mercoledì 16 ottobre 2013

l’Unità 16.10.13
Sindacati critici
La Cgil: la manovra non convince, manca segnale di equità
Blocco dei contratti fino al 31 dicembre 2014
Ridotta del 10% la spesa per straordinari
Stretta sul Tfr
di M. Fr.


Le prime indicazioni sulla legge di stabilità «non convincono» la Cgil. «Risultano insufficienti le risorse destinate alla restituzione fiscale ai lavoratori mentre per i redditi da pensione nulla è stato detto. Preoccupa il capitolo sui tagli alla pubblica amministrazione che rischia di scaricarsi totalmente sui lavoratori». «Non c’è aggiunge la Cgil un chiaro segnale di equità: senza ridurre le diseguaglianze non ci sarà alcuna idea di crescita e di rilancio dell’economia».
Sindacati critici
Le reazioni (preventive) dei sindacati sono molto critiche. «Non ci siamo proprio», attacca il segretario generale dello Spi Cgil. «Messa così continua la rimozione del blocco della rivalutazione delle pensioni è solo un bluff perché i pensionati continueranno a perdere il proprio potere d’acquisto. Si sta riducendo ancora una volta la perequazione – ha continuato Cantone – mentre si escludono i pensionati dal bonus fiscale, si rifinanzia in modo irrisorio il fondo per la non autosufficienza. Avvertiamo tutti chiude Cantone non staremo a guardare questo scempio e reagiremo con la mobilitazione per difendere milioni di pensionati che fino ad oggi hanno pagato pesantemente la crisi prodotta da altri».Sulla stessa lunghezza d’onda anche il segretario generale Uilp Romano Bellissima: «Se la legge di stabilità conterrà ancora blocchi proporremo alla altre organizzazioni di rivolgerci alla Corte Costituzionale perché non è possibile che a pagare di più siano sempre i pensionati». «Le chiacchiere che stanno circolando possono essere foriere di grandi tempeste ammonisce Gigi Bonfanti, segretario Fnp Cisl speriamo che siano solamente chiacchiere».

Repubblica 16.10.13
Il missile
di Sebastiano Messina


L’anno prossimo non si pagherà più l’Imu e nemmeno la Tares, che doveva sostituire la Tarsu. Ci sarà una nuova tassa che non si chiamerà Taser, come la pistola che dà l’elettroshock, ma Trise. Il fatto è che la Trise, come un missile a tre stadi, contiene altre due tasse: la Tari e la Tasi. Se abitate nella vostra casa, pagate tutta la Trise, dunque sia la Tari che Tasi. Se siete un inquilino, pagate solo la Tari, ma anche una quota della Tasi. Se siete il padrone di casa, pagate la Tasi ma non la Tari. Più l’Imu, si capisce. Ma l’Imu, raddoppiata, la pagate anche se siete in affitto, su quell’appartamento dove abita vostra madre. Che però pagherà la Tari, lasciando a voi la Tasi che avete evitato sulla casa dove pagavate la Tarsu, e invece ora — scampata la Tares e aggirata la Taser — pagate solo la Tari ma non l’Imu. Adesso ripetete.

l’Unità 16.10.13
Soldi ai partiti, la democrazia fa passi indietro
Donazioni con un tetto altissimo e di fatto cumulabili, eliminata la possibilità di concedere strutture
Così la politica sarà solo per i ricchi
di Paolo Borioni


Non possiamo felicitarci per i risultati che si vanno realizzando nella riforma del finanziamento della politica: per quanto il peggio non sia mai morto, essi costituiscono un forte regresso. Settimane or sono osservavamo un dibattito in cui il Pd teneva la trincea (già troppo svenduta) del tetto massimo di donazione a centomila euro, mentre il Pdl intendeva rimuovere ogni tetto. Da allora, accentuatosi il declino del finanziatore totale (Berlusconi) si è creato lo spazio per una mediazione. Ora il limite massimo di una donazione privata di una persona fisica è cresciuto a ben trecentomila euro, mentre da parte di un’azienda è fissato a duecentomila. Questa differenziazione contiene un dettaglio non da poco: a quanto possiamo vedere dalle ricerche effettuate, non esistono impedimenti a cumulare queste donazioni.
Ora, quasi sempre chi è disposto a donare molti soldi può farlo anche tramite un’azienda propria, o che può facilmente influenzare. Ecco che, ogni anno, un solo e molto influente individuo può donare a un partito un totale di mezzo milione di euro con l’obiettivo di promuovere un singolo interesse o una particolare, ma certo potente, ideologia. Rimane, inoltre, il meccanismo del «2 per mille» dell’Irpef da donare a un partito. Visto che il due per mille di un multimilionario facilmente può ammontare a una cifra elevata, è chiaro che in totale ogni anno il contributo dei ricchi travalicherà facilmente il mezzo milione di euro. Per una società che vede già di per sé aumentare i livelli di disuguaglianza si tratta di notizie pessime.
Ma non basta: dalla originaria proposta del governo è stata cancellata la possibilità che lo Stato o le sue emanazioni possano concedere strutture (dall’uso di immobili ai canali di comunicazione) per il lavoro politico. Si tratta di una norma esistente per esempio nel Regno Unito: essa mira a contenere in genere i costi elettorali e della politica, e quindi, anche se nel Regno Unito il finanziamento privato è pressoché l’unica fonte di approvvigionamento dei partiti, esso viene limitato. Noi però, evidentemente, non scegliamo questo modello. Ergo, i partiti saranno invogliati, non disincentivati, a cercare donazioni private, e quelle facoltose saranno le più ricercate. Perché? Semplice: è relativamente agevole trovare, con qualche cena prestigiosa con leader strapromossi dai media a loro volta legati a grandi interessi finanziari, 100 finanziamenti da mezzo milione totale e oltre, esaurendo o quasi le necessità annuali di un partito. Raccogliere piccole donazioni richiede invece una concezione di partito radicato e diffuso che già di per sé è (ottusamente, perché è la più redditizia sul piano politico, della trasparenza e dei costi effettivi) sempre meno praticata. Le nuove norme per il finanziamento tenderanno a scoraggiarla ulteriormente. Gli aspetti positivi della riforma, il fatto per esempio che solo le piccole donazioni sono incentivate fiscalmente (al 52% di esenzione se sotto i 5000 euro, 26% fino a 20000) rischiano quindi di essere marginali, anche perché il finanziamento di queste esenzioni da parte del fisco avrà un tetto (a regime, nel 2017, di 45 milioni).
Le piccole cifre, quindi, specie poiché il bonus totale verrà suddiviso fra tutti i partiti, non potranno tornare preponderanti come quando il sostegno pubblico non esisteva (prima del 1974).
Non stiamo tornando a quella situazione: la raccolta militante in tante piccole cifre verrà ancora più marginalizzata. I partiti rischiano allora di sparire sempre più dai quartieri, ed è pura illusione, o deliberata manipolazione, pensare che tutto questo possa essere bilanciato dalle primarie: l’offerta politica di partiti che si finanziano in questo modo finirà per respingere sempre più voto popolare. Non dimentichiamo che, nonostante le primarie e i dibattiti televisivi fascinosi, il finanziamento privato in Usa ha prodotto una astensione pari al 50% dell’elettorato.
La grande tradizione partecipativa italiana è in grave pericolo. Forse gli incentivi fiscali sulle piccole cifre e la nostra tradizione recente possono ancora impedirci di finire come gli Usa, dove, come sostiene qualche osservatore giustamente, si contendono le elezioni un partito dei ricchi (i Democratici) e uno dei Ricchissimi (i Repubblicani). Però occorre attrezzarsi in questo senso, in fretta, con competenza, con grande determinazione ideale e ideologica. Chi, nel Pd, si assume il ruolo di salvare la democrazia europea in Italia?

l’Unità 16.10.13
Lampedusa, la sindaca contro il governo: «Evidentemente sono un po’ confusi»
«Funerali di Stato? Non ci sono stati neanche di paese»
di Franca Stella


