lunedì 7 ottobre 2013

Repubblica 7.10.13
“L’Italia resta prigioniera dei guasti del berlusconismo ma la Costituzione può guarirla”
Zagrebelsky: non fondo un partitino con Rodotà
intervista di Liana Milella


ROMA — Letta e la fine del ventennio? «Un’affermazione valida per la messinscena della politica». Lo scontro dentro il Pdl? «Vedo un tentativo di eliminare gli “incommoda”». Si va verso una nuova Repubblica? «Non vedo né la prima né la seconda né la terza». Berlusconi è finito? «Non mi interessa lui, ma i problemi che lui ha contribuito a creare». Il professor Gustavo Zagrebelsky non si smentisce. Caustico. Netto nel non assolvere “questa” politica. Ma pronto a negare la prospettiva di una prossima avventura nella politica.
Lei, Rodotà, don Ciotti, Landini e Carlassare. Nomi che fanno rumore se si ritrovano assieme. Come succede il 12 ottobre. Che accade, alla fine voi di Libertà e giustizia vi siete decisi a far nascere un nuovo partito?
«Sgomberiamo il campo fin da subito. La risposta è no e aggiungo, siccome da diverse parti si è fatto credere il contrario, che è un “no” evangelico: Quel che è sì è sì, quel che no è no, e tutto è opera del maligno ».
Però il Vangelo non mette mai un limite alla provvidenza...
«Se fosse sì, non sarebbe la provvidenza, ma la “sprovvidenza”. Ci mancherebbe solo che si pensasse di fare un nuovo, ulteriore, partitino».
Però... però... mi lasci dire, quando il manifesto dell’incontro, che non a caso si intitola “La via maestra”, parla di «miserie, ambizioni personali, rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato» non può che venire in mente il rifiuto di “questa” politica. Che ne richiama una nuova.
«Certamente. Ma per operare un rinnovamento o addirittura un ribaltamento delle pratiche politiche e sociali che ci affliggono in questi anni non c’è bisogno “di nuovi soggetti politici” — espressione, tra le tante, che io odio —. C’è bisogno invece, secondo noi, che ciascuno, quale che sia il suo impegno nella società, faccia valere nelle sedi che gli sono proprie (politica, sindacato, cultura, scuola, tutto insomma ciò che ha riguardo con la vita civile) l’esigenza del rinnovamento. Comprenda e faccia comprendere che, continuando così, il nostro Paese si mette su un binario morto».
Lei, come sempre, è bravissimo nello scegliere espressioni e concetti forbiti, ma parliamo politichese: ci giura che un partito nuovo non nascerà?
«Nessuno di noi è profeta. Ma il 12 ottobre non c’è la fondazione di alcun partito. Anzi, il nostro intento è quello di raccogliere le preoccupazioni e le forze, non di dividerle ulteriormente».
Scusi se insisto, ma mi pare che qualcuno sia convinto che state proprio lavorando verso quell’approdo.
«Ribadisco, il nostro è un intento politico, ma non nel senso dei partiti. Se si può dir così, è un intento anche più ambizioso: lavorare alla rinascita di una politica, nel senso autentico della parola».
Lei non vede la politica “giusta” in Italia?
«In Italia esiste solo una messinscena della politica. La politica comporta il confronto tra idee e progetti. Oggi mancano le idee e i progetti, e a maggior ragione manca il confronto. Dunque, manca la politica. Venendo meno la politica, la democrazia stessa deperisce. Perché mai i cittadini si dovrebbero impegnare, anche solo nella cabina elettorale, se tanto tutto è destinato a restare quello che è? Viviamo da alcuni anni in stato di necessità. Ma la democrazia è lo stato della libertà».
Come mai, però, associazioni che pur
avrebbero potuto rispondere al vostro appello solo rimaste silenti?
«L’adesione è larghissima. Chi si è tenuto in disparte, l’ha fatto, mi sia permesso di osservare, perché è caduto nell’equivoco del “nuovo soggetto politico”. Chiarito il quale, mi auguro che ci siano ripensamenti».
La nostra Costituzione. Lei torna lì, alla Carta del ‘48. Contestata, e che si cerca di riscrivere. Perché va tenuta ferma?
«C’è un paradosso. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, quella che tratta dei diritti, dei doveri, della giustizia, del lavoro, della libertà, della solidarietà. Quella parte descrive un tipo di società, molto lontana da quella in cui viviamo, che a noi invece pare tuttora di vivissima attualità. Proprio questa parte della Carta, però, è quella più largamente inattuata o violata. Le si può rendere omaggio in astratto perché ce ne si può dimenticare in concreto. C’è poi la seconda parte, che riguarda l’organizzazione della politica, e quindi i mezzi necessari per promuovere quel tipo di società. Oggi la discussione riguarda la riforma di questa seconda parte. Ma prima e seconda parte sono collegate e alcune delle modifiche che si prospettano, modifiche che definirei oligarchiche, si muovono nella direzione opposta all’attuazione della prima parte».
Costituzione e costituzionalisti. La Moralità pubblica. Che pensare quando si legge dello scandalo dei professori sotto accusa per i concorsi truccati?
«Nel campo universitario c’è un ineliminabile aspetto di cooptazione. Naturalmente, quella che dovrebbe essere cooptazione dei migliori può degenerare in corruzione. La linea di confine è labilissima. Anche se, oltre un certo limite, lo scandalo diventa evidente. Mi auguro che si chiarisca che quella linea di confine non è stata superata».
Letta ha detto che mercoledì «si è chiuso un ventennio». Alfano ha vinto su Berlusconi, il Parlamento ha confermato il governo. Davvero un ventennio è finito?
«Chi e come lo si può dire?».
Letta lo dice.
«Temo che sia un’affermazione valida per la messinscena, quello che volgarmente si definisce il teatrino della politica. Quando evochiamo “ventenni” che si chiudono, credo che si debba pensare a quel rinnovamento profondo della politica di cui dicevo prima. Qualcuno potrebbe ipotizzare che si tratti solo di una razionalizzazione di ciò che ci sta appena alle spalle e che sta cercando di mettere ai margini gli “incommoda”».
A proposito di “incommoda”, guardiamo all’estate di Berlusconi, al disperato tentativo di evitare la condanna, una politica concentrata su questo mentre la gente è sempre più povera. Lei pensa davvero che si possa tornare indietro? Non c’è troppa prima repubblica, addirittura peggio della prima, in questa seconda?
«È difficile non vedere una profonda continuità nelle strutture e nelle concezioni profonde del potere politico, economico e sociale, e perfino criminale, della nostra società. Da questo punto di vista non c’è stata né una prima, né una seconda, né una terza Repubblica. Sono mutate le forme esteriori. Il 12 ottobre ci interrogheremo non sulle forme, ma sulla sostanza. E ci auguriamo che da qui possa nascere un vero rinnovamento».
Un giudizio flash su Berlusconi. È ancora “vivo” politicamente, ha ancora appeal da spendere o è politicamente già in archivio?
«A me non interessa tanto questo; mi interessa piuttosto che, Berlusconi o non Berlusconi, ci si occupi dei problemi del nostro Paese, la cui gravità Berlusconi ha contribuito ad accentuare e che rimarranno tali e quali davanti a noi, anche senza di lui».
Lo spauracchio delle elezioni. Minacciato da mesi. Che vantaggi avrebbero gli italiani da un nuovo voto?
«Un voto che riproduca la situazione attuale non serve a niente. Un voto che rimetta in moto il confronto politico sarebbe invece essenziale. Ma per questo occorrerebbe un’altra legge elettorale».

l’Unità 7.10.13
Il mare restituisce altri 74 corpi. Kyenge: «Ora via la Bossi-Fini»
Viaggio nel Centro della vergogna: «Ho visto gli orrori nel Cie di Lampedusa»
I profughi vivono in condizioni disumane
C’è chi dorme in celle frigorifere, chi all’aperto
Tanti i bambini senza assistenza
Sul sito Unita.it le foto e i documenti video del reportage
di Khalid Chaouki

parlamentare Pd

Racconteremo e non saremo creduti», così scrisse Primo Levi, testimone e vittima delle atrocità naziste, per significare l’enormità del male che aveva colpito il suo popolo; ebbene noi, davanti alla tragedia che si consuma nel nostro Mediterraneo, diventato il più grande cimitero a cielo aperto, di fronte ai racconti di questo orrore e a quello che ho potuto vedere con i miei occhi a Lampedusa, insieme ai miei colleghi parlamentari e alla Presidente della Camera Laura Boldrini, non posso stare in silenzio. Il Centro di accoglienza di Lampedusa è in condizioni disumane. E tutti oggi devono sapere il livello di degrado e inciviltà a cui siamo arrivati come Italia e come Europa. Tutti.
Appena entrato nel Centro di accoglienza di Lampedusa non credevo ai miei occhi quando Mustafa, signore siriano sulla cinquantina mi ha preso per mano e mi ha trascinato sotto un albero davanti a una brandina: «Vedi, questa è mia figlia ed è incinta al quinto mese. Abbiamo attraversato il mare, siamo scappati da Assad. Non vorrei perdesse suo figlio proprio qui a Lampedusa».
A Lampedusa si dorme per terra, su materassini di gomma sistemati tra cespugli, panchine e immondizia. Mentre cammino tra gruppi di famiglie sistemate per terra, mi fermo da un gruppo di bambini, questa volta palestinesi e anche loro fuggiti dalle bombe del regime siriano. Mi abbasso in ginocchio, mi presento in arabo e chiedo a loro dove dormono. Senza parlare uno di loro mi indica un camioncino scassato, credo una cella frigo per gelati abbandonata dentro il Centro. Non ci credo, non ci voglio credere. La mia guida siriana improvvisata insieme ad altri ragazzi, per lo più ventenni, corrono verso il camioncino, aprono le portiere laterali. Sono pieni di materassini di gomma. «Qui dormono alcune famiglie. Almeno sono al riparo dalla pioggia» aggiunge un altro.
Non faccio in tempo a riprendermi dall’angoscia che una giovane donna, Iman, occhi verdi bellissimi, chiede di parlarmi, solo. Con pudore e scusandosi per il disturbo, mi confessa a bassa voce le sue paure: «Non voglio che ci portino in Sicilia. I nostri amici che sono già lì nel centro ci hanno al telefono che li hanno picchiati. Ho tanta paura e da qui non mi sposto finché non mi assicuri che non ci picchieranno». Mi cade il mondo addosso. Sono scappati dalla violenza, hanno viaggiato per giorni e settimane sognando un rifugio sicuro. E qui da noi questa signora teme la violenza nei nostri centri. Rimango interdetto, cerco di tranquillizzarla con la promessa di indagare sulle condizioni dei centri siciliani. Lei non molla e con gli occhi lucidi mi chiede il numero di cellulare: «Almeno se mi succede qualcosa so con chi posso parlare». È terrorizzata.
TRA PUDORE E STUPORE
Siamo in un Centro che può ospitare 250 persone, ce ne sono oltre mille. Sono eritrei, somali, sudanesi. Persone fuggite alla guerra non turisti in cerca di fortuna. Ora la stragrande maggioranza è siriana. I minori sono 161 accompagnati dalla famiglia, mentre 67 sono non accompagnati. Tra di loro vi sono anche i 41 minori superstiti del naufragio di venerdì mattina, senza più la famiglia. Questo il resoconto dettagliato degli instancabili operatori di Save the Children. «Ci sono solo due medici e ci danno solo dei calmanti. Io ho problemi di cuore, lui ha fortissimi dolori alla schiena. Per mangiare facciamo una fila e aspettiamo almeno due ore», questa volta a parlare è Ahmad, un giovane che mi confida sconsolato che non avrebbe mai immaginato di trovare questa situazione in Italia, in Europa. Annuisco con la testa, lo so.
Il campo profughi Zaatari in Giordania è mille volte meglio di questa schifezza. Ci sono stato recentemente per conto dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea. Non glielo dico per pudore. Ahmad purtroppo ha ragione e si vergogna lui per me, come se comprendesse il mio imbarazzo e la mia rabbia, cambia argomento e mi accompagna in quello che chiama l’hotel cinque stelle. I padiglioni coperti, prefabbricati su due piani. Vedo subito qualche giovane eritreo, dormono sui materassini ma almeno sono al coperto. I famosi 250 posti. Le condizioni igieniche non sono il massimo, puzza dappertutto perché le finestre non si aprono, sono rotte. Ma almeno non si beccano la pioggia e il freddo durante la notte.
Scendo e riprendo il mio viaggio nella vergogna italiana tra bambini, donne e giovani sotto i cespugli e sulle panchine. Vorrei che tutti gli italiani vedessero quello che ho visto. Parlassero con queste donne annunciando loro in faccia che ora rischiano l’incriminazione per immigrazione clandestina. Noi piangiamo i morti, mentre chi si salva lo iscriviamo nel registro degli indagati. Criminale perché colpevole di non essere morto anche lui insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Come è successo per i sopravvissuti all’ultima tragedia di giovedì. Questa è la vergogna in cui siamo precipitati, dopo anni di indifferenza davanti ai proclami razzisti del cattivismo leghista. Ma ora basta. Voglio guardare a testa alta Iman e poterle dire con orgoglio «Benvenuta in Italia. Da oggi questo è per te un rifugio di pace e sicurezza».
È la sera di sabato 5 ottobre. Vengo risvegliato da un tuono fortissimo, a Lampedusa sta diluviando. Non riesco, nessuno di noi della delegazione riesce a prendere sonno. Il nostro pensiero è con i profughi al centro di accoglienza. Bambini, donne e uomini di corsa, nel cuore della notte, alla ricerca di un riparo di fortuna. Questa vergogna deve finire.

l’Unità 7.10.13
Primo: garantire la sicurezza di chi naviga
di Filippo Miraglia

Responsabile Immigrazione Arci

RISCHIANDO DI ESSERE TRA I POCHI CHE CANTANO FUORI DAL CORO, VOGLIAMO FARE UNA DOMANDA A COLORO CHE IN QUESTI GIORNI SONO INTERVENUTI sull’ecatombe di Lampedusa, sulle cause e sugli interventi da intraprendere per evitare simili tragedie proponendo la lotta ai cosiddetti trafficanti di essere umani, agli scafisti.
La domanda è questa: una famiglia di siriani o di eritrei che fugge da morte certa ed è arrivata in Libia, pagando molto caro il viaggio e rischiando più volte la vita, a chi può rivolgersi per arrivare in Europa? Al ministro Alfano? Alle istituzioni europee? A Frontex con le sue dotazioni per il monitoraggio del mediterraneo?
No, l’unica via per arrivare, anche dopo le stragi e le lacrime versate dai nostri rappresentanti istituzionali, è affidarsi proprio al famigerato scafista.
Non è una provocazione, ma purtroppo, per come stanno oggi le cose, l’unica risposta possibile.
Chiediamo anche: da quando l’Europa finanzia il programma Frontex, tra i cui compiti c’è il salvataggio di eventuali naufraghi, le morti in mare sono diminuite? Sebbene le attività di Frontex non siano trasparenti, sappiamo per certo che negli ultimi tre anni c’è stato un rafforzamento di mezzi e personale e contemporaneamente un aumento di naufragi e di morti. Si potrebbe obiettare che i profughi sono aumentati, per la guerra in Libia e poi in Siria, ma a maggior ragione non si spiega come mai in un lembo di mare così frequentato continuino a scomparire tante persone.
Il rafforzamento dei controlli e di Frontex, come dimostra il recente passato, non sono la risposta giusta all’esigenza di rendere sicuro il viaggio di chi si dirige verso l’Europa e l’Italia per chiedere protezione. Anzi, l’aumento dei controlli aumenta i rischi perché si cercano nuove rotte e il prezzo da pagare.
Se si vuole davvero che la terribile tragedia avvenuta di fronte a Lampedusa di cui l’Europa e soprattutto l’Italia, con le sue leggi, è la principale responsabile sia l’ultima e che le persone possano arrivare in sicurezza, bisognerà ribaltare l’indirizzo prevalente negli interventi istituzionali di questi giorni, in particolare del ministro Alfano, ma non solo.
Per fortuna si sono levate anche tante voci che hanno invece insistito sulla necessità di abolire il reato di immigrazione clandestina e consentire ingressi regolari per ricerca di lavoro.
Riguardo poi alla questione specifica dell’arrivo dei rifugiati, che sono la totalità di coloro che oggi sbarcano sulle nostre coste (numeri, è bene ricordarlo a chi chiede aiuto all’Europa, ancora molto limitati rispetto agli altri Paesi europei paragonabili al nostro) è urgente introdurre misure che rendano sicuro il loro arrivo. Da un lato monitorare il canale di Sicilia, soccorrendo, con mezzi adeguati e un piano coordinato a livello europeo, le imbarcazioni che li trasportano. Non quindi maggiori strumenti per impedirne la partenza, ma esattamente il contrario: mezzi che intervengano per garantire una navigazione sicura. Dall’altro lato, l’apertura di canali umanitari, cioè la possibilità per chi si trova nelle aree di crisi o da quelle regioni è arrivato nel nord Africa, o comunque per tutti coloro che cercano protezione, di poter entrare in Europa con mezzi di trasporto normali, o straordinari se necessario, rivolgendosi direttamente alle istituzioni italiane ed europee. Riscrivere quindi gli accordi con i Paesi del nord Africa, prevedendo non respingimenti e detenzione, ma accoglienza e protezione.
Infine è utile sottolineare che l’Italia, dopo anni di flussi migratori, non ha ancora un piano nazionale per l’accoglienza e strutture adeguate a garantire una protezione dignitosa a tutti.
Proprio il giorno prima della tragedia, con una delegazione dell’Arci presente sull’isola, abbiamo visto quello che tutti sanno, anche i ministri di questo governo: bambini, famiglie, uomini e donne costrette a vivere in una struttura inadeguata (il Cpsa di Contrada Imbriacola), privati della loro dignità, senza nemmeno il diritto a un letto e a un tetto, come invece le leggi e le convenzioni internazionali prevedono.
Problemi organizzativi? Dopo tanti anni in cui nulla è cambiato a noi sembra più giusto parlare di cinismo e mancanza di senso di responsabilità.

l’Unità 7.10.13
Immigrazione, fronte comune tra i progressisti d’Europa
Dopo la Francia, anche Spagna e Germania si muovono per cambiare la politica comunitaria
Gabriel: Berlino si attivi per attenuare il dramma dei profughi di Lampedusa
Rubalcaba: tra le cose di rivedere c’è anche la «guardia europea», il cosiddetto Frontex
Il segretario del Ps Harlem Désir ha lanciato l’idea di un nuovo patto europeo
di Umberto De Giovannangeli


ROMA Dopo Parigi, Berlino e Madrid. Dopo il segretario generale del Ps francese, Harlem Désir, il leader della Spd tedesca, Sigmar Gabriel e quello del Psoe, Alfredo Pérez Rubalcaba. L’Europa, almeno quella dei progressisti, riflette e agisce dopo l’immane strage di migranti a Lampedusa. E lancia segnali importanti a pochi giorni dalla visita a Lampedusa (mercoledì prossimo) del presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. «Non c’è più tempo da perdere, occorre una politica comunitaria sui temi dell’immigrazione e del diritto d’asilo», aveva detto a l’Unità il leader dei socialisti francesi, sottolineando la necessità di una Europa più solidale, al proprio interno e nei riguardi di quella umanità sofferente che rischia la vita sulle carrette del mare, per fuggire da guerre, miseria, pulizie etniche. Un’assunzione di responsabilità viene ora da Berlino. La Germania deve impegnarsi attivamente a risolvere il dramma del continuo afflusso di migranti sulle coste italiane. Lo chiede in un'intervista al domenicale «Bild am Sonntag» (BamS) il presidente della Spd, Sigmar Gabriel, secondo il quale «la Germania deve impegnarsi decisamente per attenuare questo dramma dei profughi a Lampedusa». «Dobbiamo distribuire in maniera più giusta in Europa il gigantesco afflusso di profughi in arrivo laggiù», sottolinea il leader dei socialdemocratici tedeschi, oltre a «migliorare le condizioni di accoglimento per i profughi e quelle degli abitanti dell'isola». Il commento più duro sulla tragedia di Lampedusa, è stato pronunciato dal Capo dello Stato tedesco, Joachim Gauck, che ha criticato le politiche europee in tema di immigrazione definendole “inumane”: «Difendere la vita dei migranti e ascoltare le loro richieste sono i fondamenti del nostro diritto e del nostro sistema di valori. Come abbiamo potuto vedere da questa tragedia i migranti sono persone vulnerabili. Hanno diritto alla protezione e all'ascolto. Togliere lo sguardo e lasciarli navigare verso una morte prevedibile è un oltraggio ai nostri valori europei». «Un attentato all'umanità, che l'Europa non può legittimare» ha commentato il responsabile della commissione per i diritti umani al Bundestag, il verde Tom Koenigs.
PATTO EUROMEDITERRANEO
L’idea di un patto euromediterraneo, evocato da Désir, trova concorde il segretario generale del Psoe, Alfredo Pérez Rubalcaba: «L’Europa – rimarca il leader dei socialisti spagnoli – non può essere spettatrice di tragedie come quella consumatasi a Lampedusa. Occorre mettere in campo azioni concrete per far fronte a una drammatica emergenza, di cui l’Europa nel suo insieme deve farsi carico». «I Paesi del sud dell'Unione europea – insiste Rubalcaba hanno il diritto di chiedere una politica più attiva da parte dell'Ue su questo punto».
In questa chiave, il segretario del Psoe si dice d’accordo con la proposta avanzata l’altro ieri dal primo ministro francese, Jean-Marc Ayrault, di un vertice straordinario sull’immigrazione dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea: «Occorre una risposta forte, condivisa e rapida», avverte Rubalcaba. Tra le cose da rivedere c’è anche la «guardia europea» che dovrebbe presidiare le frontiere: Frontex. Riflette in proposito Philip Amaral, del Servizio europeo dei Gesuiti per i rifugiati: «Penso che questa sia la grande lacuna della politica europea. Frontex ha un ruolo di coordinamento nelle operazioni di frontiera degli Stati membri, ma quando c’è una barca in mare, c’è ancora confusione su chi debba intervenire. E questo è ciò che abbiamo visto negli ultimi anni: il governo italiano litigava con quello maltese su chi dovesse soccorrere la barca in mare, e questo ha lasciato in qualche occasione una nave in balia delle onde per settimane. Ma il Mediterraneo è un mare molto sorvegliato, ci sono immagini satellitari e molte pattuglie nazionali, quindi i governi non hanno scuse, non possono non prendere l’iniziativa. A livello europeo si è ora deciso che ci devono essere procedure chiare affinché, quando un’imbarcazione è in difficoltà, un Paese intervenga, in modo da agire prima ed evitare tragedie».
Il fatto è, riflette con amarezza padre Amaral, che «l’Europa si sta girando dall’altra parte perché non ha sviluppato risposte adeguate perché la gente venga in Europa e possa chiedere lo status di rifugiato in un modo che rispetta la dignità della vita umana».

il Fatto 7.10.13
Fischi nel minuto di silenzio per i migranti Ferrari, invece, dedica l’argento mondiale


In Serie A purtroppo ancora brutte pagine. Durate il minuto di silenzio dedicato alle vittime di Lampedusa, come già ieri a Brescia, anche a Bologna, questa volta i tifosi del Verona, da sempre schierati su posizioni di destra estrema, hanno intonato odiosi cori. E allo Juventus Stadium è stato intonato uno “stonatissimo” inno d’Italia. Invece una bella pagina nello sport la regala Vanessa Ferrari ai mondiali di ginnastica: “D e d i co la medaglia d’argento alle vittime di Lampedusa”. Così subito dopo il secondo posto al corpo libero ai mondiali di Anversa, in Belgio.

il Fatto 7.10.13
Parole parole parole
Letta: “Ventennio finito” Alfano: no, B. è il leader
di Sara Nicoli


Non l’avesse mai detto. In una giornata che il Cavaliere avrebbe voluto di riflessione e di silenzio, chiuso a Palazzo Grazioli per tentare di trovare una formula per non tenere unito il partito, ecco che due interventi a gamba tesa hanno fatto saltare nuovamente ogni buon proposito. E i nervi dei contendenti. Il primo, tutto interno, in mattinata, dalle colonne del Corriere della Sera, a firma di Raffaele Fitto, messosi alla testa dei “lealisti” del Pdl per guastare la festa di Alfano. Fitto si è issato a chiedere un congresso, una forma decisionale inedita nel mondo berlusconiano, brandita in questo caso contro il segretario nel nome dell’unità del partito. Per Renato Brunetta non c’è spazio per un referendum su Alfano”. E dietro le quinte sono volati di nuovo i materassi. Poi, come se non bastasse, ecco nel pomeriggio il secondo gancio sferrato stavolta da sinistra e da due direzioni diverse.
Epifani e premier pro Alfano
   Prima Epifani, che commentava: “Se Alfano non riuscirà a fare due gruppi distinti nelle Camere, allora avrà fallito”. Poi, il colpo più basso, arrivato da Enrico Letta in tv, con parole definitive contro Berlusconi: “Si è chiusa una stagione politica di 20 anni. Berlusconi ha cercato di far cadere il governo e non ci è riuscito, ora non si ricomincia con la tarantella, la pagina è stata voltata in modo definitivo. Sono rispettoso del travaglio del Pdl, Alfano ha affermato una leadership forte e marcata: è stato sfidato e ha vinto. Ora trovino modi e forme perché quello che è accaduto non accada più”.
   Rosy contro il presidente del Consiglio
   Parole come pietre verso il Pdl, che Rosy Bindi ha usato, invece, per ricondurre Letta con i piedi per terra: “Una stagione politica si chiuderà quando vincerà il Pd”, ha detto, piccata, la presidente del Nazareno, quando ormai, in campo avverso, l’incendio era indomabile. L’alzata di scudi del Pdl contro Letta è stata infatti totale, partita proprio da Alfano costretto a tuonare nel nome dell’unità del partito per non finire incenerito dai falchi in un minuto.
   Angelino contro Enrico
   “Non accettiamo e non accetteremo ingerenze nel libero confronto del nostro movimento politico – ha strillato il segretario pidiellino per salvare l’apparenza – e questo vale anche per il presidente del Consiglio e per il segretario del Pd: non saranno i nostri avversari a determinare la chiusura del ciclo politico di Berlusconi in quanto il popolo, ancora oggi, individua in lui il leader di un grande partito e il leader di una coalizione che può ancora vincere”. Certo, Letta non ha fatto un gran favore ad Alfano, chiedendogli – di fatto – di accelerare la scissione. Specie ora che i falchi gli hanno messo alle calcagna proprio Fitto, “rispolverato” per far pressioni su Berlusconi. Il partito, dicono i falchi, non può fidarsi di un “traditore” che, per altro, sta reclutando dirigenti sul territorio perché “se non riesce a vincere all’interno si fa un partito suo”. Fitto, l’altro giorno ha parlato direttamente con Berlusconi: “Presidente serve un chiarimento forte, un congresso, una scelta democratica che parta dalle cariche locali fino a quella del segretario”.
   L’idea di Fitto (Congresso) bocciata dal Caimano
   Ma di Congresso, al momento, il Cavaliere non vuole sentir parlare, come ha detto chiaramente ieri anche Brunetta. Alfano vuole che la presidenza resti simbolicamente a Berlusconi, ma che tutte le deleghe operative finiscano nelle sue mani come vice presidente (in Forza Italia la carica di segretario non è prevista). Quindi, sotto di lui, tre coordinatori diversi dagli attuali, ciascuno in rappresentanza delle correnti interne, in modo da tenere buoni tutti. Ai falchi, insomma, al massimo verrebbe garantita la “sopravvivenza” di Verdini, su cui Berlusconi non transige. Ciò che temono i rapaci è che la decadenza del capo dal Senato possa rendere troppo rapido il passaggio di consegne, spiazzandoli. “Non ci faremo commissariare da nessuno!”, strillava ieri sera la Carfagna. Commissariati forse no. Divisi, sembra ormai inevitabile.

La Stampa 7.10.13
Per Renzi strada in discesa
verso la segreteria del Pd
di Fabio Martini

qui

Repubblica 7.10.13
Sabato il sindaco lancerà da Bari la sua corsa alla segreteria del Pd. L’ex leader della Fgci andrà alla manifestazione Zagrebelsky-Landini-Rodotà
Matteo prepara il suo “Lingotto”. E Cuperlo guarda ai lettiani
di Goffredo De Marchis


ROMA — Le primarie del Pd scattano sabato. Il giorno prima scade il termine per la presentazione delle candidature. A questo punto, gli sfidanti saranno quattro: Pippo Civati, Gianni Cuperlo, Gianni Pittella e Matteo Renzi. In ordine alfabetico. Il favorito è anche quello che si muoverà per primo. Già il 12 pomeriggio, il sindaco di Firenze sarà alla Fiera del Levante di Bari per l’inizio solenne della sua campagna. Lo slogan per quel giorno è già pronto. «Sarà il mio Lingotto», rivela Renzi. Un rimando esplicito al discorso con cui Veltroni avviò la sua corsa alla segreteria che si trasformò presto nella battaglia per Palazzo Chigi. A Torino nel 2007, l’ex segretario disegnò il partito avocazione maggioritaria che voleva andare molto oltre i confini della sinistra. Ancora oggi quell’intervento richiama un Pd dalle ambizioni più ampiedel 25 per cento preso alle ultime elezioni. Il sindaco di Firenze perciò punta a un discorso “storico”.
Su questa è la premessa, naturalmente le parole di Renzi saranno seguite con molta attenzione da Palazzo Chigi. Perché il ricordo del Lingotto evoca l’avvio di una stagione difficilissima per il governo Prodi allora in carica. E un segretario in pectore che pensa subito in grande, non si farà confinare nella logica delle larghe intese. Ieri Enrico Letta ha confermato che rimarrà neutrale. Non ci sarà nemmeno il candidato lettiano, come qualcuno aveva invece ipotizzato. Anche Rosy Bindi ha rinunciato, dopo averlo annunciato, a una candidatura della sua corrente. I giochi dunque sono fatti.
A Cuperlo tocca il compito di sfidante principale del sindaco. Sostenuto da giovani turchi, Massimo D’Alema e PierluigiBersani, l’ex segretario dei giovani comunisti cerca i voti della sinistra e prova a sedurre i lettiani rivendicando per sé il ruolo esclusivo di segretario, a debitadistanza dalle sirene della premiership. Una garanzia per l’esecutivo, adesso che il premier può contare su una maggioranza più forte e deberlusconizzata. La campagna di Cuperlo sarà più breve. O più lunga, secondo il suo punto di vista. «Nessun appuntamento inaugurale. Inrealtà — spiega — la mia campagna è partita da tempo e sono tanti i circoli e le associazioni che si sono organizzate in mio sostegno».
Civati, che nei sondaggi è il primo inseguitore di Renzi, non ha organizzato una sua manifestazione. Ma proprio sabato sarà all’iniziativa in difesa della Costituzione convocata da Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà e Maurizio Landini. «Una scelta simbolica — dice Civati — . Io voglio un centrosinistra più rigoroso, in netta discontinuità con il governo Letta». A giudicare dagli ultimi post pubblicati sul suo blog, anche Pittella si prepara a incalzare il premier. Letta quindi è neutrale, ma i candidati non saranno neutrali con il suo esecutivo.

Repubblica 7.10.13
Crollo record per l’appeal dell’ex premier. Ma rispetto a maggio tutti i leader perdono quota
Letta sorpassa Renzi tra i big Berlusconi doppiato da Alfano
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


OGGI Alfano vs Berlusconi, domani Renzi vs Letta? Nella burrascosa settimana appena lasciata alle spalle, le tensioni che attraversano il paese si sono manifestate nelle relazioni fra i leader. Nel Pdl, è stata messa in discussione la ventennale guida di Berlusconi, arrivando a un passo dalla spaccatura dei gruppi parlamentari. La frattura dentro il Pd è invece solo latente: riguarda il futuro, per ora rinviata dalle strette di mano (a favore di telecamere) fra il premier delle larghe intese e il sindaco rottamatore.
In realtà, tutti o quasi i principali leader, quanto ad appeal personale, hanno perso qualcosa negli ultimi mesi: un segnale della diminuita fiducia verso la classe politica. Il cambiamento più rilevante riguarda indubbiamente Berlusconi: dopo il voto di fiducia, la sua popolarità è scesa ai minimi storici. 18% di apprezzamento personale: oltre dieci punti in meno rispetto a maggio; il dato più basso tra i principali capi-partito. Alfano, ex-delfino e avversario interno, ottiene circa il doppio. É ancora preceduto dal fondatore (76% vs 63%) nella base — sempre più ristretta — del Pdl/Forza Italia. Mentre prevale in quella frazione di elettorato che si dice pronta ad abbandonare il partito di Berlusconi verso una “nuova” formazione di centro-destra, o è incerta sul voto per un partito post-berlusconiano (o “diversamente berlusconiano”). Il consenso per Alfano supera comunque quello per il segretario del Pd Epifani (33%), per i leader centristi Monti (30%), Casini (24%) e per Grillo (22%).
I primi due posti della graduatoria sono occupati dal presidente del Consiglio (57%) e dal sindaco di Firenze (53%), entrambi in calo rispetto a maggio. In particolare, i consensi per Letta sorpassano quelli per Renzi: si invertono così le posizioni rispetto a maggio. L’appeal dei due sembra oggi concentrarsi nell’area di centro-sinistra. Configurando, per i prossimi mesi, una possibile diarchia: una “divisione del lavoro”, non esente da tensioni, tra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno; ma anche un potenziale confronto per la leadership della coalizione. Una corsa nella quale Renzi parte in vantaggio: il 46% degli elettori Pd (e il 43% di quelli di centro-sinistra) lo preferisce come futuro candidato premier. Circa un terzo degli intervistati preferirebbe invece Letta. In altre parole, la partita appare ancora aperta, legata a doppio filo alle fortune dell’attuale esperienza di governo. Ed entrambi i leader pronti a giocarla.

l’Unità 7.10.13
Stefano Fassina
Abbiamo impegni per 5 miliardi: dobbiamo scegliere se favorire la rendita o la produzione
L’intervento fiscale nel 2014 sarà più efficace se innalzerà il potere d’acquisto dei lavoratori
«A Renzi dico: la priorità del Pd è il lavoro»
intervista di Bianca Di Giovanni


ROMA «Il passaggio di mercoledì scorso è stato definitivo. Potranno esserci delle scosse di assestamento, ma per il Pdl si sono poste le basi per un partito conservatore europeo, superando il modello padronale legato a Berlusconi». Così Stefano Fassina commenta le reazioni pidielline alle esternazioni di Enrico Letta sulla fine del ventennio berlusconiano. Reazioni comprensibili, ma che non cancellano il risultato ottenuto con la rinnovata fiducia in Parlamento. Per il viceministro all’Economia ora il governo esce dalla minaccia dei ricatti populisti a cui è stato sottoposto nei primi mesi della sua esperienza. Da quel giorno la politica economica si è liberata dei ricatti demagogici dei «falchi». Ora si dovrà procedere nel segno dell’equità, perché secondo Fassina solo l’equità garantisce il sostegno alla domanda interna. Ma il vero campo da gioco per l’esecutivo Letta è quello europeo: sarà a Bruxelles che bisognerà giocare la partita più importante.
Secondo lei il governo oggi è più forte? Ha cambiato i suoi connotati?
«Resta un governo di larghe intese, con due polarità, una sinistra e una destra che evolve verso una direzione conservatrice. Certo, non siamo degli ingenui, sappiamo che i processi politici implicano un’evoluzione, non sono movimenti on/off. Ma certamente possiamo dire che il 2 ottobre si è chiusa la fase in cui Berlusconi ha dominato nel centrodestra e si sono poste le basi per una destra europea e quindi anche per un sistema politico italiano europeo».
Anche a sinistra non c’è ancora una vera stabilità. Tanto per dire l’ultima, di recente Renzi l’ha accusata di non saper gestire nulla e di parlare troppo. «Dobbiamo capire Renzi: dopo il voto del 2 ottobre è spaesato. Lo scenario politico è completamente cambiato. Nonostante i suoi tentativi di spostarsi a sinistra per la competizione congressuale, continua a interpretare un riformismo subalterno al neoliberismo. Il Pd deve puntare alla radicalità del cambiamento indicato da Papa Francesco. Non possiamo rassegnarci ad avere come orizzonte la buona amministrazione. Per una forza progressista del XXI secolo rimane fondativa l’affermazione della dignità della persona che lavora. Possiamo avere un segretario che abbia il coraggio morale e politico di invocare, come il pontefice a Cagliari, la lotta per il lavoro? Oppure siamo condannati a ripiegare dietro chi stava “con Marchionne senza se e senza ma”».
C’è un punto di debolezza del governo nella politica economica: a fine anno registriamo una raffica di aumenti fiscali, dall’Iva alla Tares, che potrebbero gelare la ripresa.
«Sia l’Iva che l’arrivo della Tares sono dovute ai governi precedenti. L’Iva è stata decisa dall’esecutivo Berlusconi a settembre 2011, la Tares da Monti. Il governo Letta da quando è in carica ha ridotto le imposte decise da altri, entro i margini stretti degli obiettivi di finanza pubblica fissati da Berlusconi nel 2011. Purtroppo miracoli non se ne possono fare, si è fatto il possibile nelle condizioni date. Cioè il pagamento dei debiti della Pa che è arrivato a 50 miliardi nel biennio, di cui 30 entro quest’anno, poi l’ecobonus, la legge Sabbatini sugli investimenti con una posta di 5 miliardi. Oltre all’Imu si è pensato all’economia reale: c’è stato lo sblocco di 4 miliardi per le infrastrutture, l’allentamento dei vincoli per il fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese, la stabilizzazione di decine di migliaia di precari della Pa». Intuisco che la Tares resterà.
«Abbiamo in agenda impegni che valgono 5 miliardi: non ci sono risorse per tutto, dal rientro del deficit alla Cig in deroga alla seconda rata Imu e le missioni internazionali. È necessario fare delle scelte che privilegino l’equità e il sostegno ai produttori». Sull’Imu quindi potrebbe passare la proposta dei deputati Pd che non esenta il 10% delle abitazioni, quelle con una rendita catastale superiore ai 750 euro? «Il governo deve ancora discutere e decidere. Siamo chiamati a scegliere se sostenere la rendita o l’equità e i produttori. Penso che il passaggio parlamentare della fiducia abbia archiviato l’insostenibile pressione demagogica sulla politica economica del governo, che è stata molto forte. Il Pdl non deve guardare alle richieste del Pd, ma all’interesse del Paese. E un interesse generale è quello dell’equità, perché costituisce la più importante variabile macroeconomica per aumentare i consumi. L’altra variabile è il sostegno ai produttori per gli investimenti innovativi».
Non ritiene ingiusto che i Comuni non sappiano ancora nulla sull’Imu?
«Certo che lo è, ma i primi mesi del governo non sono stati facili. In ogni caso i Comuni avranno garantito il gettito relativo al 2012».
Oggi si parla di cuneo, ma ci sono molti dubbi sulla sua efficacia, soprattutto se si dovrà dividere l’intervento tra lavoratori e imprese.
«La discussione è in corso e domani (oggi, ndr) entrerà nel vivo con le parti sociali. Ritengo che se dobbiamo favorire la domanda interna il canale più efficace è l’innalzamento del potere d’acquisto dei lavoratori. È il più efficace, ma non è l’unico. Accanto a questo è importante anche abbassare il costo del lavoro».
Essere usciti dalla procedura d’infrazione quale vantaggio ci garantirà l’anno prossimo?
«Il margine che ci è concesso è già incluso nell’indebitamento strutturale, che invece di essere zero è fissato a -0,3. In altre parole, c’è un margine di circa 5 miliardi attualmente già previsto. C’è comunque un punto molto importante da sottolineare: il governo Letta ha come fronte fondamentale e decisivo quello di Bruxelles. In quella sede si dovrà correggere la rotta insostenibile della politica economica mercantilista dell’Eurozona. Insostenibile non solo per l’Italia, ma per la stessa Eurozona. Senza questa correzione dirotta nell’Unione è a rischio non solo la finanza pubblica, ma anche la democrazia, come dimostrano le ultime elezioni in Austria e Finlandia».

La Stampa 7.10.13
Civati: “Matteo è un centravanti
Finirà a fare il mediano” “Ha avuto una serie vertiginosa di cambi di prospettiva”
intervista di Antonio Pitoni

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La Stampa 7.10.13
Quirinale
Le tre telefonate che affossarono la candidatura di Prodi
di Fabio Martini

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Corriere 7.10.13
I prodiani e il tradimento: «Erano più di centouno»
di Francesco Alberti


Sarà ricordata come l’imboscata dei 101. Ma in realtà furono di più, «115-120». E non ci fu nulla di schizofrenico, né di lasciato al caso, in quell’agguato che il 19 aprile scorso affossò la candidatura di Romano Prodi al Quirinale: «Si trattò di un boicottaggio organizzato in piena regola». Le varie bande che decisero nel segreto dell’urna di affossare l’uomo dell’Ulivo, padre nobile e tra i fondatori del Pd, agirono quel pomeriggio come un sol uomo, unite da una tacita regia alimentata da motivazioni (personali e politiche) differenti, ma assolutamente convergenti nell’individuare nel professore bolognese un ostacolo da rimuovere, un simbolo da abbattere: «C’era chi pensava di dover vendicare Marini per la mancata elezione nelle prime votazioni; quelli che pensavano si dovesse dare una possibilità a D’Alema; quelli che si erano convinti che l’elezione di Prodi avrebbe portato rapidamente alle urne; quelli che volevano un’alleanza di governo larga, estesa al Pdl, e vedevano in Prodi un ostacolo». Ma c’erano anche coloro che volevano «far pagare a Bersani le primarie dei parlamentari e il rinnovamento della classe dirigente». E qualcuno, anche, «colpire Renzi», che si era speso per il Professore dopo aver bocciato Marini e Finocchiaro.
Sandra Zampa, giornalista, ex capo ufficio stampa di Palazzo Chigi ai tempi del governo Prodi, attuale deputato pd alla seconda legislatura e portavoce del Professore, non ha l’ambizione di fare il Sherlock Holmes, andando a caccia, nome dopo nome, dei 101 (115-120) dell’imboscata quirinalizia. Ma il suo libro — «I tre giorni che sconvolsero il Pd» (Imprimatur editore, 160 pagine, in libreria dal 9 ottobre) — a forza di seminare indizi, di fatto consegna agli elettori un identikit molto plausibile di chi quel giorno tradì. «I nostri elettori vogliono i nomi — scrive Zampa —. Ne conosco ormai un buon numero, tuttavia se pubblicassi anche un solo nome falso, commetterei un’ingiustizia». Quei tre giorni, raccontati dalla parlamentare con stile asciutto e dovizia di particolari, rappresentano per il Pd, già stressato dal deludente risultato elettorale, il big bang dei propri vizi d’origine, a partire dall’incapacità di fondere in «una nuova identità riformista le culture politiche del Novecento (ex diesse, ex popolari, ex dielle)», per non parlare poi della «deformazione ipercorrentizia» che ha mutilato qualsiasi leadership, trasformando in regola il concetto secondo il quale «le componenti rispondono prima al capocorrente e poi al segretario».
Se questo è lo scenario, non c’è da stupirsi se Romano Prodi, pur in quelle cruciali ore lontanissimo da Roma (a Bamako, Mali, per una missione Onu), captò al volo, con largo anticipo rispetto ai massimi dirigenti del partito, il disagio e l’insofferenza di larga parte dei Grandi elettori pd sul suo nome. Non a caso, rivela Sandra Zampa, «aveva chiesto che il suo nome venisse sottoposto a votazione segreta» nell’assemblea al teatro Capranica dove Bersani lanciò la candidatura del Professore. Ma non se ne fece nulla: «Si votò per alzata di mano, di fatto nessuno contò i voti». E alla fine passò l’immagine di una standing ovation . Una candidatura morta in poco meno di 24 ore. Era decollata il 18 aprile, dopo l’affossamento di Marini, da un’iniziativa di Arturo Parisi, raccolta dal bersaniano Vasco Errani, benedetta da Franceschini e ufficializzata da una telefonata in Mali di Bersani. Ma è solo nella notte tra il 18 e il 19, quando sfuma definitivamente quella che era considerata l’unica vera alternativa a Prodi (Massimo D’Alema), che il nome del Professore prende il volo. Per essere impallinato.

l’Unità 7.10.13
Decadenza, battaglia sul voto segreto
I 5 stelle al Senato sollecitano Grasso
Per il voto palese anche alcuni Pd, contro i trabocchetti grillini
De Monte, Pd: «Anche al leader Pdl conviene la trasparenza, altrimenti rischia il fuoco amico»
di Caterina Lupi


ROMA Continua il dilemma «voto segreto» o «voto palese», mentre si avvicina la data in cui l’aula del Senato dovrà dare o meno il via libera all’uscita di Silvio Berlusconi dal Parlamento. Evento che sarà comunque sancito dalla Corte di Appello, il 19 ottobre, quando stabilirà quanto tempo il Cavaliere sarà interdetto dai pubblici uffici (da uno a tre anni). A chiedere il voto palese sono, con più clamore, i senatori grillini, che hanno anche presentato al presidente Pietro Grasso una proposta di modifica del regolamento di Palazzo Madama. E proprio su Grasso preme il Pdl, soprattutto il capogruppo Schifani, perché non cambi regole e mantenga il voto segreto. A volerlo palese, però, sono anche alcuni esponenti del Pd come Felice Casson, già membro della giunta per le elezioni, perché, secondo il senatore ex magistrato, il voto in base alla legge Severino «è una norma a tutela del Senato e non c’entra niente il voto segreto», semmai, prosegue, c’entra la Costituzione.
E, come elemento di «trasparenza e chiarezza», anche Isabella De Monte, Pd, segretario della giunta per le elezioni, chiede il voto palese: «Conviene anche lo stesso leader del Pdl, che con il voto segreto rischierebbe di essere vittima del fuoco amico», afferma la senatrice. Il timore, nei democratici, è quello di franchi tiratori che «salvino» Berlusconi dalla decadenza facendo poi puntare il dito proprio sul Pd, quei «dispetti» che teme Rosy Bindi, fautrice del voto palese.
Specularmente, è ciò che dicono i Cinque stelle come Giarrusso che aveva ipotizzato addirittura 40 franchi tiratori Pd praticamente diabolici: potrebbero salvare Silvio e accusare i grillini. La nuova capogruppo di turno (nel senso dei tre mesi) Paola Taverna chiama in causa Grasso e sollecita una risposta sulla proposta di modifica delle regole e chiede che convochi subito la giunta per il Regolamento: «Non regge neanche avverte Taverna la scusa avanzata da qualche malalingua che così si ritarderebbe il voto del Senato sulla decadenza del condannato Berlusconi» perché, ricorda la 5 stelle, «il 24 aprile» il regolamento è stato modificato in un giorno.
La capogruppo, una convintissima grillina, respinge i sospetti che si stanno adensando sui senatori M5S riguardo a un eventuale salvataggio del Cav perché, giammai i pentastellati fanno «giochi dalemian-renziani», avverte Taverna, quindi il M5s «voterà compatto per la decadenza di Berlusconi».
A suggerire un escamotage (già pensato comunque dai senatori Pd), è Antonio Di Pietro dal suo blog: «I senatori hanno comunque la possibilità di rendere palese la loro azione», metodo sperimentato dall’Italia dei Valori, «basta posizionare la mano in modo da rendere chiara la propria votazione». Ovvero, usare l’indice sinistro invece di infilare le dita della mano destra nella fessura dei banchi del Senato dove sono nascosti i tasti per votare. Impossibile, così votare diversamente dalle indicazioni dei gruppi senza essere «beccati».

il Fatto 7.10.13
5stelle. Cosa non torna
Espulsioni facili, tempo perso E qualche sospetto
di Martina Castigliani


Se c’è qualcosa che il Movimento 5 Stelle ha fatto e che contribuisce a far andare in rosso il bilancio di un'intera attività è aver perso tempo. Ore a discutere di scontrini, struttura interna e dinamiche di democrazia. Diretta streaming o non diretta streaming? Voto palese o voto segreto? Le assemblee trasmesse sul canale Youtube e quelle a porte chiuse e poi raccontate di nascosto ai giornalisti, hanno riportato le storie di 157 parlamentari travolti dalle contraddizioni in un debutto in politica tutt’altro che facile.
   E il primo ostacolo su cui sono inciampati, prima di risolvere la questione, è stato anche la restituzione dei soldi. Dopo aver scoperto a maggio scorso che oltre a metà dell’indennità avrebbero dovuto rendere anche la diaria non rendicontata, non tutti si sono accodati alla politica francescana.
   Seguono così mesi di lotte, e al Restitution Day di luglio arrivano acciaccati da attacchi sui giornali e malumori interni. Tutti restituiscono i soldi, ma i rendiconti personali finiscono online e sotto gli occhi vigili degli attivisti le magagne vengono subito a galla. C’è Ivan Catalano, deputato lombardo che non ha reso pubblici i suoi conti a causa, pare, di spese eccessive. Segue Marta Grande che nei costi per l'ingresso in parlamento specifica 12mila
   euro di rimborso alloggio. Salvo poi giustificarsi: “una fideiussione per la casa che restituirò”.
   In questione anche Tommaso Currò, Nicola Bianchi, Alessio Tacconi e Lorenzo Battista. Hanno restituito poche migliaia di euro in confronto ai 16mila ricevuti per i primi tre mesi. Assestamento o adattamento ad una nuova vita? La discussione è stata spenta sul nascere ma il timore è che sia rimandata alla prossima rendicontazione.
   Chi però non sta al gioco, deve fare le valigie. E tra gli errori strategici più grandi per il Movimento si registrano le espulsioni. Tempo perso e immagine rovinata per un gruppo appena arrivato in Parlamento . Il sondaggio sul blog di Grillo decreta la fine politica a 5 Stelle di Marino Mastrangeli e Adele Gambaro. A ruota escono per decisione personale Adriano Zaccagnini, Alessandro Funari, Vincenza Labriola, Fabiola Anitori e Paola De Pin: tutti e cinque accusano la poca democrazia, con qualche sospetto su rimborsi e scontrini che alcuni di loro non hanno mai consegnato. La domanda per tutti è: tornerà la stagione delle espulsioni? Chi rischia è Paola Pinna, ma anche Ivan Catalano: due nomi già messi in discussione dal gruppo. Ma l’ultima versione vuole che Casaleggio abbia fermato tutto. Sbagliato in passato buttarsi nell’arena mediatica per epurazioni esemplari, e per ora il Movimento sembra aver imparato la lezione. Il giudice però, tra soldi non restituiti e passi falsi, resta sempre la famigerata coerenza. Se chiedi il rigore, devi offrire rigore.
   Inattaccabili i 5 Stelle non lo sono e come prove restano le leggerezze commesse in passato. L’argomento che nessuno vuole trattare ad esempio, è quello dei collaboratori personali. All’arrivo in Parlamento l’appello era stato chiaro: “Cerchiamo personale, mandate il curriculum”. Oltre 18 mila le richieste dei giovani, qualificati o meno, che avevano visto in quella chiamata alle armi una possibilità di aiutare la politica finalmente senza bisogno di raccomandazioni. Che fine hanno fatto? Di quei curricula non si è più saputo nulla. I collaboratori sono stati scelti da cerchie di amici e conoscenze, e nessuno è a conoscenza di criteri di merito e competenze.
   Di tutto il tempo perso in chiacchiere, ne risente la lista di 20 punti elettorali del Movimento. Per ognuno è stata studiata una proposta di legge, ma con un enorme buco al centro: il reddito di cittadinanza. Un progetto c’è, ma in lavorazione: un gruppo alla Camera ha parlato di 600 euro mensili, per chi non ha alcuna forma di sostentamento, mentre una parte ridotta a chi invece ha occupazioni precarie. La cifra stimata necessaria dai grillini si aggira tra i 20 e i 30 miliardi di euro. Ci stanno lavorando, ma sono ormai passati più di sei mesi. Il tempo fa quello che deve fare, passa e per chi non sa approfittare di quella breccia di rivoluzione che il Movimento ha nel bene o nel male creato nella politica italiana, resterà forse il rimpianto.

il Fatto 7.10.13
Il dissenso
“Le decisioni nascono tra Milano e Genova”
di m.c. - e.l.


CERCHIO MAGICO Teste votanti, ma non pensanti. La strategia politica del Movimento 5 Stelle si decide tra le case di Beppe Grillo, da Genova a Marina di Bibbona, e la Casaleggio Associati a pochi passi dal duomo di Milano. E’ qui che una volta ogni due settimane, di solito di venerdì, si riunisce il gruppo comunicazione del Parlamento. Sono deputati e senatori scelti per fare il corso che li aiuta a prepararsi per andare in televisione, accompagnati di solito dai fedelissimi dello staff per i rapporti con i media. Il primo incontro era stato il 31 maggio, quando l’apparizione in televisione era stata sdoganata dalle voci ufficiali. Va bene la televisione, ma a patto che vadano persone scelte e preparate. Così quando Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Carla Ruocco, Laura Castelli, Vito Crimi, Nicola Morra, Carlo Sibilia e Manlio Di Stefano erano stati scoperti per la prima volta salire le scale della Casaleggio associati avevano detto: “Tutti i parlamentari parteciperanno a turno, noi siamo solo i primi”. Poi però le cose sono andate diversamente. Nei corridoi degli uffici del gruppo a Montecitorio e Palazzo Madama il malumore sulla questione è tanto: “Cosa si dicono e perché non siamo invitati?”. A metà settembre, la riunione per imparare ad andare in tv si era trasformata in una riunione con Beppe Grillo in video conferenza. Il sospetto da parte di chi non è mai stato invitato al circolo milanese è che lì venga decisa una linea che gli altri devono poi rispettare. “Non siamo mai stati chiamati. Leggiamo di questi incontri dalla stampa. Ma perché loro sì e noi no se siamo tutti portavoce allo stesso livello?”, rispondono gli esclusi. Ma il nuovo capogruppo alla Camera Alessio Villarosa spegne ogni dubbio: “Sono 12 lezioni per imparare a comunicare bene. Finito il corso toccherà agli altri”. La replica di Grillo e Casaleggio è altrettanto chiara: “Nessuno ha mai interferito con il lavoro dei parlamentari. Ovvio che se però ci sono persone che non si riconoscono più nei principi guida del Movimento sono pregati di andare”.

l’Unità 7.10.13
Ior al setaccio
Trecento milioni su conti sospetti
Secondo lo Spiegel, rintracciati dai consulenti Usa incaricati di fare chiarezza nella banca vaticana
di Paolo Soldini


Nelle casse dello Ior ci sarebbero più di mille conti illegittimi, intestati a persone che non avrebbero alcun titolo per usufruire dei servizi della banca vaticana. Su questi depositi ci sarebbero stati, almeno fino a questa estate, non meno di 300 milioni di euro e si tratterebbe «nella grande maggioranza dei casi» di fondi neri. È quanto ha raccontato ieri l’edizione on line dello Spiegel, sulla base di documenti di cui la redazione sarebbe entrata in possesso. Si tratterebbe di rapporti riservati del Promontory Financing Group, la società di consulenza che all’inizio di quest’anno è stata incaricata dal nuovo presidente dell’istituto nominato da Benedetto XVI, Ernst von Freyberg, nell’ambito della sua politica di tolleranza zero nei confronti di «qualsiasi violazione di leggi, regole e regolamenti». Per la moralizzazione dello Ior è molto impegnato, come si sa, Papa Francesco, che ne ha fatto uno dei primi obiettivi del suo pontificato.
Stando allo Spiegel, venti superesperti contabili del Promontory Group, con i quali collaborerebbero i consulenti di un «importante studio legale interna-
zionale», avrebbero preso visione di tutti i circa 30mila conti depositati e ne avrebbero trovati più di mille intestati a persone o società che non avrebbero alcun titolo per fruire dei servizi dell’istituto. Che non sarebbero, cioè, né esponenti del culto, né impiegati o pensionati del Vaticano, né dirigenti di organizzazioni cattoliche o di enti di beneficienza.
PARADISO FISCALE
Si tratterebbe di «privati cittadini» che avrebbero approfittato illecitamente dei vantaggi della banca vaticana: la grandissima discrezione e l’esenzione da ogni tassa sui rendimenti. Almeno fino al 2011, quando il Vaticano, dopo molte resistenze, ha accettato di sottoporre lo Ior alla legislazione internazionale antiriciclaggio. Non c’è stato, inoltre, alcun controllo sulla provenienza dei soldi versati sui conti ed esisterebbero riscontri sull’origine criminale di molti depositi. In effetti, avrebbero scritto nel loro rapporto i verificatori del Promonty, l’istituto ha funzionato a tutti gli effetti come una banca operante nei paradisi fiscali, garantendo la massima discrezione ai clienti e rifiutando ogni collaborazione con le autorità degli altri stati.
Il settimanale tedesco ricorda gli scandali che negli anni passati hanno investito o sfiorato lo Ior, dal sospetto riciclaggio di capitali della mafia ai soldi impiegati per manipolare il mercato delle azioni in Italia alle transazioni sospette di somme miliardarie al ruolo centrale che la banca vaticana ebbe, nel 1982, nel crac del Banco Ambrosiano cui seguì la morte misteriosa di Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge di Londra. Negli anni ’90, ricorda sempre lo Spiegel, passò attraverso i conti dello Ior una parte consistente del denaro utilizzato per corrompere i politici nella stagione di Tangentopoli.
Anche il predecessore di von Freyberg, il banchiere italiano Ettore Gotti Tedeschi che fu brutalmente allontanato dall’istituto, era a conoscenza dei delicati problemi legati ai conti illegittimi e li avrebbe confidati in un dossier, affidato alla sua segretaria, da consegnare in caso fosse necessario a quattro persone da lui indicate. Secondo Gotti Tedeschi, i conti delle persone che non avevano diritto a depositare i loro soldi nell’istituto sarebbero stati una delle cause delle gravi difficoltà in cui lo Ior era precipitato.
La nuova direzione della banca vaticana ha affrontato il problema alle radici annullando i conti illegittimi dei «laici», che sono stati invitati a cercarsi altri rifugi per i loro denari. Lo Spiegel fa notare, però, che resta ancora incerto il futuro dello Ior, richiamando un’affermazione che Papa Francesco fece nel luglio scorso: «Alcuni dicono che è meglio che sia una banca, altri dicono che dovrebbe diventare un fondo per gli aiuti, altri ancora che dovrebbe essere chiuso». Per ora una decisione non è stata presa.

Corriere 7.10.13
Il federalismo alla rovescia
di Sergio Rizzo


Il nostro curioso federalismo alla rovescia non smette di presentare conti salatissimi ai contribuenti. Dopo le Regioni alle prese con deficit sanitari allucinanti, tocca ora ad alcuni grandi Comuni battere cassa per tappare le voragini dei loro conti. Succede a Roma dove il sindaco appena arrivato chiede aiuto per sanare il passivo ereditato: 867 milioni. Ma arriva dopo, Ignazio Marino, rispetto ai suoi colleghi di Napoli e Catania. Senza poter escludere che altri ne seguiranno l'esempio. La galleria degli orrori che ieri ha pubblicato Il Sole 24 Ore passa da Palermo e Genova, sfociando in una Milano che deve reperire circa 500 milioni entro fine anno.
I Comuni incolpano il taglio dei trasferimenti, sostenendo di aver sborsato il prezzo più caro per risanare le finanze pubbliche. Vero. Anche se poi questo prezzo finisce ribaltato in buona parte sullo Stato centrale. Il che dovrebbe indurre certi amministratori a un serio esame di coscienza.
Chi rivendica autonomia avrebbe l'obbligo di ricordare che questa implica responsabilità. Il federalismo da molti invocato dovrebbe basarsi su tale principio basilare. È diventata invece una parola vuota, comodo paravento per gestioni sconsiderate e clientelari senza essere chiamati a risponderne. Peggio ancora: scaricando pure gli effetti sull'intera collettività.
Valga per tutti il caso di Roma, scossa negli ultimi anni dalla Parentopoli di migliaia di assunzioni nelle municipalizzate. Il Campidoglio ha 25 mila dipendenti, numero cui si deve aggiungere quello del personale delle partecipate, che il sito Internet indica in 37 mila. La sola azienda di trasporto locale, l'Atac, paga circa 12 mila stipendi e dal 2008 ha accumulato 600 milioni di perdite. Per offrire un servizio che certo non può essere considerato degno della capitale d'Italia.
Sappiamo che è un problema di ogni città, piccola e grande. Senza contributi pubblici nessuna azienda di trasporto locale avrebbe conti in equilibrio. Chi sale su un autobus, un tram o una metropolitana paga infatti un prezzo politico che copre una frazione del costo effettivo. Il fatto è che non di rado quella frazione, per come sono gestite moltissime aziende, è infinitesima. Il resto viene così caricato sulle spalle di tutti gli italiani: chiamati quindi a sopportare non solo il peso legittimo del servizio universale, ma anche quello illegittimo di sprechi, inefficienze e clientele locali.
Al riguardo, i dati della Confartigianato parlano chiaro. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali sono cresciute in Italia del 54,2 per cento, il doppio dell'inflazione e ben 24 punti in più rispetto alla media europea: nel periodo dal 2003 al 2013 la sola tassa sui rifiuti è lievitata del 56,6 per cento, contro il 32,2 per cento dell'eurozona. E ciascuno può giudicare se la qualità sia migliorata in proporzione.
Una tassa occulta gigantesca non più accettabile. Da spazzare via obbligando tutti i Comuni alla trasparenza assoluta dei costi dei servizi, affinché i cittadini possano regolarsi di conseguenza quando sarà l'ora del voto, e approvando senza indugio la norma che imporrebbe la liquidazione delle municipalizzate in dissesto. Se si vuole restituire alla parola «federalismo» il suo vero significato, è il minimo che si possa fare.

Corriere 7.10.13
Legge su femminicidio al traguardo
Rinviare suonerebbe come un delitto
di Alessandra Arachi


In Italia ogni sessanta ore un uomo uccide una donna. Quasi in un caso su due quell'uomo è un fidanzato, un marito, un convivente o, più spesso, un ex di ognuna di queste relazioni. Si sono scomodati fior di psichiatri e criminologi per stabilire che questo reato, oggi chiamato femminicidio, ha radici profonde e culturali.
L'uomo italiano uccide una donna per affermare il suo potere di maschio nei confronti di chi, ai suoi occhi, ha tentato di sovvertire l'ordine dei ruoli stabilito ai tempi delle caverne. In Italia le «caverne» esistevano ancora a negli anni Sessanta.
Chi ricorda Franca Viola? Era una bella ragazza bruna siciliana che nel 1966 rifiutò di sposare l'uomo che l'aveva stuprata. Non l'aveva mai fatto nessuna, prima. Prima di Franca ci si sposava con il proprio violentatore così da evitare l'onta del disonore. Il matrimonio riparatore era previsto dalla legge. Dopo Franca è cominciato un faticosissimo cammino di civiltà che in queste ore vede il nostro Parlamento impegnato in una lotta contro il tempo. C'è in aula a Montecitorio il decreto sul femminicidio che il governo ha varato alle soglie di Ferragosto, con quell'urgenza scandita dall'orrore dei delitti e dal ritardo nei confronti dell'Europa dove, quasi dappertutto ormai, il femminicidio è punito da tempo con una legge dedicata. Il decreto del governo italiano sul femminicidio deve essere convertito in legge entro il 15 ottobre, altrimenti scade e si deve ricominciare tutto daccapo.
È una corsa contro il tempo perché il decreto deve poi avere il via libera del Senato. Ma il tempo è diventato quasi amico da quando, venerdì scorso, proprio Montecitorio ha trovato la mediazione sull'irrevocabilità della querela.
Il dibattito sulla revocabilità o meno della querela avrebbe potuto essere infinito, infiniti i problemi etici, culturali e psicologici che si trascina dietro. Invece si è arrivati alla mediazione politica e tanti emendamenti sono stati ritirati. Quindi i tempi tecnici, anche se stretti, per arrivare al traguardo ci sono. Sarebbe un delitto, è il caso di dirlo, mollare il colpo sull'ultimo miglio di questa interminabile maratona di civiltà.

il Fatto 7.10.13
I figli del Kgb
Benvenuti in Oligarkhija, regno senza leggi e confini
di Leonardo Coen


Oligarkhija è il favoloso regno sovranazionale dei miliardari russi che dispongono di sterminate ricchezze, concentrate per lo più nei paradisi fiscali, nel Montenegro, in Israele, in Svizzera, ancora a Cipro nonostante la crisi, a Singapore, in Austria e in Gran Bretagna. Un regno di illimitate pretese. Infatti Oligarkhija è sempre in espansione: non passa giorno senza che un oligarca russo acquisti una proprietà oltre i confini della Santa Madre Russia. Case a Parigi. Terreni in Sudamerica. Vigneti di Chablis in Francia. Ville sul lago di Como. Grattacieli a Panama. Aziende negli Stati Uniti.
   E isole in Grecia. Come Skorpios, nel mar Ionio, rifugio dorato di Onassis e Jackie Kennedy. Un colpo da 100 milioni di dollari scuciti senza batter ciglio dall’avvenente e giovanissima Ekaterina Rybolovleva, ventiquattrenne figlia di Dmitri Rybololev, 46 anni, il cui patrimonio ammonta a 9,1 miliardi di dollari. Originario di Perm, negli Urali, Rybolovlev deve la sua fortuna alla Uralkali, mega-società di fertilizzanti con capitale di 35 miliardi di dollari.
   Il tipico atteggiamento di un oligarca che si rispetti è quello di alternare affari sul filo del rasoio e vizi da satrapo. Il buon Dmitri si è tolto lo sfizio di regalarsi in Florida la faraonica villa che fu di Donald Trump, pagata 95 milioni di dollari. Fanatico di calcio, si è comprato l’As. Monaco, allenato da Claudio Ranieri, attualmente in testa al campionato francese con il Paris St. Germain degli sceicchi qatariani. In tanto profano, un pizzico di sacro: ha finanziato la costruzione di una cattedrale ortodossa russa a Cipro dedicata a san Nicola. Insomma, un perfetto oligarca di seconda generazione. Quella che non pesta i piedi a Putin, come invece osarono Boris Berezovskij, eminenza grigia del presidente Boris Eltsin, trovato impiccato nel bagno della sua casa di Ascot il 23 marzo scorso, e Mikhail Khodorkovskij, in galera da dieci anni.
   Affari sul filo del rasoio
   Per sopravvivere nel difficile mare di Oligarkhija bisogna saper navigare con accortezza, spiegò una volta il magnate del nickel Vladimir Potanin, altro tycoon di peso (14,5 miliardi di dollari in tasca, al quarto posto nella classifica dei russi più ricchi). É presidente della Interrot Holding, con interessi vastissimi nei metalli e nelle banche. É stato protagonista di una cruenta battaglia tra la Norilsk e la Rusal. In un’intervista del 1998, a chi gli chiedeva in che cosa consistesse il suo potere di oligarca, rispose: “Quale potere? Io non posso distruggere lo Stato. Ma lo Stato può distruggere me”. A differenza di Rybolvlev, si è dato alla beneficenza e partecipa alla campagna The Giving Pledge lanciata da Bill Gates e Peter Buffett, i più ricchi dei ricchi, assicurando - ma sarà poi vero? - che si impegnano a donare la metà del proprio patrimonio.
   Chi invece non ci pensa affatto è Igor Sechin. Protagonista qualche mese fa di un blitz finanziario in Italia. Amministratore delegato del colosso petrolifero Rosneft (leader mondiale energetico), è accompagnato dall’inquietante soprannome di “uomo più spaventoso del mondo”. Un po’ per il suo aspetto fisico non proprio friendly, un po’ per il devastante ed occulto potere: ex ufficiale del Kgb, è di Pietroburgo come l’amico Putin di cui è stato consigliere fin dai primi tempi della sua scalata al Cremlino. Nessuno, meglio di Sechin, rappresenta la personificazione dell’oligarca-manager di Stato. Ebbene, Igor il terribile è planato in Italia e ha rilevato il 21% della Saras, la compagnia petrolifera dei Moratti. Una partnership che è stata subito definita dagli esperti piuttosto “ingombrante”. Perché dietro la Rsoneft si individua la lunga mano del Cremlino.
   E qui ritorniamo a Oligarkhija. Oggi come oggi ha per capitale Mosca, con tutto quello che geopoliticamente significa, e per capitali un decimo del denaro mondiale. Secondo recenti stime del centro di ricerche statunitense Global Financial Integrity di Washington dal 1994 al 2011 in Oligarkhija c’è stato un flusso finanziario illecito di 764 miliardi di dollari (552,9 in entrata, 211,5 in uscita). Questa massa imponente di quattrini ha alimentato (e continua a farlo) un’economia in nero che non conosce crisi e che è valutata al 35% del prodotto interno lordo russo. A proposito di Cipro, il Gfi definisce l’isola un’autentica “lavatrice del denaro sporco russo”. Dunque, la principale dependance di Oligarkhija, prima sua sorgente e destinazione degli investimenti diretti russi all’estero. Un estero che per Oligarkhija non ha confini, poiché il suo territorio virtuale si estende in ogni dove. La città in cui si concentra il più alto numero di miliardari russi infatti non è Mosca bensì Londra, tanto che ormai viene chiamata Londongrad: i russi, si lamentano i giornali britannici, l’hanno invasa e oggi sono più di 400 mila quelli che ci vivono, per scelta o per necessità. I magnati sono stati subito accettati dalla upper class inglese.
   Il più noto di costoro è Roman Abramovic, proprietario della squadra di calcio Chelsea dal 2003: ha comprato appartamenti, case, ville, castelli, yachts, aerei. É lì che gestisce il suo impero internazionale.
   Zar di Oligarkhija si è autonominato l’autoritario Vladimir I°, al secolo Vladimir Vladimirovic Putin, eletto tre volte alla presidenza della Russia: alla testa del Paese dal 2000 - se si esclude il mandato interinale del “delfino” Medvedev - ha ripreso il controllo dell’economia nazionale. Con il pugno di ferro. Per educare gli oligarchi “della prima generazione”, ossia quelli delle selvagge privatizzazioni statali dell’era Eltsin, al nuovo corso del Cremlino, ha messo kappaò il più ostile di loro, Mikhail Khodorkovskij, con un arresto tanto spettacolare quanto drammatico e costretto all’esilio il più insidioso, Boris Berezovskij. Dopo di che ha rinazionalizzato le imprese considerate strategiche (petrolio, materie prime, aeronautica, apparato militare-industriale) e ha piazzato i suoi uomini, quasi tutti ex agenti dei servizi segreti come lui, alla testa delle società. Gli oligarchi hanno dovuto adeguarsi. I più docili sono stati adottati dal Cremlino e hanno consolidato i loro imperi. Con una variante, tipica peraltro dei fratelli coltelli. L’attualità oligarchica vede un nuovo livello di scontro. Da un lato, il cospicuo gruppo filoputiniano. Dall’altro, quello filomedvediano. Uno psicologo direbbe: la rivolta del figliol prodigo. Lotta intestina. Putin predica l’egemonia totale. Medvedev, che non ha militato nel Kgb e tantomeno si considera un siloviko, ossia un uomo delle strutture di potere (militari, polizia, dogane), ma un liberal.
   Le fazioni contrapposte
   Non ha grandi speranze. Gli oligarchi putiniani sanno benissimo che il loro destino è legato a doppio filo a quello del Cremlino. Tra i seguaci di Medvedev spiccano i bagatil, i ricconi del Daghestan , perché la moglie del suo braccio destro Arkadij Dvorkovich proviene da un potente clan della repubblica caucasica.
   Un episodio che ha messo a nudo il dissidio fra i gruppi di pressione economici putiniani e medvediani riguarda i contratti olimpici per i Giochi Invernali di Soci del 2014. Durante un’ispezione agli impianti, in diretta tv Putin ha criticato aspramente i lavori eseguiti dall’impresa dei fratelli daghestani Akhmed e Magomed Bilalov: i costi del trampolino olimpico si erano moltiplicati. Temendo di finire in gattabuia, i fratelli Bilalov hanno preferito trovar rifugio all’estero. I filomedvediani hanno gridato alla trappola. Fatto sta che gliene è capitata un’altra. Il caso UralKalium, il più grande produttore mondiale di potassio, nelle mani di Suleiman Kerimov, un altro riccone di Daghestan (nella top ten dei miliardari russi, patron della squadra di calcio Anzhi dove militava Eto’o). I putiniani hanno giocato in modo assai sofisticato contro di lui, coinvolgendo persino il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko tramite la BelarusKalium, partner-concorrente minore di UralKalium. Kerimov, da vecchia volpe, si è tirato fuori, cercando di restare equidistante ed evitare così di rimanere travolto dalla faida. E pensare che solo due anni fa, in una riunione molto riservata, il “delfino” Medvedev pensava di potercela fare contro Putin, al punto da convocare in una riunione a porte chiuse i dirigenti di 27 grandi imprese. Il succo dell’incontro fu: “Siete con me o con Putin?”. Con te, caro Dmitri, gli disse Alisher Usmanov, il numero uno di Oligarkhija (“vale” 17,6 miliardi di dollari, è il padrone dell’Arsenal, interessi in Twitter e Facebook, è suo il quotidiano economico liberale Kommersant che spesso fa le pulci alla politica del Cremlino), sai quanto desideri una Russia più libera, più moderna, più occidentale, più tecnologica. Ma non tutta: Oligarkhija è... oligarchica.

il Fatto 7.10.13
Il detto russo
“Mille anni senza libertà”
di Stefano Citati


   Mille anni di storia e neanche un giorno di libertà”, dicono i russi. Aforisma di un popolo riunito sotto un regno, costituitosi a nazione, ma mai divenuto padrone del suo destino.
   Molti invasori sono passati attraverso le steppe euroasiatiche prima che la Russia divenisse il nome di uno Stato unitario, allargatosi per acquisizioni successive sotto la spinta costante di un leader. Il primo storicamente esposto come vessillo della “grande madre Russia” nell’immaginario sovietico è Aleksandr Nevskij (film del 1938 di Eisenstein sul proto-zar del XIII secolo) del ducato di Novgorod.
   Già nel granducato di Mosca, erede del principato medievale da cui deriva anche il castello fortificato - Cremlino - che diverrà summa architettonica delle forme di governo, si sviluppa la suddivisione del potere: i boiardi (“uomini ricchi”) signori feudali dominano le terre, spesso in conflitto con il signore del regno. Un impasto politico-militare-religioso (baluardo della fede cristiana ai confini dell’impero romano d’Oriente) che forgia la figura dello zar: il caesar russo. Il soprannome del primo il “Terribile” Ivan sarà rievocato negli anni più feroci dell’Urss (le purghe staliniane del 1937-1938) la cui rivoluzione s’inspirava - come tutte da allora - a quella francese, Terrore di Robespierre incluso.
   Passando attraverso le conquiste territoriali, governative e tecniche di Pietro il Grande che fece sorgere dalle paludi San Pietroburgo, e di Caterina la Grande, la Russia raccoglie i venti culturali che spirano dall’Europa occidentale, fino a divenire culla della rivoluzione - dal nichilismo al comunismo - che porteranno nel 1861 all’abolizione della servitù della gleba (Aleksandr II Romanov).
   Il regime sovietico non fece che trasformare in parte la struttura sociale russa, motiplicando gli snodi burocratici-amministrativi dove si annidava il potere discrezionale dei singoli, certo non abolendola. Poi gli oligarchi post’Urss presero il posto dei boiardi medievali.

l’Unità 7.10.13
Il dubbio di Pietro che cambiò Ingrao
Camilleri racconta il leader del Pci: un viaggio dalla poesia alla politica
di Andrea Camilleri


L’anticipazione La lezione dello scrittore sull’ex presidente della Camera fa parte del primo volume della collana «Carte Pietro Ingrao» in uscita per le edizioni Ediesse

INGRAO, LO HA SCRITTO E DETTO TANTE VOLTE, NASCE POETA, AMANTE DELLA LETTERATURA DEL SUO TEMPO E, IN SEGUITO, SI AVVICINA AL CINEMA ISCRIVENDOSI CON L’AMICO fraterno Gianni Puccini all’appena nato Centro sperimentale di cinematografia dove, tra parentesi, insegnava anche il russo Pietro Sharov al quale, dagli anni Cinquanta e fino alla sua morte, mi legherà una profonda amicizia. Ingrao ci racconta del suo entusiasmo giovanile per le scoperte di Chaplin e dei grandi registi russi, del valore dell’insegnamento di un Umberto Barbaro e degli incontri formativi con un Rudolf Arnheim. Insomma, pare avviato a una brillante carriera nel cinema quando, del tutto improvvisamente, abbandona il Centro sperimentale (...).
Ingrao ne fornisce una sua spiegazione. Scrive che l’abbandono del Centro sperimentale fu motivato in sostanza dal contraccolpo provato per l’inizio della guerra di Spagna. Considero questo un punto assolutamente nodale del suo percorso, ma Ingrao mi pare che si limiti sempre a farne breve cenno. Forse per un alto senso di pudore. Perché penso che la guerra di Spagna invece sia stata per lui qualcosa di più di un tragico impatto, sia stato un autentico, squassante cortocircuito. Penso che Ingrao ebbe in quel momento la lucida percezione di quello che in realtà veniva a significare la guerra di Spagna e ne ebbe esistenziale sgomento. Su di lui, sulla sua sensibilità, gravavano già da tempo quelli che Vittorini avrebbe chiamato «i dolori del mondo offeso» e la guerra di Spagna consisteva in un insopportabile aggravio dell’offesa (...).
Ecco, sono convinto che Ingrao venne allora preso da un dubbio che indirizzò diversamente la sua vita: il dubbio cioè che l’arte da sola e in sé, e in quel momento specifico, fosse assolutamente inadeguata a far barriera contro il fascismo(...). Quindi dal dubbio nasce un meditato agire. Il dubitare di Ingrao è sempre, come dire, la messa in moto di un motore che attivamente elabora il che fare più attinente al fine proposto. In altri termini, non è mai la messa in dubbio del perché, ma del come (...).
Ma c’è un altro punto nodale nella vita politica di Ingrao che, ai miei occhi, ha la stessa valenza di quello del 1936. È la richiesta da lui fatta, nel 1966, nel corso dell’XI congresso del partito, di libertà del dissenso. Com’è logico supporre, una tale ardita richiesta all’interno di una struttura rigida, gerarchica e centralista non può essere che la disperata, e ormai non più cancellabile somma finale di un innumerevole dubitare accumulato nel corso degli anni. E questa somma finale ha una precisa definizione: dissenso.
Perché questo dissenso? Scrive Ingrao: «In quella mia rivendicazione di libertà del dissenso c’era non solo il drammatico stimolo che era venuto dalla rivelazione dei delitti di Stalin, ma una convinzione più profonda che aveva anche a che fare con una riflessione sull’esistere. Mi muoveva non solo la tutela della libertà d’opinione, ma ancor più la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l’incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto».
«Un farsi del molteplice». È in sostanza, anche questa, una crisi esistenziale e politica che nasce dalla crisi di una certa concezione ristretta della politica e postula una sua rifondazione nel recupero di quella che Hanna Arendt chiamava la politica perduta, vale a dire quella messa in rapporto diretto tra gli uomini, attraverso un’azione che corrisponda alla condizione umana della pluralità, della molteplicità. Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica scrive la Arendt questa pluralità è specificamente «la» condizione non solo la condicio sine qua non, ma la condicio per quam di ogni vita politica(...).
Allora, qual è la funzione positiva del dubbio secondo Ingrao? Sentiamo le sue parole: «Mi appassionava la ricerca. E il dubbio mi scuoteva, vorrei dire: mi attraeva. Vedevo in esso un’apertura alla complessità della vita. Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare: aprirsi al ‘molteplice’ del mondo...». E ancora: «Il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio. E avvertivo anche una ricchezza per quell’interrogarsi, cercando. Come se il mondo nella sua problematicità si dilatasse intorno a me». «Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare», afferma Ingrao (...).
Il dubbio allora nasceva non dall’opportunità ma dalla necessità di accogliere o meno le inevitabili modificazioni che quelle basilari opinioni via via subivano nel convulso procedere della Storia, senza che però ne intaccassero la verità di fondo. È stato il secolo che ha avuto, rispetto a quelli che l’hanno preceduto, una massa, proprio nel senso che vien dato in fisica a questo termine, di gran lunga superiore. La qualità del dubbio di Ingrao perciò non attiene alla sfera del sistematicismo o se volete dello scetticismo, ma assume il carattere di un procedimento metodico di volta in volta tendente a un fine, a uno scopo: e cioè la verifica del fondamento di una ulteriore certezza. Ingrao non dubita di tutto ciò che è dubitabile, forse questa posizione è più di un filosofo che di un politico, Ingrao limita il suo dubbio a quando scopre che su un dato argomento, su una precisa posizione, si può dubitare della possibilità del dubbio. È un dubitare a posteriori. Una postulazione di verifica.
Ma pur entro questi limiti, l’esercizio del dubbio produce in lui, come egli stesso ha affermato, una sorta di dilatazione del mondo. Il dubbio quindi come mezzo di conoscenza, cioè un dubbio di marca cartesiana per il quale ogni dubbio doveva
risolversi nella scoperta di un nuovo territorio su cui avventurarsi. E su questi nuovi territori di conoscenza Ingrao si è sempre inoltrato non per il gusto dell’avventura intellettuale in sé, ma quasi per assolvere un dovere politico e umano(...).
Mi sbaglierò, ma io sono convinto che del suo impegno politico egli sia rimasto maggiormente legato al periodo 1944-1945, quando, in una grigia Milano con il piede straniero sopra il cuore, lavorava all’edizione clandestina de «l’Unità», quando il vivere e l’agire quotidiani erano un azzardo, quando la possibilità dello scacco era dietro ogni angolo, quando si era uomini e no.

l’Unità 7.10.13
Olivetti: «Il ’900 di un grande protagonista»
di Bruno Gravagnuolo


IL MONDO DI INGRAO IN VENTI VOLUMI. È L’AVVENTURA EDITORIALE NELLA QUALE MARIA LUISA BOCCIA E ALBERTO OLIVETTi si sono imbarcati con l’editrice Ediesse e il Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato. Di questa avventura quello di Camilleri è frammento simbolico. Tratto da uno dei primi due volumi che escono a giorni. Che sono Lezioni per Pietro Ingrao, tenute nel 2005 alla Camera da Andrea Camilleri, Alberto Olivetti, Edoardo Sanguineti e Mario Tronti (pp. 140, Euro 12). E Pietro Ingrao, La Tipo e la notte. Scritti sul lavoro 1978-1996, a cura di Francesco Marchianò, con saggio di Stefano Rodotà (pp. 202, Euro 14). Poi verranno un Saggio inedito sul sessantotto, con uno scritto di Alfredo Reichlin, una selezione di testi e scritti parlamentari sulla democrazia, con saggio di Walter Tocci, e poi ancora tutto il dibattito attorno a Ingrao poeta, a partire dal Il dubbio dei vincitori del 1986 e da un’intervista con Aldo Garzia sulle liriche ingraiane. Con lettere, interventi e testi di Anceschi, Fortini, Zanzotto, Giudici, Sciascia, Rossanda, Macchia, Luperini.
E allora ne parliamo proprio con Alberto Olivetti, filosofo dell’arte a Siena «ingraiano storico» definizione che non disdegna che oltre che conoscitore delle «Carte Ingrao» (quelle regalate dal leader al Crs) sta ben dentro l’opera in corso. «Non è proprio un’Opera Omnia ci dice ma un lavoro di selezione diacronica del mondo di Ingrao, dalla metà degli anni Trenta ad oggi. Sono scritti, immagini, foto, video, spezzoni e lavori più compiuti, che Ingrao già catalogava da tempo con la sua collaboratrice Renata Rizzo...».
Riordiniamoli.
«I filoni sono tanti. C’è l’Ingrao dirigente, saggista e pubblicista. L’Ingrao poetico e teorico dell’arte, e infine la fitta corrispondenza con un mare di personaggi eminenti: Bobbio, Dossetti, La Pira, Luzi, Sciascia, Chiarini, Sbarbaro e Arnheim...».
Già, Arnheim, che con Ungaretti e l’ermetismo, è una delle chiavi per entrare nell’anima di Ingrao. È così? «Proprio così. Le origini del vissuto e dell’impegno politico di Ingrao stanno lì. Nel tema estetico e artistico. In Leopardi, per esempio e ben prima di Gramsci o Marx. E a contatto con le avanguardie del 900, e il pensiero più avanzato sulla “settima arte”. Nel cinema fin dagli anni giovanili cercava ritmo, coinvolgimento vitale e “combinazioni di senso” in grado di “figurare” e far erompere la soggettività moderna. Lo stesso vale in poesia, che per Ingrao è montaggio dalla frammentazione...». Non erano velleità giovanili?
«No, a parte il rapporto decisivo con Arnheim, elabora per Visconti la sceneggiatura ineditadi una Novella di Verga Jeli il pastoreE partecipa sempre con Visconti alla sceneggiatura di Ossessione». Adesso però Olivetti è venuto il momento di «buttar-
la in politica», altrimenti la accuseranno di trasformare Ingrao in un poeta minore del 900...
«Ingrao è stato e resta un grande capo politico del comunismo italiano. Ma l’opera cerca di far capire il comunismo libertario di Pietro Ingrao. In bilico tra liberazione delle soggettività oppresse e dedizione totale al Fine. Almeno fino al famoso 1956...». È lì la vera cesura?
«Esatto, dopo il 1956 cessa la dimensione manichea e Ingrao indaga il neocapitalismo e le potenzialità liberatorie del nuovo fordismo. Della nuova classe operaia con i suoi bisogni. Di lì nasce anche il dissenso che lo porta diritto al XI Congresso, al “non sarei sincero”..».
Il dissenso si protrae, quando Ingrao lascia la Presidenza della Camera e studia le forme dello Stato? «Sì, perciò in quegli anni nasce il Crs. Con anticipazioni fulminanti su riforma dello stato e crisi di rappresentanza: roba attualissima, persino profetica». Per finire due domande: il 1989 e l’Ingrao di oggi. Che dice Pietro della vostra opera?
«L’Ingrao del “no” alla Bolognina è tutto da indagare e pubblicare, e lo faremo. Si attestò su una posizione poco incisiva, forse. Quanto al Pietro di oggi, è ben felice del “cantiere”. Anzi, stiamo pure scrivendo insieme una sorta di dialogo esemplare sui massimi sistemi: non-violenza, soggetti, forme associative, mondo globale. Titolo: Verso la Grotta di Tiberio, in ricordo di tante lunghe passeggiate insieme a Sperlonga».

Corriere 7.10.13
Quant'è astratta la democrazia atea
Flores d'Arcais vuole relegare i credenti in una condizione di minorità politica
di Marco Ventura


«La democrazia è atea, imprescindibilmente». Paolo Flores d'Arcais pianta la sua tesi al centro del libro «La democrazia ha bisogno di Dio» Falso! (Laterza). La sbatte in faccia ai tanti per i quali, da Tocqueville in poi, la democrazia non sta in piedi senza Dio. La democrazia di Flores d'Arcais è il regno dell'autonomia e dell'autosufficienza dell'uomo. Si fonda su un «ethos repubblicano» che è «potere-di-tutti-e-di-ciascuno». È una società di «liberi/eguali» in cui valgono solo fatti, logica e razionalità; una comunità «che si dà da sé la propria legge», dove il cittadino argomenta «sotto la propria responsabilità, con la propria testa, utilizzando i soli strumenti che lo rendono con-cittadino».
Ne discende l'incompatibilità con la democrazia di fonti d'ispirazione superiori, «dogmatica volontà irrelata», sovranità divina alternativa a quella umana. Se vuole stare nella dinamica democratica, non resta al credente che abbandonare ogni pretesa di dedurre norme direttamente o indirettamente dalla propria fede. Dio può sopravvivere alla democrazia, secondo l'autore, solo accettando l'«esilio dorato nella sfera privata della coscienza» e ingiungendo ai suoi rappresentanti in terra di non interferire col governo repubblicano. Dio, infatti, non può che dividere la società e drammatizzare i conflitti; producendo una «ghettizzazione reciproca di stampo iper-feudale, cuius religio eius lex», oppure una «guerra civile di religione, per imporre come legge, erga omnes, la volontà del proprio Dio».
Giacché sempre di questo si tratta, scrive il filosofo: di ammantare della Maestà di Dio le proprie «ubbie, frustrazioni e altri spurghi dei fondali psichici». I tentativi di sostenere il contrario, per Flores d'Arcais, sono fallaci; o peggio, pericolosi. Vengono dall'intransigenza cattolica di Wojtyla e Ratzinger, dal cripto islamismo di Tariq Ramadan; soprattutto, dai «democratici stanchi di lottare», come l'«agnostico» Habermas. L'ambizione di legittimare Dio nella sfera pubblica è invariabilmente, per l'autore, «mero revival di tradizionalismo teocratico», rinuncia all'autodeterminazione, «atavico richiamo di nostalgia gregaria stratificata nella più antica materia grigia, pronto a riemergere con prepotenza non appena vacilli la speranza».
Nella logica repubblicana, il credente è «civicamente minus habens perché incapace di interiorizzare autonomamente la scelta pro-democrazia e in grado di riconoscerla solo affidandosi» all'autorità religiosa di riferimento. Se vuole integrarsi nel sistema democratico, egli deve pertanto appendere Dio all'attaccapanni, come fa lo scienziato prima di entrare in laboratorio: uscendo così dalla propria «condizione permanente di minorità».
L'alternativa dell'autore, la democrazia «priva di fondamenti», sembra a sua volta una fede, prodotta dalla medesima immaginazione che partorisce Allah o Shiva. Flores d'Arcais afferma invece che la sua è «una ideologia» sopra le parti, che «fa corpo unico con la democrazia», un «habitus psicologico e morale» che non ha pretesa di universalità, agli antipodi delle tante divinità che soggiogano l'uomo.
Il limite della proposta di Flores d'Arcais sta nel suo dualismo. Nella divisione del mondo in due emisferi: i credenti da una parte; i non credenti dall'altra. E nel destino inevitabile di ciascun universo: il credente dovrà liberarsi negando l'Altro da sé con cui si relaziona; mentre spetterà al non credente respingere la tentazione di contemplare alcunché oltre la «nuda identità astratta» della cittadinanza.
Si tratta di un dualismo potente, radicato, i cui argini sono tuttavia rotti ogni giorno dalle correnti della realtà. Credenti e non credenti si mischiano. Fedi religiose e fedi secolari si confondono. Gli dei si moltiplicano. In seno alla stessa comunità, spesso all'interno della stessa persona. Chi è emancipato? Chi responsabile? Chi capace di decidere «con la propria testa»? È succube o consapevole la ragazza francese che porta il velo? È emancipato o schiavo il redentorista che langue in una cella cinese? È cittadino o fedele l'ateo che idolatra Wall Street? Le categorie «credente» e «non credente» fotografano solo in piccola parte la realtà. Lo stesso autore deve issarsi sopra la fenomenologia del credere, costruendo un'astrazione che funzioni a prescindere, un ideale che si sottrae al giudizio della realtà.
La provocazione di Flores d'Arcais non è per questo meno stimolante: sfida il credente a dimostrarsi libero e il non credente a onorare il sogno dell'autore; riposa su un'esigenza di emancipazione, di non «indifferenza etica», che innesca una competizione virtuosa. Potrebbe mettere fuori gioco i credenti, l'autore, nella pagina finale, quando condanna l'«illusione che un Altro ci possa salvare in luogo del nostro impegno, della faticosa passione di essere cittadini». È invece una conclusione che abbracceranno molti credenti non inquadrabili nella categoria di chi ha privatizzato Dio per farsi cittadino. Perciò può servirci, la democrazia atea di Flores d'Arcais, per mettere in discussione schieramenti e ideologie. Ma non ci è utile per capire e governare un mondo che centrifuga credenti e non credenti, scompigliando ogni fede. Se prescindono da questa realtà, non ci servono né la democrazia atea, né quella religiosa.

Corriere 7.10.13
E Dante immaginò il potere globale
di Luciano Canfora


Nella Monarchia, la più compiuta e moderna delle sue opere dottrinali, Dante si schierava contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava l'uguaglianza delle due autorità. Il suo cuore batteva per l'impero.

L'utopia moderna di Dante Immaginava un impero universale come garanzia di pace di LUCIANO CANFORA L a Monarchia, che non è solo la più compiuta delle opere dottrinali di Dante, ma anche la più moderna, fu messa dalla Chiesa all'Indice dei libri proibiti, nel primo «indice» elaborato dal Sant'Uffizio nel 1559. La ragione di ciò è molto semplice: ad una lettura disincantata appare evidente che il grande poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea, si schierava — col suo trattato politico — contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità. Pur consapevoli del rischio di frettolosi cortocircuiti, possiamo ben collocare quel trattato al vertice di una nobile, ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». Quel celebre e davvero memorabile discorso parlamentare di Cavour, malvisto dal sanfedismo del tempo suo, era in realtà sommamente rispettoso della dignità e della libertà della Chiesa. È storia nota come la Chiesa abbia impiegato moltissimo tempo a comprendere questo e a prenderne atto e ad agire di conseguenza: agevolata in ciò dalla definitiva perdita del potere temporale, ma rallentata in tale processo dal diverso e spesso altalenante orientamento dei pontefici volta a volta regnanti. I quali — in quanto sovrani assoluti e depositari perciò di poteri vastissimi — possono imprimere rapide e radicali inversioni di rotta. Come vediamo ancora oggi.
Resta il fatto che il cuore di Dante batte per l'impero (si passi l'espressione metaforica). Nel primo libro di questo trattato sulla monarchia, Dante dimostra che la monarchia universale è necessaria al benessere terreno in quanto permette, tramite la pace universale che ne è il portato, il fine supremo: l'attuazione e il pieno dispiegamento dell'intelletto in ambito speculativo e in ambito pratico. Nel secondo libro rivendica, come già nel Convivio, al popolo romano il diritto all'impero. Nel terzo affronta il tema più delicato: la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno del «Vicario». E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso all'intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell'uomo — cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia — è autonomo rispetto al fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui l'uomo è guidato dalla «rivelazione». Come l'impero è autonomo dalla Chiesa, così la ragione lo è rispetto alla fede.
Questo impianto teorico spiega bene perché a Giustiniano, cioè all'imperatore cesaropapista per eccellenza, venga riservato un posto di così grande spicco nel Paradiso di Dante e a lui tocchi di tessere l'esaltante elogio di Giulio Cesare. Elogio che stride con il privilegiato trattamento ammirativo riservato al nemico implacato di Cesare, cioè Catone Uticense, quale guardiano del Purgatorio.
Ma soprattutto non sfuggirà la forte carica utopica che è racchiusa in tutto il trattato: l'idea di una pace universale conseguente all'unico governo universale. Tale governo però viene concepito non già come sostitutivo dei molteplici poteri statali e comunali già esistenti, ma è sovraordinato ad essi. Non si tratta di «un governo di tutti i popoli fusi in un solo Stato, ma di una suprema giurisdizione, fatti salvi gli Stati particolari con proprie leggi e propri governi» (Luigi Russo). Non è chi non veda in tale concezione l'utopia anticipatrice di una istanza che sempre fu viva, e che al tempo nostro è antidoto indispensabile all'arroganza di singole potenze inclini ad attribuirsi unilateralmente il ruolo di gendarmi del mondo.

Corriere 7.10.13
L'apprendimento comincia in fasce
Ecco perché siamo nati per leggere
di Gian Arturo Ferrari


A prima vista «Nati per leggere» non pare il nome di una associazione destinata a promuovere la lettura e i libri presso i bambini piccoli e piccolissimi. Che sembrerebbe invece richiedere denominazioni più alate, più evocative, più allusive. Che so, «Liber», «Librus», «Pagina», «Lectura» e via dicendo. O più infantili, «Libromio» o «Miolibro», «Coccolibro», «Cicciolibro» e anche qui via dicendo. «Nati per leggere» invece, brusco e spicciativo com'è, ha più l'aria di un comando, di una sollecitazione a sbrigarsi. Non è un invito, ma un'asserzione perentoria. E anche, aggiungiamo pure, non così immediatamente persuasiva. Perché mai dovremmo essere nati proprio per leggere? Siamo nati per tante cose, certo, tra le quali anche per leggere. Senza dire che la maggior parte di quelli che nascono — nel mondo in generale, ma in particolare in Italia — finiscono per non leggere del tutto o per leggere molto ma molto saltuariamente.
E allora che finalità sarebbe mai quella che dopo essere stata enunciata in modo così imperativo viene in realtà realizzata solo da una minoranza piuttosto esigua? Eppure, nella sua voluta e un po' legnosa severità, «Nati per leggere» ha tre grandi vantaggi. Il primo è quello di legare la lettura alla nascita, o per meglio dire di proporla come la vera nascita, di trasformarla da un fatto culturale in un fatto naturale, quasi biologico. Il secondo di essere una sorta di rivendicazione e di protesta per un mancato riconoscimento e dunque per converso una specie di dichiarazione di intenti, un programma d'azione. Il terzo di essere, nella sostanza, vero. Siamo nati, come spiegò qualche tempo fa Francois Jacob, per trasmettere il messaggio genetico che abbiamo ricevuto. E sta bene. Ma è anche vero che questo non è un tratto specifico della specie umana, dell'Homo sapiens, bensì è comune a tutto il vivente, animale o vegetale che sia.
Se vogliamo venire più vicino a noi e cercar di isolare ciò che davvero identifica e determina l'umanità e il suo destino, il che cosa ci stiamo a fare al mondo, finiamo obbligatoriamente per passare dalla scrittura e dunque dalla lettura. In un senso profondo ed essenziale noi siamo davvero nati per leggere. Nella sua sbrigativa ruvidezza «Nati per leggere» dice da un lato la verità e dall'altro proprio dicendo la verità si propone come slogan, manifesto, motto di una nuova evangelizzazione alla lettura e soprattutto alla lettura precoce. Che è iniziata, l'evangelizzazione, nel 1999, quando alcuni bibliotecari e alcuni pediatri hanno deciso di mettersi insieme, di dar vita alla associazione e di iniziare in concreto l'intervento sui bambini. Negli ultimi dieci anni, da un lato l'attività si è estesa e oggi vi sono impegnate più di 1.000 biblioteche e 800 pediatri che lavorano a oltre 500 progetti locali. Ma dall'altro si sono venuti modificando alcuni concetti di base, primo fra tutti quello di precocità.
Ognuno di noi, che siamo grandi e forti lettori, conserva e mantiene (in realtà restaura e ricostruisce) preziosi ricordi delle sue prime letture. Io rivedo (o credo di rivedere...) la rilegatura verde e i disegni liberty in bianco e nero di un libro delle fiabe di Andersen. Risento (o credo di risentire...) la voce di mia nonna che, come in una fiaba, mi legge un libro di fiabe. Ma questi ricordi, come gli innesti di memoria dei replicanti di Blade Runner, sono già contaminati, plasmati, modificati dalla lettura. I libri si sono insinuati in noi e si sono trasformati in noi.
C'e un prima, un momento anteriore in cui è scattata la molla, la porta segreta si è aperta, siamo entrati nel mondo dei libri e i libri sono entrati in noi. Quando? Quando è successo? Oggi le neuroscienze sono in grado di dare una risposta molto più accurata di quindici anni fa. E la risposta è: prestissimo. Non solo nei primissimi anni, ma nei primi mesi di vita. Lì, quando di lettere e di alfabeto non è proprio il caso di parlare, ma di immagini e di colori sì. E ancor prima quando vi sono solo suoni, ma tra questi suoni c'è una voce, e la voce — calda, affettuosa e materna — parla e racconta, e parla e racconta proprio a te, lì si è iniziata ad aprire la porta segreta che ha fatto dei neonati o dei bambini piccoli che siamo stati i lettori di oggi. E dunque se si vuole portare alla lettura quelli che oggi ne sono privati o esclusi bisogna cominciare presto, prestissimo. È vero, naturalmente, che non è mai troppo tardi. Ma questa è una verità individuale, vale per i singoli e sottintende un impegno, uno sforzo e una fatica immani. La verità dei grandi numeri è al contrario che il treno perduto nella primissima e prima infanzia non ripassa più, non lo si può più riprendere, che chi è rimasto escluso allora lo resterà per sempre.
Il primo e più immediato obiettivo di «Nati per leggere» e del suo stratega e presidente, il pediatra Giorgio Tamburlini — un italiano di frontiera (è triestino) asciutto e risoluto — è proprio diffondere il più possibile questa consapevolezza, far sì che mano mano divenga comprensibile a tutti i genitori che il destino dei loro bambini si gioca in gran parte lì, tra quei libretti colorati. Poi potrà venire tutto il resto. E alla fine anche questi bambini, come i grandi e forti lettori adulti di oggi, potranno dimenticare come hanno cominciato a leggere, crederanno di averlo sempre fatto e costruiranno su questo gli opportuni ricordi. Perché saranno non programmaticamente, ma nella realtà, nati per leggere. E cresciuti leggendo.

«Stanno restaurando Bassiano di Latina»
Corriere 7.10.13
Francescani e Templari, sapore di Medioevo
di Giovanni Russo


Stanno restaurando Bassiano. In un'Italia dove tanti tesori si vanno sgretolando, il fatto che si sia dato inizio ai lavori per salvare un minuscolo borgo medievale è una notizia che conforta. «Per noi comporta un grosso sforzo finanziario», dice il neoeletto sindaco Domenico Guidi, «ma non avevamo scelta. In certe situazioni, procrastinare gli interventi equivale a renderli inutili: se le mura di Bassiano crollano, nessun restauro ce le potrà restituire».
Bassiano è un piccolo comune in provincia di Latina, situato a 600 metri d'altezza, ingiustamente famoso soprattutto per il prosciutto, peraltro squisito. Perché «vale il viaggio», direbbe una guida del Touring, per le mura medievali che l'avvolgono come in un abbraccio; le scalette, i vicoli e i passaggi nascosti; il panorama mozzafiato dei monti Lepini che all'improvviso ti si para di fronte, se ti affacci dalla terrazza del belvedere o da spiragli che paiono aprirsi per magia. Furono i Caetani, che dominarono qui per secoli, a edificare nel XIII secolo sia le maestose mura castellane sia il palazzo baronale, che ingloba al suo interno case e botteghe. Qui hanno trovato rifugio genti in fuga dalle invasioni barbariche e i fraticelli osservanti la regola di San Francesco, di qui sono passati i Templari lasciando il segno nel Santuario del Crocifisso.
Mi ci sono recato anch'io al santuario. E ho avuto la sensazione di essere ritornato nella mia Lucania agli anni della fanciullezza: tre chilometri di strada che taglia boschi di faggi e di castagni, dove il mezzo di trasporto è ancora il mulo con tanto di basto e pesanti carichi di legname, il cane che si affanna a indicare il percorso peraltro obbligato. Di queste carovane ne abbiamo incrociate parecchie, sia all'andata che al ritorno: erano tutti operai che lavoravano nelle industrie nella provincia di Latina, mi dicono indicandomi i cavalieri, che in seguito alla crisi si sono ritrovati disoccupati e sono ritornati al lavoro di nonni e bisnonni.
Il Santuario del Crocifisso è in cima a un cucuzzolo, da dove non riesci a scorgere una casa o una strada: solo boschi verdissimi, fitti, impenetrabili allo sguardo. Si accede prima ad una grotta, i cui affreschi in fase di restauro risalgono alla fine del Trecento, che mi ricorda le chiese rupestri di Matera, poi alla piccola cappella, che custodisce un famoso Crocifisso ligneo al suo interno. L'ha scolpito da Fra' Vincenzo Pietrosanti nel 1673: per rendere la sofferenza di Cristo più realistica, si impose una sorta di tortura, costringendosi a lavorare inginocchiato su cocci di bottiglia e sassi acuminati. E in effetti è raro e sconvolgente vedere un Cristo in croce dal corpo tanto sanguinante.
Tornati a Bassiano, andiamo a visitare il museo delle Scritture dedicato all'editore, stampatore, umanista ed inventore del punto e virgola Aldo Manuzio, che ignoravo fosse nato qui nel 1449. Prima di ridiscendere a valle ci fermiamo a mangiare in un agriturismo, dove ci viene offerta una coppa di gelato al latte di capra, dal gusto intenso e delicato, che conquista anche un refrattario ai sapori sconosciuti come il sottoscritto.

La Stampa 7.10.13
Veronesi “Il caso Lizzani?  La vita è un diritto non un dovere”
Umberto Veronesi conduce da anni una battaglia a favore
dell’eutanasia
L’oncologo: poter morire con dignità è una conquista ancora da fare.
Ci vuole una legge”
di Flavia Amabile

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Corriere 7.10.13
Il figlio di Lizzani e l’idea della fine
«Voleva morire con mia madre» «Lo diceva sempre, ma non era malato. E aveva ancora tanti progetti»
La depressione. Negli ultimi tempi era esasperato perché sentiva di avere un corpo senza più forze con un cervello che funzionava ancora benissimo
di Ester Palma

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Corriere 7.10.13
Il tempo che scorre e il significato dell’esistenza
«Si può vivere bene a 90 anni Il segreto è ritrovarsi in armonia con la memoria»
Da Sofocle ai giorni nostri: il viatico per la serenità
di Domenico De Masi

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La Stampa 7.10.13
Carlo Lizzani, raccontò la strage di Meina tra lo sconcerto degli ebrei
Il regista morto sabato a Roma nel 2007 aveva girato il film storico a Baveno
di Chiara Fabrizi

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La Stampa 7.10.13
Kant e gli altri
Ogni genio ha le sue sregolatezze quotidiane
di Claudio Gallo

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Corriere 7.10.13
Quel sistema che il corpo capisce e il cervello no
di Edoardo Boncinelli


Possiamo immaginare la Terra come una succulenta arancia sbucciata e mondata che ci mostra nettamente tutti i suoi spicchi che, nella sua rotazione su se stessa, espone uno dopo l’altro alla luce del Sole. Così che mentre in un posto può essere mezzogiorno, in un altro è pomeriggio inoltrato e in un altro ancora
è appena l’alba. Gli spicchi corrispondono ovviamente ai fusi orari; ma se si osserva una foto della Terra ripresa da un satellite, tutto questo non si vede: la superficie è continua e semmai coperta da banchi di nubi. I fusi orari sono quindi una nostra invenzione e convenzione, mentre la rotazione terrestre è un fatto naturale. La suddivisione della superficie terrestre in un certo numero di fusi orari è quindi una delle tante ibridazioni fra culturale e naturale. Un’ibridazione che possiede però una sua prepotente evidenza. Quando prendevo l’aereo per New York alle 11 di mattina da Milano e atterravo alle 14, per il mio corpo e per il mio sistema nervoso erano le 20. Quindi avevo voglia di andare a cena e dormire. Peggio ancora nel tornare in qua dall’America: si sbarca prestissimo la mattina con alle spalle una notte insonne. Il nostro corpo non sa niente di tutte queste nostre diavolerie; ha sonno e basta, oppure non ha sonno per nulla anche se è sera tardi. Tutti sanno che il fenomeno si chiama jet lag e molti ne soffrono parecchio; vai a spiegare alle nostre cellule che l’intero piano orario della giornata è stato alterato! Il trucco, lo sanno tutti, è quello di comportarsi secondo l’ora del Paese di arrivo e non secondo l’ora del luogo di partenza. E poi mangiare poco, prima, durante e dopo il viaggio, perché fra la nostra digestione e la sonnolenza c’è un filo diretto. Si può soffrire per una convenzione? Sì, se non si prepara adeguatamente il proprio corpo. Fusi orari e ora legale sono i fenomeni nei quali la natura si scontra con la cultura; e noi viviamo per lo più immersi nella natura del nostro corpo, non nella cultura del nostro cervello. Ma usare il cervello serve comunque.

Repubblica 7.10.13
Revelli segreto
In un libro postumo dello scrittore le leggende, i miti, la religione delle campagne piemontesi raccontate dalle testimonianze di tanti anonimi protagonisti
di Nuto Revelli


Esce in questi giorniIl popolo che manca di Nuto Revelli Einaudi, pagg. 235, euro 19,50 Anticipiamo alcune delle testimonianze inedite raccolte nel volume

Mia mamma veniva da Monticello e raccontava che c’e una a Pocapaglia, la
masca (strega) Miciulina. Passava sempre dai vicini, li aiutava nei lavori in campagna, ma era propr una masca. Poi l’han bruciata, è proprio la verità. Un panettiere l’ha messa sop un fasiné(sopra una fascina), l’ha bruciata viva, perché faceva del male, faceva rompere le gambe, dicevano che era lei, l’hanno bruciata. Ma lei l’ha conosciuta ancora.
IL LATTE LEVATO
Sí che ho sentito parlare d’Cin d’Luleta, püpava le fumne, toglieva il latte. Meom püpava sempre, ’n po da na part e ’n po da l’àutra. Era normale farci togliere il latte, il latte faceva bene a chi lo succhiava, il latte delle donne è meglio di quello delle vacche, era necessario farlo. Il latte delle donne fa ingrassare, quelli che succhiavano il latte ingrassavano, rifiorivano, un viso rotondo cosí.
LA BIBBIA
Sarà quasi da cinquant’anni che leggo la Bibbia. Non sono mai stato ammalato, mi dà serenità la Bibbia, trovo molti esempi che mi insegnano a non fare del male agli altri, capo primo. Mi trovo male in mezzo alla popolazione di oggi. Io sono sempre allegro, mi piace fare le cene, mangiare e bere, con qualche amico, due o tre. Vado poco in paese. C’è troppa invidia. Anche tra vicini si portano odio. Che modo è di vivere senza aiutarsi uno con l’altro. Allora io prendo la macchina vado ad Alba.
La Bibbia la leggo mattino e sera. Che uno creda o non creda che ci sia un Supremo può leggere la Bibbia. Secondo me Dio ci ha lasciati liberi, chi crede crede, chi non crede… con la Bibbia mi trovo bene, lì ci sono molti esempi che non ci sono su altri libri.
In chiesa non vado mai. Vado a qualche sepoltura degli amici. Non mi trovo ad andare in chiesa perché ho visto che ha fatto tanti errori la chiesa secondo me. Ha sbagliato. Sono andato una volta dai Geova ad Alba.
IL RABDOMANTE
Andavo co a segnè l’eva, il rabdomante. Ho letto nella Bibbia che è anche proibito. Tutti gli acquedotti che hanno fatto. Mi ci sono messo da giovane. Un pendolo con un’asta di nocciolo. Un orologio da tasca, o un pendolo, o un piombino… Il piombino per sapere sempre più o meno la profondità, e la verga per trovare il punto dov’è. Poi faccio una croce dove sento che c’è l’acqua e so dire la profondità, se non c’è roccia, un metro più un metro meno. Ho trovato più di duecento pozzi. E c’è chi ti vuole bene e chi ti prende in giro. Poi non ti danno niente, se possono non ti danno niente. Loro guadagnano dei milioni, quelli che fanno lo scavo… a me danno cinquemila lire.
GESÙ E I TEMPORALI
Qui, per tradizione, come incomincia a tempestare la gente brucia un ramo d’olivo benedetto o dà fuoco a una fascina. Chi piange, chi prega, chi bestemmia. I vecchi credono nella scaramanzia, come losnadicono: «Oh Gesú Maria…» sperando di tenere lontani i fulmini. Si racconta che nei tempi passati c’era chi legava il crocefisso a una corda, e poi lo trascinava lungo i filari, e imprecava dicendo: «Guarda un po’ che cosa hai fatto!»
NON CI CREDO CHE L’UOMO VADA SULLA LUNA
Se ci credo che l’uomo va sulla luna? Non ci credo. Saranno anche andati… Anche Minetu non ci crede. Una cosa è sicura, hanno sconvolto tutta l’atmosfera… ma noi non siamo intelligenti da capire… Mia nonna è morta nel 1927 all’età di ottantacinque anni, era nata nel 1842. Diceva sempre: «Questo secolo è il secolo delle invenzioni, è un secolo crudele, un secolo di guerre. Il secolo che verrà, il secolo del 2000, se il mondo andrà ancora avanti, sarà il secolo dell’ignoranza». Forse, se ricordo bene, queste profezie le aveva imparate dal parroco di allora.
LA DESMÈNTIA (TOGLIERE IL MALOCCHIO)
Credevamo alle masche, l’aviu na pau santa d’le masche .
Contavano tante storie. Alla frazione Giaculet c’erano tante masche. C’erano delle donne che la gente dicevano che erano masche, noi stavamo sempre ritirati perché avevamo paura. Erano poi masche vere?
Nel 1927 una ragazza di undici anni, una dell’ospedale, Maddalena, vedeva una Madonna nelle fessure delle nostre rocche. Saliva tanta gente fin lassú, venivano anche da lontano, portavano via la terra a grossi pacchetti. C’erano delle donne che giuravano di vedere anche loro la Madonna: «Oh, mi l’ei vista, mi l’ei vista ».
Mi sun na desmentiòura. Tolgo il male da una gamba o da un braccio. Quando l’acqua bolle allora la verso in un piatto col túpinet (pentolino). L’acqua allora monta tutta su nel túpinet rovesciato sul piatto, sparisce dal fondo del piatto, che pruvidensa del Signur, neh? Se la desmèntia va male l’acqua non monta. E bisogna sempre pregare facendo la desmèntiae pregare un bel po’ non fa poi del male, fa bene. Me l’ha insegnata mia madre la desmèntia.
E l’ho già insegnata alle mie figlie.
LA VALANGA
Toni Bartavlon, abitava sotto la badia in una casa un po’ isolata. Tutte le mattine all’alba era solito dare la sveglia ai vicini,
giapava: «Oh, seve ’ncu ’ndürmí?» (Dormite ancora?). Un mattino i vicini si stupiscono: «Stamattina Toni non è venuto».
E guardano a monte: «Oh crispa, j’è pi nen la ca» (Non c’è più la casa). Nella notte era scesa la valanga, aveva coperto la casa, dalla neve spuntava solo il ciuffo di un castagno. Allora forano la neve, scavano una galleria, arrivano alla porta per delivrelu (liberarlo). Toni Batlavon era tranquillo, in casa: credeva che fosse ancora notte, erano le due dopo mezzogiorno.

il Fatto 7.10.13
Italia spremuta
L’olio made in Italy ormai lo fanno i cinesi
di Thomas Mackinson


Milano Lo scaffale del supermercato è un trionfo di antichi frantoi e colline toscane. Ma spesso è semplicemente un falso. Perché da anni l’olio italiano non si fa quasi più, lo si fabbrica. Lo abbiamo regalato ai signori del falso made in Italy che han fatto man bassa di marchi nazionali. Da allora ci è toccato comprarlo da loro e mandarlo giù, anche se del buon extravergine che era sulle nostre tavole è un ricordo annacquato di miscele industriali spagnole, tunisine e greche smerciate come prodotto italiano. Ora potremmo fermare i predoni stranieri dell’oro verde, riprenderci un pezzo di quella tradizione che rischia invece di finire ancora più lontano, nelle mani di concorrenti cinesi pronti a spremere il buon nome del made in Italy.
PERSA la moda, la chimica, l’industria dolciaria, la nautica il copione si ripete oggi sulla filiera agroalimentare dell’olio d’oliva che proprio in queste settimane si rimette in moto per la campagna 2013-2014. Comunque andrà la raccolta - stimata al rialzo del 10% con una produzione superiore a 5 milioni di quintali - il prezzo al chilo lo farà sempre Madrid. Perché l’Italia è il primo rivenditore al mondo, ma il primo produttore è la Spagna.
   Un paradosso che nasce con lo shopping di storici marchi nazionali acquistati dalla grande industria olearia senza che nessuno alzasse un dito per tutelare un settore che vale due miliardi e impiega manodopera per 50 milioni di ore lavorative. È accaduto venti anni fa, nel 1993, con l’operazione Cirio-De Rica-Bertolli a favore della multinazionale Unilever, sta accadendo oggi con il gigante iberico Deoleo – 1,5 miliardi di fatturato, un quinto del mercato globale dell’olio d’oliva - che cinque anni fa ha acquistato tre grandi marchi nazionali. Da allora in Italia l’extravergine non si fa più, si fabbrica e si trasforma. E tutto è cambiato.
   Le grandi industrie avevano intravisto la possibilità di “vestire” di italian sounding miscele comunitarie che un frantoio tradizionale non l'hanno mai visto e di farle arrivare sugli scaffali del mondo a prezzi imbattibili, con etichette italiane. La materia prima è coltivata su larga scala in Tunisia, Grecia, Marocco e Spagna secondo modelli intensivi. Le olive non vengono avviate immediatamente alla spremitura ma sono stoccate e poi sottoposte a processi industriali di miscelazione, addizione correttiva e deodorazione. Viaggiano poi per nave e per terra e infine arrivano negli stabilimenti italiani per le ultime lavorazioni, imbottigliamento, etichettatura. Le miscele comprate a 25-50 centesimi al chilo arrivano così sugli scaffali a 2-3 euro, col risultato che il consumatore porta in tavola un olio-low cost, commestibile ma di modesta qualità, pensando d’aver fatto un buon affare.
   NULLA DI ILLEGALE, visto che la normativa europea ha assecondato le istanze dei grandi dell’olio consentendo la commercializzazione con marchi nazionali ancorché frutto di produzioni di origine comunitaria, purché indicata in etichetta. Certo, basta poi andare in qualunque supermercato per riscontrare la difficoltà di leggerla. In ogni caso per i primi anni le cose sono andate benone: anzi, grazie al network di Deoleo i marchi nazionali Bertolli, Dante, Carapelli si sono spinti in 50 Paesi e sono penetrati nei mercati emergenti. Nel frattempo, però, la posizione dominante dell’industria olearia straniera ha costretto la filiera corta delle 6mila produzioni agricole nazionali nel recinto delle denominazioni geografiche protette, percepite come costose dal consumatore in un confronto impari tra oli altrettanto “italiani” ed “extravergini”. Ora qualcosa nel sistema si è inceppato. E forse potrebbe sollecitare una riflessione pubblica sulla politica agricola italiana, proprio a partire dall'olio.
   Il più grande tra i giganti, appunto Deoleo, è in ginocchio e rischia di trascinare a terra i gioielli dell'olio italiano che ha messo in pancia. Nell'ultimo anno l'aumento del prezzo della materia prima (+30%) e la crisi dei consumi (-10%) hanno i ridotto i margini di un modello industriale basato sulla quantità. Le banche che a suo tempo salvarono il gruppo hanno deciso oggi di sfilarsi, segno che quel modello non è più ritenuto profittevole. La controprova arriva anche dal prezzo: il 35% di Deoleo potrebbe essere ceduto tra i 210 ai 280 milioni di euro, poco più di un terzo di quanto sborsò cinque anni fa per il solo marchio Bertolli. Insomma, l'Eldorado dell'olio industriale è arrivato a un punto di non ritorno?
   “Chi pensava di spremere all'infinito il credito cumulato dall'Italia nella vendita di immagine di prodotti di qualità e di cultura del buon cibo è costretto a ricredersi. Il made in Italy non è una risorsa inesauribile”, spiega Coldiretti esprimendo preoccupazione per il destino dei tre marchi in vendita che potrebbero finire in mani cinesi, le uniche a contare su un portafoglio largo e ad aver investito massicciamente in colture d'olivi in nord Africa. Eppure anche su questa vicenda la politica non c'è, nonostante lo Stato sia chiamato a raccogliere i cocci sostenendo la cassa integrazione per i primi 55 addetti, su 285, negli stabilimenti di Tavarnelle (Firenze) e Inveruno (Milano).

l’Unità 7.10.13
La giungla di reti sotterranee che frena la banda larga
di Adriana Comaschi


BOLOGNA L’ampliamento della banda larga, molto inseguito dai governi e perno dell’aAgenda digitale, a oggi rimane uno dei talloni d’Achille del Paese. La diffusione di una rete capillare in fibra ottica per portare banda ultralarga e reti di nuova generazione a una fetta il più ampia possibile di popolazione appare una chimera su gran parte del territorio nazionale.
Eppure qualcosa si muove. Sempre più enti locali si pongono il problema e l’obiettivo di partire da qui per dare nuovo slancio all’economia del territorio. Un segnale lanciato anche in un recente convegno a Bologna, che ha già ricevuto una prima risposta proprio sotto le due torri. È targato Bologna infatti Invento, software per il catasto elettronico delle infrastrutture del sottosuolo: uno strumento inedito, che si candida a dare il «la» a una nuova fase di espansione delle telecomunicazioni di ultima generazione.
Uno dei principali ostacoli nella posa di nuovi cavi sta infatti nei tempi e nei costi degli interventi, in un sottosuolo dove si sono andati affastellando gasdotti, cavi per la pubblica illuminazione, fognature, tubature dell'acqua e quindi reti di telecomunicazione. Una vera giungla sotterranea, di cui a oggi nessuno degli attori possiede un quadro completo e dettagliato. Fatta eccezione per le pubbliche amministrazioni, le quali però dispongono di mappe disperse – oltretutto in forma cartacea tra i diversi uffici. Ecco allora l'idea di uno spin off della Fondazione Guglielmo Marconi, alle porte di Bologna: i Laboratori Marconi Spa cominciano un paio di anni fa a sperimentare un software che riunisce in un’unica panoramica le infrastrutture esistenti. «I vantaggi per le amministrazioni a cui ci rivolgiamo sono evidenti spiega il direttore generale dei Laboratori, Roberto Spagnuolo Sapere come muoversi permette di andare a scavare a colpo sicuro, con tempi ridotti e dunque meno disagi per traffico e collettività. Mentre gli operatori intenzionati a cablare risparmierebbero sulla posa, visto che soprattutto le reti di illuminazione e di teleriscaldamento offrono spesso condotti liberi o utilizzati solo in parte, a fronte di un costo per gli scavi di 100 euro a metro lineare». Il software è agile, capace di ricondurre i dati delle diverse reti sotterranee a un formato comune, quindi di organizzarli a seconda delle esigenze dei Comuni con vari tipi di visualizzazione. Invento viene offerto come servizio a canone (il costo potrebbe però venire ‘scaricato’ in parte sugli operatori interessati a cablare), in collaborazione con Telecom che immagazzina i dati forniti dalle amministrazioni per il Catasto sulla sua Nuvola Italiana. Dati navigabili in rete, di cui si salvaguardia però la privacy. Un tasto scottante, quest’ultimo, vista la riluttanza dei diversi fornitori delle reti sotterranee comprese a volte multiutility a partecipazione pubblica a fornire le proprie mappe, indispensabili per «alimentare» un catasto. Per ora Invento si sperimenta a Bologna, Varese e Monza e Riccione.
Sta di fatto che Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Emilia-Romagna, Marche e Umbria riunite a convegno concordano: una mappatura elettronica delle infrastrutture è indispensabile, per territori e pubbliche amministrazioni che vogliano puntare sull’innovazione. La Regione Lombardia ha fatto da apripista, con una legge del 2012 con cui obbliga tutti i Comuni sopra i 10 mila abitanti a realizzare un Catasto delle reti. In Emilia-Romagna si lavora invece a un modello di Catasto federato, «serve un’alleanza con i privati nota Dimitri Tartari che lo segue per la Regione altrimenti i comuni più piccoli non potranno permettersi questa operazione». Il primo passo, dunque, ancora una volta è normativo, anche se può partire dal basso: tocca ai municipi promuovere la raccolta di dati sulle proprie infrastrutture sotterranee. Il resto si candida a farlo Invento.