venerdì 11 ottobre 2013

Domani la manifestazione a Roma per la difesa e per l’attuazione della Costituzione
Corriere 11.10.13
Quando Calamandrei consacrò il nuovo inizio dell’Italia antifascista
di Corrado Stajano

La Costituzione, un traguardo storico da tutelare Nel famoso discorso che Piero Calamandrei fece nella seduta dell’Assemblea costituente del 4 marzo 1947 c’è, nel finale, un passo severo e insieme commosso che fa riflettere amaramente se si confronta quel passato al nostro presente: «Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente: se la sentiranno alta e solenne (...). Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene, che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda».
Presa a modello nel mondo civile per il suo respiro, il suo coraggio nella tutela dei diritti dei cittadini, la Costituzione non ha avuto una sorte fortunata. La storia non si è «trasfigurata nella leggenda», come sognò il grande giurista. La Carta della Repubblica, il suo Vangelo, ha avuto e seguita invece ad avere nemici implacabili che allora come oggi, soprattutto in questi ultimi vent’anni, seguitano a considerarla «la nemica», un inciampo, un ostacolo da rimuovere, una legge arcaica ritenuta responsabile della mancata modernizzazione del Paese.
Le Edizioni di Storia e Letteratura hanno pubblicato in un aureo libretto quel discorso di Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione (pp. 67, e 9), con un’appassionata introduzione di Carlo Azeglio Ciampi che fa rivivere lo spirito della giovinezza, la fiducia e le speranze di allora, nonostante le inaudite difficoltà dell’«Italia, sfiancata da anni di totalitarismo e di isolamento culturale. (...) Avvertivamo l’impegno e la responsabilità di contribuire con le nostre idee e con il nostro lavoro a restituire dignità all’Italia e a noi stessi».
Le speranze caddero presto. La guerra fredda e l’eterna compromissione nazionale impedirono una rottura radicale col passato. Gli anni 50-60, il periodo del centrismo democristiano, non furono per nulla da rimpiangere, come invece ha sostenuto nel suo discorso in occasione della fiducia al Senato il presidente del Consiglio Enrico Letta. L’epurazione fu una burletta, i fascisti, «i fantasmi della vergogna», come li definì Calamandrei in una sua celebre epigrafe, tornarono a dettar legge in posti di responsabilità, la discriminazione nei confronti della sinistra fu ferrea, gli operai comunisti e socialisti furono isolati nei reparti-confino delle grandi fabbriche, il centrosinistra originario, anni dopo, andò a gambe all’aria alla svelta, i tentati colpi di Stato, come quello del generale De Lorenzo, nel 1964, inquinarono ogni fervore.
Calamandrei — morì nel 1956 — fu profondamente deluso. Definì l’amata Costituzione L’incompiuta , dalla famosa Sinfonia in si minore di Schubert. In effetti istituti fondamentali previsti nella somma Carta tardarono decenni: la Corte costituzionale fu istituita nel 1955, il Consiglio superiore della magistratura nel 1958, le Regioni nel 1970, i codici sono mantelli di Arlecchino, corretti via via da interventi parziali, con l’eccezione del Codice di procedura penale rifatto nel 1988.
Il revisionismo degli anni 90 è diventato la carta vincente di una certa cultura politica del berlusconismo. Scrive Ciampi nella sua introduzione di aver giudicato con ammirazione i propositi dei costituenti di far sì che la Carta avesse come fondamento gli ideali e i valori comuni: «Mi riferisco proprio a quelle stesse soluzioni che oggi una saggistica e una storiografia mediocre pretendono di “rivedere” abbassandole a compromessi, frutto di opportunismo e di scambi inconfessabili». Bisogna tener conto che i costituenti del 1947 erano di livello intellettuale e politico assai alto: Luigi Einaudi, De Gasperi, Moro, Togliatti, Terracini, Dossetti, La Pira, Concetto Marchesi, Di Vittorio, Giorgio Amendola, Antonio Giolitti.
Come dimenticare la famosa costituente della baita di Lorenzago, nel Cadore, dove Roberto Calderoli, Francesco D’Onofrio, Domenico Nania e Andrea Pastore compilarono in 5 giorni (20-25 agosto 2003) 56 articoli della seconda parte della Costituzione che stravolgeva proprio quello spirito unitario del 1947? Furono puniti dagli elettori — esiste anche un’altra Italia — che al referendum del 25-26 giugno 2006 bocciò col 61,32 per cento dei voti quel dissennato progetto di legge costituzionale. Ma anche adesso, in un momento di grave crisi finanziaria, era davvero necessario dar vita a comitati e comitatini, più o meno lottizzati, per proporre riforme costituzionali? Non è sufficiente, per un governo di transizione, preoccuparsi di riformare la grottesca legge elettorale e tentare di risolvere i problemi economici e sociali?
Provoca sussulti rileggere quel testo di Calamandrei del 1947. Spiega, come un buon maestro, spiritoso, tra l’altro, chiaro, le sue idee di Stato e di società, il lavoro, la legalità, i partiti, l’articolo 7, la tutela delle minoranze: «La Costituzione deve essere presbite, deve veder lontano, non essere miope». Dobbiamo fare, disse citando Dante: «come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte». Una Costituzione non deve illuminare la strada soltanto ai presenti ma anche a coloro che vengono dopo, i posteri. Fedeli, infedeli?

Repubblica 11.10.12
Se l’accoglienza diventa tortura
di Gianluigi Pellegrino


Lo scandalo della legge Bossi-Fini e l’emergenza carceraria denunciata da Napolitano, devono stare insieme per una politica che voglia essere tale e coerente almeno sul versante umanitario. E c’è un modo molto semplice per spazzare via ogni dubbio che dietro il sacrosanto impegno a fronteggiare la inaccettabile condizione dei penitenziari, non si nasconda l’ennesimo disperato quanto odioso tentativo di colpo di spugna. Anzi ce ne sono due di banchi di prova.
Il primo è imposto proprio dalla immane tragedia di Lampedusa. La legge Bossi-Fini va spazzata via (come chiesto a gran voce anche dalla decine di migliaia di lettori che stanno sottoscrivendo l’appello lanciato da Repubblica), perché costituisce l’esempio più clamoroso della violazione da parte del nostro ordinamento dei principi di civiltà giuridica che impongono di fuggire la torsione criminalizzatrice delle emergenze sociali, tradendo così, nel paese di Cesare Beccaria, proprio quel diritto penale mite evocato dal presidente della Repubblica quale strada maestra per una soluzione strutturale e non solo contingente dell’emergenza carceraria.
Non solo è del tutto disumana ed inutile la risposta penale al fenomeno dell’immigrazione. Non solo è intollerabile la politica dei “respingimenti” la cui sola definizione evoca autentico orrore. Non solo è stato semplicemente criminale dissuadere il soccorso in mare con l’ampliamento e l’aggravamento delle ipotesi di favoreggiamento. Ma la Bossi- Fini ha anche trasformato in autentici lager i cosiddetti centri di accoglienza che presentano condizioni di disumanità ben peggiori di quelle, già inaccettabili, delle nostre carceri. Come raccontano le cronache incredule di queste ore, se nelle carceri vi è un problema di sovraffollamento in ambienti sottodimensionati per circa il trenta per cento degli spazi necessari, nel centro di accoglienza di Lampedusa i disperati sopravvissuti salvati dalla gente sono ora trattati dallo Stato letteralmente come bestie, fuori all’addiaccio, alla pioggia notte e giorno, protetti soltanto da sacchi di spazzatura. Sono il 300 per cento in più di quanti la struttura ne può ospitare. La situazione quindi, in questa triste graduatoria, è dieci volte peggiore di quella carceraria, e riguarda persone colpevoli di nulla. Molti di loro sono “richiedenti asilo” perseguitati da condizioni di guerra e di discriminazione nei Paesi di provenienza, ma la nostra disciplina criminogena permette che le relative pratiche giacciano anche per un anno e mezzo, nel frattempo imponendo il sostanziale “sequestro” presso i cosiddetti centri di accoglienza, tramutati in tal modo in luoghi di supplizio e oggettiva tortura.
Ed allora se è vero che è della disumanità carceraria che ci stiamo preoccupando prima ancora va risolta con decreto di urgenza questa autentica vergogna. Del resto la stessa Corte costituzionale già nel 2007, se per i limiti intrinseci del suo potere dovette definire inammissibili le questioni poste a carico di quella scellerata normativa, allo stesso tempo fu esplicita nel «rilevare l’opportunità di un sollecito intervento del legislatore volto ad eliminare squilibri e sproporzioni». Allora cos’altro si attende? Non era stato un bel segnale che la missione di ieri sull’isola di Letta e Barroso avesse in un primo tempo trascurato proprio il passaggio da quel lager quasi a voler rifiutare il confronto con la realtà. Bene che poi si sia pur frettolosamente rimediato ma ora si dia seguito intervenendo con atti di urgenza, anche quale prova della genuinità del riscontro ai principi umanitari posti a base dell’appello dolente del capo dello Stato.
Qui vi è poi l’altra prova del nove per dissipare ogni nebbia di sospetto. Se è davvero la disumanità della condizione carceraria quella che preoccupa, non vi è bisogno di largheggiare né con indulti né con amnistie, che sono istituti con ben diversa ratio e finalità. Il legislatore cui anche ieri la Consulta ha rinviato la questione, può e deve semplicemente commutare le pene in corso, dalla custodia in carcere alla detenzione domiciliare. Questo consentirebbe di abbracciare anche un novero più ampio di fattispecie e di reati, senza dare l’odiosa sensazione dell’impunità e scongiurando ogni tentazione di mascherati colpi di spugna, che (attenzione) potrebbero riguardare non solo direttamente Berlusconi (come sarebbe infine grottesco) ma, ancor più furbescamente, una serie di suoi scomodi imputati in correità (dalle olgettine ai Lavitola e ai Tarantini) nonché altri reati di colletti bianchi che vedono qui e lì interessati pure altri partiti a Roma come in periferia. Una ragione in più per tenere alta la guardia e dissipare ogni pur malevolo dubbio, nella gigantesca anomalia italiana dove persino la questione carceraria incrocia il personale destino di chi, pur portatore di conflitti crescenti a dismisura, sta ancora lì a incagliare la dinamica istituzionale.
Due banchi di prova dunque che possono consentire il ritorno ad una politica che affermi la propria più alta autonomia.

l’Unità 11.10.13
Clandestinità, verso nuove maggioranze
Il governo sosterrà l’abolizione del reato ma Alfano e il Pdl sono contrari
Barricate leghiste
di Natalia Lombardo


La battaglia, prima di tutto, avverrà in aula a Palazzo Madama. Battaglia parlamentare che si annuncia infuocata, sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Il primo passo è stato il sì all’emendamento M5S votato mercoledì sera in commissione Giustizia anche da Pd, Sel, Scelta civica e dai socialisti durante l’esame del disegno di legge sulle «pene detentive non carcerarie e messa alla prova». Ora il ddl passerà in aula al Senato, infatti la commissione ha votato il mandato al relatore Felice Casson, del Pd e la riunione dei capigruppo stabilirà il calendario.
Un tema caldo, reso ancora più urgente dal paradosso dei migranti sopravvissuti al naufragio di Lampedusa indagati come clandestini. Ma non sarà facile sia eliminare questa norma sia abolire la legge Bossi-Fini. In Parlamento, come ha osservato il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato, potrebbero crearsi maggioranze variabili su questi temi; l’abolizione del reato di clandestinità «non è un punto toccato dal programma di governo», ha detto il ministro ieri a Porta a Porta, «quindi si possono formare alleanze difformi su punti fuori dal programma di governo». Per quel che lo riguarda, Zanonato è favorevole perché «non si può pensare che una persona che scappa perché perseguitata possa essere accusata di reato di immigrazione clandestina».
Il governo, con il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, aveva dato parere favorevole in commissione, considerando «sproporzionata e ingiustificata» la sanzione penale e «ineseguibile» quella pecuniaria in quanto gli immigrati che arrivano non posseggono nulla. E il premier Enrico Letta ha intenzione di rivedere le norme sull’immigrazione, dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini, seguendo il (non facile) metodo del confronto nel governo e nel Parlamento. Ieri comunque il presidente del Consiglio ne ha parlato al Capo dello Stato, al quale ha riferito sulla visita a Lampedusa insieme al presidente della Commissione Ue Barroso. Letta, inoltre, ha spiegato al presidente le iniziative in vista del Consiglio Europeo di metà ottobre, nel cui ordine del giorno il premier è riuscito a fare inserire proprio la questione migranti. Nel colloquio sono stati affrontati anche i temi delle carceri e della giustizia.
IL COMITATO INTERMINISTERIALE
La ministra Kyenge spiega che il percorso iniziato al Senato sul reato di clandestinità «sicuramente avrà un seguito con l’appoggio del governo». Un percorso da «proseguire», quindi, ma «bisogna fare un passo per volta per coinvolgere tutti i settori» che hanno a che fare con l’immigrazione «dal lavoro all’economia alla sanità». Proprio Cécile Kyenge ha sollecitato la formazione di un comitato interministeriale per affrontare il problema con i ministri competenti: Interno, Integrazione, Infrastrutture, Affari esteri, forse anche del Lavoro e della Difesa. Una prima riunione c’è stata giovedì scorso, ma i nodi sono molti, dalla Bossi-Fini al destino dei rifugiati, quindi il percorso di una riforma non sarà semplice, anche se il confronto non sarà solo con il ministro dell’Interno. Alfano, infatti, ha già detto no alla modifica della Bossi-Fini, e ieri tutto il Pdl ha intonato il solito coro per mantenere il reato di clandestinità inserito dall’ex ministro Maroni nel pacchetto sicurezza.
Il Movimento Cinque stelle è in fibrillazione, ma molti grillini, compreso il vicepresidente della Camera Di Maio, sono convinti che sia giusto abolire il reato e approvano l’emendamento presentato dai due senatori sconfessati da Grillo, Buccarella e Cioffi. La Lega ha avviato una campagna xenofoba con manifesti on line.
Ieri i senatori leghisti hanno inscenato una protesta in aula con «cartelli ingiuriosi nei confronti degli immigrati che sbarcano sulle nostre coste», denunciano molte senatrici del Pd che chiedono l’intervento del presidente Grasso.
Il Partito democratico aveva presentato un emendamento praticamente identico in commissione e continuerà a sostenere in modo convinto l’abolizione del reato di clandestinità anche in aula, quando si discuterà il ddl già approvato alla Camera.
Quello di mercoledì sera «è stato un buon inizio», ha detto il democratico Casson, «un’inversione di tendenza e un primo passo per un’umanità normativa ritrovata: le leggi sull’immigrazione prevedono pene e ammende, multe fino a 10mila euro, il soggiorno e l’ingresso illegale». Il senatore Pd commenta ciò che accade nei 5 stelle: «Grillo e Casaleggio non sanno di cosa parlano. Spiace che abbiano sconfessato, in modo del tutto immotivato e ignorando il valore e la sostanza positiva di quanto approvato, i suoi senatori dopo che hanno lavorato bene e duramente». Ma sull’emendamento M5S hanno votato contro solo Lega e Pdl, dubbioso Gal. La prospettiva, spiega Casson, «è quella di modificare la Bossi-Fini, la legge Giovanardi e la ex Cirielli sulla recidiva, leggi che incidono pesantemente sul numero eccessivo di detenuti, che siano immigrati clandestini che piccoli spacciatori». Dopo «si potrà affrontare l’amnistia, da sola non basta».

il Fatto 11.10.13
Rodotà: “Chi sta in Parlamento non può obbedire al web”