ROMA «Ho casualmente appreso che si sta procedendo alla sepoltura delle salme partite da Lampedusa. Senza funerali, né di Stato né di paese». È duro la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, in riferimento all'impegno del premier Enrico Letta, pronunciato durante la sua visita nell'isola, sui funerali di Stato. «Oggi a esempio aggiunge sono state mandate otto salme a Caltanissetta e 25 a Mazzarino. Ieri Kyenge i funerali li aveva confermati. Ma le salme sono di competenza del ministero dell'Interno. Forse un po’ di confusione...».
E in effetti di funerali di Stato non ne sono visti. Ieri ad esempio 13 migranti morti nello sbarco di Sampieri del 30 settembre hanno ricevuto le esequie a Scicli. Tredici bare ricoperte di un drappo rosso deposte ai piedi dell'altare improvvisato all'interno dello spiazzo grande del cimitero di Scicli per un momento di dolore «rotto» solo dalle lacrime dei familiari delle vittime arrivati da ogni parte d'Europa per rendere omaggio per l'ultima volta ai parenti morti nella tragica traversata del Mediterraneo, ma anche per chiedere alle autorità italiane di tumulare ad Asmara le salme perché i genitori sono da giorni in patria in attesa delle bare. I funerali, alla presenza del sottosegretario all'Interno Domenico Manzione, in un’atmosfera surreale sono stati officiati dal vicario foraneo di Scicli, don Ignazio La China, e dal prete cattolico eritreo, Keflemariam Asghedem, che durante l'orazione funebre ha implorato le autorità italiane ad intervenire nei campi libici dove migliaia e migliaia di cittadini africani aspettano di mettersi in mare alla ricerca di un Eden che non c’è.
Intanto ieri è cominciata l'operazione Mare Nostrum: navi anfibie, droni, elicotteri con visori notturni. Si tratta di una operazione «umanitaria» per «salvare vite umane», ha ribadito il ministro della Difesa Mario Mauro, ma anche di un intervento per la «sicurezza». «Le navi hanno una doppia ragione di presenza ha detto il ministro navi militari col compito di identificare anche le navi madri, utilizzate dagli scafisti. Quando vengono individuate le navi procediamo a scortarle, vengono condotte al porto sicuro più vicino, secondo le regole del diritto internazionale. Se non ci sono migranti che hanno bisogno di assistenza sanitaria e se il battello è in condizioni di navigare aggiunge la nave viene scortata verso il porto più sicuro e più vicino, non necessariamente italiano».
E il sindaco di Catania Enzo Bianco ha proposto al governo italiano e alla Commissione Ue di ospitare nella stessa città «un avamposto nel Mediterraneo» dello stesso Frontex, che ha sede a Varsavia. Catania infatti è servita da un aeroporto ben collegato con tutt'Europa segnala il sindaco e da un porto che fa sistema con altri porti (Augusta e Pozzallo) e aeroporti (Sigonella e Comiso) vicini.

il Fatto 16.10.13
Immigrazione. Consiglio Ue diviso su regole


Spacca il Consiglio Ue il dibattito tecnico sulla proposta della Commissione che riguarda le linee guida per la sorveglianza in mare nelle operazioni coordinate dall’Agenzia Frontex.
I Paesi del Mediterraneo fanno blocco comune sugli articoli 9 e 10 che riguardano il protocollo da seguire in occasione di salvataggi e sbarchi, e in un documento elaborato il 2 ottobre e fatto circolare il 10, Italia, Cipro, Francia, Grecia, Malta e Spagna esprimono posizione contraria definendo la soluzione “inaccettabile per motivi pratici e legali”, rivendicando la “competenza nazionale”.
Le regole sul ‘comportamento’ da tenere durante le attività coordinate dall’Agenzia erano entrate in vigore nel 2010 attraverso una procedura poi contestata dal Parlamento Ue, che ne aveva ottenuto l’annullamento nel 2012, con un ricorso alla Corte di giustizia. L'obiettivo delle regole, nelle intenzioni dei legislatori, è quello di rimuovere “l'incertezza legale”.

l’Unità 16.10.13
Napoli, acido contro un bambino rom
Il liquido da un balcone. Il testimone: «Non è la prima volta. Ce l’avevano con loro da tempo»
di Raffaele Nespoli


NAPOLI «Ho sentito le urla della madre e mi sono girato. In un attimo l’ho vista, disperata. Ha preso il figlio in braccio ed è corsa da me chiedendomi di aiutarla». Pochi istanti e Renato, che di mestiere fa il benzinaio, si è trovato a soccorrere il piccolo Alex (nome di fantasia), un bambino rom che ha rischiato di restare sfigurato dall’acido venuto giù da un balcone. Un gesto assurdo e inspiegabile che ha scioccato i passanti di via Doria a Fuorigrotta (quartiere periferico di Napoli) e che, stando al racconto del benzinaio, non sarebbe del tutto isolato. «Conosco bene quella donna e suo figlio prosegue Renato -, viene quasi tutti i giorni a chiedermi il permesso di prendere dell’acqua dal rubinetto del distributore. È sempre stata molto educata e purtroppo già altre volte le è capitato di essere vittima di episodi simili. Nelle scorse settimane qualcuno le ha gettato dall’alto dell’acqua sporca, a volte anche della candeggina». Proprio questi episodi hanno fatto scattare le proteste del benzinaio che si è rivolto anche all’amministratore dello stabile. Tutto finito, almeno sino a ieri, quando da uno dei balconi è piovuto giù dell’acido.
«I vestitini del bimbo hanno iniziato a fumare spiega ancora scosso Renato il piccolo piangeva, quando gli ho tolto la maglietta ho visto che il tessuto si portava via la pelle. È stato terribile». Dopo aver ripreso in braccio il figlio, la giovane mamma è corsa poi in farmacia e da lì è partita la telefonata al 118.
Scossa anche la dottoressa Serena Ferrara: «Ho subito soccorso il bambino, gli ho prestato le prime cure dice abbiamo cercato di fare tutto il possibile per tranquillizzarlo, prima dell’arrivo dell’ambulanza e del trasferimento in ospedale». Alex è stato ricoverato all’ospedale pediatrico Santobono dove i medici hanno stabilito una prognosi di almeno 20 giorni. A quanto pare la sostanza che lo ha colpito gli ha provocato ustioni di secondo grado sul viso, sul torace e sul collo. Al suo fianco resta la giovane mamma che fortunatamente non ha riportato lesioni importanti. Resta anche aperto il fronte delle indagini, la polizia che ha raccolto tutte le testimonianze sull’accaduto ha ora inoltrato il fascicolo alla Procura.
«Al momento spiegano gli investigatori non è possibile stabilire chi abbia lanciato cosa, e perché. Non è neanche possibile dire se si sia trattato di un incidente o di un gesto volontario». Pesano però come un macigno le parole del giovane benzinaio che, pur senza accusare nessuno, lascia intendere che non può essersi trattato solo di una coincidenza. «Nel corso delle settimane addosso a quella donna è piovuto in testa di tutto ribadisce -, sempre dei liquidi, anche due volte al giorno. Bastava che si avvicinasse al rubinetto per prendere dell’acqua. Ho anche cercato di “appostarmi” per capire chi fosse, ma evidentemente da sopra si sono accorti di essere osservati».

l’Unità 16.10.13
Il ministro Quagliarello ha presentato ieri in Parlamento le conclusioni dei saggi


il ministro Quagliariello ha ribadito l’impegno per un «bipolarismo ben temperato» nel quale «a fronteggiarsi non siano due fazioni armate ma due schieramenti politici alternativi». Urgente rimane la «correzione della legge elettorale per garantire la piena funzionalità istituzionale nel caso di interruzione anticipata della legislatura». Un intervento che però non può rappresentare «una soluzione stabile ed efficace».
Napolitano: «Quella riforma della legge elettorale, quelle revisioni della seconda parte della Costituzione di cui si è già delineato il percorso attraverso il serio apporto di una Commissione altamente qualificata: e si sa che al procedere di queste riforme io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a Presidente. Impegno che porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo e a quel fine».

il Fatto 16.10.13
Art. 138, Napolitano avverte: resto al Colle per le riforme
Quagliariello in Aula
Oggi il Senato può approvare il Ddl costituzionale
di Luca De Carolis


Napolitano monita, garantendo di essere rimasto al Quirinale solo per “il percorso delle riforme”. Quagliariello (ri) detta la linea alle Camere. E il Senato ascolta da bravo, pronto a dire il suo secondo sì all’assalto alla Carta. Con uno schema che è il paradigma delle larghe intese, ieri il Colle ha “preparato” il voto di Palazzo Madama, che oggi dovrebbe approvare in seconda lettura il ddl costituzionale 813-b, quello che stravolge l’articolo 138 e istituisce un comitato di 42 parlamentari che potrà riscrivere i titoli I, II, III e V della seconda parte della Carta, più le norme “strettamente connesse”. Di fatto, metà della Costituzione. Ultimati i passaggi in Senato, non rimarrà che la seconda lettura alla Camera, prevista a metà dicembre.
LA GIORNATA inizia di buon mattino, con il ministro per le riforme costituzionali, Gaetano Quagliariello, che a Montecitorio illustra la relazione della commissione dei “saggi”, gli esperti nominati da Letta, su ispirazione di Napolitano. E in mattinata è proprio il presidente della Repubblica a dare l’avviso ai naviganti: “Al cammino delle riforme ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente. Lo porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo”. Vietati gli scherzi in aula, insomma. “Occorre – ripete Napolitano – andare avanti con le riforme istituzionali come quella elettorale e quella della seconda parte della Costituzione”. Il miglior sostegno possibile per Quagliariello. In aula, il ministro si spiega: “Non possiamo permetterci un fallimento sulle riforme, produrrebbe il ripetersi dell’instabilità e ostacolerebbe la rimozione delle forzate coabitazioni tra forze politiche diverse”. Mette un paletto: “Occorre sgombrare il campo dall’illusione di porre rimedio al deficit di stabilità con un ennesimo intervento sul solo sistema elettorale”. E comunque, “anche se sono cosciente che serve un intervento di correzione, questo non potrà essere efficace e stabile: solo una riforma elettorale connessa alla revisione della forma di governo può garantire stabilità”. Traduzione: il Pdl, affezionato al Porcellum, non deve agitarsi. Nel breve il testo si potrà al massimo modificare.
IL MESSAGGIO più importante però arriva sulla giustizia, rimasta fuori dalle riforme costituzionali. Ma Quagliariello garantisce: “Ho avviato i contatti con il ministro della giustizia per un tavolo di coordinamento che conduca il governo a sottoporre al Parlamento proposte di riforma, sulla base delle indicazioni formulate” dai saggi. Ovvero, ci lavoreremo sopra, con una corsia preferenziale: Berlusconi e i falchi Pdl stiano sereni. Nel pomeriggio, il ministro concede il bis a Palazzo Madama. Afferma che il capo dello Stato “è una figura con natura politica e non neutra”. Celebra la consultazione on line del ministero sulle riforme, “la più partecipata non solo in Italia ma in Europa”. Quagliariello saluta, e in Senato inizia la discussione. I Cinque Stelle ricorrono al “costruzionismo”, per autodefinizione: ossia, si iscrivono a parlare tutti e 50, per interventi da 20 minuti l’uno. Tocca anche i 7 di Sel, come previsto dal regolamento. La maggioranza potrebbe forzare nella capigruppo di questa mattina, contigentando i tempi così da votare in giornata. “Ma noi ci opporremo in tutti i modi” spiega Loredana De Petris (Sel). Senza lo “strappo del governo”, il voto potrebbe slittare a giovedì. Se il ddl non venisse approvato con la maggioranza dei 2/3, potrebbe essere sottoposto a referendum. Servirebbero tanti vuoti nella maggioranza pro ddl (partiti governo, più Lega e Fratelli d’Italia). Si parla di 6-7 malpancisti nel Pd. Uno dichiarato è Corradino Mineo: “Non voterò a favore, visto quanto accaduto dopo la sentenza su Berlusconi. Si chiede alla magistratura di non toccare l’unto del Signore: come si fa a cambiare assieme la forma di governo? ”.

