giovedì 10 ottobre 2013

l’Unità 10.10.13
Rodotà, Landini e Bonsanti presentano la manifestazione di sabato a piazza del Popolo
Non solo Costituzione «Cambiamo la politica»
di Massimo Franchi


ROMA Una manifestazione «trasversale» per «cambiare una politica arrivata al grado zero». Lo strumento per questo «obiettivo molto più ambizioso di costruire un partito» è «l’attuazione completa della Costituzione più bella del mondo», definita «La via maestra», titolo della manifestazione. Il suo primo articolo sarà stampato sullo striscione che aprirà il corteo, sorretto da Don Ciotti, Gustavo Zagrebelski, Lorenza Carlassarre, Gino Strada e Maurizio Landini, i «magnifici cinque», come li chiama Sandra Bonsanti, coordinatrice «dell’allegra e composita brigata». È stata lei a metterla assieme in difesa della Costituzione fin dal 2 giugno scorso a Bologna, perdendo però per strada l’Anpi che ha contestato come «l’iniziativa prospetti piattaforme politico-programmatiche».
Con la speranza di «mettere in marcia un popolo nuovo, nessuno escluso, perfino Papa Francesco», scherza Landini, sabato pomeriggio dalle 14 scende in piazza il popolo che dice «No» al progetto di modifica che viaggia ormai spedito in Parlamento, specie per la parte che «punta a modificare la forma di governo con un accentramento del ruolo dell’esecutivo».
NO A PIAZZA SAN GIOVANNI
Messa subito nel cassetto per il timore di non riempirla l’ipotesi piazza San Giovanni, si è scelta la più piccola piazza del Popolo, che sarà raggiunta da piazza della Repubblica con un percorso inedito, passando sopra piazza di Spagna. Ieri mattina alla presentazione è andato in scena il grande freddo con il Movimento 5 Stelle e con Beppe Grillo. Chi candidò lo stesso Stefano Rodotà a presidente della Repubblica, regalandogli «fin troppa pubblicità», come riconosce lo stesso professore, in piazza non ci sarà e non ha dedicato nemmeno una riga all’evento. Facile però che a manifestare ci siano moltissimi dei suoi elettori, specie i più giustizialisti, sottoscrittori dell’appello griffato Il Fatto quotidiano.
La patata bollente viene sapientemente sviata dai tre relatori, Bonsanti, Landini e Rodotà. «Noi non abbiamo nessun rapporto privilegiato, vogliamo ricostruire la politica e ai gruppi parlamentari chiediamo impegni sulle nostre proposte, non sostegno», spiega il segretario generale della Fiom. Sul rischio che la manifestazione si trasformi in una polemica contro il presidente della Repubblica e la sua richiesta di indulto e amnistia, Rodotà precisa: «Rischio di essere troppo rispettoso della pluralità, ma alla manifestazione non ci sarà disciplina di partito e quindi se ci sarà qualche cartello, ci sarà...». «Ma io non lo voglio», lo corregge la presidente di Giustizia e Libertà che per evitare problemi ha chiesto «a tutti i media di considerare come posizione ufficiale solo gli interventi dal palco», annunciando che quello conclusivo «sarà di Don Ciotti».
Forte di oltre 100 adesioni a livello nazionale e quasi altrettante a livello locale da parte di associazioni e partiti (Sel e tutta la sinistra radicale, che però faranno un passo indietro, non intervenendo dal palco) per una rete che diventerà luogo di discussione anche per un progetto politico. Il «retropensiero legittimo» lo definisce Maurizio Landini. Quello che spinge tutti immaginare il dopo, il 13 ottobre, a cosa fare del «patrimonio politico che la manifestazione ha già creato». L’unica certezza è che «andremo avanti assieme anche dopo la manifestazione, ma continuando a fare ognuno il suo mestiere», sintetizza Landini, consci che «nella tante assemblee fatte sul territorio abbiamo già messo assieme realtà lontanissime che con noi si sentono in grado di farsi sentire». Realtà lontane, come lontana è Lampedusa. Si proverà ad avvicinarla, avendo invitato il sindaco Giusi Nicolini che, se non arriverà di persona, interverrà in collegamento televisivo per raccontare la tragedia della sua terra e della migrazione.
In piazza non ci sarà di certo Enrico Letta che ha tacciato di «conservatorismo» la manifestazione. A lui risponde Stefano Rodotà: «Gli ho parlato e confermo che nel piano del governo c’è un punto di insincerità, quello di presentare un provvedimento in cui si mettono assieme la giusta riduzione del numero dei parlamentari e la riforma del titolo V voluta dalla sinistra, alla modifica di ben 60 articoli». L’obiettivo più prossimo lo individua Sandra Bonsanti. «Chiedere ad almeno 20 parlamentari di non votare la modifica dell’articolo 138» per impedire il raggiungimento della maggioranza qualificata dei due terzi e far sì che si tenga il referendum confermativo: «I parlamentari possono cambiare opinione e noi puntiamo a quello».

il Fatto 10.10.13
Rodotà Landini & C.
Sabato 12 in piazza per la Costituzione con le 440mila firme dei lettori del Fatto
Una grande alleanza per la Costituzione
Coalizione per un’altra politica, ma senza creare un nuovo partito
di Salvatore Cannavò


Una coalizione di vincenti” che vogliono “conservare una cosa buona” come la Costituzione. Stefano Rodotà definisce così la manifestazione che si terrà a Roma il prossimo 12 ottobre. Il corteo partirà alle ore 14 da piazza della Repubblica per concludersi a piazza del Popolo dove ci saranno gli interventi dei promotori, i cinque “saggi” Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, don Luigi Ciotti, Maurizio Landini e Sandra Bonsanti. A illustrare l’appuntamento in una conferenza stampa, ieri, c’erano il professore già candidato del Movimento 5 Stelle alla Presidenza della Repubblica, il segretario della Fiom e la presidente di Libertà e Giustizia.
Nato come reazione alla manomissione della Costituzione, messo in pratica dalla maggioranza di governo tramite l’aggiramento dell’articolo 138 della Carta, l’appuntamento si è caricato di sempre maggiori attese. A ieri, infatti, le strutture nazionali che hanno aderito al corteo di sabato erano 110, in un elenco che va dalla Fiom all’Arci, da Emergency a Legambiente, dal Gruppo Abele alla Fondazione Teatro Valle, dai partiti della sinistra (Prc, Pdci, Sel, Azione civile, Italia dei Valori) ad Articolo 21 o Libertà e Giustizia. Dal palco potrebbe intervenire anche il sindaco di Lampedusa con cui, in ogni caso, ci sarà un collegamento. Ci sarà anche il nostro giornale che, con un apposito intervento, presenterà le centinaia di migliaia di firme raccolte dall’appello promosso a fine luglio (oggi siamo a quota 438.320). “Vogliamo arrivare alle 500mila e superarle” ha detto ieri il direttore del Fatto , Antonio Padellaro, intervenendo alla conferenza stampa. Quelle firme, spiega Padellaro, “non vogliamo lasciarle in un cassetto ma investirle”. Da qui la proposta di creare “un comitato rappresentativo della larga unità che si è creata intorno alla manifestazione” per portare ai presidenti di Camera e Senato le firme ma, soprattutto, per “esercitare una pressione democratica contro il cambiamento della Costituzione”.
L’INIZIATIVA , dunque, punta a realizzare una “massa critica” di opposizione al governo. Rodotà contro Letta non utilizza parole gentili definendo “insincera” la sua difesa delle riforme istituzionali che, in realtà, con la modifica dell’articolo 138, puntano a “modificare la forma di governo”. Il contenuto di opposizione è chiaro, dunque, anche se le porte restano aperte per chiunque voglia partecipare. Del Pd hanno dato la loro adesione Pippo Civati e Sergio Cofferati ma Landini avverte: “È finito il tempo delle pacche sulle spalle, misureremo la coerenza tra le parole e i fatti”. Solo un accenno, invece, da parte di Rodotà al Movimento 5 Stelle: “Faranno quello che credono di fare, a ognuno le sue responsabilità”.
Se il senso della manifestazione è chiaramente politico non c’è spazio, però, per la fondazione di nuovi partiti. “Ce ne sono già troppi”, dice Landini. L’obiettivo, semmai, “è più ambizioso, creare un’altra politica, un’agenda fondata sulla Costituzione”. Rodotà lo spiega con gli esempi: “Il movimento per l’acqua ha vinto in nome della Costituzione e così anche la Fiom contro la Fiat. E don Ciotti invita sempre ad avere con sé la Bibbia e la Costituzione”. Nessuno vuole offrire il fianco a operazioni politiche e nemmeno intestarsele. La proposta che nascerà dal 12 ottobre sarà quella di dare continuità “alle varie forme di partecipazione nei territori” unendo quello che oggi rimane troppo frammentato .
IL TEMA , però, continua ad aleggiare. Lo si intuisce dalla meticolosità con cui Sandra Bonsanti spiega ai giornalisti che il 12 “valgono solo le cose che si udiranno dal palco e non il chiacchiericcio a lato della manifestazione”. Il problema non dipende solo dalle mire di questo o quel soggetto politico. L’attesa di un nuovo campo della sinistra, in realtà, la si può verificare parlando con coloro che si dicono interessati all’iniziativa ma che, temendo di rompere equilibri fragili, preferiscono non dichiarare nulla pubblicamente. È un tema concreto, che non sfugge nemmeno ai saggi, anche se al momento non è al-l’ordine del giorno.

l’Unità 10.10.13
Domani gli studenti tornano in piazza
di Roberto Campanelli

Coordinatore nazionale Unione degli Studenti

DOMANI L’UNIONE DEGLI STUDENTI TORNERÀ IN PIAZZA CONVOCANDO MANIFESTAZIONI IN DECINE E DECINE DI CITTÀ, dal Nord al Sud. Negli ultimi anni gli studenti sono stati una costante dell'opposizione sociale nel Paese. Nelle diverse fasi si sono mobilitati in difesa dell'istruzione pubblica, sono stati al fianco dei lavoratori, nelle battaglie contro l'austerity, piuttosto che in difesa dei beni comuni e del territorio. L'istruzione ha subìto un attacco durissimo a partire dall'ultimo governo Berlusconi, con i tagli devastanti firmati Gelmini-Tremonti, mai più reintegrati da nessun governo, neanche dall'attuale. Nonostante il disegno di legge sull’Istruzione sia stato accolto positivamente dall' opinione pubblica, e rappresenti l'unico investimento sostanziale su scuole e università negli ultimi anni, c’è però da ammettere la sua totale insufficienza. In primo luogo i 400 milioni di euro stanziati non sono sufficienti per realizzare i provvedimenti presenti nel provvedimento. È anche doveroso notare che, pur procedendo ipoteticamente ogni anno con uno stanziamento simile, sarebbero necessari circa vent’anni per reintegrare i tagli miliardari effettuati negli anni precedenti. Abbiamo deciso di intitolare la giornata di mobilitazione «Non c'è più tempo»: il principale problema della scuola e dell’università in questo momento non è infatti solo l’attacco che stanno subendo, ma la situazione di stasi in cui si trascinano. È una follia non mettere a valore le intelligenze e la conoscenza che ogni giorno attraversano i luoghi del sapere, poichè queste sono oggi in grado di trasformarsi in un nuovo volano di sviluppo per l'intero Paese. Non bastano più le dichiarazioni di intenti, o i provvedimenti tampone, oggi l'istruzione pubblica vive la catastrofe dell'oblio in cui è abbandonata. Dati diventati drammaticamente ordinari come la disoccupazione giovanile al 40% o la dispersione scolastica al 18% dovrebbero essere l'ossessione quotidiana di chi governa. Questi dati ci parlano della sofferenza sociale in continuo aumento, parallela alla distanza che cresce per l’Italia dal resto dei Paesi europei. Perchè, allora, continuano a prenderci in giro dicendo che in Italia ci sono troppi laureati se la percentuale è molto più bassa che nel resto d'Europa? Oppure, perchè si continuano ad ignorare gli obiettivi di Europa 2020 che prevedono un abbassamento di almeno il 10% della dispersione scolastica La verità è che in Italia manca una visione di insieme in cui la prospettiva generale della direzione in cui va il Paese possa essere un'idea di uguaglianza ed emancipazione sociale. La conseguenza è diventata che la crisi si tramuta in un vero e proprio modello di gestione della politica, che deroga qualsiasi spazio democratico per le istanze sociali. Per provare ad invertire il paradigma bisognerebbe indirizzare il modello produttivo verso quello che i Saperi e la Conoscenza generano, verso quello che la Ricerca sperimenta e permette di liberare. È necessario pertanto rispondere sia alle emergenze immediate che alle prospettive di lungo periodo dei luoghi del sapere. Se da un lato non c’è più tempo per risolvere la catastrofe dell’edilizia scolastica attraverso un piano decennale da 13 miliardi di euro per mettere le scuole in sicurezza, o approvare una legge nazionale sul diritto allo studio che garantisca uguali prestazioni agli studenti di tutte le regioni, o ancora rifinanziare il fondi ordinari per scuole il cui vuoto ha generato la scandalosa sistematizzazione dei contributi scolastici «volontari» come sostentamento delle scuole pubbliche, dall’altro bisogna ragionare di forme innovative ed incisive di welfare studentesco, come il reddito diretto ed indiretto per i soggetti in formazione, piuttosto che una riforma strutturale dei cicli, in grado di eliminare la canalizzazione precoce, ristrutturare la didattica ed eliminare l’impianto classista in cui la scuola italiana si trascina storicamente da Gentile in poi e che la Gelmini ha acuito con la sua riforma. Noi studenti saremo in piazza anche sabato 12 ottobre, per chiedere l’applicazione della Costituzione, per rimettere al centro i diritti di tutti, per difenderli ed estenderli. Non c’è più tempo neanche per questo.

l’Unità 10.10.13
Primi colpi alle leggi-vergogna. Cambieremo la Bossi-Fini
Un emendamento (M5S) in commissione al Senato cancella il reato di clandestinità con il sì del Pd e il parere favorevole del governo
di Vincenzo Ricciarelli


ROMA Un primo colpo al reato di immigrazione clandestina lo ha messo a segno ieri la commissione giustizia di Palazzo Madama dove è stato approvato, con i voti contrari di Pdl e Lega, un emendamento presentato dai senatori del Movimento Cinque Stelle Andrea Buccarella e Maurizio Cioffi che elimina il reato di immigrazione clandestina contenuto nel pacchetto sicurezza voluto dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni. La norma riguarda la delega sulla messa alla prova, già approvata alla Camera, ma modifica solo questa parte della legge Bossi-Fini. All’emendamento aveva dato parere favorevole il governo per bocca del sottosegretario alla
Giustizia Cosimo Ferri. «La sanzione penale appare sproporzionata e ingiustificata aveva detto il sottosegretario Ferri annunciando l’ok all’emendamento E la sanzione penale pecuniaria è di fatto ineseguibile considerato che i migranti sono privi di qualsiasi bene». Oltretutto, ha aggiunto, «il numero delle persone che potrebbero essere potenzialmente incriminate sarebbe tale da intasare completamente la macchina della giustizia penale, soprattutto nei luoghi di sbarco». «Il parere favorevole del governo e l’approvazione dell'emendamento che abroga il reato di immigrazione clandestina rappresentano due ottime notizie ha commentato Khalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del Pd inizia un percorso che, in tempi rapidi, dovrà cancellare questo odioso reato che criminalizza i sopravvissuti alla drammatica tragedia di Lampedusa e porre le basi per una nuova legge sull’immigrazione». Di parere ovvviamente opposto la Lega, che del reato di immigrazione clandestina ha fatto una bandiera elettorale. «È una vergogna ha tuonato Massimo Bitonci, capogruppo della Lega al Senato È un messaggio che lanciato in questo momento può destabilizzare la sicurezza e i flussi migratori verso il paese. Ci batteremo in aula per reintrodurre il reato di immigrazione clandestina. Il ministro Alfano e tutto il Pdl ha proseguito Bitonci siano coerenti con quanto hanno fatto e detto fino ad oggi e pongano rimedio a questo grave errore anche perchè l'introduzione del reato di clandestinità era stato approvato, anche con i loro voti, nella scorsa legislatura con il pacchetto sicurezza del ministro Maroni».
Ieri, intanto, il consiglio dei ministri ha approvato un decreto legislativo che recepisce la direttiva Ue 51 del 2011 che prevede il rilascio del permesso per soggiornanti di lungo periodo ai beneficiari di protezione internazionale, che oggi invece non possono ottenerlo. Per il mancato recepimento della direttiva era stata avviata dalla Commissione europea una procedura d'infrazione nello scorso
luglio. Una delle novità più significative del provvedimento è che i titolari di protezione internazionale muniti del permesso di «lungo soggiorno» potranno stabilirsi, a determinate condizioni (ad esempio, per motivi di lavoro), in un secondo Stato membro. L’attuazione della direttiva agevola quindi la mobilità dei rifugiati tra i Paesi dell’Unione Europea. Per ottenere il permesso «lungo» si elimina per gli stranieri beneficiari di protezione internazionale ed i loro familiari l'onere di documentare la disponibilità di un alloggio idoneo. Si esclude anche l’obbligo di superare un test di conoscenza della lingua italiana ai fini del rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo. Il nuovo status di lungo soggiornante attribuito ai beneficiari di protezione internazionale non interferisce con la protezione dall’espulsione, che rimane circoscritta ai casi di pericolosità per la sicurezza dello Stato ovvero per l'ordine e la sicurezza pubblica, fermo restando il rispetto del principio per cui nessuno può essere rinviato verso uno Stato in cui può essere oggetto di persecuzione.

l’Unità 10.10.13
Dieci milioni di profughi in fuga da guerre e fame
Secondo l’Onu ogni 4,1 secondi una persona nel mondo diventa rifugiato
Barnier: «Prepariamoci a un afflusso sempre più massiccio»
Solo dalla Siria previsti 3,5 milioni di persone in fuga entro la fine dell’anno
di Umberto De Giovannangeli


È l’«esercito» dei migranti politici. Fuggono da guerre civili, conflitti tribali, pulizie etniche. Le fila di questo «esercito» crescono di giorno in giorno. Perché crescono di giorno in giorno le aree di guerra, di sofferenza. L’inferno in terra: Siria, Somalia, Eritrea, Darfur, Libia, l’Africa subsahariana...Le più autorevoli organizzazioni umanitarie concordano nell’indicare, in difetto, il bacino di questo «esercito» di potenziali asilanti: 10-15 milioni. Per avere idea di quale miliardario giro d’affari, per le organizzazioni criminali, potrebbe determinarsi attorno a questo «esercito» di esclusi, basta pensare che oggi, per salire su un boat people e partecipare alla roulette del mare, le mafie del traffico di esseri umani, fanno pagare una cifra, a persona, che varia dagli 8mila ai 12mila dollari. Questa cifra, di per sé mostruosa, di 10-15 milioni, è solo una parte del numero complessivo di rifugiati, ormai arrivato a superare i 45 milioni, stando al rapporto Onu Global Trends 2013. Quell’esercito è stato accresciuto dalla guerra civile siriana.
LE CIFRE DI UNA TRAGEDIA
L’Unione europea deve prepararsi a un «afflusso massiccio» di profughi siriani. A lanciare il monito, ieri, a nome della Commissione europea, è stato il vice presidente Michel Barnier durante in dibattito al Parlamento europeo sulla Siria. «Dobbiamo prepararci alla possibilità di un afflusso ancora più massiccio», avverte Barnier, sottolineando come il crescente arrivo dei profughi siriani registrato in diversi Stati membri «non è più una questione strettamente nazionale, ma una questione europea». «La risposta non si trova certamente nella chiusura delle nostre frontiere nazionali, nel raggomitolarsi in se stessi o in un atteggiamento da barricate, non sarebbe nell'interesse dell'Europa ha aggiunto ogni crisi di questa portata ci riguarda tutti e dovremmo essere pronti in uno spirito di maggiore solidarietà». Sono oltre due milioni i profughi registrati dall'Onu nei Paesi confinanti con la Siria, numero che dovrebbe toccare i 33,5 milioni entro la fine dell’anno. L'Alto commissario Onu per i rifugiati ha chiesto all' Europa di accogliere 10.000 siriani.
Dalla Siria all’Eritrea. Altro bacino in crescita per l’esercito di migranti «politici». La mancanza di una politica per l’Eritrea da parte dell'Europa garantisce al regime autoritario di Isayas Afewerki, stabilmente al potere da 20 anni, la legittimazione per reprimere ulteriormente la libertà di stampa, di opinione, di riunione e di credo religioso. Ancora oggi l'Eritrea in tema di libertà di stampa è all’ultimo posto su 179 Paesi. Nel suo ultimo rapporto annuale, Amnesty International descrive l’Eritrea come un Paese dove «l’arruolamento militare nazionale è rimasto obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato. È rimasto obbligatorio anche l’addestramento militare per i minori. Le reclute sono state impiegate per svolgere lavori forzati. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici hanno continuato ad essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. L’impiego di tortura ed altri maltrattamenti è stato un fenomeno diffuso. Non erano tollerati partiti politici d’opposizione, mezzi di informazione indipendenti od organizzazioni della società civile. Soltanto quattro religioni erano autorizzate dallo Stato; tutte le altre erano vietate e i loro seguaci sono stati sottoposti ad arresti e detenzioni». Per Amnesty, sono questi i motivi principali che inducono cittadini eritrei a continuare a fuggire in massa dal Paese, delle dimensioni di un terzo dell’Italia e con meno di cinque milioni di abitanti. Ma nemmeno lasciare l’Eritrea è semplice. Sempre Amnesty spiega che «per coloro che venivano colti nel tentativo di varcare il confine con l’Etiopia è rimasta in vigore la prassi di “sparare per uccidere”. Persone colte mentre cercavano di varcare il confine con il Sudan sono state arbitrariamente detenute e duramente percosse. Familiari di persone che erano riuscite a fuggire sono state costrette a pagare multe per non finire in carcere».
SOMALIA
La situazione è, se possibile, ancora peggiore in Somalia. Secondo un recente rapporto di Caritas Somalia, almeno 1,2 milioni sono gli sfollati interni a cui si aggiunge un milione di rifugiati che hanno trovato asilo nei Paesi limitrofi (Eritrea, Etiopia, Kenya, Uganda, Tanzania, Gibuti e Yemen). Quella in Somalia è una delle più lunghe e gravi crisi di rifugiati al mondo. Nell'ultimo decennio rileva l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati(Unhcr) solo altri tre conflitti, quelli in Afghanistan, in Iraq e ora in Siria, hanno costretto più di un milione di persone a fuggire dalle proprie case. Indicativo è la conclusione di una ricerca dell’Unhcr: a provocare le migrazioni è soprattutto l’incubo della guerra. Lo dimostra il fatto che 55 rifugiati su cento vengono da cinque Paesi coinvolti nei conflitti: Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria, Sudan. Importanti nuovi flussi si registrano anche in uscita da Mali, Repubblica Democratica del Congo e dal Sudan verso Sud Sudan ed Etiopia dal Mali e dal Congo RDC. Durante il 2012, 7,6 milioni di persone sono state costrette alla fuga, di cui 1,1 milioni hanno cercato rifugio all’estero e 6,5 milioni sono rimaste all’interno del proprio Paese. Ogni 4,1 secondi una persona nel mondo diventa rifugiato o profugo interno.

il Fatto 10.10.13
Lampedusa, le due sciagure
risponde Furio Colombo


SONO IMBARAZZATO e disorientato, prima ancora che indignato. Vedo in televisione che coloro che non sono restati sul fondo del mare (in attesa di recupero dei cadaveri) dormono comunque all'aperto e nell'acqua come in una canzone di De Andrè. Come dire, abbandonati a cura dello Stato...
Viviano

LA LETTERA (aderente ai fatti, purtroppo) si riferisce alle immagini che tutti abbiamo visto (Tg 3 del 7 e 8 ottobre): i superstiti, compresi i bambini, sono ancora a Lampedusa, e poiché le strutture di accoglienza sono già affollate all’inverosimile, gli altri si arrangiano fuori. Guardate le immagini e vi accorgerete che sono tende inventate con materiale di scarto, materassi da campeggio (inzuppati d’acqua) donati da qualcuno, piatti di plastica con pasta che galleggia nell’acqua piovana. Non c’è alcun intervento militare tipo quelli che si verificano in casi di disgrazie naturali, non una tettoia o una tenso-struttura di quelle che cinque soldati mettono in piedi in mezz’ora. A questo punto vorrei ricordare ai lettori che cosa sono le “strutture di accoglienza” di Lampedusa. Vi ricordate il trattato con la Libia di Gheddafi, firmato da Berlusconi ma, nella parte migranti, voluto e dettato da Bossi e Maroni? Prevedeva ferrei respingimenti in mare (hanno funzionato, al costo, che resterà sempre senza colpevoli, di migliaia di morti abbandonati, isolati e privi di soccorso in mezzo al mare (con la volonterosa cooperazione di Malta, l’altro assassino di profughi, oltre alla Libia, per conto dell’Italia). Bene, Maroni era talmente certo (e aveva ragione) del buon funzionamento del sistema “prima ti abbandono al largo mentre stai affondando e poi ti chiedo se hai diritto di asilo” che a Lampedusa aveva smantellato tutto. Restano capannoni vuoti, con i segni di devastazione e di incendio di una non dimenticata ribellione di adolescenti rinchiusi e dimenticati due anni fa. In Lampedusa, a parte la generosità dei volontari, non c’è nulla né per accogliere né per offrire qualche notte decente e qualche pasto normale a chi si è salvato o è stato salvato (quasi solo da cittadini di Lampedusa). Ci pensino quegli elettori della Lombardia che hanno scelto Maroni contro Ambrosoli come presidente della ricca e orgogliosa Regione. Tutto quello che vedono sulle due sciagure di Lampedusa (i pescatori che si allontanano per non incorrere nei reati previsti dalla Bossi-Fini e dal “pacchetto sicurezza” di Maroni, e la mancanza totale di soccorsi e strutture, salvo il volontario soccorso dell’isola e dei suoi abitanti) sono opera di Maroni...

l’Unità 10.10.13
La lezione della crisi
di Massimo D’Alema


«Abbiamo bisogno di un modello cooperativo su scala mondiale per ridurre disuguaglianze e squilibri e lottare contro i paradisi fiscali»

Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di Massimo D’Alema alla conferenza internazionale «Macroeconomic Cooperation and the International Monetary System» che si è svolta ieri a Washington, organizzata dalla Feps (che raccoglie le Fondazioni della sinistra europea) e dall’Initiative for Policy Dialogue di Joseph Stiglitz.
Penso che la devastante crisi economica e finanziaria internazionale cominciata nel 2008, i cui effetti si sentono ancora in molti paesi, in particolare in Europa, ci abbia consegnato una lezione importante: non ricadere in un modello economico che ha avuto pesanti ripercussioni sui diritti dei lavoratori, sul welfare, sul costo del lavoro e sui salari, aumentando gli squilibri e producendo una crescita diseguale. Un sistema che ha fallito.
Ricordiamo intanto come le origini della crisi siano rintracciabili nella controrivoluzione neoliberale e come essa sia il culmine di una serie di crisi che, in vari momenti, hanno colpito diverse parti del mondo. Non è mia intenzione sottovalutare il ruolo che la finanziarizzazione dell’economia e la speculazione finanziaria hanno giocato in tutto questo, ma ora intendo concentrarmi su altri aspetti del modello economico dominante, impostosi in parallelo con il processo di globalizzazione e basato sulla ricerca ossessiva della competitività e sul dumping fiscale. Parliamo di un modello che ha come presupposto il fatto che ciascun paese debba fondare la sua crescita principalmente sull’export, mentre gli americani consumano, si indebitano e il loro debito viene acquistato dalla Cina.
In questo scenario, è chiaro che noi progressisti dobbiamo cercare un’alternativa. Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è un cambio di paradigma nella politica economica e nella governance globale che sia in grado di affrontare le instabilità e gli squilibri strutturali finanziari. Quindi, è necessario passare da quel modello di competitività selvaggia, a cui accennavo sopra, a un nuovo modello che definirei cooperativo.
Intendo un complesso di azioni coordinate a livello globale che dovrebbe ridurre le diseguaglianze, rafforzare i mercati interni mediante un sistema di salari più equo, promuovere i diritti sociali, coordinare la tassazione sui redditi finanziari, lottare contro i paradisi fiscali, ridurre gli squilibri. Le conseguenza sarebbero, a mio parere, la diminuzione dei rischi di conflitti sociali e la creazione delle condizioni per una crescita stabile e, come direbbero i cinesi, armoniosa. E tutto ciò avrebbe effetti positivi su diversi gruppi sociali all’interno di ciascun paese e tra diverse aree del mondo.
Ritengo che un simile modello cooperativo si imponga anche a causa della crescita inesorabile delle interconnessioni fra gli attori globali. Nessun paese, infatti, è in grado da solo di determinare l’andamento della propria economia. Questo vale per tutti, Stati Uniti e Cina compresi. D’altra parte, abbiamo visto come il mantra neoliberale dell’autoregolamentazione dei mercati non funzioni e come le politiche neoliberali non siano riuscite a creare un ambiente economico che promuova crescita, occupazione e uguaglianza allo stesso tempo. Ecco perché dobbiamo imboccare un’altra strada, riconoscendo che un sistema stabile che favorisca questi tre obiettivi possa essere realizzato attraverso il ruolo essenziale dello Stato e delle istituzioni internazionali.
Sono molti i passaggi necessari per arrivare a un tale sistema cooperativo. Ne indico solo alcuni. In primo luogo le autorità monetarie e le istituzioni di supervisione dovrebbero assumere un ruolo più incisivo per promuovere la stabilità finanziaria. Poi, bisognerebbe porre rimedio alla mancanza di un sistema di regole multilaterali per la gestione dei sistemi di cambi e aumentare la cooperazione finanziaria a livello globale e regionale per stabilizzare le condizioni macroeconomiche.
Un’altra considerazione riguarda il fatto che la stabilità finanziaria nel lungo periodo non sarà sostenuta in un’economia che non cresce e non crea lavoro. Occorrerebbe quindi un sistema finanziario che sostenga l’economia reale, piuttosto che un sistema finanziario che rincorra il rischio e la speculazione. Da questo punto di vista un meccanismo efficace potrebbe essere la tassa sulle transazioni finanziarie. Infine il capitolo della governance economica: le istituzioni internazionali mancano di trasparenza e non rispondono ai cittadini.
Dovremmo dunque chiederci come riformare organizzazioni quali il Fondo monetario internazionale e non solo per assicurare la stabilità finanziaria, ma anche per rendere i loro processi decisionali più efficienti e trasparenti. Così come bisognerebbe intervenire per incrementare la legittimità democratica e la rappresentatività di organizzazioni internazionali come il G7, il G8 e il G20, il quale rappresenta pur sempre un passo in avanti rispetto ai primi due.
Continuo a coltivare l’idea, che i più considerano un’illusione, che un valido sistema di governance globale possa essere costruito solo entro la cornice delle Nazioni Unite e delle sue agenzie.

l’Unità 10.10.13
Pippo Civati
«Non sono mai stato favorevole alle larghe intese, Renzi invece sta traccheggiando troppo Vorrei rappresentare una nuova generazione»
«La fiducia a Letta? Decide il congresso»
intervista di Vladimiro Frulletti


È pronto a votare la fiducia a Letta se così deciderà il congresso. Ma non per questo Pippo Civati abbandona le sue critiche alle larghe intese, ribadendo che la via d’uscita è il veloce ritorno al voto con un Pd che riallacci il dialogo con Sel e presti attenzione ai 5Stelle. Quindi onorevole tra i vari candidati alla segreteria è lei a rappresentare la sinistra nel Pd?
«Io vorrei solo rappresentare un Pd che rimette insieme una sinistra di governo che coltivi l’alternanza e un’idea di democrazia conflittuale e non accordista come quella che stiamo vedendo adesso. Ma non mi sento particolarmente a sinistra. Sono altri che sono scivolati verso altri lidi».
Lei si sente il vero competitor di Renzi?
«Sembra così anche se i sondaggi vanno presi con estrema cautela. Ma c’è con me una grande rete di giovani molto attiva. Ecco vorrei rappresentare questa generazione che chiede risposte con un’ urgenza un po’ diversa dalla politica attuale».
Che risultato s’attende?
«Non ho esigenza di un risultato quantitativo. Mi interessa che il congresso possa davvero cambiare in positivo il Pd con nuove idee e nuove facce».
La sua battaglia per il rinnovamento in cosa si differenzia da quella di Renzi?
«La differenza è se va messa maggiore enfasi sul leader o sul popolo, sul collettivo o sull’estro del singolo. Io sono per riorganizzare un campo politico e per farlo con tante persone. Solo i molti possono cambiare gli equilibri determinati dai pochi. E poi io non sono mai stato d’accordo con le larghe intese. Renzi invece sta traccheggiando troppo. Diciamo che per avere Renzi premier bisognerebbe votare Civati segretario».
Così ci sarebbero subito le elezioni?
«Così avremo un partito che con coraggio imbocca una strada più corta rispetto a quella che ci siamo prefigurati. C’è da fare la nuova legge elettorale e la legge di stabilità e poi andare al voto». Dopo il congresso farete un ticket? «Sono amico di Matteo e stimo da tempo Cuperlo. Il mio augurio è che tutti quelli che partecipano al congresso poi collaborino per il Pd».
Lei anche questa volta non ha votato la fiducia al governo. Perché?
«Sono stato coerente. Fino al congresso ho deciso di mantenere questa posizione. Ma l’idea è di chiudere questa discussione col congresso. Tutte le decisioni fin qui infatti sono state prese a prescindere non solo dalle promesse elettorali, ma anche dalla volontà degli elettori. Il che per il partito delle primarie è assai paradossale».
Non c’è stata una svolta nella maggioranza che sostiene Letta?
«Certo c’è stato un passaggio importante. Per la prima volta Berlusconi sembra aver perso il controllo sul suo partito, ma non concordo con l’idea che con un ritaglio di Pdl si possa andare avanti a lungo. Per chiudere un ventennio servono le elezioni. Non penso che fosse nelle nostre intenzioni fare, come enfatizza Letta, una maggioranza politica coesa. La via d’uscita poteva essere diversa». In che direzione?
«Allargando di più, recuperando Sel e mandando messaggi meno contundenti ai grillini. Però una volta che il congresso si sarà dichiarato in maniera inequivocabile mi atterrò alle indicazioni di partito».
Cioè se un congresso avesse deciso per il sì alle larghe intese lei avrebbe votato la fiducia?
«Certo. Il congresso era da fare subito. Invece si fa ora, un po’ tardi rispetto alle svolte fatte. Ma seguirò la volontà del Pd che è quella dei suoi elettori e non dei suoi dirigenti dimissionari».
Sì all’amnistia?
«Capisco la sensibilità dei nostri elettori, ma invito a non leggere questa vicenda con sospetto. È una questione di civiltà e l’allarme casomai arriva tardi. I nodi però sono come va fatta, ad esempio su quali reati, e se in Parlamento c’è la maggioranza. Chiaro che nel Pdl qualcuno proverà a forzare. Paghiamo l’ambiguità di tutta la situazione».
Sabato sarà alla manifestazione in difesa della Costituzione. Non ritiene sia una battaglia di conservazione?
«No. Là ci sono i protagonisti di battaglie costituzionali che hanno coinvolto milioni di italiani: dalla legalità, ai beni comuni come l’acqua, ai diritti. Sono soggetti con cui il Pd deve dialogare se vuole stare a sinistra».

Repubblica 10.10.13
Pd, 200 parlamentari si schierano con Renzi
La conta per il congresso. Il sindaco: pronta la proposta anti-Porcellum
di Giovanna Casadio


ROMA — Moduli sparsi sui divanetti nel “corridoio dei fumatori” a Montecitorio e nel salone di Palazzo Madama, per Matteo Renzi. Sms che danno appuntamento a oggi e indicano l’indirizzo mail del comitato organizzatore, per Gianni Cuperlo. Comincia con la conta delle firme la sfida delle primarie del Pd. Non si tratta delle firme necessarie per presentare le candidature a segretario (1.500-2000 in almeno cinque regioni oppure di 100 componenti della Direzione) entro le 20 di domani: quelle già le hanno sia Renzi che Cuperlo. Pronto pure Pippo Civati e Gianni Pittella, che posta su Twitter una foto dei moduli compilati. La conta a colpi di firme di parlamentari dà il peso politico dei candidati. Il sindaco “rottamatore” ha superato in poche ore quota 200, e oggi continua.
«È un atto politico-simbolico », chiarisce lo sfidante Cuperlo, che ha affidato la raccolta a Nico Stumpo. Ma Renzi è soddisfatto, e Luca Lotti elenca gli ex bersaniani e non allineati (Alessia Morani, Alessia Rotta, Vanna Iori), oltre agli ottanta di Areadem (tra cui Franceschini, Giacomelli, Rosato), al senatore ex dalemiano Nicola Latorre, ai veltroniani Vinicio Peluffo e Walter Verini, a Francesca Puglisi, Raffaele Ranucci, al lettiano Francesco Sanna. La lista è lunga e suona la carica ai renziani. Nella enews settimanale, il sindaco di Firenze dà appuntamento sabato a Bari, pronto anche un charter dalla Toscana (150 euro a testa) per chi volesse andare e venire in giornata. «Primarie? Pronti, via, si parte. Le primarie si terranno l’8 dicembre e potranno partecipare tutti ma proprio tutti, eh. Ci aspetta una sfida affascinante e noi racconteremo perché vogliamo “un’Italia che cambia verso”», incita Renzi. La mission renziana è di «risvegliare entusiasmo e partecipazione, ma basandosi sulla concretezza di chi proviene da un’esperienza amministrativa». Bari sarà la prima tappa, la prossima in Trentino. I renziani sono gasati, scherzano sui 101, numero pericoloso perché ricorda i “ traditori” di Prodi nella corsa al Colle: «Se fossimo 101, dovremmo cancellarne qualcuno...». In realtà sono molti di più. Gli anti renziani parlano del «fascino di salire sul carro del vincitore» e di «opportunismo ». Beppe Fioroni, leader dei Popolari, è ormai in avvicinamento a Cuperlo: «Il renzismo è il berlusconismo postumo...». Alessandra Moretti, nel comitato pro Bersani nelle primarie per la premiership del 2012, sta per schierarsi con Cuperlo.
Polemiche su tutto, sulla legge elettorale (Renzi farà una sua proposta e invita Roberto Giachetti a smettere lo sciopero della fame), sulla legge di stabilità, sulla collocazione del partito in Europa. Dario Nardella ha indicato i socialdemocratici come lafamiglia di riferimento del Pd. Malumori in Areadem che appoggia Renzi. Frecciata al curaro di Matteo Orfini (pro Cuperlo): «Finiremo in minoranza, ma l’egemonia culturale e politica resta a noi, alla sinistra». Cuperlo ribadisce: «Ce la giochiamo, il congresso Pd è da fare e può riservare sorprese». Non vuole sentire parlare di sondaggi, che lo danno in forte svantaggio e invita a mettere al centro del congresso «una discussione di libertà », e i problemi delle persone, affinché si riacquisti speranza. A coordinare la campagna per le primarie di Cuperlo sarà Patrizio Mecacci, segretario democratico di Firenze, la città di Renzi. Mentre a capo della macchina organizzativa renziana ci sarà Stefano Bonaccini, il segretario del Pd dell’Emilia Romagna, ex bersaniano. Consigli di Renzi: «Seguite su Twitter due donne sindaco impegnate in prima linea, Giusi Nicolini, che è sindaco di Lampedusa e Paola Natalicchio, sindaco di Molfetta ». Un invito, infine: «Prima delle primarie, ci sarà una fase riservata ai soli iscritti. Chi ha voglia di accompagnarci in questa sfida, può iscriversi al partito».

il Fatto 10.10.13
Anche lettiani e bersaniani firmano per Renzi


RENZI si moltiplica: ieri in Parlamento è cominciata la raccolta delle firme per la sua candidatura. Ottanta deputati (erano 40 a inizio legislatura) e 50 senatori (erano 13). Un’iniziativa più che altro simbolica, visto che le firme dei parlamentari per la candidatura non sono necessarie, ma servono quelle dell’Assemblea (100) e dei territori (1500-2000), che vanno consegnate venerdì. Per Renzi, firmano, come annunciato, non solo i suoi, ma anche gli esponenti di Area Dem (Dario Franceschini in testa) e poi i veltroniani, come Walter Verini, i lettiani Francesco Boccia e Francesco Sanna, e i bersaniani come Alessia Morani, Tiziano Arlotti, Marietta Tidei, Sabrina Capozzolo. Firma pure Renata Bueno, parlamentare del gruppo misto, eletta con l’Api (Alleanza per l’Italia). Al Senato, tra gli altri, firma anche Nicola La Torre. Oggi con la raccolta delle firme si cimenta Cuperlo.

il Fatto 10.10.13
Cofferati: ma Epifani ostacolò Air France


Il riferimento è di quelli apparentemente casuali, buttato lì nel ragionamento. Come nello stile, felpato e morbido, di Sergio Cofferati. Intervenendo ad Omnibus su La7, l’eurodeputato Pd ha detto con assoluta normalità: “Nel 2008 ero per la vendita di Alitalia ai francesi e non ero d’accordo con Guglielmo Epifani che invece era contrario”. L’attuale segretario del Pd ricopriva allora l’incarico di segretario generale della Cgil e in effetti giocò un certo ruolo nell’impedire ad Air France di rilevare l’azienda secondo i piani del ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Tanto da attirarsi anche le ire di Romano Prodi. Oggi Cofferati è deputato europeo di un partito guidato da Epifani di cui è stato predecessore nella Cgil. Non si può negare che sia un esperto (s.c.)

l’Unità 10.10.13
Epifani: il Cav escluso

«Trovo assurde e irricevibili le accuse lanciate e le commistioni con le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi, che non c’entrano niente e non c’entreranno per il futuro». Secondo Epifani, indulto e amnistia «possono essere presi in considerazione con cautela» ma debbono arrivare «al termine di un percorso che riguarda una serie di altri interventi e comunque fino a un certo tipo di reati ed escludendo quei reati già esclusi in passato». «Servono prima altri interventi, ad esempio sulla ex Cirielli, la legge Giovanardi e la Bossi Fini. Perché il problema non è solo svuotare le carceri ma anche evitare con misure intelligenti che si riempiano di nuovo».
Replica il vicepremier Alfano: «Invito a non trasformare tutto in un referendum su Berlusconi, che non può essere messo in mezzo in una questione che non lo riguarda. Spero che il Pd non voglia tradurre le norme per le carceri in norme contro Berlusconi». Giovanardi replica a muso duro: «Epifani è un dilettante disinformato».

il Fatto 10.10.13
Ci raccontano balle: con l’indulto B. è libero
È falso che il condono penale di 3 anni ordinato da Napolitano non salverà il Caimano
Il governo lavora a un testo che ricalca quello del 2006, che comprendeva i reati di frode fiscale, concussione e corruzione (pene pecuniarie incluse): proprio quelli per cui è stato condannato o è imputato l’ex premier
Se il parlamento va a rilento pronti a intervenire Alfano e Cancellieri
di Carlo Tecce


Ecco perché Berlusconi, presto, potrebbe avere buone notizie. Emergenza carceri. Ci sono le scadenze che s’avvicinano, ci sono le convulsioni parlamentari, fra chi teme le trappole (Pd) e chi annusa il regalo (Pdl) oltre l’opposizione di M5S e, soprattutto, c’è l’impegno di Giorgio Napolitano. Indulto (condona in parte la pena inflitta) e amnistia (estingue reato e fa cessare le pene accessorie) vanno approvati entro il 28 maggio per evitare ritorsioni europee; il Parlamento deve rispondere con maggioranza qualificata (due terzi) e si prevedono almeno sei mesi. Il tempo può aiutare Silvio Berlusconi, e anche la prassi.
LA VERSIONE mastelliana di sette anni fa estese l’indulto ai reati fiscali e contro la Pubblica amministrazione, e le ultime indiscrezione indicano un provvedimento simile: non pare realistica una formula meno efficace, non darebbe risultati concreti per le carceri che ospitano i detenuti in condizioni disumane e, di fatto, non è mai successo. La frode Mediaset, che ha condannato il Cavaliere a quattro anni, ha già ricevuto uno sconto di tre. Restano dodici mesi, già (teoricamente) ridotti a nove con la richiesta d’affidamento ai servizi sociali. Un testo fotocopia con il cumulo per chi ne beneficia, o comunque simile al 2006, offrirebbe a Berlusconi la possibilità – perché può rifiutare l’atto di clemenza, i processi sono tanti – di non trascorrere da vigilato speciale nemmeno un giorno. I legali del Cavaliere, con notevole lungimiranza, hanno preferito i servizi sociali ai domiciliari. Così Berlusconi sarà libero per i prossimi quattro-cinque mesi aspettando una risposta dal Tribunale di Sorveglianza di Milano: l’attesa coincide proprio con il promesso (e auspicato) varo in Parlamento. Berlusconi ha un problema ancora più grosso, però: l’addio al seggio senatoriale, cioè l’interdizione ai pubblici uffici, calcolata in Appello a cinque anni, respinta in Cassazione e ora di nuovo in Appello a Milano, il 19 ottobre. L’indulto non riguarda le pene accessorie, salvo che non intervenga un apposito decreto. La fretta del Colle s’incastra con l’ansia del Cavaliere. Enrico Letta ha rassicurato Napolitano: “Faremo la nostra parte”. Vuole dire che se il Parlamento, sempre più litigioso, non avvia il complicato percorso legislativo, palazzo Chigi è pronto a deliberare un disegno di legge con un lavoro simbiotico fra Interni (Angelino Alfano) e Giustizia (Anna Maria Cancellieri). Va ricordato che il Guardasigilli, che da mesi invoca una soluzione per i detenuti, in pubblico sollecitava l’iniziativa politica.
Il governo vuole un segnale per agire. Dagli uffici legislativi di via Arenula fanno sapere che sono pronti a fornire un testo in pochi giorni. Neanche l’ipotesi Parlamento può dispiacere al Cavaliere; ci sono tre ddl a disposizione, due a palazzo Madama, uno a Montecitorio. I deputati e i senatori pronosticano vincente la proposta di Sandro Gozi (Pd): pene accessorie indultabili. Perfetto. Al Senato c’è un disegno di legge molto generoso per estinguere i reati commessi entro il 14 marzo 2013 con detenzione sino a un massimo di quattro anni. Sembra scritta per Berlusconi. E infatti proviene da un senatore ex pdl ora nel gruppo misto. Sempre quel mitico Luigi Compagna che chiedeva, anche, di far cancellare le pene accessorie con l’indulto. Berlusconi ripete di non avere fiducia nel Quirinale, anzi crede che la clemenza sarà misurata per non alleviare (o eliminare) né la condanna Mediaset né i vari processi in corso. Il Partito Democratico ha subodorato qualcosa che sta per diventare marcio e preferisce svuotare le carceri con l’abolizione delle leggi Bossi-Fini (clandestini) e Giovanardi (droga e spaccio). Ma va avvisato il Quirinale. E va premiata l’intraprendenza di Coppi&Ghedini: B. ha scelto i servizi sociali un attimo prima del messaggio del Colle. Se dovesse andare male, sarebbe libero. Niente mense dei poveri e niente assistenza ai malati. Se dovesse andare bene, invece... Già, un ventennio s’è chiuso.

il Fatto 10.10.13
Il Pd ha paura degli elettori. Epifani: non è una priorità
I democratici cercano di prendere tempo sulla via indicata da Napolitano
di Wanda Marra


“Grande cautela”: ecco l’espressione ufficiale che Guglielmo Epifani associa a amnistia e indulto. Poi, con toni tenuti bassi, il segretario del Pd afferma che “vanno esclusi i reati che in passato sono già stati esclusi”. Ma soprattutto che i provvedimenti di clemenza “possono essere presi in considerazione al termine di un percorso che riguardi una serie di altri interventi” riguardanti la ex Cirielli (sulla recidiva), la Giovanardi (droga e spaccio) e la Bossi-Fini (reato di clandestinità). Leggi che riempiono le carceri. A scavare appena un po’ sotto la superficie il pensiero di Epifani si chiarisce: amnistia e indulto per i vertici ufficiali del Nazareno non sono una priorità.
IL GOVERNO intende accelerare su questa questione? Gli uffici del ministero della Giustizia sarebbero già al lavoro per studiare un testo? “Non c’è trippa per gatti”, dicono dal-l’entourage del segretario. Perché, come scriveva sul Foglio ieri il responsabile Giustizia, Danilo Leva, “l’amnistia e l’indulto da soli non bastano, devono essere il punto di arrivo di un percorso strutturale. Altrimenti si tratterebbe di un placebo di limitata durata”. I Democratici non dicono un no secco né a Napolitano, né a Letta. Ma si preparano a mettere in essere le condizioni per rendere impraticabili i provvedimenti di clemenza che il Colle chiede. Perché - sotto al dibattito umanitario sul sovraffollamento delle carceri - ce n’è un altro che si svolge sotto traccia (nemmeno troppo sotto, per la verità): tutto dipende da come vengono scritte le norme, ma il rischio che attraverso i provvedimenti di clemenza si arrivi a un salvacondotto per Berlusconi è forte e chiaro. Difficile pensare a un’amnistia che agisca sui reati di frode fiscale. L’indulto, che cancella la pena, è un’altra cosa. Spiega il deputato renziano David Ermini: “Se per assurdo l’indulto dovesse essere varato oggi, lui ne usufruirebbe. Certo, bisognerebbe capire di che indulto si tratta, quali reati andrebbero esclusi. E per esempio, per escludere Berlusconi bisognerebbe lasciar fuori la frode fiscale”. Ma nel 2006 questo reato c’era. E aggiunge: “Napolitano ci ha chiesto di svuotare le carceri, non di procedere con un colpo di spugna”. Per approvare amnistia e indulto servono i due terzi del Parlamento: alla Camera 420 voti. Questo vuol dire Pd (293), Pdl (96) Sel (37) e Scelta Civica (47). Al Senato ne servono 214. E dunque, Pd (108), Pdl (91) oppure Gal (10) o Sel (7) o le Autonomia (7). I Cinque Stelle sono contrari senza se e senza ma, e dunque i partiti di maggioranza si devono mettere d’accordo . Come pensare che il Pdl non cerchi di inserire le norme che servono a B.? Ecco allora la cautela, e pure “la serietà” e la “coerenza” che Epifani raccomanda, per evitare l’ennesima mina che Colle e Palazzo Chigi stanno piazzando sotto al Pd. Subordinare la questione a un percorso così lungo da essere potenzialmente infinito è il modo più semplice per svicolare. E tra l’altro se si pensa che nel 2006 la frode fiscale era stata oggetto d’indulto, l’affermazione del segretario che “vanno esclusi i reati esclusi in passato” si colora d’ambiguità. Spiega Anna Rossomando, membro della Commissione Giustizia: “I provvedimenti di clemenza sono di competenza parlamentare. E quindi starà a noi definire i percorsi e mettere i paletti”. Non a caso la capogruppo ha stabilito che il messaggio del Colle va votato in Commissione: c’è bisogno di capire se c’è un’intesa preventiva.
A SUBODORARE (e denunciare) la tiepidezza del suo partito, che viceversa fa passare in secondo piano il problema in questione è il democrat Verini, membro della Commissione Giustizia : “Il Presidente della Repubblica, ancora una volta, costringe il Parlamento a guardarsi allo specchio. Per quanto riguarda il sovraffollamento carcerario non può non farlo senza arrossire”. Amnistia e indulto quindi “non sono un tabù a patto che si escludano i reati di allarme sociale, i reati più gravi, i reati contro lo stato come la frode fiscale.
E che non ci siano da parte di nessuno vergognose strumentalizzazioni, come da parte di chi vuole ipotizzare salvacondotti per qualche personaggio”. Che sul tema le posizioni divergeranno tra le varie anime del partito è già scritto. Si accorge del-l’imbarazzo Democrat e ne approfitta Alfano: “Invito il Pd a non trasformare tutto in un referendum su Berlusconi. Spero che il Pd non traduca le parole di Napolitano in norme contro una persona”.

il Fatto 10.10.13
Mai per la corruzione. Il Pd non sia complice
di Paolo Flores d’Arcais


Le condizioni delle carceri italiane sono disumane, questo giornale lo scrive fin dal primo numero e su questo drammatico tema (esattamente come sui morti per pestaggi da parte delle forze dell’ordine) ha sempre rifiutato il “troncare, sopire” che troppo spesso è l’arma d’ordinanza delle testate d’establishment. Ma se davvero il mondo politico e quello giornalistico fossero preoccupati per il sovraffollamento nelle celle, come l’unanime salmodiante peana al messaggio presidenziale vorrebbe far credere, avrebbero proposto per tempo e da tempo l’abrogazione di due leggi (Bossi-Fini sull’immigrazione e Fini-Giovanardi sulle droghe) e la popolazione carceraria sarebbe da anni neanche la metà dell’attuale.
QUESTE SEMPLICI MISURE, però, i “garantisti” a corrente alternata, angosciati per la galera/tortura solo quando minaccia “lor signori” e altri colletti bianchi ma insensibili peggio di Shylock finché dietro le sbarre ci finisce il poveraccio che ruba due mele, le hanno sempre stigmatizzate e rifiutate. Siamo invece noi “giustizialisti” e “manettari” a riproporre – vox clamans in deserto – questi provvedimenti strutturali che i finti garantisti continuano a rimuovere dal loro orizzonte, preferendo insistere sulle virtù taumaturgiche di amnistie e indulti, che già più volte hanno dimostrato il loro carattere fallimentare (dopo qualche mese le carceri sono di nuovo un carnaio invivibile). Cecità o ipocrisia? Perché il Pd, che col suo primo ministro Letta dichiara che il ventennio è finito, non mette immediatamente al-l’ordine del giorno l’abrogazione della Bossi-Fini, della Fini-Giovanardi, della ex-Cirielli sulla recidiva, che avrebbero effetti permanenti, e l’amnistia solo per questi reati, con il che l’effetto di svuotamento delle patrie galere sarebbe anche immediato? A questo punto le condanne dell’Europa non avrebbero più materia e i moniti presidenziali non avrebbero più ragione.
Perché il Pd non aggiunge che non ci sarà mai amnistia, ma anzi guerra senza quartiere, per reati come peculato, corruzione, concussione, abuso d’ufficio, per i quali in galera non c’è quasi nessuno?
Altrimenti il sospetto che tutto questo improvviso e corale afflato umanitario sia un’operazione “sepolcri imbiancati” che mira a salvare i corrotti dell’intreccio politico affaristico e i frodatori del fisco (due categorie che da sole ci derubano di oltre duecento miliardi all’anno, con cui si stroncherebbe il debito nazionale e si rilancerebbero welfare e consumi a livello “bengodi”), non diventa giustificato: diventa doveroso.

il Fatto 10.10.13
Amnistia, occhio all’ira dei miti
Tutto si spiega
Il brusco voltafaccia di B. che ha votato la fiducia al governo
non era che il prezzo concordato con Napolitano per ottenere il sospirato salvacondotto
di Massimo Fini


Allora era tutta una farsa. Allora il lavoro del Pm De Pasquale, del Tribunale di Milano (tre giudici), della Corte d’appello (tre giudici), della sezione feriale della Cassazione (cinque giudici) è stato inutile. Allora le sentenze pronunciate in nome, e col denaro, del popolo italiano non valgono nulla. Allora la condanna a sette anni per concussione e prostituzione minorile cadrà, di fatto, nel nulla, così come si fermerà il procedimento per corruzione del senatore De Gregorio (che senso ha continuare, impegnare altre energie, altro tempo e altro denaro se si sa già che non porterà da nessuna parte?). Allora la manfrina del Pd sulla decadenza da senatore di Silvio Berlusconi era solo e davvero una manfrina (se con l’amnistia non esiste più il reato decadono anche le ragioni della decadenza).
ADESSO gli esponenti del Pd si affrettano ad affermare che indulto e amnistia non includeranno i reati di Berlusconi. Ma non si può fare una legge ad personam, mandando fuori 24mila delinquenti, per trasformarla poi in una legge contra personam. La logica, o per meglio dire l’illogica, è la stessa. E poi i Pd dicono questo per placare, lì per lì, l’indignazione popolare, ma passati i bollori, calmate le acque, voteranno col Pdl un’amnistia o un indulto che comprenda anche Berlusconi.
Allora il brusco voltafaccia del Cavaliere che ha votato la fiducia al governo, cui io, sbagliando, avevo dato qualche credito, era il prezzo concordato con Napolitano per ottenere il sospirato salvacondotto. Quello di Napolitano è stato, per usare un’espressione cara ai pidiellini, “un intervento a orologeria”.
È curioso che il Capo dello Stato si accorga della questio bne del sovraffollamento delle carceri, che esiste da vent’anni, solo dopo la condanna definitiva, che evidentemente definitiva non è, del Cavaliere. Del resto i precedenti dicono che indulto e amnistia non servono a niente. Dopo l’indulto del 2006 le carceri nel giro di un paio di anni si riempirono tornando ai livelli di prima. Tant’è che oggi il problema , puntualmente, si ripropone. I delinquenti liberati dall’indulto tornano regolarmente a delinquere, per abitudine o per disperazione perché non hanno altre alternative. E quando, dopo il provvedimento di clemenza, torneranno a commettere crimini i primi ad indignarsi saranno quelli che quel provvedimento lo hanno voluto scaricandone poi, come sempre, la responsabilità sui magistrati che hanno applicato le leggi che quegli stessi hanno varato. Non ho mai capito perché, in vent’anni, non si sono costruite nuove carceri, più civili di quelle attuali. Non si dice sempre che l’edilizia (e questo dovrebbe valere anche per quella carceraria) è il volano dell’economia? Comunque altri dovrebbero essere i provvedimenti strutturali da prendere, in primo luogo una drastica riduzione dei tempi dei processi in modo che quelli che risulteranno innocenti rimangano in carcere il meno possibile e non vedano rovinata la loro vita da una detenzione preventiva di anni (la metà della popolazione carceraria è di detenuti in attesa di giudizio).
Napolitano, accusato dai 5Stelle di un intervento a favore di Berlusconi, ha perso le acque e ogni ombra di imparzialità, replicando che i grillini “se ne fregano della gente e dei problemi del Paese”. Un Presidente della Repubblica non può prendere partito a favore o contro una forza politica e le sue legittime opinioni senza violare, in modo gravissimo, i propri doveri costituzionali di arbitro super partes. In un articolo infame Vittorio Feltri, che è forcaiolo nell’anima (chi, Vittorio, pubblicò sull’Indipendente la fotografia di Carra in manette godendo di quell’inutile umiliazione, chi, ai tempi, chiamava Craxi il “cinghialone” dando a un’inchiesta giudiziaria il sapore di una caccia sadica, chi se la prendeva anche con i figli di Craxi, Stefania e Bobo, che non c’entravano nulla con le colpe del padre?) accusa “i miserabili giustizialisti che predicano il consueto e gretto luogo comune: chiudete le celle e buttate via la chiave”. Per la verità è stata Daniela Santanchè, la tua padrona, a dichiarare: “In galera subito e buttare via le chiavi”.
NATURALMENTE per i reati da strada, quelli commessi dai poveri cristi. Il Pdl è sempre stato contrario all’amnistia ora gli è favorevole perchè può salvare Berlusconi. Che facce toste. Che facce da culo. Basta, con questi mascalzoni, di destra e di sinistra, che ci prendono in giro da vent’anni, non c’è più possibilità di mediazione alcuna. Marco Travaglio concludeva il suo articolo di ieri scrivendo “prima o poi gli onesti si incazzano”. Ci credo poco perché sono anni che ci facciamo trattare da asini al basto, da pecore da tosare, da sudditi. Ma se dovesse avvenire sarà una vera rivolta. Perché, come dice la Bibbia, “terribile è l’ira del mansueto”.

il Fatto 10.10.13
60.710 detenuti nel 2006, 54.789 detenuti nel 2008
Balle & indulto, un’emergenza montata ad arte
Nel dibattito politico sono nate diverse cause e “soluzioni” per svuotare le carceri italiane
Molte di queste non sono vere. Ecco quali e perché
di Silvia D’Onghia

Una delle domande classiche dell’esame professionale da giornalisti è la differenza che c’è tra amnistia e indulto. E le risposte delle aspiranti penne giudiziarie sono spesso esilaranti. La verità è che le espressioni “Amnistia e indulto”, “sovraffollamento”, “condanne europee”, “tipologia di reati” generano confusione e suggestioni. Si dice tutto e il contrario di tutto, un po’ per ignoranza un po’ per convenienza. Allora forse è il caso di mettere ordine rispetto alle tante affermazioni che stanno girando in queste ore.
L’indulto non si applica ai reati di cui Berlusconi è accusato.
Dipende da quali reati verranno esclusi dal provvedimento e dall’entità temporale della pena. Nel 2006 fu concesso l’indulto di 3 anni per quasi tutti i reati commessi fino a quell’anno (escluse 26 fattispecie, dall’associazione sovversiva al sequestro, dai reati sessuali all’usura, dal riciclaggio alla pedopornografia alla strage). Compresi quelli per cui B. è stato condannato o è attualmente imputato e indagato: frode fiscale, corruzione (anche giudiziaria), induzione alla falsa testimonianza, concussione .
L’Europa ci condanna per il sovraffollamento, per cui dobbiamo ricorrere all’amnistia e all’indulto.
È vero che l’Europa ci condanna, ma è altrettanto vero che ci chiede provvedimenti strutturali per risolvere a monte il problema. E l’urgenza dei provvedimenti invocati dal presidente Napolitano non è dettata da Strasburgo e da eventuali sanzioni: basti pensare che dal 1959 – anno del-l’istituzione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – ad oggi, le sentenze di condanna nei confronti del nostro Paese sono state oltre duemila. Qualche esempio: nel 2009 il ricorso presentato e vinto da un detenuto di Re-bibbia determinò il primo Piano carceri dell’allora ministro Alfano. E a gennaio 2013 la Corte ci ha già condannato a pagare 100mila euro per danni morali a sette detenuti di Busto Arsizio e di Piacenza.
Siamo il Paese europeo con il numero maggiore di detenuti rispetto agli abitanti.
È falso. Il tasso di detenzione per 100.000 abitanti è pari a 112,6 in Italia, a 127,7 in Europa, a 156 nel mondo (dati Istat). Nel dettaglio negli Usa sono il rapporto è 730, in Russia 590, in Nuova Zelanda 199. Per restare alla sola Europa, in Francia è 103,4, in Spagna 161,3, nel Regno Unito 151,6, in Germania 87,6, nella Repubblica Ceca 209, in Polonia 211.
Le carceri sono piene di detenuti per reati bagatellari.
A determinare l’alto numero di detenuti per “minima lesività” e quindi “minore rilevanza sociale” è per gran parte la Fini-Giovanardi, la legge del 2006 che ha inasprito le pene sulla detenzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti . Nella statistica di “soggetti adulti che hanno beneficiato dell’indulto divisi per tipologia di reato”, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ci fa sapere che, grazie all’indulto del 2006, sono uscite di galera 14.988 persone. Per reati contro il patrimonio – abigeato, furto, taccheggio, estorsione, ecc. –, 20.548. Le cifre non sono da sommare, perché un singolo detenuto potrebbe aver commesso entrambi i reati.
Amnistia e indulto servono a svuotare le carceri.
Nel 2006 si passò dai 60.710 detenuti di luglio ai 38.847 di agosto. Nel 2008, però, due anni dopo, le persone in cella erano già tornate a quota 54.789. Questo dimostra che se nel frattempo non si interviene strutturalmente, come appunto ci chiede l’Europa, il problema del sovraffollamento non si risolve. Come ha spiegato ieri al Fatto il commissario del governo per le Infrastrutture carcerarie, Angelo Sinesio, occorre depenalizzare la Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini e iniziare a concepire un modello diverso di penitenziario.
L’amnistia e l’indulto diminuiscono le recidive.
Subito dopo l’indulto del 2006, il Viminale diffuse come al solito i dati sui reati: +15,2 per cento di furti e +5,7 per cento di rapine nel secondo trimestre dell’anno. Secondo l’Abi (l’Associazione bancaria italiana) le rapine in banca, che erano scese del 17 per cento, dopo l’indulto crebbero del 30,5 per cento. Non a caso, a distanza di pochi mesi, spuntò un pacchetto sicurezza. Secondo il centro di documentazione “L’altro diritto”, che ha analizzato tutti i provvedimenti di clemenza generalizzata dal dopoguerra a oggi, “gli effetti negativi superano di larga misura gli aspetti positivi in vista dei quali sono stati adottati e si risolvono in un aumento della criminalità”.

il Fatto 10.10.13
Mauro Palma:  “Amnistia? L’Europa non chiede toppe”
di Giampiero Gramaglia


Il Consiglio d’Europa chiede all’Italia di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, non le dice come deve farlo: si tratta di rimuovere una situazione di violazione” dei diritti dell’uomo, sancita dalla Corte di Giustizia di Strasburgo, “e di trovare una soluzione risarcitoria per chi ha subito tale violazione”.
Mauro Palma, già a capo del Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa, fa il punto del contenzioso sulle carceri tra Strasburgo e Roma. Palma, matematico e ricercatore, uno dei fondatori di Antigone, di cui è stato il primo presidente, è attualmente presidente della Commissione ministeriale sul sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani.
Nelle sue richieste, il Consiglio d’Europa non evoca né amnistia né indulto. Palma spiega: “Un’amnistia può aiutare ad azzerare la situazione di partenza. Ma se ci si limita a un’amnistia , allora si tratta solo di un provvedimento deflattivo, che non risolve, perché, dopo un po’, ci si ritrova nella situazione di partenza”.
L’ITALIA HA TEMPO fino a fine novembre per presentare un piano d’intervento al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che controlla tramite un comitato ad hoc l’esecuzione delle sentenze; e avrà poi sei mesi per attuarlo. I responsabili dell’Istituzione di Strasburgo, che riunisce 47 Paesi europei, ne hanno già discusso con i ministri Severino, prima, e Cancellieri, poi.
Dall’Italia ci si attende “provvedimenti strutturali” e l’amnistia “non lo è”: la Commissione di Palma si muove per portare l’Italia “in linea con i modelli europei” di trattamento carcerario, utilizzando strumenti che vanno dall’edilizia carceraria alla depenalizzazione dei crimini di lieve entità all’evoluzione dei modelli organizzativi di pene e lavoro nelle carceri. “Questa è la direzione giusta. Se ci si muove in questa direzione, un’amnistia può pure starci. Ma un’amnistia da sola non risolve il problema”. La sentenza contro l’Italia dell’8 gennaio è una sentenza pilota, una formula adottata dal 2004: essa pone cioè le basi per sanare, col concorso dello Stato in causa, un mancato rispetto dei diritti umani. Il 27 maggio, il ricorso dell’Italia fu giudicato inammissibile: da quel giorno, decorrono i termini per affrontare la questione. Ad oggi, la Corte ha ricevuto quasi 600 ricorsi da detenuti in Italia, costretti a vivere in celle dove lo spazio a disposizione è inferiore a quanto accettabile dal punto di vista della loro dignità. Il giudizio di gennaio offre un percorso per sanare gran parte di questi casi.
A giugno, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa chiese al governo di Roma di fornirgli presto i dati sul sovraffollamento nei penitenziari italiani. Il contenzioso tra Strasburgo e Roma sulle carceri risale al 2009, quando l’Italia subì la prima condanna per violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti del-l’uomo e delle libertà fondamentali.
L’8 gennaio la seconda Camera della Corte pronunciò la sentenza del cosiddetto ‘caso Torreggiani’, relativo alla carenza di spazio e alle disfunzioni nei servizi subìte
per molti mesi da sette detenuti - italiani e non - nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. Con quella decisione, ribadita a maggio, la Corte individuava l’esistenza di un “problema strutturale” nelle carceri di tutto il Paese e invitava l’Italia ad adottare entro un anno misure specifiche, compreso un “equo indennizzo pecuniario”, 100mila euro, per i danni morali subiti dai sette detenuti. Dopo la sentenza, la commissaria alla Giustizia dell’Ue Viviane Reding aveva definito “scandalosa” la situazione delle carceri italiane, ricordando che l’Unione non ha poteri in merito: “Le condizioni detentive rientrano nelle competenze degli Stati membri”, finora contrari “a interventi normativi”.

il Fatto 10.10.13
CSM Il plenum diviso sul “libera tutti”


L’amnistia e l’indulto lanciati dal presidente Giorgio Napolitano non convincono diversi membri del Csm: non risolvono il dramma del sovraffollamento delle carceri. Lo hanno detto ieri diversi consiglieri al plenum del mattino. Per Glauco Giostra, laico del Pd, hanno un “pernicioso effetto deresponsabilizzante” per cui “sarebbe opportuno che fossero preceduti da riforme strutturali, normative e organizzative. Sarebbe inutile auspicare l’avvento delle riforme solo dopo l’adozione di interventi di clemenza”. Per il togato di Unicost, Paolo Auriemma “sono solo palliativi e se attuati senza una riforma normativa di complessiva ristrutturazione” del sistema sono destinate a “ricreare condizioni preesistenti”. La sua collega di gruppo, Giovanna di Rosa pensa, invece, che il messaggio di Napolitano “debba trovare sentita e calda accoglienza in questa sede”. Anche per il togato di Magistratura Indipendente, Antonello Racanelli, amnistia e indulto “da soli sono misure tampone” e dovrebbero esserci più istituti penitenziari: “Da anni non si costruiscono nuove carceri”.
a.masc.

il Fatto 10.10.12
L’emergenza ha la memoria corta
di Gianni Barbacetto


HASSAN H. è stato arrestato il 5 settembre per spaccio di hashish. Ha 28 anni, è egiziano. Da 35 giorni è chiuso nel carcere di San Vittore di Milano, in una cella di due metri e mezzo per quattro e mezzo, dove vive con sei compagni di reclusione, sistemati in tre letti a castello. Il suo avvocato, Mauro Straini, ieri ha chiesto al giudice Giuseppe Cernuto la revoca della custodia cautelare: “A causa delle condizioni disumane di carcerazione, in violazione del codice di procedura penale, della Costituzione e delle indicazioni provenienti dall’Europa”.
Il legale spiega che l’Unione europea ha indicato come “strutturale” il sovraffollamento carcerario in Italia, dunque non ritiene utile chiedere il trasferimento in un altro e diverso istituto di custodia. Non c’è altra soluzione possibile che la scarcerazione, dice Straini. “La soluzione del problema non è rinviabile al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. È una questione di diritti umani: “La Costituzione afferma che il detenuto non può essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti”.
La storia di Hassan è una delle centinaia di storie personali che si possono raccogliere a Milano e una delle migliaia che è possibile mettere insieme in tutta Italia. I numeri sono quelli che vengono ripetuti in questi giorni: i detenuti sono 65 mila in carceri dove ci sarebbe posto per meno di 47 mila. Ora l’intervento del capo dello Stato rilancia il dibattito e le polemiche su amnistia e indulto. Gran parte della politica macina argomenti per arrivare a un provvedimento che metta al sicuro un condannato eccellente o qualche decina di condannati eccellenti. Le migliaia di poveri cristi reclusi nelle carceri italiane sono usati come scudi umani per quei pochi (non pochissimi, in verità) che stanno davvero a cuore ai loro colleghi di partito, in più d’un partito. E allora è bene ripetere che il provvedimento eccezionale (l’amnistia, l’indulto, come in altri campi la sanatoria, il condono) non risolvono affatto problemi che sono strutturali. In mancanza di provvedimenti di sistema, tra qualche mese le carceri italiane sarebbero di nuovo al collasso. Hassan ha diritto di trovare subito una soluzione. Anche se la Corte costituzionale ha respinto ieri la richiesta sollevata dai tribunali di sorveglianza di Venezia e Milano di poter rinviare l’esecuzione della pena anche per il sovraffollamento carcerario e le condizioni disumane di detenzione. È la politica che deve risolvere alla radice il problema: non con la bacchetta magica di provvedimenti straordinari che sono effimeri, dannosi per il sistema e utili invece per i colletti bianchi; ma con interventi strutturali.
PIÙ CARCERI e depenalizzazioni intelligenti. Via la ex Cirielli che ha inasprito le pene per i recidivi e affolla le celle. Via la Bossi-Fini e il decreto Maroni che riempiono le carceri di colpevoli del reato di immigrazione clandestina. Via soprattutto la Fini-Giovanardi sulla droga che riguarda un terzo dei detenuti in Italia (26mila su 65mila).
Viene in mente ciò che scrisse nel 2006 sul Corriere il giurista Vittorio Grevi, in polemica con i fautori dell’indulto varato in quell’anno: se davvero si vogliono salvare i poveri cristi, argomentava Grevi, è sufficiente una legge ordinaria (che non ha bisogno di una maggioranza dei due terzi del Parlamento e non è dunque sottoposta ai ricatti di chi vuole salvare il “suo” o i “suoi”) che sospenda l’esecuzione della pena fino a un massimo di due o tre anni, per i soli detenuti che abbiano già scontato una determinata frazione della loro condanna. Ma la memoria è corta, soprattutto per chi non vuol ricordare.

La Stampa 10.10.13
I limiti a un indulto necessario
di Vladimiro Zagrebelsky

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l’Unità 10.10.13
Femminicidio, primo sì. Ora corsa al Senato
di Natalia Lombardo


ROMA Per il rotto della cuffia, a pochi giorni dalla scadenza per la conversione in legge (il 14 ottobre), il decreto sul «femminicidio» è stato approvato alla Camera e ora dovrà correre al Senato senza essere modificato, altrimenti decadrà.
A favore 343 sì dai banchi della maggioranza, Pd, Pdl, Sc, 20 gli astenuti (Lega), mentre Sel non ha partecipato al voto per protesta, perché, ha spiegato in aula Tutti Di Salvo, «il decreto contiene anche norme «a favore della militarizzazione della Val di Susa». Non hanno partecipato al voto anche i Cinque Stelle, tutti in piedi a braccia incrociate per contestare il decreto «omnibus»: in effetti contiene misure «per la sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, la protezione civile e il commissariamento delle Province».
Soddisfatte invece le deputate democratiche: «Senza enfatizzare, è un «ottimo e importante provvedimento» che dà una prima risposta all’attuazione della Convenzione di Istanbul, secondo Donatella Ferranti, Pd: «Le donne ora potranno contare su una tutela più attenta e incisiva contro ogni violenza di genere» e il testo è, secondo la relatrice (insieme a Francesco Paolo Sisto, Pdl), «decisamente migliorato» rispetto a quello originario. Un passo avanti importante sotto il profilo giuridico e politico», commenta Fabrizia Giuliani, Pd, perché «la violenza domestica esce definitivamente dal silenzio della sfera privata, troppo a lungo tollerata o sottovalutata e viene riconosciuta in tutta la sua gravità».
Cosa prevede il dl: nuove aggravanti per chi commette violenze. Tutele per le vittime di violenza anche domestica e maltrattamenti, con un Piano di azione antiviolenza (diventato «ordinario» dopo una battaglia delle democratiche, quindi continuativo e non «straordinario») per la prevenzione e la tutela. Stanziati 10 milioni di euro per azioni di prevenzione, educazione e formazione, tra queste una rete di case-rifugio (previsti altri 7 milioni nel 2014 e altri 10 all'anno a partire dal 2015); estensione del gratuito patrocinio, per le donne straniere che subiscono violenza (o mutilazioni genitali), il permesso di soggiorno potrà essere rilasciato, mentre l’aggressore sarà espulso.
Una aggravante sulla pena riguarda il maltrattamento in famiglia e i reati di violenza fisica commessi in presenza di minori o su donne incinte. pene più gravi per violenza (o stalking) commessi dal coniuge (anche separato o divorziato) o da chi sia o sia stato legato da relazione affettiva. Uno degli argomenti più controversi, criticato da associazioni femministe, è stato quello della «irrevocabilità» della querela per stalking, ma è stata trovata la mediazione sulla «soglia del rischio»: in presenza di gravi minacce ripetute, ad esempio con armi, la querela diventa irrevocabile. Resta revocabile invece negli altri casi, ma la remissione può essere fatta solo in sede processuale davanti all’autorità giudiziaria, per garantire (e non comprimere) la libera determinazione e la consapevolezza della vittima. L’ammonimento per stalking può comportare il ritiro della patente, è previsto l’arresto in caso di fragranza anche per violenza in famiglia e stalking; previste le intercettazioni e l’allontamento urgente dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima, la persona sarà seguita con braccialetto elettronico.

il Fatto 10.10.13
I ricostituenti Cheli e Onida
Concorsi truccati, per i “saggi” si può


Nervosetti, questi “saggi” ri-costituenti. Sul Corriere due di essi, Enzo Cheli e Valerio Onida (presidente emerito della Consulta) sparano a zero contro l’inchiesta barese sui concorsi universitari truccati perché gli inquirenti hanno osato coinvolgere altri cinque “saggi” nominati dal governo e da Napolitano per riscrivere la Costituzione. Con il linguaggio dell’armamentario berlusconiano, il duo Cheli-Onida parla di “operazione politica” per “attaccare e screditare la commissione”, come se a screditarla fosse chi racconta dei professori denunciati, e non gli eventuali reati da questi commessi. I due ce l’hanno pure con la giustizia a orologeria, visto che la notizia dell’indagine è uscita “dopo anni” (cioè quando si è saputa). Poi interrogano furiosamente i pm che hanno osato tanto: quali sarebbero i reati nel “vero o presunto diffuso malcostume accademico nella gestione dei concorsi”? Al massimo sono “ipotetici reati”, mentre il “reato sicuro” l’hanno commesso i giornalisti che han dato la notizia e i loro informatori. Ma anche chi sabato 12 si azzarderà a manifestare in difesa della Costituzione malmenata dai “saggi” “usando o avallando questi metodi”, cioè le indagini sui concorsi truccati. Un dubbio: anche i saggi godono, per contagio, dell’immunità presidenziale?

La Stampa 10.10.13
Estrema destra in crescita
L’onda Le Pen che spaventa l’Europa
di Cesare Martinetti

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«Che impressione le ha fatto il dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari?
Complimenti a Scalfari per il colpo giornalistico. Quanto ai contenuti che il Papa espone solo assolutamente quelli tradizionali»
il Fatto 10.10.13
Il filosofo Paolo Flores d’Arcais
“La democrazia è in crisi ma non ha bisogno di Dio”
di Silvia Truzzi


La domanda è sconveniente. “Infatti – spiega Paolo Flores d’Arcais nel suo La democrazia ha bisogno di Dio? Falso! – non echeggia mai nei ricorrenti dibattiti su religione e politica, quasi che fosse temerario anche solo pensarla e blasfemo formularla”.
La risposta del direttore di Micromega è un deciso no. Che si fonda su un evangelico invito di Matteo: “Il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno”.
Perché è necessario chiedersi se la democrazia ha bisogno di un presupposto religioso?
Per rovesciare l’idea corrente e dominante secondo cui la democrazia in crisi ha bisogno di ricorrere alla religione per non rischiare il tracollo. Un’idea che non mi avrebbe mai preoccupato se l’avessi ritrovata solo in Wojtyla, Ratzinger, Tariq Ramadan. Ma siccome costituisce, da almeno una decina d’anni, il filo conduttore di tutte le riflessioni filosofico-politiche di Jürgen Habermas, a questo punto mi pare una tesi molto significativa e molto preoccupante per il mondo laico. Di qui la necessità di confutarla.
È più temibile ora, in uno scenario di degrado istituzionale e di crisi economica?
La questione diventa sempre più urgente perché la crisi delle democrazie occidentali è sempre più evidente. Ed è una crisi duplice: riguarda sia i sistemi politici, cioè la distanza sempre più crescente tra i cittadini e i loro rappresentanti, sia il piano socio-economico. Mi riferisco al divario sempre più abissale tra quelli che hanno poco e quelli che hanno molto: esplodono da un lato i privilegi e dall’altro lato le povertà. A fronte di questa crisi, si moltiplicano, anche in ambiti laici, i tentativi di ricorrere alla religione come fondamento di principi di solidarietà che la laicità non sarebbe più in grado di produrre. Per questo, solo la religione ci potrebbe salvare.
È plausibile oggi negare alla religione un ruolo pubblico tout court?
Dipende cosa vuol dire. Se la sua è un’affermazione, allora ahimè non possiamo che notare come le religioni abbiano un ruolo pubblico sempre crescente. Se si tratta di dare un giudizio di valore e di compatibilità, la tesi del mio testo è esattamente questa. Cioè: va negato radicalmente e in modo sistematico ogni ruolo pubblico delle religioni nella democrazia, perché qualsiasi ruolo pubblico minaccia e mette a repentaglio elementi essenziali del sistema democratico.
La religione s’individua anche attraverso i sistemi valoriali che indica. E in un momento di vuoto dell’etica diventa un’àncora. Lei obietta: non è l’unica etica possibile.
Dico di più: non solo che c’è un sistema di valori laico-repubblicano, ma cerco di dimostrare che solo questo insieme di valori può essere l’orizzonte comune di una convivenza democratica. Mentre il ricorso alla religione, porta a danni disastrosi, sia perché rende i conflitti non negoziabili, sia perché colpisce alla radice le libertà dei singoli.
Qualche esempio?
Tutte le questioni bioetiche hanno un peso sempre maggiore nella nostra vita quotidiana. L’altro giorno si è suicidato Carlo Lizzani. Come ha ricordato nel suo biglietto d’addio voleva “staccare la chiave” insieme alla moglie. Serenamente, attraverso il suicidio assistito. Ma non ha potuto: in Italia il suicidio assistito è punito con dodici anni di carcere. Perché? La vita di Lizzani appartiene a Lizzani. Il suicidio non è un reato e nemmeno il tentativo di suicidio è sanzionato. Perché chi mi aiuta rischia dodici anni di carcere? Perché un sistema di valori religioso vuole imporre la sua particolare morale come morale dello Stato. Lo stesso vale per divorzio, aborto, matrimonio tra persone dello stesso sesso, ricerca sulle staminali. Il credente è democratico solo a patto che sappia dire: secondo la legge dello Stato ciascuno è libero. E io, in quanto cittadino e benché cattolico, mi batterò per questa libertà di tutti. Poi io, in quanto cattolico, questi atti non li compirò. Questo significa mantenere la religione nell’ambito privato. Alcuni cattolici questo discorso lo fecero, ai tempi del referendum sul divorzio. Ma furono colpiti dagli anatemi delle gerarchie ecclesiastiche.
Lei scrive che il vero banco di prova tra credenti e non credenti è la scuola pubblica.
Venticinque anni fa scrissi che si accettavano le pretese della Chiesa cattolica in fatto di sistema scolastico, prima o poi si sarebbero dovute accettare pretese analoghe da parte di scuole islamiche. Naturalmente queste considerazioni nemmeno furono prese in considerazione, perché il problema in Italia sembrava riguardare solo la Chiesa cattolica. Oggi il tema è all’ordine del giorno in tutta Europa, perché se esiste uno spazio per le scuole confessionali allora deve valere per tutti. E quindi si darà luogo a una ghettizzazione del sistema educativo. Ma il sistema educativo non è fatto solo per trasmettere conoscenze tecniche o nozioni, è fatto anche per dotare tutti bambini che diventano adolescenti e poi adulti di strumenti critici in grado di renderli cittadini consapevoli e liberi. Dare strumenti critici è incompatibile con ogni visione confessionale del mondo e delle società. Ne abbiamo le prove: è la Cei che ha bloccato l’insegnamento nelle scuole elementari del darwinismo, un progetto che portava l’autorevole firma di Rita Levi Montalcini.
Che impressione le ha fatto il dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari?
Complimenti a Scalfari per il colpo giornalistico. Quanto ai contenuti che il Papa espone solo assolutamente quelli tradizionali, ma il tono rappresenta una vera inversione a “u” rispetto al pontificato di Ratzinger. Ed è questo che potrebbe avere un grande effetto.

LA DEMOCRAZIA HA BISOGNO DI DIO. FALSO! di Paolo Flores d’Arcais, Idòla, Laterza 144 pagg., 9 euro

Repubblica 10.10.12
Papa Francesco Eugenio Scalfari. Il dialogo tra chi crede e chi non crede
Esce domani con “Repubblica” e in libreria il volume che raccoglie lo scambio di idee tra il pontefice e il fondatore del nostro giornale
I contributi sono di Vito Mancuso, Joaquín Navarro Valls, Umberto Veronesi, Adriano Prosperi, Enzo Bianchi, Mariapia Veladiano, Julián Carrón, Guido Ceronetti, Hans Küng, Massimo Cacciari, Gustavo Zagrebelsky, Leonardo Boff e Matthew Fox. Il libro, in collaborazione con Einaudi, costa 8,90 euro più il prezzo del giornale
di Ezio Mauro


L’interesse per l’uomo è il cuore del lungo dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Più ancora ne è la ragione, l’inquietudine. Il non credente legge l’enciclica e pone un interrogativo di fondo al nuovo pontefice: chi non ha fede sarà perdonato alla fine dei tempi? Se ricerca verità relative, non credendo nell’assoluto, ciò sarà considerato un errore o un peccato? Qual è dunque lo status del non credente per il Papa di Roma, che ruolo assegna al libero pensiero, alla sua ricerca autonoma e indipendente, e in quale misura si sente interpellato da tutto questo?
La decisione di rispondere da parte di Jorge Bergoglio è già in sé una manifestazione di interesse e di attenzione senza precedenti. Non c’era mai stata una lettera di un Papa a un giornale. Scegliendo di scriverla, Francesco sceglie anche di interloquire con una platea più vasta ed anomala rispetto all’uditorio costituito dei fedeli: è come se decidesse di passare dal popolo cristiano alla pubblica opinione, un soggetto distinto, autonomo, moderno, soggetto attivo e protagonista delle democrazie occidentali.
La decisione di dialogare, dunque, è un messaggio in sé, è portatrice di significato, fa il giro del mondo. Scalfari è scelto dal nuovo Papa come il rappresentante di un universo esterno alla Chiesa, ma un universo che lo interessa, che lo raggiunge, di cui si sente in qualche modo responsabile. E qui c’è la seconda sorpresa, che è il secondo messaggio. Perché il Papa sceglie la strada del dialogo, dichiara subito che intende avviare un percorso di confronto per tentativi, tappe, incontri. Qualcosa di impegnativo, fuori dai canoni, dall’ufficialità, dalla meccanica curiale. Il Papa si sente investito dalle domande, dall’interlocutore, dall’occasione. Pensa che insieme si possa andare avanti a cercare, a scambiare porzioni di verità, forse a capire.Insieme. E qui, si arriva al contenuto, che è il terzo messaggio ed è ancora una sorpresa. Leggendo la lettera, quel pomeriggio in cui è arrivata a Scalfari, ho avuto la sensazione che il Papa fosse pervaso da un fortissimo interesse spirituale ma soprattutto intellettuale per la discussione che si stava avviando, quasi spinto dall’urgenza degli argomenti da mettere in campo, guidato dal desiderio autentico di quella ricerca comune. Il centro del suo discorso, l’urgenza che lo domina, è Gesù Cristo, Dio fatto uomo e poi risorto. Ma di fronte al non credente — e quasi insieme con lui — il Papa ripete la domanda del Vangelo quando Gesù ha calmato il mare fermando i venti e la tempesta: «Chi è costui?» E la risposta di Francesco spiega da sola le ragioni del dialogo. Perché l’autorità di Gesù non vuole esercitare un potere sugli altri, ma vuole servirli, dice il Papa, e dare loro libertà e pienezza di vita.
Chi sono questi altri? Sono forse i credenti soltanto? Con ogni evidenza sono gli uomini, con i loro limiti e i loro errori, la loro incompiutezza e la tensione verso la bellezza, con la loro speciale (diversa per ognuno, ma intima e autentica) concezione del bene e del male, insomma con la loro speciale “umanità”. Ecco perché il Papa dà non soltanto ascolto, ma pari dignità al non credente e alla sua ricerca di significato per il mondo che ognuno di noi attraversa durante la sua esistenza. È il riconoscimento implicito che anche senza il legame con il trascendente — che per Francesco è ovviamente centrale e domina la sua vita — l’esperienza terrena può trovare un suo senso e la sua dignità più alta, quella appunto che sta nei limiti e nell’eccezionalità dell’“umano”.
Il Papa compie qui quello che a me sembra un vero atto di fede nell’uomo. Dice infatti a Scalfari, sciogliendo il nodo di fondo di questo dialogo, che la vera questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza, perché il peccato, anche per chi non ha fede, si compie quando si va contro la coscienza. La coscienza può dunque essere la guida dell’uomo e la sua misura, la risorsa e il riferimento. È un riconoscimento senza precedenti, da parte di un Papa, della possibilità di autonomia morale e spirituale del libero pensiero laico, che troppi relegano in una posizione di minorità sostenendo che senza il legame col trascendente non sarebbe in grado di garantire i presupposti che afferma. Nell’intervista che prosegue e sistematizza il confronto, il Papa si muoverà invece ancora su questa nuova strada, ricordando che non esiste un Dio cattolico, esiste Dio, e «tutta la luce sarà in tutte le anime». E aggiunge che la grazia non fa parte della coscienza ma la precede, perché non è sapienza o ragione, ma «la quantità di luce che abbiamo nell’anima ». Tutti, compresi i non credenti.
Il dialogo che raccogliamo qui, nello scambio di lettere, nel testo dell’intervista, nei commenti di intellettuali laici, uomini di Chiesa, teologi — è avviato, partendo da posizioni distinte, che restano ferme e nette. Ma dopo questa testimonianza di fiducia nell’uomo da parte di Francesco si può camminare insieme.

Repubblica 10.10.13
Fascismo, Prima e Seconda Repubblica
Tutti i cicli della storia
di Guido Crainz


Un primo ventennio vi è certo stato, nel Novecento italiano, ed ha coinciso con un regime: ha devastato e sepolto l’Italia liberale, e sulle sue ceneri è nata la Repubblica.
Qui però le questioni si complicano: ove si guardi alla storia politica il 1945 è una cesura indubbia ma lo è anche per la storia economica o per quella sociale e del costume? Con il procedere dei decenni, poi, le periodizzazioni ci appaiono via via più discutibili e meno rigide, più ricche di contaminazioni e ambiguità. È sicuramente facile identificare la fase della Ricostruzione, segnata anche dalla guerra fredda (e dal centrismo in politica), o quella del miracolo economico (e del primo, più fecondo centrosinistra). Una grandissima trasformazione, il nostro “miracolo”: ha riguardato economia e consumi, culture e immaginari, geografia sociale e produttiva, modalità dell’abitare e del vivere, sino al rapporto fra religione e laicità o all’attuazione di una Costituzione troppo a lungo “congelata”: non c’è parte del nostro vivere collettivo che non sia stato segnata in profondità dal breve e tumultuoso scorrere di quegli anni. Una “mutazione antropologica”, per dirla con Pier Paolo Pasolini.
Da lì in poi le periodizzazioni proposte di volta in volta lasciano invece molti dubbi, a partire da quella “stagione dei movimenti” che il ’68 avrebbe innescato e che rischia dicoprire col suo manto anche pulsioni corporative o localistiche. E che confluisce in anni settanta variamente messi agli atti come stagione delle riforme o – per altri e opposti versi – della strategia della tensione e poi degli anni di piombo. Definizioni che alla lunga distanza appaiono molto parziali mentre sembra ingigantirsi invece la cesura di cui sono simbolo alla fine del decennio i funerali di Aldo Moro: quasi “funerali della Repubblica”, come è stato scritto. Spartiacque fra un “prima” e un “dopo” nel modo di essere della società e della politica. Di lì a poco, nello sconfitto rifluire del terrorismo, diventeranno sempre più visibili i guasti che stanno corrodendo istituzioni e partiti: “muore ignominiosamente la Repubblica”, scriveva il poeta Mario Luzi.
Non è difficile cogliere infine negli anni Ottanta anche la corposa incubazione della stagione successiva: con il radicale modificarsi dei luoghi di lavoro e dei ceti sociali, l’irrompere di nuove culture (o inculture), il dominio di un sistema dei media sempre più invasivo e distorsivo, e sempre più intrecciato alla politica. Con la crisi, non solo italiana, dei partiti basati sull’appartenenza e la militanza. Ma anche con il degradare delle istituzioni, con un salto di qualità nella corruzione politica, con lo sprezzo crescente dei valori collettivi. Solo un anticipo di quel che avverrà poi, scandito e accentuato dal tracollo del panorama politico precedente, dall’affermarsi prepotente del partito mediatico e personale, dall’erosione quotidiana della legalità e del diritto. Da questo punto di vista è certo lecito parlare di ventennio berlusconiano ma c’è da chiedersi se abbiamo avuto davvero una “seconda repubblica”.
Per avere qualche dubbio è sufficiente uno sguardo alla Francia: lì la “numerazione” delle repubbliche è scandita da grandissimi traumi (la Rivoluzione, il 1848, la Comune di Parigi, l’occupazione nazista, la crisi algerina), seguiti da profonde modifiche istituzionali. Davvero un’altra cosa, e per molti versi è utile cogliere invece le radici dell’ultimo ventennio: ci aiuta a capire meglio con quali e quante macerie dobbiamo ora fare i conti. Quanto sia lunga e difficile la nuova Ricostruzione che ci aspetta.
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Non è difficile vedere negli anni Ottanta la corposa incubazione della stagione successiva, con il radicale modificarsi dei rapporti di lavoro e il dominio di un sistema dei media sempre più invasivo e distorsivo

Repubblica 10.10.13
L’altra Fulvia
Gigliola Carusi è morta qualche mese fa. Il figlio “Non voleva rivelare il suo segreto finché era viva”
“Fenoglio ritrasse mia madre nel libro Una questione privata”
di Massimo Novelli


TORINO «Doveva essere il 1960, tutt’al più il 1961, quando mia mamma Gigliola andò ad Alba a trovare i nonni. Era sposata, noi figli eravamo già nati. Nella città delle Langhe, proprio davanti al portone della loro casa, in via Roma 14, incontrò Beppe Fenoglio. Si salutarono. Poi lui le disse: “Gigliola, ho scritto un romanzo ispirandomi a te, tu sei la protagonista di un romanzo che ho scritto”». A raccontare è Corrado Franco, regista cinematografico, figlio di Gigliola Carusi Franco, poetessa, giornalista, autrice di teatro e insegnante, morta a 88 anni a Torino nel febbraio scorso, lo stesso mese in cui, nel 1963, morì Fenoglio. Scomparsa la madre, della quale ha pubblicato i versi nel 2011 facendosi editore in proprio per quel solo libro, Non sono poesie, e venuto meno il suo desiderio di non divulgare i “segreti” che la legavano allo scrittore, Corrado rompe il riserbo. Adesso li può svelare.
Gigliola era la Fulvia diUna questione privata. L’altra Fulvia almeno, perché nel personaggio del libro si è identificata anche la signora Benedetta “Mimma” Ferrero, che vive a Roma da molto tempo. Nel romanzo, uscito postumo nel 1963, è narrata la storia dell’amore del partigiano Milton, lo stessoFenoglio, per una ragazza chiamata Fulvia. Ma, al centro della vicenda, c’è soprattutto l’ossessione che lacera Milton, il dubbio che lo tormenta: Fulvia e Giorgio Clerici, il suo migliore amico, si sono amati e lo hanno tradito?
Gigliola Carusi Franco non si limitò, spiega il figlio, «a rievocare a me e a mio fratello Antonello, che fa il filosofo, l’innamoramento del giovane Fenoglio per lei. Fece il nome del vero Giorgio Clerici, mai reso noto fino a oggi. Si chiamava Ugo Rabino». Era uno dei giovanotti più affascinanti di Alba, giocava a pallacanestro come Fulvia e Giorgio Clerici nel libro, e come, nella realtà, vi giocava Gigliola. Per qualche tempo, oltretutto, fu partigiano come Fenoglio nella II Divisione Langhe degli autonomi. Gigliola aggiunse un terzo “segreto”. Disse ai figli, pregandoli però di non parlarne con nessuno finché lei fosse stata in vita, che fra lei e Rabino c’era stato davvero un flirt, un “filarino”. Ricorda Franco: «Quando lesse che la signora Benedetta Ferrero s’era identificata in Fulvia, senza tuttavia rivelare l’identità di Giorgio Clerici, mia madre sorrise e mi disse in tono perentorio: “Io sono Fulvia. Sono la sola che conosce la verità. Fulvia e Giorgio Clerici ebberouna relazione? La mia risposta è sì. Neanche Beppe lo sapeva” ».
La madre di Corrado Franco era bella. Rammenta lui: «Era bellissima come le sorelle. Era figlia di Lorenzo Carusi, il primario dell’ospedale San Lazzaro di Alba, un uomo che ha aiutato tanta gente durante l’occupazione tedesca. Aveva conosciuto Feno-glio, più vecchio di due anni, al liceo classico Govone. Mi ha sempre detto che Beppe era stato innamorato di lei e che, per un certo periodo, si erano frequentati, anche se fra loro non c’era stato neppure un bacio».
Eppure, per anni, si è creduto che la bella Fulvia fosse Benedetta Ferrero. La signora, d’altronde, lo ha detto in diverse occasioni. Precisa Corrado Franco: «Non dubito, nel modo più assoluto, che non sia in buona fede. Penso che Fenoglio, come spesso succede agli scrittori, si sia ispirato a entrambe. Resta il fatto che ci sono diverse caratteristiche biografiche del personaggio di Fulvia che corrispondono a mia madre; altre, invece, sembrano appartenere di più a Benedetta». In ogni caso, continua, «mia mamma ascoltava dischi americani con Beppe, e la loro canzone, come nel romanzo, eraOver the Rainbow. Lei e Fenoglio facevano lunghe passeggiate in collina e sulla circonvallazione; mia mamma fumava, come Fulvia, ed era come lei una gran divoratrice di libri. Andava a casa di Beppe e lui andava a casa sua. C’è un’ulteriore affinità che li lega. Il giovane Fenoglio, negli anni Quaranta, scrisse La voce nella tempesta, una riduzione teatrale daCime tempestose di Emily Brontë. Ebbene: mia madre preparò una tesi di laurea in quel periodo, in seguito accantonata, su quel romanzo».
Gigliola ha voluto parlare dei suoi “segreti” innocenti in una poesia, composta verosimilmente tra il 2000 e il 2008, e ritrovata dai figli dopo la morte. È dedicata a Fenoglio, si tratta di un dialogo con lui in cui si intrecciano fatti veri, che sono parecchi, e finzione, che è poca. Comincia ricordando quando lui l’aspettava «sotto al portone / alle 6 tutte le sere andavamo a fare la circonvallazione. (...) Tutta Alba diceva che era bruttino / ma io lo trovavo bellissimo. / Mi faceva leggere / ciò che aveva scritto ». Non nasconde, a un certo punto, la loro “questione privata”. È quando scrive: «Lui nel libro l’aveva / ribattezzato Giorgio; ma io / sapevo che era Ugo Rabino ». Fenoglio le chiede: «Non hai nulla da dirmi in proposito? / Mi guardava come se volesse bucarmi l’anima. / “Era vero. Io risposi (non avrei voluto dirglielo). / Tu eri sparito, aggiunsi, senza dirmi nulla. / Ugo era bellissimo, assomigliava ad Errol Flynn. / Andavano ad amoreggiare in uno stallatico, cioè dove / i contadini delle Langhe venivano in Alba lasciando i loro carri». Ricordi e forse rimpianti, nostalgie, di una donna non comune, che non ha mai approfittato in alcun modo di quel legame in vita e in letteratura con Beppe Fenoglio.

Repubblica 10.10.13
Il Nobel contestato
L’Accademia si spacca sul premio alla Fisica
di Elena Dusi


Dopo 112 anni di riserbo e rigore nordico, il Comitato dei Nobel ieri si è spaccato. Il premio della fisica «è stato un errore», ha detto senza giri di parole Anders Barany, uno dei membri della giuria di Stoccolma. A vincere martedì erano stati l’inglese Peter Higgs e il belga François Englert, due fra i fisici teorici che nel 1964 ipotizzarono a tavolino l’esistenza del bosone di Higgs. Ma a trovarla davvero, questa particella, sono poi stati gli esperimenti eseguiti al Cern, che hanno annunciato la “cattura” concreta del bosone il 4 luglio 2012. «Trovo che i fisici sperimentali abbiano fatto un lavoro fantastico e incredibile. Anche loro dovevano essere premiati», ha detto ieri Barany.
Il dissenso del fisico dell’università di Uppsala non riguarda la scelta di premiare il bosone di Higgs, ma solo l’esclusione del Cern, il laboratorio europeo per la ricerca nucleare di Ginevra. Che la decisione della giuria fosse stata tormentata, d’altra parte, era apparso chiaro fin dalla mattina di martedì. L’annuncio del premio era stato dato con oltre un’ora di ritardo. Il segretario del Comitato alla fine era entrato in sala con la voce trafelata, quasi senza respiro.
Le dichiarazioni del “dissidente” Barany fanno ora capire l’origine di quell’affanno. Fino all’ultimo i circa 70 membri della Reale Accademia Svedese delle Scienze hanno discusso se inserire il Cern e i suoi 10mila scienziati nella lista dei premiati. Il testamento di Alfred Nobel indica in tre il numero massimo dei vincitori. Ma è anche chiaro nello stabilire che il riconoscimento debba andare a individui, non istituzioni. Nel tentativo di far quadrare il cerchio, i membri della giuria hanno citato allora il Centro di ricerca di Ginevra nella motivazione del premio: «Assegnato per la scoperta teorica di un meccanismo che ci fa comprendere l’origine della massa delle particelle subatomiche, confermata dagli esperimenti Atlas e Cms del Cern». Alla rottura del protocollo di Barany — ciò che accade nelle segrete stanze dell’Accademia può essere svelato solo dopo cinquant’anni — ha cercato di rimediare il presidente del Comitato Nobel: «Sono tutte speculazioni. Gente che parla senza sapere». Ma il nodo toccato dal professore di Uppsala non può essere accantonato così facilmente. «La ricerca cambia» spiega Per Carlson, un altro dei fisici del Comitato. «Cent’anni fa era facile attribuire gli esperimenti e le scoperte a una sola persona. Oggi alla ricerca del bosone di Higgs hanno partecipato 6mila scienziati. Sarei favorevole a un cambiamento che permetta di premiare le istituzioni». Non a caso, quest’anno per la prima volta il premio Principe delle Asturie per la ricerca scientifica — uno dei riconoscimenti più importanti dopo il Nobel — ha incluso nella lista Higgs, Englert e lo stesso Cern. Il direttore generale del Centro di ricerche, Rolf Heuer, d’altra parte ha spento ogni polemica e si è dichiarato molto contento anche senza Nobel.
Con la gioia dei vincitori e nient’altro è avvenuta invece ieri l’assegnazione dei premi per la chimica a Martin Karplus (83 anni, cittadino di Austria e Stati Uniti), Michale Levitt (66 anni, israeliano, americano e inglese insieme) e Arieh Warshel (israeliano e americano). Con 7 passaporti in 3, hanno vinto per aver insegnato ai computer a ragionare come le molecole della vita. Simulando cioè con il silicio i processi tipici delle reazioni chimiche che avvengono negli esseri viventi. Oggi sarà il turnodel Nobel per la letteratura.

Repubblica 10.10.13
Twitter prima di Twitter
Le frasi da 140 caratteri sul social network fanno riscoprire un genere antico: l’aforisma
Da Orazio a Erasmo elogio della brevità
di Valerio Magrelli


Soffermandoci ancora sul mercato librario, altrettanto interessante risulta il panorama delle proposte in formato elettronico, che per esempio, solo nel 2013, ha registrato in Francia l’uscita di una decina di ebook dedicati esclusivamente alle opere di La Rochefoucauld. Proprio su questo sommo moralista francese del Seicento, si è per altro immancabilmente soffermato Gianfranco Ravasi, in un articolo sulSole 24 Ore dedicato alla capacità di percussione posseduta dalla scrittura aforistica. Chi non ricorda alcune memorabili frasi, forgiate con insuperata e lapidaria capacità di sintesi? Una per tutte: «Né il sole né la morte si possono guardare fissamente».
Partendo da queste considerazioni, suona assai indicativo che un critico quale Roland Barthes scorgesse nelle massime del Duca autentici ordigni bellici, creati allo scopo di far saltare le difese del conformismo e della morale tradizionale. E non fu certo un caso, se a raccogliere l’eredità di moralisti come Chamfort o Vauvenargues fosse in ultimo Nietzsche, che userà il loro lascito come una vera e propria leva per scardinare le convenzioni della società borghese. Saranno appunto loro a indicargli la strada della sua rivoluzionaria Genealogia della morale o di Umano, troppo umano: «La Rochefoucauld e quegli altri maestri francesi dell’esame psicologico, somigliano a tiratori dalla mira infallibile, che colgono ogni volta nel nero centro, che è il nero della natura umana ».
Negli scrittori di massime, insomma, forma e messaggio fanno tutt’uno. Se l’intenzione dell’autore consiste nello svelare il meccanismo segreto del nostro animo (nascosto da millenni di menzogne e ipocrisie), la brevità dell’espressione serve a rendere indimenticabile la scoperta effettuata. Non per niente, in francese, la battuta, l’aforisma, possono essere indicati con il termine “pointe”, ovvero punta, aculeo, pungiglione.
Che differenza rispetto al linguaggio amorfo, prolisso, fumoso al quale ci hanno abituato i nostri uomini politici! A loro non mancherebbe certo il tempo per essere chiari e concisi; ma questo è proprio quanto cercano di evitare a tutti i costi.
Forse risiede anche qui il prepotente successo delle forme brevi: ritrovare uno stile, una pronuncia in cui torni a risuonare quella verità ormai tragicamente bandita dall’universo della comunicazione quotidiana. Lasciamo allora l’ultima parola a La Rochefoucauld: «Quello che il mondo chiama virtù, di solito è solo un fantasma formato dalle nostre passioni, al quale si dà un nome onesto per fare impunemente ciòche si vuole».
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«Non ho abbastanza tempo per essere breve». A distanza di secoli, la folgorante osservazione del filosofo sembra aver conservato tutta la sua provocatoria verità. Sia pure sotto nuove forme, infatti, quella secolare arte della concisione, della “concinnitas” latina, già insegnata nelle scuole di retorica antica, sembra oggi prepotentemente riaffermarsi. Così, i celeberrimi precetti di Orazio («perché la frase scorra, bisogna essere brevi») si ritrovano in tante nostre modalità espressive, tradotti in parametri tecnologici ma sostanzialmente immutati: lo si vede nel famoso schema di 140 caratteri richiesto dal linguaggio di Twitter.
Come ha spiegato Maurizio Ferraris sulla scia di Derrida, l’evoluzione tecnologica non ha portato al trionfo dell’oralità e alla scomparsa della scrittura, bensì, al contrario, a una proliferazione di quest’ultima. Prova ne sia che, dopo essersi rimpiccioliti, i telefonini si sono ingranditi fino all’iPad, per avere uno schermo e una tastiera; dunque, per poter scrivere, non per poter parlare. Sono cioè diventati biblioteche, discoteche, cineteche e pinacoteche. Né è un caso che il traffico di sms abbia ormai superato quello vocale. Nel suo profondo, quindi, la società della comunicazione pare piuttosto una società della registrazione, col corollario per cui la brevità rappresenta il primo requisito dell’efficacia.
E qui torniamo alla nostra “concinnitas”. A dimostrare la coincidenza fra storia delle lettere e logica della comunicazione post-moderna, sta l’attenzione dell’editoria italiana e straniera per le cosiddette “forme brevi”. Per quanto riguarda la produzione saggistica, dopo i canonici studi di Alain Montandon, Corrado Rosso, Giulia Cantarutti e Gino Ruozzi (autore del recenteDivina“brevitas”,un saggio sulle massime di Giuseppe Pontiggia apparso nella rivistaSecondo Tempo),sono stati da poco pubblicati Poeti e aforisti in Finlandia (a cura di Fabrizio Caramagna e Gilberto Gavioli, Edizioni del Foglio Clandestino, pagg. 240, euro 14) eAntologia dell’aforisma romeno contemporaneo (a cura di Fabrizio Caramagna, Genesi, pagg. 196, euro 20).
Ben più rilevanti però, agli occhi del grande pubblico, risultano gliAforismi di Shiva, composti da Vasugupta nel IX secolo (a cura di Raffaele Torella, Adelphi, pagg. 323, euro 17), o iModi di dire. Adagiorum collectanea, di Erasmo da Rotterdam (a cura di Carlo Carena, Einaudi, pagg. 800, euro 85). Se il primo volume costituisce un classico della letteratura tantrica, il secondo, apparso in pieno Rinascimento, raccoglie una messe di proverbi, aforismi e motti. Il testo non nasconde l’importanza del suo risvolto pratico, suggerendo di ricorrere ai materiali riportati «per una metafora suadente, fine e appropriata, per un sarcasmo pungente e salace, per una battuta arguta e piacevole [...] o per un’allusione spiritosa che solletichi il lettore desto o ridesti l’assonnato».
D’altronde, Erasmo aveva poco più di trent’anni quando iniziò a radunare gliAdagia del patrimonio greco e latino, selezionan-done un migliaio per la prima edizione del 1500 e arrivando a più di quattromila per l’ultima, nel 1553.