lunedì 14 ottobre 2013

l’Unità lettere 14.10.13
La pubblicità ateistica sul settimanale «left»
di Ernesto Preziosi

deputato Pd

Caro direttore, nell’ultimo numero il settimanale «left» ha riportato nella quarta di copertina una pubblicità dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar) in cui, a illustrazione della frase «10 milioni di italiani vivono bene senza D», campeggia la parola Dio con la D cancellata.
L’ateismo, come negazione non solo di un dio trascendente ma di qualsiasi carattere religioso e sacro della vita e della realtà, è presente in ogni tempo e in ogni cultura, ma mi chiedo il senso e l’opportunità che la pagina in questione sia ospitata sul magazine de l’Unità. La storia non può passare invano e già negli anni 70 del secolo scorso un partito come il Pci sceglieva di togliere dal suo statuto ogni residuo riferimento all’ateismo materialista.
Ma, anche mettendo da parte la storia, chiedo: cosa ha a che fare quella pagina con il progetto dei democratici, e più in generale del centrosinistra? Con la fatica tra l’altro espressa al meglio nel bel documento sui diritti approvato dall’Assemblea del Pd lo scorso anno di costruire un partito plurale, capace di interpretare al meglio le istanze di questa società? Abbiamo bisogno di costruire un progetto davvero nuovo, fatto di rispetto e di integrazione, di una laicità positiva, non neutra o suggestionata dalle derive di un pensiero più individualista e radicale che solidale. La laicità è un tema importante per nulla scontato. Tema delicato che va sviluppato con equilibrio alla luce della Carta costituzionale. Il mio timore invece è che la propaganda ateistica o antiteistica possa solo favorire e creare alibi a forme di clericalismo, di cui non sentiamo il bisogno.

Ernesto Preziosi ha ricoperto diversi incarichi ecclesiali: vice-presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana (dal 1995 al 2006), dell’Unum Omnes – Federazione Internazionale Uomini Cattolici – (dal 1996 al 2003), di cui è stato anche Segretario Generale (dal 2003 al 2006). È membro del direttivo nazionale della Consulta delle aggregazioni laicali, organo consultivo della Conferenza episcopale italiana
cfr qui

La "risposta" di Claudio Sardo:
Condivido le preoccupazioni di Ernesto Preziosi. Ovviamente, non mi permetterei mai di sindacare la libertà di ciascuno nel cercare la propria strada sui temi che riguardano il destino dell’uomo e della vita. Anzi, proprio perché ritengo la libertà religiosa e di coscienza il fondamento delle libertà, penso che non si possa mettere in discussione neppure la legittimità della propaganda anti-religiosa. Il punto è se una propaganda ateistica o antiteistica sia compatibile con un giornale come l'Unità, con la storia de l'Unità e con gli orizzonti della cultura democratica in Italia. La mia opinione è che non sia compatibile. Perché quella propaganda contiene un pregiudizio anti-religioso, che va ben oltre la libertà di coscienza e collide con la prospettiva di una sinistra di credenti e non credenti, a cui il pensiero religioso molto dà e molto può dare in un tempo in cui la persona e le comunità sono schiacciate nella tenaglia tra individualismo e crisi dei poteri democratici. La lettera di Preziosi lo ricorda: Enrico Berlinguer definiva la laicità dei comunisti italiani nei termini di un partito «non teista, non ateista, non antiteista». Ora siamo più avanti: in una costruzione comune di credenti e non credenti. Il settimanale “left” è autonomo da l’Unità. Ma sono certo che gli amici di “left” prenderanno in seria considerazione queste nostre riflessioni.
Claudio Sardo


...e, "coerentemente", l'Unità pubblica oggi (in "risarcimento") una intera paginata su Santa Chiara d'Assisi, la sfortunata amante mancata di San Francesco...

A cosa fanno riferimento qui sopra  i baciapile e reggicoda di Bergoglio Preziosi e Sardo:
l’Unità 11.2,13
Non teista, non ateista, non antiteista
di Gianni Gennari


SU QUESTO GIORNALE SI STA RIFLETTENDO DA TEMPO ANCHE SUL RAPPORTO TRA SINISTRA E CATTOLICI OGGI. Venerdì scorso Vannino Chiti descriveva in proposito «Come cambia la sfida» e il giorno prima Michele Prospero ricordava «La lezione di Berlinguer» che consiste nel saper distinguere tra il centro e la destra. Sì, ma mi pare che il senso vero sia altro, ancora preziosissimo. Tra il 1973 la vicenda del golpe in Cile e il 1978 Enrico Berlinguer, constatando l’esperienza infelice dell’Est senza democrazia e con l’ateismo di Stato arrivò a dichiarare la sua scelta per l’Occidente libero, ma proprio nei confronti di cattolici e Chiesa ci fu altro, con il nome usato ed abusato di «compromesso storico», come accordo con il partito storico dei cattolici italiani in politica.
In quel contesto, nell’estate 1976, il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi scrisse una lettera al segretario del Pci, rispettosa e insieme ferma sui punti di dottrina, ma carica di accoglienza e simpatia per quel «popolo» comunista ritenuto lontano da ambedue le parti in causa, ma solo da chi o lo conosceva poco o lo voleva tale. E dopo quasi un anno di riflessione e di consultazioni Berlinguer rispose su Rinascita con una «Lettera al vescovo Bettazzi» che segnava una prospettiva del tutto nuova. Egli dichiarava la scelta per un partito e uno Stato «laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista», superando in modo aperto l’ideologia materialista, e quindi un partito e uno Stato nei quali un cittadino di fede cattolica non si trovasse come estraneo, o utile idiota o avversario patentato. Di grande peso fu, nella vicenda, la spinta di un pensatore notoriamente cattolico, Franco Rodano, e l’azione di Antonio Tatò, segretario particolare di Berlinguer.
E non si trattò solo di una promessa: dagli statuti di quel Pci fu tolto l’obbligo di adesione all’ideologia filosofica marx-leninista comunque intesa. Seguì un momento di grande novità: personalmente potrei raccontare esperienze bellissime di ripresa di contatti, e anche di pratica religiosa, da parte di molti «compagni» allontanati, ma mai lontani veramente nel cuore, come liberati da un peso storico opprimente durato troppo a lungo. Ma i tempi non erano ancora maturi: l’ufficialità ecclesiastica non capì lo sforzo e la proposta, e fu subito un fuoco di «contraerea» diffusa, rafforzato dal fatto che la Dc di Fanfani cominciava proprio in quegli anni a manifestare i segni del suo tramonto basterà ricordare il referendum sul divorzio, voluto dalla politica e quasi imposto alla Chiesa di Paolo VI, e poi a cascata i fallimenti Dc a Roma e nelle politiche del 1976 e dintorni.
In quegli anni, 1976-1984, il successo di quel Pci fu visibile come mai prima, anche presso il popolo detto cattolico. La morte di Moro prima, e poi quella di Berlinguer misero fine a una stagione nuova, non accolta da molta parte della Chiesa ancora arroccata sul partito unico e neppure soprattutto dalla dirigenza che guidò il Pci dopo Berlinguer. Il Pci, poi Pds-Ds-Pd, si è via via segnalato, a mio giudizio, con una deriva di fondo laicista e spesso «radicaloide» che fino ad oggi ha reso difficile la prospettiva di convivenza aperta. Quella realtà, di una sinistra né atea, né teista, né antiteista non si è più realizzata, ma questa è e resta «la lezione» vera di Berlinguer, in tema, e questa mi pare ancora
l’unica via. Se il partito non è una Chiesa e la Chiesa non è un partito, tutti possono essere liberi sia nella Chiesa, tenendo fermi i principi di coscienza religiosa, che nel partito, con i suoi principi di giustizia, solidarietà, sussidiarietà e scelta della pace che aprono la via ad una autentica «laicità», non laicista e non clericale.
Oggi nessun credente dovrebbe essere costretto nel suo partito politico a subire un programma unico in aperto contrasto con la sua libera coscienza religiosa, pur sapendo che su questo altri possono pensare diversamente, e che su quei punti la libertà di coscienza per tutti, credenti o no, fa sì che democraticamente si possa anche andare a leggi non da tutti gradite come tali. Nel programma di un partito laico in questo senso non teista, non ateista, non antiteista non si avrà mai una scelta «obbligata» per un principio come tale opposto alla coscienza religiosa, e mai una scelta obbligata che offenda la coscienza non religiosa dei cittadini. Su queste materie varrà la scelta democratica, parlamentare o referendaria, che può anche portare a leggi non gradite alla coscienza cristiana, ma deve restare chiaro il diritto della Chiesa, e di ogni coscienza cristiana e cattolica, adulta quanto si vuole, ma coerente con i principi dell’etica religiosa, di opporsi legittimamente con la parola e con il voto alla loro approvazione.
È successo con la legge Fortuna del 1970 e con la 194 del 1978, confermate nel 1974 e nel 1981 anche con referendum popolari, quando molti cattolici sinceri pensarono che divorzio e aborto fossero e restassero un male, ma in coscienza insieme fedele e libera sia in Parlamento che nel referendum lo giudicarono «minore» rispetto a quanto si sarebbe verificato con la bocciatura o con l’abrogazione. Oggi la vera novità è che è chiaro a tutti, anche ufficialmente, che i credenti sono diversamente collocati nel panorama della politica attuale. E in questo contesto la vera lezione di Berlinguer può essere preziosa anche oggi.

l'articolo è disponibile anche, dal giorno della sua pubblicazione, su questa pagina di spogli

Da "Segnalazioni" del 9 giugno 2012, disponibile qui
«Enrico Berlinguer rispondendo a monsignor Bettazzi nel febbraio del 1978 affermò in una lettera che venne resa pubblica che la filosofia del Pc non era una filosofia atea. Il XV congresso comunista decise di modificare l'art. 5 dello Statuto e presentò rilevanti novità con altre due tesi, la n. 16 e la n. 68: i militanti del Partito non erano più obbligati a riconoscere ed applicare il marxismo-leninismo. Il programma politico del partito era, in pratica, compatibile con la eventuale fede religiosa del militante.
Nella sua lettera a mons. Bettazzi, ispirata dal catto-comunista F. Rodano, Berlinguer cercò di rassicurare il prelato dimostrandogli che l'ideologia del Partito non si caratterizzava affatto per il suo riferimento dogmatico al marx-leninismo. Nella lettera veniva detto che il suo era un partito "né teista, né ateista, né antiteista". Ma non si specificava cosa, allora, invece fosse... Da allora il partito si trasformò in una organizzazione "pragmatica", del momento per momento, priva di qualsiasi riferimento teorico forte, nel tentativo di far convivere in sè modi di pensare spesso opposti e inconciliabili fra di loro ma in grado tutti di esprimere paralizzanti veti incrociati. A prezzo della incapacità di proporre sintesi e linea di progetto tattica e strategica, di continue afasie poiltiche e della conseguente e grave perdita di tanti consensi che prima ne sostenevano azione e progetti, che si sono, negli anni per una soggettiva indisponibilità di tanti al voto per la destra -, rifugiati nell'astensionismo che, come oggi è sempre più evidente, è da allora clamorosamente aumentato.
Sino a Longo le cose non stavano così. Ideologicamente il partito era ateista».

Il testo integrale della suddetta lettera di Enrico Berlinguer è disponibile qui

La direzione di LEFT comunica che molto presto verrà pubblicata una ferma risposta a questo attacco clericale.

Corriere 14.10.13
Il muro europeo dell’indifferenza
di Beppe Severgnini


L'Europa non sa più emozionare, dicono. Se fosse vero, sarebbe grave. Di sicuro, l'Europa non sa più emozionarsi: e non è meno grave. La tragedia a puntate nel Canale di Sicilia non viene percepita come un dramma comune. Non saranno agenzie come Frontex o programmi come Eurosur, da soli, a trovare le soluzioni per affrontare una migrazione epocale dall'Africa e dal Medio Oriente. Saremo noi, mezzo miliardo di europei. Ma gli europei per ora sanno poco, pensano in fretta, agiscono tardi.
L'anatomia continentale, in fondo, è semplice. Le istituzioni Ue rispondono — direttamente o indirettamente — alle opinioni pubbliche nazionali, le opinioni pubbliche nazionali rispondono ai propri occhi e alla propria pancia. Ciò che vedono e sentono è fondamentale. I soccorsi internazionali, dopo il terremoto dell'Aquila (2009), sono arrivati perché la comunità degli europei ha saputo, ha visto, ha capito e ha risposto. La distesa di bare posata oggi sulla porta dell'Europa — i morti accertati dopo i recenti naufragi sono più numerosi delle vittime in Abruzzo — non è bastata a smuovere gli uomini e le donne del continente. I cadaveri dei bambini che galleggiano nell'acqua non hanno toccato il cuore di irlandesi e olandesi, inglesi e polacchi, tedeschi e spagnoli.
L'America ha invece mantenuto la capacità di emozione collettiva. La lingua comune e alcuni media — dal New York Times ai network televisivi, da Usa Today a National Public Radio — hanno conservato una capacità di mobilitazione. Vent'anni fa, l'intervento in Somalia seguì alcune sequenze traumatiche in televisione; la risposta militare in Afghanistan è figlia delle immagini sconvolgenti dell'11 settembre. Un disastro naturale — pensate all'uragano Sandy, un anno fa — viene percepito come un problema federale; quindi, per definizione, collettivo. La risposta adeguata di Barack Obama, in quel caso, s'è rivelata fondamentale per la rielezione. La risposta inadeguata di George W. Bush all'uragano Katrina (2005) ha segnato quella presidenza.
In Europa non avviene. Emozioni e reazioni, punizioni e premi, sconfitte e vittorie: tutto è locale. Abbiamo messo insieme i mercati, non il cuore e il futuro. I media, diversi per lingua, sono divisi. Internet è potente e ubiqua, ma dispersiva: permette la parcellazione dei problemi e, quindi, delle risposte. Ognuno dei 28 Paesi dell'Unione è assorbito dalle proprie ansie: il deficit, la disoccupazione giovanile, il finanziamento del Welfare, i partiti xenofobi. Anche le migrazioni, certo: ognuno le sue. La Grecia guarda al confine turco. Germania e Polonia ai movimenti dall'Est. In Nord Europa e nelle isole britanniche discutono di migrazioni, in questi giorni. Ma non quelle in corso dall'Africa e dalla Siria attraverso il mare. Quelle attese di romeni e bulgari, che dal 1° gennaio potranno muoversi liberamente nella Ue.
Gli spagnoli, dieci anni fa, gridavano che i cadaveri marocchini sulle coste erano un dramma di tutti: nessuno li stava a sentire. Oggi tocca a noi sperimentare la sordità dell'Europa. Giorgio Napolitano ha ragione quando ricorda, angosciato, che nel Canale di Sicilia è in corso una tragedia collettiva, e tutti devono sentirsi coinvolti. Che malinconia: abbiamo bisogno di un uomo di 88 anni, che ha sperimentato dove conduce l'apatia europea, per ricordarci l'evidenza. Abbiamo messo in comune la moneta, non la coscienza. Ma sono le coscienze che cambiano la storia.

l’Unità 14.10.13
Pippo Civati
«Renzi fa il rivoluzionario ma tende a inseguire la linea del consenso
Pochi giorni fa assicurava che Letta non deve temerlo, ma la sensazione è diversa»
«La legalità sta con la civiltà. Ma Matteo sostiene Letta?»
«Non ci possono essere delle condizioni carcerarie al di sotto della soglia civile»
intervista di Osvaldo Sabato


È un errore. Matteo Renzi nel lanciare la sua candidatura a segretario nazionale del Pd lo dice chiaramente: sbagliato parlare di amnistia e indulto. Aprendo così un conflitto con il Quirinale. «Lui dice di più, dice che questo concetto va rifiutato perché sarebbe una deroga alla legalità» commenta Pippo Civati, uno dei suoi competitor alla leadership dei democratici. «Io vorrei ricordare a Renzi che il principio di legalità sta insieme a quello di civiltà, anzi lo precede. Per cui non è immaginabile che ci siano delle condizioni carcerarie che sono ritenute al di sotto della soglia civile» aggiunge. Per Civati è questo il punto di partenza «da cui non esulare mai».
Insomma lei non è d’accordo con Renzi?
«Se davvero vogliamo essere rigorosi e impopolari questa volta dovremmo tenere una posizione diversa dalla sua, che spesso risulta rivoluzionario, ma tende a seguire la linea del consenso. Questo è un tema molto difficile». Cerchiamo di renderlo più facile.
«Io dico che bisognerebbe uscire un po’ dalle ipocrisie. In questi giorni ho chiesto di capire quale sia la maggioranza che si può costituire intorno a questa ipotesi, quali siano le misure concrete, per uscire dalle grandi categorie senza individuare soluzioni appropriate. Bisogna poi ricordare che la popolazione carceraria è soprattutto di un certo tipo, forse si richiede un lavoro più complessivo rispetto alla legislazione sulla tossicodipendenza, sulle pene alternative. Molti dicono che bisogna cambiare la Fini Giovanardi, ma segnalo che Giovanardi è in maggioranza, la vedo difficile. Qualcuno si chiede come fare l’indulto e l’amnistia sapendo che al di là delle dichiarazioni di Renzi, che non so se siano condivise dai suoi duecento parlamentari, ci sono i grillini, la Lega, un pezLei da sempre è contrario alle larghe intese e al governo Pd e Pdl.
«Gli elettori proprio in questi giorni ci hanno chiesto se non si stesse facendo tutto ciò per salvare Berlusconi. Ovviamente non è così, però bisogna stare attenti affinché questo non succeda, bisogna che i reati sui quali intervenire siano individuati per bene. Se ci fosse un indulto come quello del 2006 qualche ambito di opacità ci sarebbe, non dico che si salverebbe Berlusconi, ma si farebbero cose non rigorose rispetto ad alcuni reati contro la pubblica amministrazione e la frode fiscale. Ma mi pare che il Pd su questo non abbia lasciato adito a nessun dubbio».
Un altro tema delicato è la Bossi Fini.
«Su questa legge Letta e Alfano dicono cose diverse, non vorrei che questo governo poi si trovasse a fare cose minime perché non ha un consenso sufficiente per motivare scelte di cambiamento, in un senso o nell’altro».
Nel frattempo il ministro Zanonato dice che Renzi fa solo propaganda e lo paragona a Grillo. «Non intervengo sulle polemiche altrui. Se Renzi ha detto una cosa che non è giusta si risponde e basta. Non ha senso ingaggiare polemiche, anche perché se facciamo così cade il governo, ma nel modo sbagliato, a furia di botte che diamo noi, non è questa l’idea che ho io».
Tornando alla sfida congressuale lei pensa di essere il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro Renzi e Cuperlo?
«Non credo ai sondaggi, ma sono molto buoni, è chiaro che c’è un candidato che ha una visibilità fuori scala rispetto a quella degli altri, ma la mia partita si svolge con una grande copertura di popolo. Per cui penso che se saremo capaci le nostre ragioni avranno molta fortuna in questo congresso e speriamo per tutto il Pd». Duecento parlamentari dichiarano il sostegno a Renzi. Ritiene che sia cambiato il clima nel Pd rispetto alle primarie dello scorso anno?
«No. Sto raccogliendo un po’ dichiarazioni di nuovi renziani, di cosa dicevano di me e di Renzi, rispetto a questa nuova versione di nuove simpatie. Trovo che ci sia un equivoco da chiarire molto alla svelta».
Quale?
«Bisogna chiarire se Renzi sostiene questo governo. O se ha la mia impostazione più critica, o se addirittura lo vuole risolvere. Questo è il nuovo congresso, altrimenti ci prendiamo in giro, a questi duecento neo renziani chiederei se su questo punto hanno delle garanzie in un senso o nell’altro. Anche dalla polemica di Renzi sull’amnistia si ha la sensazione che voglia ingaggiare con il governo un rapporto molto particolare, il giorno prima invece diceva: Letta con me non ha nulla da temere. Secondo me nelle prossime settimane ci saranno delle sorprese, perché la tensione è già alta».

