolari, costretti a servire un principio di prestazione inflessibile e superegoico per poi riconoscerci esausti, sfiniti, senza più risorse. Questo paradosso lo indicava già Heidegger nella sua diagnosi del nichilismo occidentale: il nostro tempo è il tempo della riduzione del mondo a pura risorsa da sfruttare illimitatamente. In questo senso la nostra stanchezza rivela la verità dell’iperattivismo che non affligge solo le vite dei bambini occidentali ma, ben più radicalmente, la vita stessa dell’Occidente. La vita è esausta, spossata, afflitta da una stanchezza reattiva alle sirene dell’iperedonismo che, non dimentichiamolo, produce anche la precarietà sociale ed economica che è il vero volto dell’Occidente sotto la maschera della sua giostra maniacale. Marcuse aveva già messo in luce come il capitalismo avesse trasfigurato il principio freudiano di realtà nel principio di prestazione. Una nuova forma di alienazione si delineava: non solo quella relativa allo sfruttamento della forza lavoro – secondo lo schema marxista –, ma quella di una nuova forma di oppressione della vita costretta ad essere necessariamente produttiva, liberata dai vincoli oscurantisti della tradizione, ma asservita ad un nuovo padrone: la necessità della affermazione ad ogni costo della propria individualità. Ebbene, la stanchezza che ci affligge oggi non mostra forse il limite di questo mito antropologico? Non mostra la corda del sogno narcisistico di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a prescindere da quello dell’Altro?
Facciamo due soli esempi. Il primo è quello del disagio giovanile che non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma per uno spegnimento del sentimento della vita. Al centro non è più il disagio tra la giovinezza che avanza le sue esigenze di trasformazione del mondo e l’ordine granitico dell’esistente, ma il disagio di un vita spenta, stanca, lontana dal desiderio. I sintomi attuali degli adolescenti che si rivolgono allo psicoanalista (violenza, alcoolismo, tossicomanie, dipendenza dall’oggetto tecnologico, anoressia, bulimia, isolamento, ecc.) hanno questa radice in comune: non scaturiscono più dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di affaticamento del desiderio stesso. La vita che dovrebbe sbocciare nel tempo della sua primavera tende a contrarsi, a chiudersi su se stessa, a ripiegarsi. Questo movimento regressivo contrasta solo apparentemente con l’esaltazione maniacale di cui si nutre la nostra Civiltà poiché, in realtà, è solo l’altra faccia di quella medaglia.
Il secondo esempio riguarda uno dei grandi simboli dell’Occidente; è la stanchezza di Benedetto XVI che, sfinito, lascia il suo posto mostrando il volto umano del rappresentante ideale e normativo di Dio in terra. Cosa vi possiamo leggere? Non solo un dramma interno alla Chiesa Cattolica e alla necessità di un suo profondo rinnovamento. Esso rivela una stanchezza profonda nella vita di tutte le istituzioni che non sembra più in grado di essere animata da passioni profonde. Il senso religioso della vita e quello laico della polis sembrano entrambi esauriti. Si pensi solo alla stanchezza che avvolge la politica come tale. In questo tornante non è in gioco l’esperienza della perdita di tutti i valori, lo spettro minaccioso del nulla, della morte di Dio come accadde alle soglie del Novecento. Oggi quel grande smarrimento ontologico lascia il posto al frastuono della vita spensierata, all’homo felix dedito alla ricerca compulsiva della “sensazione”, prigioniera della idolatria degli oggetti, integralmente esteticizzata. Al centro non v’è più il nulla che minaccia l’essere, ma un troppo pieno che ottunde, un eccesso di presenza, una mancanza della mancanza, come direbbe Lacan.