“UNA FORZA politica non può stare in Parlamento e dire che non vuole cogliere le opportunità parlamentari, perché obbedisce alle logiche della Rete”. Intervistato dal quotidiano Europa, Stefano Rodotà attacca frontalmente Grillo e Casaleggio per il post con cui hanno sconfessato l’emendamento dei senatori Buccarella e Cioffi che vuole abolire il reato di clandestinità. “Dire ‘non è nel programma’ – sostiene il costituzionalista – è un argomento pericolosissimo. C’è il rischio di un paradosso, ossia che il ricorso a queste tecnologie rallenti il processo decisionale”. Rodotà, insomma, prende le distanze dal post che ha spaccato i cinquestelle. Proprio il Movimento che nell’aprile scorso l’aveva candidato al Quirinale, riuscendo a far convergere su di lui anche i voti di Sel. Poco più di un mese dopo, Grillo irrompeva così: “Rodotà è un ottuagenario miracolato dalla Rete, sbrinato di fresco dal mausoleo dove era stato confinato dai suoi e a cui auguriamo di rifondare la sinistra". Il professore non replicò (“non è nel mio stile”). Oggi, la netta critica ai fondatori del Cinque Stelle.

il Fatto 11.10.13
Immigrati, il no di Grillo e Casaleggio scatena la rivolta 5stelle
di Paola Zanca


Lunedì 7 ottobre, ore 14.13.
Terzo piano di palazzo Madama Maurizio Buccarella, senatore M5S, arriva in ritardo all’assemblea di gruppo. Colpa dell’aereo. Chiede di parlare, però, perché in commissione Giustizia di lì a poche ore, potrà tirar fuori un asso dalla manica. Un emendamento scritto da un collega, Andrea Cioffi, depositato a luglio, sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina. I corpi di Lampedusa chiedono risposte, e al Movimento non pare vero di poter inchiodare alle loro responsabilità di legislatori, i colleghi dei partiti che si stanno sperticando in promesse e proclami. Votate questo, se avete il coraggio. Buccarella lo illustra. L’assemblea approva. Con acclamazione.
Mercoledì 9 ottobre, ore 19.50. Commissione giustizia.
L’asso nella manica di Buccarella piglia tutto: i voti del Pd, di Scelta Civica, perfino il parere positivo del governo. Lo staff firma un comunicato di giubilo. Si chiude così: “Non lasceremo più morire nessuno in maniera inumana, ci sarà più sicurezza, più legalità e più umanità”.
Giovedì 10 ottobre, ore 11.06. Milano, Casaleggio associati.
Un clic e sul blog di Beppe Grillo compare la scomunica di Buccarella e Cioffi: “due portavoce” che non hanno condiviso “in assemblea” una proposta su un tema che “non è nel programma”. Perchè se ci fosse stato, “il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico”. Nel “merito”, hanno scritto una boiata: “Un invito agli emigranti dell'Africa e del Medio Oriente a imbarcarsi per l'Italia”. Lo firmano Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Ma è stato soprattutto il secondo a infuriarsi per l’iniziativa. Proprio ora che il Pdl è a pezzi non ci si può permettere scivoloni su faccende così delicate. Chi glielo spiega ai piccoli imprenditori travolti dalla crisi che vogliamo portare in Italia altre bocche da sfamare? Chi ci capisce?
Giovedì 10 ottobre, ore 12. Ufficio di Paola Taverna.
Buccarella e Cioffi vengono chiamati a rapporto. Si cerca di studiare una linea condivisa per rispondere ai giornalisti che già spingono da dietro la porta. La soluzione è una: assemblea congiunta con i deputati. I due “scomunicati” escono scortati dallo staff, con tanto di telecamere per documentare eventuali stravolgimenti. Balbettano: “L’emendamento non è definitivo”.
Giovedì 10 ottobre, ore 13.00. Secondo piano del Senato.
I senatori sono fuori dalla grazia di Dio. Urla, scenate, c’è chi sfiora le lacrime. Non sono i “soliti” dissidenti. Ci sono anche persone che non hanno mai criticato la linea del gruppo, come Elisa Bulgarelli, Marco Sci-bona, Sergio Puglia, Alberto Airola: “È una roba demagogica - dice Airola - il reato di immigrazione clandestina è una cosa che vuole abolire anche il Sap, il sindacato di polizia più di destra. Bisognerebbe informarsi”. Mario Giarrusso: “Nemmeno il Papa è infallibile”. Laura Bignami: “C’è il verbale, ne avevamo discusso in assemblea”.
Giovedì 10 ottobre, ore 14.30. Cortile di Montecitorio.
Capannelli di deputati M5S. Mimmo Pisano, primo scomunicato per un emendamento fuori asse (quella volta era il Durt per le imprese): “Non mi aspettavo potesse risuccedere su una questione così lineare”. Adriano Zaccagnini, fuoriuscito dal gruppo e già polemico sullo ius soli: “Hanno gettato la maschera. Sono di destra”. Alessandro Di Battista (un passato da cooperante) è lì dietro: scherza e ride con i deputati della Lega. Giorgio Sorial (figlio di immigrati egiziani): “Serve una legge organica, ma è stato un autogol”. Paola Pinna (già in rotta con i colleghi): “Visto? Prima o poi, su un argomento o sull’altro, sono tutti scontenti”.
Giovedì 10 ottobre, ore 16.20. Transatlantico del Senato.
Grillo ha appena pubblicato un secondo post: dice che è obbligatorio votare su tutto ciò che non è scritto nel programma e che comunque si vedrà nella prossima legislatura. Luis Orellana si domanda: “Quindi io che sto in commissione Esteri vado in vacanza? Nel programma non c’è nulla”.
Giovedì 10 ottobre, ore 20.00. Aula dei Gruppi della Camera.
Assemblea con i deputati. Per la prima volta toni pacati e riflessivi. Nessuno critica i due senatori. Piuttosto, se si votasse, andrebbero contro Grillo e Casa-leggio. Ma è troppo. Forse sarà la Rete a decidere qual è la posizione del Movimento sull’immigrazione. A meno che non si decida che è troppo rischioso anche quello.

il Fatto 11.10.13
Nel recinto
M5S, vietato pensare da soli
di Antonello Caporale


Beppe Grillo usa il mercurocromo con il suo movimento. Lo disinfetta da ogni possibile contaminazione, lo pulisce dalle abrasioni e dalle passioni della politica svuotando periodicamente (come fosse una bacinella piena d'acqua) la sua rappresentanza parlamentare di ogni senso politico.
Da deputati portavoce a cittadini portaordini. Da attuatori ed elaboratori di un programma comune a esecutori muti del disegno d'origine. Succede sempre, ed è successo anche ieri quando Grillo, leggendo forse i giornali, ha scoperto che i suoi senatori erano riusciti per la prima volta a imporre a tutta la politica di interrogarsi se la questione del secolo, il flusso dei migranti dal sud al nord del mondo, potesse essere gestita solo con il codice penale e un variegato bouquet di misure di pubblica sicurezza. Proponendo l'abrogazione del reato di immigrazione clandestina (l'emendamento approvato così statuisce) il Parlamento si sarebbe trovato nella necessità di indicare e promuovere misure alternative e sperabilmente più efficaci di quel colabrodo che oggi è la legislazione di emergenza. Grillo ha allora preso in mano il mercurocromo e disinfettato la ferita provocata dagli incapaci senatori: il tema non è nel nostro programma, non è stato discusso, dunque è fuori dal codice di comportamento dei 5Stelle. Perciò l'emendamento è nullo. La firma congiunta con Casaleggio al post ha alzato il livello di apprensione tra i parlamentari e indicato la strada, la via maestra. Cioè il dietro-front.
È POSSIBILE che l'iniziativa non sia stata concertata granché bene (come sempre più spesso accade dentro quel caotico catino dei 5Stelle) ed è possibile, anzi certo, che il registro comune preveda preventive consultazioni. Ma Grillo non ha giudicato il merito del problema (e avrebbe avuto buone ragioni per farlo: il reato di clandestinità non è una nostra esclusiva ma vige nella stragrande maggioranza dei paesi europei), né valutato l'efficacia dell'azione parlamentare che per la prima volta aveva bucato il fronte governativo dividendo i due soci di maggioranza, il Pd a favore e il Pdl contro, e aprendo un dibattito politico e culturale finalmente di un qualche peso. Grillo non ha nemmeno preso in considerazione che la misura proposta fosse contenuta nel piano di riordino delle carceri illustrato per iscritto al Quirinale. Non ha aperto la discussione e il confronto. Semplicemente l'ha chiusa.
A GRILLO interessava e interessa altro. L'ha confessato quando ha specificato: “Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l'abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto risultati da prefisso telefonico”. Ecco il punto: la questione si fa unicamente elettorale. I voti si contano, non si pesano. Per contarli e moltiplicarli il Movimento deve rinunciare ad alimentare un'istanza di cambiamento, eccezion fatta per quella basica e preliminare (non rubare), ma piuttosto fungere da aggregatore di proteste, a volte disparate e contrastanti. E il cittadino parlamentare non porta con sé una propria intelligenza, dei valori, un modello di vita, ma è solo il supporto tecnico di un meccanismo elettronico di selezione delle istanze. Egli non è né di destra né di sinistra. Sta al centro (infatti in Parlamento siede nel mezzo) ma solo come punto geografico di equidistanza da ogni passione, connessione sentimentale con chi l'ha eletto. Egli non sta sopra ma sotto, non progetta ma esegue. Cosa esegue? L'abecedario della rete, anzi di quella piccola parte, un'oligarchia, che influenza e decide, vota e approva o fa decadere. Non tutti gli elettori ma soltanto coloro che hanno guadagnato con la militanza il bollino blu della fedeltà, quelli con l'asterisco, portatori esclusivi della capacità di validazione o di sconfessione. Se questo è lo schema, nell'attesa grillina che tutto salti per aria non è necessario promuovere istanze di cambiamento perché non esiste un fronte da combattere. È tutto da far saltare in aria. Poi ci sarà la palingenesi. Come? Vattelapesca! Non è indispensabile indicare le vie del buon governo perché l'altrove è una indistinta e comune pratica di malgoverno. Bisogna dunque attendere che tutto scoppi e magari assistervi con l'inerzia. E perciò nel Parlamento non servono menti, ma braccia disciplinate che producano il minimo, senza far casini. E il Porcellum è perfetto a selezionare la truppa fedele. Il leader sceglie chi tenere in vita e chi far perire. Anche questa, forse, è la ragione perché questa legge elettorale, a ben riflettere, non fa poi così schifo. Meglio tenersela ancora un po', vero Grillo?

l’Unità 11.10.13
Andrea Cioffi
Il senatore grillino difende l’emendamento: «Lunedì ne abbiamo discusso e nessuno ha detto di non essere d’accordo. Adesso si esprima la Rete»
«Beppe è in minoranza, la linea la decide l’assemblea»
intervista di A. C.


ROMA Ingegnere, salernitano, 51 anni, lunga chioma di ricci sale e pepe, Andrea Cioffi non è mai stato un dissidente. In questi primi mesi di legislatura, mai una parola contro Grillo, mai un distinguo di un certo peso. Alle cronache è balzato più che per il suo carattere istrionico, per una efficace performance canora a Un Giorno da pecora («Sono un ragazzo fortunato» di Jovanotti). Ma anche per aver ricordato, nel pieno della bagarre sulla restituzione delle diarie, che lui guadagnava di più da ingegnere rispetto allo stipendio da senatore. Un grillino doc, appassionato di energie alternative, di battaglie contro le centrali, con un passato da girotondino nel 2002 e per l’acqua pubblica nel referendum del 2011. Ma nella faida di questi mesi tra i senatori grillini, tra talebani e dialoganti, lui è sempre rimasto in disparte. Fedele alla linea ma senza eccessi.
Quell’emendamento che abolisce il reato di immigrazione clandestina, presentato già a luglio e approvato in commissione al Senato mercoledì sera, lo difende a spada tratta, nonostante la scomunica di Grillo sul blog.
«Sono per l’abrogazione dell’articolo 10 bis, la nostra proposta era stata discussa da lunedì anche con gli altri senatori e nessuno ha alzato la mano per dire che non era d’accordo. Lo ritengo utile perché serve ad alleggerire la giustizia penale e anche a liberare gli agenti di polizia che così avranno più tempo per pattugliare le strade. Ma lo sapete quanto tempo perdono ad arrestare i clandestini e a custodirli nei commissariati? So che cosa dice il Sap, un sindacato di polizia che sta da un’altra parte... (Cioffi fa un gesto con la mano, e si riferisce al fatto che il Sap è vicino al centrodestra, tradendo così una pericolosa vicinanza ai valori di sinistra sull’immigrazione)».
Grillo e Casaleggio hanno detto no. «Una posizione perfettamente legittima da parte di due persone importanti del nostro movimento. Ma non è la linea ufficiale. Quella si decide in assemblea a maggioranza».
Non vorrà mica essere accusato di insubordinazione?
«Lo volete capire o no che non abbiamo capi? Beppe si è fatto un mazzo così per il movimento, ma la nostra non è una struttura piramidale. Prima lo capirete e meglio sarà. Io mi sento una persona profondamente libera, dai piedi alla testa. Questo non vuol dire ignorare l’opinione di Beppe».
Stavolta però siete in rotta di collisione.
«Condivido quello che dice al 99%. Stavolta no. La cosa migliore è che decidano i nostri militanti in rete». Se l’assemblea dei parlamentari dovesse sconfessare quell’emendamento lei cosa farà?
«Mi adeguerò. Ma questo è solo un piccolo tassello di una questione complessa come l’immigrazione. Ci sono tanti altri aspetti da affrontare ed è giusto che il movimento ne discuta». Ma lei lo ripresenterebbe quell’emendamento?
«Per certi versi sì e per altri no. Però c’è un punto. Noi siamo arrivati in Parlamento per ribaltare il tavolo e per farlo bisogna avere il coraggio di scegliere e di decidere. I partiti non lo fanno mai per non scontentare nessuno, e noi li critichiamo per questo. Noi dobbiamo avere coraggio».
Se passa la linea di Grillo rischiate di diventare simili alla Lega?
«Il reato di immigrazione clandestina nasce da un approccio ideologico. Ma non chiedete a me della Lega che sono campano e mi sono dovuto occupare di Mastella...».
Alla fine lei rischierà l’espulsione come Adele Gambaro?
«Questo rischio non lo vedo proprio. Se ci sono idee diverse in democrazia si discute».
Nella sua scheda di presentazione sul meet up di Salerno Cioffi scrive: «Sono curioso... mi interessa molto il cammino... forse più della meta...».

l’Unità 11.10.13
Coerenza xenofoba
di Michele Di Salvo


Chi pensa che Grillo è nuovo alle posizioni, tecnicamente razziste, come quelle di ieri sul reato di clandestinità si sbaglia di grosso. Dal suo blog il 17 maggio scorso, cavalcando l’ennesima onda di indignazione, il leader dei Cinque Stelle scriveva prendendo come esempi tre casi di violenza: «Quanti sono i Kabobo d'Italia? Centinaia? Migliaia? Dove vivono? Non lo sa nessuno». Ripescava episodi gravi, come quello, appunto, di Kabobo che a Milano uccise a picconate tre persone. Delitti commessi da immigrati, tutti in qualche modo con un conto aperto con la giustizia. Nell’elenco c’è «un comunitario portoghese che doveva (deve) stare in carcere», «un ghanese che doveva essere considerato sorvegliato speciale per la sua violenza» e «un senegalese il cui decreto di espulsione non è mai stato
applicato». Grillo raccontava delitti cruenti, stupri. Infine domandava: «Chi è responsabile? ». «Non la Polizia è la risposta che più che arrestarli a rischio della vita non può fare. Non la magistratura, che è soggetta alle leggi. Non il Parlamento, che ha fatto della sicurezza un voto di scambio elettorale tra destra e sinistra e ha creato le premesse per la nascita del razzismo in Italia. Nessuno è colpevole, forse neppure Kabobo. Se gli danno l'infermità mentale presto sarà di nuovo un uomo libero».
Un’ inversione di rotta nella linea politica? Assolutamente no. Il 24 gennaio 2012 affermava, infatti, che «la cittadinanza a figli di stranieri nati in Italia è senza senso» aggiungendo che «è una proposta che serve solo a distrarre l'opinione pubblica». Tutto coerente col famoso post del 5 ottobre 2007 dal titolo «I confini sconsacrati», in cui Grillo sostenne che «un Paese non può scaricare sui suoi cittadini i problemi causati da decine di migliaia di rom della Romania che arrivano in Italia» e che il problema dei rom è «un vulcano, una bomba a tempo che va disinnescata». I reponsabili? Il governo, l'Europa a 25 ed il sistema di Schengen. Come prova pubblicò una delle «centinaia di lettere sui rom» che dice di ricevere ogni giorno. Ciò suscitò le proteste di diversi visitatori del sito (che bollarono quelle posizioni come «filippiche proto-leghiste» e «propaganda anni trenta»). All’epoca tutti i partiti politici presero le distanze da Grillo (tranne Forza Nuova) e l’unico che in qualche modo lo difese fu, dal suo blog, Antonio Di Pietro. Già, erano gli anni i cui quel blog lo gestiva Casaleggio.
Se qualcuno però dovesse pensare e dire (ancora una volta) che Grillo è «solo un megafono» e che la sua è un’opinione personale, potrebbe scoprire che invece non è certo solo. Casualmente ancora una volta gli fa da sponda Roberto Fico che ci informa di aver «approfondito nei giorni scorsi il progetto di The Mission», il reality umanitario che la Rai realizzerà in collaborazione con l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’ong Intersos. Il programma andrà in onda il 27 novembre e il 4 dicembre 2013 per
descrivere le condizioni dei campi profughi in Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Mali. Si tratta, spiegava il presidente della commissione di vigilanza Rai, di tematiche e contenuti meritevoli senza dubbio dell'attenzione dell'opinione pubblica e che dovrebbero essere trattati con serietà e sobrietà. Tuttavia, aggiungeva, sarebbe opportuno valutare e verificare se il linguaggio di trasmissioni televisive come i reality sia quello adeguato a raccontare il dramma di chi è costretto a fuggire dal proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni. E perchè mai? Per il rischio di spettacolarizzazione della sofferenza altrui. Pensate un po’.
Nella strana concezione degli esponenti del M5S, i Vaffa urlati per aizzare le folle vanno bene, mentre è meglio paternalisticamente approfondire la sofferenza vera della disperazione dei campi profughi per non «rovinare» l’atmosfera prenatalizia degli italiani. Anche questa deve essere una declinazione dell’affermazione di Fico: «Il movimento Cinque Stelle cerca con onestà intellettuale di affermare i fatti per trasferire agli italiani una corretta informazione».

l’Unità 11.10.13
L’ira sul web: «Nazionalismo da salumieri, vergogna»
Tanti i militanti indignati, che protestano e prendono le distanze dal Movimento e dal suo leader: «Non ci rappresenta più»
Stavolta la spaccatura tra il Capo e la base è profonda. E c’è chi scrive: «Giorno di lutto»
di Toni Jop


La battuta più bella e feroce è stata pescata su Facebook. Serve un minimo di conoscenza cinematografica per apprezzarne il profumo, ma avendo pescato nel mare azzurro dei «Blues Brothers» non dovrebbe essere così difficile. Dice: «I grillini dell'Illinois», tutto qui, ma è una bomba perché schiaffa il marchio Cinque Stelle dove, nella sceneggiatura di questo meraviglioso film, c'erano i nazisti dell'Illinois, cialtroni e pupazzi ma sempre nazisti. Una iperbole, non c'è dubbio, resa possibile dalla cialtroneria del post con cui Grillo e Casaleggio sottraggono i Cinque Stelle all'orbita dei diritti umani, così come li interpreta la sinistra, e li ricolloca più opportunamente a destra lepennista, assieme alla Lega e al Pdl del caimano. Del resto, non si può pensare di fare quello che hanno fatto – smentire in differita la posizione dei senatori M5S in favore dell'eliminazione del reato di clandestinità – e restare indenni.
Come in altre occasioni, i fans si dividono tra lealisti e «non se ne può più di voi», ma questa volta si ha la sensazione che l'intervento dei due capibastone abbia toccato l'altare delle coscienze dove riposa il giudizio morale e se ne custodiscono i valori fondanti. Grillo e Casaleggio sanno: ma se il Pd non si sfascia e il Pdl invece molto probabilmente sì, dove dovrebbero andare a prendere i voti? Ma a destra, è evidente. Pochissimi commenti tengono la palla in mezzo: «È stato un errore ma rimediamo”; i più, si lanciano di qui o di là, con nettezza e si ha la sensazione che questa volta gli addii alle armi siano concreti. Esempi a ruota libera.
Esteban, che nel M5S aveva riposto «tante speranze», dichiara che secondo lui siamo di fronte «al provincialismo nazionalista da salumieri» e di questo «quei due milionari con la pancia piena» dovrebbero vergognarsi. Dov'è finita l'antica riverenza, in Illinois? Fortuna che altri restano fedeli con motivazioni opposte: «Io e mia moglie vi abbiamo votato – scrive Giuliano – siamo indispettiti da queste scelte non programmate»: e si riferisce alla mozione che i senatori Cinque Stelle hanno, secondo i capi, improvvidamente messo in campo.
A ruota, un tipo che magistralmente si firma «La tua coscienza», il quale chiede se per caso quei senatori siano «pazzi» e ancora se siano pronti a «mettersi con Berlusconi»: coscienza ubriaca, visto che per questa via proprio i due padroncini del movimento si sono schierati con il caimano.
«Gi» avvisa i piloti che avendo lui sognato stupidamente un Movimento senza confini, alla luce dei fatti ritiene che «Beppe non lo rappresenta più». Aldo introduce riflessioni da urologo nel suo breve addio: «Beppe – annota – ho votato M5S perché finalmente potevo avere persone normali, come me, a rappresentarmi, non per subire i capricci della tua prostata». Prostata o no, c'è chi, invece, lamenta che Grillo non faccia vedere «le palle»: «Accusano Beppe di essere un dittatore – lamenta Ivano come se anche lui fosse in Illinois –  ma magari lo facesse!!!!».
La forbice che si è aperta nel Movimento è troppo ampia perché possano stare assieme questi lamenti e la cultura di chi, come Claudia, scrive: «Giorno di lutto, sto pensando di lasciare il Movimento, non ti seguo più». Per non parlare del rimprovero persistente nei confronti dell'olimpo grillino per non aver mai messo a punto la piattaforma web nella disponibilità del Movimento: «Manca il sistema informatico – ricorda Cesare – per consultare otto milioni di persone. Non siamo ridicoli, se qualche ex leghista o Pdl o Forzanuovista non vota per il M5S sono solo felice». Qualcosa di profondo si è rotto definitivamente: si chiama «clandestinità» il Trota di Grillo e Casaleggio.

La Stampa 11.10.13
Un elettorato nato a sinistra, ma ora in espansione a destra
di Iacopo Iacoboni

qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/iacoboni_stampa

Repubblica 11.10.13
Il cinismo a cinque stelle
di Concita De Gregorio


È LA legge del mare. È la legge di Dio. È la legge degli uomini da prima che ogni legge sia mai stata scritta. Salvare un uomo in mare. Non c’è nemmeno da spiegarlo, mancano le parole. Provate solo ad immaginare che succeda a voi.
Siete in barca, vedete qualcuno che sta annegando e che vi chiede aiuto. Un ragazzo, una donna che annega a pochi metri da voi. Sareste capaci di lasciarlo morire sotto i vostri occhi? Gli chiedereste – di qualunque religione, partito politico, di qualunque razza voi siate – da dove viene e a fare che cosa o gli gettereste prima un salvagente? Vi buttereste voi stessi, quasi certamente. Non è una regola, è istinto. È ineludibile afflato di umanità. È quel che distingue gli essere umani dalle bestie, e non sempre ché spesso la lezione arriva dagli animali. Ecco. Si fa moltissima fatica a dare un giudizio politico della censura di Beppe Grillo e dell’ideologo Casaleggio ai parlamentari cinque stelle che al Senato hanno proposto e poi votato un emendamento che dice questo: chi trova una persona in mezzo al mare può soccorrerla senza rischiare di commettere reato.
«Non li lasceremo più morire. Più sicurezza e umanità», hanno scritto Maurizio Buccarella e Andrea Cioffi, i senatori cinque stelle poi sconfessati con durezza dal Capo. Si fa fatica a dare un giudizio politico su chi pensa ai suoi elettori – al suo consenso attuale ed eventuale – prima che ai morti. «Se avessimo proposto di abolire il reato di clandestinità avremmo ottenuto dei risultati elettorali da prefisso telefonico », si legge nella risoluzione pomeridiana del blog sovrano, la voce del Padrone. Non ci sarebbe convenuto, non ci conviene.
Quindi ora scusate se ai cinici sembrerà demagogia ma provate a pensare ai trecento morti in fondo al mare di Lampedusa, al morto «numero 11, maschio, forse anni 3», che se fosse stato vivo sarebbe stato clandestino anche lui, e perseguibile chi avesse salvato quel bambino di tre anni dal mare. Provate a dire se vi sembra degna di un essere umano una legge che sanziona chi soccorre un bimbo in mare, chiunque quel bambino sia perché questo e solo questo è: un bambino. Provate adesso a dare un giudizio politico a due leader politici che pretendono di rinnovare la politica e il Paese e intanto dicono questo: soccorrere uomini e donne in mare «è un invito ai clandestini di Africa e Medio Oriente ad imbarcarsi, ma qui un italiano su otto non ha i soldi per mangiare ». Quindi non vengano, o se vengono affoghino. Servirà da lezione agli altri.
La Lega ha applaudito Grillo con osceno entusiasmo. Il Pdl, in una sua buona parte, si è accodato. L’emendamento è passato coi voti di altri Pdl, di Scelta civica di Sel e del Pd, oltre che dei quattro senatori cinque stelle in commissione. Niente affatto pentiti, questi ultimi. Immediata assemblea del gruppo, questa volta stranamente non in streaming. Giornalisti e militanti fuori dai piedi. Il tema immigrati non era nel programma, è l’argomento del fedelissimi al capo: gli eletti devono attenersi al mandato e non prendere iniziative personali. Ma, domandiamoci, ci sarà una ragione se non c’era una parola, neanche una, sul tema dell’immigrazione e delle leggi sui clandestini nel programma di Grillo, molto netto invece nel proporre – per esempio– un referendum sull’uscita dall’euro.
Poco a poco si delinea un profilo politico che pure era chiaro, ma che ha confuso una buona parte dell’elettorato di sinistra attratto dai temi sacrosanti del rinnovamento e dello strapotere corrotto della casta. Questa roba con un’Italia migliore non c’entra. È un calcolo, una strategia di marketing elettorale di ambigua origine e di sempre più nitido approdo. Ma di nuovo: dare un giudizio politico, in un caso come questo, è troppo onore. «Non li lasceremo più morire», non è una posizione politica, è ladeclinazione di un essere umano. Chi preferisce che anneghino faccia i conti con se stesso e certo poi, se crede, anche col suo elettorato.

Repubblica 11.10.13
E i gruppi diventano una polveriera “Ora Beppe venga qui a spiegarci”
Ma l’ex comico e Casaleggio: o così o ce ne andiamo
di Annalisa Cuzzocrea


VENGANO qui a parlare con noi. Vengano a spiegarci cosa significa quel post». L’assemblea dei parlamentari a 5 stelle va avanti fino a notte fonda, ed è una polveriera. Perché per la prima volta non è una minoranzadi “dissidenti”, a non capire.
LE PAROLE di Grillo e Casaleggio hanno mandato in frantumi ogni certezza, hanno sconvolto ogni equilibrio. Così, anche i più ortodossi chiedono: «Come facciamo con il lavoro in commissione? Siamo in tanti a occuparci di cose che non sono nel programma, a che serve se non possiamo portarle avanti? ». Luis Orellana si lancia in un’invettiva secca contro le guide del Movimento. Elena Fattori attacca chi scrive i post sul blog. Francesco Campanella va via prima della fine, scuote la testa: così proprio non va.
Il capogruppo a Montecitorio Alessio Villarosa prova a rassicurare: «Mi hanno detto che Beppe e Gianroberto sono disponibili a venire a Roma». Gli scettici borbottano: «Sì, come no, una volta al mese». I pompieri, a lavoro da ore, invitano a non perdere la calma, cercano fino all’ultimo di scongiurare un voto che potrebbe far esplodere tutto. Perché si era capito fin dal mattino, che le parole piovute dal blog sarebbero state pesanti come pietre. Quando a mezzogiorno, la porta insolitamente chiusa del gruppo 5 stelle a Palazzo Madama non riusciva a trattenere le urla provenienti dall’interno. Dove non c’erano dissidenti, ma gli ultraortodossi Paola Taverna, Elisa Bulgarelli, Laura Bottici, Maurizio Buccarella. Sullo schermo del computer campeggiano le parole di condanna a una linea che hanno considerato vincente fino a poche ore prima. Loro si guardano in faccia smarriti. Arriva Andrea Cioffi, rosso in volto, addosso l’aria del pugile suonato. Non sanno cosa fare. Alla fine, si decide per la riunione congiunta alla Camera. La capogruppo Taverna — pur arrabbiata — scongiura una preriunione tra senatori, evita il «tutti contro Grillo», ma perfino un fedelissimo come Alberto Airola si lascia sfuggire: «Stavolta Beppe ha preso un abbaglio, bisognerà spiegarglielo, chiarirgli le idee».
Da Milano, in realtà, il messaggio che filtra è ancora più duro: Grillo e Casaleggio tornano a minacciare di abbandonare il Movimento se continua sulla strada delle proposte personali, tanto più su un tema per loro controverso da sempre come l’immigrazione (assente dal programma elettorale proprio per poter fare la parte della Lega in posti come il Veneto e quella della sinistra progressista dove serviva rubare voti al Pd). La reprimenda la innesca il guru: Casaleggio è convinto che portando avanti un tema del genere si perdano voti. Ed è soprattutto visceralmente contrario all’abolizione di un reato che — testuale — «hanno tutti iPaesi del mondo». Stavolta, però, la retromarcia non è facile. Perché quella proposta è ben lontana dall’essere un’iniziativa personale. Maria Mussini non ha paura di spiegarlo ai giornalisti: «Ne abbiamo parlato tutti insieme e non si è levata unasola voce contraria. A questo punto bisogna andare avanti. Io coi miei elettori parlo tutti i giorni, rispondo a loro, non c’è bisogno che qualcuno mi dica cosa pensa la base». Quindi sì, quando si tratterà di votare in aula, lei quell’emendamento lo approverà. E lo stesso faranno alla Camera Paola Pinna, Girolamo Pisano e molto altri. I dissidenti storici — un po’ in disparte — si godono la scena. Il fuoriuscito Adriano Zaccagnini si accende una sigaretta e sorride. Chi proprio non vuole andare contro il leader, come Riccardo Fraccaro, spiega che «il problema non è l’emendamento, ma il fatto che sia stato presentato senza un progetto organico, che a discuterne non sia stata l’assemblea». Mentre parla, arriva il nuovo post di Grillo: quello secondo cui, anche qualora l’assemblea fosse favorevole, e perfino con l’approvazione degli iscritti sul blog, i punti fuori dal programma non possono essere presentati se non alle prossime elezioni. Panico. «E gli inceneritori? E il nostro piano carceri?». Già, il progetto consegnato ieri mattina stessa al capo dello Stato — secondo l’ennesima nuova interpretazione delle regole — è carta straccia. Tra l’altro era scritto proprio lì, che il reato di immigrazione andava abolito. Giorgio Sorial, già autore di una proposta sullo ius soli,dice chiaro che sì — serve un ddl organico sull’immigrazione — ma quel post non gli piace: «È un autogol ». Se non è una rivolta, manca pochissimo: Manlio Di Stefano, da sempre allineato, spiega: «Non siamo la Francia, subiamo sbarchi continui, questo reato non fa altro che complicare i rimpatri e affollare le carceri». Se davvero si faranno vivi, Grillo e Casaleggio dovranno trovare argomenti più convincenti di regolamento e venti punti di programma. Dovranno spiegare ai “portavoce” a cosa servono le loro menti e i loro cuori. Non sarà facile. Probabilmente non accadrà.

Repubblica 11.10.13
Bossi
E il Senatùr strizza l’occhio a Grillo “Battaglie comuni contro gli immigrati”
Mi somiglia anche per la posizione sulle tasse, non è un caso che al Nord ci ha preso parecchi voti
Beppe è dovuto intervenire dopo che io ho detto che quell’emendamento era una marchetta al Pd
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA — A fine agosto, in un minuscolo centro del varesotto, Umberto Bossi lasciò di stucco i pochi militanti radunati per una festa padana: «Se la Lega si allea con Grillo ha la possibilità di fare il governo. Ma sono cose da non pensare neanche». Quaranta giorni dopo l’anziano fondatore del Carroccio scopre che il primo fan della Bossi-Fini è proprio il leader dei 5 Stelle. Ecco, magari un governo insieme al comico genovese resta uno scenario irrealizzabile. Ma una battaglia comune sull’immigrazione, quella non è più impossibile: «Vedremo, vedremo », annuisce sotto un gazebo del cortile di Montecitorio. È di buon umore. Si dibatte furiosamente della legge che porta il suo nome. Lui, l’ex segretario federale, è tornato centrale. Almeno per un giorno. Scherza con la portavoce, mentre si gode un sigaro. Prende in giro una giovane deputata democratica. E mentre scruta i nuvoloni che oscurano la Capitale, stila la pagella del fondatore del Movimento.
Onorevole Bossi, Grillo ha difeso il reato di clandestinità. Hasconfessato i grillini che al Senato hanno fatto approvare l’emendamento. Sembra quasi di ascoltare lei...
«Grillo è dovuto intervenire».
Perché?
«È uscito allo scoperto dopo che io ho detto che quell’emendamento era una marchetta al Pd».
Fatto sta che siete schierati dalla stessa parte della barricata. Pensa che sia possibile una battaglia comune con Grillo sull’immigrazione?
«Vedremo (annuisce, ndr). Vedremo, anche se ancora non è ben chiaro cosa vogliono i grillini. La loro direzione per ora non è del tutto chiara».
È anche evidente che sul nodo immigrati il leader del Movimento cinque stelle provi a farle concorrenza.
«Beh, sì, questo sì».
Interviene Giuditta Pini, giovanissima deputata democratica: «Al Nord - ricorda - i grillini hannostrappato parecchi voti alla Lega».
Onorevole Bossi, in effetti alle recenti elezioni politiche molti vostri elettori del Nord hanno preferito il M5S.
«Sì, al Nord ci ha preso parecchi
voti».
Ma lei conosce Grillo? Ci ha mai parlato?
«No, non lo conosco».
Dicono che il suo modo di tenere comizi, i toni scelti e la capacità di dominare il palco ricordino molto il Bossi della prima ora.
«Sì. Ma tutti, alle origini, hanno slancio... c’è il movimentismo...».
E poi sembra che Grillo le assomigli molto anche per i cavalli di battaglia scelti.
«Beh, sì, su immigrazione e tasse è così».
Lo ammetta: non si aspettava che Grillo scendesse in campo per difendere l’impostazione della Bossi-Fini.
«Ma sì, invece. Qua non c'è lavoro per gli italiani, come si può pensare che facciamo venire gli immigrati?».
Anche Angelino Alfano si trova in una situazione complicata per quanto riguarda il dossier immigrazione. È ministro Pdl, ma anche colomba governativa...
«Per Alfano è più difficile. E poi lui ha un problema interno, perché c’è Berlusconi che ha prestato i soldi al partito e lui ora cosa fa? È più difficile, per lui».

Repubblica 11.10.12
L’amaca
di Michele Serra


“Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità – scrivono Casaleggio e Grillo – il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico”. I due leader devono avere, del loro elettorato, una percezione molto parziale, e terribilmente imprecisa. Non c’è analisi dei flussi elettorali che non dimostri che, tra quegli otto milioni e mezzo di voti, ci sono molti ex leghisti e un po’ di destra assortita, quella che gongola per i vaffanculo e le urla anti-sistema. Ma ci sono anche moltissimi italiani di sinistra, conquistati da alcune scelte politiche decisamente civiche (per esempio la battaglia per l’acqua pubblica) e arcistufi della labile politica del Pd. Sono i medesimi che in queste ore appoggiano la decisione dei parlamentari grillini che si sono espressi contro il reato di clandestinità, gli stessi che contestano vivacemente Casaleggio e Grillo.
I due capi coltivano il wishful thinking di una definitiva fuoriuscita dalle ideologie, ma non possono pretendere anche la fuoriuscita dalla politica. I loro elettori (e i loro eletti) non sono avatar creati dalla rete, sono italiani in carne e ossa con il loro retroterra culturale e le loro idee. A una gran parte di loro il reato di clandestinità sembra solo una crudele porcheria. Perdendo il loro voto, C&G dovrebbero accontentarsi di contendere l’elettorato a Bossi e a Forza Nuova.

l’Unità 11.10.13
Congresso Pd: la prima sfida è sulle firme
Chi sta con chi: parte la corsa alla segreteria
Oggi la presentazione delle candidature alla segreteria
Renzi fa il pieno tra i parlamentari (circa 230) Cuperlo 152
I lettiani divisi tra i due principali sfidanti
L’offensiva del sindaco: ha chiesto ai suoi sostenitori di iscriversi al partito
Nessuno sta con Civati e Pittella
di Maria Zegarelli


ROMA Duecentotrentra (all’incirca) con Matteo Renzi, 152 (ieri sera alle 8) con Gianni Cuperlo, nessuno con Pippo Civati o con Gianni Pittella: sono questi i numeri, che oggi diventeranno più precisi, che riguardano gli schieramenti dei parlamentari democratici in vista del prossimo congresso. E così Renzi, che alle scorse primarie contava una schiacciante minoranza di supporter tra il corpaccione del partito, oggi fa il pienone. Tanto che al Tg3 della sera dice di non essere né preoccupato né lusingato da questo schieramento di onorevoli nomi che solo un anno fa sembrava un miraggio: «Che ci siano 100 o 200 parlamentari non importa l'importante è che ci siano i cittadini».
E sarà soddisfatta Simona Bonafè che quando fece il suo ingresso in Parlamento disse: «Oggi siamo quaranta deputati dichiaratamente renziani ma a fine legislatura saremo molti di più».
FAN E SOSTENITORI
La mappatura racconta gli stravolgimenti avvenuti dopo il voto di febbraio: ieri sera da Areadem (che fa capo a Dario Franceschini e Piero Fassino) le prime raccolte a sostegno del sindaco erano circa 90; 130 quelle che tra Camera e Senato hanno presentato i renziani, a cui oggi si aggiungeranno quelle raccolte dai lettiani dopo la tregua siglata tra il sindaco e il premier. Una tregua che guarda al 2015, quando i giochi si riapriranno e la rassicurazione che Renzi, una volta segretario, non sarà il picconatore su Palazzo Chigi.
Solo dopo il faccia a faccia tra i due leader c’è stato il via libera per il sostegno dei lettiani al sindaco, con i distinguo che pure ci sono, (De Micheli, Guglielmo Vaccaro mentre Marco Meloni e Alessia Mosca non prendono posizione) ma con la maggioranza della componente schierata con quello che i sondaggi danno come il prossimo segretario Pd con percentuali bulgare. Una tregua
che però non potrà prescindere dai numeri parlamentari su cui può oggi contare il primo cittadino fiorentino.
Qualche nome: Dario Franceschini, Antonello Giacomelli, Roberta Pinotti, Michela Marzano, Marianna Madia, il bindiano Cortone e il veltroniano Walter Verini, i lettiani Francesco Boccia, Dal Moro, Lorenzo Basso e Francesco Sanna (mentre Paola De Micheli sosterrà Gianni Cuperlo), i bersaniani non allineati Alessia Morani, Alessia Rotta, Vanna Iori ma non Francesco La Forgia che ha firmato per l’ex dirigente Fgci, l’ex dalemiano Nicola Latorre.
Sul fronte opposto Cuperlo vede schierati dalla sua parte Pier Luigi Bersani, Ugo Sposetti, Fausto Raciti dei giovani dem, Daniele Marantelli, Antonio Boccuzzi (ex operaio Thyssen) Dario Ginefra, i giovani turchi al completo, Sesa Amici, Vannino Chiti, Cesare Damiano (che fa una scelta diversa rispetto alla sua componente Areadem), il bersaniano Claudio Martini, il fioroniano Gero Grassi (l’appoggio di Fioroni è questione di ore); il mariniano (nel senso di Ignazio) Michele Meta, l’ex ministra Barbara Pollastrini, l’ulivista Franco Monaco, Paolo Beni dell’Arci, la direttrice di Youdem Chiara Geloni, il viceministro Stefano Fassina.
Dal quartier generale di Pittella raccontano che le firme a ieri sera erano 2500, nessun parlamentare o ex, appoggio da Mercedes Bresso e Cinzia Dato. I termini per la presentazione delle candidature e delle relative firme a sostegno scadono stasera alle 20, dovranno essere 1500-2000, raccolte in almeno cinque regioni, oppure 100 componenti dell’Assemblea nazionale uscente.
LA POLEMICA
E ieri è scoppiata la prima polemica congressuale: Civati ha denunciato di aver ricevuto un sms dall’avversario Cuperlo (una richiesta di sostegno), ma «non l’ho autorizzato a scrivermi. Forse sta usando il database del Pd?», ha chiesto il candidato lombardo. Pronta la risposta di Patrizio Mecacci, coordinatore della campagna elettorale di Cuperlo: «Sinceramente troviamo la polemica pretestuosa. Non abbiamo usato nessun database particolare ma solo le mail istituzionali e i numeri di cellulare dei deputati e dei senatori che sono, come tutti sanno, facilmente reperibili. Non abbiamo usato nessun database particolare ma solo le mail istituzionali e i numeri di cellulare dei deputati e dei senatori che sono, come tutti sanno, facilmente reperibili». Ironizza Pittella: «Scoppia il caso Pdleaks al Nazareno. Alcuni pericolosi hacker sono entrati in possesso del segretissimo database degli iscritti del Partito democratico... Per evitare di trasformare ulteriormente il congresso in farsa, consiglierei al segretario Epifani di aggiornare urgentemente il firewall....».

l’Unità 11.10.13
Ma è già scontro sul doppio incarico
di Ma. Ze.


ROMA Matteo Renzi sabato da Bari lancerà l’affondo per la campagna iscrizioni al Pd e annuncerà la sua proposta di legge elettorale. Saranno questi i due messaggi principali che segneranno l’inizio ufficiale della sua campagna congressuale. «Invito tutti a voi ad iscrivervi al Partito democratico per aiutarmi a cambiarlo, dobbiamo cambiarlo insieme», questo il senso dell’appello. Che nasce in realtà anche da una preoccupazione: se i sondaggi lo danno fortissimo per le primarie dell’8 dicembre quelle aperte meno rosee le previsione per quelle tra gli iscritti. «Qui rischiamo di non raggiungere neanche il 50% e sarebbe un problema», racconta uno dei suoi collaboratori. Renzi, dunque, sa che è anche e soprattutto tra gli iscritti che deve lavorare entro il 27 novem-
bre, soprattutto a Roma e Milano (dove alle scorse primarie non è andata bene) e nel Sud. Anche per questo il sindaco di Firenze in questi ultimi giorni sta ritoccando la corposa piattaforma programmatica dedicando molta attenzione proprio al partito e al modo in cui intende rivoluzionarlo. E se per Renzi questa è una preoccupazione per Gianni Cuperlo sono proprio le primarie tra gli iscritti a rappresentare una opportunità per attestarsi su percentuali più consistenti rispetto a quelle che circolano nei sondaggi e che lo danno testa a testa con Pippo Civati nei gazebo.
Ieri sera, intervistato dal Tg3, Renzi ha ribadito la sua intenzione di candidarsi di nuovo per la guida di Firenze, perché «è normale che un segretario di partito possa fare il deputato, o l'europarlamentare, o il sindaco. L'importante è che faccia bene il suo lavoro». «Spero che ci ripensi perché guidare un grande partito come il Pd non è semplice», replica il segretario Guglielmo Epifani che di Renzi dice «ha una cultura di centro ma fortemente collegata alla sinistra».
Il sindaco dal canto suo non intende ripensarci, ora poi è concentrato su Bari, da dove presenterà anche la proposta di legge elettorale che in queste ore il suo team sta mettendo a punto, il modello è quello dei sindaci, per intenderci, con il doppio turno e garanzie di governabilità. Ma proprio sulla legge elettorale Epifani ha istituito un gruppo ristretto di lavoro con tutte le anime del partito che già a partire dalla prossima settimana dovrà, «a ritmi serrati» trovare il punto di caduta per una proposta di legge condivisa del Pd in vista del dibattito che inizierà al Senato sulla riforma elettorale. Sarà Matteo Richetti, coordinatore per l’Emilia Romagna della campagna elettorale di Renzi, a rappresentare il sindaco di Firenze che sulla legge elettorale non ha posizioni molto distanti da Rosy Bindi, la quale insieme a molti parlamentari ha firmato la proposta che vede come primo firmatario Michele Nicoletti e che prevede una soglia al 40% per il premio di maggioranza, il doppio turno di ballottaggi tra le coalizioni che hanno raggiunto il maggior numero di voti e la possibilità per gli elettori di scegliere i propri rappresentanti. Sul fronte opposto, invece, chi guarda al sistema tedesco, cioè propozionale. Il segretario Pd sa che il passaggio al Senato sulla riforma del Porcellum sarà un altro banco di prova per la tenuta interna e per questo ha chiesto al gruppo ristretto di lavorare a una proposta largamente condivisa. Ieri mattina ha incontrato Renzi per fare il punto su congresso (rispetto delle regole) e legge di stabilità, entrambi convinti che il Pd debba lavorare per la revisione del Patto di stabilità interno dei Comuni.


La Stampa 11.10.13
Macaluso, ciò che il Pd non ha imparato da Togliatti
di Marcello Sorgi

qui

il Fatto 11.10.13
Parte l’indulto salva-Silvio
Dopo Manconi e compagnia, G.A.L. ne cuce uno su misura per lui per condanne fino a sei anni
di Carlo Tecce


Ora c’è solo confusione, non cercate di fare ordine. Non prima di martedì. Quando la commissione Giustizia di Palazzo Madama, presieduta da Francesco Nitto Palma, ex ministro di via Arenula e irriducibile difensore di Berlusconi, inizierà a esaminare i testi su amnistia e indulto. Al Senato i documenti transitano con estrema velocità, ieri mattina erano due, tanto per cominciare, ieri sera già quattro e ogni ora, ogni minuto, se ne aggiungono un paio. Va seguita la direzione per capire dove sia il traguardo, la struttura che sorregge le proposte unitarie e solitarie tra destra e sinistra: non viene ridimensionata la versione mastelliana di sette anni fa che contiene frode fiscale, corruzione e peculato e, soprattutto, viene rafforzata l’ipotesi salvezza di Berlusconi: salvezza totale. Come? Con un indulto molto ampio cumulabile al precedente (2006) che elimina, non soltanto i 12 mesi residui di condanna (per cui ha optato per i servizi sociali), ma anche l’interdizione ai pubblici uffici, La pena accessoria che lo tiene lontano dal Parlamento e che sarà ricalcolata in Appello a Milano il 19, coda del processo Mediaset chiuso in Cassazione.
IL DISEGNO di legge di Luigi Compagna di Gal, un gruppo di berlusconiani fintamente dissidenti o diversamente aderenti, contiene le migliori speranze per Berlusconi. In passato, Compagna ha provato a ghigliottinare la legge Severino, la regola per i pregiudicati che impone la decadenza e la non candidabilità, proprio quella che non fa dormire più in pace né Silvio né Francesca (Pascale). C’è da segnalare che il presidente in Giunta, Dario Stefàno, sta per ultimare la relazione e sarà presentata nella seduta di lunedì. Il giorno seguente, la Giunta per il Regolamento affronta la mozione dei Cinque Stelle per il voto palese a palazzo Madama: poche possibilità, rischio perdita di tempo. Il rapido Stefàno vuole inviare la pratica a Pietro Grasso entro il 17 ottobre per riuscire a fissare il voto in aula per la settimana successiva: non pare facile, ma è possibile. Renato Schifani grida: “Colpo per la democrazia. Ci opporremo”.
La saga Compagna non è finita e nemmeno il sofferto percorso per amnistia e indulto. Perché il Compagna bis, più aggiornato, firmato e ideato con il democratico Manconi, esclude il Cavaliere perché non consente di cumulare l’indulto: B. ha già ricevuto uno sconto di tre anni per Mediaset, però mantiene la formula che neutralizza le pene accessorie. Le agenzie battono e lanciano il lodo Manconi, che, a ragione, commenta, precisa, rettifica. I senatori di Grandi Autonomie e Libertà sono tra i più attivi, e anche tra i più fantasiosi. Lucio Barani vuole aumentare il raggio d’azione per amnistia, che si applicherebbe ai reati sino ai 6 anni, e ancora di più per indulto, che andrebbe a cancellare 5 anni di pena. Barani ha un pensiero anche per i reati di mafia ex art. 416 bis (cioè associazione mafiosa): “L’indulto è concesso nella misura non superiore a 8 anni a chi faccia completa divulgazione di tutti i fatti rilevanti relativi a reati commessi durante la loro partecipazione in organizzazioni criminali”. Sembra rivolto ai pentiti, ma è un tema molto, molto scivoloso. Barani si diverte, non vuole penalizzare il Cavaliere e confenziona un teorema: “Vale per Berlusconi e per tutti coloro che la Costituzione tutela nel momento in cui prevede il reinserimento sociale. Anzi, è la cura universale alla nuova forma patologica che ha spento i neuroni di tanti colleghi: la Silviopatia, la malattia per cui non si vive più se non in funzione di vedere la fine di Berlusconi.
Conosco gente che non fa più l’amore perché affetta da questa sindrome. A me qualche neurone garantista è rimasto”. A Palazzo Madama sta per planare un testo di Enrico Buemi, socialista eletto nel Pd, che in Giunta ha coltivato dubbi e ottima sintonia con la destra. La commissione Giustizia concederà ancora una decina di giorni per i disegni di legge, ai relatori sarà affidata la sintesi. Compagna, Manconi e Barani sono utili apripista per evitare l’interdizione ai pubblici uffici e persino i servizi sociali previsti per maggio. In quel periodo, indulto e amnistia saranno legge. Chissà se ancora oggi ripetono che un ventennio s’è chiuso.

il Fatto 11.10.13
MicroMega: “Firme anti-salvacondotto”


LA CONDIZIONE di vita nelle carceri italiane è incivile e indegna di un Paese democratico. Ma l’indulto e l’amnistia non risolvono il problema, come già dimostrato da precedenti anche recenti. Per fare uscire migliaia di detenuti basterebbe abrogare la legge Bossi-Fini e la legge Fini-Giovanardi”: è quanto sostiene un appello pubblicato su MicroMega.net   a firma di Andrea Camilleri, Roberta De Monticelli, Paolo Flores d’A rc a i s , Barbara Spinelli. “Indulto e amnistia che il presidente Napolitano chiede in toni ultimativi al Parlamento – affermano nel-l’appello – non risolverebbe nessun problema strutturale e avrebbe come unici effetti più rilevanti quelli di fornire un salvacondotto tombale a Berlusconi, di delegittimare il lavoro della magistratura di contrasto al crimine, di umiliare le vittime e i loro parenti. Per questo diciamo no a indulto e amnistia. E qualora il Parlamento lo volesse comunque votare, per evitare ogni sospetto di ricatto, chiediamo che siano esclusi tutti i reati per cui è condannato, imputato o indagato Silvio Berlusconi (gli stessi che coinvolgono sciami di parlamentari, amministratori locali, manager e altri “potenti”). Ci rivolgiamo a tutti i cittadini, democratici e autenticamente garantisti”.

il Fatto 11.10.13
Altro che carceri l’unico problema è B.
di Bruno Tinti


IL PRESIDENTE della Repubblica ha proposto al Parlamento di adottare un’amnistia e un indulto. Per svuotare le carceri, cosa necessaria perché la Cedu ha detto che l’eccessivo affollamento carcerario equivale a “tortura”. Napolitano ha spiegato che occorrono interventi strutturali (proposti da anni e mai nemmeno arrivati allo stadio di progetto) e straordinari, appunto amnistia e indulto. Sono proposte sbagliate e motivate tendenziosamente. Non è vero che l’Italia ha troppi detenuti. Secondo l’Istat (dicembre 2012) ce ne sono 112,6 ogni 100 mila abitanti, contro una media europea di 127,7. È vero invece che in Italia ci sono poche carceri. Con 47.500 posti siamo ultimi in Europa.
Il “piano carceri” garantisce 10 mila posti in più nell’arco (dicono) di 3 anni: una miseria. Non è vero che l’amnistia sgombrerebbe le carceri. A meno di non prevedere un’amnistia per reati puniti con pene superiori a 10 anni (rapine, violenze sessuali, traffico di droga, omicidi colposi di particolare gravità etc), quelli oggetto di un’amnistia “normale” (quelle emanate in passato si “limitavano” ai reati puniti fino a 3,4, 5 anni) sono reati per cui nessuno va in carcere.
Sospensione della pena e arresti domiciliari garantiscono impunità alla maggioranza dei delinquenti: l’amnistia li convincerebbe sempre più che, nel nostro Paese, delinquere conviene. L’indulto le svuoterebbe certamente perché si applica a qualsiasi pena derivante da qualsiasi reato. Un delinquente può essere stato condannato a 4 anni, averne scontato uno, gliene restano 3, esce con la benedizione di Napolitano. Tutti quelli che devono scontare pene inferiori a 3 anni sarebbero scarcerati. Con quanta soddisfazione dei rapinati, violentati, truffati, inquinati, ammazzati (i familiari, in questo caso) è facile immaginare. Non solo. Come tutti sanno ma non dicono, la maggior parte degli indultati rientra in carcere nel giro di qualche mese. Quindi l’indulto è il classico placebo. Sollievo momentaneo, recrudescenza della malattia. Per restare in termini, blocchiamo la procedura Cedu (ci ha dato tempo fino al maggio 2014) e fra un paio d’anni ne riparliamo. Esattamente come negli ultimi 50 anni. Sembra il solito teatrino: soluzioni apparenti per passare il fiammifero acceso a chi verrà. Ma qui c’è un problema per cui occorre (secondo Napolitano &C) una soluzione vera. Che ne facciamo del delinquente B., condannato a 4 anni, di cui “solo” 3 coperti dal condono (quello del 2006, adottato con la medesima motivazione, svuotare le carceri)? La grazia non si può, la prigione, gli arresti domiciliari, i lavori socialmente utili nemmeno. Allora amnistia e indulto; e chi se ne frega se l’Italia sarà invasa da circa 25.000 delinquenti che, con soldi e fatica, erano stati finalmente ficcati in galera. B. ne beneficerà. E la sua agibilità politica garantita.
GARANTITA? Forse sì. L’amnistia estingue il reato; come non fosse successo niente, abbiamo scherzato. A questo punto il coro unanime: B. non deve essere dichiarato decaduto, non c’è condanna, manca il presupposto per applicare la legge Severino. Probabilmente un non senso giuridico; ma c’è materia per discuterne un paio d’anni. Quanto all’indulto, vero che estingue la pena e lascia intatto il reato. Come dire, B. resta conclamato delinquente. Ma, siccome Ghedini & C. sostengono che la decadenza è un effetto penale della condanna (non è vero ma loro lo strillano molto forte), potrebbero arrivare a sostenere che anch’essa è coperta dall’indulto. E anche qui, prima di arrivare a una decisione, passerebbe un sacco di tempo. Presidente, guardi che abbiamo capito.

Repubblica 11.10.13
L’ex premier manda avanti gli ultrà
“Strada stretta, però dovete provarci è l’ultima occasione per salvarmi”
Il messaggio alla sinistra: senza i nostri voti si blocca tutto
di Liana Milella


ROMA — L’ultima spiaggia. Su un atollo piccolissimo. Dove il Cavaliere però deve arenarsi a tutti i costi, pena la sua “morte” politica. Indulto e amnistia, il messaggio di Napolitano. Non è il salvacondotto che Berlusconi avrebbe voluto, ma è «l’unica e ultima spiaggia possibile».
Un approdo che lui non può assolutamente perdere. Per questo, dal momento del messaggio a oggi, con più di un pidiellino fedele, ha parlato così: «Lo so, la strada è difficile, ma dobbiamo provarci. Questo indulto e questa amnistia sono rimasti il mio unico salvacondotto, quindi dobbiamo sfruttarli fino in fondo».
Schiacciato dalla condanna Mediaset, alla vigilia dell’appuntamento con la pena da scontare, l’ex premier ha dato un ordine perentorio, tentare ogni strada possibile per torcere la richiesta di Napolitano e trasformarla nella sua via per la salvezza.
Non cambia mai copione, il Cavaliere. Vuole una legge? Butta in piazza un peones. Ecco che spunta il solerte Barani. Nella notte si mette in movimento Nitto Palma. Il gioco parte. Un film già visto tante volte con le leggi ad personam, presentate dal più insospettabile dei parlamentari e divenute poi il grimaldello per scardinare i processi più insidiosi. Cirami, Cirielli, Pecorella... Adesso Barani e Palma. La mossa è ben pensata. L’obiettivo chiaro, ottenere un indulto a sua misura. Quindi ampio, senza limiti, cumulabile col precedente. Garantirsi un’amnistia che funzioni per i suoi processi. Tetto alto, reati di corruzione inclusi.
L’ex Guardasigilli Nitto Palma, piazzato strategicamente al vertice della commissione Giustizia del Senato, quello che ha appena tentato di zittire a colpi di processi disciplinari le toghe che osano anche solo rilasciare un’intervista, vola da falco qual è. Nella notte di giovedì “scippa” alla Camera e alla Pd Donatella Ferranti, che presiede l’omologa commissione a Montecitorio, la primazia della clemenza. Si radica così al Senato, nelle sue mani esperte di ex pm, la discussione su indulto e amnistia. Ferranti è furibonda, lei sentirà Cancellieri, chiederà se la clemenza è davvero necessaria, ma Nitto passa ai fatti. Proprio lui che, dal 5 luglio, tiene bloccato in commissione il ddl su messa alla prova e domiciliari obbligatori — approvato in fretta alla Camera e sollecitato più volte da Napolitano — che alleggerirebbe il sovraffollamento. Poche ore, e si materializza la proposta compiacente, perfetta per Silvio, perché sei anni sono il tetto della frode fiscale, perché del processo Mediaset cancellerebbe pure l’interdizione e lui resterebbe senatore.
Un blitz quello di Palma, abilmente pilotato. Poco importa se Napolitano ha parlato di reati «particolarmente odiosi» da escludere, di fatti «bagatellari» da tenere ai margini, di «reati di rilevante gravità e allarme sociale » da non prendere in considerazioni. Berlusconi e i berlusconiani vanno avanti lo stesso. Puntano a un’amnistia che funzioni da completo colpo di spugna su Mediaset e a un indulto da sfruttare per eventuali e future condanne. In mano, il Cavaliere, ha un’arma molto potente, che sta agitando sotto il naso del Pd e di Letta. Ha chiarito ai suoi anche questo: «Tenete conto che solo se noi del Pdl siamo d’accordo il gesto di clemenza si fa. Altrimenti salta tutto». Quando la notizia del ddl Barani si diffonde nel quartier generale di Letta la reazione del premier è preoccupata. È vero, si ragiona a palazzo Chigi, l’iniziativa sulla clemenza è parlamentare, ma un’eventuale spaccatura al momento del voto, su una legge così importante, va misurata al pari di quella sulla decadenza. Un colpo al governo. Dividersi sulla clemenza è pesante, soprattutto per le conseguenze che potrebbe avere nelle carceri. Nel Pd arrivano ad essere increduli. Si chiedono se davvero il Cavaliere possa mai pensare di ottenere un’amnistia e un indulto che, con sei e cinque anni, rischia di liberare rapinatori e autori di furti gravi.
La trincea del Pd è netta. Nessun cedimento. Su due punti chiave.L’indulto non potrà essere cumulabile con il precedente indulto del 2006. Se Berlusconi spera di veder nebulizzare anche i nove mesi di pena che gli restano, dal Pd il no è reciso. «Non se ne parla». Idem per l’interdizione dai pubblici uffici. Un muro anche sull’entità dell’amnistia. Incertezza tra un massimale tra i 3 e i 4 anni, ma sicuramente esclusi tutti i reati gravi, praticamente quelli di Berlusconi. A questo punto, sul Colle come a palazzo Chigi, la preoccupazione è un’altra. Il gioco allo sfascio. Lo scaricabarile delle responsabilità. Se Pd e Pdl non si mettono d’accordo perché il prezzo che chiede Berlusconi è troppo alto, su chi ricade il peso delle carceri che scoppiano? Il Quirinale ha fatto la sua parte. Il Parlamento non riesce a farla. I detenuti s’arrabbiano e la rivolta è assicurata. Dopo le parole di Napolitano, come accadde per quelle di Karol Wojtyla ai tempi del Giubileo, la speranza della libertà è diventata certezza. Se tutto salta la colpa ricadrà sul premier Letta.

Repubblica 11.10.13
L’intervista
Il democratico Casson avverte: inaccettabile un’amnistia fino a sei anni
“Non daremo salvacondotti il Cavaliere ne resti fuori”
intervista di Li. Mi.


ROMA — Barani? «Una provocazione ». Processi di Berlusconi azzerati? «Non se ne parla». Un’amnistia giusta? «Massimo 3 o 4 anni ». E l’indulto? «Tre al massimo». È questa la linea del Piave del Pd, secondo i paletti di Felice Casson.
Ha visto l'ultima uscita in Senato del gruppo Gal?
«Ho appena letto la notizia. Se confermata, la valuterei alla stregua di una provocazione. Quasi un segnale di pericolosità perché si rischia di aprire la strada a ipotesi di benefici vastissimi col rischio di liberare persone davveropericolose».
Un indulto fino a 5 chi rimetterebbe per strada?
«Condannati per reati come le rapine e i furti pluriaggravati».
Ma il Pd fin dove può spingersi?
«Bisogna prima capire quando cominciare a discutere perché la vergognosa situazione carceraria attuale costituisce solo l'ultimo segmento del sistema della giustizia penale....».
Non parli dei guai infiniti della giustizia. Stiamo alla clemenza chiesta da Napolitano. È o nonè un salvacondotto per Berlusconi?
«Quel messaggio non contiene una sola parola a suo favore. Se pure fosse così, e non è, il Pd non potrebbe votare simili provvedimentidi clemenza».
Diamo forma a indulto e amnistia. Per quanti anni li voterebbe?
«Lo schema potrebbe essere quello delle misure precedenti. Indulto fino a 3 anni ed esclusione delle pene accessorie. Amnistia fino a 3, massimo 4 anni calcolati sul massimo della penaprevista dal codice».
Che reati escluderebbe?
«Ovviamente tutti quelli più gravi, a partire dalla criminalità organizzata, dal terrorismo, dalla violenza sulle donne e sui minori ».
Delitti dei colletti bianchi e finanziari?
«Corruzione, concussione e i reati fiscali-finanziari, a mio avviso, devono essere esclusi».
Le esclusioni varrebbero per entrambi i provvedimenti?
«Si, certo».
Quindi Berlusconi, con i suoi
processi, non ne fruirebbe?
«I reati che gli vengono contestati sono sempre stati esclusi dall'amnistia».
Ma non dall’indulto, visto che grazie a quello del 2006 gli è rimasto un anno da scontare dei 4 originari.
«Io penso che reati gravi come la frode fiscale dovrebbero essere esclusi anche dall’indulto».
Che dice invece delle pene accessorie, come l'interdizione dai pubblici uffici, quelle vanno inserite o escluse dall’indulto?
«Dovrebbero essere escluse, come è già stato fatto proprio nel 2006. La ragione è semplice. Se si decide di intervenire con questa misura lo si fa a causa del sovraffollamento carcerario. L'interdizione non c’entra nulla con questo problema».
Il nuovo indulto sarebbe cumulabile con il vecchio e cancellerebbe anche l’anno che è rimasto per la condanna Mediaset?
«Io sono contrario a questo cumulo di benefici ingiustificato».
Ma Berlusconi e il Pdl diranno che, messa così, si tratta di due leggi contra personam, non le voteranno e butteranno su voi Democratici la responsabilità di far scoppiare le carceri.
«Non riesco a capire cosa c’entri l’interdizione con lo svuotamento delle carceri. Se dicono questo vuol dire che della vergognosa situazione dei penitenziari non gliene importa nulla e che ancora una volta a loro interessa tutelare solo Berlusconi».

il Fatto 11.10.13
Scandali italiani
La Chiesa e l’Imu: aspettiamo la telefonata di Francesco
di Marco Politi


L’Italia aspetta una telefonata di papa Francesco. Un colpo di telefono al cardinale Bagnasco perché si muova affinché gli enti ecclesiastici paghino l’Imu dovuta per le attività d’impresa, che fanno profitto. Troppo grande è lo scandalo della continua, ostinata evasione favorita dalla collusione dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Si tratti di Berlusconi, Monti o del duo Letta-Alfano. Magari sarebbe anche utile una telefonata al premier Letta, perché non nasconda dietro i sorrisi esibiti con il pontefice ad Assisi la sua responsabilità nella cecità selettiva verso gli edifici religiosi, in cui si svolgono attività commerciali a tasse zero.
È uno scandalo che diventa tanto più insopportabile nel clima instaurato dal nuovo papa e dal suo auspicio di una “Chiesa povera e per i poveri”. Come si strutturerà questa Chiesa lo si capirà nel prosieguo. Ma intanto i contribuenti italiani, che pagano regolarmente le tasse, e specialmente i gestori di imprese “civili” che fanno il loro dovere a differenza di molti imprenditori ecclesiastici, si accontenterebbero in Italia di una Chiesa che non prema continuamente – in pubblico o sottobanco – per arraffare privilegi. Stride proprio l’immagine di una Chiesa povera con le belle, a volte lussuose stanze d’albergo realizzate in edifici religiosi e coperte da una ormai intollerabile immunità.
Il non profit – è bene dirlo subito con chiarezza – non c’entra niente. L’Unione europea, indignata per la palese e sfacciata protezione fiscale di attività commerciali realizzate da enti ecclesiastici, aveva costretto il premier Monti nel 2012 a varare una legge che finalmente sottoponeva all’obbligo fiscale i profitti commerciali degli enti religiosi. Il principio – adottato da Monti in sintonia con la stessa Cei – non aveva nulla di anticlericale e distingueva tra parti di edificio utilizzate per fini religiosi o no profit e parti di edificio a uso commerciale.
DOVEVA ESSERE l’inizio di una pagina nuova e limpida. Troppo bello da credere in un’Italia democristiana in eterno. Fatta la legge trovato l’inghippo. Perché il premier Monti, di rigore europeo a Bruxelles, ma “famose a capi’” tra le due sponde del Tevere, stabilì inopinatamente che per il 2012 gli enti ecclesiastici non avrebbero dovuto scucire nulla e per il 2013 si “dimenticò”, lui così preciso, di far redigere il regolamento attuativo.
Il governo Letta lo ha prontamente seguito con studiata trascuratezza. Del regolamento non si è vista l’ombra. Evidentemente la correttezza fiscale della Chiesa non è un’“issue” come si esprimerebbe Oltralpe. Risultato: nel 2012 gli enti ecclesiastici maestri di elusione (ce ne sono anche di perbene) nulla pagarono e nemmeno nel 2013 hanno tirato fuori un euro. Agosto scorso il premier Letta ha aggiunto la classica truffa ai danni dell’erario, condita dal una notazione lacrimosa. La futura service tax, ha dichiarato, non riguarderà il no profit “oggi pesantemente penalizzato dall’Imu”, che andrà “completamente alleggerito in prospettiva futura”.
Dichiarazione fumogena, poiché qui non si tratta di caricare di oneri il no profit, ma di far pagare il giusto chi fa profitto. Non farlo in presenza di centinaia di milioni di evasione e del disperato bisogno del-l’erario è un delitto. Né l’evasione prepotente può essere compensata da molte altre iniziative di carità.
Papa Francesco ha letto i Promessi Sposi e conosce bene questo stile: forte con i deboli e debole con i forti. È vero che ai presuli della Cei ha detto che le questioni sociali e politiche italiane spettano al-l’episcopato d’Italia. Ma la Cei qui ha bisogno di una robusta spinta da parte del papa, che come “primate d’Italia” qualche responsabilità sul corretto agire della Chiesa nel nostro paese ce l’ha.
Urge la determinazione che ha spinto il papa argentino a esigere che la banca vaticana – inquinata da prassi decennali del Bel Paese – facesse pulizia. Un colpo di telefono per far capire che è finita l’era delle furbizie clericali. L’Italia aspetta.

Corriere 11.10.13
Il «piano b» degli aspiranti medici: bocciati in Italia provano in Albania
Tra i ragazzi in coda per i test d’ingresso alla facoltà di Tirana
di Leonard Berberi


«Tutto mi aspettavo dalla vita, tranne portare mia figlia a studiare qui, in Albania». Via Dritan Hoxha, periferia di Tirana. In mezzo a decine di palazzi e soffocata da un traffico impazzito eccola qui la nuova frontiera degli aspiranti camici bianchi italiani: l’università, privata e di diritto albanese Nostra Signora del Buon Consiglio.
È proprio qui, in questo insieme di edifici nuovi e in ristrutturazione, che 596 ragazzi, tutti del nostro Paese, si sono presentati ieri per il test di ammissione alle facoltà di Medicina e Odontoiatria e protesi dentaria. Sessanta domande di scienze, un’ora di tempo. Niente quesiti di cultura generale. E il voto del diploma vale eccome: fino a 30 punti (su 90). La prossima settimana toccherà a Fisioterapia e Infermieristica.
Fuori, ad attendere i futuri medici che avranno il passaporto italiano ma un ciclo di studi albanese, i genitori. In ansia forse più dei figli e alle prese con una realtà che, per qualcuno, «è decisamente difficile da digerire. Ma bisogna sopportarla, perché questa è l’ultima spiaggia». Daniela, arrivata da Napoli assieme al figlio che vorrebbe fare il dentista, prima non si dà pace: «È una vergogna, lo Stato costringe i nostri ragazzi ad andarsene via». Poi chiede nei corridoi: «Chi devo pagare per far passare mio figlio?».
Fallita l’ammissione in Italia in centinaia hanno varcato l’Adriatico per iscriversi alla Nostra Signora del Buon Consiglio, l’unico ateneo del posto che rilascia lauree congiunte con alcune università del nostro Paese, Tor Vergata su tutte. Funziona così: ti immatricoli a Tirana, passi gli esami (nella nostra lingua) e alla fine avrai un pezzo di carta — spiega il rettore Paolo Ruatti — «che è anche una laurea italiana, quindi non c’è bisogna di farla convalidare». Certo, prima bisogna passare il test. Che però, almeno a leggere il bando ufficiale, non indica il numero di posti disponibili. La cifra fornita, in via ufficiosa, è di 150-160.
Il centro accademico, frequentato l’anno scorso da 1.700 studenti albanesi e 300 italiani, è gestito da una fondazione della Congregazione dei figli dell’Immacolata concezione, un istituto religioso di diritto pontificio. Le rette annuali si aggirano attorno ai 7-8 mila euro. Ai quali vanno aggiunti i soldi per l’affitto e il cibo. «Ma almeno il costo della vita è basso», tranquillizzano Luigi Lisi, ventenne di Terlizzi, e Tommaso Cassano, 22, di Frosinone, iscritti qui dal 2012. Anche loro, come i coetanei di ieri, hanno fallito il test di ammissione a Medicina in Italia. Poi, grazie al passaparola, eccoli in Albania.
«Questa settimana la nostra agenzia di viaggi ha sistemato negli hotel della capitale almeno 800 italiani venuti appositamente per il test», calcola Armela Memaj di Europa Travel & Tours. Come Luca Spagnolo, 19 anni, di Lecce, salito sul traghetto dopo aver preso 36,8 alla prova di Medicina a Chieti. «Ma mi sono diplomato con 100 — si lamenta —, se non avessero tolto il bonus maturità non sarei qui». Il «qui», per il 24enne Adriano, di Latina, significa «spirito di adattamento». Un lavoro, lui, ce l’ha già: fa l’igienista dentale. «Ma con quello che guadagno non riuscirei a mantenere una famiglia». E se dovesse essere preso? «A quel punto devo licenziarmi, io voglio fare il dentista». La mamma lo guarda con un misto di ammirazione e compassione. Più di un genitore non nasconde le preoccupazioni legate al Paese. Come Rocco Lauletta, papà di Federica. Vengono da Napoli, dopo un viaggio in aereo con scalo a Monaco di Baviera. «L’impatto con l’Albania è stato traumatico — racconta — speriamo vada meglio con il passare dei giorni». Sara Carinci, 20 anni, di Roma, ha già fatto due volte il test in Italia senza passarlo. Ora prova la carta albanese. «Ma l’anno prossimo ritento dalle mie parti: qui non ci voglio stare».

Corriere 11.10.13
«Per molti questa è una succursale di Tor Vergata»
di L. Ber.


Camilla Evangelisti ha 20 anni.  È uno dei pochi aspiranti dottori ad essere venuta in Albania da sola direttamente da Roma. «In Italia è impossibile passare il test se sei una persona normale», attacca. Quindi eccola qui, a Tirana. «Altrimenti l’alternativa era addirittura la Bulgaria e lì proprio non ci volevo mettere piede». Camilla non ha passato la prova di Odontoiatria, lo scorso settembre, all’università Tor Vergata della Capitale. L’anno prima non c’è l’ha fatta nemmeno all’Aquila. «Per fortuna qualcuno, fuori dall’aula, ci ha suggerito l’Albania — ricorda — e ci ha detto che questa è praticamente una succursale di Tor Vergata». Diplomata con 100, ironizza sulla cancellazione in corsa del bonus maturità (da 1 a 10 punti): «Mi avrebbe fatto molto comodo». E spiega subito di avere tutto il supporto della famiglia. «Mio papà appoggia questa scelta, anche perché per come è la realtà italiana è anche l’unica possibilità per prendersi questo benedetto pezzo di carta e fare la dentista. A meno che, certo, uno non voglia sborsare 50, 60 mila euro per studiare a Chiasso, in Svizzera, o a Sofia». Davanti a lei, se dovesse passare il test, sei anni di vita a Tirana. «Non mi fanno paura tutti questi mesi qui», taglia corto. «Ho trovato un Paese diverso da come è stato descritto in tv o sui giornali. Certo, la lingua non la capisco proprio, nemmeno una parola». L’Italia resta però l’orizzonte. «Non smetterò di provare a entrare in un ateneo del mio Paese: tenterò il test l’anno prossimo e quello dopo ancora».

Corriere 11.10.13
«Con i punti del bonus annullato ora sarei a Foggia»
di L. Ber.


Giovanni Clinca, da poco diciottenne e fresco di diploma, arriva da Orta Nova, in provincia di Foggia. È qui dopo aver fallito il test di ammissione al corso di laurea in Odontoiatria. «Eppure io qualcosa la so, sull’argomento — si arrabbia — visto che sono diplomato con cento all’istituto odontotecnico». A proposito del cento alla maturità, anche Giovanni, come moltissimi tra gli aspiranti medici arrivati qui a Tirana, se la prende con l’abolizione dei punti di bonus. «Con quelli sarei sicuramente entrato a Foggia, dove ho fatto il test che poi mi ha lasciato fuori dalla graduatoria nazionale». Accompagnato dal papà — preoccupato non solo per la prova, ma anche per l’alloggio da trovare al figlio in caso di esito positivo — Giovanni racconta che l’Albania gliel’ha consigliata un amico che studia qui già da un anno. «La considero una scelta estrema, ma non volevo perdere l’anno. Gli esami che fai qui a Tirana te li riconoscono in Italia senza problemi. Mi avevano suggerito di provare la Bulgaria o la Svizzera, ma non mi convincevano. E poi ho visto i loro prezzi: assolutamente folli». La cosa più divertente di questo percorso, secondo il diciottenne, è quando ha detto ai genitori dove avrebbe fatto la prova. «Sono rimasti scioccati». E ride. Un po’ meno divertente il viaggio in traghetto: «È stato molto pesante, sicuramente non lo farò mai più». Non ci pensa nemmeno a un risultato negativo, Giovanni: «Non mi va di scegliere una soluzione di ripiego, io voglio fare questo lavoro e basta. Sono venuto fino in Albania proprio per questo».

La Stampa 11.10.13
Franzoni, sì al lavoro esterno “Finalmente torno a vivere”
Nel 2002 uccise a Cogne il figlio Samuele: dopo 5 anni in carcere collabora con una coop
di Pierangelo Sapegno

qui

Corriere 11.10.13
Franzoni libera di giorno per lavorare Nel 2002 il delitto di Cogne

Ogni mattina cucirà borse in una coop
di Francesco Alberti

Un’auto davanti al carcere della Dozza. Lunedì scorso, poco prima delle 7. Il profilo un po’ intimidito di Annamaria Franzoni, 44 anni, prende forma sulla soglia del portone nell’umidità autunnale del mattino. Raccontano di un attimo di incertezza, quasi uno sbandamento: forse la luce, forse l’orizzonte improvvisamente dilatato. Poi via, dentro l’auto. Verso qualcosa che non è ancora libertà, ma un piccolo grande passo verso quel traguardo chiamato normalità. Un lavoro esterno, lontano anche se per poche ore dalla cella che da 4 anni divide con una donna musulmana divenuta sua amica. Una manciata di ore al giorno in una cooperativa sociale che si chiama «Siamo qua» ed è specializzata in lavori di piccola sartoria.
Ad Annamaria le borse sono sempre piaciute, anche quando era libera. In carcere ha imparato le prime tecniche, seguendo un progetto chiamato «Gomito a gomito» rivolto alle detenute della sezione femminile. Ora ha la possibilità di lavorare in un vero e proprio laboratorio. Don Giovanni Nicolini, dossettiano da sempre impegnato sulla frontiera della sofferenza, è il parroco di Sant’Antonio alla Dozza nei cui locali è ospitata la coop. Ha conosciuto in carcere la donna di Cogne, l’ha seguita a distanza, l’ha vista cambiare negli anni e ora al Corriere di Bologna non nasconde la sua soddisfazione: «Annamaria — afferma — è una persona che porta il peso di una vicenda molto triste. Ho una buona impressione di lei, mi ha sempre dato l’idea di una donna che guarda al futuro e soprattutto che vuole un futuro».
Un futuro che non è affatto dietro l’angolo. Sono trascorsi 11 anni da quel 30 gennaio 2002 in cui il piccolo Samuele, 3 anni, venne ritrovato massacrato nella camera da letto della grande baita di Montroz, a Cogne. Annamaria, che si è sempre dichiarata innocente, «vittima di un grande errore giudiziario», venne condannata nel 2008 in via definitiva dalla Cassazione a 16 anni di carcere, caso mediatico senza precedenti e caso giudiziario che divise più di una coscienza. L’ultima (e unica) volta che la donna di Cogne ha messo piede fuori dal carcere della Dozza era il 30 agosto 2010: quel giorno, stretta tra i due figli (Davide e Gioele, 18 e 10 anni, poco dietro il marito Stefano Lorenzi) e guardata a vista dagli agenti della penitenziaria, le venne concesso di partecipare ai funerali del suocero, Mario Lorenzi.
Ora, Annamaria la sarta, ha un’opportunità. Ma guai a sgarrare. Nel laboratorio coop le hanno assegnato il turno di mattina (7.30-12.30). Nessuno può avvicinare la detenuta durante il lavoro. E ogni spostamento è pianificato: un’auto la preleva dalla Dozza e la riporta a fine lavoro. Dicono sia contenta. E che la sua specialità siano borsette variopinte di pelle e tela, destinate ai mercatini. Attorno a lei, dalla famiglia così come dal fronte dei legali, un muro di silenzio. «Non confermiamo e non smentiamo nulla» ha tagliato corto ieri l’avvocatessa Paola Savio, cementando una linea di condotta tracciata dalla stessa Franzoni prima di entrare in carcere: «Vogliamo essere dimenticati» disse. La sua vera battaglia è un’altra: recuperare il rapporto con i figli. Nel luglio 2012 chiese di poter trascorrere 3 giorni al mese in famiglia. Ma la Cassazione rispose che per i permessi bisogna aver scontato almeno metà della pena. Due mesi dopo, i legali della donna chiesero la detenzione domiciliare. E fu un altro no.

Corriere 11.10.13
La mamma di Cogne e il nuovo lavoro
Finirà così un’Ossessione collettiva?
di Marco Imarisio


La mattina del 30 gennaio 2002 molti cronisti si trovavano nell’aula bunker del tribunale di Torino. Seguivano la prima udienza del processo per doping alla Juventus. La notizia arrivò poco prima delle 11. Qualcuno telefonò alla moglie. «Faccio un salto a Cogne, c’è una madre che ha ucciso il figlio piccolo. Aspettami per cena». Tornò a casa dopo 92 giorni.
Sembrava davvero una storia tragica e banale. Divenne invece una ossessione nazionale, generando una attenzione morbosa che non si sarebbe più ripetuta con quella virulenza. Il meccanismo che portò sotto i riflettori la morte atroce di Samuele, un bambino di tre anni, fu lo stesso dei telefilm del tenente Colombo. C’è un colpevole annunciato, il pubblico sa chi è, il detective ci gira intorno e poi lo incastra. Ma a distanza di anni ancora non si spiega quella follia collettiva che coinvolse tutti, pubblico e media, per un delitto che certo non generava paure sociali, come avvenuto a Novi Ligure e in seguito con la strage di Erba. Ci vollero sei anni e tre gradi di giudizio per togliere ad Annamaria Franzoni lo status di OJ Simpson italiana, capace di dividere un intero Paese. Oggi solo pochi lanci di agenzia annunciano la temporanea uscita dal carcere della madre di Samuele.
L’Italia del 2002 non era poi tanto diversa da quella del 2013. I problemi erano gli stessi, con qualche ansia per il futuro in meno ma con Osama Bin Laden in più. È soprattutto il mondo dell’informazione a essere cambiato, non solo perché siamo immersi in un flusso continuo di notizie e non esistono più steccati. C’è maggiore consapevolezza in ogni media, nuovo o vecchio che sia. Il ciclo vitale di ogni storia si è per forza di cose accorciato, diventando più aderente alla sua reale importanza, e non è detto che sia sempre un male. Oggi nessuno resterebbe inchiodato 92 giorni sotto il Gran Paradiso a inseguire una ossessione. Non è accaduto neppure per il giallo di Avetrana, che pure aveva una dimensione da tragedia greca assente nel semplice dramma familiare di Cogne. Oggi una storia di cronaca nera non potrebbe più tramutarsi in arma di distrazione di massa. A volte, si può anche evitare di rimpiangere il passato.

Corriere 11.10.13
«Principesse» e militari Le mani sull’arte in Cina
Chi controlla le due principali case d’aste
di Guido Santevecchi


In questi giorni il mondo dell’arte gestito dalle case d’asta somiglia a un gioco del domino: Christie’s è sbarcata per la prima volta in Cina; Sotheby’s risponde con cifre record da Hong Kong e sul mercato si fanno sentire due nuovi protagonisti: i cinesi Poly e China Guardian. C’è anche un tocco di avidità feroce in stile Wall Street, con Mr. Loeb, capo di un hedge fund e azionista di Sotheby’s che accusa l’amministratore delegato di fare la vita del gran signore a spese della casa. E poi c’è un che di guerresco, perché Poly Auction di Pechino è partita sette anni fa come emanazione del gruppo Poly controllato dall’Esercito popolare di liberazione. Da mercante d’armi a mercante d’arte.
Con queste premesse e con i milioni, i miliardi in palio, la sfida per la supremazia nel mercato somiglia a una campagna militare. Con momenti di diplomazia internazionale: Christie’s ha ottenuto a settembre la licenza per operare sul territorio cinese dopo che il suo proprietario, François-Henri Pinault, era venuto al seguito del presidente francese Hollande e aveva restituito due preziose statuette razziate dalle truppe franco-britanniche durante la Guerra dell’Oppio. Nell’asta inaugurale di Shanghai ha battuto opere per 24,9 milioni di dollari, tra Picasso, collane di rubini e vini pregiati.
Sotheby’s ha risposto nel fine settimana da Hong Kong: un diamante bianco da 118 carati aggiudicato per 30,8 milioni di dollari, cifra mai pagata prima per una pietra di quel tipo. I rialzi si sono inseguiti al telefono, con l’acquirente finale rimasto anonimo; ed è stato tenuto riservato per motivi non meglio precisati anche il Paese africano d’origine. Secondo colpo della casa americana un dipinto dell’artista cinese Zeng Fanzhi, battuto per 23,3 milioni dopo quindici minuti di gara telefonica partita da una base di 9 milioni. Anche qui il compratore non ha voluto far conoscere il proprio nome. È stato il record per l’opera di un asiatico contemporaneo: titolo «L’Ultima Cena», la tela larga quattro metri è una rivisitazione del capolavoro di Leonardo con protagonisti cinesi.
La supervalutazione di Zeng, 49 anni, ha suscitato un dibattito anche online: «Una caricatura copiata ha fatto di Zeng un uomo ricchissimo»; «Dopotutto, se Warhol poteva fare carrettate di soldi con il poster di una lattina di zuppa Campbell’s, criticare Zeng non ha senso».
Sotheby’s dunque ha risposto alle critiche dell’azionista Loeb con dei grandi colpi.
Ma il mercato cinese è dominato da Poly, che in soli sette anni dalla fondazione è diventata la terza casa d’aste al mondo per volume d’affari e la prima in Cina. Il suo presidente (o comandante, visti i legami con i generali) si chiama Zhao Xu, 43 anni, gran fumatore. Zhao l’anno scorso è riuscito a vendere due miliardi di dollari di antichità, dipinti, gioielli, monete, libri rari e baijiu, liquore d’annata. Resta lontano dagli oltre cinque miliardi di Christie’s, ma resta anche straconvinto che l’arrivo di rivali internazionali «cambierà poco, ci vuole molto tempo per conoscere la mentalità cinese».
Una psicologia strana quella dei compratori del post-maoismo di mercato: i due quinti delle offerte battute a favore di acquirenti cinesi non vengono onorate, dicono le statistiche riservate. Ma il denaro che circola nelle aste delle Repubblica popolare è tanto: tra i 14 e i 18 miliardi di dollari nel 2012. Il 70% passa attraverso le aste di case cinesi.
E l’altro grande giocatore è China Guardian, quarto al mondo e secondo in Cina. Alla sua guida c’è la signora Wang Yannan, figlia dell’ex premier Zhao Ziyang, epurato perché era contrario alla repressione sanguinosa della Tienanmen nel 1989. Dunque una «principessa rossa», come si chiamano qui i figli dei grandi leader del partito. Wang ricorda ancora i tempi assurdi della Rivoluzione culturale, quando chi aveva un quadro prezioso in casa cercava di disfarsene per paura delle Guardie Rosse. «Una mia amica non ebbe il coraggio di bruciarli, temendo che qualcuno vedesse il fumo e la denunciasse, così li ha fatti in pezzi e li ha buttati nel bagno». Arte milionaria nella fognatura, oggi la storia in Cina è diversa.

Corriere 11.10.13
«Progressi per le donne arabe ma la poligamia è il problema»
La Nobel Karman: oggi diamo il premio a Malala


«Malala è la mia eroina, sono orgogliosa di lei, si merita il Nobel per la pace perché ne incarna i valori a cominciare dall’impegno per l’istruzione femminile», spiega la giornalista e attivista yemenita Tawakkol Karman intervenuta alla conferenza «A Window on Yemen: Yemeni civil society and institutions meet Italy» organizzata all’Università di Urbino in collaborazione con la Farnesina.
Con l’abito nero tradizionale impreziosito dalle perline sui polsi, un foulard leggero con tonalità tenui di verde e rosa con gli strass, il Nobel per la pace 2011 ribadisce che il suo compito non è difendere i soli diritti delle donne ma quelli di tutta la popolazione dello Yemen, noto per essere il più povero tra i paesi arabi e, al tempo stesso, quello con la popolazione più giovane e l’unica repubblica del Golfo. «Nel nuovo Yemen — annuncia — la violenza domestica sarà reato, le divorziate potranno avere la custodia dei figli e l’ex marito dovrà garantire loro il mantenimento e l’alloggio. Saranno puniti coloro che costringeranno i minori di diciotto anni alle nozze, e con le quote rosa le donne avranno il 30% dei posti nelle istituzioni». Nonostante l’entusiasmo, la parità di genere non sembra essere immediata: «della poligamia non si è proprio discusso», ammette Karman. E le nuove misure citate non sono ancora legge ma solo proposte (vincolanti, pare) approvate dalla Conferenza sul dialogo nazionale che si sta avviando alla conclusione.
Del Dialogo nazionale la trentaquattrenne Karman è finora soddisfatta perché, a differenza di quanto accaduto in altri Paesi arabi, ha coinvolto 565 rappresentanti di tutti i partiti politici, i movimenti scaturiti dalle rivolte, i ribelli Huthi del Nord e i secessionisti del Sud, nonché le principali associazioni. Compreso il partito dell’ex presidente Ali Abdallah Saleh, ma senza la presenza di Al Qaeda oggetto di interventi mirati delle forze di sicurezza yemenite in collaborazione con gli americani. Tra i tanti gruppi coinvolti ci sono anche i Fratelli Musulmani, della cui sezione yemenita al-Islah Karman è un’esponente di punta. Tant’è che ricevendo il sigillo dell’ateneo dal rettore, ha alzato la mano destra mostrando dapprima due dita in segno di vittoria e poi quattro, simbolo della Fratellanza.
Cogliendo tutti di sorpresa perché quello che per Karman è un simbolo di appartenenza politica, per molti egiziani è invece associato a dolore e scompiglio. Dal 23 settembre i Fratelli musulmani sono infatti fuorilegge in Egitto, accusati di fomentare il terrorismo e l’odio settario nei confronti di cristiani e della minoranza musulmana sciita.
Per questo il gesto di Karman ha causato il disappunto di alcuni studiosi che lo hanno trovato poco diplomatico da parte di un premio Nobel per la pace. Ma non tutti lo hanno compreso e hanno quindi battuto le mani, per poi in parte ricredersi. Commentando la recente sconfitta dei Fratelli musulmani al Cairo, Karman li difende a oltranza: «Il golpe fascista ha colpito la democrazia, ma con i militari al potere non può esserci democrazia!» In un confronto con lo Yemen, l’attivista dà la sua versione dei fatti: «Da noi non ci sono spaccature tra religiosi e laici, le divisioni sono dovute piuttosto alle diverse appartenenze tribali e a visioni differenti su quale dovrà essere la forma dello stato, probabilmente federale e unito nonostante le aspirazioni separatiste di un certo Sud, anche se non abbiamo ancora deciso quanti governatorati ci saranno».
A intralciare la transizione sono gli esponenti del vecchio regime, nonostante il loro coinvolgimento nel Dialogo Nazionale: «Continuano a ostacolare il governo provvisorio, ritardando la riforma delle forze armate, impedendo la creazione di una commissione d’inchiesta sulle violazioni dei diritti umani, sabotando le forniture di energia e organizzando attentati per creare insicurezza e minare così la fiducia della popolazione». Per contrastare questi fenomeni, spiega Karman, «sarebbe opportuno un intervento della comunità internazionale, che è tra gli sponsor del governo di transizione, per permetterci di concentrare l’attenzione sulla creazione di uno stato di diritto e sulla soluzione dei problemi ereditati dal regime di Saleh».
Una delle questioni principali è, per la Karman e tanti analisti, la corruzione. Su questo sembra esserci qualche miglioramento in vista: «Abbiamo approvato diverse misure, per esempio privando dell’immunità anche le alte cariche dello stato e rendendo trasparenti le transazioni finanziarie e quindi gli introiti».
Anche la libertà di espressione è una priorità per Karman, dal 2005 a capo dell’organizzazione «Giornalisti senza catene». Cosa resta da fare? «Completare questa fase transitoria e implementare quanto deciso dalle tante rappresentanze coinvolte nel Dialogo nazionale, portando avanti la collaborazione con tutti gli attori coinvolti. E senza aver fretta di andare subito a nuove elezioni».

Repubblica 11.10.13
L’anti Europa
Francia. Nel laboratorio dell’eurofobia
Nel continente avanzano scettici e populisti. Che si ispirano alla Francia. Dove il Front National di Marine Le Pen è primo partito
Il Vecchio Continente trema: le nuove destre incalzano, le prossime elezioni europee potrebbero rivelarsi un terremoto populista.
Gli antidoti? Qualche volta assomigliano al male da curare. Ecco la lezione di Parigi
di Bernardo Valli


PARIGI In maggio, il parlamento europeo appena eletto potrebbe essere composto in buona parte da deputati anti-europeisti. Non da euro-scettici, politicamente anemici, indifferenti, poco convinti del loro fresco mandato, come ce ne sono già tanti: ma da aperti, dichiarati avversari della moneta unica o addirittura decisi, qualora se ne presentasse l’occasione, a provocare attraverso dei referendum l’abbandono dell’Unione da parte dei loro rispettivi paesi. Questo scenario, un po’ paradossale, ma non poi tanto, è suggerito dalle indagini d’opinione che rilevano in vari paesi dell’eurozona la robusta e sorprendente crescita dei consensi raccolti dai partiti eurofobi.
Il caso più vistoso è quello del francese Front National, versione populista rinnovata da Marine Le Pen, figlia ed erede politica del vecchio Jean-Marie, al qualevengono attribuite più intenzioni di voto che ai grandi partiti democratici alle prossime elezioni europee di primavera. Già nel 2002, in seguito all’assenteismo della gente di sinistra, Le Pen padre superò ed eliminò al primo turno delle presidenziali il socialista Lionel Jospin. Ma al ballottaggio il tardo gollista Jacques Chirac, campione del centro destra, raccolse poi i suffraggi della Francia democratica e rimandò al suo posto il leader del Front National.
Undici anni dopo la situazione è cambiata perché il Front National di Marine Le Pen raccoglierebbe, sia pure nel meno impegnativo scrutinio europeo, più voti dell’Ump (Unione per un movimento popolare) e del Partito socialista, i due grandi partiti, di centrodestra e di sinistra. L’Fn figura oggi virtualmente come il primo partito di Francia. Un primato effimero, ma inquietante.
Il risultato del sondaggio fa sognare l’energica Marine, che si vede nel Palazzo dell’Eliseo al posto di François Hollande, quando il meno popolare (almeno per ora) dei presidenti della Quinta Repubblica terminerà il quinquennio. La sua fantasia galoppa. La democrazia d’opinione le dà alla testa. In altri può sollecitare un incubo: l’autoaffondamento dell’Europa. Per ora un fantasma.
La democrazia d’opinione sommerge puntualmente, sempre più di frequente, la democrazia rappresentativa. La quale risulta spesso appannata dalla lenta marcia cui è costretta. Nella civiltà dominata dalle immagini e dalla velocità i riti parlamentari dai quali dipende il funzionamento della vita democratica appaiono frustranti per la loro lunghezza. Con la moltiplicazione dei blog il populismo trionfa. Si impone in una società d’opinione segnata dalla volontà di affermarsi, con i suoi umori del momento, su quella politica, basata sulle convinzioni. Capita che l’opinione sia in disaccordo col voto. E’ frequente che il movimento d’opinione abbia la meglio, ossia influenzi o addirittura determini l’espressione del suffragio universale. La convinzione di essere sulla cresta dell’onda, che rende euforica Marine Le Pen, non è dunque poi tanto campata per aria. Il vento dell’opinione soffia in suo favore. E perora annuncia la minaccia che pesa sulla democrazia europea.
Lei ha inforcato il populismo come un destriero. L’Europa equivale al bersaglio in un antico torneo. Sono in molti a spezzarvi sopra le lance. L’ideologia tradizionale dell’estrema destra, neofascista o neonazista, appartiene ormai al passato o sopravvive a stento. I movimenti con la vecchia impronta sono ridotti a gruppuscoli. Il modello più industriale (come l’ha chiamato Pietro Ignazi) ha conosciuto invece un’espansione significativa. Favorita dal tempo e anzitutto dalla crisi economica e finanziaria.
Il fenomeno populista, nelle sua forma attuale, ha grande successo. L’Europa è presa di mira. E’ associata all’apertura delle frontiere e dunque all’immigrazione e all’Islam. La ristrutturazione industriale, la paura di molti di fronte alla crescita dei paesi emergenti e l’invecchiamento della popolazione contribuiscono ad alimentare la paura. La xenofobia diventa una trincea. L’Europa sta dominando, sia pure a fatica, la crisi finanziaria, e l’euro è per ora sopravvissuto, ma il populismo ha puntato tutto sulla denuncia dell’austerità prolungata che risana i conti ma dissangua la società. E’stato più facile descrivere l’euro come un cappio, come una galera monetaria, che ricordare il suo ruolo di diga alla selvaggia concorrenza delle monete abbandonate a un’inflazione, equivalente al suicidio di redditi e risparmi. Il timore del declino europeo di fronte alla paventata minaccia della mondializzazione ha fatto dimenticare che l’Europa resta l’area economica più importante del mondo. Resta però anche una società senza lavoroper i giovani e con la vita lavorativa dimezzata per gli anziani.
Dominique Reynié, esperto dell’opinione pubblica, annuncia per le elezioni di maggio uno sconvolgimento dell’Unione europea, minata dal populismo. Il quale si è irrobustito sottolineando la disoccupazione e il calo del potere d’acquisto, sul piano economico, materiale; e l’identità nazionale in crisi e le tradizioni travolte dal mondialismo, o dalle frontiere europee impermeabili alle immigrazioni selvagge e all’islamismo, sul piano intellettuale. In Inghilterra l’Ukip, il partito per l’indipendenza del Regno Unito, ha proposto ai conservatori, avversari ma altrettanto eurofobi, di votare per i loro candidati alle elezioni di maggio, con il proposito di arrivare poi a un referendum sull’uscita del paese dall’Unione europea. Difficile prevedere a quale risultato possa condurre questa decisione, resta che il fronte antieuropeo e populista si allarga.
I grandi partiti sono tentati da alleanze con quelli estremisti. Un tempo erano proibite nel nome di principi democratici adesso rinnegati, o resi obsoleti dalle revisioni ideologiche. L’Ump, il grande partito di centrodestra francese, è impigliato in polemiche sull’opportunità di raggiungere accordi elettorali con il Front National. Sul piano locale è spesso una pratica corrente non sempre confessabile. Sul piano nazionale l’antisemitismo o i ricorrenti riferimenti al collaborazionismo durante l’occupazione nazista, durante la Seconda guerra mondiale, nel frattempo spariti dal linguaggio ufficiale di Marine Le Pen, non appaiono più impedimenti insuperabili. Comunque se ne discute. In Germania, durante l’ultimo scrutinio, Angela Merkel, è riuscita a il partito Alternativa per la Germania, che non ce l’ha fatta ad ottenere il 5 per cento dei suffragi per entrare nel Bundestag. Quel partito, animato da economisti noti, non è riuscito a imporsi perché il suo discorso anti-europeo non era abbastanza populista. Era troppo garbato. Gli antidoti al populismo hanno talvolta, a prima vista, un sapore populista. Il caso dell’attuale premier flic de France, del primo poliziotto di Francia, il ministro degli interni Manuel Carlos Valls, 51 anni, socialista di lunga data e uomo politico più popolare di Francia, è un caso singolare. Egli è gradito in egual misura dagli elettori di sinistra e di destra. E’ una vistosa eccezione, poiché l’azione di François Hollande, il presidente socialista, suscita l’approvazione di soltanto due francesi su dieci. Nessun altro capo dello Stato, nella Quinta Repubblica, ha raccolto meno consensi di lui. Sul piano della popolarità Manuel Valls non ha invece concorrenti: più di settanta cittadini su cento lo trovano efficace e in definitiva un ottimo ministro degli interni. Certe sue operazioni sono state approvate dal 92 per cento dei francesi. Manuel Valls, nato da un pittore catalano e da una madre svizzera italiana, diventato francese a diciotto anni, è un socialista con una grande passione: la sicurezza. E’ diventato un grande specialista della questione, senz’altro una delle principali agitate dai populisti, in particolare per quel che riguarda l’immigrazione. Nel partito questa inclinazione non gli ha portato molta fortuna. Alle primarie per la candidatura alle elezioni presidenziali ha raccolto soltanto il 6 per cento. Allora è apparso troppo di destra. Più un liberalsocialista che un socialdemocratico. La popolarità l’ha raggiunta quando Hollande l’ha nominato ministro degli interni e lui si è dimostrato molto più intransigente ed efficiente di un suo noto predecessore, Nicolas Sarkozy, che si è servi di quel dicastero come trampolino di lancio per diventare presidente della Repubblica.
Le sue dichiarazioni sui rom hanno suscitato vive reazioni tra i socialisti. Ha espresso dubbi sulla loro recuperabilità sociale, rendendo implicito il ritorno di molti nella patria d’origine (Bulgaria e Romania). C’è chi l’ha accusato di venir meno al «patto repubblicano », vale a dire ai principi di sinistra. E non sono mancate le polemiche col ministro della giustizia, Christiane Taubira, per le riforme carcerarie giudicate troppo lassiste. Valls si considera un combattente di prima linea contro il Front National. A volte ne adotta quelli che, a molti socialisti, sembrano gli stessi sistemi. Il populismo non è facile da combattere. Nella crisi entra in tutte le pieghe della società. E del cervello.


Corriere 11.10.13
l’Identità (certa) di Fulvia-Mimma
Beppe Fenoglio non merita polemiche
di Aldo Cazzullo


Qualche mese fa, al termine di una conferenza, venni avvicinato da un signore gentile, Corrado Franco, che mi raccontò una storia. Il personaggio di Fulvia, la protagonista di Una questione privata di Beppe Fenoglio, non sarebbe Mimma Ferrero, come si è scritto finora, ma sua madre Gigliola; e sarebbe stato l’autore in persona a dirlo alla signora. Gli risposi che non dubitavo — e tuttora non dubito — della sua buona fede; ma da una marea di circostanze risulta che la figura di Fulvia è ispirata a Mimma Ferrero. Ieri il racconto dell’«altra Fulvia» è diventato una pagina su Repubblica , in cui si scrive che in passato Mimma Ferrero «si è identificata» nel personaggio del romanzo.
Ma la signora Ferrero ha sempre trattato la vicenda con la massima ritrosia, prima di raccontarla in una testimonianza che pubblicai su La Stampa 40 anni dopo la morte di Fenoglio. Com’è ovvio, realtà e letteratura non sono la stessa cosa. Ma «la villa solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba», più avanti «la villa del notaio», in cui comincia Una questione privata è indiscutibilmente la casa di Boschi, località sulla collina che sovrasta Alba, che dagli anni 30 del Novecento al 2011 è appartenuta ai notai Ferrero.
Nel romanzo Fulvia ha, come Mimma, due fratelli lontani in guerra, tra cui è citato per nome Italo: il notaio Italo Ferrero, che ad Alba conoscevano tutti.
In Ur partigiano Johnny , prima stesura del capolavoro di Fenoglio, Mimma è indicata per nome, così come nel diario dello scrittore. Proprio come in Una questione privata , Beppe e Mimma giocavano a pallacanestro e ascoltavano Over the rainbow ...Si potrebbe continuare a lungo; ma Fenoglio non merita polemiche. Non c’è dubbio che pure questa storia confermi la vitalità della sua opera. Che merita di essere letta di più e conosciuta meglio.

Repubblica 11.10.13
Antonello da Messina
Così Piero influenzò il Maestro dell’Annunciata
Il Mart di Rovereto dedica un’ampia esposizione al grande pittore del Rinascimento e ai contemporanei, da Colantonio a van Eyck
Nella seconda metà del Quattrocento l’artista siciliano incarna l’incontro-scontro tra la scuola fiamminga e quella italiana
di Valerio Magrelli


ROVERETO Ero arrivato per contemplare un sorriso ambiguo, riparto avendo negli occhi un atroce spasimo. Due sono i sorrisi che hanno segnato la storia dell’arte, entrambi composti da italiani. Se il più celebre e quello femminile della Gioconda leonardesca, il piu beffardo e forse quello maschile dell’Ignoto
marinaio, dipinto da Antonello da Messina tra il 1460 e il 1470. Stando a un poeta come Paul Valéry, nel primo quadro il pittore di Vinci, fisico e “idraulico”, metteva a frutto lo studio sui mulinelli delle acque, per cogliere il segreto dell’espressione umana: il gorgo come la linea di un sorriso, appunto. Nel caso di Antonello, la cui vita resta al contrario assai lacunosa, è probabile invece che l’artista abbia lasciato il compito di studiare il moto dei liquidi al suo soggetto, certo più adatto di lui… Ma torniamo all’affermazione iniziale. Ero dunque partito per la mostra su Antonello da Messina organizzata dal Mart di Rovereto, dalla Regione Siciliana e dalla casa editrice Electa. Il progetto espositivo, a cura di Ferdinando Bologna e Federico De Melis (con la collaborazione di Maria Calì e Simone Facchinetti, catalogoElecta), indaga la figura del sommo pittore all’interno del suo tempo. La mostra nasce dai prestiti di alcune fra le più importanti istituzioni culturali italiane e straniere. Eppure, malgrado il dispiego di forze, a un simile tesoro manca proprio ilRitratto dell’Ignoto marinaio. Esso fornì titolo e tema a uno dei migliori romanzi di Vincenzo Consolo, il narratore siciliano spentosi l’anno scorso. L’opera, uscita nel 1976, ha alcune toccanti pagine sul dipinto: «Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà». Ecco cosa aspettavo di vedere. E invece, niente. Deluso come solo un dilettante che si trovi senza più punti di riferimento (sebbene ovviamente abbagliato da capolavori vertiginosi come l’impressionante, leggendaria Annunciata), mi chiedevo che fare, finché ho scelto di affidarmi alla mostra. Ed e così che sono giunto a accettare l’inatteso passaggio dal sorriso assente (a causa di complessi problemi amministrativi) allo spasimo presente. Ma andiamo con ordine.
Il percorso parte dalla formazione di Antonello, avvenuta, dopo Messina e Palermo, nella Napoli di Alfonso d’Aragona, tra esperienze provenzali-borgognone e fiamminghe. Qui il giovane svolse il suo apprendistato presso il pittore partenopeo Colantonio, entrando in contatto con le ricerche del grande pittore e miniatore francese Jean Fouquet. A metà Quattrocento, la pittura europea è costituita da un crogiolo di scuole, che si influenzano fra di loro grazie all’ininterrotto viaggiare di opere e artisti. In tale fervore di scambi e ibridazioni (nota Federico De Melis nel ricco dialogo fra i curatori che apre il catalogo), «Antonello si fa interprete di un fermento creativo mediterraneo ed europeo incentrato sull’incontro-scontro tra la civiltà fiamminga e quella italiana». Se quasi certamente non si spinse fino nelle Fiandre, come voleva Vasari, il pittore siciliano trascorse più di un anno a Venezia, dove conobbe Bellini.
Ad ogni modo, spiega un decano della critica quale Bologna, l’incontro che più marcò il suo sviluppo rimane quello con Piero della Francesca.
Il valore di Antonello, insomma, nacque dalla capacità di armonizzare la costruzione prospettica degli italiani, con gli effetti cromatici e micrografici dei fiamminghi (si pensi alla loro ossessiva cura del dettaglio). Ultima tappa del suo itinerario fu la Milano sforzesca, in cui si andavano affermando le nuove ricerche di tipo spaziale condotte dal giovane Bramante. Ed è stato proprio qui, nella parte finale, davanti alCristo alla colonna, che il sorriso inutilmente cercato si è trasformato nell’inatteso, stupefacente spasimo di cui dicevo (e che porta infine, sia pure abusivamente, a un altro libro di Consolo,Lo spasimo di Palermo). Secondo Bologna, la tavoletta si differenzia radicalmente dalle pre-cedenti opere dell’autore. «Anzi, rappresenta una svolta: non è più l’Antonello à plomb; e un Antonello pienamente ruotante». Qui davvero il dolore si fa forma, pura torsione volumetrica, elicoidale. Le gocce di sangue e le lacrime, lo sguardo sofferente e il volto alzato, già annunciano una nuova stagione cui la prematura morte, nel 1479, impedirà al maestro di Messina di partecipare.
Rispetto alle tre precedenti mostre antonelliane (Messina 1953 e 1981, Roma 2006), i punti di forza del nuovo allestimento sono dunque da un lato l’accento posto sulla produzione giovanile,dall’altro l’ipotesi di una profonda influenza esercitata sull’artista da Piero della Francesca. Non si può tacere, però, dello stupore che l’iniziativa ha sollevato per via del museo che l’accoglie. Per alcuni, cioè, sarebbe incongruo che il Mart, delegato a indagare l’arte moderna, si occupi di arte quattrocentesca. “Invasione di campo”? Ben venga ogni invasione del genere, se preparata con una tale cura, visto che, accanto all’esposizione di Antonello, la stessa direttrice del Mart, Cristiana Collu, ne ha ideata una seconda, L’altro ritratto,curata dal filosofo francese Jean-Luc Nancy (autore, nel 2000, del saggio Il ritratto e lo sguardo). Sempre nell’allestimento di Giovanni Maria Filindeu, scorrono tele, foto e sculture di alcuni fra i più noti autori contemporanei. Niente, però, fa effetto quanto i severi video in bianco e nero, incorniciati come fossero quadri, di Fiona Tan. Infatti, ancora intrisi dei timbri antonelliani, restiamo stupiti a osservare l’uomo che taglia una mela. E davanti alla luce radente di questo ritratto filmato, ci ritroviamo a chiederci quanto possa avere influito sull’autrice la lezione fiamminga di un van Eyck.