l’Unità 14.10.13
Grillo e Casaleggio in missione tra i senatori «fuori linea»
Il leader del Movimento atteso a Roma, dopo lo strappo dei suoi sul reato di clandestinità
E ora anche i fedelissimi temono il disfacimento
di Toni Jop


E come si guarderanno negli occhi l'uno con l'altro? Manca poco all'incontro più dolente tra i vecchi capi padroni e il Movimento, o meglio la sua prima linea istituzionale e, comunque vada, entrambi i soggetti sederanno su una bomba innescata, perché lo strappo consumato nell'aula del Senato sulla questione della clandestinità ha aperto una faglia che nessuno potrà ricomporre, la spaccatura non si chiuderà.
Grillo avrebbe garantito la sua presenza a Roma nelle prossime ore. Oggi? Domani? É grazioso assistere a questa incertezza perché racconta storie non volendolo fare. Non è un mistero solo il «quando» e dovrebbe essere facile decidere, visto che a Roma tutti aspettano a braccia aperte e quindi chi fissa l'appuntamento è solo Grillo – ma anche il luogo. Dove si vedranno per tentare di sciogliere un nodo tanto stretto? Non si sa, mentre pare certo che, come in altre occasioni, non ci saranno testimoni esterni a raccontare quel che accadrà, tanto per confermare la trasparenza della macchina da guerra del Movimento che aveva fatto dello streaming, della apertura all'occhio del web la sua bandiera. Ma a questa trasparenza l'opinione pubblica ha imparato ben presto a rinunciare.
I dati della vertenza sono chiarissimi: da un lato, i senatori cinque stelle (seguiti da Pd e Sel) si sono fatti interpreti di un emendamento che sottrae la clandestinità dall'area dei reati; dall'altra, Grillo e Casaleggio che hanno invece criminalizzato questa iniziativa politica dichiarandola estranea al percorso della condivisione governato dal non-statuto, nonché estranea, ancora, all'area programmatica adottata dal Movimento. Cioè, secondo il duo, i senatori del M5S sarebbero fuori linea, avrebbero tradito impegni e principi. Può essere che abbiano ragione; ma allora perché non vengono espulsi? Perché non si allestisce per loro la gogna del blog? Perché non viene loro riservata la sorte capitata a chi è apparso in un talk show pur senza averne il permesso? Tra l'altro, il principio si è dimostrato mobile: adesso nei talk sohw si può andare a parlar di stelle, ma evitando scambi peccaminosi. Il diritto si piega alla quotidianità, poveri quelli che hanno pagato prima che il principio ammorbidisse. Ancora: chi ha firmato quell’emendamento non sembra avere alcuna intenzione di rimangiarsi ciò che ha fatto. Aiutato, in questa fermezza, dal tono e dalla sostanza culturale che il post dei due padroni del marchio ha incredibilmente reso, questi sì, trasparenti. In quella comunicazione, si denunciava come le scelte e le ambiguità del Movimento a proposito di questa umanissima e dolorosissima vicenda siano state legate non tanto a una convinzione politicamente formulata quanto piuttosto ad un calcolo elettorale. Uno stile inconfondibile, alle spalle di questa dichiarazione, che fa di Grillo e Casaleggio due formidabili cadaveri putrefatti.
SOTTO SCACCO
Del resto, non puoi votare Lega (come ha fatto Grillo), oppure una lista apparentata con il caimano (come ha fatto Casaleggio) e pensare di non condividere l'aria fredda da obitorio che aleggia in quei bacini culturali. La verità è che sia Grillo che Casaleggio sono sotto scacco, ecco perché non si avverte il fragore delle ghigliottine, nel web. Nei blog, persino chi non solidarizza con la materia sostenuta dai senatori critica il post dei capi-padroni e ne obietta l'autoritarismo. E per la prima volta, anche i fedelissimi accennano all'ipotesi di una possibile implosione del Movimento sotto l'effetto di questo improvvido colpo di maglio. Così, ecco di nuovo il Movimento costretto ad occuparsi di questioni interne invece che dei problemi reali del Paese. Di più: si trova in queste condizioni giusto perché i senatori Cinque Stelle hanno deciso di occuparsi di quei problemi, ma senza tener conto del calcolo elettorale al quale i due padroncini tenevano e tengono sopra ogni altra cosa.
Non se ne esce: pochi ne parlano con chiarezza e senza ricorrere a uno psicologismo familista, ma è in discussione esattamente la relazione di potere sbilanciatissima che tuttavia ha portato i Cinque Stelle dal nulla al 25% dei consensi. Quindi, contestare quella relazione equivale a mettere le mani nel talismano che ha garantito quella fortuna di consensi, nonché ammettere che la presunzione di rappresentare destra e sinistra è una baggianata da circo. Difficile. Intanto, lateralmente, il blog di Grillo attacca Il Fatto come finto amico, colpevole di «velate porcate» contro il Movimento. Il post è firmato da Ernesto Leone Tinazzi, molto stimato in casa Grillo. Ma ha scatenato un'onda anomala: la maggioranza dei lettori rigetta l'accusa e intima a Grillo di smettere quel tono da padreterno. Non si torna indietro.

Repubblica 14.10.13
La numero uno di Cgil boccia l’impostazione che si vuole dare alla legge di Stabilità
Camusso: “Troppo pochi i soldi per detassare il lavoro prendiamoli da Bot e rendite”
intervista di Roberto Mania


ROMA — Più tasse sui Bot e sulle rendite finanziarie per appesantire la busta paga dei lavoratori dipendenti, dice in questa intervista, Susanna Camusso. Che di fronte alle indiscrezioni sulla prossima manovra commenta: «Se fossero confermate si muoverebbero in continuità con le due precedenti. Invece ci vuole un cambiamento della politica economica».
Visto che con il taglio del cuneo fiscale da 4-5 miliardi si prospetta, per gli italiani che guadagnano fino a 55 mila euro, un aumento in busta paga di poco superiore ai 100 euro l’anno, non sarebbe meglio indirizzare quelle risorse in altre direzioni, per esempio in investimenti produttivi?
«Guardi, io penso che ci voglia un’altra legge di Stabilità. Penso che non si possa continuare a non scegliere avendo poche risorse. Bisogna cambiare politica economica. La ragione della profondità della crisi, con la frantumazione progressiva del nostro sistema produttivo, sta nell’estrema e crescente diseguaglianza sociale che si è prodotta. L’economia resta in affanno, la disoccupazione cresce, gli investimenti sono fermi anche perché la gente non può più consumare».
Cosa bisognerebbe fare?
«Spostare significativamente i pesi, non limitarsi a distribuire ciò che c’è. Così si possono trovare ben più dei 5 miliardi di cui si parla e rendere percepibile la riduzione delle tasse sul lavoro».
Qual è la vostra proposta?
«L’abbiamo illustrata al presidente del Consiglio. Pensiamo che le rendite finanziarie non possano più essere tassate al 20% mentre nel resto dell’Europa il prelievo parte dal 25% in su. Spostiamolo anche noi almeno al 25. Sui Bot si paga ancora il 12,5% mentre nel resto del mondo siamo al 20. Senza parlare di patrimoniale, che suscita drammi solo ad evocarla, si possono fare queste due operazioni nel segno della redistribuzione».
Ma i Bot li comprano i piccoli risparmiatori. Le sembra un’operazione di redistribuzione della ricchezza?
«Il 90% dei Bot è in mano alle banche. Non raccontiamo un mondo che non c’è. Certo ci sono anche i pensionati e i lavoratori chehanno investito in Bot con un prelievo fiscale del 12,5%. E che hanno goduto anche di un aumento del rendimento per effetto indiretto della crescita dello spread. A tutti costoro si può chiedere un contributo».
La solita ricetta: nuove tasse.
«No, non sono nuove tasse. È una diversa distribuzione della tassazione».
Pensa che così si recupererebbero 10 miliardi e più perché il taglio al cuneo fiscale si faccia sentire sulle buste paga?
«Penso che si potrebbe tranquillamente arrivare a quella cifra».
Già con la prossima legge di Stabilità?
«Si può fare un pezzo di strada importante».
Non va bene, dunque, l’impostazione del ministro Saccomanni?
«No. Non si può sempre aspettare, per quanto auspicabile, un cambio di indirizzo delle politiche economiche europee. Ci sono cose di nostra competenza che si possonofare. Quelle che ho indicato appartengono a questa categoria».
Ha parlato delle entrate. Bisognerà pur recuperare qualcosa sul lato della spesa. Si ipotizzano tagli lineari anche sul fronte sanitario. Ha proposte alternative?
«I tagli lineari non vanno bene. La spesa sociale non è tutta uguale. Si deve fare pulizia. Noi abbiamo calcolato che se si facesse un’operazione radicale sui costi standard applicando i valori di mercato per l’acquisto di beni e servizi, si potrebbero risparmiare circa due miliardi fin dal prossimo anno. E poi vanno tagliate le consulenze che, nonostante gli annunci, continuano a sopravvivere imperterrite. Mi sembra meglio che tagliare i servizi sanitari che incidono sulla qualità della vita delle persone. Anche in questo caso si tratta di cambiare lo schema».
Il ministro Giovannini ha detto che con la legge di Stabilità si farà un primo passo verso il reddito minimo. Favorevole o contraria?
«Sono contraria ai semplici an-nunci. Sotto la formula del reddito minimo ci si mette qualunque cosa. Se l’intendimento del ministro è quello di sostenere le fasce più povere, ben venga. Ma va fatto con nuove risorse, non tagliando i finanziamenti alla cassa integrazione in deroga che peraltro va rifinanziata».
Dal menù della legge di Stabilità sono uscite le pensioni. Va bene?
«No, ed è grave che non si parli più di esodati. Quelle sono rotture sociali che vanno sanate. Proprio la riforma delle pensioni è una delle cause delle nostre diseguaglianze. Nei collegati alla legge di Stabilità andrà recuperato questo tema. Come quello dei cosiddetti incapienti, cioè con redditi sotto i 9 mila euro annui. Qualcuno nel governo si è accorto che sono cresciuti del 20% tra i lavoratori?».
Ultima domanda: Renzi ha detto che amnistia e indulto rischiano di essere un autogol. Lei che pensa?
«C’è una situazione esplosiva nelle nostre carceri che va affrontata anche con misure straordinarie. Ma per evitare che in pochi anni si ritorni al punto di partenza bisogna rimuovere le cause che hanno prodotto questa condizione: ad esempio leggi sbagliate come la Bossi-Fini-Maroni sul reato di clandestinità e la Giovanardi sulla droga».

Corriere 14.10.13
Così all’estero il lavoro svuota le carceri
di Luigi Ferrarella


MILANO — In Gran Bretagna c’è un carcere, quello di Peterborough nel Cambridgeshire, dove se nel 2014 scenderà almeno del 7,5% il tasso di recidiva di 3 mila detenuti — ammessi nel 2010 a un programma di reinserimento sociale attraverso lavori finanziati con 5 milioni di sterline da 17 investitori privati — costoro incasseranno un rendimento annuo del 13% per 8 anni (meglio di qualunque titolo in Borsa), pagato dal ministero della Giustizia inglese con una quota dei soldi di una lotteria nazionale.
Negli Stati Uniti c’è un carcere, quello di Rikers Island, dove la banca d’affari Goldman Sachs — che con la garanzia della fondazione del sindaco newyorkese Bloomberg ha messo 9,6 milioni di dollari in un progetto di riabilitazione attraverso il lavoro e lo studio di 3 mila detenuti — guadagnerà 2,1 milioni di dollari di interessi pagati dal governo americano se la recidiva dei detenuti sarà scesa almeno del 10%.
Non è fantascienza buonista ma serissima sperimentazione all’estero dei social impact bond , cioè di prodotti finanziari sulla scia delle tradizionali obbligazioni, con la differenza che alla scadenza garantiscono un certo rendimento ai privati sottoscrittori soltanto se è stato raggiunto il risultato prestabilito per un certo progetto di interesse pubblico.
Se il risultato è centrato, infatti, ci guadagnano proprio tutti. I detenuti rientrano nella vita quotidiana con un reinserimento reale e stabile. Per i cittadini la minore recidiva degli ex detenuti si traduce in maggiore sicurezza nella società. Lo Stato raccoglie risultati sociali ed economici (minor recidiva si traduce in meno nuovi reati che vogliono dire anche meno soldi da spendere in repressione e carcere) senza dover impegnare all’inizio grosse cifre per investimenti per i quali non ci sarebbe margine nei malconci bilanci pubblici. Le associazioni non profit, che svolgono sul campo il lavoro di reinserimento lavorativo-sociale, trovano sul mercato finanziario quei fondi che altrimenti lo Stato non sarebbe in grado di impegnare. E gli investitori privati incassano i frutti di bond dal rendimento assai maggiore e protratto rispetto alla maggior parte delle alternative in Borsa.
Ovvio però che occorrano strumenti di misurazione affidabili, altrimenti diventa impossibile convincere investitori privati, i quali in caso di insuccesso dei progetti rischiano di perdere totalmente il proprio capitale investito. Eppure questo modello, di cui dopo un seminario romano mercoledì alla Uman Foundation si parlerà oggi a Padova all’Officina Giotto in un convegno sul lavoro in carcere con i ministri Cancellieri della Giustizia e Zanonato dello Sviluppo economico, sembra maturo per poter trovare sperimentazioni anche in Italia, dove mesi fa si è già fatta fatica a difendere almeno la destinazione di 16 milioni al rifinanziamento della legge Smuraglia sul (pochissimo) lavoro in carcere, e dove però i dati sulla recidiva fanno intravvedere quanto possa essere efficace proprio la leva del lavoro per i detenuti. Se infatti quasi 7 su 10 che scontano tutta la pena in carcere tornano poi a delinquere, questo tasso di recidiva non soltanto scende intorno al 19% per chi sconta parte della propria pena in misura alternativa al carcere (come l’affidamento ai servizi sociali), ma nell’esperienza concreta di alcune cooperative sociali si è misurato precipiti sino all’1% laddove quella misura alternativa al carcere sia accompagnata proprio da un reinserimento lavorativo.
Soldi ben spesi, insomma, forse gli unici, investimenti veri, seppure lunghi e faticosi e poco spendibili al mercato della propaganda politica di corto respiro, ma con i quali converrà al più presto fare i conti se non si vuole che da emergenziali diventino permanenti tanto il sovraffollamento delle carceri quanto il fallimento strutturale delle misure di clemenza che non hanno potuto impedire il riempimento oltremisura delle carceri pur svuotate dall’indulto del 2006.

il Fatto 14.10.13
Gli amici del boia
“Faremo i funerali di Priebke in strada”
di Nello Trocchia


Sui funerali di Erich Priebke è scontro aperto tra l'avvocato e le istituzioni. L'ex ufficiale delle Ss, boia delle fosse ardeatine, strage nella quale furono uccisi 335 italiani e che gli è costata l'ergastolo, fa discutere anche da morto. Il suo legale Paolo Giachini, dopo il no alle esequie, lancia la provocazione: “Sono pronto a celebrare i funerali in strada. La Curia ha chiarito che il funerale gli spetta. Non ho avuto comunicazioni sul fatto che a Priebke siano stati negate le esequie in Chiesa. Faremo le richieste quando arriverà il certificato per traslare la salma”.
MA L'AVVOCATO riceve un coro di no da comunità ebraica, vicariato, comune e prefettura. Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica della capitale, annuncia una manifestazione nel caso si concretizzasse la possibilità di una tomba all'ex ufficiale delle Ss: “Se fosse necessario la gente è già mobilitata per protestare e io sarò con loro. Non accettiamo provocazione proprio alla vigilia del 16 ottobre quando ci sarà la commemorazione della deportazione degli ebrei di Roma”. Il vicariato ha confermato quanto chiatito nei giorno scorsi “ Non ci saranno esequie pubbliche”. Posizione, quella del vicariato, che è stata elogiata dalla comunità ebraica che l'ha definita “unica nella storia”. I rifiuti trovano anche un riferimento. Il canone 1184 del diritto canonico prevede che il vescovo possa negare i funerali ai 'peccatori manifesti' che prima della morte non abbiamo dato segno di pentimento e quali “non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli”. Un caso, quello di Priebke, che rientra pienamente in questo dettato canonico basti pensare al testamento choc lasciato dall'ex ufficiale delle Ss nel quale, tra l'altro, si nega l'esistenza delle camere a gas con queste parole: “Aspettiamo ancora le prove, non si sono mai trovate. Testimonianze affidabili non ce ne sono” . La follia contro la storia. E dal comune di Roma arriva un diniego definitivo a ogni ipotesi di esequie. Il sindaco della capitale Ignazio Marino ha spiegato: “In accordo con il prefetto posso affermare che saranno negati l'utilizzo e l'occupazione di qualunque spazio pubblico”. La proposta provocazione dell'avvocato affogata da una pioggia di no dopo il secco rifiuti anche dell'Argentina dove Priebke aveva trascorso un periodo della sua vita. L'ex Ss non si è mai pentito di quanto fatto, negando nel testamento persino l'immane tragedia dell'Olocausto. L'ex ufficiale, arrivato ai 100 anni, ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in zona Aurelio a Roma, spola di affezionati e parenti. Quei nostalgici che hanno lasciato scritte nei pressi dell'abitazione dove l'ex Ss dimorava con la solita svastica e la scritta “Onore”. E su Facebook i nipotini di Hitler non mancano.
NON SONO MANCATE polemiche anche per alcune dichiarazioni di politici da sud a nord. Il presidente della provincia di Salerno Antonio Iannone ( Fratelli d'Italia) si è spinto in un improbabile parallelo: “ Non posso sottacere che Priebke non è stato l'unico mostro del Novecento. Ma che ci sono stati altri macellai, come Che Guevara, appunto, che meritano lo stesso trattamento”. Da sinistra ne hanno chiesto le dimissioni. A Verona, Roberto Bussinello di estrema destra, consulente del comune in un organismo di vilanza di un'azienda pubblica, su Facebook ha scritto: “ Capitano sarai sempre nel cuore di chi sogna e di chi lotta”. Ora il sindaco Flavio Tosi ha annunciato che ne chiederà le dimissioni. L'ex Ss cerca ancora una tomba, ma per il boia di 335 innocenti, a Roma sembra non esserci posto.

La Stampa 14.10.13
“Tocca alla Germania risolvere il problema del suo funerale”
Il direttore del Centro Wiesenthal: era tedesco
di Maurizio Molinari

qui

dall’articolo di oggi su Repubblica di Benedetta Tobagi:
«Secondo i regolamenti, Priebke dovrebbe essere sepolto a Roma, punto. Stando a una deliberazione comunale del 1979, infatti, nei cimiteri capitolini “hanno diritto di seppellimento le salme di persone morte nell’ambito territoriale del Comune, qualunque ne fosse stata in vita la residenza”»
l’Unità 14.10.13
La ministra Bonino: «La legge c’è, non facciamo eccezioni»

Il Giornale e il Tempo ieri si sono distinti sul trattamento da riservare a Priebke. Il quotidiano romano in particolare ha pubblicato in prima pagina un’enorme foto di un Priebke giovane nella sua divisa nazista, sorridente, felice, sotto il titolo: «Basta con l’odio, un funerale anche a Priebke», con la richiesta rafforzata dall’editoriale del direttore Gian Marco Chiocci. Fra i politici e le istituzioni, le uniche dissonanze sono state la battutaccia di Storace, secondo cui Priebke avrebbe meno colpe degli americani, nei fatti di guerra, e la presa di posizione della ministra degli Esteri Emma Bonino, che ha tenuto a ricordare come esista già la legge sulle sepolture, «Se non ci piace la legge si prenda il coraggio di cambiarla ha detto ma dopo aver criticato le leggi ad personam, vorrei evitare le eccezioni ad personam».

il Fatto 14.10.13
Ultima voce dall’inferno
16.10.194 I nazisti deportavano 1.022 ebrei dal Ghetto di Roma
di Alessandro Ferrucci


È la sera del 3 luglio 2000. Una sera di confine, dove si incrociano ricordi, immagini, commemorazioni. Bilanci e lacrime. A 79 anni è morta Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta al rastrellamento nazista del ghetto di Roma. Lello Di Segni, suo cugino più piccolo, classe 1926, anche lui uno dei 1022 deportati in Polonia dalla città del papa, si sta per sedere a tavola con il figlio e la moglie. Lello, a differenza di Settimia, non aveva mai voluto raccontare il dramma visto e vissuto, se lo era portato dentro, in silenzio, con pudore, eppure quella sera guarda in faccia i famigliari. E improvvisamente decide: “Ora inizio io”. A fare cosa, papà? “Non c’è più Settimia, tocca a me raccontare, devo prendere il suo posto”. Al figlio si velano gli occhi, finalmente è giunto il momento che aspettava da 35 anni, lo porta nella sua camera e gli rivolge tutte quelle domande che da sempre avrebbe voluto fargli, a partire dalla notte maledetta, tra il 15 e il 16 ottobre del 1943, quando gli uomini di Kappler “bussano” a centinaia di porte, compresa la famiglia Di Segni. “Eravamo tutti e sei in casa: io, mio padre, mia madre e tre fratelli: Angelo, Mario e Graziella – racconta Nello – Quasi all’alba sono arrivati, si sono presentati e con una lista di nomi hanno iniziato a perlustrare le stanze, convinti che nascondessimo qualcuno. Dentro gli armadi, in soffitta, in cantina. Niente. C’eravamo solo noi, gli altri parenti erano scappati le settimane precedenti . Poi con il mitra dietro la schiena siamo scesi in strada e saliti sui camion”. Di Segni indica il punto esatto in mezzo alla strada, poi si avvicina al suo vecchio portone. Lo guarda. Va ancora più vicino. Nonostante sia verso i novant’anni, non porta gli occhiali, non ne ha bisogno, accosta l’occhio al legno, lo accarezza come per cercare qualche traccia del suo passato, della Storia. Non c’è, almeno in apparenza.
“PER QUESTI VICOLI giocavamo a pallone – continua – mi chiamavano ‘Piola’ nonostante fossi della Roma. Ci conoscevamo tutti, vede quel palazzo? Lì viveva mia cugina Settimia, ci parlavamo dalle finestre. Mio padre diceva sempre di non affacciarmi, aveva paura di qualche pallottola dei tedeschi. Ma nonostante la guerra avevamo trovato delle piccole sicurezze quotidiane, mai potevamo pensare a un epilogo del genere”. Sì, mai. Questione di giorni, pochi, decisioni rapide, contraddittorie, finali da parte dei tedeschi: l’8 settembre del 1943 occupano la città eterna; due giorni dopo Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, comandante dell’SD e della Gestapo a Roma, riceve un messaggio da Heinrich Himmler. Quest’ultimo è il teorico della soluzione finale. Vuole gli ebrei del papa. “Era il massimo per loro – spiega Marcello Pezzetti, direttore del museo della Shoah di Roma – poter entrare nella Capitale e dettare legge, dimostrare la superiorità anche davanti al pontefice. L’infinita soddisfazione dei gerarchi è dimostrata da un episodio chiave: quando i deportati del ghetto giungono in Polonia, ad accoglierli trovano il comandante del campo di concentramento, Rudolf Hoese insieme a Josef Mengele e a tutti gli altri baroni. Presenti, schierati e beati di tale trofeo”.
Passo indietro. Siamo al 26 settembre del 1943 e Kappler parla con il presidente della Comunità israelitica di Roma e con il capo dell’Unione, vuole 50 chilogrammi di oro da racimolare in meno di due giorni. In cambio garantisce la non deportazione di 200 ebrei. Il bottino viene consegnato. “La faccenda dell’oro li tranquillizza invece di metterli in allarme – spiega Pezzetti – Fino a quel momento i tedeschi si erano dimostrati di parola e fino all’armistizio l’Italia non aveva deportato ebrei”. Eppure tutto cambia. “La decisione arriva dal-l’ufficio centrale per la sicurezza del Reich, da Eichmann: vuole un blitz come quello di Parigi”. Per questo arriva a Roma Theodor Dannecker già responsabile dell’operazione “Velodromo d’inverno”, con più di tredicimila francesi “rastrellati” e chiusi in uno stadio dedicato a gare di ciclismo. Ma fanno un errore. “Spediscono in Italia appena dieci persone, troppo poche, quindi coinvolgono dei riservisti, in tutto 365 militi. Dal loro punto di vista è una incredibile sopravvalutazione di se stessi, perché Roma è complicata e la popolazione non è che li aspetta a braccia aperte. Per fortuna, poi, l’operazione è pensata senza l’aiuto degli italiani, questo è importante, mentre in Francia Dannecker aveva utilizzato i gendarmi francesi”. Gli italiani si ‘limitano’ a comporre le liste “altrimenti il numero di deportati sarebbe stato molto più alto: l’obiettivo era di 8000 elementi, è scritto nei documenti, con Kappler costretto a giustificarsi con Himmler e gli altri. Insomma, dal loro punto di vista è un insuccesso clamoroso”.
UN INSUCCESSO che non salva Nello e la sua famiglia. “Ci prelevano e ci portano al Collegio militare a via della Lungara e lì siamo rimasti chiusi per due giorni”. Due giorni di attese e di silenzi, di silenzi soprattutto da parte del Vaticano. “Nessuna reazione – racconta ancora Pezzetti – Sappiamo di colloqui privati, di discussioni tra i porporati e i gerarchi, ma pubblicamente non esce niente, con lo stupore dello stesso ambasciatore nazista presso la Santa Sede. Solo il 25 ottobre, quando ormai l’80 per cento degli ebrei è già stato ucciso con il gas, l’Osservatore Romano pubblica un breve articolo, criptico, nebuloso, nel quale non si capisce nulla”. Nel frattempo i 1022 sono in viaggio verso la morte. “Chiusi dentro ai vagoni per cinque giorni, quasi senza mangiare, il poco cibo e la pochissima acqua dipendeva da quanto le mamme erano riuscite a racimolare prima di partire – r i-corda Nello – Basta. I nazisti non hanno mai, dico mai, aperto un portellone del vagone. Respiravamo a fatica”. Ecco la Polonia. La sfilata dei “trofei”. Il ghigno dei gerarchi, i cani tenuti a fatica al guinzaglio, anche loro eccitati, la scelta di chi era utile per il lavoro e di chi no. La famiglia Di Segni non esiste più: la mamma e i tre fratelli uccisi subito, giudicati inutili dai nazisti, si salvano solo Nello e il padre e quando lo ricorda non possono bastare settant’anni per trattenere le lacrime. Non ha potuto neanche dirgli addio, un attimo ed è finita un’esistenza. Si ferma. Sbottona il polsino della camicia sinistro, alza la manica, gira l’avambraccio e mostra il suo numero tatuato. “Mi sono fatto due anni di campo di concentramento, tra la Polonia e la Germania, ho anche lavorato dentro al ghetto di Varsavia, scavavo, scavavo e ancora scavavo. Cosa trovavamo? Meglio lasciar perdere...”. Non vuole aggiungere altro. Troppa fatica, troppo dolore. “Dalle macerie sono state selezionate vettovaglie – interviene in un secondo momento Pezzetti – l ibri, sono state recuperate porcellane, pezzi di ferro. Ma anche brandelli umani”. Finita la guerra Nello torna faticosamente in Italia, non pesa neanche trenta chili. “Mi sono fermato a Milano da alcuni parenti e quando a Roma si è sparsa la voce che ero sopravvissuto non ha idea di quante persone mi hanno raggiunto con le foto dei parenti scomparsi per chiedere se sapevo qualcosa. Se li avevo visti. Se erano ancora vivi”. Fino a quando gli giunge anche un messaggio inaspettato, del padre, anche lui vivo. “Sono riuscito a riabbracciarlo, ma per poco, era troppo stanco, provato e malato, subito dopo è morto”. Di quella maledetta notte sono tornati in sedici e Nello è l’unico ancora vivo insieme a Enzo Camerino. “Domani sera li ricorderemo tutti – r a c-conta Pezzetti – uno a uno, nome per nome, anche il figlio di Marcella Perugia, nato in quei due giorni al Collegio romano, anche lui portato sul vagone e probabilmente morto subito dopo”. È il bambino senza nome. “Compresa una badante cattolica cristiana che per non lasciare sola la signora non ha rivelato di non essere ebrea”. Si sarebbe salvata.
NELLO RESTA ANCORA in silenzio, si guarda attorno, non viene spesso al Ghetto, ma ritrova il suo vecchio bar, il bar Totò. Il figlio guarda Marcello Pezzetti e sottovoce gli fa: “Sono sicuro di una cosa: papà non mi ha mai raccontato tutto, non mi ha mai detto tutta la verità riguardo al campo di prigionia. Ha voluto proteggermi e oramai è tardi per capire fino in fondo”. “È vero”, risponde il professore “pensa, dopo una mia lunga insistenza, nel 1992 mi ha concesso un’intervista, con la promessa che non ti avrei mai fatto ascoltare la registrazione di quel pomeriggio. Forse è giunto il momento che ti dia quella cassetta”. Perché il figlio possa prendere il posto del padre.

il Fatto 14.10.13
Una mostra per non dimenticare


DOMANI ALLE ORE 20 a Largo Gaj Tache ci sarà una “camminata silenziosa” per ricordare gli oltre 1000 ebrei, uomini, donne, bambini, anziani e malati che sono stati strappati dalle loro case e dai loro affetti per essere portati a morire nell’inferno di Auschwitz-Birkenau. Inoltre, in occasione del settantesimo anniversario della retata degli ebrei romani del 16 ottobre 1943 ad opera dei nazisti, la società Comunicare Organizzando presenta la mostra “16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma” a cura dalla Fondazione Museo della Shoah di Roma. Il 16 ottobre è un giorno di focale importanza per la memoria collettiva della città di Roma, che lo commemora con fiaccolate, convegni, manifestazioni varie, ma fino ad oggi non è mai stato descritto in modo esauriente in un’esposizione capace di raccontare i drammatici eventi di quei giorni. Una mostra che non è dedicata solamente alla comunità ebraica romana per ricordare avvenimenti che la videro tragicamente protagonista, ma è rivolta soprattutto alla cittadinanza non ebraica per prendere coscienza della storia recente della propria città e farne memoria condivisa. Al “Complesso del Vittoriano”, dal 17 ottobre al 30 novembre 2013, Sala Zanardelli, ingresso Ara Coeli. Dal lunedì al giovedì 9.30- 18.30; venerdì, sabato e domenica 9.30 – 19.30. Entrata libera

Corriere 14.10.13
«Portare la Shoah nelle scuole. Così si protegge la memoria»
di Paolo Conti


Liliana Segre, 83 anni, deportata il 30 gennaio 1944 ad Auschwitz-Birkenau sul caso Priebke: «Ha ragione il cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld quando dice che dobbiamo essere in grado di non accanirci. I grandi colpevoli non ci sono più. E portiamo la Shoah nelle scuole: così si difende la memoria». A PAGINA 23 - ALLE PAGINE 22 E 23 Caccia, Vecchi

«Teniamo viva la memoria Non coltiviamo vendette» Liliana Segre: caccia ai nazisti? Non sono una persecutrice Ha ragione o torto il grande «cacciatore di nazisti» Serge Klarsfeld quando dice al Corriere della Sera , in un’intervista a Stefano Montefiori: «Dobbiamo essere in grado di fermarci, di non accanirci. I grandi colpevoli non ci sono più. resta qualche pesce piccolo, e il problema con loro è accertarsi che abbiamo davvero commesso crimini contro l’umanità... la prospettiva di condannare un innocente mi spaventa tanto quanto quella di lasciare indisturbato un massacratore»? Lo chiediamo a Liliana Segre, 83 anni, deportata il 30 gennaio 1944 dal Binario 21 della stazione di Milano Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Il numero di matricola sul suo avambraccio è il 75190. Riuscì a sopravvivere. Venne liberata il 1 maggio 1945 a Malchow.
«Credo che Serge Klarsfeld abbia ragione. Quando vediamo che personaggi di cent’anni non solo non si pentono ma nemmeno cambiano idea sugli orrori che hanno compiuto.... Gente che non ha mai avuto pietà per i vivi. Priebke definì “briganti” i morti delle Fosse Ardeatine, e invece sappiamo benissimo che non è certo così. E meno che mai ebbero pietà dei morti, io stessa posso testimoniarlo»
Anche lei ritiene che sia inutile accanirsi? Cioè che sia in qualche modo chiusa un’epoca, una stagione del dopo-Olocausto?
«Non si può parlare di chiusura di un’epoca, né mai si potrà farlo per ciò di cui stiamo parlando. Adesso è essenziale non dimenticare, preservare la memoria. Questo è il vero impegno. Raccontare bene alle nuove generazioni cosa hanno fatto certi personaggi che sono arrivati a cent’anni d’età bevendo birra la sera e facendo belle gite, del tutto indisturbati, dopo aver ucciso gente innocente. Io ho molto ammirato Simon Wiesenthal per il suo lavoro. Così come ho ammirato lo stesso Klarsfeld. Quindi capisco il suo pensiero. Adesso bisogna aiutare a non far dimenticare chi è stato sterminato, e in che modo, semplicemente per la colpa di essere nato».
Klarsfeld dice: forse c’è ancora qualche pesce piccolo, in giro. Lei che ricordi ha di quei «pesci piccoli»?
«Io li ho conosciuti. li ho visti con i miei occhi. Tutto il personale dei lager di sterminio era convintissimo di ciò che stava facendo. Da venticinque anni vado nelle scuole a raccontare e spesso i ragazzi mi chiedono: “Ha mai visto pietà nei loro occhi?”. E rispondo sempre con la verità: “No, mai”. Ho incontrato tante guardiane secondarie, io ero in un lager femminile. Non avevano poteri decisionali. Ma erano sempre belve pronte a picchiare, umiliare, uccidere»
Per Klarsfeld il testamento di Priebke ha suscitato un generale disgusto. Teme che quelle agghiaccianti parole possano invece aver alimentato il negazionismo?
«Io ho una terza tesi. Cioè che ci sia stata tanta indifferenza. È la parola che ho chiesto fosse scritta a grandi caratteri al Binario 21 a Milano. Tutto accadde in mezzo all’indifferenza. E anche oggi, più che l’analisi delle parole di Priebke, interessa sicuramente il gossip».
«Condannare un innocente mi spaventa tanto quanto quella di lasciare indisturbato un massacratore», dice Klarsfeld.
«Sono d’accordo. Senza esitazioni».
Ritiene che tutti i «pesci grandi» siano stati presi?
«Non so rispondere. Sono stata contenta quando hanno catturato Priebke così come Klaus Barbie o Adolf Eichmann. Ma non sono mai stata una persecutrice. Sono stata già molto impegnata a leccarmi le ferite della mia vita precedente. Ho cercato l’amore, intorno a me. Non l’odio. Ho tentato di essere me stessa senza coltivare sentimenti di vendetta. Non volevo diventare come i miei persecutori. Io sono diversa da loro, per mia fortuna».
È soddisfatta di questa scelta di vita, guardandosi indietro?
«Ho semplicemente agito come mi sentivo di dover fare. Ho cercato di essere una testimone veritiera di quanto mi era accaduto e di quanto avevo visto in tv, nelle università, soprattutto nelle scuole affinché non si dimentichi. Mi piace in particolare andare tra i ragazzi. Io sono nonna. Sono idealmente tutti miei nipoti. E una nonna non parla d’odio».

Corriere 14.10.13
I volti mai visti dei soldati che rastrellarono il ghetto
di Gian Guido Vecchi


ROMA — La banalità del male è nei volti di questi uomini che sorridono all’obiettivo sullo sfondo di un gregge di pecore o posano corpulenti davanti a un portone in via Salaria. Facce da contadini, gente venuta dalla campagna tedesca, riservisti trentenni mandati nella «città aperta». Guardateli bene, perché dal 16 ottobre 1943 nessuno conosceva i loro volti. Solo i capi, i Kappler e i Dannecker, erano noti. Le prime immagini dei tedeschi che rastrellarono il ghetto di Roma arrivano dalla casa di uno di loro, morto nel ’99. Il figlio ha risposto alla storica Sara Berger, della Fondazione Museo della Shoah, con una busta che conteneva sei foto e un biglietto: «Se non le servono, può distruggerle».
Le immagini saranno esposte nella mostra «La razzia degli ebrei di Roma» che verrà inaugurata al Vittoriano mercoledì, a settant’anni dal rastrellamento. Per la prima volta si vedranno le foto di oltre trecento dei 1.022 deportati. Ma soprattutto le facce di chi andò a prenderli. «Immagini mai viste, un inedito assoluto, ma io mi sento male a guardarle», sospira lo storico Marcello Pezzetti, curatore della mostra e direttore scientifico della Fondazione. «Perché erano uomini come le vittime, uguali. Contadini, giardinieri, panettieri. La stessa posizione sociale, gli stessi bambini, genitori, nonni...». Non erano volontari e specialisti dello sterminio come le SS, non facevano parte della Wehrmacht. Dalla sezione IV B 4 dell’RSHA di Berlino, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt) che riuniva SS e Gestapo, Adolf Eichmann inviò a Roma un Eisatzkommando di neanche dieci uomini guidato da Theodor Dannecker. A loro si aggiungevano dai venti ai trenta agenti della Sipo, la «polizia di sicurezza» di Herbert Kappler. Tutti gli altri, più di trecento, venivano da tre compagnie della Orpo, la «polizia d’ordine» formata per lo più da riservisti fra i 34 e i 37 anni. Le foto ritraggono quelli dell’«unità Seeling», dal nome del capitano Emil Seeling. Li svegliarono prima dell’alba nell’ex convento di via Salaria 227, l’operazione iniziò alle 5,30. In piccole squadre da 3 a 6 uomini, guidate dagli «specialisti» di Dannecker, chiudono le strade di accesso al ghetto e nelle altre «zone d’azione», entrano nei palazzi, consegnano alle famiglie sorprese nel sonno un bigliettino in italiano malcerto con le istruzioni per lasciare le loro case entro 20 minuti, «sarete trasferiti».
Gli storici discuteranno il grado di responsabilità di questi uomini. «Molti non sapevano che cosa avrebbero dovuto fare, ma quando arrivarono al ghetto non credo potessero ignorare che gli ebrei avrebbero fatto una brutta fine», considera Pezzetti. D’altra parte «non hanno lo sterminio davanti agli occhi», osserva Sara Berger, alcuni scortano gli ebrei fino a Birkenau «e là vengono a sapere ciò che accade, lo raccontano ai compagni al ritorno». Tra i giovani studiosi della Fondazione, sono state Sara Berger e Libera Picchianti a occuparsi dei persecutori. La Fondazione ha inviato una serie di lettere a famiglie con lo stesso nome di coloro che deposero come «testimoni» nell’istruttoria tedesca a metà degli anni Sessanta. Omonimie, riposte mancate. Finché è arrivata quella busta. Nelle testimonianze di allora c’è chi sostiene che non sapeva nulla e chi dice: «Non l’ho neanche chiesto». Del resto uno del Kommando di Dannecker li accusa di «superficialità» e dice: «Sono convinto che alcuni ebrei, pur essendo in casa, non siano stati arrestati e poi i soldati abbiano dichiarato di non averli trovati». Certo, il paradosso è che «la più grande tragedia degli ebrei italiani per i nazisti è un’operazione fallimentare», spiega Pezzetti: «Nel mirino i tedeschi ne avevano ottomila. Sono italiani i poliziotti che compilano gli elenchi. Ma poi Dannecker usa gente impreparata perché degli italiani non si fida».
Una verifica fra vari centri di ricerca ha permesso di stabilire un dato «definitivo» sulla razzia del ghetto. Gli ebrei che il 18 ottobre furono deportati da Tiburtina ad Auschwitz-Birkenau furono 1.021, ma i 28 vagoni piombati del treno partito alle 14 e arrivato cinque giorni più tardi trasportavano 1.022 persone. Una di esse era una donna cattolica, Carolina Milani, oggi la chiamerebbero «badante»: scelse di non abbandonare la signora affidata alle sue cure. Torneranno in 16, quindici uomini e una donna. Nessun bambino. Sotto i dieci anni erano 207. In mostra si vedranno anche le loro cose, trovate in casa dai parenti scampati. Giocattoli. Bambole. «Topolino dipinge», un album da colorare. Il quaderno di uno scolaro con un dettato sulla patria. Al Vittoriano scorreranno volti e nomi dei deportati. Il più piccolo, figlio di Marcella Perugia, era nato al Collegio militare di via Lungara, dove rimasero due giorni, il 17 ottobre. Forse non arrivò neppure a Birkenau, forse entrò nella camera a gas con la mamma. Sarà lui, rimasto senza nome, a chiudere l’elenco.

Repubblica 14.10.13
Il corpo del boia che non trova sepoltura
di Benedetta Tobagi


SECONDO i regolamenti, Priebke dovrebbe essere sepolto a Roma, punto. Stando a una deliberazione comunale del 1979, infatti, nei cimiteri capitolini “hanno diritto di seppellimento le salme di persone morte nell’ambito territoriale del Comune, qualunque ne fosse stata in vita la residenza”. E tuttavia, credo siano in molti a provare un’istintiva adesione alla presa di posizione del sindaco e alla richiesta della comunità ebraica romana, che la sua tomba sia per lo meno fuori dalla città.
V’è una ragione profonda, per questo, un sentimento che tocca corde abbastanza antiche da poter far prendere in considerazione una possibile deroga al regolamento amministrativo senza sdegno, né scandalo, né timore di regressioni a pericolose passioni arcaiche.
Mi pare necessario sottolineare, in primo luogo, che in gioco non c’è qualche scandalosa tentazione di scempio del cadavere, né alcuno ha invocato di applicare una qualche legge del taglione per cui alla salma di Priebke dovrebbe essere riservato lo stesso destino che per sua responsabilità ebbero i 335 assassinati alle Fosse Ardeatine, abbandonati sotto le volte crollate della cava, “sotterrati, non sepolti”, come scrisse lo storico Alessandro Portelli nel bellissimo saggio di storia orale L’ordine è già statoeseguito.
Cioè privati dell’identità e nascosti per cancellare traccia del delitto, come già decine e decine di migliaia di altre vittime scaricate in fosse comuni in tanti altri luoghi d’Europa, forma estrema di deumanizzazione dei corpi e sfregio al bisogno dei sopravvissuti di avere una salma da piangere e affidare alla terra come passaggio indispensabile nell’elaborazione del lutto (ai sopravvissuti fu invece inflitta la sofferenza aggiuntiva di dover disseppellire l’ammasso di cadaveri e lottare per avere la possibilità di riconoscerli). Niente di tutto questo: come l’ufficiale nazista ha avuto un regolare processo, con tutte le garanzie, così non gli si vuole negare il diritto a una sepoltura. In discussione è però il luogo ove essa si troverà. La questione è spinosa: l’Argentina, ad esempio, dove Priebke visse nascosto per anni, ha dichiarato di non volersene far carico. Se la querelle si protrarrà troppo a lungo, oltre ai risvolti grotteschi ne risulterebbe paradossalmente ingigantita la figura del carnefice.
Roma, luogo dell’eccidio, è uno spazio simbolico carico di memorie, che sono emotivamente sovraccariche – a causa della violenza inaudita dell’eccidio, della presenza di molti famigliari delle vittime delle Ardeatine e di altre violenze perpetrate dainazisti, di una comunità ebraica che s’appresta a commemorare le deportazioni nei campi di sterminio – e ancora profondamente divise, come attestano tra l’altro le scritte filonaziste comparse all’indomani della morte di Priebke. “A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti” scrisse Foscolo neiSepolcri, ma le tombe, purtroppo, catalizzano passioni civili e politiche non solo positive. Fino all’ultima intervista nota, Priebke non ha mostrato pentimento, anzi, ha propalato addirittura tesi negazioniste: questo lo rende una sorta di polo magnetico da cui continua a promanare, come una forma di radioattività, il richiamo malefico di un’ideologia di morte mai rinnegata. Il pensiero delle code di nostalgici in visita al mausoleo di Mussolini a Predappio legittima la preoccupazione che la tomba possa diventare luogo di convegno per nostalgici del nazifascismo. Il rischio che questo accada c’è dovunque, ma può essere depotenziato se la sepoltura non si trova in un luogo particolarmente significativo, noto, frequentato o riconoscibile.
L’irriducibile fedeltà di Priebke al proprio passato lo pone in conflitto con i valori fondanti della società in cui viviamo, ma soprattutto rappresenta la negazione della più elementare forma di riconoscimento dovuta sia alla memoria delle vittime che ai sopravvissuti. Il riconoscimento del male compiuto e dell’umanità violata della vittima sta alla base di ogni forma autentica di pentimento, religioso o meno. Non a caso, esso è passaggio centrale nei percorsi di mediazione penale, in ogni esperienza di pubbliche commissioni per la verità e la riconciliazione. Il rispetto della dignità dell’uomo, di ogni uomo, è ciò che rende diversi da chi, come i nazisti, l’ha negata, distrutta e umiliata con parole e azioni, per cui: sia Priebke sepolto dignitosamente come spetta a ogni essere umano. Anche in Italia, se la madrepatria tedesca rifiutasse di accoglierne le spoglie. Tuttavia, non dimentichiamo quanto la separatezza sia connaturata al senso di sacralità; la stessa parola “tempio” deriva da temenos, “recinto”: uno spazio che dev’essere preservato dalla contaminazione e dalla profanazione. Per questo turba pensare che nel temenos dell’Urbe, dove riposano le vittime delle Fosse Ardeatine, “martiri” nel linguaggio della religione civile italiana, entri anche un carnefice fedele al proprio passato. Garantire alle vittime una qualche forma di separatezza, che la sepoltura non sia proprio a Roma, all’interno dello stesso spazio simbolico, è una forma di sensibilità. Un piccolo segno che non si può né si vuole cancellare lo sfregio del mancato riconoscimento – delle vittime e della verità storica – che s’aggiunge all’orrore della strage.

Repubblica 14.10.13
Lo storico
Per Giovanni De Luna “il camposanto è il luogo della memoria di una comunità e Roma non ha mai avuto giustizia”
“Va seppellito però è giusto rifiutargli il cimitero”
di Paolo Griseri


TORINO — Non seppellite Erich Priebke a Roma. Lo storico Giovanni De Luna si associa all’appello della Comunità ebraica della capitale: «I cimiteri sono la memoria di una comunità. Priebke si è messo fuori dalla comunità ed è giusto che venga sepolto altrove».
De Luna, dunque Priebke non merita pietà?
«Io sono favorevole al fatto che Priebke abbia una sepoltura... a differenza dei nazisti e di tutti i regimi dittatoriali che la negavano e creavano le fosse comuni. Ma capisco l’appello della Comunità ebraica di Roma e credo che sia giusto negargli la sepoltura nella capitale».
Come possiamo dire questo? Chi ce ne dà il diritto?
«I cimiteri sono una cosa seria. Non sono depositi di morti, sono il deposito dei valori e delle radici di una comunità. È lì che la comunità va alla ricerca della sua identità. Dobbiamo superare l’idea che la laicizzazione dei cimiteri, il loro accogliere sepolture di ogni religione, coincida con la perdita dei valori. Anche il cimitero laico ha valori precisi».
Lei dice: Priebke ha violato la comunità e dunque non ha diritto alla sepoltura. Ma anche i greci, dopo tre giorni, acconsentirono alla sepoltura del nemico Ettore a Troia.
«Ma Ettore era stato ucciso due volte. La prima quando aveva perso il duello con Achille. La seconda perché Achille aveva vendicato i morti greci trascinando il corpo di Ettoreintorno alle mura. Il caso di Priebke è molto diverso: la comunità di Roma non ha avuto giustizia. Priebke è rimasto per decenni a vivere indisturbato in Argentina senza alcun segno di ravvedimento, anzi. Per quale motivo Roma dovrebbe accogliere la sua salma nel cimitero? ».
Si dice che il cadavere di un vecchio non dovrebbe spaventare nessuno. Nemmeno questo la muove a pietà?
«Qui non è in discussione la pietà. Ripeto che sono favorevole a quella sepoltura che lui negava ai suoi nemici. Ma dobbiamo essere consapevoli che le opere di ciascuno restano. Resta il loro significato, resta quel che i vivi hanno ricevuto dall’opera dei morti. Non scompare tutto nella palingenesi della vita eterna. Ciò che ciascuno fa gli sopravvive, nel bene e nel male.
Per questo la comunità ha il diritto di accettarlo o di rifiutarlo nel suo cimitero. Questo è il nodo più profondo della questione. È un nodo che chiama in causa non solo il valore del cimitero ma soprattutto il valore della memoria, il significato delle nostre radici».

Repubblica 14.10.13
Spunta lo Ior dietro il crac del gigante sanitario
Bisceglie, Casa Divina Provvidenza: indagata una suora. Sequestrato conto da 27 milioni di euro
di Giuliano Foschini


BARI — Tra la Puglia e la Basilicata ci sono 1.500 persone che rischiano un posto di lavoro. Mentre sul conto corrente di una suora ultrasettantenne, dopo un passaggio da un deposito dello Ior, ci sono 27 milioni di euro che, sospetta ora la magistratura, probabilmente non dovevano essere lì. Ma sarebbero dovuti servire per salvare i lavoratori e le loro famiglie. La storia è quella della Casa divina provvidenza, un gigante della sanità convenzionata da queste parti con strutture a Foggia, Bisceglie e Potenza. Dopo anni di casse integrazioni e ammortizzatori sociali vari finanziati dallo Stato, nonostante i milioni di euro che ogni anno arrivavano da Puglia e Basilicata per l’attività assistenziale svolta, la Cdp dopo anni di crisi non ha potuto fare altro che certificare un buco di bilancio da mezzo miliardo di euro e portare i libri in tribunale. L’amministrazione ha chiesto di accedere a un concordato preventivo per salvare continuità aziendale e posti di lavoro Ma la questione, dalla giustizia fallimentare,ora si è spostata anche aquella penale.
Analizzando la richiesta del nuovo management dell’ente (il nuovo dg si chiama Giuseppe De Bari, indagato nell’inchiesta del porto di Molfetta), i giudici fallimentari hanno scoperto conti strani, con un’azienda che intascava tanto e spendeva tantissimo. Da qui la decisione di inviare la documentazione alla procura di Trani. Il procuratore Carlo Maria Capristo, l’aggiunto Francesco Giannella e il pm Silvia Curione cominciano gli accertamenti e si imbattono in una serie di strane transazioni: maxi parcelle ad alcuni professionisti (450mila euro, i due legali sono ora indagati insieme con la madre generale, suor Marcella Cesa) e soprattutto uscite mal documentate. Seguendo il denaro, si arriva così a un conto corrente dello Ior sul quale questi soldi transitano per poi rientrare, in parte con lo scudo fiscale, di nuovo in Italia. Non però sui conti correnti della Casa divinaProvvidenza ma su quelli di un altro ente, Casa di Procura, amministrato da una suora settantenne, Assunta Puzzello. I magistrati chiedono e ottengono il sequestro di quei 27 milioni, nonostante i legali della suora sostengano che la Casa di Procura non sia un ente fittizio e quei soldi non siano il frutto di una struttura finanziaria parallela che serviva a nascondere i soldi dai creditori come invece sospetta la procura. “Quel denaro — insiste la religiosa — arriva dagli accantonamenti dell’attività sanitariaassistenziale svolta dalle suore”. Sono vecchie pensioni e contributi mai pagati, dice. I magistrati però non ne sono affatto convinti. Tanto che si apprestano a chiedere una rogatoria alla Città del vaticano per capire qualcosa in più su quel conto Ior. Forti anche di una vecchia lettera, appena acquisita agli atti dell’inchiesta, nella quale l’allora vice presidente dell’ente, il commendatore Lorenzo Leone (deceduto negli anni scorsi), scrive al Vaticano parlando di una situazione di benessere della struttura e di una dote di 60 miliardi delle vecchie lire nella disponibilità delle Ancelle della Divina Provvidenza (l’equivalente dei 27 milioni di euro sequestrati ora). Siamo negli anni ‘90, poco prima delle richieste di aiuto alle casse pubbliche da parte della Casa che intascava comunque milioni di euro dalla sanità pubblica pugliese e lucana per il lavoro svolto. Leone non è uno qualsiasi in Vaticano: vicinissimo a padre Donato De Bonis, braccio destro di Marcinkus, ha disponibilità su una serie di conti correnti nelle banche del Vaticano. Compreso uno dalla denominazione “Suore Ancelle della Divina Provvidenza-Bisceglie”.
In attesa di sciogliere alcuni di questi nodi, la Procura si è opposta al concordato preventivo dell’ente, chiedendone il fallimento. L’udienza decisiva siterrà il 5 novembre.

l’Unità 14.10.13
Mai più bambini dietro le sbarre
La loro condizione è straziante
Ci vogliono «case protette» dove accogliere i piccoli e le madri
di Emma Fattorini

Senatrice Pd

Facciamo troppe leggi, che si accu- mulano senza esito. Molte sono solo dimostrative. È (anche) il caso delle tante proposte legislative sul disastroso stato delle carceri. L’intervento di Napolitano, straordinario in tutti i sensi, sta lì a denunciarlo. Sostenibilità, passi concreti e simbolici di un percorso riformista, sono i principi che ispirano un nuovo disegno di legge sui bambini in carcere.
Il ddl è stato presentato al Senato. E contiene la relativa copertura finanziaria. I bambini non devono più stare dietro le sbarre. E, con questa legge, li potremo portare fuori. Case protette nelle quali accogliere i piccoli con le madri, asili nido che riservino un posto per loro e volontari che li possano accompagnare. La nuova legge si muove su questi obiettivi. La condizione dei bambini in carcere è straziante, sia di quelli piccolini che stanno con le mamme, sia di quelli più grandi che vanno in visita ai genitori in carcere.
Risolvere il problema è complicato per tante ragioni. È costoso pensare uno spazio ad hoc per loro con i sovraffollamento al limite della violazione dei diritti umani e anche perché, se i bambini non devono stare dietro le sbarre, è bene però stiano con la loro mamma almeno fino a tre anni.
Dal 70 al 90% delle carceri italiane non prevede uno spazio per bambini in attesa di colloquio o la possibilità di consumare un pasto con il genitore recluso, di parlare loro al telefono, di usufruire di un orario che ne favorisca l’accesso, per esempio, non sono consentiti i colloqui alla domenica. Il 91% delle carceri non dispone di personale specializzato all’accoglienza. Questi e altri dati – ancora inediti, disarticolati e molto indicativi sono diffusi dall’instancabile associazione «Bambini senza sbarre» dedita da anni a questa causa.
Su questo triste scenario brillerebbe una luce: un’importante legge, la 62 del 2011, che sarà pienamente applicabile dal 1 gennaio 2014, attesa da un decennio, ha finalmente incluso la misura alternativa al carcere sin dal momento dell’arresto, ma tale misura viene subito ridimensionata dalle eventuali «esigenze cautelari di eccezionale rilevanza» (che poi nella sostanza più che crimini di particolare efferatezza riguarda i casi di recidiva essendo le madri, prevalentemente rom o straniere, dedite al furto) e così, invece di essere una legge che porta definitivamente i bambini fuori dalle carceri, è diventata una legge che consente loro di rimanere con la mamma non più solo fino a tre ma fino a sei anni. A questo scopo vengono predisposti i cosiddetti Icam (Istituto di custodia attenuata per detenute madri), che per quanto «modellati ed adeguati» in funzione del rapporto mamma-bambino restano comunque realtà del tutto detentive, tradendo lo spirito della legge che è quello di allontanare i bambini dal carcere.
La vera novità, molto più positiva, introdotta dalla legge 62 è quella di avere invece introdotto l’istituto delle Case famiglia protette, regolamentate da un decreto del ministero della Giustizia dell’8 marzo 2013. Un’idea bellissima che però resta sulla carta per il problema di sempre: la mancanza di risorse (la legge, molto buona, come molte della nostra legislazione non ha soldi per essere applicata). E anche là dove qualche benefattore aiuta, le cose non sono affatto semplici: ci sono le mamme-ladre recidive, i Comuni non riescono a garantire i posti negli asili-nido né i trasporti e i volontari per accompagnare i bambini e, per di più, molte mamme risultano irregolari, ulteriore aggravante della situazione.
E la cosa è davvero odiosa anche perché stiamo parlando di piccoli numeri: alla fine del febbraio del 2013 in Italia c’erano 16 nidi per bambini in carcere che accoglievano 45 madri con 47 minori. È possibile trovare le risorse. Tanti sono coinvolti: la ministra Cancellieri è impegnatissima su questo problema, alcuni «benefattori», molti volontari, la Caritas e i cappellani delle carceri sono già in campo. Ci stiamo provando. Dobbiamo riuscirci.

l’Unità 14.10.13
Il Patto Rcs ha i giorni contati: ora comanda Fiat
di Marco Tedeschi


Settimana importante per il futuro di Rcs Mediagroup, la società editrice del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport. Oggi dovrebbe riunirsi il patto di sindacato che controlla la società, ma che appare in via di dissoluzione, in quanto molti soci, a partire da Mediobanca, hanno già fatto sapere di volere le mani libere. A fine ottobre scadrà il termine per le disdette e ormai sembra altamente improbabile che l’accordo possa continuare o essere rinnovato con le stesse condizioni del passato. Dopo la riunione del patto martedì mattina dovrebbe poi ritrovarsi il consiglio di amministrazione di Rcs che ha sul tavolo diverse questioni aperte. È in corso il processo di vendita dell'immobile di via Solferino al fondo americano Blackrock, cessione contrastata dai giornalisti e dai poligrafici. Poi gli amministratori dovranno verificare i controlli effettuati sulla controllata Rcs Sport dopo le presunte irregolarità che sarebbero state compiute. Il consiglio prenderà in esame lo stato del piano di ristrutturazione, l’andamento dei conti e potrebbe subire anche le prime conseguenze degli orientamenti del patto di sindacato.
NOVITÀ IN ARRIVO
Archiviato l'aumento di capitale e la nuova mappa azionaria, lo scorso 31 luglio i soci del patto avevano deciso di prorogare da metà settembre a fine ottobre il termine per le disdette. In questi mesi il notaio Piergaetano Marchetti, ex presidente di Rcs, ha sondato gli azionisti per studiare una possibile evoluzione del patto. Appare ormai da escludere che il sindacato possa essere rinnovato nei termini attuali, anche perchè diversi azionisti hanno esplicitato l'intenzione di uscire, a cominciare da Mediobanca con il suo 15%. Al momento sembra restare ancora sul piatto l'ipotesi di un accordo di consultazione, con minore incidenza sul capitale e meno vincoli per i partecipanti.
In questo momento la Fiat è di gran lunga il pirmo singolo azionista con il 20% del capitale e sarebbe sufficiente un patto di consultazione con Mediobanca per mantenere il controllo e la gestione del gruppo. Diego Della Valle, che ha l’8%, è stato spesso critico sulla conduzione del gruppo editoriale, ma finora non ha dato battaglia, è rimasto ai margini in attesa di evoluzioni. La Borsa, tuttavia, si attende qualche novità importante nell’equilibrio tra i soci e venerdì scorso il titolo Rcs ha chiuso in rialzo di oltre il 7%.

Corriere 14.10.13
Addio International Herald Tribune
Un nome nuovo per tempi diversi
di Stefano Montefiori


«È l’ultima volta che leggete l’International Herald Tribune ; da domani, diventa l’International New York Times . Ma non piangete», scrive Serge Schmemann sul numero di oggi, l’ultimo, dell’«Iht». È probabile che in un’era schi-zofrenica come la nostra, ossessionata sia dal progresso tecnologico sia dall’amore incondizionato per tutto ciò che fa «rétro», molti rimpiangeranno la inevitabilmente mitica testata pubblicata a Parigi e destinata in origine agli espatriati americani in Europa.
Forse ha ragione Schmemann a bandire lacrime e nostalgia. Intanto perché il nome del giornale, fondato nel 1887 come Paris Herald e diventato ormai da 10 anni «l’edizione globale del New York Times», è cambiato molte volte nella sua storia. Jake Barnes, l’alter ego di Ernest Hemingway in «Fiesta» (1926), appena tornato dalla Spagna in Francia per prima cosa si siede in un caffè di Bayonne a leggere il New York Herald . La splendida Jean Seberg che in «All’ultimo respiro» di Jean-Luc Godard si lascia accompagnare da Jean-Paul Belmondo sugli Champs Elysées, strilla ancora un altro nome, New York Herald Tribune .
La testata che oggi scompare era in uso solo dal 1967 e, come ripete il direttore dell’edizione europea Richard Stevenson, «l’unica cosa diversa da martedì 15 ottobre sono le parole in cima alla pagina». Il resto era già cambiato nel 2003, quando il New York Times comprò la quota del 50% fino ad allora in mano al concorrente Washington Post, diventando padrone unico.
Il premio Pulitzer oggi responsabile degli editoriali Serge Schmemann scrive: «Non piangete» anche perché «lo Herald/Iht/Inyt è stato sin dall’inizio il figlio di avanzamenti tecnologici rivoluzionari». Furono i primi cavi del telegrafo tra le due sponde dell’Atlantico a permettere agli uomini d’affari americani di tenersi aggiornati tra New York e Parigi, a fine Ottocento: per trasmettere 98 parole ci volevano 16 ore. Oggi il mondo si è molto ristretto, e gli editori non si dicono certi che tra cinque anni l’ International New York Times sarà ancora stampato su carta. Con un altro nome, e magari su un altro formato, quel giornalismo continuerà comunque a esistere.

La Stampa 14.10.13
“La democrazia, un disastro”
Per la Cina è arrivata l’ora della de-americanizzazione
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 14.10.13
Creare un mondo de-americanizzato
La Cina chiede nuove Regole agli Usa
di Guido Santevecchi


«Un mondo de-americanizzato»: è il titolo di un editoriale della Xinhua , l’agenzia di notizie che è la voce del governo cinese. Le due settimane di battaglia a Washington per il tetto del debito Usa stanno ridisegnando i rapporti di forza in Asia: il presidente Obama è stato costretto a disertare due vertici internazionali (Apec e Asean) nei quali Pechino ha assunto il ruolo guida. Nel frattempo la leadership cinese ha ricordato a Washington il suo obbligo di garantire la sicurezza degli investimenti cinesi: e si tratta di 1.280 miliardi di dollari in buoni del Tesoro Usa, cifra che fa della Repubblica Popolare il primo finanziatore mondiale della spesa pubblica americana. Ora il messaggio affidato alla Xinhua . Che somiglia a un ultimatum.
Il ragionamento è feroce: «Visto che i partiti di Washington non sono in grado di trovare un accordo per far funzionare le istituzioni politiche di cui vanno così fieri, forse è il momento di creare un mondo de-americanizzato». In un altro passaggio si invitano le nazioni emergenti a puntare su una nuova valuta di riserva al posto del dollaro (manovra alla quale stanno lavorando i Paesi Brics: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).
L’editoriale torna a parlare di imperialismo Usa, delle «avide élite di Wall Street», della «Pax Americana che si serve di droni per massacrare civili». Al centro del ragionamento la richiesta di rivedere il governo del sistema finanziario mondiale. Pechino invoca una riforma della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale (finora guidati sempre da un americano e un europeo).
In fondo, la proposta: naturalmente lo scopo di promuovere questi cambiamenti nella governance finanziaria globale non è di accantonare completamente gli Stati Uniti, che sarebbe anche impossibile, ammette Pechino. «Piuttosto, bisogna incoraggiare Washington a giocare con regole diverse».
Gli economisti internazionali fanno notare che la Cina ha comprato quella quantità enorme di debito Usa anche per tenere basso lo yuan e spingere le esportazioni, ma questo naturalmente la Xinhua non può ricordarlo.

Corriere 14.10.13
Yasser Arafat ucciso dal veleno? spetta alla scienza la prova finale
di Antonio Ferrari


Chi ha paura della verità? Il presidente palestinese Yasser Arafat è morto a causa di una malattia o è stato avvelenato, come da sempre sostiene la vedova Suha? Domande pesantissime per almeno due motivi: perché la conferma dell’avvelenamento significherebbe logicamente che qualcuno ha tentato di ucciderlo, e alla fine ci è riuscito; e poi perché, se l’eventualità fosse confermata, non sarebbero soltanto i servizi segreti israeliani ad essere indiziati, ma anche personaggi del mondo arabo, o magari qualcuno che era molto vicino al leader. Altrimenti non si spiegherebbe come il veleno sia arrivato sulla tavola di Arafat, che era rinchiuso nel suo quartier generale.
Fino a ieri prevaleva l’altalena della ipotesi, anche se i ricercatori elvetici, ai quali si era rivolta la vedova, sostenuta dalla tv satellitare Al Jazeera, avevano raccolto prove a sostegno della tesi dell’avvelenamento con polonio 210, altamente radioattivo. Un veleno utilizzato dalle spie russe per uccidere avversari politici.
Adesso è stato compiuto un altro passo avanti, non certo modesto. Il giornale britannico The Lancet , che è una delle quattro o cinque più autorevoli pubblicazioni mediche del mondo, pubblicando il report firmato da otto clinici tra i più rispettati e qualificati, ha avvalorato la possibilità che Arafat sia stato appunto avvelenato. Apparentemente il giorno dell’avvelenamento sarebbe il 12 ottobre del 2004, esattamente nove anni fa. Il leader, assediato e prigioniero nel palazzo della Mukata di Ramallah, già debilitato, mostrò sintomi inquietanti: nausea, vomito, grave affaticamento, dolori addominali. Al punto che fu trasferito a Parigi. Morì l’11 novembre e fu sepolto nel mausoleo di Ramallah. Soltanto l’anno scorso, per insistenza della vedova, la salma è stata riesumata per l’autopsia, di cui tra breve si conosceranno i risultati. Il fatto che The Lancet abbia deciso di pubblicare il report, avvalorando la tesi dell’avvelenamento, potrebbe essere il segnale che l’esito dell’inchiesta sta approdando a conclusioni importanti. E probabilmente assai imbarazzanti.

La Stampa 14.10.13
Ma quel rabbino era un cattivo maestro
Funerali da 850 mila persone per Rav Ovadia, leader spirituale del partito ultraortodosso Shas che insultava le donne, la sinistra e i non ebrei
di Abraham B. Yehoshua

qui

il Fatto 14.10.13
Cura, la parola da salvare
Fa pensare alle malattie ma invece è amore
di Giovanna Bandini
*

Salvare una parola, che impresa, che bellezza. Perché le parole dicono le cose, a volte sono così dense e precise che riescono a sfiorarne l’essenza. Le parole sono la nostra ricchezza, le perle della collana da indossare con il vestito, sono il vestito. Le parole sono una casa. Potrei fare a meno dei vestiti, non delle parole: ho sempre comprato più libri che vestiti, a volte ho pensato che sarei potuta andare vestita di fogli di carta; non ho mai fatto più caso di tanto alle case in cui ho abitato. Lo spazio che abito è quello delle parole. Le dico, le leggo, le scrivo, le amo, le coccolo, le covo, le curo. Le curo. Ho cura di loro. La mia parola per le parole è la cura. La stessa per le persone.
Cura: il primo pensiero però è quasi sempre quello legato al significato medico, alla cura di una malattia. Invece la cura viene prima, viene da sani. La cura è l’attenzione, l’attitudine alla protezione di cose e persone amate. La dedizione. Quella donazione pura del sé all’altro che semina brividi nella canzone di Battiato: “Supererò le correnti gravitazionali/ lo spazio e la luce per non farti invecchiare./ E guarirai da tutte le malattie,/ perché sei un essere speciale,/ ed io avrò cura di te.” Io avrò cura di te. La cura è il passaggio dall’io al tu, dall’idea che il mondo ruoti attorno al proprio ombelico all’apertura al mondo degli altri.
Per i latini, capaci di grande sintesi, cura, curae è vox media, parola neutra o meglio doppia, di valenza positiva e negativa insieme, capace di comprendere uno spettro semantico che va dall’inquietudine alla coltivazione, dalla preoccupazione all’amore. Cura è in primo luogo avere cura, la cura è l’oggetto di un’azione, un esercizio non di stile ma di amore. Si ha cura di un giardino, se ne curano le piante, niente può crescere senza cura. Come spiega con semplicità disarmante Chancey giardiniere, il protagonista struggente di “Oltre il giardino”, riuscendo senza volerlo a fare applicare questo principio essenziale al governo degli Stati Uniti. Forse non a caso in un saggio dal titolo “Giardini” (Fazi, 2009), Robert Harrison ricorda che nel mito classico è la divinità chiamata Cura a plasmare l’uomo. È lei che modella con creta umida una figura umana, e chiede poi al re degli dei di infondere in essa il soffio vitale; e poiché entrambi rivendicano la signoria sulla creatura appena nata, il dio Saturno, chiamato a dirimere la contesa, assegna al re degli dei il ritorno dell’anima dopo la morte, perché lui l’ha infusa nella statua di fango, alla terra il ritorno del corpo perché lei ne ha fornito la materia, ma alla Cura affida il dominio sull’uomo durante tutta la vita perché lei per prima lo ha plasmato per essa.
La cura è l’attitudine più propria dell’essere umano perché è alla cura che egli appartiene, questo ci dice il mito. C’è chi nella cura vuol vedere più il segno dell’inquietudine che muove senza sosta la nostra vita; ma per me quel mito vuole significare piuttosto l’inclinazione alla protezione, al far crescere, al dare benessere, che è nella natura umana. Quell’attenzione amorosa e precisa che si riserva di solito ai bambini, agli animali amati, ai nostri ritagli di verde, a tutte le cose e creature piccole e disarmate – e bisognerebbe osare estendere ad ogni spazio che attraversiamo, essere che incontriamo. Quella protezione che si manifesta in primo luogo come delicatezza verso il corpo, la materia, la fisicità, - perché sono così fragili - e il cui gesto espressivo è la carezza. Anche verso le cose. Quando cuciniamo con amore, all’improvviso ci accorgiamo che i cibi li stiamo accarezzando. A volte perfino i piatti, quando li laviamo. La cura è la carezza che facciamo al mondo.
*Giovanna Bandini è nata a Roma, fa la scrittrice e insegna italiano e latino. Ha appena pubblicato il omanzo Serial Lover (Mondadori). Tra le sue opere, “Lezioni d’amore” e “Il bacio della tarantola”.

l’Unità 14.10.13
Chiara di Assisi. La disobbediente
Intervista a Dacia Maraini che alla Santa dedica il suo nuovo libro
Il volume inaugura una nuova collana Rizzoli dedicata alle vite di personaggi esemplari
La scrittrice: «È stata la prima a volere un rapporto diretto con Dio, senza passare per le istituzioni.
Fu un’idea trasgressiva»
di Maria Serena Palieri


È UN SINGOLARE LIBRO QUESTO CHE DACIA MARAINI HA DEDICATO ALLA «RAGAZZINA SCALZA, LA FIGLIA DI FAVARONE SCIFI DI OFFREDUCCIO E DI MADONNA ORTOLANA FIUMI» che diciottenne, incantata da quel Francesco d’Assisi, figlio del ricco Bernardone, che si era spogliato di tutto, si sottrasse al suo destino di fanciulla altolocata e si fece monaca. Dando vita a una specie di rito femminile collettivo di liberazione: in convento la seguirono due sorelle e la madre. Per essere proclamata santa, nel 1255, due anni dopo la morte: Santa Chiara.
Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza (pp. 253, euro17,50) è un libro che inaugura una nuova collana Rizzoli, «Altri Eroi», vite di personaggi esemplari riscritte da penne d’oggi: prossimi appuntamenti, nel 2014, con il Pertini di Giancarlo de Cataldo e il Montanelli di Paolo di Paolo. In tempi di Papa Francesco è facile pronosticare al testo di Dacia Maraini un bel successo, non solo italiano. Per riportare in vita Chiara d’Assisi la più popolare delle nostre scrittrici fa ricorso a un escamotage narrativo classico: la lettera che mette in moto il tutto, qui l’e-mail che una ragazza che dice di chiamarsi Chiara Mandalà e di scrivere da un paese alle pendici dell’Etna manda all’io narrante, chiedendole di far luce sulla figura di cui le è stato imposto il nome. Ma poi la corrispondenza tra le due dà vita a un rapporto anche visionario, al termine del quale scopriamo che la Chiara d’oggi, che è anoressica ma aspira ad avere «un corpo felice», sta compiendo quella che per noi è la più misteriosa delle scelte... Mentre, per quelle 250 pagine, la «Scrittrice» ha messo a confronto la propria identità laica con le luci e le ombre del Medio Evo e dei suoi mistici. Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza è, per questo aspetto, un libro molto attuale: perché l’autrice vi appare con le sue storie personali (la malattia e la morte di una sorella, del compagno), in un tipico, attuale, mix di soggettivo-oggettivo.
Dacia Maraini, lei quanto sapeva di santa Chiara prima di affrontare quest’opera? E, a libro concluso, quale idea nuova se ne è fatta?
«Ne sapevo pochissimo. Dai sedici anni quando avevo letto L’autunno del Medio Evo di Huizinga, avevo continuato a leggere sull’epoca che mi interessa molto. Questo libro però mi ha tirato per i capelli. Sono andata più volte ad Assisi. Se, dovendo fare un ritratto, ho scelto Chiara, è perché da tempo mi interessano le mistiche e lei è stata la prima, colei che ha dato il via a quest’idea trasgressiva del rapporto diretto con Dio, senza passare attraverso le istituzioni. Questo era eversivo. Fosse stato per la Chiesa lei e le sue sorelle sarebbero state bruciate vive o cancellate. Ma avevano un grande successo di pubblico: anche se in clausura, cioè prigioniere, la gente accorreva da loro».
Viene in mente, oggi, l’equivalente di Aung San Suu Ki che, dalle finestre di casa sua, è riuscita a liberare la Birmania...
«Giusto. Chiara faceva i miracoli, da lì dentro agiva sulla comunità che era fuori. Era una personalità di grandissimo prestigio, seppure predicava poco, perché era una mistica silenziosa. Due sono le cose eversive che ha professato: il rapporto diretto con Dio e la rinuncia a qualsiasi proprietà, perfino al pane, perché tutto appartiene a Lui».
Nel suo libro è centrale il tema della rinuncia ai beni materiali come garanzia di libertà, perseguita da Chiara col cosiddetto «Privilegio della Povertà» fino sul letto di morte. Perché?
«È ciò che la Chiesa non poteva accettare, perché attraverso la proprietà controllava monache e monaci, dando loro denari e terre per vivere e ottenendone in cambio ubbidienza. E infatti morta Chiara, fatta santa in due anni e messa da parte, il Papa revoca quel “Privilegio” e impone alle sue clarisse di accettare la regola di tutti».
La rinuncia alla ricchezza e la libertà di spirito che questa concede sono discorsi tuttora comprensibili. Infatti è su questo piano che si sta muovendo un papa che ha voluto chiamarsi Francesco. Ma avvicinarsi a Chiara significa cimentarsi anche con altre realtà: lei traccia un’analogia, secondo me non convincente, tra i digiuni delle mistiche e quelli delle anoressiche di oggi. Il vero enigma è però il rapporto col corpo, le lane ruvide e pelli di porco che Chiara usava a mo’ di cilicio per flagellarsi. Le sembra barbarie o ne capisce il senso?
«La cultura dell’epoca demonizzava il corpo. Il corpo, origine del desiderio, era visto come la radice della dipendenza. Questo lo dicono anche alcune religioni orientali. È un’eredità che ci appartiene tuttora per negativo: siamo nella scia di una cultura che vede la sessualità come il più grande dei peccati. In un’epoca manichea Chiara mortificava il corpo che appariva come la parte bestiale. Per noi questo è un “memento”: le citazioni terribili dei padri della Chiesa, che riporto nel libro, ci dicono dove nasca la spinta a una violenza sul corpo considerato demoniaco delle donne».
È un’estimatrice di papa Francesco?
«Sì. Sono bravi tutti a parlare di pace e bontà, ma lui mi pare agisca sui meccanismi della Chiesa congegnati per farla rimanere ben serrata. Lo Ioro, per esempio».
Scrivere di Chiara d’Assisi ha cambiato il suo rapporto con la religione?
«Non sono un’atea, sono un’agnostica. Non mi interessa la religione in quanto sistemazione del mondo. Però mi interessa la dimensione della spiritualità».
Ha scritto un libro su una santa. Che cos’è la santità per una donna di oggi non credente? Ha valore? È esportabile?
«Se penso al posto che l’istituzione assegna ai santi, no. Se penso all’esempio, sì. Vibia Perpetua è stata a Cartagine nel terzo secolo una delle prime martiri cristiane e ci ha lasciato un bellissimo diario. Giovanissima, aveva un bambino piccolo e ne aspettava un altro, fu processata e data in pasto ai leoni. Perché queste cose terribili avvenivano davvero, non erano solo dettagli truculenti da fumetto. In Perpetua la santità è coerenza: non mente, ritiene la sua idea più importante della sua vita. Questa forza è importante ancora oggi, è un esempio di coerenza e onestà intellettuale».
Appunto, ecco cosa può rappresentare, per Dacia Maraini, la fanciulla che a piedi scalzi seguì Francesco d’Assisi e portò con sé le donne della sua famiglia: «Chiara racconta di una Italia che forse conosciamo poco» scrive, «non sprezzante dell’ordine, ma profondamente autonoma e misteriosa, indipendente e determinata».

Repubblica 16.10.13
Ancora una volta ascoltando Togliatti
di Mario Pirani


LA STORIA del Pci e del suo principale leader, Palmiro Togliatti, ha dato spunto a numerosissime pubblicazioni, saggi, studi di varia dimensione e natura. Tra tutte una collocazione particolare spetta alle memorie che seguitano ad uscire dei pochi superstiti ancora in vita della generazione dei “vecchi compagni”, di quanti gettarono le basi del movimento di resistenza, di coloro che vissero la militanza antifascista, la lotta contro la dittatura o la tragedia dello stalinismo. Poche tra loro si assomigliano, soprattutto quando i fatti sono soverchiati dal confronto non di rado segnato dal sangue che per decenni accese e stravolse il dibattito ideologico, simile a un fiume carsico destinato a tornare e ritornare. Molti hanno voluto raccontare la storia del “proprio Pci”, quasi come una testimonianza di verità, la cui versione, peraltro, raramente collima con quella del compagno di vicissitudini, parte intrinseca del più drammatico certame politico del secolo scorso, intriso di verità che si contraddicono, di menzogne che si smentiscono, di interpretazioni che sorprendono. Di qui l’interesse per il saggio, appena pubblicato da Feltrinelli, Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo dato alle stampe da Emanuele Macaluso, figura di primo piano dell’apparato comunista, da annoverarsi, almeno in quest’ultimo scorcio biografico, tra gli esponenti della stagione amendoliana. Naturalmente né voglio né posso riassumere uno scritto così ricco di spunti e di interrogativi di cui mi limiterò a citare i più pregnanti. Partiamo da un quesito di fondo: il Pci era un partito antisistema o del sistema? Nel porci questo tema cruciale – sul fattore K – ancora ci chiediamo se esso fu strumentale, cioè utile a tenere il Pci fuori dell’area di governo (conventio ad escludendum), oppure ebbe un duplice fondamento, visto che il legame con l’Urss non si risolse in una irreversibile rottura. In definitiva la Dc e i suoi alleati intendevano espellere inmodo definitivo i comunisti dalla dialettica democratica? E la direzione del Pci voleva in ultima istanza districarsi così da non trovarsi imbrigliata in un coinvolgimento pieno con il blocco catto-centrista che ne avrebbe sterilizzato l’autonomia politica e di classe?
Tra i molteplici snodi che Macaluso ripercorre si ritrova con insistenza quello della “doppiezza” il cui significato e valore sono comprovati dal suo reiterato riproporsi sotto qualsiasi direzione: non solo di Togliatti ma anche di Longo, Natta, Occhetto e Berlinguer. Molti sono gli esempi offerti. Nelle Memorie di Pietro Secchia, diffuse dopo la sua condanna politica, si ricorda il suo giudizio sugli scioperi e il ruolo della Cgil: “Se volgo lo sguardo ai miei atteggiamenti in seno alla direzione del partito sono senza dubbio molte le occasioni in cui, di fronte a certi avvenimenti, io ho proposto lotte più forti, scioperi più vasti, generali, e molte sono state le occasioni in cui Di Vittorio ed altri erano decisamente contrari a lotte più impegnative…”. Non si contestava, afferma Macaluso, la via democratica, ma nei fatti quale era lo sbocco di quella strategia? Al che Secchia risponde: “Anche se in avvenire dovessimo essere impegnati in una lotta diversa da quella legalitaria, in una lotta violenta contro i gruppi reazionari, essa dovrà essere condotta con ampie azioni di massa unitarie, con la più ampia alleanza delle forze democratiche”.
Una formulazione equivoca, controbatte Macaluso, perché non si capisce se la lotta diversa da quella legalitaria era di carattere difensivo o tale da provocare reazioni del nemico e imporre una nostra difesa. Può sembrare un discorso lontano ma, finora, l’attualità è alimentata dal permanente ricorrere alle categorie della “doppiezza”. Di qui la tesi alla base del libro sul contrasto destinato a riprodursi non tra estremisti e moderati di sinistra ma tra riformisti e massimalisti. Avversari di ieri, oggi e domani.

Repubblica 14.10.13
Il senso dei partiti per la democrazia
di Antonio Gnoli


Il Novecento è stato il secolo della forma-partito. Il suo trionfo. Lo ricorda Mario Tronti in Critica del presente (ed. Ediesse). Grande o piccola, l’azione politica non ha quasi mai fatto a meno della presenza di quel soggetto, a un tempo compatto e duttile. Salvo poi finire, in questi anni, nella tempesta dell’antipolitica. Criticati per inconcludenza, avidità e corruzione, privi di una reale strategia, i partiti si sono arroccati in difesa dei loro privilegi. Si teorizza che la democrazia non possa fare a meno di loro. Ma i partiti (quasi sempre) ne prescindono benissimo. È vero: ci sono varie formepartito e non tutte personalistiche e autoritarie. A meno di intenderlo come accrescimento del potere, Simone Weil considerava il fine di un partito politico vago ed irreale. Ai suoi occhi una tale struttura collettiva era potenzialmente totalitaria ed idolatrica. Mi ha sempre turbato la frase di Brecht: “il partito ha mille occhi”. I miei, improvvisamente, mi sono apparsi superflui. Tronti elogia il mito del partito dal quale non riesce a staccarsi. Ne vede l’arma di difesa collettiva contro lo sfruttamento e i soprusi. Sopravvive in lui il Novecento, come un puzzle di macerie difficili da ricomporre.

il Fatto 14.10.13
La Repubblica siamo noi. Ma a chi lo diciamo?
di Furio Colombo


Il libro appena pubblicato da Salani, a cura di Gherardo Colombo e Roberta De Monticelli, con quarantadue testi di giovanissimi scrittori (tutti ragazzi e ragazze di liceo che scrivono bene) dal titolo La Repubblica siamo noi, è un libro nobile, degno di essere letto e di circolare nelle scuole. Potrebbe diventare un impegno scolastico: leggere articoli e parti della Costituzione e poi chiedere ai ragazzi di scriverne liberamente. Eppure il libro (primo esperimento interattivo) che pure in ogni pagina è bello (l’ho già detto, anche come scrittura ), provoca un motivo di perplessità che vorrei condividere, prima di tutto con l’autore della prefazione (De Monticelli) e della postfazione (Colombo).
SENTO UNA DISTANZA (che incontro spesso anche quando tocca a me parlare nelle scuole) fra vita, avventure e drammi della storia che stiamo vivendo e le cose buone e belle che ti dicono i migliori studenti. Capisco come sia nata, per reazione pericolosa, un’antipolitica spietata e cattiva che condanna tutti, non concede nulla e grida un “tutti a casa” che è la fine della democrazia. Il fatto è che ogni cosa nobile e buona è già stata detta da chi ha tradito, da chi ha approfittato, da chi ha occupato spazio e potere, da chi ha detenuto il controllo dei mezzi di comunicazione di massa. Purtroppo il grande scontro di questi anni fra il populismo distruttivo della destra berlusconiana e la determinazione della parte più organizzata della sinistra, ha avuto due livelli di scontro. Uno, feroce e volgare ma purtroppo scarsamente distinguibile, negli spettacoli televisivi detti talk show. L’altro, quando, travestiti da statisti, i senatori e deputati delle due parti si sono misurati, in Parlamento, per dire e fare quasi le stesse cose. Contro il tipico giudizio che si da dei due spettacoli, è stato il secondo a fare il maggiore danno. Adesso che esiste un misterioso “governo delle larghe intese”, adesso personaggi e gruppi divisi (fino al punto dal combattere o facilitare la mafia, fino al punto da condonare o punire la evasione fiscale, fino al punto dallo spingere indietro il lavoro e persino la sua menzione costituzionale, o il tentativo di difenderlo) sono diventati condivisi.
Lo sconcerto si fa più grande quando si nota che entrambe le ali di questo strano uccello, si muovono in sincrono e puntano a cambiare a fondo la Costituzione. Diventa chiaro che non basta più difenderla con l’espediente di amore giovane, nemico del male e libero da pregiudizi che non siano contro i nemici della Costituzione. Il pericolo è ambiguo, e coperto da tale autorità che non sai più come spiegare che due gruppi di medici che hanno seguito scuole di vita e di pensiero radicalmente diverse si accingono insieme ad operare a cuore aperto la Costituzione italiana. Alla bontà di questo libro occorre aggiungere l’asprezza della denuncia di ciò che succede o sta per succedere. Altrimenti resteremo con una collezione di buon i temi di bravi ragazzi che tra poco saranno travolti, insieme ai loro straordinari insegnanti.

Corriere 14.10.13
Scoprire a Francoforte di non contare più nulla
di Gian Arturo Ferrari


Nei corridoi semivuoti della Fiera di Francoforte il declino italiano diventa palpabile. Spazi abbandonati, con rade sedie. Stand — quelli rimasti — con dimensioni ridotte, in una patetica ostentazione di parsimonia. Esondazione dei vicini. Turchi proliferanti, di nuovo conquistatori. Azerbaigiani con imbarazzanti ritratti del loro leader, identici a quelli di Berlusconi. Islamici e slavi assortiti tutt'attorno, in un assedio sempre più stretto. Gli altri stanno meglio: francesi in compagnia  di cinesi e giapponesi, inglesi insieme agli americani, tedeschi — perché padroni di casa, ma soprattutto perché tedeschi — da soli. A casa nostra gli sguardi un po' febbrili e un po' fissi di chi pensa solo al taglio dei costi e all'abbassamento dei prezzi, senza aver ben chiaro che la seconda mossa annulla la prima.
Idee poche, immaginazione e inventiva — quel che si suol stucchevolmente chiamare creatività — ancor meno.
Stanno male anche gli inglesi, ma per ragioni diverse. Hanno confidato ciecamente nella grande distribuzione e il canale si è mangiato il prodotto. A forza di trattare i libri come merendine, vendono solo i libri che parlano di merendine (o giù di lì). Noi invece diamo l’impressione di un corridore sfiancato, che si è prodotto in un grande sforzo, ma che adesso non ce la fa più. E che forse non arriverà mai al traguardo.
Centocinquant’anni fa, al momento dell’unificazione, piu’ di tre quarti della popolazione italiana era costituito da analfabeti. Di vera editoria non era proprio il caso di parlare. In una prima fase, eroica, abbiamo, noi italiani, costruito insieme una scuola e un’editoria. Tra le due guerre ci siamo dotati anche noi, come i Paesi europei cui guardavamo, di una grande editoria nazionale. Nel secondo dopoguerra, singolare caso di made in Italy, abbiamo inventato, noi italiani, un nuovo modello di editoria, poi copiato e ricopiato da molte parti. L’ editoria di cultura, miscela di acume e di eleganza, prima Einaudi e poi Adelphi. Nell’ ultima ventina d’anni abbiamo pensato di essere arrivati (e in parte ci siamo arrivati davvero) nella prima categoria dei Paesi del libro. Profitti più che buoni, nascita di un mercato di massa, una struttura editoriale a gruppi, cioè più efficiente, l’inizio di una proiezione internazionale.
Ma i primi venti di crisi hanno abbattuto queste fragili illusioni. Il mercato ha l’acqua alla gola, i produttori pensano ai loro altri settori di attività, ancor più vacillanti, gli italiani hanno abbandonato gli investimenti all’estero e dall’estero nessuno investe in Italia. I francesi sono in Gran Bretagna, gli spagnoli in Francia, i tedeschi dovunque, ma gli svedesi in Germania. L’industria libraria — che in narrativa e saggistica è praticamente tutta a capitale europeo — non ha più frontiere, tranne che nella negletta Italia.
Le responsabilità sono, come sempre, di tutti e di nessuno. Sono della mano pubblica, che ha martoriato una scuola già debole. E non ha saputo creare una platea di lettori perché non ha mai davvero creduto che leggere libri fosse uno degli attributi essenziali della cittadinanza moderna. Sono del privato, che non è mai riuscito a mettere sensatamente insieme proprietà, management e competenza editoriale. Sono del Paese nel suo insieme, che non ha mai avuto la capacità di vedere pubblico e privato come facce della stessa medaglia e li ha lasciati lì a ignorarsi o a guardarsi in cagnesco.
L’industria culturale non è la cultura e l’industria libraria è solo una parte dell’industria culturale. Ma dovrebbe essere chiaro a tutti che nel ventunesimo secolo non si dà cultura senza industria culturale e che a sua volta l’industria culturale è una delle poche sicure industrie del futuro. Di quello italiano, soprattutto. Per questo quel che sta accadendo è davvero allarmante. Non è il solito piagnisteo perché non siamo arrivati abbastanza in alto. È il contrario, è il senso di vuoto di chi si accorge di esser giunto in cima alla parabola e vede di fronte a sé solo la discesa, non si sa quanto precipitosa. Non c’è un Moody’s o uno Standard and Poor’s dell’editoria, ma se ci fosse ci avrebbe già declassato. Culturalmente parlando stiamo per diventare, o forse siamo già diventati, un Paese di seconda categoria. Non è, forse, una tragedia. Basta saperlo.

Repubblica 14.10.13
Machiavelli senza il machiavellismo
Negli Oscar Mondadori la biografia scritta da Lucio Villari
di Adriano Prosperi


Quella dei centenari è una religione laica, ha scritto una volta Carlo Dionisotti. Come tutte le religioni, deve attualizzare il passato, risvegliare devozioni dormienti o dimenticate. Quella che va sotto il nome di Machiavelli è la devozione o meglio la dedizione allo studio di una cosa che sarebbe bene indicare con le parole stesse di Machiavelli: «L’arte dello Stato». Un’arte, cioè un mestiere che si imparava. Prima di scrivere ilPrincipe lui l’aveva studiata per almeno quindici anni.
Sulla definizione artigianale fiorentina prevalse il nome aristotelico di Politica: eppure oggi sarebbe bene restaurare il nome creato da Machiavelli, specialmente in Italia dove quella che si chiama “politica” è tutto fuorché un’arte e gli “ordini” o ordinamenti fondamentali dello Stato che stavano tanto a cuore a Machiavelli ballano un pauroso trescone. Ma proprio perché davanti alla politica corrente si volta la faccia disgustati, incombe il rischio di rivolgersi a Machiavelli come a un maestro non di un immorale “machiavellismo”, ma di buoni e financo religiosi pensieri e di savie benché inascoltate massime. È meglio allora che si provi almeno a conoscerlo come uomo, per la vita che ebbe, per i sentimenti che provò, per il contesto che fu il suo.
«Diteci, per favore chi era Robespierre », chiedeva Marc Bloch a chi polemizzava pro o contro il grande giacobino. Chi era l’uomo Machiavelli? Alla domanda ha risposto con fresca e piacevole narrazione Lucio Villari nel libro che ci viene ora riproposto negli Oscar Mondadori: Machiavelli, un italiano del Rinascimento. Dalle sue pagine quello che balza fuori è il profilo di un uomo di straordinaria intelligenza, di vivacissima passionalità e umanità, un amante della poesia e dell’amore: un uomo nato povero che dovette imparare presto a stentare, sperimentò il carcere, la tortura e l’esilio, ma di sé e dei suoi guai, desideri, amori, avventure, parlò con l’autoironia e la straordinaria eleganza di testimonianze epistolari indimenticabili, scolpite nella lingua più bella di una grande stagione letteraria. Lucio Villari ha evitato d’istinto il machiavellismo e si è dedicato al profilo dell’uomo cercando di capirne la cifra umana. La figura simbolica che presiede alla sua narrazione è quella dell’occasione: la si rappresentava come una donna dalla capigliatura mozza sulla nuca e un ciuffo sporgente sulla fronte, a suggerire che bisognava coglierla frontalmente non quando era passata. Assomigliava alla Fortuna e come lei si muoveva su ruote, incostante e velocissima. Sono le occasioni che ritmano questa vita di un uomo nato di piccola fortuna e della fortuna diffidente, ma pronto a cogliere gli appigli che la vita gli offre: le donne e l’amore in modo speciale. Ma anche la poesia, il teatro. Di poeta fu la prima e una delle pochissime opere pubblicate in vita, i Decennali (1504). Machiavelli è l’uomo che nella lettera all’Alamanni del 1517 si lamenta perché l’Ariosto in un poema «bello tutto et in molti luoghi mirabile», non gli ha trovato nemmeno un cantuccio tra i tanti poeti che nomina e lo ha «lasciato indietro come un cazo». Padre affettuoso, marito non proprio esemplare ma tenero e grato alla sua Marietta, Niccolò non rifiutava anzi cercava altre donne: fedele al proverbio di Boccaccio, che è «meglio fare e pentirsi che non fare e pentirsi», fu capace di innamorarsi fino all’ultimo, e non per questo si pentì: ma proprio in ultimo, prima di confessarsi, raccontò quel sogno che ha fatto penare il biografo piagnone in un’Italia che non ha mai rinunciato da allora in poi a speculare su quel che accade ai morenti refrattari ai conforti della religione e a fare pettegolezzi su chi alla vita volta le spalle.
Il riso e la serietà del riso sono parte essenziale di questo ritratto dell’uomo che si definiva nel 1525 «istorico, comico e tragico» e che, con intarsio elegante e leggero ma fortemente suggestivo, Lucio Villari mostra essere davvero un intreccio fra l’apparire e l’essere: apparire «huomini gravi, tutti volti a cose grandi» ed essere invece «leggieri, inconstanti, lascivi, volti a cose vane». E quel lascivo significava allora (e forse ancora) in Toscana non dedito ai piaceri della carne, ma cedevole agli impulsi della realtà della vita, che è fatta di occasioni. Come scrive Lucio Villari l’occasionalità era anche, per Machiavelli, disposizione ad accogliere l’ispirazione, la fantasia, a leggere la storia e la cronaca attraverso il filtro della satira, dell’umorismo: attraverso, insomma, la percezione dell’accaduto come momento di vita reale, non di ricomposizione di ombre in un teatro di fantasia o in un trattato di filosofia politica.
IL LIBRO Machiavelli di Lucio Villari (Mondadori pagg. 184 euro 12)

Corriere 14.10.13
Il 1913, un anno formidabile cieco davanti alla Catastrofe
Perché è inutile cercare il colpevole della Grande guerra
di Paolo Mieli


Nel marzo del 1913, il professor Jacques-Ambroise Monprofit riferì sul «Figaro» di una sua visita agli ospedali militari della Grecia e della Serbia. Aveva notato che «le ferite causate dai cannoni venduti dalla Francia agli Stati balcanici, e da loro utilizzati, non soltanto erano le più numerose, ma anche le più gravi, con fratture ossee, lacerazione di tessuti, sfondamento di casse toraciche e crani frantumati». Le sofferenze prodotte da quei cannoni erano così devastanti, che un esperto di chirurgia militare, Antoine Depage, ne propose un embargo internazionale. Ma la risposta unanime fu un no. Quel potenziale di morte doveva servire da deterrente contro ogni ipotesi di guerra. «Comprendiamo quale sia la generosa motivazione della proposta di embargo», commentò un editorialista del «Figaro», «ma se dobbiamo attenderci che un giorno saremo sovrastati numericamente sul campo di battaglia, allora è bene che i nostri nemici sappiano che abbiamo simili terribili armi con cui difenderci». Alla vigilia della Prima guerra mondiale, scrive Cristopher Clark in I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra (di imminente pubblicazione per i tipi di Laterza, nella traduzione di David Scaffei), «è possibile trovare riflessioni così disinvolte pressoché ovunque». Si può davvero dire che «i protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili e però non in grado di vedere, tormentati dagli incubi, ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo». Sì, ciechi.
Eppure questi sonnambuli avevano dato vita ad un universo di talenti intrecciati l’uno con l’altro, un mondo unico, zeppo di coincidenze straordinarie e per certi versi magico. È quel che ha provato a dimostrare lo storico dell’arte Florian Illies in un altro magnifico libro di imminente pubblicazione: 1913. L’estate del secolo (Marsilio). Che cosa ha avuto di particolare quell’anno, l’ultimo prima dello scoppio della guerra? L’Europa si è riempita di personalità ineguagliabili. Nel gennaio del 1913 è probabile che l’esiliato Josif Stalin e Adolf Hitler si siano sfiorati mentre passeggiavano (era una loro abitudine) nel parco viennese di Schönbrunn. Sempre a Vienna, in febbraio, Stalin e Lev Trotzkij si incontrano per la prima volta, proprio nel momento in cui a Barcellona nasce Jaime Ramon Mercader, l’uomo che ucciderà Trotzkij per conto di Stalin. In quegli stessi giorni Vladimir Lenin scrive a Maksim Gorkij: «Una guerra fra Austria e Russia potrebbe essere molto utile alla rivoluzione in Europa; solo è difficile immaginare che Francesco Giuseppe e lo zar Nicola vogliano farci questo piacere». Il 1913 è l’anno in cui a Monaco Oswald Spengler, suggestionato dal naufragio del Titanic avvenuto nel 1912, inizia a scrivere Il tramonto dell’Occidente . L’anno in cui Pablo Picasso e Georges Braque passano al «cubismo sintetico». In cui si avrà la definitiva rottura tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung («Le propongo di cessare completamente i nostri rapporti privati; io non ci perdo nulla, perché ormai da lungo tempo ero legato a lei soltanto dal filo sottile delle delusioni», scriveva in gennaio il maestro all’allievo).
È la stagione in cui, oltre a Freud, a Vienna davano eccezionale prova di sé Arthur Schnitzler, Egon Schiele, Gustav Klimt, Adolf Loos, Karl Kraus, Otto Wagner, Hugo von Hofmannsthal, Ludwig Wittgenstein, Georg Trakl, Arnold Schönberg, Oscar Kokoschka. Tra loro si stabilisce una rete di curiose interrelazioni. Che ingloba Robert Musil, a cui un medico diagnostica «chiari segni di nevrastenia» («Ma quella che nel 1913 diventa malattia mentale», annota nel proprio diario l’autore de I turbamenti del giovane Törless parlando di Dante Alighieri, «nel Duecento potrebbe essere stata considerata una semplice manifestazione di eccentricità»). La rete si estende anche fuori da Vienna. A Praga un altro «nevrastenico» eccellente, Franz Kafka («Voglio curarmi mediante il lavoro», scrive all’amico Max Brod), e Albert Einstein, che ha lasciato la città alla fine del ‘12; a Berna Hermann Hesse; in Inghilterra Virginia Woolf, che nel pieno di una depressione porta a termine La crociera (fino al 1929 ne venderà solo 479 copie). In Germania Thomas Mann, a Parigi Rainer Maria Rilke. Marcel Proust pubblica il primo volume della Ricerca del tempo perduto («La vita è troppo breve e Proust troppo lungo», lo stronca Anatole France). E ancora a Berlino George Grosz, a Monaco Vasilij Kandinskij che stringe amicizia con Paul Klee, nella capitale francese Robert Delaunay, Frantisek Kupka e Marcel Duchamp, in Russia Kazimir Malevic, in Olanda Piet Mondrian.
Il 1913 è l’anno in cui Albert Schweitzer vende tutti i suoi beni e si trasferisce in Africa. Walter Gropius pubblica i Progressi della moderna architettura industriale . Igor Stravinskij festeggia la prima de Le sacre du printemps . Max Weber conia l’espressione «disincantamento del mondo». Edmund Husserl dà alle stampe I dee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica . Ludwig Mies van der Rohe apre il suo studio di architettura a Berlino. Di nuovo a Parigi André Gide, Igor Stravinskij e Jean Cocteau assistono assieme alle prove del balletto di Nizinskij su coreografie di Djagilev e musica di Claude Debussy: litigano con gli artisti perché definiscono lo spartito «esile» e il costume del ballerino «effeminato e ridicolo». Alla prima assiste Gabriele d’Annunzio, giunto in Francia per fuggire dai creditori italiani. Giorgio de Chirico dipinge Piazza d’Italia . Franz Wedekind si rifugia a Roma dopo il divieto di mettere in scena Lulù («Ma se ci si vuole divertire, meglio andare a Parigi», scrive alla moglie Tilly).
Verso la fine dell’anno tutto si fa più cupo. Carl Schmitt prende nota di una intenzione suicida: «A nessuno importa niente, a nessuno importa di me, a me non importa di nessuno», scrive. Walther Rathenau dedica il suo libro Meccanica dello spirito alle «nuove generazioni». Il 20 novembre Kafka annota nel suo diario: «Al cinematografo. Ho pianto». Il 15 dicembre Ezra Pound scrive a un James Joyce pressoché sconosciuto e povero in canna per chiedergli qualcosa da pubblicare: «Egregio signore, stando a quanto mi dice Yeats, potrei quasi pensare che io e lei siamo accomunati da qualche avversione», gli dice. Poche settimane dopo Joyce gli invia Ritratto dell’artista da giovane e Gente di Dublino . Il 31 dicembre Arthur Schnitzler confida al proprio taccuino di aver finito di dettare la novella Follia , di aver letto un libro di Ricarda Huch sulla guerra in Germania (quella del 1870) e di aver trascorso una «giornata molto nervosa».
Il ritratto che Florian Illies traccia dell’ultimo anno di pace è davvero fuori dal comune. Decine, centinaia di storie offrono il quadro di un concentrato di geni (e qui ne abbiamo tralasciati moltissimi) probabilmente unico nella storia dell’umanità. Geni che si affacciarono al 1914 con qualche presentimento di quel che stava per accadere. Anche se tutti loro lo percepivano come qualcosa di individuale che atteneva alla sfera della melanconia, di un qualche turbamento del proprio sistema nervoso. Così come i loro governanti. Tanto che, quando poi scoppiò la guerra, le classi dirigenti fecero fatica ad accorgersi di quel che stava davvero accadendo. Qualcuno, come il corrispondente del «Times» Henry Wickham Steed, dirà poi — ricorda Christopher Clark — d’aver avvertito lo scricchiolio. In una lettera, del 1954, Wickham Steed scriverà al direttore del «Times Literary Supplement» che quando nel 1913 aveva lasciato l’Impero austro-ungarico, aveva «sentito» che «stava scappando da un edificio destinato alla fine» (ma nel 1913 aveva scritto tutt’altro e cioè che «in dieci anni di osservazione e di esperienza» non aveva percepito «nessuna ragione sufficiente» per cui la monarchia asburgica «non dovesse mantenere il suo legittimo posto nella comunità europea»).
All’epoca dello scoppio della guerra dunque il livello di consapevolezza fu assai scarso. Tant’è che, nota Clark, in Francia la notizia di Sarajevo venne di fatto scalzata dalle prime pagine dei giornali dallo «scandalo Caillaux». In marzo madame Caillaux, moglie dell’ex primo ministro Joseph Caillaux, era entrata nell’ufficio del direttore del «Figaro», Gaston Calmette, e gli aveva sparato sei colpi. Il movente del delitto era, a detta della sparatrice, la campagna che il quotidiano aveva condotto contro suo marito, pubblicando fra l’altro le lettere d’amore che la signora aveva scritto al futuro coniuge quando lui era ancora sposato con la prima moglie. Il processo avrebbe dovuto aprirsi il 20 luglio «e l’interesse del pubblico per questa vicenda, che univa uno scandalo a sfondo sessuale e un crime passionnel commesso da una donna molto in vista nella vita pubblica francese, fu naturalmente immenso». Ancora il 29 luglio, l’importante «Le Temps» dedicò all’assoluzione di madame Caillaux (decretata in base alla tesi secondo cui «la provocazione era un elemento tale da giustificare il delitto») un rilievo doppio rispetto a quello riservato alla crisi che di lì a qualche giorno avrebbe trascinato in guerra l’intera Europa.
«Non riuscirò mai a capire come sia potuto accadere», disse al marito la scrittrice Rebecca West 22 anni dopo, mentre si trovavano sul balcone del municipio di Sarajevo. Non perché non sapesse individuare le cause dello scoppio del conflitto, ma perché ce n’erano «troppe». Un po’ come quello che ha rischiato di accadere ai giorni nostri (e forse rischia ancora) con la crisi finanziaria europea. «È singolare», scrive Clark, «che gli attori della crisi dell’Eurozona, come quelli del 1914, siano stati consapevoli dell’esistenza di un possibile esito dalle conseguenze catastrofiche (la fine dell’euro); tutti i principali protagonisti speravano che ciò non sarebbe accaduto, ma oltre a questo comune interesse, ne avevano anche molti altri particolari, fra loro contrastanti, e in un sistema in cui esistono molteplici interrelazioni, le conseguenze di qualsiasi azione di un elemento dipendono dalle reazioni degli altri, che sono difficili da valutare in anticipo, data la scarsa chiarezza dei processi decisionali». Così «nel corso di tutto il processo, i soggetti politici dell’Eurozona hanno sfruttato la possibilità di una catastrofe generale come strumento su cui far leva per assicurarsi i propri specifici benefici». Oggi come allora.
A un secolo dallo scoppio della Prima guerra mondiale, fioriscono parallelismi, al punto che si può quasi dire che, alla fine del 2013 più che mai, quegli uomini del 1914 appaiono come «nostri contemporanei». Ma è sempre stato così? No. Si può affermare, secondo Clark, che il luglio del 1914 «è meno distante da noi – meno illeggibile – di quanto non lo fosse negli anni Ottanta». Dopo la fine della guerra fredda, un sistema globale di stabilità bipolare ha lasciato il posto ad una più complessa e imprevedibile varietà di forze, ivi compresi imperi in declino e potenze in ascesa, una situazione che invita al confronto tra l’epoca attuale e quella di cento anni fa. Si tratta di semplici somiglianze, niente di più.
Un esempio: dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, gli amici della Serbia non concessero a Vienna il diritto di inserire nelle sue richieste a Belgrado uno strumento per controllare e far rispettare l’adempimento degli obblighi previsti. Le pretese in tal senso furono respinte in quanto «inconciliabili con la sovranità serba». Come è accaduto, secondo l’autore, con il dibattito svoltosi nel Consiglio di sicurezza dell’Onu nell’ottobre 2011 su una proposta — caldeggiata dagli Stati membri della Nato — di imporre sanzioni alla Siria di Assad per prevenire ulteriori massacri degli oppositori al regime di Damasco. E di morti all’epoca il despota siriano ne aveva già provocati quasi trentamila (adesso sono oltre centodiecimila). Ma il rappresentante della Russia sostenne che quella proposta rispecchiava un inappropriato «approccio aggressivo» tipico delle potenze occidentali, mentre secondo l’emissario cinese alle Nazioni Unite le sanzioni erano inaccettabili in quanto non potevano conciliarsi con la «sovranità» siriana.
Ancora. 95 anni fa, il fatto che una Jugoslavia a predominio serbo fosse tra gli Stati vincitori della guerra, sembrò implicitamente scagionare l’atto dell’uomo che il 28 giugno premette il grilletto contro l’arciduca austriaco e sua moglie. In un’epoca in cui l’idea nazionale era ancora viva e densa di promesse, «si manifestò un’istintiva simpatia per il nazionalismo degli slavi del Sud e un sentimento di segno opposto nei confronti del multinazionale Impero asburgico» Le guerre jugoslave degli anni Novanta hanno modificato quest’ottica, ricordandoci tutto il potenziale di pericolosità contenuto nei nazionalismi balcanici. Adesso le cose stanno in modo diverso. Dopo «eventi come quello di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo, è diventato più difficile pensare alla Serbia come a una semplice pedina o vittima della politica delle grandi potenze, e di conseguenza è diventato più facile concepire il nazionalismo serbo come un’autonoma forza storica». Dall’odierna prospettiva dell’Unione Europea, scrive Clark, siamo portati a guardare «con maggior simpatia — o almeno con minor disprezzo — di un tempo» all’ormai scomparso mosaico imperiale dell’Austria-Ungheria asburgica.
Altra possibile analogia, tra allora e oggi, sta nell’«indebolimento complessivo della politica». Di fatto, secondo Clark, non si può neanche dire con certezza che il termine «politica» sia sempre appropriato in relazione al contesto pre-1914, «dato il carattere approssimativo e ambiguo di molti degli obblighi in essere». È assai discutibile che nel biennio che precedette il 1914, Russia e Germania avessero un’autentica politica balcanica: ci troviamo in presenza di una molteplicità di iniziative, di scenari e di atteggiamenti, in base ai quali «risulta talvolta difficile scorgere un chiaro orientamento complessivo». All’interno dei rispettivi esecutivi statali, «la variabilità dei rapporti di potere faceva anche sì che coloro i quali formulavano la linea politica operassero sotto una notevole pressione interna, proveniente non tanto dalla stampa, dall’opinione pubblica, da gruppi di interesse industriale o finanziario, quanto dagli avversari interni alle loro stesse élites o ai governi».
Infine, oggi «è forse più facile vedere che non è opportuno liquidare l’uccisione di Sarajevo come un semplice incidente non in grado di condizionare gli eventi». L’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 ha mostrato come un unico, simbolico evento — per quanto profondamente intrecciato a processi storici più vasti — «possa modificare irrevocabilmente le dinamiche politiche, rendendo obsolete le vecchie opzioni e conferendo alle nuove un’imprevedibile urgenza». Rimettere Sarajevo e i Balcani al centro della vicenda non significa demonizzare i serbi, né i loro statisti e neppure sottrarsi all’obbligo di comprendere le forze che operarono su quei politici, ufficiali e attivisti serbi che con il loro comportamento e le loro decisioni contribuirono a determinare le conseguenze di quello sparo iniziale.
In questo senso va accantonato una volta per tutte il concetto di colpa e di responsabilità per l’inizio della guerra. Tutte le fonti documentarie sono zeppe di attribuzioni di colpa («Era un mondo in cui le intenzioni aggressive venivano sempre addebitate all’avversario, e quelle difensive attribuite a se stessi», scrive Clark) e il giudizio enunciato dall’articolo 231 del trattato di Versailles contribuì a far sì che la questione della «colpa della guerra» rimanesse in primo piano. Oggi, continua Clark, non ha senso alcuno avvicinarsi a un libro sulla Grande guerra come si fa con un giallo di Agatha Christie, cioè confidando che nelle ultime pagine si conoscerà il colpevole. Una delle tante ragioni di demerito del trattato di pace di Versailles fu quella di aver individuato, all’articolo 231 appunto, negli sconfitti i responsabili della guerra. Lo scenario balcanico da cui scaturì il conflitto «non fu il risultato di una politica né di un piano o di un complotto maturato costantemente nel corso del tempo», né vi fu alcuna relazione di necessità fra le posizioni adottate nel 1912 e nel 1913 e l’entrata in guerra l’anno successivo.
Lo scenario balcanico — «che di fatto era uno scenario serbo» — non spinse l’Europa verso la guerra che poi sarebbe effettivamente scoppiata nel 1914: «Esso piuttosto fornì il quadro concettuale all’interno del quale la crisi venne interpretata una volta che si aprì». Ed è nel contesto di quel quadro concettuale che poté accadere che la Russia e la Francia legassero, «in modo estremamente asimmetrico», la sorte di due fra le maggiori potenze mondiali ai destini di uno Stato turbolento e a tratti violento quale era appunto la Serbia. La ricerca della colpa «predispone chi indaga a interpretare a priori le decisioni dei responsabili politici come fossero pianificate in anticipo e mosse da un intento coerente». Bisogna mostrare che chi ha causato la guerra aveva la consapevole volontà di farlo. Nella sua forma estrema, questo modo di procedere genera racconti influenzati dall’idea del complotto, nei quali una ristretta cerchia di individui potenti, «come i cattivi dei film di spionaggio», controlla gli eventi da dietro le quinte, seguendo il copione di un piano perverso. Si può capire «la soddisfazione morale che tali ricostruzioni possono comportare», e ovviamente a lume di logica non è impossibile che nell’estate del 1914 la guerra sia scaturita da un processo del genere, solo che, a seguito di un vaglio accurato, va detto nel modo più netto che tale interpretazione «non è sostenuta da elementi di fatto».
Eppure gran parte dell’immensa mole di ricostruzioni dell’antefatto, svolgimento e conseguenze della Prima guerra mondiale deve fare i conti con la nozione di «colpa», con la ragion politica più che con la libera ricerca storica. Soprattutto tra le due guerre, allorché la Germania pubblicò un’opera in quaranta volumi, che comprendeva 15.889 documenti suddivisi in trecento aree tematiche, al solo scopo di confutare la tesi colpevolista del trattato di Versailles. La Francia, per parte sua, fece lo stesso e il ministro degli Esteri Jean-Louis Barthou, nel 1934, ammise che la pubblicazione di documenti predisposta dal governo di Parigi aveva un «carattere essenzialmente politico». A Vienna il condirettore della collana che pubblicò i documenti austriaci, Ludwig Bittner, nel 1926 spiegò che si era proceduto in tal senso prima che qualche organismo internazionale li obbligasse a farlo «in circostanze meno favorevoli». Anche a Vienna dunque la spinta fu interamente politica. Così come in Russia. Le prime raccolte di documenti di parte sovietica furono almeno parzialmente motivate dal desiderio di ricondurre allo zar, e al «suo amico Raymond Poincaré» (il presidente francese), la responsabilità di aver iniziato la guerra «sperando con ciò di delegittimare le richieste francesi di rimborso dei prestiti prebellici». La Gran Bretagna invece annunciò che avrebbe pubblicato tutto, anche ciò che fosse politicamente sconveniente, ma presto si poté constatare che «la raccolta documentaria data alle stampe presentava tendenziose omissioni, tanto da offrire un quadro non del tutto equilibrato del ruolo che gli inglesi avevano avuto negli eventi che precedettero lo scoppio della guerra». Un immenso caos che, già nel 1929, lo storico militare tedesco Bernhard Schwertfeger definì «guerra mondiale dei documenti».
Per non parlare poi dei macroscopici casi di reticenza. Nelle Considerazioni sul conflitto pubblicate nel 1919, il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann Hollweg non dice pressoché nulla sui comportamenti suoi e dei suoi colleghi nel luglio del 1914, il mese decisivo che precedette lo scoppio della guerra vera e propria. Le memorie del ministro degli Esteri russo, Sergej Sazonov, in alcuni punti sono ad ogni evidenza mendaci. I dieci volumi delle memorie di Poincaré «sono attenti più alla propaganda» che a rivelare notizie di una qualche sostanza. E si riscontrano «sorprendenti discrepanze» fra i «ricordi» dell’ex presidente in merito agli eventi e le note che all’epoca aveva scritto nel suo diario. «Vaghe» vengono giudicate da Clark le «pur piacevoli» rimembranze di sir Edward Grey, già ministro degli Esteri britannico. Ci sono poi gli infiniti casi che stanno lì a dimostrare i riaggiustamenti delle memoria. Nessuno ricordava di aver fatto degli sbagli.
Quando alla fine degli anni Venti lo storico americano Bernadotte Everly Schmitt venne in Europa per parlare con i protagonisti dei fatti di 15 anni prima, Grey fu l’unico che ammise di aver commesso qualche errore, pur se di importanza secondaria. Ma lo storico ebbe l’impressione che le parole di Grey «riflettevano una concessione all’autodenigrazione che rientrava nel tipico stile di chi in Inghilterra occupa posizioni di rilievo, piuttosto che una sincera ammissione di responsabilità». Schmitt rintracciò poi l’ex ministro delle Finanze russo Pëtr Bark, che faceva il banchiere a Londra e non ricordava quasi nulla (ma fortunatamente aveva tenuto qualche prezioso appunto su quei delicatissimi giorni).
C’erano infine problemi di evidente manipolazione postuma. Quando nell’autunno del 1937 lo studioso Luciano Magrini si recò a Belgrado, per intervistare i sopravvissuti tra quanti avevano partecipato al complotto che aveva portato Gavrilo Princip a premere il grilletto, «dovette constatare che alcuni testimoni riferivano di questioni delle quali non potevano avere conoscenza, altri tacevano o alteravano quello che sapevano e altri ancora aggiungevano fronzoli ai loro racconti o si preoccupavano di cercare giustificazioni a proprio vantaggio». Peggio. Molti contatti importanti tra i principali protagonisti erano a voce e non hanno lasciato traccia, sicché possono essere ricostruiti soltanto ricorrendo a fonti indirette o a testimonianze successive. Le organizzazioni serbe collegate con l’attentato di Sarajevo avevano un carattere rigorosamente segreto e non lasciavano quasi nessuna documentazione scritta.
Gli assassini di Sarajevo, scrive Clark, «fecero ogni sforzo possibile per occultare le tracce di un loro collegamento con Belgrado… Molti dei sopravvissuti tra i partecipanti si rifiutarono di parlare del loro coinvolgimento, altri esagerarono o ridimensionarono il ruolo che avevano svolto, oppure nascosero gli indizi con fumose speculazioni, generando un vero e proprio caos di testimonianze discordanti». Il complotto stesso non lasciò alcuna documentazione: «Praticamente tutti coloro che vi presero parte erano abituati a muoversi in un contesto ossessionato dalla segretezza; la collusione tra lo Stato serbo e le reti implicate nella congiura era volutamente occulta e informale, di fatto non c’erano tracce scritte». La storiografia sulla cospirazione «ha quindi dovuto districarsi fra un’incerta mescolanza di ricordi risalenti al dopoguerra, deposizioni e dichiarazioni giurate rilasciate sotto minaccia, affermazioni presumibilmente basate su fonti poi distrutte e brandelli di prove documentarie, nella maggior parte dei casi riferite solo indirettamente alla pianificazione e all’attuazione del complotto».
Risultato: la letteratura sulle cause della Prima guerra mondiale — vent’anni fa si stimavano 25 mila tra volumi e saggi su questo tema — oggi non aiuta a capire. O, comunque, aiuta meno di quanto ci si aspetterebbe. Oltretutto ha assunto proporzioni talmente vaste che nessun singolo storico («neppure un’immaginaria figura di studioso in grado di padroneggiare tutte le lingue richieste») può sperare di poterla leggere per intera nell’arco di una vita.
Nel nuovo approccio alla Prima guerra mondiale, quello successivo alla prolungata stagione della ricerca della colpa, viene da domandarsi, scrive Clark, se «discutendo della situazione internazionale o delle minacce esterne, i protagonisti dell’alta politica di quei tempi avessero davanti agli occhi qualcosa di reale o proiettassero le proprie personali paure e i propri desideri sui loro avversari, o facessero entrambe le cose insieme». E così tutti i più interessanti contributi recenti hanno sostenuto che la guerra, lungi dall’essere inevitabile, era di fatto «improbabile».
Perlomeno finché non esplose davvero, il conflitto non fu la conseguenza di un deterioramento in atto da lungo tempo, bensì di «traumi di breve termine che scossero il sistema internazionale». Il che spiega tanti fraintendimenti della prima ora. Come quello che capitò alla legazione russa di Belgrado, l’unica nella capitale serba a non esporre la bandiera a mezz’asta il giorno del funerale dell’arciduca ucciso da Princip. Anzi, si era diffusa la voce che la sera successiva all’attentato l’ambasciatore Nikolaj Hartwig avesse dato un ricevimento nella legazione russa, dalla quale si sarebbero sentite provenire «acclamazioni e risate». Hartwig chiese un incontro con l’ambasciatore austriaco Wladimir Giesl, che glielo concesse e si disse soddisfatto dei suoi chiarimenti. Solo che alla fine della cordiale chiacchierata, alle nove e venti di sera, il diplomatico russo ebbe un colpo apoplettico e morì. La baronessa Giesl fece immediatamente la sue condoglianze alla figlia di Hartwig, Ludmilla, che però le respinse, dicendosi indifferente a quelle «parole austriache». Nonostante fossero evidenti le cause del tutto naturali della morte del rappresentante russo, furono compiute indagini come se si trattasse di un assassinio. La stampa locale si impossessò della vicenda e descrisse i Giesl come dei «moderni Borgia», la Russia consentì a che, come richiesto dalla famiglia, Hartwig fosse seppellito in Serbia, e a lui furono riservati funerali di Stato di una «pomposità senza precedenti».
L’Europa si avviava in quei giorni a passi rapidi verso la notte. «La luce si è spenta», scrisse in una lettera di fine luglio il primo ministro britannico Herbert Asquith. I giornali inglesi (ad eccezione del «Times», che perorò la causa di un intervento britannico nell’imminente conflitto) furono indifferenti alla crisi che si era prodotta dopo l’uccisione di Francesco Ferdinando e della moglie Sofia. «Tanto poco Belgrado si preoccupa di Manchester, altrettanto poco Manchester si preoccupa di Belgrado», sentenziò il «Guardian». Il cui direttore, Alfred George Gardiner, vergò il 1° agosto un editoriale dal titolo «Perché non dobbiamo combattere». Stesso atteggiamento da parte dello «Yorkshire Post», che non vedeva «ragione per cui la Gran Bretagna dovesse occuparsi del conflitto». E così anche il «Cambridge Daily News», che definì «trascurabile» l’interesse inglese nell’intera vicenda. Di «dovere dell’Inghilterra» parlò l’«Oxford Chronicle», ma questo imperativo era quello di «mantenere localizzata la disputa e di badare bene a tenersene fuori».
Asquith, come si evince dalla lettera di cui si è detto, era preoccupato soprattutto perché un tentativo di trovare un accordo sull’Ulster era fallito a causa della complessa geografia confessionale delle contee di Tyrone e Fermanagh. Poi accennava del tutto marginalmente alla crisi che si profilava in Europa, specificando: «Fortunatamente non sembra vi sia ragione per cui dovremo essere qualcosa di più che spettatori». E la «luce spenta»? L’offuscarsi del bagliore era riconducibile, per Asquith, al fatto che una sua giovane amica, Venetia Stanley, un’elegante e intelligente donna di mondo, quel giorno aveva lasciato Londra per trasferirsi nella casa di campagna ad Anglesey.

Le tappe del conflitto viste dal «Corriere»
Tutto cominciò a Sarajevo il 28 giugno 1914, quando l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Austria-Ungheria, fu assassinato con la moglie Sofia da un terrorista bosniaco di etnia serba, Gavrilo Princip. In capo a un mese l’intera Europa precipitò nell’abisso sanguinoso della Prima guerra mondiale, le cui tappe trovano un puntuale riscontro nel volume 1914-1918. La Grande guerra nelle prime pagine del «Corriere della Sera» , che esce il prossimo 30 ottobre per Rizzoli (pagine 344, e 50), a cura di Giovanni Sabbatucci e Silvia Capuani.
Aperto da un’introduzione di Paolo Mieli, il libro ripercorre, attraverso i titoli, le foto, i commenti e i reportage del maggiore quotidiano italiano, gli eventi di quell’immane tragedia: le principali battaglie sui diversi fronti, l’intervento dell’Italia nel maggio 1915, la Rivoluzione russa e la pace separata dei bolscevichi con Vienna e Berlino, l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’avanzata dell’Intesa, l’armistizio del 1918.
La rassegna delle prime pagine è arricchita da commenti e approfondimenti, oltre che da un inserto speciale a colori con le più belle copertine della «Domenica del Corriere» uscite negli anni di guerra.

Repubblica 14.10.13
Il dialogo Scalfari-Cacciari “Ecco la democrazia che vogliamo per l’Europa”
“La partecipazione non è solo il voto”
di Michele Smargiassi


MESTRE Più Roma di Cicerone che Atene di Pericle. Un governo e non un «esecutivo », un parlamento- tribuno dei popoli, e mille comunità autogovernate. Con questa democrazia inedita il continente che ha inventato la democrazia classica può sostenere la sfida dei poteri e degli imperi della globalizzazione: un’idea di Europa che «ancora non esiste, ma è necessaria o perirà» esce dal dialogo tra Eugenio Scalfari, fondatore diRepubblica, e il filosofo Massimo Cacciari, chiusura dei tre giorni della Repubblica delle Idee, al teatro Toniolo diMestre.
CACCIARI. L’Europa non può che essere democratica, ma cosa è democrazia oggi? Una parolaspugna che tutto assorbe e tutto respinge. Dobbiamo articolare un modello di democrazia nuovo per salvarne l’idea. All’Europa serve una democrazia che decide rapidamente e in modo competente, per reggere la sfida delle potenze globali e dei poteri metastatuali, e una sacrosanta partecipazione del popolo che continuiamo a dire sovrano e che si sente sempre meno sovrano. È possibile risolvere questa equazione?
SCALFARI. Il guaio di questo dialogo è che io la penso al 99 per cento come Cacciari, quindi cercherò un’angolazione diversa. Ha ragione Massimo quando dice che reinventare una democrazia per l’Europa è molto difficile, se non altro perché qui si parlano molte lingue, ed è un problema costruire una democrazia partecipata su storie culturali diversissime. Gli Stati Uniti non ebbero il problema della lingua, ma anche per loro il passaggio da una confederazione di Stati separati a una federazione fu un processo arduo, che costò una guerra civile con più vittime dei morti americani nelle due guerre mondiali. Il superamento degli Stati nazionali non è cosa semplice. Noi attualmente, salvo alcune cessioni di sovranità nella sfera economica, come il fiscal compact e la Bce (che nonostante i suoi poteri non è una vera banca centrale, perché non ha di fronte un governo) non abbiamo istituzioni democratiche davvero federali.
CACCIARI. Che l’Europa economica debba farsi è un destino, non una scelta, o collassiamo tutti. Ma il passaggio dalla moneta unica a forme più alte di integrazione politica è stato affrontato male, a volte nel ridicolo come nel caso del dibattito sulla Costituzione europea. Ma ora che abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo, con l’euro, dobbiamo seguirlo con la politica, a meno che non deleghiamo ogni potere alle strutture burocratico- amministrative, ma allora sarebbe difficile pensare all’Europa come a una democrazia. Il salto politico è necessario, ma è anche possibile? Questo è il punto. Di certo non serve all’Europa un governo che sia solo la risultante delle decisioni maturate nelle vecchie sovranità statali, ma neppure uno schema centralista: l’Europa è policentrica, e ogni sogno napoleonico di ridurla adunumè fallito. Serve grande immaginazione istituzionale, un po’ di utopia, o di eutopia. Serve un governo effettivo, che su alcune delimitate materie non dipenda da una dialettica parlamentare classica. E poi serve un parlamento che sia una tribuna della sovranità popolare. Come intersecare questi due livelli? Questione affascinante... Infine, un ultimo livello, autenticamente federale: ci sono infiniti problemi, servizi, funzioni fondamentali che vanno decisi al livello più basso possibile, con grande autonomia e capacità di autogoverno dellecomunità locali.
SCALFARI. La democrazia partecipata è qualcosa di più che il voto, che pure è fondamentale. I modelli di democrazia sono diversi, nella storia. Venezia, grande repubblica marinara, era una democrazia? Direi di no, c’era un senato di famiglie aristocratiche. Eppure in un certo senso sì, perché dentro l’oligarchia senatoriale non la pensavano tutti allo stesso modo. La democrazia era dentro l’oligarchia. Dirai: ma il popolo? Ma anche nei Comuni italiani la dialettica del bene comune si giocava in cerchie ristrette, a Firenze dove si riunivano i cittadini? Nella sala dei Cinquecento, il nome dice tutto. Nell’agorà dell’Atene classica scendevano solo i cittadini liberi, Pericle ne teneva conto ma poi decideva da solo, era un saggio democratico dittatore, eppure viene ricordato nei libri di storia come il vertice della democrazia greca. Bene, una democrazia dentro un’oligarchia può essere un suggerimento per il governo del continente in cui viviamo, soprattutto se, hai ragione Massimo, il massimo di democrazia si realizza poi al livello più basso, quello dei comuni. Man mano che si sale è sempre più una democrazia indiretta, attraverso la delega, e questo produce sempre democrazie che vivono nelle oligarchie.
CACCIARI. La strada è giusta, democrazia all’interno di oligarchie, con un parlamento che dovrà controllare davvero, con un potere di veto su scelte lesivedegli interessi dei popoli. E qui più che all’Atene di Pericle mi rifarei alla Roma letta dal nostro Machiavelli: a quella repubblica romana governata da patrizi che però non muovevano un dito se il tribuno della plebe non voleva. E poi c’è il livello, enorme, delle decisioni sociali e territoriali, da affidare alle comunità locali, secondo uno schema federalista tenuto insieme da una nuova idea di cittadinanza. Anche qui non è quello ateniese il modello: lì si era cittadini per identità di
genos, erano tutti della stessa stirpe e della stessa lingua. Può essere così oggi? No. Anche qui c’insegna qualcosa la cittadinanza romana, il concetto assolutamente attuale di persone che condividono la stessa legge e una utilità comune. Anche i dibattiti sull’immigrazione devono ripartire da qui. Bisogna essere radicali: solo questa cittadinanza può essere accettabile sul piano europeo. Se costruisci su questa idea, metà della democrazia effettiva c’è già.
SCALFARI. Una cosa è passata inosservata sui giornali, eppure capovolge la storia europea: il discorso di Hollande contro i nazionalismi. Fatto dal leader del paese che finora è stato il più ostile a un’idea di Europa politica sovranazionale. Se anche la Francia della grandeur si sta spostando, qualche passo avanti si può fare.
CACCIARI. Ci saranno conflitti, il requisito è disporre di un comune sentire, che evita la guerra civile. Le guerre civili non distrussero Roma, perché Roma aveva in comune Roma. Nei comuni medievali era lacivitaschenessuno voleva distruggere. Cosa riuscirà a mettere in comune l’Europa?
SCALFARI. Nel dialogo che ho avuto con papa Francesco, a un certo punto mi ha detto: «Il proselitismo è una sciocchezza, dobbiamo solo ascoltare gli altri, e capirli». Credo che abbia qualcosa a che vedere con le cose che abbiamo discusso oggi.