Eppure questa ultima grande crisi economica mostra tutti i segni della gravissima patologia che affligge l’Occidente. Siamo in un punto di snodo: dobbiamo provare a leggere la stanchezza attuale dell’Occidente non solo come l’effetto di una disillusione fondamentale delle false promesse di felicità del capitalismo, ma anche come una domanda di un altro mondo possibile. L’uomo dell’Occidente è un uomo stanco della vita o di questa vita? Dovremmo provare a leggere in questa nostra stanchezza non solo una caduta depressiva della vita, ma anche l’esigenza di un’altra vita. Essa contiene già in sé una domanda latente di pausa, di sconnessione dalla connessione perpetua a cui siamo “obbligati”, contiene già una esigenza positiva di silenzio.

Repubblica 6.10.13
Il fascino di perdersi senza spiegazioni nelle costellazioni dipinte da Mirò
di Melania Mazzucco


Il cielo brulicante di stelle è la consolazione dei solitari e dei vagabondi. Le costellazioni indicano la direzione a quelli che brancolano nell’oscurità. Le Costellazioni di Miró sono una serie di 23 tempere: un ciclo di opere dello stesso formato, che rimano fra loro combinando gli stessi elementi come note musicali, e infatti paragonate alle Variazioni Goldberg. Miró dipinse la prima il 21 gennaio del 1940, nella casa che aveva preso in affitto a Varengeville sur Mer, in Normandia. Dagli anni ’20 aveva trovato un equilibrio fra le sue due patrie: quella d’origine e quella che si era scelto. Come Persefone, fluttuava tra il sole e la notte: l’estate in Catalogna, l’inverno a Parigi. Dal 1937, però, era un esule, e aveva perso i mesi di luce. La guerra lo braccava, anche se aveva partecipato a quella civile spagnola solo da pittore: esponendo l’enorme El Segador — il contadino in rivolta — nel padiglione della Repubblica all’Expo di Parigi del 1937, insieme aGuernica di Picasso. Nel 1939, la guerra — mondiale ormai — lo aveva raggiunto. A Varengeville Miró trascorse mesi di solitudine e sgomento, ascoltando musica, leggendo poesie e osservando gli acquitrini, le nuvole, il silenzio. Le stelle lenivano l’orrore, gli restituivano la bellezza dell’universo e il passato che temeva perso per sempre. Da bambino, a Mont-roig, il padre, orefice, orologiaio e astronomo dilettante, gli aveva insegnato a decifrare il firmamento col telescopio.
Riprese i pennelli. Frappose fra sé e la guerra l’infinito del cielo dipinto. Scelse come supporto la carta (raschiandola, sfregandola e torturandola), e come medium l’acqua e il fuoco (colori ad acqua e benzina). Poi, astraendosi da tutto, come in sogno, iniziò a cartografare le sue costellazioni su fogli di 46 cm x 38 (più o meno due volte un A4). Intitolò la prima Le lever du soleil. Con pazienza e cura maniacale del contrappunto di forme e colori, ne realizzò dieci. Alcune erano rade di segni, come il cielo pallido nella notte di plenilunio; altre fittissime, come nel cielo buio di luna nuova. Nel maggio del 1940 i nazisti bombardarono la Normandia, e Miró salì sull’ultimo treno per Parigi — da cui gli abitanti fuggivano, in attesa della catastrofe. Stretto fra Hitler e Franco, scelse la geografia degli affetti. Si rifugiò a Palma di Maiorca, isola-madre (lì era nato il nonno materno). Nascosto per timore di ritorsioni dei falangisti, anonimo, oppresso dalla sensazione che non ci fosse un futuro. «Mi dicevo» ha raccontato dopo «vecchio mio, sei fregato. Ti sdraierai sulla spiaggia e disegnerai sulla sabbia con un bastone. Oppure farai dei disegni col fumo di una sigaretta. Non potrai fare nient’altro». Ma gli restava la libertà di dipingere. In agosto riprese leCostellazioni. Femmes encerlées par le vol d’un oiseau, la diciannovesima, è del 26 aprile 1941.
Miró — considerato il rappresentante più giocoso di una pittura automatica e onirica che attinge all’inconscio — si nutriva di tutto e tutto inseriva nella sua creazione. Non attribuiva alle opere d’arte un ruolo gerarchicamente superiore a quello degli oggetti, fosse pure il laccio di una scarpa. Trovava le aringhe affumicate arrotolate in una scatola di metallo belle come un rosone di Chartres. Era questa democrazia combinatoria delle cose il suo “surrealismo”. Ma non lasciava nulla al caso. Minuzioso come un artigiano, sperimentava tecniche, materie. Dal 1931 dava sempre un titolo (in francese) alle sue composizioni, e ne annotava scrupolosamente la data (giorno, mese, anno). Dunque considerava importanti l’uno e l’altra. Per questo non separo le Costellazioni dalla Storia che le assedia, né dalla narrativa che lui voleva evocare coi titoli: sognava opere che abbagliassero come una donna e rapissero l’immaginazione come una poesia. «Il titolo è una realtà esatta», diceva: e solo una volta trovato il titolo l’opera diventava reale per lui.
Questo associa le due parole magiche di Miró, la donna (qui al plurale, les femmes) e l’uccello (l’oiseau):già apparsi insieme in svariate pitture, in seguito (specie negli anni ‘60 e ‘70), sarebbero stati onnipresenti, declinandosi in un’infinità di varianti. La donna terrestre, dea madre mediterranea pagana ed eterna, simboleggia la materia; l’uccello aereo, l’artista — il volo, il canto e la libertà. (L’uomo invece non è mai menzionato da Miró, sempre solo ridotto a ‘personaggio’). Nelle opere ‘selvagge’ degli anni ‘30 la donna è ancora riconoscibile — dalle curve, da un triangolo con la punta in alto, vago ricordo di una gonna svasata, dall’on-da doppia dei seni. Ma nelleCostellazioni le forme sono pure, sono diventate pittografie, lettere di un alfabeto misterioso. E a spiegarle si corre il rischio di fare la fine di Éluard, che ammirò “un simbolo solare” e si sentì rispondere da Miró che era invece una patata. Bisogna abbandonarsi alla lirica astratta di questa fantasmagoria in giallo, rosso, verde e nero, quasi un graffito sulla cenere. Immagini scaturite dalla memoria di quadri già dipinti o visione di quelli futuri. Forme zoomorfe e vegetali, linee spezzate. Globi, stelle, pupille, lumaconi, spermatozoi, asterischi, occhi, triangoli e farfalle — come un geroglifico. Che ha la magica leggerezza della calligrafia orientale e degli ideogrammi dei bambini, ma forse riecheggia le incisioni rupestri che Miró aveva ammirato a otto anni al Museo d’Arte Catalana: gli uomini preistorici inventarono l’arte per dialogare con l’invisibile. Deponevano nelle grotte i simulacri degli animali che avrebbero cacciato o che li avrebbero uccisi. Era un rito,una preghiera e uno scongiuro. Chiedevano la fortuna, l’abbondanza, la vita: rappresentandola. Trasmettono lo stesso incantesimo leCostellazioni di Mirò. Trovate da soli l’uccello in volo, in questo scintillio cosmico. Io mi azzardo a identificare la donna nella nera clessidra — forma ricorrente del quadro. Miró ci era arrivato per semplificare visivamente il seno (si vedaUne étoile caresse le sein d’une negresse, 1938). Ma l’associazione della donna al tempo è antica.
L’ultima costellazione, ilPassage de l’oiseau divin, Miró la dipinse il 12 settembre 1941: nella casa del padre, a Mont-roig, vicino Tarragona. L’esilio era finito, le stelle lo avevano riportato a casa. I 23 acquerelli di questo poema siderale, oggi dispersi in tutto il mondo, formavano invece un’unica scrittura. Privatissima e impersonale, come ogni opera d’arte. La sola che potesse, e può, guidare fuori dal labirinto della guerra e della storia verso l’armonia — e la bellezza.

Joan Miró: Femmes encercleés par par le vol d’un oiseau (1941) 46x38 tempera su carta Collezione privata

Repubblica 6.10.13
La magia dello streaming
Quasi meglio che dal vivo
di Nicola Gallino


Da noi, dire a qualcuno che fa “servizio pubblico” non è sempre fargli un complimento. È una formula magica e ambigua dietro cui spesso si trincerano entità assistite, che possono infischiarsene del mercato e accettano malvolentieri di mettere in discussione la loro reale utilità collettiva. Invece l’Orchestra Rai è un caso da manuale di servizio pubblico vero e coraggioso. Nata nel 1994 dalla fusione non indolore delle storiche orchestre di Torino, Roma, Milano e Napoli, è uno dei complessi sinfonici italiani più prestigiosi al mondo. Interpreta bene cosa significa fare presidio dei capisaldi che ognuno dovrebbe poter ascoltare dal vivo senza aspettare la prossima generazione. La stagione 2013-14 mette insieme grandi bacchette e solisti, il miglior repertorio dal Sette al Novecento, escursioni nel Barocco e nel contemporaneo. Come la Messa da Requiem che il 10 ottobre celebra il compleanno di Verdi con il basso Aleksandr Tsymabaliuk, clamoroso Boris Godunov a Monaco. O il ritorno dell’immensa Seconda di Mahler, Sostiene Bollani Live che diventa un set tv caciarone e geniale, Rai Nuova Musica, dove l’avanguardia incontra i dj-set più cool.
Ma queste sono storie di ordinaria eccezionalità. Il quid che fa dell’Osn un bell’ingranaggio nella nostra faticosa ripartenza culturale è un altro. La vecchia “orchestra della radio” ha vinto la rivoluzione digitale. È diventata un hub multicanale. Ma l’esperienza magica del puro ascolto davanti alla scatola dei suoni c’è ancora. Tutti i concerti sono trasmessi su Radio3 Suite. In studio da Roma il conduttore introduce e spiega. Gli inviati da Torino intervistano gli artisti, raccolgono voci e commenti in sala. Come dire: bordo campo, spogliatoio e moviola. Fascia oraria e rete non sono da Sanremo, ma se nicchia è, è una nicchiona: 200mila contatti a puntata. Mica male per Shostakovich. Poi ci sono gli sms. Il pubblico interagisce, puntualizza, chiede che bis fanno o com’è vestita la (caruccia) pianista Gloria Campaner. E un popolo di 60 milioni di ct vuoi che non abbia 10mila Toscanini che spieghino a Valcuha come si dirige la Patetica?
Secondo: tutti i concerti vanno in streaming audio-video sul sito osn.rai.it.Il suono è di qualità Rai, le riprese sono multicamera ad alta definizione e con regia televisiva. Gli abbonati ricevono pure una password per confrontare il file di ogni brano con un’esecuzione storica. Tipo il Requiem2013 di Valcuha con uno del ’76 firmato Abbado e Pavarotti. Una decina di concerti l’anno va in paradiso con il ciclo La Musica di Rai3. Gran dovizia di mezzi: sei telecamere hd, truck regia, consulenti musicali che - partitura alla mano - dicono se fare la panoramica degli archi o tenere d’occhio il colpo di piatti. Qui vedi la scia della bacchetta, mani che frugano nella tastiera... Una festa dei sensi, poi al solito confinata in ore da insonni. Per fortuna puoi riascoltare tutto sulamusicadirai3.rai.it. E infine c’è Petrushka, il salotto classico di Michele Dall’Ongaro e Paolo Cairoli. Mezz’ora al sabato mattina su Rai 5. Le prime parti dell’Osn svelano i segreti del loro strumento. Mostrano come si fabbrica un’ancia, quanti tipi di pizzicato ci sono... Segue un miniconcerto estratto dal fondaco delle registrazioni Rai. Chi sostiene che la cultura è un privilegio per pochi, che la classica non è al passo coi tempi, davvero cambi musica.