il Fatto 16.10.13
La ricetta dei saggi: niente voto all’estero e presidenzialismo

PARLAMENTO I saggi vogliono rafforzarlo attraverso “la riduzione del numero dei parlamentari e il superamento del bicameralismo paritario”.
GOVERNO Sul nuovo sistema di governo, la commissione è divisa. Tre le opzioni: governo parlamentare, semipresidenzialismo alla francese e “una forma di governo che cerca di farsi carico delle esigenze sottese alle prime due soluzioni, che conduca al governo parlamentare del Primo Ministro”.
REGIONI E AUTONOMIE LOCALI I saggi chiedono di ridurre “significativamente le sovrapposizioni delle competenze” tra enti locali.
CIRCOSCRIZIONE ESTERO A detta unanime dalla commissione, va soppressa.


il Fatto 16.10.13
Così i Saggi costituenti pilotavano i concorsi
La “rete criminale” dei professoroni
di Antonio Massari


Le carte dell’indagine di Bari sulle manovre per favorire amici e parenti in università. Barbera sponsorizza Pizzetti, De Vergottini segnala due “protette”. Pressioni a favore della Bernini (Pdl), ma poi il concorso salta

Poco importa che quel concorso, che vedeva favoriti la senatrice Anna Maria Bernini e Federico Pizzetti, figlio dell’ex garante della privacy, si sia concluso con un nulla di fatto. Vedremo perché. Quel che importa è conoscere le pressioni, gli scambi, il sistema che ha pervaso un concorso universitario nel 2010, con la riforma Gelmini in vigore. Ed è ancora più importante scoprire che, a esercitare queste pressioni, queste “pesanti interferenze”, siano stati anche due autorevoli giuristi: Augusto Barbera e Giuseppe de Vergottini, tre anni dopo assurti al rango di saggi, su nomina del premier Enrico Letta e benedizione del presidente Napolitano. A Barbera e De Vergottini è stato affidato il compito di riformare la nostra Costituzione. Sono gli stessi che tartassavano di telefonate il commissario Silvio Gambino. Il futuro saggio Augusto Barbera, definito negli atti “sponsor” di Pizzetti, chiede a Gambino: “Per (l’università, ndr) Europea c’è il ragazzo che m’interessa? ”. “Sì”, gli risponde Gambino, “è un ragazzo molto preparato”. De Vergottini invece contatta Gambino per chiedergli se, sempre all’Europea, il professor Giuseppe Ferrari intenda agevolare due candidate milanesi. Poi chiama lo stesso Ferrari e anch’egli s’informa su Pizzetti.
La “rete criminale” dei professoroni
Il sistema della cooptazione non è certo una novità. Ma lo scenario disegnato dall’inchiesta “do ut des”, condotta dal pm barese Renato Nitti in collaborazione con la Guardia di finanza, supera le peggiori fantasie: tradimenti, scambi, pressioni. La preoccupazione del sistema – secondo gli investigatori – non è garantire un futuro alla ricerca scientifica ma reclutare “burattini” che, nei futuri concorsi, asseconderanno gli interessi dei baroni. Non manca nulla: neanche il “testamento” orale di Giorgio Lombardi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Torino, scomparso tre anni fa e drammaticamente raccolto nelle intercettazioni. L’inchiesta riguarda gli esami di prima e seconda fascia nei rami di Diritto costituzionale, pubblico comparato, canonico ed ecclesiastico: l’esito finale – è l’accusa – non ha avuto nulla a che vedere con il merito. Gli inquirenti parlano di una “rete criminale”, che coinvolge alcuni tra i docenti più autorevoli, e mira a far prevalere la logica del “favore” su quella del “merito” e della “giustizia”. Barbera e De Vergottini, insieme con altri tre saggi – Beniamino Caravita di Toritto, Carmela Salazar e Lorenza Violini – e 35 professori ordinari sono stati denunciati dalla Guardia di finanza: accuse che, a vario titolo, spaziano dall’associazione per delinquere alla corruzione, dal falso alla truffa aggravata. La riforma Gelmini, con il sorteggio dei commissari, doveva eliminare le “raccomandazioni” ma il “sistema” si attrezza immediatamente per neutralizzarla: orienta la formazione della rosa, affinché siano sorteggiati commissari “arrendevoli”. Quella rosa, secondo l’accusa, non s’è trasformata nella “libera elezione” di “giudici” che devono valutare il candidato “più meritevole”. E per chi non s’adeguava c’erano minacce e intimidazioni. Il sorteggio delle commissioni giudicatrici avviene nel gennaio 2010. E subito parte la sfida tra i due rivali del diritto pubblico comparato: Lombardi e Giuseppe Franco Ferrari.
Il testamento del “capo di tutti”
“È il decano, è il capo di tutti”: così viene ricordato in un’intercettazione Giorgio Lombardi, morto da pochi giorni, nel maggio 2010. Pochi mesi prima, al telefono, sostiene: la riforma Gelmini ha delle norme complicate che però non daranno troppo fastidio. E con Ferrari – collega alla Bocconi di Milano – ingaggia la corsa per recuperare i voti dei docenti che, di lì a poco, avrebbero formato la rosa dei sorteggiabili. Ferrari si rivolge al collega Pier Giuseppe Monateri, che può agire sugli eleggibili del gruppo di diritto privato comparato. E nell’estate 2009 Monateri gli invia una lista di 20 nomi affidabili. Una seconda mail elenca i probabili vincitori di concorso: 8 su 11 ce la faranno. E quindi: più voti ci si accaparra, nella rosa del sorteggio, più è possibile manipolare le future maggioranze nelle commissioni. Gli altri professori intercettati commentano: Ferrari ha vinto le elezioni ma Lombardi è in maggioranza nei concorsi che gl’interessano e, in fondo, è lui che ha vinto l’estrazione. De Vergottini dopo il sorteggio parla di “tragedia”: hanno vinto i lombardiani. C’è chi sostiene: a Lombardi basta scrivere su un foglietto i suoi nomi e la partita è già vinta a tavolino. Ma l’obiettivo di Lombardi qual è? Eccolo: Anna Maria Bernini e Federico Gustavo Pizzetti devono diventare professori di Diritto pubblico comparato. La prima, professoressa associata di Diritto pubblico comparato a Bologna, in quel periodo era parlamentare del Pdl e ministro del governo Berlusconi. Il secondo è figlio di Francesco Pizzetti, ordinario di Diritto costituzionale a Torino, all’epoca dei fatti presidente dell’Autorità garante per la privacy. Per l’accusa, la Bernini, in passato aveva aiutato il figlio di Lombardi per la sua carriera diplomatica e gli aveva anche promesso un sostegno per l’eventuale elezione a giudice costituzionale. A maggio si consuma il dramma personale di Lombardi che, ammalato, è sul punto di morire: dieci giorni prima di spirare, parla al telefono con il collega Luca Mezzetti, al quale dice parole che suonano come una sorta di testamento.
Le promesse dell’ex garante per la carriera del figlio
“Ora sei tu il padrone”, gli dice, consapevole che dovrà abbandonare l’impegno per il concorso. E gli affida Bernini e Pizzetti, pregando Mezzetti di non affossare le candidature, spiegandogli che può contare sui commissari Gambino, Ganino e Giovanni Cordini. Lo invita alla prudenza con il rivale Ferrari. Dieci giorni dopo Lombardi muore. E in poche ore si consuma il tradimento: Mezzetti contatta Ferrari parlandogli di “interessi comuni”. Nell’estate 2010 gli investigatori si concentrano sul concorso che riguarda Pizzetti e Bernini, nell’Università cattolica romana dei Legionari di Cristo, e si convincono che il rettore, padre Paolo Scarafoni, al centro delle indagini, è consapevole degli illeciti. Lombardi lascia il ruolo di commissario a Mezzetti, che a sua volta lo cede a Ferrari, anche lui dimissionario. Il concorso finisce nel nulla: ma gli investigatori, dalle intercettazioni, apprendono delle pressioni di Pizzetti senior che, in cambio della nomina di suo figlio, s’impegna a premere sui colleghi torinesi, commissari nell’Università Roma Tre, per favorire un’allieva di Ferrari.


l’Unità 16.10.13
Modifiche funzionali per salvare la Costituzione
di Marco Olivetti


«Al procedere delle riforme io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente. Impegno che porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo e a quel fine». Queste parole pronunciate ieri dal presidente della Repubblica hanno ricordato la necessità che siano realizzate, fra l’altro, le riforme «politiche e istituzionali da tempo riconosciute necessarie», le quali includono la riforma elettorale e la revisione della seconda parte della Costituzione. Esse, ovviamente, sollevano un interrogativo: può il «tutore della Costituzione» pronunciarsi in favore delle riforme costituzionali?
A questa domanda è possibile rispondere non solo ricordando che la stessa Costituzione prevede la possibilità della sua riforma e che i Padri costituenti non aspiravano certo a produrre un testo immodificabile e sottratto al decorso del tempo. Ma occorre soprattutto muovere da una distinzione di fondo fra la Costituzione cui Giorgio Napolitano ha giurato fedeltà e di cui è il garante e le singole disposizioni costituzionali che la compongono.
Certo, ciascuna di queste è valida ed efficace sino a quando non venga modificata, ma il presidente non ha ovviamente prestato giuramento di fedeltà a ciascun meccanismo previsto dalla Costituzione del 1947 nel senso di impegnarsi a difenderlo da qualsiasi revisione. La Costituzione cui Napolitano ha prestato giuramento è l’insieme delle scelte fondamentali compiute nel 1947, le quali come ha sostenuto Valerio Onida hanno collocato l’Italia nell’alveo della tradizione costituzionale occidentale e conservano piena validità anche oggi. Esse non riguardano solo la prima parte della Costituzione (che talora si tende superficialmente a ritenere immodificabile, magari pensando che della seconda si possa invece disporre a piacimento), ma coinvolgono la scelta per una democrazia rappresentativa di tipo europeo, al tempo stesso funzionale e limitata. È proprio l’esigenza di garantire la funzionalità della Costituzione che ne impone oggi la riforma.
Per spiegare come conservatorismo e riformismo in materia costituzionale debbano andare assieme, si può forse ricorrere a una breve periodizzazione della storia costituzionale post-bellica. Dal 1948 all’inizio degli anni 90 la Costituzione è stata la base della Repubblica dei partiti che l’aveva prodotta: certo, dalla fine degli anni 70 erano iniziati i primi dibattiti sulle riforme, ma, a par-
te i progetti socialisti di una «grande riforma» e le velleità delle forze tradizionalmente anticostituzionali, il consenso sulla Costituzione rimaneva solido. La riforma era ipotizzata come qualcosa che doveva avvenire dentro lo spirito della legge fondamentale, come fisiologicamente accade negli Stati contemporanei.
Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo la crisi della Repubblica dei partiti. Il punto di partenza di questa seconda stagione di vera e propria messa in discussione della Costituzione, non di singole disposizioni di essa è stata la dichiarazione con cui, all’indomani della vittoria elettorale del 1994, Berlusconi, Fini e Bossi si schierarono in favore di una Seconda Repubblica, caratterizzata dal binomio fra presidenzialismo e federalismo. Si è così aperta una battaglia sull’essenza stessa della Costituzione del 1947, che andava ben al di là della distinzione fra prima e seconda parte. È allora iniziata la lotta a difesa della Costituzione inaugurata da Giuseppe Dossetti, che condusse su questo tema la sua ultima battaglia politica. Questa stagione ha attraversato gli anni 90 e buona parte del decennio seguente ed è culminata nella riforma approvata in solitudine dal centrodestra nel 2005. Ma tale progetto che aveva il significato di una nuova Costituzione dei vincitori, che avrebbe rovesciato il senso della decisione costituente del 1947 venne sconfitto nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006.
Da allora, anche se ciò non è parso subito chiaro, si è aperta una nuova fase, che ha riportato il dibattito sulle riforme all’interno della Costituzione. Non è un caso che il centrodestra non abbia più tentato una riforma unilaterale e che si siano delineati, negli scorsi anni, vari tentativi di aggiornamento della Costituzione, concordati dai due principali schieramenti politici: il più importante di essi è stato la bozza Violante della XV legislatura, nella quale si è delineato il minimo comune denominatore delle esigenze di aggiornamento (in materia di bicameralismo, forma di governo, sistema delle autonomie) su cui vi è un consenso relativamente ampio fra gli studiosi e almeno a parole nella classe politica.
Il pericoloso stallo istituzionale con cui si è aperta l’attuale legislatura ha ricordato ancora una volta che esiste una questione costituzionale aperta. Ma essa si colloca oltre la stagione che vedeva contrapposti conservatori e innovatori radicali. Oggi essere conservatori dal punto di vista costituzionale significa essere favorevoli ad un incisivo programma di riforme che restituiscano funzionalità alla Carta del 1947, anche intervenendo sulla legislazione ad essa immediatamente connessa (come il sistema elettorale). È per questo che il ruolo del custode della Costituzione è cambiato: abbiamo oggi un presidente eletto anche in relazione a un programma di riforme costituzionali e un governo che ha ottenuto su questo tema la fiducia parlamentare. Perché solo in quel modo è possibile «salvare la Costituzione», cioè perseguire l’obiettivo su cui si svolsero la battaglia di Dossetti e il referendum costituzionale del 2006.


Corriere 16.10.13
La bandiera della Costituzione e il ruolo di Togliatti
Macaluso: la nostra Carta fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc
di Emanuele Macaluso


Partito rivoluzionario o forza istituzionale orientata al riformismo? Cosa è stato il Pci? In Comunisti e riformisti Macaluso riflette sulle diverse anime della sinistra italiana: la «doppiezza di Togliatti» coincideva con una strategia politica, rimasta viva fino a Berlinguer e rimossa nell’89. Qui uno stralcio del libro.

In questi anni tutte le forze della sinistra europea hanno rivisto i loro programmi, adeguandoli ai mutamenti verificatisi nel capitalismo globale. Soprattutto dopo il crollo dell’Urss e i processi di mondializzazione di cui tanto si è parlato. Sappiamo che questa ricerca ha conosciuto successi e sconfitte. Solo in Italia non c’è stato uno sforzo politico-culturale e organizzativo per ridefinire il ruolo che storicamente ha sempre avuto la sinistra. Senza dubbio occorreva un serio impegno d’innovazione, comprese delle cesure, rispetto a quella storia, segnata anche dalla presenza del Pci di Togliatti, ma non la si doveva certo cancellare, come invece è accaduto. Il grande e antico albero del socialismo italiano poteva dare ancora frutti. Altro che quercia!
Nel maggio 2010, è uscito per Donzelli un libro interessante, ricco di spunti, riflessioni, e documentazioni, scritto da Enrico Morando, Riformisti e comunisti? , in cui racconta una storia dei «miglioristi» nel Pci, nel Pds, nei Ds e nel Pd. Fra tante cose questo libro contiene una critica di «continuismo» e di «richiamo alla tradizione» verso i più anziani esponenti dell’area riformista: Bufalini (in modo particolare), Napolitano, Macaluso, Chiaromonte. [...] Almeno a mio avviso, una delle ragioni per cui la sinistra, dopo il 1989, non ha avuto più identità è proprio il fatto che questa è stata ricercata nella più «netta discontinuità». Morando critica una mia valutazione frutto di una mia ferma convinzione, quando dopo la Bolognina affermai che occorreva «recuperare il nucleo vitale della nostra storia» in un partito che poteva e doveva fare propria la storia e tradizione socialista, con tutto ciò che di positivo e di negativo, di successi e di sconfitte, essa ha espresso in Italia e in Europa.
Può darsi anche che quel giudizio fosse sbagliato e comunque non realistico dato che le cose a sinistra sono andate in tutt’altra direzione. Su questo ho scritto molto e non mi ripeto. Dico solo che queste pagine dedicate all’opera di Togliatti non sono frutto di nostalgie o di «continuismo», ma del convincimento che nella storia della sinistra italiana c’è anche questa. So bene che capire ciò che è vivo e ciò che è morto, per l’oggi e per il futuro, e metterlo in evidenza è opera difficile e rischiosa proprio perché sembra che si stia con la testa rivolta al passato e non al futuro. E più facile azzerare tutto. A questo proposito Morando cita una frase di Vittorio Foa: «Si guarda al futuro pensando al presente e guardando al passato, come una mera ripetizione di cose vissute. Nei dirigenti della nostra sinistra [...] manca tuttavia l’idea che il futuro è un’altra cosa, che va guardato con altri occhi, con una testa nuova». Ma attenzione alla «testa nuova». A volte quelle teste pensano al nuovo, anzi al nuovissimo e trovano il vecchio, anzi, il vecchissimo. Il futuro è un’altra cosa, dice giustamente Foa, ma per individuarlo e capirlo servono anche il presente e il passato.
Tanti anni fa Gerardo Chiaromonte partecipò a un congresso dell’Spd. Al suo ritorno gli chiesi notizie sui lavori. Gerardo mi rispose che quel che più d’ogni altra cosa l’aveva colpito era l’addobbo della sala in cui si svolgeva il congresso. Tanti drappi rossi con tante foto: Marx ed Engels, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Kautsky, Bernstein e altri. Un partito che da tempo aveva fatto la grande svolta di Bad Godesberg non cancellava il suo passato e il suo a volte drammatico cammino.
Un’ultima nota. Nei giorni in cui scrivo, da più parti si fa riferimento alla Costituzione sulla quale in mo¬menti particolarmente difficili ha fondato il proprio agire il presidente della Repubblica. La «più bella del mondo», l’ha definita Roberto Benigni [...]. Un giudizio condiviso dai più valenti costituzionalisti e studiosi di diritto, come dagli uomini politici che hanno servito il nostro Paese.
La Costituzione in passato ha rappresentato per tanti italiani il terreno su cui condurre la battaglia democratica per avanzare lungo la via italiana al socialismo. Quella prospettiva sembra oggi solo una vecchia illusione ideologica. In parte è così. Tuttavia lo scontro sociale, politico e culturale sui temi che costituiscono l’ossatura della Costituzione è più che attuale. Oggi come allora, essa è la barriera per difendere democrazia e diritti, il riferimento imprescindibile per mantenere l’unità e la coesione nazionale, anche se appare ormai necessario adeguarne alcuni articoli concernenti il funzionamento delle istituzioni.
Osservo che alcuni che ne hanno fatto la loro bandiera — penso a Libertà e Giustizia, l’associazione presieduta dal professor Zagrebelsky — hanno come riferimento il vecchio Partito d’Azione. Senza dubbio una forza di grande rilievo nell’antifascismo, nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra. Un partito in cui militarono personalità di valore, combattenti di tante battaglie politiche e morali. Tuttavia la Costituzione fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc. Togliatti svolse un ruolo determinante.
Ribadisco. Tutti i movimenti e tutti gli uomini che dettero un contributo sostanziale nel creare le condizioni per fare dell’Italia una Repubblica democratica e dotarla di questa Costituzione debbono essere ricordati come meritano e possono stare nel Pantheon di ogni forza che abbia la Carta nel proprio Dna. Fra questi, piaccia o meno, c’è il Partito comunista italiano e c’è Palmiro Togliatti.
Un proverbio cinese dice: «Chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato».


il Fatto 16.10.13
Dopo il 12 ottobre
Cgil, il seminario di riparazione


Nel suo intervento in piazza del Popolo, sabato scorso, concludendo la manifestazione in difesa della Costituzione, Stefano Rodotà aveva parlato di “imbarazzanti diserzioni”. Si riferiva a quelle associazioni che, naturalmente, avrebbero dovuto essere in piazza e che invece, nei giorni precedenti, avevano annunciato la propria assenza. Rodotà non ha fatto nomi, ma l’Anpi e la Cgil, oltre al Pd, sono state le prime indiziate. Ora, la confederazione di Susanna Camusso, replica con un convegno, che si terrà oggi nella sala dei Frentani a Roma, dal titolo “Semplificare per rafforzare”. Per “La via maestra” ci saranno Rodotà, Sandra Bonsanti e Alessandro Pace. Poi, la parola soprattutto a dirigenti sindacali e a politici come Vasco Errani e Ignazio Marino e a Franco Bassanini. Conclude Susanna Camusso. Lì si capirà, se è un seminario di riparazione.

Corriere 16.10.13
Ingroia: decidano gli elettori sullo scempio dell’articolo 138


«Sordi, incapaci di ascoltare quello che chiede il Paese. Ecco perché il Senato oggi forza i tempi e si accinge ad approvare in terza lettura la modifica dell’articolo 138 della Costituzione. Non è bastato quasi mezzo milione di firme raccolte da un quotidiano, non è bastata la straordinaria manifestazione popolare di sabato a Roma». Lo ha detto il presidente di Azione civile Antonio Ingroia, tra i promotori dell’appello pubblicato dal Fatto e sabato scorso in piazza a Roma in difesa della Carta. «L’arroganza con cui la maggioranza delle larghe intese sta per sfregiare la Carta è senza limiti. Ma almeno questo Parlamento di nominati a causa di un sistema elettorale incostituzionale consenta ai cittadini di esprimersi. Faccia mancare la maggioranza di due terzi in modo che si possa chiedere in tempi brevi il referendum confermativo previsto dalla nostra Costituzione. Almeno abbiano il coraggio di chiedere una legittimazione allo scempio che stanno compiendo».

il Fatto 16.10.123
Il giurista Stefano Rodotà
Meno garanzie, più poteri personali

Strada pericolosa
di Silvia Truzzi


Le riforme costituzionali procedono spedite, anzi speditissime. Guai a chi – come i moltissimi cittadini che hanno partecipato alla manifestazione di sabato organizzata da Via maestra – invita alla riflessione. Tra i promotori c’è il professor Stefano Rodotà: “Mentre sabato pomeriggio Sky ha fatto una diretta della manifestazione, la tv pubblica quasi non ne ha dato notizia. Con Piazza del Popolo strapiena! Le prassi di pessima informazione non sono mutate, nonostante il cambio dei vertici Rai. È un fatto vergognoso, ma non ci lasceremo scoraggiare”.
Professore come si spiega la fretta sulla riforma della Carta?
Se si fosse seguita la procedura prevista dall’articolo 138 oggi le tre riforme che il presidente del Consiglio insistentemente richiama – e cioè diminuzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V già pessimamente riformato – sarebbero avviate verso l’approvazione. Ma su queste tre ipotesi c’è un tale consenso sociale che l’approvazione per via ordinaria avrebbe avuto tempi molto celeri! Il tema vero è il cambiamento della forma di governo: la discussione su questo deve essere fatta, non è questione che possa essere affidata ad accelerazioni o su cui lo spirito critico debba essere messo a tacere. Il dubbio è che sfruttando il consenso su tre riforme si voglia agganciare anche la quarta, sulla quale non c’è consenso e la discussione è ancora aperta.
Perché è critico sul semipresidenzialismo o su una forma di premierato forte, le due ipotesi che vanno per la maggiore?
Avremmo un accentramento dei poteri e un’ulteriore, formalizzata, personalizzazione del potere a fianco di un deperimento di garanzie e contrappesi: una strada molto pericolosa. Tutto questo viene giustificato con l’efficienza, argomento importante, ma che non può essere l’unico. Il richiamo ai sistemi di Francia e Usa poi è improprio. Negli Usa il presidente è “prigioniero” del congresso, per dire quanto sono forti i contrappesi degli altri poteri. E in Francia c’è la possibilità di maggioranze diverse tra quella che elegge il presidente e quella che elegge l’assemblea nazionale. Non è solo un problema di riscrittura delle regole. Il guaio vero è la debolezza della politica, interamente scaricata sulla Costituzione, inquinata e utilizzata impropriamente.
Il presidente Napolitano ieri ha detto: “Al procedere delle riforme istituzionali io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente”.
L’atteggiamento del Colle rientra nelle dinamiche istituzionali. Ma questo non può, non deve, escludere una discussione sia sulla procedura che sul merito. Letta ha più volte affermato che chi si oppone è d’impedimento alle riforme, ma quest'accusa è una falsificazione della realtà: noi non vogliamo ritardare le riforme, vorremmo semplicemente che tutto si svolgesse nell’ambito del perimetro costituzionale, insistendo sulla necessità di dare una voce ai cittadini.
Loro dicono che alla fine del processo di riforma si avrà il referendum.
Attenzione: abbiamo un brutto precedente, la modifica dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Allora non si volle prestare attenzione a quelli che dicevano “evitate di approvarla con i due terzi in modo che i cittadini possano esprimersi”. Ora si toccano la regola delle regole – la procedura di riforma – e la forma di governo: deve essere consentito chiedere un referendum. Aggiungo: chi oggi si occupa con tanta premura di riforme dovrebbe tener conto che 16 milioni di italiani, nel 2006, si espressero contro una previsione di riforma costituzionale che conteneva molti punti oggi in discussione.

il Fatto 16.10.13
Intercettazioni e giornali. C’è il bavaglino della privacy
L’Autorità, presieduta da Antonello Soro (Pd) e dalla moglie di Vespa, di soppiatto ha ordinato alle Procure disposizioni che sanno di censura
di Gianni Barbacetto


Se non un bavaglio, almeno un bavaglino. E senza bisogno di votare una legge in Parlamento, con conseguenti proteste contro l’attacco al-l’autonomia della magistratura e al diritto dei lettori a essere informati. Ci ha pensato l’Autorità garante della privacy: con un blitz estivo in cui ha partorito disposizioni sulle intercettazioni telefoniche, pubblicate sulla Gazzetta ufficiale il 13 agosto (così, tra un volo e un traghetto) e inviate a tutte le Procure della Repubblica.
LE OTTO PAGINETTE s’intitolano “Provvedimento in materia di misure di sicurezza nelle attività di intercettazione da parte delle Procure della Repubblica” e sono firmate dal garante della privacy Antonello Soro, che ne è anche relatore. Impongono alle Procure, in nome della sicurezza dei dati trattati, una completa riorganizzazione degli uffici e delle sale d’ascolto. Da completare entro un termine perentorio (18 mesi) e senza una parola su chi paga. Il rischio è evidente: bloccare di fatto le attività di intercettazione. Il documento parte dalla sacrosanta constatazione che gli uffici che realizzano le intercettazioni custodiscono materiale delicatissimo da manovrare con cura. Presso ogni Procura della Repubblica c’è una struttura chiamata “Centro intercettazioni telecomunicazioni” (Cit) dove si svolgono le attività di controllo ordinate dai giudici, secondo le disposizioni del Codice. Poiché le Procure da sole non ce la fanno, “risulta generalizzato il ricorso alla cosiddetta ‘remotizzazione’ degli ascolti”, ossia il loro “reindirizzamento” verso uffici esterni di polizia giudiziaria (Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza) che realizzano le intercettazioni fuori dalle Procure, di solito nelle loro caserme.
IL GARANTE della privacy impone che venga assicurata “una tendenziale omogeneità delle misure e degli accorgimenti volti alla tutela dei dati personali e dei sistemi”. Ed elenca una lunghissima serie di cose da fare: serrature di sicurezza da applicare anche alle finestre, apparati antincendio, impianti di videosorveglianza, accessi con badge individuali con codice numerico segreto, strumenti elettronici d’identificazione attraverso dispositivi biomedici. Per garantire la sicurezza informatica, prevede strumenti telematici sviluppati con protocolli di rete sicuri, trasmissione dati esclusivamente in modalità cifrata, tecniche crittografiche, algoritmi a chiave pubblica, posta elettronica certificata, identificazione di chi accede ai dati. Come non essere d’accordo con l’attenzione sulla sicurezza dei dati? Il garante della privacy però entra nel merito anche dell’organizzazione dei sistemi, richiamando la necessità “di contenere i costi derivanti dalla realizzazione delle misure di sicurezza”, e dunque invitando, per proteggere “i dati personali e i sistemi”, “all’eventuale accorpamento di più apparati tecnologici utilizzati da diversi Uffici di Procura per la gestione delle attività connesse alle intercettazioni”. Non solo: pretende anche che le operazioni d’intercettazione siano realizzate presso le Procure, e che la “remotizzazione” presso le sale d’ascolto della polizia giudiziaria “venga disposta, in via residuale, nei soli casi eccezionali previsti dalle norme codicistiche”. Il tutto deve essere fatto sotto l’occhio vigile del-l’Autorità garante per la protezione dei dati personali, che detta termini perentori: “Entro la data del 30 giugno 2014” le Procure hanno l’obbligo di riferire al garante “lo stato d’avanzamento dell’attuazione delle misure” deliberate. I lavori devono poi essere conclusi in 18 mesi, cioè entro il febbraio 2015. Non una parola sul budget e su chi finanzia gli interventi.
COME SUCCEDE in Italia per le Authority, anche quella per la privacy è lottizzata tra i partiti: il presidente Soro è stato capogruppo del Pd alla Camera, il vicepresidente Augusta Iannini è un magistrato romano, nonché moglie di Bruno Vespa, scelta dal Pdl, i componenti Giovanna Bianchi Clerici e Licia Califano sono rispettivamente della Lega e del Partito democratico.
I diktat estivi del garante hanno già provocato l’intervento del Consiglio superiore della magistratura, chiamato a rispondere al seguente quesito: può l’Authority sulla privacy dare ordini ai procuratori? Soro ha tentato di rassicurare: “Ci siamo limitati a incidere su aspetti meramente organizzativi che non hanno alcuna relazione con l’esercizio della giurisdizione. Non è in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”.
Eppure, a giugno, Soro era stato più esplicito, quando annunciando il testo sulle intercettazioni aveva addirittura auspicato un “aggiornamento del codice dei giornalisti”, per porre fine a “quel ‘giornalismo di trascrizione’ che finisce per far scadere la qualità dell’informazione”. Il bavaglino Soro-Iannini non nascondeva le ambizioni di riuscire laddove non erano riuscite le leggi-bavaglio: “Per favorire un giornalismo maturo e responsabile”, aveva dichiarato Soro, stava percorrendo “una strada meno divisiva e forse più concludente rispetto alle diverse ipotesi legislative tentate nella scorsa legislatura”. Insomma: non ce l’abbiamo fatta con le leggi-bavaglio, proviamo ora con il bavaglino.


l’Unità 16.10.13
Con il decreto femminicidio è stato rotto un tabù
di Fabrizia Giuliani
Deputata Pd


LE NORME DEL DECRETO SUL CONTRASTO ALLA VIOLENZA DI GENERE APPENA APPROVATE, SONO UN FATTO IMPORTANTE E POSITIVO. Rispondono alle richieste maturate in una coscienza civile diffusa che ha colto dietro l’apparenza di un fenomeno antico la novità drammatica di violenze che si consumano nel silenzio delle mure domestiche.
Non ci si deve far trarre in inganno, l’attenzione non nasce solo dai numeri e dalla brutalità dei crimini, ma dal riconoscimento del fatto che la violenza sulle donne è un problema di rilevanza politica e non una piaga sociale (rispetto alla quale si è
impotenti).
Questa consapevolezza ha sostenuto i passi parlamentari con i quali si è mandato un segnale chiaro al governo, dalla ratifica unanime della Convenzione d’Istanbul alla mozione unitaria per una sua veloce applicazione. Le norme presentate, lo ha sottolineato la viceministro Guerra, hanno recepito parte di quelle indicazioni, identificando una serie di misure di contrasto. Com’è noto nel decreto omnibus c’è anche altro: secondo una impropria quanto consolidata abitudine si sono accorpate un unico capitolo questioni eterogenee, ma sollevare in questo caso l’eccezione di incostituzionalità, senza entrare nel merito delle misure avrebbe voluto dire subordinare, ancora una volta, questioni che riguardano la vita delle donne è il caso di dirlo a ragioni nobili quanto si vuole ma estrinseche.
Come già molte voci hanno sottolineato la violenza va letta con occhi nuovi, non si tratta di un residuo patriarcale. Nei giovani che uccidono le compagne non c’è affermazione di forza, ma debolezza e disperazione. Non si tratta di questioni private: se in altri Paesi, pur con molte contraddizioni, la crescita della libertà femminile è stata accolta e sostenuta divenendo elemento di sviluppo complessivo, in Italia ha prevalso un blocco di resistenze, che ha impedito la ridefinizione degli assetti di cittadinanza cui avrebbe dato luogo la sua piena affermazione. I numeri sul gender gap italiano sono eloquenti e sarebbe un errore leggerli solo in chiave economica e sociale. Quel blocco ha segnato un alterazione profonda nel nostro immaginario, che si riflette nelle relazioni e nei comportamenti: l’incapacità di confrontarsi con l’abbandono e il rifiuto da parte di tanti uomini giovani è una questione che tocca alla radice le ragioni della nostra convivenza. Sul nesso violenza/diseguaglianza fa perno, del resto Istanbul,e su di esso ha insistito la rapporteur Manjoo nella relazione che ha concluso la sua visita nel nostro Paese.
Per queste ragioni, il reato di violenza domestica introdotto dal terzo articolo del decreto, dove se ne dà una prima definizione, è un aspetto di grande rilievo culturale e politico, che rompe un tabù sopravvissuto nel tempo a governi diversi. Lavorare per garantire alle donne la sicurezza di poter scegliere, nella propria vita affettiva e sessuale senza essere esposte alla ritorsione violenta e soprattutto affermare che questa ritorsione è un crimine e non un gesto passionale da comprendere tollerare, è questione che attiene alla pienezza della cittadinanza. L’allontanamento da casa dell’aggressore, le informazioni sulle modifiche delle misure cautelari, la velocizzazione dei processi, il sostegno alla rete dei centri antiviolenza e alle associazioni che si occupano dei maltrattanti, vanno in questa direzione, come l’assegnazione del permesso di soggiorno alle donne immigrate colpite anche qui, questione di cittadinanza.
È un primo atto necessario, non è sufficiente. Per colpire un fenomeno che qualche anno fa De Mauro definì, in ragione del suo carattere universale, «una chiave di lettura unificante del lato forse più oscuro della storia» sarà necessario lavorare molto e nel profondo, trovare fondi stabili e continuativi. Ma il diritto è parte della cultura, e per un Paese che ha faticato a riconoscere come tale la violenza contro le donne, queste norme sono un passo avanti rilevante, il fatto che questa legge sia frutto del dialogo tra culture politiche diverse, com’è accaduto per molti altri passaggi analoghi del nostro ordinamento, ci auguriamo sia promessa della sua efficacia.

il Fatto 16.10.13
Redditi M5S, uno su due li nasconde
di Paola Zanca


Ivana Simeoni – senatrice Cinque Stelle di Latina, già finita nella bufera perché anche suo figlio, Cristian Iannuzzi, è stato eletto alla Camera – scrive quattro righe per giustificarsi: “L’abitazione presso Makadi (Egitto) è stata pagata meno di 10 mila euro, grazie ai risparmi accumulati in quasi 40 anni di lavoro come infermiera”. Ha il terrore degli attivisti che potrebbero farsi strane idee spulciando la sua dichiarazione dei redditi. Timore legittimo, per il Movimento che ha fatto della trasparenza la sua bandiera (con tutti i guai che può portare). E alla Simeoni va dato atto di avere avuto coraggio. Non tutti hanno fatto come lei. Su 156 eletti Cinque Stelle, solo 72 al momento hanno rese pubbliche le proprie dichiarazioni patrimoniali. Non sono obbligati a farlo: la legge 441 del 1982 prevede che il dovere di comunicare redditi, proprietà e azioni possedute sia solo “cartaceo” (il bollettino viene pubblicato ogni anno intorno a marzo). Ma dal 2010 si è inserita una forma di pubblicità supplementare facoltativa: il via libera ai siti di Camera e Senato a mettere on line il proprio 730. Al netto di documentazioni incomplete e ritardi burocratici dei due rami del Parlamento, ad oggi un eletto Cinque Stelle su due si è ben guardato dal firmare quell’ok. Hanno detto sì 30 senatori su 50 e 42 deputati su 106. Tra quei reticenti, ci sono nomi di peso del Movimento: c’è Laura Bottici, questore al Senato; c’è Alessio Villarosa, capogruppo in carica alla Camera; c’è Arianna Spessotto, tesoriere a Montecitorio; c’è Vito Crimi, primo presidente dei senatori M5S. E tanti altri deputati: da Massimo Artini a Paola Carinelli, da Diego De Lorenzis a Giulia Grillo, da Manlio Di Stefano a Carla Ruocco. E altrettanti senatori da Francesco Campanella a Andrea Cioffi, da Carlo Martelli a Sara Paglini, da Daniela Donno a Maurizio Romani.
EPPURE, al di là delle preoccupazioni di Ivana Simeoni, non ci sarebbe nulla di cui preoccuparsi. Prima di arrivare in Parlamento, la stragrande maggioranza degli eletti Cinque Stelle guadagnava in un anno quello che ora vede (e in buona parte restituisce) nella busta paga di un mese. L’unico ad avere stipendi a tre zeri è Luigi Gaetti, epatologo, che nel 2012 ha incassato 107 mila 731 euro. Per il resto si parla di stipendi decisamente bassi: Riccardo Nuti, lavorando per 3HG, ha percepito 27.584 euro; Eleonora Bechis ha preso 15.635 da un condominio di Torino; Ivan Della Valle 26.839 dal consiglio regionale del Piemonte; Michele Dell’Orco 10.510 da Beppe Grillo.it   (non è chiaro a che titolo); Emanuele Scagliusi 909 euro dal centro turistico Paradisea di Polignano a mare; Giuseppe Vacciano 61.025 da Bankitalia. Pochissime le seconde case: sono quasi tutte abitazioni principali e porzioni di fabbricati ereditati. Giovanni Endrizzi ha un vigneto a Trento. Tra le auto, vanno forte le Panda e le Punto. Gli unici “lussi” se li concedono Tatiana Basilio (una Alfa Romeo Spider), Nicola Morra (una Mercedes), Gianluca Rizzo (due moto – una Yamaha XT600 e una Bmw R1150GS uno scooter e una Fiat Bravo), Vincenzo Santangelo (una Bmw, ma è dal 2001).
Praticamente nullo il patrimonio azionario e societario dei grillini. Federica Daga ha 5 azioni di Banca Etica, Maria Edera Spadoni 284 azioni di Easyjet. Quanto alle società, Ornella Bertorotta ha il 49 per cento della Bertorotta srl (attrezzature da lavoro); Nicola Morra la maggioranza di Cosmor srl, negozio di abbigliamento sportivo; Alessandro Di Battista ha il 30 per cento, ed è membro del consiglio di amministrazione , della Di.bi.tec. srl (commercio all’ingrosso di impianti idraulici, di riscaldamento e di condizionamento). Ultimo dato, le spese sostenute in campagna elettorale. Quasi tutti dichiarano zero. C’è chi invece ha segnato alla virgola le uscite per volantini, manifestazioni e propaganda. Sergio Puglia 2 mila euro, Maria Mussini 1.941 euro, Michela Montevecchi quasi 7 mila.

Corriere 16.10.13
Pd, via alla corsa Ed è già scontro sulla legge elettorale
I renziani temono «accelerazioni»
di Ernesto Menicucci


ROMA — Primo Gianni Cuperlo, poi Matteo Renzi, Gianni Pittella, Pippo Civati. Non è il risultato delle primarie del Pd per la segreteria, ma solo l’ordine sulla scheda elettorale. C’è chi fa scongiuri, chi scherza: «Io ultimo? Gli elettori ribalteranno il risultato», dice Civati. Il senso, comunque, è chiaro: la «macchina» organizzativa dei Democratici, verso la scelta dell’8 dicembre, è messa in moto. L’altra curiosità delle schede è che Renzi è l’unico a comparire col «suo» nome: Cuperlo è Giovanni «detto Gianni», Pittella all’anagrafe fa Giovanni Saverio Furio (anche lui «detto Gianni»), mentre «Pippo» Civati — in realtà — si chiama Giuseppe. Le tappe del percorso le illustrano il segretario Guglielmo Epifani e il responsabile amministrativo Davide Zoggia: congressi di circolo e assemblee provinciali (fino al 6 novembre), primo «giro» di votazioni nei circoli, liste per l’assemblea e infine il voto «aperto». Chi non è iscritto, deve versare due euro e sottoscrivere una carta d’intenti. Secondo Epifani «il clima è disteso, ma c’è anche una discussione profonda: il confronto congressuale è un momento insopprimibile di democrazia per i partiti veri». Chi vincerà «sarà il segretario di tutti» e i quattro in lizza «hanno tutti le stesse possibilità». Il segretario lancia anche un’iniziativa: «Sul mio sito ci sarà identifypd , strumento di ascolto e dialogo, aperto a chiunque abbia qualcosa da dire».
E il primo argomento in campo, nella sfida a quattro, è la riforma della legge elettorale. Da una parte Renzi, dall’altra Cuperlo, in mezzo gli altri. Sospetti, veleni, forzature: la posta in gioco è alta. Ieri, doppia riunione: una al partito, con Epifani e le varie «anime» (Luciano Violante, Luigi Zanda, Maurizio Migliavacca, Anna Finocchiaro, Matteo Richetti, Alfredo D’Attorre); l’altra a Palazzo Madama, al gruppo del Senato. Su un punto sembrerebbero tutti d’accordo: «Superare il Porcellum, confermare il bipolarismo, andare verso il doppio turno». Lo dicono i renziani, ma lo sostengono anche la Finocchiaro e Nicola Latorre: «Siamo d’accordo — dicono — sul fatto che il doppio turno, di lista o di coalizione, sia uno dei punti fermi per garantire governabilità». Il problema, casomai, sono i tempi.
Renzi e i suoi temono «accelerazioni» che portino «ad una deriva proporzionale», paventano possibili «accordi al ribasso col Pdl, leggine transitorie che sarebbero il pantano nel pantano». Rosa Maria Di Giorgi è chiara: «Se l’urgenza prevede accordi a tutti i costi, diciamo no. Non possiamo arrivare ad un compromesso peggiore del punto di partenza». E su questo pare che i renziani — negli incontri di ieri — abbiano segnato un punto. Ma perché tanta paura? Richetti, anche lui vicino al sindaco di Firenze, se la cava con una battuta: «Nel Pd ci sono 50 sfumature di grigio...». Ma anche Cuperlo fiuta un’aria strana. E chiede ad Epifani di «fissare una riunione tra i quattro candidati, per presentarci con una proposta comune sulla legge elettorale». Perché, ragionano i suoi uomini, «non è che Renzi può fare il puro e farci passare a noi per inciucioni...». È vero, la sfida per le primarie è partita.

Repubblica 16.10.13
La replica: così si blocca la riforma
Cuperlo: “Epifani convochi i 4 candidati al congresso, serve una linea unica”
Ma sulla legge elettorale è alta tensione nel Pd
I renziani: “Doppio turno senza trattare col Pdl”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — «Non ci impicchiamo al doppio turno, ma vogliamo un sistema elettorale che assicuri una vittoria certa il giorno dopo il voto, restituisca la scelta degli eletti ai cittadini e metta in salvo il bipolarismo ». Sono queste, le tre condizioni che Matteo Renzi considera imprescindibili. Ed è per questo, che la sua pattuglia in Parlamento ha di fatto fermato l’accordo verso cui si andava per cambiare il Porcellum. Un’intesa che prevedeva una soglia minima del 40-42 per cento per accedere al premio di maggioranza e che secondo i sostenitori del sindaco non farebbe che sancire il ritorno delle larghe intese.
Rischia di restare stritolata dalla lotta interna al Pd, la riforma della legge elettorale. Ieri le due anime si sono confrontate prima a largo del Nazareno, in una riunione ristretta indetta dal segretario Guglielmo Epifani, e poi all’assemblea del gruppo del Senato, aggiornata a domani. Il risultato è che sulla carta sono tutti d’accordo sul doppio turno, che consentirebbe anche nel caso di una soglia alta per accedere al premio di avere un solo vincitore. Non tutti, però, considerano quella ideale la strada percorribile. «Si può benissimo ripartire dalla Camera e votare una leggeche abbia tutti i requisiti che vogliamo spiega il renziano Matteo Richetti una volta al Senato si vedrà se il Pdl vorrà prendersi la responsabilità di dire no alla cancellazione del porcellum. Berlusconi sarà probabilmente già scomparso dalla scena, e ad Alfano non converrebbe dire no». L’ala sinistra del partito la pensa diversamente: sussurra che l’“ispanico” verso cui si va al Senato «ha protezioni alte, altissime». Sostiene che su quell’intesa pesi la benedizione di Giorgio Napolitano, secondo cui la strada per chiudere la partita passerebbe da un accordo col centrodestra.
Richetti non nasconde il suo scetticismo: «Perché dovremmo fidarci del Pdl? Anche l’ultima volta c’era un accordo, e l’hannofatto saltare». Quel che non dice, è che Renzi e i suoi non si fidano neanche del Pd: «Ci dicono di non preoccuparci, in realtà, qualcuno spera che così non sia e che la grande coalizione duri per sempre ». Non ci stanno, a passare per quelli che tenendo duro sul bipolarismo rischiano di mantenere in vita ilporcellum. Così come Gianni Cuperlo non ci sta a passare per un tifoso del proporzionale: «Se c’è da tenere alta la bandiera del doppio turno lo facciamo anche noi dicono i suoi è la nostra proposta da sempre». Per questo, lo sfidante di Renzi ha chiesto a Epifani di convocare tutti e 4 i candidati alla segreteria. Per scegliere una linea unica da seguire, e non fare della legge elettorale un’altra arma impropria nella battaglia delle primarie.
A occhio è troppo tardi. In questi giorni Renzi sta lavorando a una sua proposta, da lanciare a novembre e da far depositare dai deputati alla Camera. Non per caso, la correlatrice pd della legge al Senato, Doris Lo Moro, è irritata da frasi come quella di Latorre («La fretta non ci porti a un rimedio peggiore del male»). E protesta: «L’urgenza è stata sancita a livello istituzionale, noi non ci fermiamo». Sarà, ma a guardarlo oggi, “l’ispanico” sembra spacciato.

Repubblica 16.10.13
E nel partito esplode la guerra dei dossier
Scambi di accuse tra renziani e bersaniani su sprechi e inchieste
di G. C.


ROMA — Davide Faraone, renziano, lancia una freccia al curaro: «Lo sapete chi è il candidato di Cuperlo in quel di Enna alla segreteria provinciale? Vladimiro Crisafulli, quello che è stato fatto fuori dal Pd in nome delle liste pulite». Le primarie sono una battaglia senza esclusione di colpi. Ci sono gli attacchi politici, ma anche quelli personali. “Competition is competition”, esortava Prodi ai tempi della prima sfida. Le accuse, anche dure, stanno nelle cose. Sono i veleni però nel Pd a scorrere a fiumi.
Abbondano i dossier, impazzano mail, sms e fendenti su Twitter e Facebook. Di dossier ad esempio, ce n’è uno raccolto dagli anti renziani che racconta di sprechi di Renzi quando faceva il presidente della Provincia dal 2004 al 2009. Dieci giorni fa, quando il fascicolo aperto dallaProcura di Bologna, senza indagati, su un conto intestato all’ex segretario Pierluigi Bersani e alla sua segretaria Zoia Veronesi fu inviato alla Procura di Roma, i renziani si scatenarono. Pressing sulle redazioni perché ne dessero notizia; reprimenda del sindaco di Firenze contro i “suoi” inclini ai colpi bassi in una fase ancora di pre-riscaldamento. Però ad avvelenare i pozzi da un mese ci sono anche gli sms ai giornalistiche dicono esattamente: «Libero e il Giornale stanno facendo nero Renzi, rispolverando tutte le magagne che lo riguardano (e non è finita, ricordate il caso Lusi?). In altri tempi avreste chiesto con editoriali, pezzi, corsivi eccetera eccetera spiegazioni di tutto questo. Pretendere trasparenza e verità soprattutto da chi dice di volere candidarsi premier, credo sia un dovere».
E ieri anche la “Velina rossa”diPasqualino Laurito, foglio una volta dalemiano oggi soprattutto anti renziano, torna su Lusi, il tesoriere della Margherita arrestato per i soldi rubati al partito, e ora scarcerato. «Vorremmo chiedere all’ex tesoriere Lusi, chi voterebbe l’8 dicembre alle primarie del Pd»: un’allusione alle passate amicizie.
Alessandra Moretti, ex bersaniana, ha accusato in un’intervista aRepubblica proprio i bersaniani di veleni contro di lei. Su Twitter si è scatenato di tutto. Risposte durissime di Chiara Geloni, direttore di Youdem. Stefano Di Traglia, che di Bersani è stato il portavoce, sta per pubblicare insieme con Geloni il libro “Giorni bugiardi” sul passato prossimo: cioè elezioni di febbraio, Quirinale e primarie del 2012 per la premiership. Giorni ricchi di colpi sotto la cintola tra Bersani e Renzi. L’ex segretario, che poistravinse al ballottaggio, accusò il sindaco di Firenze di farsi finanziare la campagna da chi aveva il conto alle Cayman, cioè il finanziere Davide Serra. Che minacciò querela per calunnia e i toni furono abbassati. A seguire, un dossier denunciava tutti gli sprechi del partito “pesante” di Bersani: un capo della segreteria con uno stipendio di 90 mila euro all’anno, una pletora di responsabili dei forum, incarichi politici, alloggi a disposizione. Il tesoriere democratico Antonio Misiani minacciò querele. Il dossier fu pubblicato da Dagospia e anticipato da alcuni giornali. Il renziano Federico Gelli chiede sugli sms una smentita al segretario Epifani. Nico Stumpo, bersaniano, s’indigna: «Siamo fuori dalla graziadidio».
(g.c.)

l’Unità 16.10.13
Priebke, la rivolta di Albano Laziale
Funerali sospesi
Proteste contro i funerali dell’ex capitano Ss
Il feretro accolto con calci e pugni e al grido di «assassini»
Scontri tra agenti e manifestanti In serata il blitz di gruppi di estrema destra
di Jolanda Bufalini


La notizia arriva come un fulmine e si diffonde alla velocità di un flusso elettrico nei cavi ad alta tensione, fra i pendolari che tornano ad Albano dal lavoro, nelle case, al comando dei vigili urbani, nell’ufficio del sindaco Nicola Marini, fra le ragazze e i ragazzi che ricordano i nonni partigiani. Le esequie del comandante delle Ss saranno svolte in città nella cappella della confraternita di San Pio X. Una doppia offesa per la gente dei Castelli romani. Per loro storia antifascista e perché, ciò che non è giusto a Roma «non è giusto qui». Una folla si raduna spontanea davanti ai cancelli della villa dei lefebvriani, i religiosi anticonciliari che hanno offerto accoglienza al rito funebre in latino per il boia delle Fosse Ardeatine. Un cartello scritto a penna ricorda le 335 vittime della strage nazista.
Persino i rinforzi del le forze dell’ordine arrivano all’ultimo momento, sull’Appia bloccata dal traffico del rientro, a sirene spiegate i blindati di polizia e carabinieri sfrecciano intorno alle quattro. Alle 17 è annunciato il funerale, poco prima delle 17 e 30 arriva il feretro preceduto da forze di polizia e da auto con i vetri oscurati. È il momento di massima tensione, la folla si riversa contro il carro, che per un momento è ricoperto da una bandiera rossa. Chi può tira un calcio, un pugno, uno sputo. Si infila all’interno del territorio della confraternita Maurizio Boccaccio, l’estremista di destra di Militia, di Alano, che sembra essere stato l’ideatore della cerimonia.
Il sindaco è davanti ai cancelli con la fascia tricolore, «resto qui con la gente di Albano. Persone pacifiche e democratiche che si sentono offese e che protestano». Nicola Marini, alla notizia che la cerimonia funebre si sarebbe svolta ad Albano, ha emesso una ordinanza per impedire il passaggio del feretro nel territorio comunale. Il prefetto Pecoraro lo smentisce con una contro-ordinanza per imporre la cerimonia. Quella dei lefevriani, si spiega nell’ordinanza, è l’unica struttura privata vicino Roma che ha dato la propria disponibilità. E tuttavia, spiega il sindaco, «nessuno mi ha comunicato ciò che stava avvenendo». L’impressione è che si tratti di decisioni prese in alto loco, molto al di sopra dei poteri del sindaco e dello stesso prefetto. Le prime informazioni, il sindaco di Albano, le ha avute lunedì sera dai giornalisti, che gli hanno telefonato per avere conferma delle indiscrezioni che circolavano. Ma il prefetto ha avvertito il sindaco solo due ore prima della cerimonia.
Accanto a Marini arriva il sindaco di Genzano, Flavio Gabbrini. «Quello che sta avvenendo», aggiunge il sindaco di Albano Marini, «offende non solo Albano ma tutto il territorio dei Castelli, che hanno dato il loro contributo di sacrifici, con il bombardamento, con la lotta partigiana, alle Fosse Ardeatine». Si diffonde la notizia che la salma non resterà ad Albano. Sarà trasferita a Roma, a Prima Porta, cremata, consegnata ai familiari. Ma non sarà così.
Davanti ai cancelli della villa dei religiosi la tensione resta alta per ore, quando la polizia preme per allontanare la gente e un funzionario con il megafono minaccia: «Questa non è una manifestazione autorizzata», dalla folla rispondono: «Questo non è un funerale autorizzato». Il presidente della Anpi locale, Ennio Moriggi, si sente male e viene portato in ambulanza all’ospedale. Un prete viene strattonato. La rabbia è tanta: «Questi preti d’ora in poi mangeranno l’erbetta del giardino», afferma una signora dall’aria tranquilla.
In fondo alla strada, oltre i cordoni delle forze dell’ordine, c’e un gruppetto di fascisti, con caschi e cappucci. