martedì 8 ottobre 2013

l’Unità 8.10.13
La piazza di Rodotà e Landini «Ma non faremo un partitino»
Sabato al corteo a difesa della Carta anche Civati
Cuperlo: «Guardo all’iniziativa con attenzione»
di Vladimiro Frulletti


Rodotà assicura che non si tratta dell’embrione di un nuovo partito di sinistra, ma semmai di un movimento che punta a influenzare il Parlamento e l’opinione pubblica. Del resto fin qui i rassemblement della sinistra cosiddetta radicale, dalla Sinistra arcobaleno di Bertinotti fino alla Rivoluzione civile di Ingroia, dalle urne non hanno mai ricevuto grande consenso. Mai un «nuovo ulteriore partitino» promette il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky su Repubblica.
Meglio allora cercare di costruire «una massa critica», come la definisce il professore (già candidato dei 5Stelle alla Presidenza della Repubblica) ai microfoni di Radio Popolare, il cui scopo principale è quello di difendere la Carta Costituzionale dai rischiosi stravolgimenti che oramai molti pezzi della politica italiana hanno in testa. «Ci sono molte forze in Italia che operano sulla base della Costituzione spiega Rodotà -. Vediamo se posso costituire non un futuro partito ma una massa critica che può influenzare complessivamente l’andamento della politica italiana. Naturalmente tutto questo avviene in un contesto in cui il tentativo va nella direzione opposta e cioè accentrare i poteri, limitare le possibilità di controllo, manomettere la stessa procedura di revisione costituzionale facendo quindi venir meno le garanzie essenziali».
E la miglior difesa in questi casi è l’attacco. E cioè la consapevolezza che la Costituzione fin qui non è stata mai interamente e compiutamente applicata. «La prima parte della Costituzione descrive un tipo di società molto lontana da quella in cui viviamo», sintetizza Zagrbelsky che assieme a Stefano Rodotà, a Don Luigi Ciotti, al segretario della Fiom Maurizio Landini e alla costituzionalista Lorenza Carlassare hanno promosso l’appello e poi la manifestazione in difesa della Costituzione che si terrà sabato pomeriggio (dalle 15,30) in piazza del Popolo a Roma.
Appuntamento a cui hanno già aderito centinaia di associazioni e moltissime di personalità del mondo della politica e della cultura. Oltre ovviamente alla Fiom, a Libertà e Giustizia e al Gruppo Abele, sabato a Roma ci saranno, tra le tante sigle (oltre 200 che Rodotà invita a tenersi i contatto anche dal 13 in avanti), anche Magistratura Democratica, l’Arci, Emergency, Legambiente, i Comitati Dossetti, quelli per l’acqua pubblica, Articolo 21, l’associazione delle Agende Rosse, e ovviamente Rifondazione comunista e il Pdci. Presenti anche vari democratici dall’associazione «di Sinistra nel Pd» a Vincenzo Vita e soprattutto Pippo Civati. Questi dirigenti Pd si ritroveranno a fianco del premio Nobel Dario Fo, di Marco Revelli e Guido Viale, del professor Salvatore Settis e dei giornalisti Luciana Castellina, Marco Travaglio, Michele Serra, Sandra Bonsanti, Gad Lerner, Paolo Flores D’Arcais, del direttore del Fatto Antonio Padellaro e della collega del Manifesto Norma Rangeri. Della sociologa Nadia Urbinati, di Gherando Colombo, di Nando Dalla Chiesa e di Moni Ovadia, Shel Shapiro, Lella Costa e Fiorella Mannoia.
Presente anche Laura Puppato che quasi in contemporanea al Tempio di Adriano ha organizzato un’iniziativa per disegnare «un’altra idea di Pd». Ma non si tratta di concorrenza alla manifestazione di Rodotà. Infatti negli inviti Puppato precisa che l’incontro si terrà nei pressi di piazza della Repubblica proprio per «tenersi in costante relazione» con la giornata di mobilitazione in difesa della Costituzione. Non ci sarà invece Gianni Cuperlo impegnato in un altro incontro, ma il candidato alla segreteria del Pd fa sapere di guardare» con attenzione» all’iniziativa. Presente Nichi Vendola che spiega l’adesione di Sel alla manifestazione con l’obiettivo di difendere la Costituzione da «attenzione moleste». Un’azione, dice, non di conservazione perché «la Costituzione è il più vibrante documento di critica radicale al conservatorismo».
Tuttavia l’obiettivo principale della manifestazione è la critica al processo di riforme che sta tentando il governo Letta. Fin dalla strada imboccata con la legge costituzionale che consente di velocizzare l’iter previsto dall’articolo 138 della Costituzione. La costituzionalista Carlassare del resto faceva parte della commissione dei saggi, ma se ne è andata proprio in polemica col metodo scelto. «La difesa della Costituzione recita infatti l’appello dei promotori della manifestazione di sabato che si intitola “la via maestra” è dunque innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente». Ogni riferimento al governo Letta e alla maggioranza di larghe intese che lo sostiene è ovviamente voluto. Perché il presupposto della mobilitazione è che chi vuole toccare anche la seconda parte della Costituzione in realtà mira cambiarne anche i valori fondamentali. «Modifiche oligarchiche» le chiama Zagrebelsky.

Repubblica 8.10.13
Cancellare subito lo scandalo della Bossi-Fini
di Stefano Rodotà


LE TERRIBILI tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.
Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.
LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.
In questi anni sono stati soltanto i pericolosi giudici, la detestata Corte costituzionale, a cercar di porre parzialmente riparo a questa vergognosa situazione, a reagire a questa perversa “cultura”. Già nel 2001 la Corte costituzionale aveva scritto che vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutte le persone, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sì che “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti”. Un orientamento, questo, ripetutamente confermato negli anni seguenti, motivato riferendosi all’“insopprimibile tutela della persona umana”. Le persone che ci spingono alla commozione, allora, non possono essere soltanto quelle chiuse in una schiera di bare destinata ad allungarsi. Sono i sopravvissuti che, con “atto dovuto” della magistratura”, sono stati denunciati per il reato di immigrazione clandestina. Di essi non possiamo disinteressarci, rinviando tutto ad una auspicata strategia comune europea. I rappresentanti delle istituzioni, presenti a Lampedusa o prodighi di dichiarazioni a distanza, non possono ignorare questo problema, mille volte segnalato e mille volte eluso. Così come non possono ignorare il fatto che lo stesso soccorso “umanitario” ai migranti in pericolo di vita è istituzionalmente ostacolato da una norma che, prevedendo il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, fa sì che il soccorritore possa essere incriminato. A tutto questo si aggiunge la pratica dei respingimenti in mare, anch’essa illegittima e pericolosa per i migranti, sì che non deve sorprendere che proprio in questi giorni il Consiglio d’Europa abbia definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell’immigrazione.
L’unica seria risposta istituzionale alla tragedia di Lampedusa è l’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con norme rispettose dei diritti delle persone. Contro una misura così ragionevole e urgente si leveranno certamente le obiezioni e i distinguo di chi invoca la necessità di non turbare i fragili equilibri politici, di fare i conti con le varie “sensibilità” all’interno dell’attuale maggioranza. Miserie di una politica che, in tal modo, rivelerebbe una volta di più la sua incapacità di cogliere i grandi temi del nostro tempo. Siano i cittadini attivi, spesso protagonisti vincenti di un’“altra politica”, ad indicare imperiosamente quali siano le vie che, in nome dell’umanità e dei diritti, devono essere seguite.

il Fatto 8.10.13
Non solo Lampedusa
Da Gorizia a Bari, la mappa dei luoghi di speranza diventati inferni
Rifugiati: i centri di accoglienza, un grande scandalo a cielo aperto
Abissi italici Centri di accoglienza
Vergogna di Stato: 45 euro a migrante per tenerli in gabbia
di Antonello Caporale


Sigillate le bare dei morti, dovremo scoperchiare quelle dei vivi, degli immigrati detenuti nei centri di accoglienza temporanea. Dovremo domandarci come sia possibile farli vivere nelle condizioni disumane e appurare che la loro disperata esistenza viene mantenuta alla straordinaria spesa media quotidiana di 45 euro. Dovremo pur chiedere conto della congruità della cifra, incredibile rispetto allo standard conosciuto di decenza, di pulizia, di efficienza Per ognuno di questi poveracci, trattenuti (cioè reclusi), spesso al solo scopo di rispedirli nelle terre della morte da dove sono giunti, spendiamo – ci dice l’ultimo e più aggiornato dossier (Lampedusa non è un’isola) curato da Luigi Manconi e Stefano Anastasia – diecimila euro di media.
E ogni giorno il costo complessivo di questa imponente fabbrica dell’accoglienza di Stato ammonta a duecentomila euro. In Italia, si sa, ogni emergenza si trasforma in industria. E l’industria dell’emergenza è attività sempre in espansione. Basta volgere lo sguardo a ciò che è capitato nell’ultimo decennio. La gestione e il ciclo dello smaltimento dei rifiuti solo a Napoli ha raggiunto, per esempio, negli anni in cui la questione si è fatta emergenziale, la cifra di quasi sette miliardi di euro. Il terremoto del-l’Aquila ha prodotto solo nei primi due anni (con i risultati che vediamo) costi vivi per quasi due miliardi di euro. L’emergenza è dunque la pratica governativa meglio avviata, sempre pronta a gonfiare le voci della fattura, a rendere impossibile una soluzione ragionevole e irreversibile la dimensione della spesa. La normativa che regola l’immigrazione oltre ad avere aspetti disumani produce questa economia oscura ma fiorente, dove le funzioni dello Stato, gestite nell’iperbole amministrativa del ministero dell’Interno, vengono rese – anche quelle minime – molto più costose di quanto dovrebbero e potrebbero. Dal 1999 al 2011 un miliardo di euro è andato via per gestire questo immenso grand hotel, con i frutti indegni di un Paese civile. Visto che siamo tutti vicini alla parola del Papa, quella “vergogna” che finanche il Parlamento ha fatto sua, sarà il caso di valutare se tributare un pensiero ai responsabili di questa gestione sprecona, per tenersi prudenti, del-l’accoglienza? E sarà il caso che il ministro Alfano spieghi, prima di urlare la sua vergogna, dove diavolo dimori il senso dello Stato, la lealtà verso le voci di bilancio e la congruità prima morale, poi economica di questo monumentale impianto di carcerazione?
Domani Barroso, il presidente della Commissione europea, farà visita al centro di accoglienza di Lampedusa. Intanto almeno lui, a differenza di Alfano, una volta sull’isola andrà anche al centro. Siamo certi che domani proprio il centro potrebbe trasformarsi in una casetta linda e profumata. Tutti al loro posto, e tutto in ordine. Ben venga se rimanesse poi così. Altrimenti sarebbe la prova di una conclamata, perdurante e manipolazione della realtà. Esistono, per motivi sconosciuti, costi di gestione troppo differenti tra nord e sud dell’Italia, ed esistono periodi di trattenimento che variano, tra un centro e l’altro (a seconda della collocazione geografica), dai 28 ai 78 giorni.
In definitiva esistono tutte le condizioni perchè la vergogna trovi finalmente casa e dei volti amici a cui accompagnarsi.

il Fatto 8.10.13
I mille disperati tra materassi a terra e sacchi di plastica
Giacigli avvolti nelle buste della spazzatura per renderli impermeabili alla pioggia
Uomini, donne bambini nel girone dantesco di Lampedusa
di Enrico Fierro


E domani a Lampedusa arriva l’Europa col suo massimo rappresentante, José Manuel Barroso. “Voglio vedere con i miei occhi quello che succede e quello che possiamo fare”, ha detto il presidente, conservatore, della Commissione Ue. E vedrà questa porta d’Europa che guarda all’Africa ma che l’Europa dell’indifferenza ha da anni cancellato dalle sue carte geografiche. “È una vergogna che l’Unione abbia lasciato così a lungo l’Italia da sola ad affrontare il flusso di migranti dall’Africa”, ha riconosciuto Martin Schulz, il presidente, socialista, del Parlamento europeo.
MA LA SVOLTA è ancora lontana. Barroso vedrà la lotta dei sub contro il tempo e il mare per recuperare i corpi dei naufraghi dell’ultima strage di migranti. Guarderà quest’isola zattera dove in vent’anni di guerre, fame e migrazioni si sono aggrappati 200 mila disperati. Ai suoi occhi si mostrerà l’Italia con le sue generosità, ma anche con le sue inefficienze, i ritardi, le eterne emergenze che nessuno riesce a risolvere. La più vergognosa è quella del centro di soccorso e prima accoglienza, dove sono ospitati i 155 naufraghi scampati alla tragedia del 3 ottobre. Nei giorni scorsi abbiamo documentato le condizioni di vita nella struttura. Materassi di spugna all’aperto, giacigli improvvisati per passare la notte, cani randagi nel cortile, promiscuità assurde in un luogo con soli 300 posti letto che ieri ospitava 928 persone, adulti, giovani, donne e 202 minori.
Sono siriani, palestinesi, somali, eritrei, gente provata da lunghi viaggi, donne e bambini, soprattutto, che hanno ancora negli occhi il terrore del mare, l’incubo di un naufragio, una umanità che si è lasciata alle spalle guerre e fame. Tutti i parlamentari che in questi giorni sono sbarcati a Lampedusa lo hanno visitato e in coro, all’unanimità, hanno detto che lì le condizioni di vita sono “vergognose”. Anche la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha avuto parole pesanti da spendere. L’unico politico che non ha trovato il tempo di varcare i cancelli del centro è il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Forse, se avesse visto come sono costretti a vivere i migranti, Alfano, non avrebbe pronunciato quella frase infelice alla Camera: “Sull’accoglienza non accettiamo lezioni da nessuno”. La responsabilità di queste strutture volute dal-l’allora ministro dell’Interno Bobo Maroni, hanno risposto i vari politici venuti sull’isola, fa capo proprio al Vimieale. Anche la ministra Cécilé Kyenge ha allargato le braccia rimandando tutto, ogni decisione, ogni scelta utile per rendere più umana la vita in quella struttura, a lontani tavoli interministeriali.
IL COLMO, poi, lo si è raggiunto quando i cronisti hanno chiesto se il commissario Barroso sarà portato tra i capannoni di Contrada Imbracola a “vedere la sporcizia e lo schifo”. Silenzio della ministra, risposta della sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini: “No, state certi che lo puliranno”. Ci siamo andati ieri mattina e abbiamo visto le cose di tre giorni fa. C’è solo una novità, i materassi di spugna fetente che molti migranti usano per dormire fuori la notte, sono stati coperti, impermeabilizzati , con i sacchi neri della spazzatura. Ogni volta che i giornali scrivono queste cose, gli operatori di “Lampedusa accoglienza”, il consorzio che si occupa della gestione del centro, insorgono. Lo hanno fatto anche ieri durante una visita dei giornalisti.
“SIAMO STANCHI dei continui attacchi. Abbiamo pure sentito che i profughi ospiti della struttura vengono trattati da Paese del terzo mondo. Queste critiche ci addolorano immensamente. Noi stiamo dando il massimo in una condizione molto difficile e complicata. I nostri operatori fanno turni massacranti, anche di 20 ore al giorno per riuscire a trovare delle sistemazioni per tutti. Ma non lo sa nessuno. Fa male sentire poi qualcuno che dice vergogna. Non ci stiamo”. Si sfoga Federico Miragliotta, il direttore del centro; ma il problema non è il lavoro degli operatori (danno il massimo e lo abbiamo visto e documentato), bensì il business che c’è dietro queste strutture. La srl “Lampedusa accoglienza”, costituita da Blue Coop di Agrigento, che detiene il 33% delle quote, e dal Consorzio di Cooperative sociali Sisifo (67%) gestisce il centro dal 2007, quando si aggiudicò l’appalto con un ribasso di gara del 30%. Un affare, calcolano le associazioni che si battono per i diritti dei migranti, che porta nelle casse della società 2 milioni e mezzo di euro l’anno. Gran regista della srl è Cono Galipò, un passato nel Partito comunista a Capo d’Orlando, la militanza nel Psi e poi in Forza Italia, prima di approdare al Pd nella corrente del deputato messinese Francantonio Genovese. Politica e immigrati, business e condizioni reali di vita nei vari centri di accoglienza, anche di questo è fatta l’eterna emergenza di Lampedusa. Chi non è indifferente è il Papa, che sull’isola ha mandato monsignor Krajewski, elemosiniere vaticano. “Daremo un aiuto concreto ai superstiti del naufragio”, ha scritto in un tweet.

il Fatto 8.10.13
Altri inferni
“Ci prostituiamo per pagare i trafficanti”
di Maria Gabriella Lanza


Scappano da dittature, persecuzioni, violenze. Rischiano la propria vita per un domani diverso che forse non arriverà. Alcuni muoiono durante il tragitto. Altri invece ce la fanno, sbarcano stremati sulle nostre coste, ma la loro odissea non finisce. Chiedono asilo politico all’Italia, sperano di trovare protezione e invece vengono chiusi nei cara, i centri accoglienza per richiedenti asilo. Dovrebbero essere luoghi in cui i migranti aspettano di veder riconosciuto il loro status di rifugiati, massimo 35 giorni di attesa, dice la legge. Ma rimangono lì anche più di un anno, bloccati in un limbo da cui non si può fuggire.
MIRAJ (nome di fantasia), partita dal-l’Africa subsahariana, da nove mesi vive nel cara di Castelnuovo di Porto, vicino Roma: “Ci chiamano disperati. Prima di entrare qui ero pieno di speranze”, dice con un sorriso triste. “Ho attraversato l’Africa, ho lasciato la mia famiglia, ho guardato negli occhi gli scafisti senza aver paura: l’Italia era la mia America. Ma nulla è come avevo immaginato”. Miraj è uno dei 47 mila rifugiati che nel 2012 hanno chiesto protezione all’Italia. “È un inferno. Viviamo ammucchiati in stanzoni. La notte le donne si prostituiscono anche davanti ai bambini, il più piccolo ha due mesi. Devono pagare ai trafficanti di esseri umani il costo del viaggio: prima di partire gli tagliano i capelli e le unghie, è un rito voodoo, loro credono che se non restituiscono il debito capiterà qualcosa di terribile alla loro famiglia. La traversata può costare anche 20 mila euro, un rapporto sessuale 20”, racconta Miraj. “Nel centro si spaccia alla luce del sole e ogni giorno ci sono risse. La scorsa settimana uno di noi è finito in ospedale”. La struttura ha una capienza di 650 posti, ma adesso vivono lì 750 rifugiati, di cui 180 donne e 82 bambini. “Di notte almeno un centinaio di persone scavalca la rete di protezione e dorme qui. Ci danno 75 euro al mese, ma non possiamo lavorare. Come si può vivere così?”, domanda Miraj. “Sognavo di fare la cuoca, ma non ci credo più”. Il centro accoglienza di Roma non è l’unico caso: negli altri cara sparsi in tutta Italia la situazione è la stessa. Ad agosto l’Arci di Bari ha denunciato la prefettura per violazione dei diritti umani: “Nella struttura di Bari Palese ci sono 1400 migranti. Dovrebbero essere 744. Alcuni aspettano anche due anni prima di avere il permesso di rifugiato”, afferma Musie Tessema, responsabile immigrazione dell’Arci. Ufficialmente il centro di Pian del Lago a Caltanissetta non è sovraffollato: accoglie 350 richiedenti asilo, il numero previsto.
PECCATO, però, che i rifugiati che non hanno trovato posto sono stati sistemati al-l’aperto: “Ci sono 110 persone che dormono in tende e baracche di fortuna. Non hanno neanche l’acqua potabile”, racconta Claudio Lombardo dell’Arci di Caltanissetta. La situazione più drammatica è quella del Cara di Mineo, a Catania: progettato per accogliere mille migranti, ne ospita 4000. Lo scorso giovedì un centinaio di loro ha bloccato la strada statale Catania-Gela. Erano esasperati. Non va meglio nei cda, i centri di prima accoglienza, quelli che dovrebbero garantire soccorso e assistenza a chi sbarca in Italia, come Lampedusa. I rifugiati restano lì per mesi in attesa di entrare in un cara. A Varese da quattro giorni trenta richiedenti asilo hanno iniziato lo sciopero della fame: vogliono essere trasferiti, vogliono prendere in mano le loro vite e andare avanti, nonostante tutto.

il Fatto 8.10.13
Risponde Furio Colombo
Le tristi frontiere della Repubblica


CARO COLOMBO, il ministro dell'Interno del nostro Paese ha detto in Parlamento che non solo l'Italia ma l'intera Europa deve “proteggere” le proprie frontiere. Mi ha colpito come uno schiaffo quel verbo ripetuto e scandito come se ci si dovesse difendere da una legione di barbari. È la legge perversa della Bossi-Fini e dei respingimenti. È un messaggio che dice a quella gente di morire.
Mario

COMINCIAMO dal presente. Il 4 ottobre Umberto Bossi, che dopo avere depredato il proprio partito non è più nessuno, ma umilia ancora il Senato e l'Italia con la sua presenza, ha detto che la sua legge è la sola difesa contro l'invasione di milioni di clandestini. L'uomo più ottuso ma anche troppo a lungo potente nel mondo politico italiano (la sua perversa collaborazione serviva a fornire voti sicuri per le leggi ad personam utili ai reati di Berlusconi) ha inventato non solo la parola, per identificare rifugiati, molti dei quali avevano innegabile diritto di asilo, ma anche il reato detto “di clandestinità”, che nessun giurista avrebbe dovuto accettare e nessun giudice imputare, perché è un reato del come sei, non del cosa fai, dunque razzista, anticostituzionale e privo di fondamento nell'ordinamento giuridico italiano. Adesso i giudici di Agrigento stanno incriminando per il reato di clandestinità coloro che si sono salvati dal mare. Dicono che lo fanno come atto dovuto. È possibile che lo facciano per mostrare al Paese l'orrore di una legge che il governo Letta non ha toccato e (a giudicare dalle parole del vicepremier Alfano) non intende toccare. Per avere un'idea della follia in cui è precipitata l'Italia pensate questo: se per uno strano e impossibile miracolo qualcuno fosse trovato vivo in mare in questo momento tetro di recupero dei cadaveri, subito diventerebbe imputato per il fatto di essere vivo. Poi c'è la persecuzione dei pescatori che salvano. Anch'essi violano la primitiva legge Bossi-Fini-Maroni e, se sorpresi a salvare, sono incriminati come “mercanti di carne umana”. Ti dicono che non è mai avvenuto. Ma l'intimidazione e la dissuasione sono evidenti. Sempre che portino a riva persone vive e non cadaveri. Altrimenti si fa una commovente cerimonia. In molti hanno notato il ritardo nei soccorsi militari. Smentito ma stranamente inefficiente rispetto al soccorso immediato e volontario di turisti in barca che sono scattati dalla rada. Notate che si tratta degli stessi militari che hanno vissuto per anni sotto la legge Maroni-Gheddafi che prevede i respingimenti in mare. Nonostante la straordinaria tradizione umana e civile di quel corpo militare, è possibile che l'orrore delle leggi italiane abbia rovesciato il senso dell'urgenza e anche la lettura dei fatti: Per capirlo pensate ai magistrati di Agrigento che adesso dovrebbero dare la caccia a uno a uno a ciascuno dei sopravvissuti. Intanto si torna a parlare, persino nei discorsi “commossi”, di una imminente invasione di milioni di migranti. L'invasione non è mai avvenuta e non avverrà. Ma migliaia di persone e di famiglie si sono viste negare (per non avere nessuno a cui chiederlo) il sacrosanto diritto di asilo. E decine di migliaia sono sul fondo del mare, respinti o abbandonati mentre credevano di trovare aiuto in Italia.

l’Unità 8.10.13
Legge elettorale Giachetti divide il Pd
l vicepresidente della Camera annuncia il «No Porcellum day», con lui diversi renziani
Finocchiaro: «Agitare bandiere senza pensare a una riforma condivisa è un esercizio sterile»
di Maria Zegarelli


ROMA «Centotrenta giorni e 21 ore: tanti ne sono trascorsi, dice il renziano Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera, da quando il Parlamento ha bocciato la sua mozione sulla riforma del Porcellum. E 123 sono stati i giorni del suo sciopero della fame, sempre sul tema, interrotto lo scorso novembre.
Da ieri, ha annunciato, ricomincerà. «Io le ho tentate tutte, anche sul piano parlamentare, perché si uscisse da questo stagno. Ma le mie iniziative non sono risultate utili ed efficaci. A questo punto, mi metto in coda. Non mi impiccio più del merito. Dico “fate voi, decidete voi”», annuncia in una conferenza stampa che da il «la» anche a un’altra iniziativa: il no Porcellum day, «una mobilitazione per il “no” al Porcellum che si concluderà il 31 ottobre», evento clou da Eataly, insieme a Oscar Farinetti e forse, chissà, anche con Matteo Renzi. Giachetti se la prende anche con il suo partito, teme «meline» in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale, atteso per il 3 dicembre, e dice che le dichiarazioni di Letta, Epifani, Chiti, Zanda, Finocchiaro, «difficilmente si possono sposare con le richieste del Pdl. E non si possono sposare neppure con una possibile pronuncia della Corte, che non riguarderà le differenti maggioranze tra Camera e Senato e il potere di scelta degli elettori. Mi chiedo: ci sarà allora una sede in cui il Pd prende una decisione rispetto alla modifica delle legge elettorale oppure facciamo come gli struzzi con la testa sottoterra fino alla sentenza della Corte costituzionale?».
Polemico anche per la decisione del Senato di intestarsi l’inizio della riforma con proceduta d’urgenza senza essere riuscito, dice il deputato, a far nulla fino ad ora. Affianco di Giachetti si schierano i renziani Michele Anzaldi, Lorenza Bonaccorsi, David Ermini e Ernesto Mangano. «Il Pd si riunisca per pronunciare un no chiaro contro il Porcellum e indicare una road map immediata per la modifica», dicono chiedendo il ritorno al Matterellum«Caro bobgiac scrive da Bruxelles su twitter Nichi Vendola l’attuale legge elettorale impedisce all’Italia di respirare, blocca la nostra democrazia. Noi si siamo #NoPorcellum #Sel».
LA POLEMICA
Il lettiano Francesco Russo prende le distanze: «Al collega Giachetti vorrei mandare un invito a non iniziare uno sciopero della fame, che potrebbe creare confusione tra gli elettori o addirittura essere superfluo. I senatori Pd hanno ben chiaro quanto sia una priorità per i nostri elettori e per il Paese e stanno provando in modo serio e più rapido possibile a trovare una convergenza e una maggioranza su una legge che superi l’attuale Porcellum». Per Anna Finocchiaro «agitare bandierine senza misurarsi con la necessità di approvare una legge che sia condivisa il più possibile è un esercizio sterile». Polemico anche Pino Pisicchio, del gruppo misto alla Camera: « Condividiamo la preoccupazione manifestata da Giachetti circa il ristagno dell'attività parlamentare sulla legge elettorale. Due sole sottolineature: la prima è sulla consapevolezza che la presenza in Costituzione del principio della parità di genere impedisce l'adozione dell'uninominale e quindi del Mattarellum. La seconda: Giachetti non se la prenda a male se non partecipiamo al digiuno».
E mentre Vendola dice a Giachetti che sarà al suo fianco, altri parlamentari di Sel sottoscrivono insieme a colleghi di Pd, Sc e Gal una proposta di legge (primo firmatario Michele Nicoletti) che supera in cinque mosse il Porcellum: soglia del premio di maggioranza al 40%; doppio turno di coalizione per garantire comunque una solida maggioranza in Parlamento; omogenità tra Camera e Senato; voto di preferenza con doppia preferenza di genere. Tra i firmatari compaiono Rosy Bindi, Silvio Lai, Josefa Idem, Stefania Pezzopane, Francesca Puglisi, Francesco Sanna, Maria Amato, Paolo Gandolfi, Salvatore Tomaselli, Daniela Valentini. Per Gianni Cuperlo quella della riforma elettorale è una delle priorità di cui è chiamato ad occuparsi il Parlamento, ma «a due condizioni: che si restituisca ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, quindi collegi uninominali; e un premio di maggioranza ridimensionato e in grado di garantire governabilità». Quello che emerge con chiarezza dall’acceso dibattito di ieri è che anche sulla legge elettorale il Pd va in ordine sparso.

Repubblica 8.10.13
Congresso dem, anche Pannella in corsa
Ex bersaniano guida l’attacco di Matteo
Bonaccini capo del comitato. Cuperlo: vincerò nei circoli
di Giovanna Casadio


ROMA — Quattro candidati più Marco Pannella, che sostiene di volere correre alle primarie del Pd. Fu escluso nel 2007, ma lo storico leader dei Radicali insiste e, al nuovo giro di boa del congresso, provoca i Democratici «sulla possibilità e sulla doverosità di rinnovare la mia iscrizione e la mia eventuale nuova candidatura alla segreteria democratica». Lo ha detto a luglio Pannella, e lo riconfermaieri sera. Il Pd entra nella settimana cruciale in vista dell’elezione del nuovo segretario l’8 dicembre. Meno tre giorni alla presentazione delle candidature, venerdì, e già le macchine organizzative sono pronte a partire. Matteo Renzi ha scelto il capo del suo comitato elettorale: sarà Stefano Bonaccini, il segretario dell’Emilia Romagna, che è stato un bersaniano di ferro nelle primarie del 2012, quelle dello scontro tra il sindaco “rottamatore” e Bersani. Molta acqua, e molto in fretta, passa sotto i ponti, e sembra un’era geologica fa quando Beppe Grillo, il capo del Movimento 5Stelle, si presentò nella sezione del Pd di Arzachena per chiedere la tessera e annunciare che voleva fare il leader del partito. Era il 2009, quello della sfida tra Bersani e Franceschini. Renzi intanto, il super favorito, ha quasi pronto il manifesto- mozione a cui ha lavorato il ministro Graziano Delrio. Lo slogan provvisorio è “Cambiare il partito per cambiare il paese”. Sabato a Bari prende il via la sua corsa con una mega manifestazione alla Fiera del Levante. Non a caso è stato scelto il Sud, però una regione ricca di eccellenze daun lato, e piagata dalla vicenda dell’Ilva. In preparazione la mozione congressuale di Gianni Cuperlo, lo “sfidante” di Renzi, appoggiato dalla sinistra del partito, dai “giovani turchi”, da bersaniani e dalemiani. Il fronte cuperliano è ampio: si è aggregherà anche l’area “Costituente delle idee” di Cesare Damiano, del cristianosociale Mimmo Lucà, di Vannino Chiti. Oggi al Nazareno, la sede del Pd, Cuperlo li incontrerà, anche con Franco Marini. Mentre ieri riunione del comitato organizzatore con Stumpo, Verducci, D’Attorre e invitati alcuni lettiani. Slogan sempre provvisorio “Per un Pd di tutti”.
Cuperlo è convinto di raccogliere consensi con un lavoro capillare nel partito: «Spero di vincere nei circoli», spiega. E conta sull’endorsement di Susanna Camusso, ma pure delle Acli, dell’Arci. «Gianni dovrebbe crederci di più», è il rimprovero che gli muovono i bersaniani, fino all’ultimo convinti che se ci fosse stata una gara tra Renzi e Enrico Letta, la leadership del sindaco di Firenze ne sarebbe uscita sconfitta. I sondaggi vedono un forte distacco tra Renzi e Cuperlo. Pippo Civati, l’outsider che non ha partecipato al voto di fiducia a Letta, incalza. Né intende rinunciare alla sfida per la leadership del Pd, Gianni Pittella, da molti dato in ritirata. «Non è così, sono in campo », fa sapere. I lettiani vanno in ordine sparso; i bindiani sceglieranno regione per regione. Francesco Boccia, braccio destro di Letta, sta con Renzi, ma Paola De Micheli appoggerà quasi certamente Cuperlo, così come Francesco Russo. Fabrizio Barca, il candidato mancato, dice che sceglierà chi votare al congresso «la sera prima delle primarie». «Renzi e Letta sono due ex dc e questo dovrebbe rappresentare un problema per il Pd? Non credo proprio, non lo è per me né per le 12 mila persone che ho incontrato nei circoli», replica Barca. Tra Fassina e Renzi ennesima polemica.

La Stampa 8.10.13
Il tradimento dei 101, una ferita aperta tra dirigenti e base Pd
di Fabio Martini

qui

Corriere 8.10.13
Quei numeri che agitano il Pd: Renzi su tutti, addio vecchia guardia
Corsa per la segreteria, un’analisi sui consensi attribuisce l’83% al sindaco
di Maria Teresa Meli


ROMA — Quel sondaggio che gira nei corridoi della sede nazionale del Partito democratico viene preso con le molle dagli stessi renziani, perché assegna al sindaco di Firenze una cifra da capogiro: l’83 per cento.
Una messe di voti che il primo cittadino dovrebbe prendere un po’ dovunque: dagli ex ds, e infatti tale è il capo del suo comitato elettorale, il segretario regionale dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, dagli ex ppi provenienti dalle correnti di Fioroni e della Bindi, da settori della Lega e del Pdl (si parla anche di un senatore del centrodestra che starebbe per passare con Renzi). Pippo Civati, Gianni Cuperlo e Gianni Pittella si spartirebbero quindi il restante 17 per cento. Un magro bottino per loro, come a dire che il congresso è già finito, anche se la percentuale alla fine fosse minore.
Ma quello che rende ancora più impressionante il risultato è che stando a quelle rilevazioni Civati sarebbe sopra Cuperlo. «Quando la campagna elettorale si polarizzerà non sarà più così e vedrete che i consensi di Gianni cresceranno», tiene a precisare Nico Stumpo. Il sondaggio, però, ha dell’incredibile non tanto, o, meglio, non solo per il consenso plebiscitario che attribuisce a Renzi, quanto per il fatto che chiude un’era. L’era della vecchia guardia del partito, quella che contava e che vinceva sempre. Quella, per intendersi, dei D’Alema, dei Marini e dei Bersani, di quelli, cioè, che sostengono la corsa di Cuperlo alla segreteria del Partito democratico.
All’inizio di questa avventura congressuale D’Alema diceva: «Io non ho mai perso un congresso e un mio candidato ha sempre vinto». E ancora prima era solito affermare: «Il capotavola in politica è dove mi siedo io». Franco Marini, invece, amava ripetere la storiella toscana secondo cui «Renzi era il portaborse di Lapo Pistelli, quindi dove volete che vada. È un ragazzotto, è arrogante, deve farne di strada per andare avanti». Dalla bocca di Bersani usciva ben di peggio perché, come è noto, l’ex segretario è convinto che dal giorno in cui Renzi si è messo in testa l’idea di fare il premier non ha fatto altro che tentare di pugnalarlo «alle spalle».
Dunque, per dirla con il giovane Alfredo D’Attorre, della segreteria del Pd, «un ventennio finisce per tutti, perché la politica italiana va a cicli». Finisce per Silvio Berlusconi, visto che ora nel Pdl si stanno fronteggiando un politico di 43 anni come Angelino Alfano e un esponente di 44 come Raffaele Fitto. Saranno loro a dividersi il partito e la richiesta di Fitto di convocare un congresso non è tanto la richiesta di chi pensa che sia veramente possibile ottenere le assise, ma la sottolineatura di chi pensa che una parte del Pdl spetti anche ai cosiddetti lealisti. E finisce anche per il vecchio gruppo dirigente del Partito democratico. A Palazzo Chigi siede Enrico Letta, anni 47, a Largo del Nazareno dal 9 dicembre siederà Matteo Renzi, anni 38. È un cambio generazionale che ha dello straordinario per l’Italia.
«La vecchia guardia alla fine sarà costretta a capire che deve lasciare la scena», osservava qualche giorno fa, con la solita preveggenza, Paolo Gentiloni. Questo non significa che venga automaticamente stretto un patto generazionale tra tutti i nuovi protagonisti della politica italiana. Secondo Renzi «Letta, Alfano e Lupi lo hanno siglato». Non altrettanto si può dire del sindaco di Firenze e del presidente del Consiglio. Lo dimostra il fatto che alle primarie, oltre a Paola De Micheli e Guglielmo Vaccaro, anche il più ascoltato e il più brillante consigliere di Letta, Francesco Sanna, non voterà per Renzi, ma dovrebbe preferirgli Cuperlo.

l’Unità 8.10.13
Kabobo sano di mente Andrà a processo


Adam Kabobo era capace di «volere» quando l’11 maggio scorso aggredì e uccise a picconate tre persone nel quartiere Niguarda a Milano. È questo l’esito della perizia psichiatrica richiesta dal pm Isidoro Palma e disposta dal gip milanese Andrea Ghinetti nella quale si spiega che il ghanese potrà essere processato. Secondo i periti Isabella Merzagora e Ambrogio Pennati, Kabobo è affetto da «psicosi schizofrenica» e che lo stress causato dalla fame e dal freddo ha «gravemente esacerbato la patologia di base, aggravando la sintomatologia delirante e allucinatoria e la compromissione cognitiva». È malato, ma non incapace. I periti riconoscono che il killer è «affetto da un disturbo mentale di natura psicotica grave», compatibile «con una malattia dello spettro schizofrenico», ma «non ha commesso gli omicidi in totale assenza di coscienza, del tutto travolto dalla malattia»,

il Fatto 8.10.13
I bimbi perfetti dell’eugenetica inglese
A Londra la legge consente “per ragioni sociali” di abortire in base al sesso del nascituro
di Caterina Soffici


Londra In “certe circostanze” l’aborto in base al sesso non è illegale. La sentenza choc è del procuratore della Corona inglese ed è arrivata ieri, dopo un anno e mezzo dal caso scoppiato con l’inchiesta del Daily Telegraph. Alcuni giornalisti del quotidiano londinese, con l’aiuto di donne incinte appartenenti a varie etnie, erano andati negli ambulatori sparsi nell’isola per chiedere di interrompere la gravidanza perché non soddisfatte del sesso del nascituro. È illegale, ma a Manchester e Birmingham avevano trovato chi aveva detto sì. “Non faccio domande. Se vuoi un aborto, vuoi un aborto”, dice una consulente che lavora per cliniche private e ospedali del Servizio pubblico.
Era il febbraio del 2012 e i reporter del Telegraph avevano ripreso tutto con una telecamera nascosta. Poi la ginecologa aveva telefonato a un medico e aveva spiegato che l’aborto è chiesto per “ragioni sociali” e che la donna non vuole troppe domande. Allo scoppio dello scandalo la clinica aveva negato: “Non pratichiamo aborti in base al sesso”, ma l’indagine ha aperto un dibattito sul-l’opportunità di cambiare la legge sull’aborto.
Eugenetica, quindi? È l’ossessione del figlio maschio in certe comunità etniche - specialmente indiane, pachistane e cinesi - che provoca tale orrore, pare sempre più diffuso, tanto che alcuni ospedali si rifiutano di rivelare il sesso ai genitori proprio per questo motivo. Gli aborti selettivi sono una pratica comune in quelle culture dove la figlia femmina è un disonore e il maschio è un orgoglio. Così la richiesta di “eliminare” i feti femmina è in crescita e il ministro della Sanità Jeremy Hunt ha chiesto più chiarezza: “La decisione del procuratore di non agire è molto preoccupante” ha dichiarato. “Gli aborti selettivi motivati dal sesso del feto sono inaccettabili”.
Il procuratore ha spiegato che condannare i medici non sarebbe nell’“interesse comune”. La sentenza spiega: “È normalmente immorale interrompere una gravidanza solo sulla base del sesso”. Ma “il punto di vista della donna incinta circa gli effetti del sesso del feto sulla sua condizione e su quelle degli altri figli dovrebbe comunque essere presa in considerazione. Le linee guida prevedono perciò che: “in alcune circostante i medici possono arrivare alla conclusione che gli effetti sono così gravi da giustificare l’aborto legalmente e eticamente”. Se l’arrivo di una bimba mette a rischio la salute della donna incinta e della famiglia (perché il marito, metti, poi la riempie di botte), il giudice deve scegliere il male minore.

il Fatto 8.10.13
La rivolta dei jeans contro Netanyahu (e gli ayatollah)
di Roberta Zunini


ARMATI DI SMARTPHONE, i giovani iraniani hanno preso in giro il premier israeliano Netanyahu e gli ayatollah. Con un tweet hanno trovato il modo per sconfessare la grossolana affermazione fatta dal premier di Israele alla Bbc e dimostrato di essere in grado di aggirare la censura delle autorità sciite. Netanyahu aveva detto che “se i ragazzi iraniani avessero la libertà di azione, defenestrerebbero questo regime e andrebbero in giro in blue jeans”, sentendo musica pop occidentale. I jeans, simbolo del Grande Satana, il termine con cui propagandisticamente gli ayatollah chiamano gli Usa, però non sono più banditi da anni e, sotto il chador, li indossano anche le donne. “Non ho mai riso tanto. Se Netanyahu non sa che possiamo mettere i jeans come fa a sapere che abbiamo l’atomica?”, chiede un utente, postando una foto in cui indossa i pantaloni satanici. Nessuno ha mandato foto a figura intera per non essere identificabile. Un altro ha mandato una foto in cui si vede una bancarella con jeans di tutti i tipi: “Qui si vendono armi di distruzione di massa”. I tweet che avranno infastidito di più Bibi riguardano la proverbiale infallibilità dell'intelligence israeliana, il Mossad. “Signor Netanyahu visto che le sue spie non glielo hanno detto, ecco una mia foto in jeans” o “dovrebbe chiedersi se le sue spie sanno fare bene il loro lavoro visto che non lo informano correttamente. Mettiamo i jeans e sentiamo anche la musica pop”.
   Dai tweet emerge anche l'orgoglio dei giovani che non vogliono essere spacciati per trogloditi inconsapevoli e schiavi del regime. Un messaggio con la foto di un bambino in jeans fa capire la posizione difficile in cui si trovano i giovani (metà della popolazione ha meno di 20 anni), che si sentono schiacciati dal regime e minacciati da Israele: “Netanyahu, questo è Eliraza Ahmad Roshan, figlio di uno scienziato nucleare che hai ucciso”. Negli ultimi anni diversi scienziati che lavoravano in ambito nucleare sono stati uccisi in attentati mirati.
 
La Stampa 8.10.13
Israele
Muro del pianto, la vittoria delle donne
Potranno pregare ad alta voce ma staranno a una decina di metri dagli uomini
di Elena Loewenthal

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il Fatto 8.10.13
Donne saudite sfida alla fatwa


LA PROTESTA della donne saudite corre sui social; sotto il titolo “Io l’ho fatto” dal 2011 a oggi hanno pubblicato fotografie e video che le ritraggono al volante per sfidare la fatwa del 1990, che vieta di fatto al 52 per cento della popolazione saudita di guidare. Sono circa diecimila, secondo le attiviste di “Women2Drive”, quello che hanno sfidato il divieto e lo hanno documentato su Facebook, Twitter e Internet. Ad aderire alla campagna anche alcuni uomini, travestiti da donna. Riguarda sempre la condizione femminile nel mondo arabo la campagna di solidarietà su Facebook e Twitter all’attivista tunisina di Femen, Amina Tyler.

La Stampa 8.10.13
Obama non c’è, Xi “conquista” il Pacifico
Il nuovo presidente tende la mano ai Paesi della regione: possiamo crescere insieme
La nostra economia offre opportunità da non perdere
Show del cinese all’Apec: il Pil frena, ma la domanda interna è aumentata
di Maurizio Molinari

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La Stampa 8.10.13
A scuola ragazzi e ragazze costretti a non avvicinarsi per evitare «legami amorosi precoci»
Mezzo metro, la distanza anti-flirt in Cina
di Ilaria Maria Sala

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Corriere 8.10.13
La Cina richiama gli Usa «Dovete evitare il default» Il «grande creditore» Pechino teme per i propri investimenti DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Le crisi gemelle americane — quella sul bilancio federale e quella sul tetto del debito pubblico — si sono fuse in un’unica battaglia. È ormai evidente che avrà conseguenze non irrilevanti per gli Stati Uniti, sui piani interno e internazionale. La Cina ieri si è fatta sentire: evento non da poco. Durante un briefing ai media, il vice ministro per le Finanze Zhu Guangyao ha detto che «l’orologio sta correndo» e il rischio che dopo il 17 ottobre Washington non abbia la possibilità di pagare le sue obbligazioni perché il Congresso non autorizza il superamento del tetto stabilito sul debito, 16.700 miliardi di dollari, è serio. Un default sarebbe un danno grave per Pechino, che possiede almeno 1.277 miliardi di bond del Tesoro americano, ha detto Zhu: gli Stati Uniti devono «assicurare la sicurezza degli investimenti cinesi».
Il vice ministro è però andato oltre l’espressione di una preoccupazione per il denaro cinese. «Come maggiore economia del mondo e come Paese che emette la maggiore valuta di riserva — ha detto — è importante che gli Stati Uniti effettuino passi credibili per affrontare la disputa sul tetto del debito in tempi certi ed evitino un default»: è una questione globale, insomma. «Speriamo che gli Stati Uniti sappiano trarre lezioni dalla storia», ha concluso, che cioè ricordino che nel 2011, quando il rischio di default si era già presentato, l’agenzia di rating Standard & Poor’s tolse loro la Tripla A: qualcosa che a un grande investitore non può piacere.
L’incapacità di Washington di uscire dalla paralisi politica è così diventata una questione diplomatica e consente ai dirigenti di Pechino di salire in cattedra. La crisi ha inoltre convinto il presidente Obama a cancellare un importante viaggio in Asia dove doveva partecipare a due importanti vertici. Al suo posto è andato il segretario di Stato John Kerry, ma si sta comunque facendo strada l’impressione che l’America non sia, per ragioni di governance interna, pienamente in grado di mantenere gli impegni in un’area così importante e di stare al fianco degli alleati di fronte alla crescita dell’egemonia cinese.
Per ora, comunque, Pechino rimane nervosa per i suoi investimenti: negli ultimi due giorni, lo stallo a Washington si è radicalizzato. Molte funzioni del governo federale rimangono sospese, dal primo ottobre, a causa del budget non approvato. Lo speaker della Camera dei rappresentanti, John Boehner, repubblicano, ha detto che leggi che semplicemente autorizzino il Tesoro a pagare i debiti in scadenza dopo il 17 ottobre o facciano passare il bilancio del 2014 non hanno i voti per essere approvate nella sua ala del Congresso (dove i repubblicani sono in maggioranza).
Alcuni legislatori — tra questi il repubblicano Peter King e il democratico Charles Schumer — e lo stesso Obama ieri hanno sostenuto che invece i voti ci sono, dal momento che alcuni repubblicani dissidenti dalla linea radicale vorrebbero chiudere al più presto la crisi che sta costando al partito critiche e probabilmente consensi. Per parte sua, Obama ha ripetuto ancora ieri di essere disposto a negoziare con i repubblicani ma non «sotto minaccia» e non su quelli che considera atti dovuti del Congresso.
A questo punto, la strategia dei repubblicani di legare i due via libera al bilancio e al superamento del tetto del debito (indispensabile per pagare spese già autorizzate dallo stesso Congresso) al ridimensionamento della riforma sanitaria di Obama approvata nel 2010 sembra difficilmente tenibile. «È una bomba nucleare», ha detto il grande investitore Warren Buffett: se si vuole cambiare una legge si fa una proposta precisa — ha aggiunto —, non si spinge il Tesoro verso il default. Anche sul piano interno, dunque, la crisi è a livello di guardia. Wall Street ieri è scesa: più ancora che per i timori di default, per le preoccupazioni di lungo periodo sul blocco politico dell’America.
Danilo Taino

Repubblica 8.10.13
Pullulano le agenzie che offrono compagnia a persone lasciate sole
Visite, cene, passeggiate. E per qualche yuan in più anche un “ti amo”
Cina, figli “a noleggio” per genitori abbandonati
di Giampaolo Visetti


PECHINO Amare i genitori in Cina è obbligatorio e la prole corre ai ripari: figli a noleggio per visitare mamma e papà, evitando multe e perfino l’arresto. Sul web è boom di agenzie che offrono la nuova pietà filialeon demand: un euro all’ora ed è possibile arruolare un giovane che la domenica mangi l’anatra con i vecchi altrui. L’affitto della controfigura di un figlio che conosca la pietà, prevede anche altri servizi: chiacchierare, andare a spasso e al cinema, o trascorrere con gli anziani feste e vacanze.
La distanza tra nuove megalopoli e antichi villaggi scava abissi di solitudine, i genitori non sperano nemmeno più di vedere i figli reali e si accontentano di sapere che qualcuno paga per non saperli abbandonati. Non tutti. Capita che una madre denunci la figlia che si è scordata di lei e che questa, per il reato,perda il lavoro. Oppure che un nipote, ogni fine settimana, venga spedito a portare una torta al nonno, filmandolo mentre firma un documento di “consumata visita”. Taobao, l’e-Bay made in China, ha appena lanciato il luxury-service: figli di professione che per qualche yuan in più, allungato dagli eredi, accettano di dire regolarmente ai vecchi che li amano.
Rotta da decenni, l’armonia della famiglia confuciana è esplosa tre mesi fa. Pechino ha approvato una legge che impone ai figli adulti di frequentare i genitori anziani almeno due volte al mese e di passare in loro compagnia un terzo delle ferie. Sanzioni coerenti con la fermezza di un autoritarismo che pretende di dominare anche i sentimenti: i trasgressori vengono multati e, se recidivi, rischiano carcere e carriera. Come dire, meglio pranzare con i nonni che digiunare con i secondini. I cinesiperò sono gente pratica e novanta giorni bastano, per mutare un fastidio in un affare.
Ed ecco internet, che per l’anniversario della vittoria di Mao, cui segue nevrotica settimana di festeggiamenti, ha lanciato il nuovo prodotto: l’amore filialedisponibile 24 ore su 24. Business in linea con lo Stato, che paternalisticamente combatte la sofferenza, non l’egoismo, badando prima di tutto che 185 milioni di vecchi non scivolino nell’emarginazione. Per ora assoldare qualcuno affinché reciti laparte del figlio non è dunque un crimine e un esercito di premurosi mercenari a ore si candida anche per lunghe telefonate quotidiane, lezioni di tablet, sedute di ginnastica, partite di
mahjong ed estenuanti pagamentidi bollette. Non che “fare il figlio” di mestiere sia esercizio per dilettanti. A Pechino e a Shanghai, per candidarsi a una sostituzione, è necessario ottenere (a pagamento) la “patente”: lezione numero uno, «come scegliere un mazzo di fiori» e «cosa dire davanti ai vecchi album di fotografie». Costringere la gente a non infrangere la legge sulla “Protezione dei diritti e degli interessi degli anziani”, per il partito comunista è un trauma. Per la prima generazione definita “del sandwich”, chiusa tra figli unici viziati e genitori vecchi ma sani, anche l’affetto si rivela un lusso.
Per secoli lo schema era rimasto semplice: mantenere gli anziani era un dovere individuale, trattarli con amore un obbligo morale. L’emergenza della superpotenza più invecchiata delmondo trasforma ora il denaro in tempo e la bontà in legge, facendo conoscere ai cinesi il retrogusto del benessere. Per la prima volta i media di Stato si chiedono così se noleggiare un figlio per una madre troppo lontana da visitare, sia il certificato dell’egoismo, o la prova estrema dell’affetto.
Migliaia di vecchi assicurano che gli sconosciuti figli di professione sono meglio di quelli naturali, «noiosi e autoritari». «Se sai che uno è pagato per volerti bene — ha detto un’anziana alQuotidiano del Popolo— ti permetti più confidenze». Fino a luglio la Cina, come l’Occidente, non pensava più alla terza età. Chi non ci bada adesso è, ufficialmente, un criminale. Se affitta un finto figlio però, è un fedele seguace di Confucio. Tradizioni: il comunismo, anche in famiglia, se ci sono soldi si chiama capitalismo.

il Fatto 8.10.13
Incontro con la storia
Giap mi disse “Nelle guerre coi giganti vincono i deboli”
di Furio Colombo


Avevamo passato tutto il giorno nelle caverne, durante il bombardamento di Haiphong. Ci sono donne, bambini, operai, camionette in riparazione, macchine utensili per costruire e riparare, lungo camminamenti, scale, gradini e camere da letto a cui mancava una parete. Avevano portato il letto, a volte in legno scolpito, con coperte arrotolate come cuscini e trapunte colorate, e una o due sedie per la famiglia, mentre il soldato combatte e l'operaio lavora. Uomini e donne, ragazzi e ragazzine, in tutte le cose da fare possibili. Per i piccoli c'era la classe, persino i banchi e la cattedra, dove la caverna si allargava di più. Lampadine pendevano da ogni sporgenza delle grotte, una illuminazione forte, da festa, che ti costringeva a buttarti indumenti sulla testa quando era il turno del sonno. Non sapevo che quel giorno (era dicembre del 1972) avrei visto Giap, il generale, il capo, il comandante, il vincitore, il mito.
La luce bellissima della sera e il sentiero nella giungla
L'abitudine di chi ci scortava (Antonello Trombadori e io) era di non rispondere mai. Non a me, che venivo dall'America, ma neanche a Trombadori che, a quel tempo, era deputato e dirigente del Partito comunista italiano. Trombadori, che andava ogni volta che poteva ad Hanoi non solo per solidarietà politica, ma per la sua cieca fiducia nell'agopuntura e nella medicina delle erbe, mi ha detto che, dopo il lungo viaggio nella caverna (eravamo lì dentro dalla notte prima, anche per stare al sicuro nel ventre della montagna) mi avrebbe fatto conoscere il suo medico che, come tutti i leader Vietcong, era uno che aveva studiato e lavorato a Parigi. La luce della sera, in Vietnam, specialmente nel Nord, specialmente vicino al mare, è come una luce di scena. Impossibile che la luce della natura sia così bella. Intorno avevamo le montagne a pan di zucchero, verdi, scoscese, salgono e scendono ripide, addolcite dal verde fitto. Su una jeep americana catturata chissà dove, l'autista, una scorta e noi siamo partiti con uno scatto violento, direzione foresta. Nella foresta c’è sempre una strada, che non è una strada, ma è libera da ostacoli e sbocca, dopo un'ora, ai bordi uno spiazzo polveroso: A sinistra un tempietto e uno di quei piccoli cimiteri di tombe basse e eguali che annunciano la presenza di un villaggio. Ma la scena è chiusa da una roccia ripida e nuda. Davanti alla roccia una piccola casa che sembra finta se non fosse una casa povera, la porta ammaccata, un vetro rotto, in alto. Solo la scorta è venuta e bussa alla porta.
Apre lui, Vo Gguyen Giap, in divisa impeccabile, la giacca dal taglio perfetto, la figura un po’ allargata dalle spalline lucide e rigide ma resa più elegante, benché non alto, dalle gambe lunghe, in proporzione. Il viso è scolpito con cura, elegante e borghese di un professionista e o di un insegnante di buon livello. La stanza, si vede benissimo, è messa in ordine solo per questo incontro, un tavolo quadrato con centrino che forse è inamidato, un gran vaso di fiori che sono stati appena portati, quattro sedie che non sono del tavolo e una teiera. Giap non ha ancora parlato, ha gesti brevi, eleganti. È gentile e diffidente nel senso che sa benissimo che stiamo interpretando una scena e in quella scena non giocherà alcun ruolo se non, con prudenza, se stesso. Dice subito: “Parliamo francese”, con pronuncia chiara e colta. Quando stiamo seduti, lui ascolta, come un professore in una sessione d'esami, la mia spiegazione, la mia ragione (un giornalista italiano che vive a New York) di essere nel Vietnam del Nord, fra Hanoi e Haiphong, proprio mentre sono ripresi i bombardamenti. Mi aspetto un commento che non c'è, per esempio accusare Kissinger. E io continuo, come per produrre una giustificazione: “Ero venuto con l'intenzione di filmare il primo giorno di pace, e invece continua la guerra...”.
Il generale Giap ha uno sguardo sereno che non guarda proprio me, ma un po’ più lontano, dietro gli occhiali leggeri, puliti bene (ma una stanghetta è legata con fil di ferro). Come un medico gentile precisa i caratteri del male di cui si occupa.
“L'imperialismo pensa di vincere perché è più forte. La guerra continua ancora un po’, e poi vinciamo noi. Nelle guerre con i giganti vincono i deboli, sempre”. Ha le due mani sul tavolo, mani più giovani della sua età, mani di chi legge e di chi scrive, non di chi combatte. Noto in quel momento che le maniche della giacca impeccabile, dove c'è il risvolto segnato dal filo d'oro del suo grado, sono sfilacciate, quasi tagliuzzate dall'uso. Anche i pantaloni, stirati al punto da suggerire un po’ di amido, finiscono male, logori e non più riparabili, sulle caviglie senza calze e i piedi magri, eleganti, in scarpe lucidissime che quasi non stanno insieme.
Elegante nella sua divisa,  la voce pacata, la stretta di mano da politico
C’è forse civetteria in questa esibizione combinata di potere, eleganza e povertà, che ho incontrato spesso nel Vietnam del Nord, mai in modo così perfetto. Parla con voce uguale e pacata, come in una breve lezione in cui nulla è fuori posto, logico, fattuale, preciso, con un ricordo nitido di luoghi e date, comprese citazioni e attribuzioni di frasi di personaggi del mondo. Parla poco. Ascolta domande politiche e le evita. Considera il suo lavoro un progetto a cui – da esperto – sta lavorando con cura. Intanto ha servito il tè, da una teiera forse d'argento, splendente nella stanza che sul fondo è buia, perché non basta la luce dell'unica lampadina. Va via la luce ma non è un bombardamento, ci avverte, è il generatore. Quando torna la luce lui è in piedi, la sua divisa sembra di nuovo perfetta. Sa come concludere. Non con una frase comunista, ma con una esortazione patriottica, un inno (senza cambiare il tono della voce) a un'unica patria, del Sud e del Nord, La stretta di mano non è né forte né debole. È netta, politica, la giusta dose di protocollo e di diffidenza. È notte e i bagliori di fuoco a distanza, in direzione del porto, sono i bombardamenti. Non senti le esplosioni perché sei assordato dal rumore dei B-52 che volano basso.

Corriere 8.10.13
Le parole di Francesco che turbano i cattolici
di Vittorio Messori


Occupandomi, in libri e giornali, di cose cattoliche sin dai tempi di Paolo VI, succede che non pochi — magari sconcertati o confusi — insistano nel chiedermi opinioni sui primi mesi del nuovo pontificato. Di solito me la cavo con una battuta che parafrasa la risposta data ai giornalisti, sull'aereo che tornava dal Brasile, proprio da papa Bergoglio: «Chi sono io per giudicare?». Se siamo tenuti a non giudicare alcuno — parola di Vangelo — figurarsi un Pontefice, la cui scelta, per i credenti, è fatta dallo Spirito Santo stesso.
Certo, ci furono secoli in cui sembrò che gli uomini si fossero sostituiti al Paràclito: conclavi simoniaci o pilotati dalle grandi potenze dell’epoca , con candidature e veti imposti dalla politica. Eppure, chi conosce davvero la storia della Chiesa — condizione che non è dei troppi faciloni e orecchianti — chi sappia cogliere la dinamica della «lunga durata» distesa su ben venti secoli, finisce col sorprendersi. Scoprendo, cioè, che san Paolo sembra avere davvero ragione quando afferma che omnia cooperantur in bonum , tutto coopera al bene. Anche quello della Chiesa che, per la fede, non è soltanto guidata dal Cristo ma ne è addirittura il «corpo mistico». Comunque, se stiamo al nostro tempo, non c’è bisogno di fidarsi, malgrado tutto, di una Provvidenza che talvolta può sembrarci incomprensibile. Non c’è bisogno, perché a tutti è evidente la qualità umana di coloro che si sono avvicendati negli ultimi decenni nel ruolo di pontefici romani. Per stare soltanto alla successione di questo dopoguerra, ecco le figure di Pacelli, Roncalli, Montini, Luciani, Wojtyla, Ratzinger e, ora, Bergoglio. Chi, pur lontano o avverso alla Chiesa, potrà negare che si tratta di personalità di insolito rilievo, unite dalla stessa fede e dallo stesso impegno nel loro ufficio ma con grandi differenze caratteriali, diverse storie e culture, diversi stili pastorali?
Ed è proprio questo il punto che a molti, anche cattolici, non sembra essere chiaro: quale che sia, cioè, l’uomo giunto al papato, quali che siano le nostre consonanze o dissonanze umorali nei suoi confronti, resta pur sempre il successore di Pietro, il garante e custode dell’ortodossia. Dunque, un uomo di Dio non solo da accettare, ma per il quale pregare e al quale ubbidire con rispetto e amore filiale.
Cose che dovrebbero essere chiare oggi soprattutto, con questo Vescovo di Roma «giunto quasi dalla fine del mondo», uomo dalla personalità prorompente, istintivamente impulsiva e magari autoritaria (ammissione sua, nell’intervista alla Civiltà Cattolica ) e segnata, malgrado le origini italiane, da un cultura diversa dalla nostra come quella sudamericana. Un papa, per giunta, venuto — per la prima volta in quasi due secoli — non dal clero secolare ma da un ordine religioso contrassegnato da una formazione difforme da ogni altra, nella Chiesa stessa. Una Compagnia (nome militare di un fondatore venuto dalla vita militare) da cinque secoli amata e detestata, ammirata e temuta. Al punto che, caso unico, finì coll’essere soppressa — «propter bonum Ecclesiae», dice la bolla — da un papa francescano, per essere poi risuscitata, appena possibile, da un papa benedettino.
Verità impone di ammettere che, soprattutto dando uno sguardo a molti siti e blog sulla Rete, non mancano i nostalgici della sobrietà, del rigore dottrinale, della profondità culturale, del rispetto delle tradizioni, dell’attenzione alla liturgia di Benedetto XVI. E nessuno ha dimenticato il quarto di secolo di quello straordinario ciclone che fu Giovanni Paolo II, di cui già è stata riconosciuta la santità. C’è da capire, i sentimenti sono cosa umanissima. Ma, va ripetuto: ogni confronto tra papi è irrilevante, in una prospettiva cristiana ; la sintonia di ogni credente con lui è basata su ben altro che su personali simpatie. La comunità che il successore di Pietro guida e governa ha da sempre e sempre avrà un fine ultimo (e unico) da cui tutto deriva e che è ricordato esplicitamente dal Codice di Diritto Canonico: «Suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime». Anche se talvolta sembra che lo si dimentichi, da questo tutto deriva e l’intera istituzione ecclesiale esiste per questo: annunciare la vita eterna promessa dal Vangelo e aiutare ogni uomo — con la predicazione e con i sacramenti — a seguire la strada che porta al traguardo della morte, in realtà nascita alla vita vera. Tutto il resto è solo strumento, sempre riformabile e destinato a passare, a cominciare dalla pur indispensabile burocrazia curiale: Dio stesso ha voluto aver bisogno di una istituzione umana, con i suoi organi e le sue leggi. Ogni papa è, ovviamente convinto di questa priorità della salus animarum ma Francesco, si direbbe , con un’urgenza particolare , tanto da fare di tutto perché clero, religiosi, laici tornino essi pure a esserne consapevoli. Una scelta, questa del pontefice argentino, che sembra dare risultati sorprendenti: per quanto conta, io pure misuro ogni giorno l’interesse, anzi la simpatia se non addirittura l’adesione di tanti che pur parevano inamovibili nella loro indifferenza se non persino in un laicismo polemico e aggressivo.
Il ritorno alla successione naturale, eppur spesso dimenticata (prima la fede, la morale ne verrà come necessaria conseguenza); l’appello alle raisons du coeur prima che alle raisons de la raison per usare i termini pascaliani; l’uscita dalla gabbia di un credere ridotto a inflessibile norma codificata; le braccia aperte a tutti, ricordando la misericordia del Dio di Gesù, il cui mestiere è perdonare e accogliere i figli, senza eccezione, anche quelli «prodighi». Tutto questo sta provocando risultati positivi che richiamano il criterio di valutazione indicato dal Vangelo stesso: «Dai frutti conoscerete l’albero». Se il raccolto spirituale si annuncia tanto buono, non sarà altrettanto buona la pianta da cui viene?
Questo ancor vigoroso settantasettenne, con il suo stile da «parroco del mondo», vuole impegnare la Chiesa intera in quella sfida di rievangelizzazione dell’Occidente che fu centrale anche nel programma pastorale dei suoi due ultimi predecessori. Nessuna frattura, dunque, bensì continuità, pur nella diversità di temperamenti. Questa Chiesa bimillenaria mostra anche così di non avere alcuna intenzione di ridursi a setta rancorosa, non solo minoritaria ma anche marginale. Con Roma e i suoi vescovi, il mondo intero dovrà ancora misurarsi. Così come accade dai tempi dell’Impero romano, quando tutto cominciò.

Repubblica 8.10.13
“Hanno scoperto i postini delle cellule” il Nobel per la medicina a tre biologi
Negli studi di due americani e un tedesco la chiave per nuovi farmaci
di Elena Dusi


ROMA — «Immaginate centinaia di migliaia di persone che viaggiano lungo centinaia di migliaia di chilometri di strade. Come troveranno la strada giusta? Dove si fermerà l’autobus per farli scendere al loro indirizzo?». Lo stesso problema si pone ai 100 mila miliardi di cellule del nostro corpo. E la risposta è valsa il premio Nobel a tre biologi che hanno capito come funziona il “sistema postale” degli esseri viventi, che permette a ogni proteina di essere recapitata al posto giusto e al momento giusto per svolgere la sua funzione.
I vincitori sono Randy Schekman, 64 anni, americano dell’università della California a Berkeley (ma anche socio dell’Accademia dei Lincei a Roma), James Rothman, 62 anni, dell’università di Yale, anch’egli statunitense. E Thomas Südhof, 58 anni, tedesco trasferitosi a Stanford per portare avanti le sue ricerche. Il premioNobel per la fisiologia e la medicina gli è stato assegnato ieri mattina a Stoccolma «per le loro scoperte sui meccanismi di regolazione del traffico delle vescicole, il principale sistema di trasporto delle nostre cellule». Gli studi del trio (che si dividerà i 910 mila euro del premio) riguardano un fenomeno molto di base, che coinvolge tutti i tessuti del nostro organismo (e degli esseri viventi in genere). Partendo da questa scoperta è stato possibile mettere a punto alcuni farmaci, ad esempio per regolare il traffico dei neurotrasmettitori all’interno del cervello. Ma il Comitato Nobel, nel presentare i vincitori, non ha tanto insistito sugli aspetti pratici della ricerca e ha riassunto il meccanismo così: «Ogni cellula è una fabbrica che produce ed esporta molecole. L’insulina per esempio è assemblata e poi rilasciata nel sangue. Lo stesso vale per dei segnali chimici chiamati neurotrasmettitori, che vengono inviati da una cellula nervosa all’altra. Queste molecole viaggiano all’interno della cellula a bordo di pacchetti chiamati “vescicole”. I tre vincitori hanno scoperto secondo quali principi questi carichi vengono consegnati al posto giusto e al momento giusto all’interno delle cellule». È un Nobel «a un campo di studi di grandissimo interesse» commenta il farmacologo Silvio Garattini, «fondamentale anche per capire il meccanismo d’azione di molti farmaci, e per scoprirne e svilupparne di nuovi».
Per penetrare l’organizzazione del “sistema postale” — ciò che fala differenza fra un’orchestra ben affiatata e il caos totale — i tre ricercatori si sono divisi i compiti. Schekman, il decano dei tre, a partire dagli anni 70 è andato a cercare su quali geni è “scritto lo spartito”. E si è accorto che mettendo a tacere questi frammenti di Dna tutte le molecole prodotte all’interno delle cellule rimanevano nelle membrane, appesantendole come un magazzino sovraccarico. Al telefono nella sua casa californiana ha risposto la moglie, che è tornata a letto a dargli la notizia del premio scuotendolo dal sonno. «Ho stretto mia moglie e continuavo a ripetere: Oh mio Dio, oh mio Dio» ha raccontato Schekman. Lo scienziato di Berkeley all’inizio dei suoi studi fu osteggiato dai colleghi per la decisione di analizzare le vescicole nelle cellule di lievito: organismi secondo alcuni troppo lontani dalla specie umana.
Rothman, invece, ha descritto passo per passo le tappe chimiche della vescicola che raccoglie il suo contenuto, lo avvicina alla membrana della cellula, poi si lega a essa e libera all’esterno la proteina da trasportare. La sua reazione — trasmessa dalla tv svedese — è stata molto diversa da quella di Schekman: «Vincere un Nobel? È eccitante, ma il momento in cui si fa la scoperta lo è di più». Il momento del suo Eureka risale al 1993: «È un’ebbrezza rara, rarissima, quando uno scienziato scopre sulla natura qualcosa di fondamentale e, soprattutto, valido universalmente ». Sudhof, infine, si è concentrato sulla “scelta di tempo” che le vescicole fanno per consegnare il loro contenuto al momento giusto, e ha dedicato il suo commento agli Stati Uniti, paese che lo ha accolto quando dalla sua Germania si è trasferito a Stanford. «In America c’è molta attenzione al significato della scienza». E il suo commento sarà condiviso dalle migliaia di colleghi (molti dei quali italiani) che dall’Europa sono partiti per andare a fare ricerca negli Stati Uniti. Nella bibliografia che accompagna le motivazioni al premio, appaiono anche gli studi di Cesare Montecucco, dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr.

Repubblica Salute 8.10.13
Psichiatria, disturbi e diagnosi la grande sfida dei manuali
di Maurizio Paganelli


PAESTUM A pochi giorni della giornata mondiale della Salute mentale (giovedì 10 ottobre) gli psicoterapeuti italiani si misurano con il Dsm-5, l’ultima edizione del manuale diagnostico dell’associazione psichiatri americani (Apa), ora passato alla numerazione araba rispetto a quella romana. Al congresso nazionale della Sipsic (la società che riunisce 35 scuole di formazione in psicoterapia), concluso di recente a Paestum, uno dei temi al centro del dibattito ha riguardato proprio la diagnosi e gli “strumenti del mestiere”. È stato Massimo Biondi, professore di psichiatria alla Sapienza di Roma, che insieme a Mario Maj dell’ateneo di Napoli è tra i curatori della futura edizione italiana del Dsm-5 (uscirà a inizio 2014 per Raffaello Cortina editore), a difendere a spada tratta l’importanza di un manuale diagnostico, seppure con tutti i suoi limiti.
«Troppe bugie e disinformazione. Il Dsm-5 deve essere utilizzato da mani esperte, non è fatto per semplificazioni o sommatorie di sintomi: è stato un lavoro di anni, un consulto allargato tra psichiatri, ricercatori e clinici, associazioni, famiglie, altre figure professionali, ogni osservazione è stata vagliata, si è evitato di buttare via tutto il lavoro precedente, ma si è voluto cambiare dove le evidenze scientifiche apparivano condivise», ha accoratamente sostenuto Biondi invitando gli psicoterapeuti a ragionare sull’importanza di arrivare ad una diagnosi per infiniti motivi anche pratici (nella ricerca, nel campo legale, nella programmazione sanitaria, nei rimborsi assicurativi) o emotivi (il bisogno di paziente e familiari di sapere di cosa si è “malati”). «Non cadete nell’ottusa credenza che diagnosticando si “etichetta” il malato, nel complottismo che indica le aziende farmaceutiche come le mandanti di una medicalizzazione generalizzata», ha ripetuto Biondi aggiungendo che il Dsm-5 va utilizzato da specialisti e non improvvisatori («con almeno 10 anni di esperienza », ha aggiunto).
L’importanza di un sistema oggettivo di riferimento, di un “linguaggio” comune nella sofferenza mentale è anche l’opinione, nonostante le molte riserve, di Camillo Loriedo e Piero Petrini, i due presidenti della Sipsic. «Buono o cattivo che sia non possiamo farne a meno», sospira Loriedo. «Eppure sembra che, nonostante la lunga gestazione, sia stato varato con troppa fretta», aggiunge Petrini. «Qui al congresso abbiamo dato spazio al Dsm-5 ma anche ad altri manuali diagnostici in via di revisione (l’Icd XI classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzzaione mondiale della Sanità, quello psicodinamico - Pdm, la Swap 200) proprio perché è nella formazione che va affrontata l’importanza della diagnosi e l’uso della classificazioni, sapendo che è la relazione terapeutica e la capacità di connessione che è alla base di tutto».
Controcanto affidato ad Alberto Zucconi, segretario Sipsic ed un passato in Psichiatria democratica: «L’esperienza non è sufficiente, serve consapevolezza dei limiti dei manuali e degli errori fatti dalla comunità scientifica: basti pensare all’omosessualità catalogata come disturbo fino a pochi decenni fa. Anche il conflitto di interesse, quel boom di psicofarmaci e il fatto che, mentre nel Dsm IV “solo” il 75% degli psichiatri aveva avuto rapporti di consulenza con le case farmaceutiche, ora siamo al cento per cento. Follow the money, si diceva un tempo...».
Vittorio Lingiardi, professore di psicologia dinamica alla Sapienza di Roma, ricorda infine l’utilità dei manuali diagnostici come “cassetta degli attrezzi” per il clinico e i rischi dell’“oscurantismo antidiagnostico”. «Mai scordare però — aggiunge — l’unicità del paziente, e trovare una mediazione tra aspetti oggettivi e soggettivi della diagnosi di personalità. Con Eraclito possiamo dire che “il carattere è il destino”, ma con Virginia Woolf sappiamo che è impossibile “riassumere” l’individuo: you can’tsum up people».

Repubblica Salute 8.10.13
Lo spirito del tempo tra “spettro” e intensità
di Vittorio Lingiardi


Inevitabile che l’uscita del più famoso manuale diagnostico dei disturbi mentali sia accompagnata da dibattiti anche accesi. Che vanno dalla validità e attendibilità di una diagnosi ai significati clinici e relazionali dell’atto diagnostico. Consapevoli che le diagnosi, oltre all’avanzare delle scoperte scientifiche (la prima edizione del Dsm è del 1952), rispecchiano anche lo spirito del tempo e i contesti economici e sociali. E soprattutto che sono necessarie alla pianificazione dei trattamenti e delle ricerche in psichiatria, psicologia clinica e psicoterapie. Ben vengano critiche ma non il pregiudizio antidiagnostico e le sue ideologie. Fatta la premessa, provo a riassumere (per i non addetti ai lavori) le modifiche che più mi hanno colpito in questo nuovo Dsm-5: l’aumentato numero delle diagnosi psichiatriche in generale; il maggior rilievo assegnato al concetto di “spettro diagnostico” e agli aspetti “dimensionali” (intensità) rispetto a quelli “categoriali” (presenza/assenza) di alcune diagnosi; la scomparsa della stratificazione “multiassiale” delle diagnosi (utile, ma a volte poco funzionale a una visione “complessiva” del funzionamento dell’individuo); la maggior attenzione alle specificità geografiche, culturali e di genere; la riformulazione diagnostica dei disturbi dell’umore in disturbi depressivi e disturbi bipolari; la più chiara distinzione tra disturbi d’ansia, disturbi dello spettro ossessivo compulsivo e disturbi correlati a trauma e stress (prima riuniti in un unico capitolo); la depatologizzazione della diagnosi di “disturbo dell’identità di genere” in “disforia di genere”. Infine, il cambiamento di un “non cambiamento”: dopo lunghi dibattiti, infatti, le diagnosi classiche dei disturbi di personalità (paranoide, schizoide, schizotipico, borderline, istrionico, narcisistico, antisociale, evitante, dipendente, ossessivo) sono invariate. La proposta di un nuovo approccio diagnostico per ora è in appendice: in attesa di verifiche.
* Psicologia dinamica, La Sapienza-Roma

lunedì 7 ottobre 2013

Repubblica 7.10.13
“L’Italia resta prigioniera dei guasti del berlusconismo ma la Costituzione può guarirla”
Zagrebelsky: non fondo un partitino con Rodotà
intervista di Liana Milella


ROMA — Letta e la fine del ventennio? «Un’affermazione valida per la messinscena della politica». Lo scontro dentro il Pdl? «Vedo un tentativo di eliminare gli “incommoda”». Si va verso una nuova Repubblica? «Non vedo né la prima né la seconda né la terza». Berlusconi è finito? «Non mi interessa lui, ma i problemi che lui ha contribuito a creare». Il professor Gustavo Zagrebelsky non si smentisce. Caustico. Netto nel non assolvere “questa” politica. Ma pronto a negare la prospettiva di una prossima avventura nella politica.
Lei, Rodotà, don Ciotti, Landini e Carlassare. Nomi che fanno rumore se si ritrovano assieme. Come succede il 12 ottobre. Che accade, alla fine voi di Libertà e giustizia vi siete decisi a far nascere un nuovo partito?
«Sgomberiamo il campo fin da subito. La risposta è no e aggiungo, siccome da diverse parti si è fatto credere il contrario, che è un “no” evangelico: Quel che è sì è sì, quel che no è no, e tutto è opera del maligno ».
Però il Vangelo non mette mai un limite alla provvidenza...
«Se fosse sì, non sarebbe la provvidenza, ma la “sprovvidenza”. Ci mancherebbe solo che si pensasse di fare un nuovo, ulteriore, partitino».
Però... però... mi lasci dire, quando il manifesto dell’incontro, che non a caso si intitola “La via maestra”, parla di «miserie, ambizioni personali, rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato» non può che venire in mente il rifiuto di “questa” politica. Che ne richiama una nuova.
«Certamente. Ma per operare un rinnovamento o addirittura un ribaltamento delle pratiche politiche e sociali che ci affliggono in questi anni non c’è bisogno “di nuovi soggetti politici” — espressione, tra le tante, che io odio —. C’è bisogno invece, secondo noi, che ciascuno, quale che sia il suo impegno nella società, faccia valere nelle sedi che gli sono proprie (politica, sindacato, cultura, scuola, tutto insomma ciò che ha riguardo con la vita civile) l’esigenza del rinnovamento. Comprenda e faccia comprendere che, continuando così, il nostro Paese si mette su un binario morto».
Lei, come sempre, è bravissimo nello scegliere espressioni e concetti forbiti, ma parliamo politichese: ci giura che un partito nuovo non nascerà?
«Nessuno di noi è profeta. Ma il 12 ottobre non c’è la fondazione di alcun partito. Anzi, il nostro intento è quello di raccogliere le preoccupazioni e le forze, non di dividerle ulteriormente».
Scusi se insisto, ma mi pare che qualcuno sia convinto che state proprio lavorando verso quell’approdo.
«Ribadisco, il nostro è un intento politico, ma non nel senso dei partiti. Se si può dir così, è un intento anche più ambizioso: lavorare alla rinascita di una politica, nel senso autentico della parola».
Lei non vede la politica “giusta” in Italia?
«In Italia esiste solo una messinscena della politica. La politica comporta il confronto tra idee e progetti. Oggi mancano le idee e i progetti, e a maggior ragione manca il confronto. Dunque, manca la politica. Venendo meno la politica, la democrazia stessa deperisce. Perché mai i cittadini si dovrebbero impegnare, anche solo nella cabina elettorale, se tanto tutto è destinato a restare quello che è? Viviamo da alcuni anni in stato di necessità. Ma la democrazia è lo stato della libertà».
Come mai, però, associazioni che pur
avrebbero potuto rispondere al vostro appello solo rimaste silenti?
«L’adesione è larghissima. Chi si è tenuto in disparte, l’ha fatto, mi sia permesso di osservare, perché è caduto nell’equivoco del “nuovo soggetto politico”. Chiarito il quale, mi auguro che ci siano ripensamenti».
La nostra Costituzione. Lei torna lì, alla Carta del ‘48. Contestata, e che si cerca di riscrivere. Perché va tenuta ferma?
«C’è un paradosso. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, quella che tratta dei diritti, dei doveri, della giustizia, del lavoro, della libertà, della solidarietà. Quella parte descrive un tipo di società, molto lontana da quella in cui viviamo, che a noi invece pare tuttora di vivissima attualità. Proprio questa parte della Carta, però, è quella più largamente inattuata o violata. Le si può rendere omaggio in astratto perché ce ne si può dimenticare in concreto. C’è poi la seconda parte, che riguarda l’organizzazione della politica, e quindi i mezzi necessari per promuovere quel tipo di società. Oggi la discussione riguarda la riforma di questa seconda parte. Ma prima e seconda parte sono collegate e alcune delle modifiche che si prospettano, modifiche che definirei oligarchiche, si muovono nella direzione opposta all’attuazione della prima parte».
Costituzione e costituzionalisti. La Moralità pubblica. Che pensare quando si legge dello scandalo dei professori sotto accusa per i concorsi truccati?
«Nel campo universitario c’è un ineliminabile aspetto di cooptazione. Naturalmente, quella che dovrebbe essere cooptazione dei migliori può degenerare in corruzione. La linea di confine è labilissima. Anche se, oltre un certo limite, lo scandalo diventa evidente. Mi auguro che si chiarisca che quella linea di confine non è stata superata».
Letta ha detto che mercoledì «si è chiuso un ventennio». Alfano ha vinto su Berlusconi, il Parlamento ha confermato il governo. Davvero un ventennio è finito?
«Chi e come lo si può dire?».
Letta lo dice.
«Temo che sia un’affermazione valida per la messinscena, quello che volgarmente si definisce il teatrino della politica. Quando evochiamo “ventenni” che si chiudono, credo che si debba pensare a quel rinnovamento profondo della politica di cui dicevo prima. Qualcuno potrebbe ipotizzare che si tratti solo di una razionalizzazione di ciò che ci sta appena alle spalle e che sta cercando di mettere ai margini gli “incommoda”».
A proposito di “incommoda”, guardiamo all’estate di Berlusconi, al disperato tentativo di evitare la condanna, una politica concentrata su questo mentre la gente è sempre più povera. Lei pensa davvero che si possa tornare indietro? Non c’è troppa prima repubblica, addirittura peggio della prima, in questa seconda?
«È difficile non vedere una profonda continuità nelle strutture e nelle concezioni profonde del potere politico, economico e sociale, e perfino criminale, della nostra società. Da questo punto di vista non c’è stata né una prima, né una seconda, né una terza Repubblica. Sono mutate le forme esteriori. Il 12 ottobre ci interrogheremo non sulle forme, ma sulla sostanza. E ci auguriamo che da qui possa nascere un vero rinnovamento».
Un giudizio flash su Berlusconi. È ancora “vivo” politicamente, ha ancora appeal da spendere o è politicamente già in archivio?
«A me non interessa tanto questo; mi interessa piuttosto che, Berlusconi o non Berlusconi, ci si occupi dei problemi del nostro Paese, la cui gravità Berlusconi ha contribuito ad accentuare e che rimarranno tali e quali davanti a noi, anche senza di lui».
Lo spauracchio delle elezioni. Minacciato da mesi. Che vantaggi avrebbero gli italiani da un nuovo voto?
«Un voto che riproduca la situazione attuale non serve a niente. Un voto che rimetta in moto il confronto politico sarebbe invece essenziale. Ma per questo occorrerebbe un’altra legge elettorale».

l’Unità 7.10.13
Il mare restituisce altri 74 corpi. Kyenge: «Ora via la Bossi-Fini»
Viaggio nel Centro della vergogna: «Ho visto gli orrori nel Cie di Lampedusa»
I profughi vivono in condizioni disumane
C’è chi dorme in celle frigorifere, chi all’aperto
Tanti i bambini senza assistenza
Sul sito Unita.it le foto e i documenti video del reportage
di Khalid Chaouki

parlamentare Pd

Racconteremo e non saremo creduti», così scrisse Primo Levi, testimone e vittima delle atrocità naziste, per significare l’enormità del male che aveva colpito il suo popolo; ebbene noi, davanti alla tragedia che si consuma nel nostro Mediterraneo, diventato il più grande cimitero a cielo aperto, di fronte ai racconti di questo orrore e a quello che ho potuto vedere con i miei occhi a Lampedusa, insieme ai miei colleghi parlamentari e alla Presidente della Camera Laura Boldrini, non posso stare in silenzio. Il Centro di accoglienza di Lampedusa è in condizioni disumane. E tutti oggi devono sapere il livello di degrado e inciviltà a cui siamo arrivati come Italia e come Europa. Tutti.
Appena entrato nel Centro di accoglienza di Lampedusa non credevo ai miei occhi quando Mustafa, signore siriano sulla cinquantina mi ha preso per mano e mi ha trascinato sotto un albero davanti a una brandina: «Vedi, questa è mia figlia ed è incinta al quinto mese. Abbiamo attraversato il mare, siamo scappati da Assad. Non vorrei perdesse suo figlio proprio qui a Lampedusa».
A Lampedusa si dorme per terra, su materassini di gomma sistemati tra cespugli, panchine e immondizia. Mentre cammino tra gruppi di famiglie sistemate per terra, mi fermo da un gruppo di bambini, questa volta palestinesi e anche loro fuggiti dalle bombe del regime siriano. Mi abbasso in ginocchio, mi presento in arabo e chiedo a loro dove dormono. Senza parlare uno di loro mi indica un camioncino scassato, credo una cella frigo per gelati abbandonata dentro il Centro. Non ci credo, non ci voglio credere. La mia guida siriana improvvisata insieme ad altri ragazzi, per lo più ventenni, corrono verso il camioncino, aprono le portiere laterali. Sono pieni di materassini di gomma. «Qui dormono alcune famiglie. Almeno sono al riparo dalla pioggia» aggiunge un altro.
Non faccio in tempo a riprendermi dall’angoscia che una giovane donna, Iman, occhi verdi bellissimi, chiede di parlarmi, solo. Con pudore e scusandosi per il disturbo, mi confessa a bassa voce le sue paure: «Non voglio che ci portino in Sicilia. I nostri amici che sono già lì nel centro ci hanno al telefono che li hanno picchiati. Ho tanta paura e da qui non mi sposto finché non mi assicuri che non ci picchieranno». Mi cade il mondo addosso. Sono scappati dalla violenza, hanno viaggiato per giorni e settimane sognando un rifugio sicuro. E qui da noi questa signora teme la violenza nei nostri centri. Rimango interdetto, cerco di tranquillizzarla con la promessa di indagare sulle condizioni dei centri siciliani. Lei non molla e con gli occhi lucidi mi chiede il numero di cellulare: «Almeno se mi succede qualcosa so con chi posso parlare». È terrorizzata.
TRA PUDORE E STUPORE
Siamo in un Centro che può ospitare 250 persone, ce ne sono oltre mille. Sono eritrei, somali, sudanesi. Persone fuggite alla guerra non turisti in cerca di fortuna. Ora la stragrande maggioranza è siriana. I minori sono 161 accompagnati dalla famiglia, mentre 67 sono non accompagnati. Tra di loro vi sono anche i 41 minori superstiti del naufragio di venerdì mattina, senza più la famiglia. Questo il resoconto dettagliato degli instancabili operatori di Save the Children. «Ci sono solo due medici e ci danno solo dei calmanti. Io ho problemi di cuore, lui ha fortissimi dolori alla schiena. Per mangiare facciamo una fila e aspettiamo almeno due ore», questa volta a parlare è Ahmad, un giovane che mi confida sconsolato che non avrebbe mai immaginato di trovare questa situazione in Italia, in Europa. Annuisco con la testa, lo so.
Il campo profughi Zaatari in Giordania è mille volte meglio di questa schifezza. Ci sono stato recentemente per conto dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea. Non glielo dico per pudore. Ahmad purtroppo ha ragione e si vergogna lui per me, come se comprendesse il mio imbarazzo e la mia rabbia, cambia argomento e mi accompagna in quello che chiama l’hotel cinque stelle. I padiglioni coperti, prefabbricati su due piani. Vedo subito qualche giovane eritreo, dormono sui materassini ma almeno sono al coperto. I famosi 250 posti. Le condizioni igieniche non sono il massimo, puzza dappertutto perché le finestre non si aprono, sono rotte. Ma almeno non si beccano la pioggia e il freddo durante la notte.
Scendo e riprendo il mio viaggio nella vergogna italiana tra bambini, donne e giovani sotto i cespugli e sulle panchine. Vorrei che tutti gli italiani vedessero quello che ho visto. Parlassero con queste donne annunciando loro in faccia che ora rischiano l’incriminazione per immigrazione clandestina. Noi piangiamo i morti, mentre chi si salva lo iscriviamo nel registro degli indagati. Criminale perché colpevole di non essere morto anche lui insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Come è successo per i sopravvissuti all’ultima tragedia di giovedì. Questa è la vergogna in cui siamo precipitati, dopo anni di indifferenza davanti ai proclami razzisti del cattivismo leghista. Ma ora basta. Voglio guardare a testa alta Iman e poterle dire con orgoglio «Benvenuta in Italia. Da oggi questo è per te un rifugio di pace e sicurezza».
È la sera di sabato 5 ottobre. Vengo risvegliato da un tuono fortissimo, a Lampedusa sta diluviando. Non riesco, nessuno di noi della delegazione riesce a prendere sonno. Il nostro pensiero è con i profughi al centro di accoglienza. Bambini, donne e uomini di corsa, nel cuore della notte, alla ricerca di un riparo di fortuna. Questa vergogna deve finire.

l’Unità 7.10.13
Primo: garantire la sicurezza di chi naviga
di Filippo Miraglia

Responsabile Immigrazione Arci

RISCHIANDO DI ESSERE TRA I POCHI CHE CANTANO FUORI DAL CORO, VOGLIAMO FARE UNA DOMANDA A COLORO CHE IN QUESTI GIORNI SONO INTERVENUTI sull’ecatombe di Lampedusa, sulle cause e sugli interventi da intraprendere per evitare simili tragedie proponendo la lotta ai cosiddetti trafficanti di essere umani, agli scafisti.
La domanda è questa: una famiglia di siriani o di eritrei che fugge da morte certa ed è arrivata in Libia, pagando molto caro il viaggio e rischiando più volte la vita, a chi può rivolgersi per arrivare in Europa? Al ministro Alfano? Alle istituzioni europee? A Frontex con le sue dotazioni per il monitoraggio del mediterraneo?
No, l’unica via per arrivare, anche dopo le stragi e le lacrime versate dai nostri rappresentanti istituzionali, è affidarsi proprio al famigerato scafista.
Non è una provocazione, ma purtroppo, per come stanno oggi le cose, l’unica risposta possibile.
Chiediamo anche: da quando l’Europa finanzia il programma Frontex, tra i cui compiti c’è il salvataggio di eventuali naufraghi, le morti in mare sono diminuite? Sebbene le attività di Frontex non siano trasparenti, sappiamo per certo che negli ultimi tre anni c’è stato un rafforzamento di mezzi e personale e contemporaneamente un aumento di naufragi e di morti. Si potrebbe obiettare che i profughi sono aumentati, per la guerra in Libia e poi in Siria, ma a maggior ragione non si spiega come mai in un lembo di mare così frequentato continuino a scomparire tante persone.
Il rafforzamento dei controlli e di Frontex, come dimostra il recente passato, non sono la risposta giusta all’esigenza di rendere sicuro il viaggio di chi si dirige verso l’Europa e l’Italia per chiedere protezione. Anzi, l’aumento dei controlli aumenta i rischi perché si cercano nuove rotte e il prezzo da pagare.
Se si vuole davvero che la terribile tragedia avvenuta di fronte a Lampedusa di cui l’Europa e soprattutto l’Italia, con le sue leggi, è la principale responsabile sia l’ultima e che le persone possano arrivare in sicurezza, bisognerà ribaltare l’indirizzo prevalente negli interventi istituzionali di questi giorni, in particolare del ministro Alfano, ma non solo.
Per fortuna si sono levate anche tante voci che hanno invece insistito sulla necessità di abolire il reato di immigrazione clandestina e consentire ingressi regolari per ricerca di lavoro.
Riguardo poi alla questione specifica dell’arrivo dei rifugiati, che sono la totalità di coloro che oggi sbarcano sulle nostre coste (numeri, è bene ricordarlo a chi chiede aiuto all’Europa, ancora molto limitati rispetto agli altri Paesi europei paragonabili al nostro) è urgente introdurre misure che rendano sicuro il loro arrivo. Da un lato monitorare il canale di Sicilia, soccorrendo, con mezzi adeguati e un piano coordinato a livello europeo, le imbarcazioni che li trasportano. Non quindi maggiori strumenti per impedirne la partenza, ma esattamente il contrario: mezzi che intervengano per garantire una navigazione sicura. Dall’altro lato, l’apertura di canali umanitari, cioè la possibilità per chi si trova nelle aree di crisi o da quelle regioni è arrivato nel nord Africa, o comunque per tutti coloro che cercano protezione, di poter entrare in Europa con mezzi di trasporto normali, o straordinari se necessario, rivolgendosi direttamente alle istituzioni italiane ed europee. Riscrivere quindi gli accordi con i Paesi del nord Africa, prevedendo non respingimenti e detenzione, ma accoglienza e protezione.
Infine è utile sottolineare che l’Italia, dopo anni di flussi migratori, non ha ancora un piano nazionale per l’accoglienza e strutture adeguate a garantire una protezione dignitosa a tutti.
Proprio il giorno prima della tragedia, con una delegazione dell’Arci presente sull’isola, abbiamo visto quello che tutti sanno, anche i ministri di questo governo: bambini, famiglie, uomini e donne costrette a vivere in una struttura inadeguata (il Cpsa di Contrada Imbriacola), privati della loro dignità, senza nemmeno il diritto a un letto e a un tetto, come invece le leggi e le convenzioni internazionali prevedono.
Problemi organizzativi? Dopo tanti anni in cui nulla è cambiato a noi sembra più giusto parlare di cinismo e mancanza di senso di responsabilità.

l’Unità 7.10.13
Immigrazione, fronte comune tra i progressisti d’Europa
Dopo la Francia, anche Spagna e Germania si muovono per cambiare la politica comunitaria
Gabriel: Berlino si attivi per attenuare il dramma dei profughi di Lampedusa
Rubalcaba: tra le cose di rivedere c’è anche la «guardia europea», il cosiddetto Frontex
Il segretario del Ps Harlem Désir ha lanciato l’idea di un nuovo patto europeo
di Umberto De Giovannangeli


ROMA Dopo Parigi, Berlino e Madrid. Dopo il segretario generale del Ps francese, Harlem Désir, il leader della Spd tedesca, Sigmar Gabriel e quello del Psoe, Alfredo Pérez Rubalcaba. L’Europa, almeno quella dei progressisti, riflette e agisce dopo l’immane strage di migranti a Lampedusa. E lancia segnali importanti a pochi giorni dalla visita a Lampedusa (mercoledì prossimo) del presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. «Non c’è più tempo da perdere, occorre una politica comunitaria sui temi dell’immigrazione e del diritto d’asilo», aveva detto a l’Unità il leader dei socialisti francesi, sottolineando la necessità di una Europa più solidale, al proprio interno e nei riguardi di quella umanità sofferente che rischia la vita sulle carrette del mare, per fuggire da guerre, miseria, pulizie etniche. Un’assunzione di responsabilità viene ora da Berlino. La Germania deve impegnarsi attivamente a risolvere il dramma del continuo afflusso di migranti sulle coste italiane. Lo chiede in un'intervista al domenicale «Bild am Sonntag» (BamS) il presidente della Spd, Sigmar Gabriel, secondo il quale «la Germania deve impegnarsi decisamente per attenuare questo dramma dei profughi a Lampedusa». «Dobbiamo distribuire in maniera più giusta in Europa il gigantesco afflusso di profughi in arrivo laggiù», sottolinea il leader dei socialdemocratici tedeschi, oltre a «migliorare le condizioni di accoglimento per i profughi e quelle degli abitanti dell'isola». Il commento più duro sulla tragedia di Lampedusa, è stato pronunciato dal Capo dello Stato tedesco, Joachim Gauck, che ha criticato le politiche europee in tema di immigrazione definendole “inumane”: «Difendere la vita dei migranti e ascoltare le loro richieste sono i fondamenti del nostro diritto e del nostro sistema di valori. Come abbiamo potuto vedere da questa tragedia i migranti sono persone vulnerabili. Hanno diritto alla protezione e all'ascolto. Togliere lo sguardo e lasciarli navigare verso una morte prevedibile è un oltraggio ai nostri valori europei». «Un attentato all'umanità, che l'Europa non può legittimare» ha commentato il responsabile della commissione per i diritti umani al Bundestag, il verde Tom Koenigs.
PATTO EUROMEDITERRANEO
L’idea di un patto euromediterraneo, evocato da Désir, trova concorde il segretario generale del Psoe, Alfredo Pérez Rubalcaba: «L’Europa – rimarca il leader dei socialisti spagnoli – non può essere spettatrice di tragedie come quella consumatasi a Lampedusa. Occorre mettere in campo azioni concrete per far fronte a una drammatica emergenza, di cui l’Europa nel suo insieme deve farsi carico». «I Paesi del sud dell'Unione europea – insiste Rubalcaba hanno il diritto di chiedere una politica più attiva da parte dell'Ue su questo punto».
In questa chiave, il segretario del Psoe si dice d’accordo con la proposta avanzata l’altro ieri dal primo ministro francese, Jean-Marc Ayrault, di un vertice straordinario sull’immigrazione dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea: «Occorre una risposta forte, condivisa e rapida», avverte Rubalcaba. Tra le cose da rivedere c’è anche la «guardia europea» che dovrebbe presidiare le frontiere: Frontex. Riflette in proposito Philip Amaral, del Servizio europeo dei Gesuiti per i rifugiati: «Penso che questa sia la grande lacuna della politica europea. Frontex ha un ruolo di coordinamento nelle operazioni di frontiera degli Stati membri, ma quando c’è una barca in mare, c’è ancora confusione su chi debba intervenire. E questo è ciò che abbiamo visto negli ultimi anni: il governo italiano litigava con quello maltese su chi dovesse soccorrere la barca in mare, e questo ha lasciato in qualche occasione una nave in balia delle onde per settimane. Ma il Mediterraneo è un mare molto sorvegliato, ci sono immagini satellitari e molte pattuglie nazionali, quindi i governi non hanno scuse, non possono non prendere l’iniziativa. A livello europeo si è ora deciso che ci devono essere procedure chiare affinché, quando un’imbarcazione è in difficoltà, un Paese intervenga, in modo da agire prima ed evitare tragedie».
Il fatto è, riflette con amarezza padre Amaral, che «l’Europa si sta girando dall’altra parte perché non ha sviluppato risposte adeguate perché la gente venga in Europa e possa chiedere lo status di rifugiato in un modo che rispetta la dignità della vita umana».

il Fatto 7.10.13
Fischi nel minuto di silenzio per i migranti Ferrari, invece, dedica l’argento mondiale


In Serie A purtroppo ancora brutte pagine. Durate il minuto di silenzio dedicato alle vittime di Lampedusa, come già ieri a Brescia, anche a Bologna, questa volta i tifosi del Verona, da sempre schierati su posizioni di destra estrema, hanno intonato odiosi cori. E allo Juventus Stadium è stato intonato uno “stonatissimo” inno d’Italia. Invece una bella pagina nello sport la regala Vanessa Ferrari ai mondiali di ginnastica: “D e d i co la medaglia d’argento alle vittime di Lampedusa”. Così subito dopo il secondo posto al corpo libero ai mondiali di Anversa, in Belgio.

il Fatto 7.10.13
Parole parole parole
Letta: “Ventennio finito” Alfano: no, B. è il leader
di Sara Nicoli


Non l’avesse mai detto. In una giornata che il Cavaliere avrebbe voluto di riflessione e di silenzio, chiuso a Palazzo Grazioli per tentare di trovare una formula per non tenere unito il partito, ecco che due interventi a gamba tesa hanno fatto saltare nuovamente ogni buon proposito. E i nervi dei contendenti. Il primo, tutto interno, in mattinata, dalle colonne del Corriere della Sera, a firma di Raffaele Fitto, messosi alla testa dei “lealisti” del Pdl per guastare la festa di Alfano. Fitto si è issato a chiedere un congresso, una forma decisionale inedita nel mondo berlusconiano, brandita in questo caso contro il segretario nel nome dell’unità del partito. Per Renato Brunetta non c’è spazio per un referendum su Alfano”. E dietro le quinte sono volati di nuovo i materassi. Poi, come se non bastasse, ecco nel pomeriggio il secondo gancio sferrato stavolta da sinistra e da due direzioni diverse.
Epifani e premier pro Alfano
   Prima Epifani, che commentava: “Se Alfano non riuscirà a fare due gruppi distinti nelle Camere, allora avrà fallito”. Poi, il colpo più basso, arrivato da Enrico Letta in tv, con parole definitive contro Berlusconi: “Si è chiusa una stagione politica di 20 anni. Berlusconi ha cercato di far cadere il governo e non ci è riuscito, ora non si ricomincia con la tarantella, la pagina è stata voltata in modo definitivo. Sono rispettoso del travaglio del Pdl, Alfano ha affermato una leadership forte e marcata: è stato sfidato e ha vinto. Ora trovino modi e forme perché quello che è accaduto non accada più”.
   Rosy contro il presidente del Consiglio
   Parole come pietre verso il Pdl, che Rosy Bindi ha usato, invece, per ricondurre Letta con i piedi per terra: “Una stagione politica si chiuderà quando vincerà il Pd”, ha detto, piccata, la presidente del Nazareno, quando ormai, in campo avverso, l’incendio era indomabile. L’alzata di scudi del Pdl contro Letta è stata infatti totale, partita proprio da Alfano costretto a tuonare nel nome dell’unità del partito per non finire incenerito dai falchi in un minuto.
   Angelino contro Enrico
   “Non accettiamo e non accetteremo ingerenze nel libero confronto del nostro movimento politico – ha strillato il segretario pidiellino per salvare l’apparenza – e questo vale anche per il presidente del Consiglio e per il segretario del Pd: non saranno i nostri avversari a determinare la chiusura del ciclo politico di Berlusconi in quanto il popolo, ancora oggi, individua in lui il leader di un grande partito e il leader di una coalizione che può ancora vincere”. Certo, Letta non ha fatto un gran favore ad Alfano, chiedendogli – di fatto – di accelerare la scissione. Specie ora che i falchi gli hanno messo alle calcagna proprio Fitto, “rispolverato” per far pressioni su Berlusconi. Il partito, dicono i falchi, non può fidarsi di un “traditore” che, per altro, sta reclutando dirigenti sul territorio perché “se non riesce a vincere all’interno si fa un partito suo”. Fitto, l’altro giorno ha parlato direttamente con Berlusconi: “Presidente serve un chiarimento forte, un congresso, una scelta democratica che parta dalle cariche locali fino a quella del segretario”.
   L’idea di Fitto (Congresso) bocciata dal Caimano
   Ma di Congresso, al momento, il Cavaliere non vuole sentir parlare, come ha detto chiaramente ieri anche Brunetta. Alfano vuole che la presidenza resti simbolicamente a Berlusconi, ma che tutte le deleghe operative finiscano nelle sue mani come vice presidente (in Forza Italia la carica di segretario non è prevista). Quindi, sotto di lui, tre coordinatori diversi dagli attuali, ciascuno in rappresentanza delle correnti interne, in modo da tenere buoni tutti. Ai falchi, insomma, al massimo verrebbe garantita la “sopravvivenza” di Verdini, su cui Berlusconi non transige. Ciò che temono i rapaci è che la decadenza del capo dal Senato possa rendere troppo rapido il passaggio di consegne, spiazzandoli. “Non ci faremo commissariare da nessuno!”, strillava ieri sera la Carfagna. Commissariati forse no. Divisi, sembra ormai inevitabile.

La Stampa 7.10.13
Per Renzi strada in discesa
verso la segreteria del Pd
di Fabio Martini

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Repubblica 7.10.13
Sabato il sindaco lancerà da Bari la sua corsa alla segreteria del Pd. L’ex leader della Fgci andrà alla manifestazione Zagrebelsky-Landini-Rodotà
Matteo prepara il suo “Lingotto”. E Cuperlo guarda ai lettiani
di Goffredo De Marchis


ROMA — Le primarie del Pd scattano sabato. Il giorno prima scade il termine per la presentazione delle candidature. A questo punto, gli sfidanti saranno quattro: Pippo Civati, Gianni Cuperlo, Gianni Pittella e Matteo Renzi. In ordine alfabetico. Il favorito è anche quello che si muoverà per primo. Già il 12 pomeriggio, il sindaco di Firenze sarà alla Fiera del Levante di Bari per l’inizio solenne della sua campagna. Lo slogan per quel giorno è già pronto. «Sarà il mio Lingotto», rivela Renzi. Un rimando esplicito al discorso con cui Veltroni avviò la sua corsa alla segreteria che si trasformò presto nella battaglia per Palazzo Chigi. A Torino nel 2007, l’ex segretario disegnò il partito avocazione maggioritaria che voleva andare molto oltre i confini della sinistra. Ancora oggi quell’intervento richiama un Pd dalle ambizioni più ampiedel 25 per cento preso alle ultime elezioni. Il sindaco di Firenze perciò punta a un discorso “storico”.
Su questa è la premessa, naturalmente le parole di Renzi saranno seguite con molta attenzione da Palazzo Chigi. Perché il ricordo del Lingotto evoca l’avvio di una stagione difficilissima per il governo Prodi allora in carica. E un segretario in pectore che pensa subito in grande, non si farà confinare nella logica delle larghe intese. Ieri Enrico Letta ha confermato che rimarrà neutrale. Non ci sarà nemmeno il candidato lettiano, come qualcuno aveva invece ipotizzato. Anche Rosy Bindi ha rinunciato, dopo averlo annunciato, a una candidatura della sua corrente. I giochi dunque sono fatti.
A Cuperlo tocca il compito di sfidante principale del sindaco. Sostenuto da giovani turchi, Massimo D’Alema e PierluigiBersani, l’ex segretario dei giovani comunisti cerca i voti della sinistra e prova a sedurre i lettiani rivendicando per sé il ruolo esclusivo di segretario, a debitadistanza dalle sirene della premiership. Una garanzia per l’esecutivo, adesso che il premier può contare su una maggioranza più forte e deberlusconizzata. La campagna di Cuperlo sarà più breve. O più lunga, secondo il suo punto di vista. «Nessun appuntamento inaugurale. Inrealtà — spiega — la mia campagna è partita da tempo e sono tanti i circoli e le associazioni che si sono organizzate in mio sostegno».
Civati, che nei sondaggi è il primo inseguitore di Renzi, non ha organizzato una sua manifestazione. Ma proprio sabato sarà all’iniziativa in difesa della Costituzione convocata da Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà e Maurizio Landini. «Una scelta simbolica — dice Civati — . Io voglio un centrosinistra più rigoroso, in netta discontinuità con il governo Letta». A giudicare dagli ultimi post pubblicati sul suo blog, anche Pittella si prepara a incalzare il premier. Letta quindi è neutrale, ma i candidati non saranno neutrali con il suo esecutivo.

Repubblica 7.10.13
Crollo record per l’appeal dell’ex premier. Ma rispetto a maggio tutti i leader perdono quota
Letta sorpassa Renzi tra i big Berlusconi doppiato da Alfano
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


OGGI Alfano vs Berlusconi, domani Renzi vs Letta? Nella burrascosa settimana appena lasciata alle spalle, le tensioni che attraversano il paese si sono manifestate nelle relazioni fra i leader. Nel Pdl, è stata messa in discussione la ventennale guida di Berlusconi, arrivando a un passo dalla spaccatura dei gruppi parlamentari. La frattura dentro il Pd è invece solo latente: riguarda il futuro, per ora rinviata dalle strette di mano (a favore di telecamere) fra il premier delle larghe intese e il sindaco rottamatore.
In realtà, tutti o quasi i principali leader, quanto ad appeal personale, hanno perso qualcosa negli ultimi mesi: un segnale della diminuita fiducia verso la classe politica. Il cambiamento più rilevante riguarda indubbiamente Berlusconi: dopo il voto di fiducia, la sua popolarità è scesa ai minimi storici. 18% di apprezzamento personale: oltre dieci punti in meno rispetto a maggio; il dato più basso tra i principali capi-partito. Alfano, ex-delfino e avversario interno, ottiene circa il doppio. É ancora preceduto dal fondatore (76% vs 63%) nella base — sempre più ristretta — del Pdl/Forza Italia. Mentre prevale in quella frazione di elettorato che si dice pronta ad abbandonare il partito di Berlusconi verso una “nuova” formazione di centro-destra, o è incerta sul voto per un partito post-berlusconiano (o “diversamente berlusconiano”). Il consenso per Alfano supera comunque quello per il segretario del Pd Epifani (33%), per i leader centristi Monti (30%), Casini (24%) e per Grillo (22%).
I primi due posti della graduatoria sono occupati dal presidente del Consiglio (57%) e dal sindaco di Firenze (53%), entrambi in calo rispetto a maggio. In particolare, i consensi per Letta sorpassano quelli per Renzi: si invertono così le posizioni rispetto a maggio. L’appeal dei due sembra oggi concentrarsi nell’area di centro-sinistra. Configurando, per i prossimi mesi, una possibile diarchia: una “divisione del lavoro”, non esente da tensioni, tra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno; ma anche un potenziale confronto per la leadership della coalizione. Una corsa nella quale Renzi parte in vantaggio: il 46% degli elettori Pd (e il 43% di quelli di centro-sinistra) lo preferisce come futuro candidato premier. Circa un terzo degli intervistati preferirebbe invece Letta. In altre parole, la partita appare ancora aperta, legata a doppio filo alle fortune dell’attuale esperienza di governo. Ed entrambi i leader pronti a giocarla.

l’Unità 7.10.13
Stefano Fassina
Abbiamo impegni per 5 miliardi: dobbiamo scegliere se favorire la rendita o la produzione
L’intervento fiscale nel 2014 sarà più efficace se innalzerà il potere d’acquisto dei lavoratori
«A Renzi dico: la priorità del Pd è il lavoro»
intervista di Bianca Di Giovanni


ROMA «Il passaggio di mercoledì scorso è stato definitivo. Potranno esserci delle scosse di assestamento, ma per il Pdl si sono poste le basi per un partito conservatore europeo, superando il modello padronale legato a Berlusconi». Così Stefano Fassina commenta le reazioni pidielline alle esternazioni di Enrico Letta sulla fine del ventennio berlusconiano. Reazioni comprensibili, ma che non cancellano il risultato ottenuto con la rinnovata fiducia in Parlamento. Per il viceministro all’Economia ora il governo esce dalla minaccia dei ricatti populisti a cui è stato sottoposto nei primi mesi della sua esperienza. Da quel giorno la politica economica si è liberata dei ricatti demagogici dei «falchi». Ora si dovrà procedere nel segno dell’equità, perché secondo Fassina solo l’equità garantisce il sostegno alla domanda interna. Ma il vero campo da gioco per l’esecutivo Letta è quello europeo: sarà a Bruxelles che bisognerà giocare la partita più importante.
Secondo lei il governo oggi è più forte? Ha cambiato i suoi connotati?
«Resta un governo di larghe intese, con due polarità, una sinistra e una destra che evolve verso una direzione conservatrice. Certo, non siamo degli ingenui, sappiamo che i processi politici implicano un’evoluzione, non sono movimenti on/off. Ma certamente possiamo dire che il 2 ottobre si è chiusa la fase in cui Berlusconi ha dominato nel centrodestra e si sono poste le basi per una destra europea e quindi anche per un sistema politico italiano europeo».
Anche a sinistra non c’è ancora una vera stabilità. Tanto per dire l’ultima, di recente Renzi l’ha accusata di non saper gestire nulla e di parlare troppo. «Dobbiamo capire Renzi: dopo il voto del 2 ottobre è spaesato. Lo scenario politico è completamente cambiato. Nonostante i suoi tentativi di spostarsi a sinistra per la competizione congressuale, continua a interpretare un riformismo subalterno al neoliberismo. Il Pd deve puntare alla radicalità del cambiamento indicato da Papa Francesco. Non possiamo rassegnarci ad avere come orizzonte la buona amministrazione. Per una forza progressista del XXI secolo rimane fondativa l’affermazione della dignità della persona che lavora. Possiamo avere un segretario che abbia il coraggio morale e politico di invocare, come il pontefice a Cagliari, la lotta per il lavoro? Oppure siamo condannati a ripiegare dietro chi stava “con Marchionne senza se e senza ma”».
C’è un punto di debolezza del governo nella politica economica: a fine anno registriamo una raffica di aumenti fiscali, dall’Iva alla Tares, che potrebbero gelare la ripresa.
«Sia l’Iva che l’arrivo della Tares sono dovute ai governi precedenti. L’Iva è stata decisa dall’esecutivo Berlusconi a settembre 2011, la Tares da Monti. Il governo Letta da quando è in carica ha ridotto le imposte decise da altri, entro i margini stretti degli obiettivi di finanza pubblica fissati da Berlusconi nel 2011. Purtroppo miracoli non se ne possono fare, si è fatto il possibile nelle condizioni date. Cioè il pagamento dei debiti della Pa che è arrivato a 50 miliardi nel biennio, di cui 30 entro quest’anno, poi l’ecobonus, la legge Sabbatini sugli investimenti con una posta di 5 miliardi. Oltre all’Imu si è pensato all’economia reale: c’è stato lo sblocco di 4 miliardi per le infrastrutture, l’allentamento dei vincoli per il fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese, la stabilizzazione di decine di migliaia di precari della Pa». Intuisco che la Tares resterà.
«Abbiamo in agenda impegni che valgono 5 miliardi: non ci sono risorse per tutto, dal rientro del deficit alla Cig in deroga alla seconda rata Imu e le missioni internazionali. È necessario fare delle scelte che privilegino l’equità e il sostegno ai produttori». Sull’Imu quindi potrebbe passare la proposta dei deputati Pd che non esenta il 10% delle abitazioni, quelle con una rendita catastale superiore ai 750 euro? «Il governo deve ancora discutere e decidere. Siamo chiamati a scegliere se sostenere la rendita o l’equità e i produttori. Penso che il passaggio parlamentare della fiducia abbia archiviato l’insostenibile pressione demagogica sulla politica economica del governo, che è stata molto forte. Il Pdl non deve guardare alle richieste del Pd, ma all’interesse del Paese. E un interesse generale è quello dell’equità, perché costituisce la più importante variabile macroeconomica per aumentare i consumi. L’altra variabile è il sostegno ai produttori per gli investimenti innovativi».
Non ritiene ingiusto che i Comuni non sappiano ancora nulla sull’Imu?
«Certo che lo è, ma i primi mesi del governo non sono stati facili. In ogni caso i Comuni avranno garantito il gettito relativo al 2012».
Oggi si parla di cuneo, ma ci sono molti dubbi sulla sua efficacia, soprattutto se si dovrà dividere l’intervento tra lavoratori e imprese.
«La discussione è in corso e domani (oggi, ndr) entrerà nel vivo con le parti sociali. Ritengo che se dobbiamo favorire la domanda interna il canale più efficace è l’innalzamento del potere d’acquisto dei lavoratori. È il più efficace, ma non è l’unico. Accanto a questo è importante anche abbassare il costo del lavoro».
Essere usciti dalla procedura d’infrazione quale vantaggio ci garantirà l’anno prossimo?
«Il margine che ci è concesso è già incluso nell’indebitamento strutturale, che invece di essere zero è fissato a -0,3. In altre parole, c’è un margine di circa 5 miliardi attualmente già previsto. C’è comunque un punto molto importante da sottolineare: il governo Letta ha come fronte fondamentale e decisivo quello di Bruxelles. In quella sede si dovrà correggere la rotta insostenibile della politica economica mercantilista dell’Eurozona. Insostenibile non solo per l’Italia, ma per la stessa Eurozona. Senza questa correzione dirotta nell’Unione è a rischio non solo la finanza pubblica, ma anche la democrazia, come dimostrano le ultime elezioni in Austria e Finlandia».

La Stampa 7.10.13
Civati: “Matteo è un centravanti
Finirà a fare il mediano” “Ha avuto una serie vertiginosa di cambi di prospettiva”
intervista di Antonio Pitoni

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La Stampa 7.10.13
Quirinale
Le tre telefonate che affossarono la candidatura di Prodi
di Fabio Martini

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Corriere 7.10.13
I prodiani e il tradimento: «Erano più di centouno»
di Francesco Alberti


Sarà ricordata come l’imboscata dei 101. Ma in realtà furono di più, «115-120». E non ci fu nulla di schizofrenico, né di lasciato al caso, in quell’agguato che il 19 aprile scorso affossò la candidatura di Romano Prodi al Quirinale: «Si trattò di un boicottaggio organizzato in piena regola». Le varie bande che decisero nel segreto dell’urna di affossare l’uomo dell’Ulivo, padre nobile e tra i fondatori del Pd, agirono quel pomeriggio come un sol uomo, unite da una tacita regia alimentata da motivazioni (personali e politiche) differenti, ma assolutamente convergenti nell’individuare nel professore bolognese un ostacolo da rimuovere, un simbolo da abbattere: «C’era chi pensava di dover vendicare Marini per la mancata elezione nelle prime votazioni; quelli che pensavano si dovesse dare una possibilità a D’Alema; quelli che si erano convinti che l’elezione di Prodi avrebbe portato rapidamente alle urne; quelli che volevano un’alleanza di governo larga, estesa al Pdl, e vedevano in Prodi un ostacolo». Ma c’erano anche coloro che volevano «far pagare a Bersani le primarie dei parlamentari e il rinnovamento della classe dirigente». E qualcuno, anche, «colpire Renzi», che si era speso per il Professore dopo aver bocciato Marini e Finocchiaro.
Sandra Zampa, giornalista, ex capo ufficio stampa di Palazzo Chigi ai tempi del governo Prodi, attuale deputato pd alla seconda legislatura e portavoce del Professore, non ha l’ambizione di fare il Sherlock Holmes, andando a caccia, nome dopo nome, dei 101 (115-120) dell’imboscata quirinalizia. Ma il suo libro — «I tre giorni che sconvolsero il Pd» (Imprimatur editore, 160 pagine, in libreria dal 9 ottobre) — a forza di seminare indizi, di fatto consegna agli elettori un identikit molto plausibile di chi quel giorno tradì. «I nostri elettori vogliono i nomi — scrive Zampa —. Ne conosco ormai un buon numero, tuttavia se pubblicassi anche un solo nome falso, commetterei un’ingiustizia». Quei tre giorni, raccontati dalla parlamentare con stile asciutto e dovizia di particolari, rappresentano per il Pd, già stressato dal deludente risultato elettorale, il big bang dei propri vizi d’origine, a partire dall’incapacità di fondere in «una nuova identità riformista le culture politiche del Novecento (ex diesse, ex popolari, ex dielle)», per non parlare poi della «deformazione ipercorrentizia» che ha mutilato qualsiasi leadership, trasformando in regola il concetto secondo il quale «le componenti rispondono prima al capocorrente e poi al segretario».
Se questo è lo scenario, non c’è da stupirsi se Romano Prodi, pur in quelle cruciali ore lontanissimo da Roma (a Bamako, Mali, per una missione Onu), captò al volo, con largo anticipo rispetto ai massimi dirigenti del partito, il disagio e l’insofferenza di larga parte dei Grandi elettori pd sul suo nome. Non a caso, rivela Sandra Zampa, «aveva chiesto che il suo nome venisse sottoposto a votazione segreta» nell’assemblea al teatro Capranica dove Bersani lanciò la candidatura del Professore. Ma non se ne fece nulla: «Si votò per alzata di mano, di fatto nessuno contò i voti». E alla fine passò l’immagine di una standing ovation . Una candidatura morta in poco meno di 24 ore. Era decollata il 18 aprile, dopo l’affossamento di Marini, da un’iniziativa di Arturo Parisi, raccolta dal bersaniano Vasco Errani, benedetta da Franceschini e ufficializzata da una telefonata in Mali di Bersani. Ma è solo nella notte tra il 18 e il 19, quando sfuma definitivamente quella che era considerata l’unica vera alternativa a Prodi (Massimo D’Alema), che il nome del Professore prende il volo. Per essere impallinato.

l’Unità 7.10.13
Decadenza, battaglia sul voto segreto
I 5 stelle al Senato sollecitano Grasso
Per il voto palese anche alcuni Pd, contro i trabocchetti grillini
De Monte, Pd: «Anche al leader Pdl conviene la trasparenza, altrimenti rischia il fuoco amico»
di Caterina Lupi


ROMA Continua il dilemma «voto segreto» o «voto palese», mentre si avvicina la data in cui l’aula del Senato dovrà dare o meno il via libera all’uscita di Silvio Berlusconi dal Parlamento. Evento che sarà comunque sancito dalla Corte di Appello, il 19 ottobre, quando stabilirà quanto tempo il Cavaliere sarà interdetto dai pubblici uffici (da uno a tre anni). A chiedere il voto palese sono, con più clamore, i senatori grillini, che hanno anche presentato al presidente Pietro Grasso una proposta di modifica del regolamento di Palazzo Madama. E proprio su Grasso preme il Pdl, soprattutto il capogruppo Schifani, perché non cambi regole e mantenga il voto segreto. A volerlo palese, però, sono anche alcuni esponenti del Pd come Felice Casson, già membro della giunta per le elezioni, perché, secondo il senatore ex magistrato, il voto in base alla legge Severino «è una norma a tutela del Senato e non c’entra niente il voto segreto», semmai, prosegue, c’entra la Costituzione.
E, come elemento di «trasparenza e chiarezza», anche Isabella De Monte, Pd, segretario della giunta per le elezioni, chiede il voto palese: «Conviene anche lo stesso leader del Pdl, che con il voto segreto rischierebbe di essere vittima del fuoco amico», afferma la senatrice. Il timore, nei democratici, è quello di franchi tiratori che «salvino» Berlusconi dalla decadenza facendo poi puntare il dito proprio sul Pd, quei «dispetti» che teme Rosy Bindi, fautrice del voto palese.
Specularmente, è ciò che dicono i Cinque stelle come Giarrusso che aveva ipotizzato addirittura 40 franchi tiratori Pd praticamente diabolici: potrebbero salvare Silvio e accusare i grillini. La nuova capogruppo di turno (nel senso dei tre mesi) Paola Taverna chiama in causa Grasso e sollecita una risposta sulla proposta di modifica delle regole e chiede che convochi subito la giunta per il Regolamento: «Non regge neanche avverte Taverna la scusa avanzata da qualche malalingua che così si ritarderebbe il voto del Senato sulla decadenza del condannato Berlusconi» perché, ricorda la 5 stelle, «il 24 aprile» il regolamento è stato modificato in un giorno.
La capogruppo, una convintissima grillina, respinge i sospetti che si stanno adensando sui senatori M5S riguardo a un eventuale salvataggio del Cav perché, giammai i pentastellati fanno «giochi dalemian-renziani», avverte Taverna, quindi il M5s «voterà compatto per la decadenza di Berlusconi».
A suggerire un escamotage (già pensato comunque dai senatori Pd), è Antonio Di Pietro dal suo blog: «I senatori hanno comunque la possibilità di rendere palese la loro azione», metodo sperimentato dall’Italia dei Valori, «basta posizionare la mano in modo da rendere chiara la propria votazione». Ovvero, usare l’indice sinistro invece di infilare le dita della mano destra nella fessura dei banchi del Senato dove sono nascosti i tasti per votare. Impossibile, così votare diversamente dalle indicazioni dei gruppi senza essere «beccati».

il Fatto 7.10.13
5stelle. Cosa non torna
Espulsioni facili, tempo perso E qualche sospetto
di Martina Castigliani


Se c’è qualcosa che il Movimento 5 Stelle ha fatto e che contribuisce a far andare in rosso il bilancio di un'intera attività è aver perso tempo. Ore a discutere di scontrini, struttura interna e dinamiche di democrazia. Diretta streaming o non diretta streaming? Voto palese o voto segreto? Le assemblee trasmesse sul canale Youtube e quelle a porte chiuse e poi raccontate di nascosto ai giornalisti, hanno riportato le storie di 157 parlamentari travolti dalle contraddizioni in un debutto in politica tutt’altro che facile.
   E il primo ostacolo su cui sono inciampati, prima di risolvere la questione, è stato anche la restituzione dei soldi. Dopo aver scoperto a maggio scorso che oltre a metà dell’indennità avrebbero dovuto rendere anche la diaria non rendicontata, non tutti si sono accodati alla politica francescana.
   Seguono così mesi di lotte, e al Restitution Day di luglio arrivano acciaccati da attacchi sui giornali e malumori interni. Tutti restituiscono i soldi, ma i rendiconti personali finiscono online e sotto gli occhi vigili degli attivisti le magagne vengono subito a galla. C’è Ivan Catalano, deputato lombardo che non ha reso pubblici i suoi conti a causa, pare, di spese eccessive. Segue Marta Grande che nei costi per l'ingresso in parlamento specifica 12mila
   euro di rimborso alloggio. Salvo poi giustificarsi: “una fideiussione per la casa che restituirò”.
   In questione anche Tommaso Currò, Nicola Bianchi, Alessio Tacconi e Lorenzo Battista. Hanno restituito poche migliaia di euro in confronto ai 16mila ricevuti per i primi tre mesi. Assestamento o adattamento ad una nuova vita? La discussione è stata spenta sul nascere ma il timore è che sia rimandata alla prossima rendicontazione.
   Chi però non sta al gioco, deve fare le valigie. E tra gli errori strategici più grandi per il Movimento si registrano le espulsioni. Tempo perso e immagine rovinata per un gruppo appena arrivato in Parlamento . Il sondaggio sul blog di Grillo decreta la fine politica a 5 Stelle di Marino Mastrangeli e Adele Gambaro. A ruota escono per decisione personale Adriano Zaccagnini, Alessandro Funari, Vincenza Labriola, Fabiola Anitori e Paola De Pin: tutti e cinque accusano la poca democrazia, con qualche sospetto su rimborsi e scontrini che alcuni di loro non hanno mai consegnato. La domanda per tutti è: tornerà la stagione delle espulsioni? Chi rischia è Paola Pinna, ma anche Ivan Catalano: due nomi già messi in discussione dal gruppo. Ma l’ultima versione vuole che Casaleggio abbia fermato tutto. Sbagliato in passato buttarsi nell’arena mediatica per epurazioni esemplari, e per ora il Movimento sembra aver imparato la lezione. Il giudice però, tra soldi non restituiti e passi falsi, resta sempre la famigerata coerenza. Se chiedi il rigore, devi offrire rigore.
   Inattaccabili i 5 Stelle non lo sono e come prove restano le leggerezze commesse in passato. L’argomento che nessuno vuole trattare ad esempio, è quello dei collaboratori personali. All’arrivo in Parlamento l’appello era stato chiaro: “Cerchiamo personale, mandate il curriculum”. Oltre 18 mila le richieste dei giovani, qualificati o meno, che avevano visto in quella chiamata alle armi una possibilità di aiutare la politica finalmente senza bisogno di raccomandazioni. Che fine hanno fatto? Di quei curricula non si è più saputo nulla. I collaboratori sono stati scelti da cerchie di amici e conoscenze, e nessuno è a conoscenza di criteri di merito e competenze.
   Di tutto il tempo perso in chiacchiere, ne risente la lista di 20 punti elettorali del Movimento. Per ognuno è stata studiata una proposta di legge, ma con un enorme buco al centro: il reddito di cittadinanza. Un progetto c’è, ma in lavorazione: un gruppo alla Camera ha parlato di 600 euro mensili, per chi non ha alcuna forma di sostentamento, mentre una parte ridotta a chi invece ha occupazioni precarie. La cifra stimata necessaria dai grillini si aggira tra i 20 e i 30 miliardi di euro. Ci stanno lavorando, ma sono ormai passati più di sei mesi. Il tempo fa quello che deve fare, passa e per chi non sa approfittare di quella breccia di rivoluzione che il Movimento ha nel bene o nel male creato nella politica italiana, resterà forse il rimpianto.

il Fatto 7.10.13
Il dissenso
“Le decisioni nascono tra Milano e Genova”
di m.c. - e.l.


CERCHIO MAGICO Teste votanti, ma non pensanti. La strategia politica del Movimento 5 Stelle si decide tra le case di Beppe Grillo, da Genova a Marina di Bibbona, e la Casaleggio Associati a pochi passi dal duomo di Milano. E’ qui che una volta ogni due settimane, di solito di venerdì, si riunisce il gruppo comunicazione del Parlamento. Sono deputati e senatori scelti per fare il corso che li aiuta a prepararsi per andare in televisione, accompagnati di solito dai fedelissimi dello staff per i rapporti con i media. Il primo incontro era stato il 31 maggio, quando l’apparizione in televisione era stata sdoganata dalle voci ufficiali. Va bene la televisione, ma a patto che vadano persone scelte e preparate. Così quando Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Carla Ruocco, Laura Castelli, Vito Crimi, Nicola Morra, Carlo Sibilia e Manlio Di Stefano erano stati scoperti per la prima volta salire le scale della Casaleggio associati avevano detto: “Tutti i parlamentari parteciperanno a turno, noi siamo solo i primi”. Poi però le cose sono andate diversamente. Nei corridoi degli uffici del gruppo a Montecitorio e Palazzo Madama il malumore sulla questione è tanto: “Cosa si dicono e perché non siamo invitati?”. A metà settembre, la riunione per imparare ad andare in tv si era trasformata in una riunione con Beppe Grillo in video conferenza. Il sospetto da parte di chi non è mai stato invitato al circolo milanese è che lì venga decisa una linea che gli altri devono poi rispettare. “Non siamo mai stati chiamati. Leggiamo di questi incontri dalla stampa. Ma perché loro sì e noi no se siamo tutti portavoce allo stesso livello?”, rispondono gli esclusi. Ma il nuovo capogruppo alla Camera Alessio Villarosa spegne ogni dubbio: “Sono 12 lezioni per imparare a comunicare bene. Finito il corso toccherà agli altri”. La replica di Grillo e Casaleggio è altrettanto chiara: “Nessuno ha mai interferito con il lavoro dei parlamentari. Ovvio che se però ci sono persone che non si riconoscono più nei principi guida del Movimento sono pregati di andare”.

l’Unità 7.10.13
Ior al setaccio
Trecento milioni su conti sospetti
Secondo lo Spiegel, rintracciati dai consulenti Usa incaricati di fare chiarezza nella banca vaticana
di Paolo Soldini


Nelle casse dello Ior ci sarebbero più di mille conti illegittimi, intestati a persone che non avrebbero alcun titolo per usufruire dei servizi della banca vaticana. Su questi depositi ci sarebbero stati, almeno fino a questa estate, non meno di 300 milioni di euro e si tratterebbe «nella grande maggioranza dei casi» di fondi neri. È quanto ha raccontato ieri l’edizione on line dello Spiegel, sulla base di documenti di cui la redazione sarebbe entrata in possesso. Si tratterebbe di rapporti riservati del Promontory Financing Group, la società di consulenza che all’inizio di quest’anno è stata incaricata dal nuovo presidente dell’istituto nominato da Benedetto XVI, Ernst von Freyberg, nell’ambito della sua politica di tolleranza zero nei confronti di «qualsiasi violazione di leggi, regole e regolamenti». Per la moralizzazione dello Ior è molto impegnato, come si sa, Papa Francesco, che ne ha fatto uno dei primi obiettivi del suo pontificato.
Stando allo Spiegel, venti superesperti contabili del Promontory Group, con i quali collaborerebbero i consulenti di un «importante studio legale interna-
zionale», avrebbero preso visione di tutti i circa 30mila conti depositati e ne avrebbero trovati più di mille intestati a persone o società che non avrebbero alcun titolo per fruire dei servizi dell’istituto. Che non sarebbero, cioè, né esponenti del culto, né impiegati o pensionati del Vaticano, né dirigenti di organizzazioni cattoliche o di enti di beneficienza.
PARADISO FISCALE
Si tratterebbe di «privati cittadini» che avrebbero approfittato illecitamente dei vantaggi della banca vaticana: la grandissima discrezione e l’esenzione da ogni tassa sui rendimenti. Almeno fino al 2011, quando il Vaticano, dopo molte resistenze, ha accettato di sottoporre lo Ior alla legislazione internazionale antiriciclaggio. Non c’è stato, inoltre, alcun controllo sulla provenienza dei soldi versati sui conti ed esisterebbero riscontri sull’origine criminale di molti depositi. In effetti, avrebbero scritto nel loro rapporto i verificatori del Promonty, l’istituto ha funzionato a tutti gli effetti come una banca operante nei paradisi fiscali, garantendo la massima discrezione ai clienti e rifiutando ogni collaborazione con le autorità degli altri stati.
Il settimanale tedesco ricorda gli scandali che negli anni passati hanno investito o sfiorato lo Ior, dal sospetto riciclaggio di capitali della mafia ai soldi impiegati per manipolare il mercato delle azioni in Italia alle transazioni sospette di somme miliardarie al ruolo centrale che la banca vaticana ebbe, nel 1982, nel crac del Banco Ambrosiano cui seguì la morte misteriosa di Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge di Londra. Negli anni ’90, ricorda sempre lo Spiegel, passò attraverso i conti dello Ior una parte consistente del denaro utilizzato per corrompere i politici nella stagione di Tangentopoli.
Anche il predecessore di von Freyberg, il banchiere italiano Ettore Gotti Tedeschi che fu brutalmente allontanato dall’istituto, era a conoscenza dei delicati problemi legati ai conti illegittimi e li avrebbe confidati in un dossier, affidato alla sua segretaria, da consegnare in caso fosse necessario a quattro persone da lui indicate. Secondo Gotti Tedeschi, i conti delle persone che non avevano diritto a depositare i loro soldi nell’istituto sarebbero stati una delle cause delle gravi difficoltà in cui lo Ior era precipitato.
La nuova direzione della banca vaticana ha affrontato il problema alle radici annullando i conti illegittimi dei «laici», che sono stati invitati a cercarsi altri rifugi per i loro denari. Lo Spiegel fa notare, però, che resta ancora incerto il futuro dello Ior, richiamando un’affermazione che Papa Francesco fece nel luglio scorso: «Alcuni dicono che è meglio che sia una banca, altri dicono che dovrebbe diventare un fondo per gli aiuti, altri ancora che dovrebbe essere chiuso». Per ora una decisione non è stata presa.

Corriere 7.10.13
Il federalismo alla rovescia
di Sergio Rizzo


Il nostro curioso federalismo alla rovescia non smette di presentare conti salatissimi ai contribuenti. Dopo le Regioni alle prese con deficit sanitari allucinanti, tocca ora ad alcuni grandi Comuni battere cassa per tappare le voragini dei loro conti. Succede a Roma dove il sindaco appena arrivato chiede aiuto per sanare il passivo ereditato: 867 milioni. Ma arriva dopo, Ignazio Marino, rispetto ai suoi colleghi di Napoli e Catania. Senza poter escludere che altri ne seguiranno l'esempio. La galleria degli orrori che ieri ha pubblicato Il Sole 24 Ore passa da Palermo e Genova, sfociando in una Milano che deve reperire circa 500 milioni entro fine anno.
I Comuni incolpano il taglio dei trasferimenti, sostenendo di aver sborsato il prezzo più caro per risanare le finanze pubbliche. Vero. Anche se poi questo prezzo finisce ribaltato in buona parte sullo Stato centrale. Il che dovrebbe indurre certi amministratori a un serio esame di coscienza.
Chi rivendica autonomia avrebbe l'obbligo di ricordare che questa implica responsabilità. Il federalismo da molti invocato dovrebbe basarsi su tale principio basilare. È diventata invece una parola vuota, comodo paravento per gestioni sconsiderate e clientelari senza essere chiamati a risponderne. Peggio ancora: scaricando pure gli effetti sull'intera collettività.
Valga per tutti il caso di Roma, scossa negli ultimi anni dalla Parentopoli di migliaia di assunzioni nelle municipalizzate. Il Campidoglio ha 25 mila dipendenti, numero cui si deve aggiungere quello del personale delle partecipate, che il sito Internet indica in 37 mila. La sola azienda di trasporto locale, l'Atac, paga circa 12 mila stipendi e dal 2008 ha accumulato 600 milioni di perdite. Per offrire un servizio che certo non può essere considerato degno della capitale d'Italia.
Sappiamo che è un problema di ogni città, piccola e grande. Senza contributi pubblici nessuna azienda di trasporto locale avrebbe conti in equilibrio. Chi sale su un autobus, un tram o una metropolitana paga infatti un prezzo politico che copre una frazione del costo effettivo. Il fatto è che non di rado quella frazione, per come sono gestite moltissime aziende, è infinitesima. Il resto viene così caricato sulle spalle di tutti gli italiani: chiamati quindi a sopportare non solo il peso legittimo del servizio universale, ma anche quello illegittimo di sprechi, inefficienze e clientele locali.
Al riguardo, i dati della Confartigianato parlano chiaro. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali sono cresciute in Italia del 54,2 per cento, il doppio dell'inflazione e ben 24 punti in più rispetto alla media europea: nel periodo dal 2003 al 2013 la sola tassa sui rifiuti è lievitata del 56,6 per cento, contro il 32,2 per cento dell'eurozona. E ciascuno può giudicare se la qualità sia migliorata in proporzione.
Una tassa occulta gigantesca non più accettabile. Da spazzare via obbligando tutti i Comuni alla trasparenza assoluta dei costi dei servizi, affinché i cittadini possano regolarsi di conseguenza quando sarà l'ora del voto, e approvando senza indugio la norma che imporrebbe la liquidazione delle municipalizzate in dissesto. Se si vuole restituire alla parola «federalismo» il suo vero significato, è il minimo che si possa fare.

Corriere 7.10.13
Legge su femminicidio al traguardo
Rinviare suonerebbe come un delitto
di Alessandra Arachi


In Italia ogni sessanta ore un uomo uccide una donna. Quasi in un caso su due quell'uomo è un fidanzato, un marito, un convivente o, più spesso, un ex di ognuna di queste relazioni. Si sono scomodati fior di psichiatri e criminologi per stabilire che questo reato, oggi chiamato femminicidio, ha radici profonde e culturali.
L'uomo italiano uccide una donna per affermare il suo potere di maschio nei confronti di chi, ai suoi occhi, ha tentato di sovvertire l'ordine dei ruoli stabilito ai tempi delle caverne. In Italia le «caverne» esistevano ancora a negli anni Sessanta.
Chi ricorda Franca Viola? Era una bella ragazza bruna siciliana che nel 1966 rifiutò di sposare l'uomo che l'aveva stuprata. Non l'aveva mai fatto nessuna, prima. Prima di Franca ci si sposava con il proprio violentatore così da evitare l'onta del disonore. Il matrimonio riparatore era previsto dalla legge. Dopo Franca è cominciato un faticosissimo cammino di civiltà che in queste ore vede il nostro Parlamento impegnato in una lotta contro il tempo. C'è in aula a Montecitorio il decreto sul femminicidio che il governo ha varato alle soglie di Ferragosto, con quell'urgenza scandita dall'orrore dei delitti e dal ritardo nei confronti dell'Europa dove, quasi dappertutto ormai, il femminicidio è punito da tempo con una legge dedicata. Il decreto del governo italiano sul femminicidio deve essere convertito in legge entro il 15 ottobre, altrimenti scade e si deve ricominciare tutto daccapo.
È una corsa contro il tempo perché il decreto deve poi avere il via libera del Senato. Ma il tempo è diventato quasi amico da quando, venerdì scorso, proprio Montecitorio ha trovato la mediazione sull'irrevocabilità della querela.
Il dibattito sulla revocabilità o meno della querela avrebbe potuto essere infinito, infiniti i problemi etici, culturali e psicologici che si trascina dietro. Invece si è arrivati alla mediazione politica e tanti emendamenti sono stati ritirati. Quindi i tempi tecnici, anche se stretti, per arrivare al traguardo ci sono. Sarebbe un delitto, è il caso di dirlo, mollare il colpo sull'ultimo miglio di questa interminabile maratona di civiltà.

il Fatto 7.10.13
I figli del Kgb
Benvenuti in Oligarkhija, regno senza leggi e confini
di Leonardo Coen


Oligarkhija è il favoloso regno sovranazionale dei miliardari russi che dispongono di sterminate ricchezze, concentrate per lo più nei paradisi fiscali, nel Montenegro, in Israele, in Svizzera, ancora a Cipro nonostante la crisi, a Singapore, in Austria e in Gran Bretagna. Un regno di illimitate pretese. Infatti Oligarkhija è sempre in espansione: non passa giorno senza che un oligarca russo acquisti una proprietà oltre i confini della Santa Madre Russia. Case a Parigi. Terreni in Sudamerica. Vigneti di Chablis in Francia. Ville sul lago di Como. Grattacieli a Panama. Aziende negli Stati Uniti.
   E isole in Grecia. Come Skorpios, nel mar Ionio, rifugio dorato di Onassis e Jackie Kennedy. Un colpo da 100 milioni di dollari scuciti senza batter ciglio dall’avvenente e giovanissima Ekaterina Rybolovleva, ventiquattrenne figlia di Dmitri Rybololev, 46 anni, il cui patrimonio ammonta a 9,1 miliardi di dollari. Originario di Perm, negli Urali, Rybolovlev deve la sua fortuna alla Uralkali, mega-società di fertilizzanti con capitale di 35 miliardi di dollari.
   Il tipico atteggiamento di un oligarca che si rispetti è quello di alternare affari sul filo del rasoio e vizi da satrapo. Il buon Dmitri si è tolto lo sfizio di regalarsi in Florida la faraonica villa che fu di Donald Trump, pagata 95 milioni di dollari. Fanatico di calcio, si è comprato l’As. Monaco, allenato da Claudio Ranieri, attualmente in testa al campionato francese con il Paris St. Germain degli sceicchi qatariani. In tanto profano, un pizzico di sacro: ha finanziato la costruzione di una cattedrale ortodossa russa a Cipro dedicata a san Nicola. Insomma, un perfetto oligarca di seconda generazione. Quella che non pesta i piedi a Putin, come invece osarono Boris Berezovskij, eminenza grigia del presidente Boris Eltsin, trovato impiccato nel bagno della sua casa di Ascot il 23 marzo scorso, e Mikhail Khodorkovskij, in galera da dieci anni.
   Affari sul filo del rasoio
   Per sopravvivere nel difficile mare di Oligarkhija bisogna saper navigare con accortezza, spiegò una volta il magnate del nickel Vladimir Potanin, altro tycoon di peso (14,5 miliardi di dollari in tasca, al quarto posto nella classifica dei russi più ricchi). É presidente della Interrot Holding, con interessi vastissimi nei metalli e nelle banche. É stato protagonista di una cruenta battaglia tra la Norilsk e la Rusal. In un’intervista del 1998, a chi gli chiedeva in che cosa consistesse il suo potere di oligarca, rispose: “Quale potere? Io non posso distruggere lo Stato. Ma lo Stato può distruggere me”. A differenza di Rybolvlev, si è dato alla beneficenza e partecipa alla campagna The Giving Pledge lanciata da Bill Gates e Peter Buffett, i più ricchi dei ricchi, assicurando - ma sarà poi vero? - che si impegnano a donare la metà del proprio patrimonio.
   Chi invece non ci pensa affatto è Igor Sechin. Protagonista qualche mese fa di un blitz finanziario in Italia. Amministratore delegato del colosso petrolifero Rosneft (leader mondiale energetico), è accompagnato dall’inquietante soprannome di “uomo più spaventoso del mondo”. Un po’ per il suo aspetto fisico non proprio friendly, un po’ per il devastante ed occulto potere: ex ufficiale del Kgb, è di Pietroburgo come l’amico Putin di cui è stato consigliere fin dai primi tempi della sua scalata al Cremlino. Nessuno, meglio di Sechin, rappresenta la personificazione dell’oligarca-manager di Stato. Ebbene, Igor il terribile è planato in Italia e ha rilevato il 21% della Saras, la compagnia petrolifera dei Moratti. Una partnership che è stata subito definita dagli esperti piuttosto “ingombrante”. Perché dietro la Rsoneft si individua la lunga mano del Cremlino.
   E qui ritorniamo a Oligarkhija. Oggi come oggi ha per capitale Mosca, con tutto quello che geopoliticamente significa, e per capitali un decimo del denaro mondiale. Secondo recenti stime del centro di ricerche statunitense Global Financial Integrity di Washington dal 1994 al 2011 in Oligarkhija c’è stato un flusso finanziario illecito di 764 miliardi di dollari (552,9 in entrata, 211,5 in uscita). Questa massa imponente di quattrini ha alimentato (e continua a farlo) un’economia in nero che non conosce crisi e che è valutata al 35% del prodotto interno lordo russo. A proposito di Cipro, il Gfi definisce l’isola un’autentica “lavatrice del denaro sporco russo”. Dunque, la principale dependance di Oligarkhija, prima sua sorgente e destinazione degli investimenti diretti russi all’estero. Un estero che per Oligarkhija non ha confini, poiché il suo territorio virtuale si estende in ogni dove. La città in cui si concentra il più alto numero di miliardari russi infatti non è Mosca bensì Londra, tanto che ormai viene chiamata Londongrad: i russi, si lamentano i giornali britannici, l’hanno invasa e oggi sono più di 400 mila quelli che ci vivono, per scelta o per necessità. I magnati sono stati subito accettati dalla upper class inglese.
   Il più noto di costoro è Roman Abramovic, proprietario della squadra di calcio Chelsea dal 2003: ha comprato appartamenti, case, ville, castelli, yachts, aerei. É lì che gestisce il suo impero internazionale.
   Zar di Oligarkhija si è autonominato l’autoritario Vladimir I°, al secolo Vladimir Vladimirovic Putin, eletto tre volte alla presidenza della Russia: alla testa del Paese dal 2000 - se si esclude il mandato interinale del “delfino” Medvedev - ha ripreso il controllo dell’economia nazionale. Con il pugno di ferro. Per educare gli oligarchi “della prima generazione”, ossia quelli delle selvagge privatizzazioni statali dell’era Eltsin, al nuovo corso del Cremlino, ha messo kappaò il più ostile di loro, Mikhail Khodorkovskij, con un arresto tanto spettacolare quanto drammatico e costretto all’esilio il più insidioso, Boris Berezovskij. Dopo di che ha rinazionalizzato le imprese considerate strategiche (petrolio, materie prime, aeronautica, apparato militare-industriale) e ha piazzato i suoi uomini, quasi tutti ex agenti dei servizi segreti come lui, alla testa delle società. Gli oligarchi hanno dovuto adeguarsi. I più docili sono stati adottati dal Cremlino e hanno consolidato i loro imperi. Con una variante, tipica peraltro dei fratelli coltelli. L’attualità oligarchica vede un nuovo livello di scontro. Da un lato, il cospicuo gruppo filoputiniano. Dall’altro, quello filomedvediano. Uno psicologo direbbe: la rivolta del figliol prodigo. Lotta intestina. Putin predica l’egemonia totale. Medvedev, che non ha militato nel Kgb e tantomeno si considera un siloviko, ossia un uomo delle strutture di potere (militari, polizia, dogane), ma un liberal.
   Le fazioni contrapposte
   Non ha grandi speranze. Gli oligarchi putiniani sanno benissimo che il loro destino è legato a doppio filo a quello del Cremlino. Tra i seguaci di Medvedev spiccano i bagatil, i ricconi del Daghestan , perché la moglie del suo braccio destro Arkadij Dvorkovich proviene da un potente clan della repubblica caucasica.
   Un episodio che ha messo a nudo il dissidio fra i gruppi di pressione economici putiniani e medvediani riguarda i contratti olimpici per i Giochi Invernali di Soci del 2014. Durante un’ispezione agli impianti, in diretta tv Putin ha criticato aspramente i lavori eseguiti dall’impresa dei fratelli daghestani Akhmed e Magomed Bilalov: i costi del trampolino olimpico si erano moltiplicati. Temendo di finire in gattabuia, i fratelli Bilalov hanno preferito trovar rifugio all’estero. I filomedvediani hanno gridato alla trappola. Fatto sta che gliene è capitata un’altra. Il caso UralKalium, il più grande produttore mondiale di potassio, nelle mani di Suleiman Kerimov, un altro riccone di Daghestan (nella top ten dei miliardari russi, patron della squadra di calcio Anzhi dove militava Eto’o). I putiniani hanno giocato in modo assai sofisticato contro di lui, coinvolgendo persino il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko tramite la BelarusKalium, partner-concorrente minore di UralKalium. Kerimov, da vecchia volpe, si è tirato fuori, cercando di restare equidistante ed evitare così di rimanere travolto dalla faida. E pensare che solo due anni fa, in una riunione molto riservata, il “delfino” Medvedev pensava di potercela fare contro Putin, al punto da convocare in una riunione a porte chiuse i dirigenti di 27 grandi imprese. Il succo dell’incontro fu: “Siete con me o con Putin?”. Con te, caro Dmitri, gli disse Alisher Usmanov, il numero uno di Oligarkhija (“vale” 17,6 miliardi di dollari, è il padrone dell’Arsenal, interessi in Twitter e Facebook, è suo il quotidiano economico liberale Kommersant che spesso fa le pulci alla politica del Cremlino), sai quanto desideri una Russia più libera, più moderna, più occidentale, più tecnologica. Ma non tutta: Oligarkhija è... oligarchica.

il Fatto 7.10.13
Il detto russo
“Mille anni senza libertà”
di Stefano Citati


   Mille anni di storia e neanche un giorno di libertà”, dicono i russi. Aforisma di un popolo riunito sotto un regno, costituitosi a nazione, ma mai divenuto padrone del suo destino.
   Molti invasori sono passati attraverso le steppe euroasiatiche prima che la Russia divenisse il nome di uno Stato unitario, allargatosi per acquisizioni successive sotto la spinta costante di un leader. Il primo storicamente esposto come vessillo della “grande madre Russia” nell’immaginario sovietico è Aleksandr Nevskij (film del 1938 di Eisenstein sul proto-zar del XIII secolo) del ducato di Novgorod.
   Già nel granducato di Mosca, erede del principato medievale da cui deriva anche il castello fortificato - Cremlino - che diverrà summa architettonica delle forme di governo, si sviluppa la suddivisione del potere: i boiardi (“uomini ricchi”) signori feudali dominano le terre, spesso in conflitto con il signore del regno. Un impasto politico-militare-religioso (baluardo della fede cristiana ai confini dell’impero romano d’Oriente) che forgia la figura dello zar: il caesar russo. Il soprannome del primo il “Terribile” Ivan sarà rievocato negli anni più feroci dell’Urss (le purghe staliniane del 1937-1938) la cui rivoluzione s’inspirava - come tutte da allora - a quella francese, Terrore di Robespierre incluso.
   Passando attraverso le conquiste territoriali, governative e tecniche di Pietro il Grande che fece sorgere dalle paludi San Pietroburgo, e di Caterina la Grande, la Russia raccoglie i venti culturali che spirano dall’Europa occidentale, fino a divenire culla della rivoluzione - dal nichilismo al comunismo - che porteranno nel 1861 all’abolizione della servitù della gleba (Aleksandr II Romanov).
   Il regime sovietico non fece che trasformare in parte la struttura sociale russa, motiplicando gli snodi burocratici-amministrativi dove si annidava il potere discrezionale dei singoli, certo non abolendola. Poi gli oligarchi post’Urss presero il posto dei boiardi medievali.

l’Unità 7.10.13
Il dubbio di Pietro che cambiò Ingrao
Camilleri racconta il leader del Pci: un viaggio dalla poesia alla politica
di Andrea Camilleri


L’anticipazione La lezione dello scrittore sull’ex presidente della Camera fa parte del primo volume della collana «Carte Pietro Ingrao» in uscita per le edizioni Ediesse

INGRAO, LO HA SCRITTO E DETTO TANTE VOLTE, NASCE POETA, AMANTE DELLA LETTERATURA DEL SUO TEMPO E, IN SEGUITO, SI AVVICINA AL CINEMA ISCRIVENDOSI CON L’AMICO fraterno Gianni Puccini all’appena nato Centro sperimentale di cinematografia dove, tra parentesi, insegnava anche il russo Pietro Sharov al quale, dagli anni Cinquanta e fino alla sua morte, mi legherà una profonda amicizia. Ingrao ci racconta del suo entusiasmo giovanile per le scoperte di Chaplin e dei grandi registi russi, del valore dell’insegnamento di un Umberto Barbaro e degli incontri formativi con un Rudolf Arnheim. Insomma, pare avviato a una brillante carriera nel cinema quando, del tutto improvvisamente, abbandona il Centro sperimentale (...).
Ingrao ne fornisce una sua spiegazione. Scrive che l’abbandono del Centro sperimentale fu motivato in sostanza dal contraccolpo provato per l’inizio della guerra di Spagna. Considero questo un punto assolutamente nodale del suo percorso, ma Ingrao mi pare che si limiti sempre a farne breve cenno. Forse per un alto senso di pudore. Perché penso che la guerra di Spagna invece sia stata per lui qualcosa di più di un tragico impatto, sia stato un autentico, squassante cortocircuito. Penso che Ingrao ebbe in quel momento la lucida percezione di quello che in realtà veniva a significare la guerra di Spagna e ne ebbe esistenziale sgomento. Su di lui, sulla sua sensibilità, gravavano già da tempo quelli che Vittorini avrebbe chiamato «i dolori del mondo offeso» e la guerra di Spagna consisteva in un insopportabile aggravio dell’offesa (...).
Ecco, sono convinto che Ingrao venne allora preso da un dubbio che indirizzò diversamente la sua vita: il dubbio cioè che l’arte da sola e in sé, e in quel momento specifico, fosse assolutamente inadeguata a far barriera contro il fascismo(...). Quindi dal dubbio nasce un meditato agire. Il dubitare di Ingrao è sempre, come dire, la messa in moto di un motore che attivamente elabora il che fare più attinente al fine proposto. In altri termini, non è mai la messa in dubbio del perché, ma del come (...).
Ma c’è un altro punto nodale nella vita politica di Ingrao che, ai miei occhi, ha la stessa valenza di quello del 1936. È la richiesta da lui fatta, nel 1966, nel corso dell’XI congresso del partito, di libertà del dissenso. Com’è logico supporre, una tale ardita richiesta all’interno di una struttura rigida, gerarchica e centralista non può essere che la disperata, e ormai non più cancellabile somma finale di un innumerevole dubitare accumulato nel corso degli anni. E questa somma finale ha una precisa definizione: dissenso.
Perché questo dissenso? Scrive Ingrao: «In quella mia rivendicazione di libertà del dissenso c’era non solo il drammatico stimolo che era venuto dalla rivelazione dei delitti di Stalin, ma una convinzione più profonda che aveva anche a che fare con una riflessione sull’esistere. Mi muoveva non solo la tutela della libertà d’opinione, ma ancor più la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l’incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto».
«Un farsi del molteplice». È in sostanza, anche questa, una crisi esistenziale e politica che nasce dalla crisi di una certa concezione ristretta della politica e postula una sua rifondazione nel recupero di quella che Hanna Arendt chiamava la politica perduta, vale a dire quella messa in rapporto diretto tra gli uomini, attraverso un’azione che corrisponda alla condizione umana della pluralità, della molteplicità. Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica scrive la Arendt questa pluralità è specificamente «la» condizione non solo la condicio sine qua non, ma la condicio per quam di ogni vita politica(...).
Allora, qual è la funzione positiva del dubbio secondo Ingrao? Sentiamo le sue parole: «Mi appassionava la ricerca. E il dubbio mi scuoteva, vorrei dire: mi attraeva. Vedevo in esso un’apertura alla complessità della vita. Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare: aprirsi al ‘molteplice’ del mondo...». E ancora: «Il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio. E avvertivo anche una ricchezza per quell’interrogarsi, cercando. Come se il mondo nella sua problematicità si dilatasse intorno a me». «Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare», afferma Ingrao (...).
Il dubbio allora nasceva non dall’opportunità ma dalla necessità di accogliere o meno le inevitabili modificazioni che quelle basilari opinioni via via subivano nel convulso procedere della Storia, senza che però ne intaccassero la verità di fondo. È stato il secolo che ha avuto, rispetto a quelli che l’hanno preceduto, una massa, proprio nel senso che vien dato in fisica a questo termine, di gran lunga superiore. La qualità del dubbio di Ingrao perciò non attiene alla sfera del sistematicismo o se volete dello scetticismo, ma assume il carattere di un procedimento metodico di volta in volta tendente a un fine, a uno scopo: e cioè la verifica del fondamento di una ulteriore certezza. Ingrao non dubita di tutto ciò che è dubitabile, forse questa posizione è più di un filosofo che di un politico, Ingrao limita il suo dubbio a quando scopre che su un dato argomento, su una precisa posizione, si può dubitare della possibilità del dubbio. È un dubitare a posteriori. Una postulazione di verifica.
Ma pur entro questi limiti, l’esercizio del dubbio produce in lui, come egli stesso ha affermato, una sorta di dilatazione del mondo. Il dubbio quindi come mezzo di conoscenza, cioè un dubbio di marca cartesiana per il quale ogni dubbio doveva
risolversi nella scoperta di un nuovo territorio su cui avventurarsi. E su questi nuovi territori di conoscenza Ingrao si è sempre inoltrato non per il gusto dell’avventura intellettuale in sé, ma quasi per assolvere un dovere politico e umano(...).
Mi sbaglierò, ma io sono convinto che del suo impegno politico egli sia rimasto maggiormente legato al periodo 1944-1945, quando, in una grigia Milano con il piede straniero sopra il cuore, lavorava all’edizione clandestina de «l’Unità», quando il vivere e l’agire quotidiani erano un azzardo, quando la possibilità dello scacco era dietro ogni angolo, quando si era uomini e no.

l’Unità 7.10.13
Olivetti: «Il ’900 di un grande protagonista»
di Bruno Gravagnuolo


IL MONDO DI INGRAO IN VENTI VOLUMI. È L’AVVENTURA EDITORIALE NELLA QUALE MARIA LUISA BOCCIA E ALBERTO OLIVETTi si sono imbarcati con l’editrice Ediesse e il Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato. Di questa avventura quello di Camilleri è frammento simbolico. Tratto da uno dei primi due volumi che escono a giorni. Che sono Lezioni per Pietro Ingrao, tenute nel 2005 alla Camera da Andrea Camilleri, Alberto Olivetti, Edoardo Sanguineti e Mario Tronti (pp. 140, Euro 12). E Pietro Ingrao, La Tipo e la notte. Scritti sul lavoro 1978-1996, a cura di Francesco Marchianò, con saggio di Stefano Rodotà (pp. 202, Euro 14). Poi verranno un Saggio inedito sul sessantotto, con uno scritto di Alfredo Reichlin, una selezione di testi e scritti parlamentari sulla democrazia, con saggio di Walter Tocci, e poi ancora tutto il dibattito attorno a Ingrao poeta, a partire dal Il dubbio dei vincitori del 1986 e da un’intervista con Aldo Garzia sulle liriche ingraiane. Con lettere, interventi e testi di Anceschi, Fortini, Zanzotto, Giudici, Sciascia, Rossanda, Macchia, Luperini.
E allora ne parliamo proprio con Alberto Olivetti, filosofo dell’arte a Siena «ingraiano storico» definizione che non disdegna che oltre che conoscitore delle «Carte Ingrao» (quelle regalate dal leader al Crs) sta ben dentro l’opera in corso. «Non è proprio un’Opera Omnia ci dice ma un lavoro di selezione diacronica del mondo di Ingrao, dalla metà degli anni Trenta ad oggi. Sono scritti, immagini, foto, video, spezzoni e lavori più compiuti, che Ingrao già catalogava da tempo con la sua collaboratrice Renata Rizzo...».
Riordiniamoli.
«I filoni sono tanti. C’è l’Ingrao dirigente, saggista e pubblicista. L’Ingrao poetico e teorico dell’arte, e infine la fitta corrispondenza con un mare di personaggi eminenti: Bobbio, Dossetti, La Pira, Luzi, Sciascia, Chiarini, Sbarbaro e Arnheim...».
Già, Arnheim, che con Ungaretti e l’ermetismo, è una delle chiavi per entrare nell’anima di Ingrao. È così? «Proprio così. Le origini del vissuto e dell’impegno politico di Ingrao stanno lì. Nel tema estetico e artistico. In Leopardi, per esempio e ben prima di Gramsci o Marx. E a contatto con le avanguardie del 900, e il pensiero più avanzato sulla “settima arte”. Nel cinema fin dagli anni giovanili cercava ritmo, coinvolgimento vitale e “combinazioni di senso” in grado di “figurare” e far erompere la soggettività moderna. Lo stesso vale in poesia, che per Ingrao è montaggio dalla frammentazione...». Non erano velleità giovanili?
«No, a parte il rapporto decisivo con Arnheim, elabora per Visconti la sceneggiatura ineditadi una Novella di Verga Jeli il pastoreE partecipa sempre con Visconti alla sceneggiatura di Ossessione». Adesso però Olivetti è venuto il momento di «buttar-
la in politica», altrimenti la accuseranno di trasformare Ingrao in un poeta minore del 900...
«Ingrao è stato e resta un grande capo politico del comunismo italiano. Ma l’opera cerca di far capire il comunismo libertario di Pietro Ingrao. In bilico tra liberazione delle soggettività oppresse e dedizione totale al Fine. Almeno fino al famoso 1956...». È lì la vera cesura?
«Esatto, dopo il 1956 cessa la dimensione manichea e Ingrao indaga il neocapitalismo e le potenzialità liberatorie del nuovo fordismo. Della nuova classe operaia con i suoi bisogni. Di lì nasce anche il dissenso che lo porta diritto al XI Congresso, al “non sarei sincero”..».
Il dissenso si protrae, quando Ingrao lascia la Presidenza della Camera e studia le forme dello Stato? «Sì, perciò in quegli anni nasce il Crs. Con anticipazioni fulminanti su riforma dello stato e crisi di rappresentanza: roba attualissima, persino profetica». Per finire due domande: il 1989 e l’Ingrao di oggi. Che dice Pietro della vostra opera?
«L’Ingrao del “no” alla Bolognina è tutto da indagare e pubblicare, e lo faremo. Si attestò su una posizione poco incisiva, forse. Quanto al Pietro di oggi, è ben felice del “cantiere”. Anzi, stiamo pure scrivendo insieme una sorta di dialogo esemplare sui massimi sistemi: non-violenza, soggetti, forme associative, mondo globale. Titolo: Verso la Grotta di Tiberio, in ricordo di tante lunghe passeggiate insieme a Sperlonga».

Corriere 7.10.13
Quant'è astratta la democrazia atea
Flores d'Arcais vuole relegare i credenti in una condizione di minorità politica
di Marco Ventura


«La democrazia è atea, imprescindibilmente». Paolo Flores d'Arcais pianta la sua tesi al centro del libro «La democrazia ha bisogno di Dio» Falso! (Laterza). La sbatte in faccia ai tanti per i quali, da Tocqueville in poi, la democrazia non sta in piedi senza Dio. La democrazia di Flores d'Arcais è il regno dell'autonomia e dell'autosufficienza dell'uomo. Si fonda su un «ethos repubblicano» che è «potere-di-tutti-e-di-ciascuno». È una società di «liberi/eguali» in cui valgono solo fatti, logica e razionalità; una comunità «che si dà da sé la propria legge», dove il cittadino argomenta «sotto la propria responsabilità, con la propria testa, utilizzando i soli strumenti che lo rendono con-cittadino».
Ne discende l'incompatibilità con la democrazia di fonti d'ispirazione superiori, «dogmatica volontà irrelata», sovranità divina alternativa a quella umana. Se vuole stare nella dinamica democratica, non resta al credente che abbandonare ogni pretesa di dedurre norme direttamente o indirettamente dalla propria fede. Dio può sopravvivere alla democrazia, secondo l'autore, solo accettando l'«esilio dorato nella sfera privata della coscienza» e ingiungendo ai suoi rappresentanti in terra di non interferire col governo repubblicano. Dio, infatti, non può che dividere la società e drammatizzare i conflitti; producendo una «ghettizzazione reciproca di stampo iper-feudale, cuius religio eius lex», oppure una «guerra civile di religione, per imporre come legge, erga omnes, la volontà del proprio Dio».
Giacché sempre di questo si tratta, scrive il filosofo: di ammantare della Maestà di Dio le proprie «ubbie, frustrazioni e altri spurghi dei fondali psichici». I tentativi di sostenere il contrario, per Flores d'Arcais, sono fallaci; o peggio, pericolosi. Vengono dall'intransigenza cattolica di Wojtyla e Ratzinger, dal cripto islamismo di Tariq Ramadan; soprattutto, dai «democratici stanchi di lottare», come l'«agnostico» Habermas. L'ambizione di legittimare Dio nella sfera pubblica è invariabilmente, per l'autore, «mero revival di tradizionalismo teocratico», rinuncia all'autodeterminazione, «atavico richiamo di nostalgia gregaria stratificata nella più antica materia grigia, pronto a riemergere con prepotenza non appena vacilli la speranza».
Nella logica repubblicana, il credente è «civicamente minus habens perché incapace di interiorizzare autonomamente la scelta pro-democrazia e in grado di riconoscerla solo affidandosi» all'autorità religiosa di riferimento. Se vuole integrarsi nel sistema democratico, egli deve pertanto appendere Dio all'attaccapanni, come fa lo scienziato prima di entrare in laboratorio: uscendo così dalla propria «condizione permanente di minorità».
L'alternativa dell'autore, la democrazia «priva di fondamenti», sembra a sua volta una fede, prodotta dalla medesima immaginazione che partorisce Allah o Shiva. Flores d'Arcais afferma invece che la sua è «una ideologia» sopra le parti, che «fa corpo unico con la democrazia», un «habitus psicologico e morale» che non ha pretesa di universalità, agli antipodi delle tante divinità che soggiogano l'uomo.
Il limite della proposta di Flores d'Arcais sta nel suo dualismo. Nella divisione del mondo in due emisferi: i credenti da una parte; i non credenti dall'altra. E nel destino inevitabile di ciascun universo: il credente dovrà liberarsi negando l'Altro da sé con cui si relaziona; mentre spetterà al non credente respingere la tentazione di contemplare alcunché oltre la «nuda identità astratta» della cittadinanza.
Si tratta di un dualismo potente, radicato, i cui argini sono tuttavia rotti ogni giorno dalle correnti della realtà. Credenti e non credenti si mischiano. Fedi religiose e fedi secolari si confondono. Gli dei si moltiplicano. In seno alla stessa comunità, spesso all'interno della stessa persona. Chi è emancipato? Chi responsabile? Chi capace di decidere «con la propria testa»? È succube o consapevole la ragazza francese che porta il velo? È emancipato o schiavo il redentorista che langue in una cella cinese? È cittadino o fedele l'ateo che idolatra Wall Street? Le categorie «credente» e «non credente» fotografano solo in piccola parte la realtà. Lo stesso autore deve issarsi sopra la fenomenologia del credere, costruendo un'astrazione che funzioni a prescindere, un ideale che si sottrae al giudizio della realtà.
La provocazione di Flores d'Arcais non è per questo meno stimolante: sfida il credente a dimostrarsi libero e il non credente a onorare il sogno dell'autore; riposa su un'esigenza di emancipazione, di non «indifferenza etica», che innesca una competizione virtuosa. Potrebbe mettere fuori gioco i credenti, l'autore, nella pagina finale, quando condanna l'«illusione che un Altro ci possa salvare in luogo del nostro impegno, della faticosa passione di essere cittadini». È invece una conclusione che abbracceranno molti credenti non inquadrabili nella categoria di chi ha privatizzato Dio per farsi cittadino. Perciò può servirci, la democrazia atea di Flores d'Arcais, per mettere in discussione schieramenti e ideologie. Ma non ci è utile per capire e governare un mondo che centrifuga credenti e non credenti, scompigliando ogni fede. Se prescindono da questa realtà, non ci servono né la democrazia atea, né quella religiosa.

Corriere 7.10.13
E Dante immaginò il potere globale
di Luciano Canfora


Nella Monarchia, la più compiuta e moderna delle sue opere dottrinali, Dante si schierava contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava l'uguaglianza delle due autorità. Il suo cuore batteva per l'impero.

L'utopia moderna di Dante Immaginava un impero universale come garanzia di pace di LUCIANO CANFORA L a Monarchia, che non è solo la più compiuta delle opere dottrinali di Dante, ma anche la più moderna, fu messa dalla Chiesa all'Indice dei libri proibiti, nel primo «indice» elaborato dal Sant'Uffizio nel 1559. La ragione di ciò è molto semplice: ad una lettura disincantata appare evidente che il grande poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea, si schierava — col suo trattato politico — contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità. Pur consapevoli del rischio di frettolosi cortocircuiti, possiamo ben collocare quel trattato al vertice di una nobile, ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». Quel celebre e davvero memorabile discorso parlamentare di Cavour, malvisto dal sanfedismo del tempo suo, era in realtà sommamente rispettoso della dignità e della libertà della Chiesa. È storia nota come la Chiesa abbia impiegato moltissimo tempo a comprendere questo e a prenderne atto e ad agire di conseguenza: agevolata in ciò dalla definitiva perdita del potere temporale, ma rallentata in tale processo dal diverso e spesso altalenante orientamento dei pontefici volta a volta regnanti. I quali — in quanto sovrani assoluti e depositari perciò di poteri vastissimi — possono imprimere rapide e radicali inversioni di rotta. Come vediamo ancora oggi.
Resta il fatto che il cuore di Dante batte per l'impero (si passi l'espressione metaforica). Nel primo libro di questo trattato sulla monarchia, Dante dimostra che la monarchia universale è necessaria al benessere terreno in quanto permette, tramite la pace universale che ne è il portato, il fine supremo: l'attuazione e il pieno dispiegamento dell'intelletto in ambito speculativo e in ambito pratico. Nel secondo libro rivendica, come già nel Convivio, al popolo romano il diritto all'impero. Nel terzo affronta il tema più delicato: la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno del «Vicario». E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso all'intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell'uomo — cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia — è autonomo rispetto al fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui l'uomo è guidato dalla «rivelazione». Come l'impero è autonomo dalla Chiesa, così la ragione lo è rispetto alla fede.
Questo impianto teorico spiega bene perché a Giustiniano, cioè all'imperatore cesaropapista per eccellenza, venga riservato un posto di così grande spicco nel Paradiso di Dante e a lui tocchi di tessere l'esaltante elogio di Giulio Cesare. Elogio che stride con il privilegiato trattamento ammirativo riservato al nemico implacato di Cesare, cioè Catone Uticense, quale guardiano del Purgatorio.
Ma soprattutto non sfuggirà la forte carica utopica che è racchiusa in tutto il trattato: l'idea di una pace universale conseguente all'unico governo universale. Tale governo però viene concepito non già come sostitutivo dei molteplici poteri statali e comunali già esistenti, ma è sovraordinato ad essi. Non si tratta di «un governo di tutti i popoli fusi in un solo Stato, ma di una suprema giurisdizione, fatti salvi gli Stati particolari con proprie leggi e propri governi» (Luigi Russo). Non è chi non veda in tale concezione l'utopia anticipatrice di una istanza che sempre fu viva, e che al tempo nostro è antidoto indispensabile all'arroganza di singole potenze inclini ad attribuirsi unilateralmente il ruolo di gendarmi del mondo.

Corriere 7.10.13
L'apprendimento comincia in fasce
Ecco perché siamo nati per leggere
di Gian Arturo Ferrari


A prima vista «Nati per leggere» non pare il nome di una associazione destinata a promuovere la lettura e i libri presso i bambini piccoli e piccolissimi. Che sembrerebbe invece richiedere denominazioni più alate, più evocative, più allusive. Che so, «Liber», «Librus», «Pagina», «Lectura» e via dicendo. O più infantili, «Libromio» o «Miolibro», «Coccolibro», «Cicciolibro» e anche qui via dicendo. «Nati per leggere» invece, brusco e spicciativo com'è, ha più l'aria di un comando, di una sollecitazione a sbrigarsi. Non è un invito, ma un'asserzione perentoria. E anche, aggiungiamo pure, non così immediatamente persuasiva. Perché mai dovremmo essere nati proprio per leggere? Siamo nati per tante cose, certo, tra le quali anche per leggere. Senza dire che la maggior parte di quelli che nascono — nel mondo in generale, ma in particolare in Italia — finiscono per non leggere del tutto o per leggere molto ma molto saltuariamente.
E allora che finalità sarebbe mai quella che dopo essere stata enunciata in modo così imperativo viene in realtà realizzata solo da una minoranza piuttosto esigua? Eppure, nella sua voluta e un po' legnosa severità, «Nati per leggere» ha tre grandi vantaggi. Il primo è quello di legare la lettura alla nascita, o per meglio dire di proporla come la vera nascita, di trasformarla da un fatto culturale in un fatto naturale, quasi biologico. Il secondo di essere una sorta di rivendicazione e di protesta per un mancato riconoscimento e dunque per converso una specie di dichiarazione di intenti, un programma d'azione. Il terzo di essere, nella sostanza, vero. Siamo nati, come spiegò qualche tempo fa Francois Jacob, per trasmettere il messaggio genetico che abbiamo ricevuto. E sta bene. Ma è anche vero che questo non è un tratto specifico della specie umana, dell'Homo sapiens, bensì è comune a tutto il vivente, animale o vegetale che sia.
Se vogliamo venire più vicino a noi e cercar di isolare ciò che davvero identifica e determina l'umanità e il suo destino, il che cosa ci stiamo a fare al mondo, finiamo obbligatoriamente per passare dalla scrittura e dunque dalla lettura. In un senso profondo ed essenziale noi siamo davvero nati per leggere. Nella sua sbrigativa ruvidezza «Nati per leggere» dice da un lato la verità e dall'altro proprio dicendo la verità si propone come slogan, manifesto, motto di una nuova evangelizzazione alla lettura e soprattutto alla lettura precoce. Che è iniziata, l'evangelizzazione, nel 1999, quando alcuni bibliotecari e alcuni pediatri hanno deciso di mettersi insieme, di dar vita alla associazione e di iniziare in concreto l'intervento sui bambini. Negli ultimi dieci anni, da un lato l'attività si è estesa e oggi vi sono impegnate più di 1.000 biblioteche e 800 pediatri che lavorano a oltre 500 progetti locali. Ma dall'altro si sono venuti modificando alcuni concetti di base, primo fra tutti quello di precocità.
Ognuno di noi, che siamo grandi e forti lettori, conserva e mantiene (in realtà restaura e ricostruisce) preziosi ricordi delle sue prime letture. Io rivedo (o credo di rivedere...) la rilegatura verde e i disegni liberty in bianco e nero di un libro delle fiabe di Andersen. Risento (o credo di risentire...) la voce di mia nonna che, come in una fiaba, mi legge un libro di fiabe. Ma questi ricordi, come gli innesti di memoria dei replicanti di Blade Runner, sono già contaminati, plasmati, modificati dalla lettura. I libri si sono insinuati in noi e si sono trasformati in noi.
C'e un prima, un momento anteriore in cui è scattata la molla, la porta segreta si è aperta, siamo entrati nel mondo dei libri e i libri sono entrati in noi. Quando? Quando è successo? Oggi le neuroscienze sono in grado di dare una risposta molto più accurata di quindici anni fa. E la risposta è: prestissimo. Non solo nei primissimi anni, ma nei primi mesi di vita. Lì, quando di lettere e di alfabeto non è proprio il caso di parlare, ma di immagini e di colori sì. E ancor prima quando vi sono solo suoni, ma tra questi suoni c'è una voce, e la voce — calda, affettuosa e materna — parla e racconta, e parla e racconta proprio a te, lì si è iniziata ad aprire la porta segreta che ha fatto dei neonati o dei bambini piccoli che siamo stati i lettori di oggi. E dunque se si vuole portare alla lettura quelli che oggi ne sono privati o esclusi bisogna cominciare presto, prestissimo. È vero, naturalmente, che non è mai troppo tardi. Ma questa è una verità individuale, vale per i singoli e sottintende un impegno, uno sforzo e una fatica immani. La verità dei grandi numeri è al contrario che il treno perduto nella primissima e prima infanzia non ripassa più, non lo si può più riprendere, che chi è rimasto escluso allora lo resterà per sempre.
Il primo e più immediato obiettivo di «Nati per leggere» e del suo stratega e presidente, il pediatra Giorgio Tamburlini — un italiano di frontiera (è triestino) asciutto e risoluto — è proprio diffondere il più possibile questa consapevolezza, far sì che mano mano divenga comprensibile a tutti i genitori che il destino dei loro bambini si gioca in gran parte lì, tra quei libretti colorati. Poi potrà venire tutto il resto. E alla fine anche questi bambini, come i grandi e forti lettori adulti di oggi, potranno dimenticare come hanno cominciato a leggere, crederanno di averlo sempre fatto e costruiranno su questo gli opportuni ricordi. Perché saranno non programmaticamente, ma nella realtà, nati per leggere. E cresciuti leggendo.

«Stanno restaurando Bassiano di Latina»
Corriere 7.10.13
Francescani e Templari, sapore di Medioevo
di Giovanni Russo


Stanno restaurando Bassiano. In un'Italia dove tanti tesori si vanno sgretolando, il fatto che si sia dato inizio ai lavori per salvare un minuscolo borgo medievale è una notizia che conforta. «Per noi comporta un grosso sforzo finanziario», dice il neoeletto sindaco Domenico Guidi, «ma non avevamo scelta. In certe situazioni, procrastinare gli interventi equivale a renderli inutili: se le mura di Bassiano crollano, nessun restauro ce le potrà restituire».
Bassiano è un piccolo comune in provincia di Latina, situato a 600 metri d'altezza, ingiustamente famoso soprattutto per il prosciutto, peraltro squisito. Perché «vale il viaggio», direbbe una guida del Touring, per le mura medievali che l'avvolgono come in un abbraccio; le scalette, i vicoli e i passaggi nascosti; il panorama mozzafiato dei monti Lepini che all'improvviso ti si para di fronte, se ti affacci dalla terrazza del belvedere o da spiragli che paiono aprirsi per magia. Furono i Caetani, che dominarono qui per secoli, a edificare nel XIII secolo sia le maestose mura castellane sia il palazzo baronale, che ingloba al suo interno case e botteghe. Qui hanno trovato rifugio genti in fuga dalle invasioni barbariche e i fraticelli osservanti la regola di San Francesco, di qui sono passati i Templari lasciando il segno nel Santuario del Crocifisso.
Mi ci sono recato anch'io al santuario. E ho avuto la sensazione di essere ritornato nella mia Lucania agli anni della fanciullezza: tre chilometri di strada che taglia boschi di faggi e di castagni, dove il mezzo di trasporto è ancora il mulo con tanto di basto e pesanti carichi di legname, il cane che si affanna a indicare il percorso peraltro obbligato. Di queste carovane ne abbiamo incrociate parecchie, sia all'andata che al ritorno: erano tutti operai che lavoravano nelle industrie nella provincia di Latina, mi dicono indicandomi i cavalieri, che in seguito alla crisi si sono ritrovati disoccupati e sono ritornati al lavoro di nonni e bisnonni.
Il Santuario del Crocifisso è in cima a un cucuzzolo, da dove non riesci a scorgere una casa o una strada: solo boschi verdissimi, fitti, impenetrabili allo sguardo. Si accede prima ad una grotta, i cui affreschi in fase di restauro risalgono alla fine del Trecento, che mi ricorda le chiese rupestri di Matera, poi alla piccola cappella, che custodisce un famoso Crocifisso ligneo al suo interno. L'ha scolpito da Fra' Vincenzo Pietrosanti nel 1673: per rendere la sofferenza di Cristo più realistica, si impose una sorta di tortura, costringendosi a lavorare inginocchiato su cocci di bottiglia e sassi acuminati. E in effetti è raro e sconvolgente vedere un Cristo in croce dal corpo tanto sanguinante.
Tornati a Bassiano, andiamo a visitare il museo delle Scritture dedicato all'editore, stampatore, umanista ed inventore del punto e virgola Aldo Manuzio, che ignoravo fosse nato qui nel 1449. Prima di ridiscendere a valle ci fermiamo a mangiare in un agriturismo, dove ci viene offerta una coppa di gelato al latte di capra, dal gusto intenso e delicato, che conquista anche un refrattario ai sapori sconosciuti come il sottoscritto.

La Stampa 7.10.13
Veronesi “Il caso Lizzani?  La vita è un diritto non un dovere”
Umberto Veronesi conduce da anni una battaglia a favore
dell’eutanasia
L’oncologo: poter morire con dignità è una conquista ancora da fare.
Ci vuole una legge”
di Flavia Amabile

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Corriere 7.10.13
Il figlio di Lizzani e l’idea della fine
«Voleva morire con mia madre» «Lo diceva sempre, ma non era malato. E aveva ancora tanti progetti»
La depressione. Negli ultimi tempi era esasperato perché sentiva di avere un corpo senza più forze con un cervello che funzionava ancora benissimo
di Ester Palma

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Corriere 7.10.13
Il tempo che scorre e il significato dell’esistenza
«Si può vivere bene a 90 anni Il segreto è ritrovarsi in armonia con la memoria»
Da Sofocle ai giorni nostri: il viatico per la serenità
di Domenico De Masi

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La Stampa 7.10.13
Carlo Lizzani, raccontò la strage di Meina tra lo sconcerto degli ebrei
Il regista morto sabato a Roma nel 2007 aveva girato il film storico a Baveno
di Chiara Fabrizi

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La Stampa 7.10.13
Kant e gli altri
Ogni genio ha le sue sregolatezze quotidiane
di Claudio Gallo

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Corriere 7.10.13
Quel sistema che il corpo capisce e il cervello no
di Edoardo Boncinelli


Possiamo immaginare la Terra come una succulenta arancia sbucciata e mondata che ci mostra nettamente tutti i suoi spicchi che, nella sua rotazione su se stessa, espone uno dopo l’altro alla luce del Sole. Così che mentre in un posto può essere mezzogiorno, in un altro è pomeriggio inoltrato e in un altro ancora
è appena l’alba. Gli spicchi corrispondono ovviamente ai fusi orari; ma se si osserva una foto della Terra ripresa da un satellite, tutto questo non si vede: la superficie è continua e semmai coperta da banchi di nubi. I fusi orari sono quindi una nostra invenzione e convenzione, mentre la rotazione terrestre è un fatto naturale. La suddivisione della superficie terrestre in un certo numero di fusi orari è quindi una delle tante ibridazioni fra culturale e naturale. Un’ibridazione che possiede però una sua prepotente evidenza. Quando prendevo l’aereo per New York alle 11 di mattina da Milano e atterravo alle 14, per il mio corpo e per il mio sistema nervoso erano le 20. Quindi avevo voglia di andare a cena e dormire. Peggio ancora nel tornare in qua dall’America: si sbarca prestissimo la mattina con alle spalle una notte insonne. Il nostro corpo non sa niente di tutte queste nostre diavolerie; ha sonno e basta, oppure non ha sonno per nulla anche se è sera tardi. Tutti sanno che il fenomeno si chiama jet lag e molti ne soffrono parecchio; vai a spiegare alle nostre cellule che l’intero piano orario della giornata è stato alterato! Il trucco, lo sanno tutti, è quello di comportarsi secondo l’ora del Paese di arrivo e non secondo l’ora del luogo di partenza. E poi mangiare poco, prima, durante e dopo il viaggio, perché fra la nostra digestione e la sonnolenza c’è un filo diretto. Si può soffrire per una convenzione? Sì, se non si prepara adeguatamente il proprio corpo. Fusi orari e ora legale sono i fenomeni nei quali la natura si scontra con la cultura; e noi viviamo per lo più immersi nella natura del nostro corpo, non nella cultura del nostro cervello. Ma usare il cervello serve comunque.

Repubblica 7.10.13
Revelli segreto
In un libro postumo dello scrittore le leggende, i miti, la religione delle campagne piemontesi raccontate dalle testimonianze di tanti anonimi protagonisti
di Nuto Revelli


Esce in questi giorniIl popolo che manca di Nuto Revelli Einaudi, pagg. 235, euro 19,50 Anticipiamo alcune delle testimonianze inedite raccolte nel volume

Mia mamma veniva da Monticello e raccontava che c’e una a Pocapaglia, la
masca (strega) Miciulina. Passava sempre dai vicini, li aiutava nei lavori in campagna, ma era propr una masca. Poi l’han bruciata, è proprio la verità. Un panettiere l’ha messa sop un fasiné(sopra una fascina), l’ha bruciata viva, perché faceva del male, faceva rompere le gambe, dicevano che era lei, l’hanno bruciata. Ma lei l’ha conosciuta ancora.
IL LATTE LEVATO
Sí che ho sentito parlare d’Cin d’Luleta, püpava le fumne, toglieva il latte. Meom püpava sempre, ’n po da na part e ’n po da l’àutra. Era normale farci togliere il latte, il latte faceva bene a chi lo succhiava, il latte delle donne è meglio di quello delle vacche, era necessario farlo. Il latte delle donne fa ingrassare, quelli che succhiavano il latte ingrassavano, rifiorivano, un viso rotondo cosí.
LA BIBBIA
Sarà quasi da cinquant’anni che leggo la Bibbia. Non sono mai stato ammalato, mi dà serenità la Bibbia, trovo molti esempi che mi insegnano a non fare del male agli altri, capo primo. Mi trovo male in mezzo alla popolazione di oggi. Io sono sempre allegro, mi piace fare le cene, mangiare e bere, con qualche amico, due o tre. Vado poco in paese. C’è troppa invidia. Anche tra vicini si portano odio. Che modo è di vivere senza aiutarsi uno con l’altro. Allora io prendo la macchina vado ad Alba.
La Bibbia la leggo mattino e sera. Che uno creda o non creda che ci sia un Supremo può leggere la Bibbia. Secondo me Dio ci ha lasciati liberi, chi crede crede, chi non crede… con la Bibbia mi trovo bene, lì ci sono molti esempi che non ci sono su altri libri.
In chiesa non vado mai. Vado a qualche sepoltura degli amici. Non mi trovo ad andare in chiesa perché ho visto che ha fatto tanti errori la chiesa secondo me. Ha sbagliato. Sono andato una volta dai Geova ad Alba.
IL RABDOMANTE
Andavo co a segnè l’eva, il rabdomante. Ho letto nella Bibbia che è anche proibito. Tutti gli acquedotti che hanno fatto. Mi ci sono messo da giovane. Un pendolo con un’asta di nocciolo. Un orologio da tasca, o un pendolo, o un piombino… Il piombino per sapere sempre più o meno la profondità, e la verga per trovare il punto dov’è. Poi faccio una croce dove sento che c’è l’acqua e so dire la profondità, se non c’è roccia, un metro più un metro meno. Ho trovato più di duecento pozzi. E c’è chi ti vuole bene e chi ti prende in giro. Poi non ti danno niente, se possono non ti danno niente. Loro guadagnano dei milioni, quelli che fanno lo scavo… a me danno cinquemila lire.
GESÙ E I TEMPORALI
Qui, per tradizione, come incomincia a tempestare la gente brucia un ramo d’olivo benedetto o dà fuoco a una fascina. Chi piange, chi prega, chi bestemmia. I vecchi credono nella scaramanzia, come losnadicono: «Oh Gesú Maria…» sperando di tenere lontani i fulmini. Si racconta che nei tempi passati c’era chi legava il crocefisso a una corda, e poi lo trascinava lungo i filari, e imprecava dicendo: «Guarda un po’ che cosa hai fatto!»
NON CI CREDO CHE L’UOMO VADA SULLA LUNA
Se ci credo che l’uomo va sulla luna? Non ci credo. Saranno anche andati… Anche Minetu non ci crede. Una cosa è sicura, hanno sconvolto tutta l’atmosfera… ma noi non siamo intelligenti da capire… Mia nonna è morta nel 1927 all’età di ottantacinque anni, era nata nel 1842. Diceva sempre: «Questo secolo è il secolo delle invenzioni, è un secolo crudele, un secolo di guerre. Il secolo che verrà, il secolo del 2000, se il mondo andrà ancora avanti, sarà il secolo dell’ignoranza». Forse, se ricordo bene, queste profezie le aveva imparate dal parroco di allora.
LA DESMÈNTIA (TOGLIERE IL MALOCCHIO)
Credevamo alle masche, l’aviu na pau santa d’le masche .
Contavano tante storie. Alla frazione Giaculet c’erano tante masche. C’erano delle donne che la gente dicevano che erano masche, noi stavamo sempre ritirati perché avevamo paura. Erano poi masche vere?
Nel 1927 una ragazza di undici anni, una dell’ospedale, Maddalena, vedeva una Madonna nelle fessure delle nostre rocche. Saliva tanta gente fin lassú, venivano anche da lontano, portavano via la terra a grossi pacchetti. C’erano delle donne che giuravano di vedere anche loro la Madonna: «Oh, mi l’ei vista, mi l’ei vista ».
Mi sun na desmentiòura. Tolgo il male da una gamba o da un braccio. Quando l’acqua bolle allora la verso in un piatto col túpinet (pentolino). L’acqua allora monta tutta su nel túpinet rovesciato sul piatto, sparisce dal fondo del piatto, che pruvidensa del Signur, neh? Se la desmèntia va male l’acqua non monta. E bisogna sempre pregare facendo la desmèntiae pregare un bel po’ non fa poi del male, fa bene. Me l’ha insegnata mia madre la desmèntia.
E l’ho già insegnata alle mie figlie.
LA VALANGA
Toni Bartavlon, abitava sotto la badia in una casa un po’ isolata. Tutte le mattine all’alba era solito dare la sveglia ai vicini,
giapava: «Oh, seve ’ncu ’ndürmí?» (Dormite ancora?). Un mattino i vicini si stupiscono: «Stamattina Toni non è venuto».
E guardano a monte: «Oh crispa, j’è pi nen la ca» (Non c’è più la casa). Nella notte era scesa la valanga, aveva coperto la casa, dalla neve spuntava solo il ciuffo di un castagno. Allora forano la neve, scavano una galleria, arrivano alla porta per delivrelu (liberarlo). Toni Batlavon era tranquillo, in casa: credeva che fosse ancora notte, erano le due dopo mezzogiorno.

il Fatto 7.10.13
Italia spremuta
L’olio made in Italy ormai lo fanno i cinesi
di Thomas Mackinson


Milano Lo scaffale del supermercato è un trionfo di antichi frantoi e colline toscane. Ma spesso è semplicemente un falso. Perché da anni l’olio italiano non si fa quasi più, lo si fabbrica. Lo abbiamo regalato ai signori del falso made in Italy che han fatto man bassa di marchi nazionali. Da allora ci è toccato comprarlo da loro e mandarlo giù, anche se del buon extravergine che era sulle nostre tavole è un ricordo annacquato di miscele industriali spagnole, tunisine e greche smerciate come prodotto italiano. Ora potremmo fermare i predoni stranieri dell’oro verde, riprenderci un pezzo di quella tradizione che rischia invece di finire ancora più lontano, nelle mani di concorrenti cinesi pronti a spremere il buon nome del made in Italy.
PERSA la moda, la chimica, l’industria dolciaria, la nautica il copione si ripete oggi sulla filiera agroalimentare dell’olio d’oliva che proprio in queste settimane si rimette in moto per la campagna 2013-2014. Comunque andrà la raccolta - stimata al rialzo del 10% con una produzione superiore a 5 milioni di quintali - il prezzo al chilo lo farà sempre Madrid. Perché l’Italia è il primo rivenditore al mondo, ma il primo produttore è la Spagna.
   Un paradosso che nasce con lo shopping di storici marchi nazionali acquistati dalla grande industria olearia senza che nessuno alzasse un dito per tutelare un settore che vale due miliardi e impiega manodopera per 50 milioni di ore lavorative. È accaduto venti anni fa, nel 1993, con l’operazione Cirio-De Rica-Bertolli a favore della multinazionale Unilever, sta accadendo oggi con il gigante iberico Deoleo – 1,5 miliardi di fatturato, un quinto del mercato globale dell’olio d’oliva - che cinque anni fa ha acquistato tre grandi marchi nazionali. Da allora in Italia l’extravergine non si fa più, si fabbrica e si trasforma. E tutto è cambiato.
   Le grandi industrie avevano intravisto la possibilità di “vestire” di italian sounding miscele comunitarie che un frantoio tradizionale non l'hanno mai visto e di farle arrivare sugli scaffali del mondo a prezzi imbattibili, con etichette italiane. La materia prima è coltivata su larga scala in Tunisia, Grecia, Marocco e Spagna secondo modelli intensivi. Le olive non vengono avviate immediatamente alla spremitura ma sono stoccate e poi sottoposte a processi industriali di miscelazione, addizione correttiva e deodorazione. Viaggiano poi per nave e per terra e infine arrivano negli stabilimenti italiani per le ultime lavorazioni, imbottigliamento, etichettatura. Le miscele comprate a 25-50 centesimi al chilo arrivano così sugli scaffali a 2-3 euro, col risultato che il consumatore porta in tavola un olio-low cost, commestibile ma di modesta qualità, pensando d’aver fatto un buon affare.
   NULLA DI ILLEGALE, visto che la normativa europea ha assecondato le istanze dei grandi dell’olio consentendo la commercializzazione con marchi nazionali ancorché frutto di produzioni di origine comunitaria, purché indicata in etichetta. Certo, basta poi andare in qualunque supermercato per riscontrare la difficoltà di leggerla. In ogni caso per i primi anni le cose sono andate benone: anzi, grazie al network di Deoleo i marchi nazionali Bertolli, Dante, Carapelli si sono spinti in 50 Paesi e sono penetrati nei mercati emergenti. Nel frattempo, però, la posizione dominante dell’industria olearia straniera ha costretto la filiera corta delle 6mila produzioni agricole nazionali nel recinto delle denominazioni geografiche protette, percepite come costose dal consumatore in un confronto impari tra oli altrettanto “italiani” ed “extravergini”. Ora qualcosa nel sistema si è inceppato. E forse potrebbe sollecitare una riflessione pubblica sulla politica agricola italiana, proprio a partire dall'olio.
   Il più grande tra i giganti, appunto Deoleo, è in ginocchio e rischia di trascinare a terra i gioielli dell'olio italiano che ha messo in pancia. Nell'ultimo anno l'aumento del prezzo della materia prima (+30%) e la crisi dei consumi (-10%) hanno i ridotto i margini di un modello industriale basato sulla quantità. Le banche che a suo tempo salvarono il gruppo hanno deciso oggi di sfilarsi, segno che quel modello non è più ritenuto profittevole. La controprova arriva anche dal prezzo: il 35% di Deoleo potrebbe essere ceduto tra i 210 ai 280 milioni di euro, poco più di un terzo di quanto sborsò cinque anni fa per il solo marchio Bertolli. Insomma, l'Eldorado dell'olio industriale è arrivato a un punto di non ritorno?
   “Chi pensava di spremere all'infinito il credito cumulato dall'Italia nella vendita di immagine di prodotti di qualità e di cultura del buon cibo è costretto a ricredersi. Il made in Italy non è una risorsa inesauribile”, spiega Coldiretti esprimendo preoccupazione per il destino dei tre marchi in vendita che potrebbero finire in mani cinesi, le uniche a contare su un portafoglio largo e ad aver investito massicciamente in colture d'olivi in nord Africa. Eppure anche su questa vicenda la politica non c'è, nonostante lo Stato sia chiamato a raccogliere i cocci sostenendo la cassa integrazione per i primi 55 addetti, su 285, negli stabilimenti di Tavarnelle (Firenze) e Inveruno (Milano).

l’Unità 7.10.13
La giungla di reti sotterranee che frena la banda larga
di Adriana Comaschi


BOLOGNA L’ampliamento della banda larga, molto inseguito dai governi e perno dell’aAgenda digitale, a oggi rimane uno dei talloni d’Achille del Paese. La diffusione di una rete capillare in fibra ottica per portare banda ultralarga e reti di nuova generazione a una fetta il più ampia possibile di popolazione appare una chimera su gran parte del territorio nazionale.
Eppure qualcosa si muove. Sempre più enti locali si pongono il problema e l’obiettivo di partire da qui per dare nuovo slancio all’economia del territorio. Un segnale lanciato anche in un recente convegno a Bologna, che ha già ricevuto una prima risposta proprio sotto le due torri. È targato Bologna infatti Invento, software per il catasto elettronico delle infrastrutture del sottosuolo: uno strumento inedito, che si candida a dare il «la» a una nuova fase di espansione delle telecomunicazioni di ultima generazione.
Uno dei principali ostacoli nella posa di nuovi cavi sta infatti nei tempi e nei costi degli interventi, in un sottosuolo dove si sono andati affastellando gasdotti, cavi per la pubblica illuminazione, fognature, tubature dell'acqua e quindi reti di telecomunicazione. Una vera giungla sotterranea, di cui a oggi nessuno degli attori possiede un quadro completo e dettagliato. Fatta eccezione per le pubbliche amministrazioni, le quali però dispongono di mappe disperse – oltretutto in forma cartacea tra i diversi uffici. Ecco allora l'idea di uno spin off della Fondazione Guglielmo Marconi, alle porte di Bologna: i Laboratori Marconi Spa cominciano un paio di anni fa a sperimentare un software che riunisce in un’unica panoramica le infrastrutture esistenti. «I vantaggi per le amministrazioni a cui ci rivolgiamo sono evidenti spiega il direttore generale dei Laboratori, Roberto Spagnuolo Sapere come muoversi permette di andare a scavare a colpo sicuro, con tempi ridotti e dunque meno disagi per traffico e collettività. Mentre gli operatori intenzionati a cablare risparmierebbero sulla posa, visto che soprattutto le reti di illuminazione e di teleriscaldamento offrono spesso condotti liberi o utilizzati solo in parte, a fronte di un costo per gli scavi di 100 euro a metro lineare». Il software è agile, capace di ricondurre i dati delle diverse reti sotterranee a un formato comune, quindi di organizzarli a seconda delle esigenze dei Comuni con vari tipi di visualizzazione. Invento viene offerto come servizio a canone (il costo potrebbe però venire ‘scaricato’ in parte sugli operatori interessati a cablare), in collaborazione con Telecom che immagazzina i dati forniti dalle amministrazioni per il Catasto sulla sua Nuvola Italiana. Dati navigabili in rete, di cui si salvaguardia però la privacy. Un tasto scottante, quest’ultimo, vista la riluttanza dei diversi fornitori delle reti sotterranee comprese a volte multiutility a partecipazione pubblica a fornire le proprie mappe, indispensabili per «alimentare» un catasto. Per ora Invento si sperimenta a Bologna, Varese e Monza e Riccione.
Sta di fatto che Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Emilia-Romagna, Marche e Umbria riunite a convegno concordano: una mappatura elettronica delle infrastrutture è indispensabile, per territori e pubbliche amministrazioni che vogliano puntare sull’innovazione. La Regione Lombardia ha fatto da apripista, con una legge del 2012 con cui obbliga tutti i Comuni sopra i 10 mila abitanti a realizzare un Catasto delle reti. In Emilia-Romagna si lavora invece a un modello di Catasto federato, «serve un’alleanza con i privati nota Dimitri Tartari che lo segue per la Regione altrimenti i comuni più piccoli non potranno permettersi questa operazione». Il primo passo, dunque, ancora una volta è normativo, anche se può partire dal basso: tocca ai municipi promuovere la raccolta di dati sulle proprie infrastrutture sotterranee. Il resto si candida a farlo Invento.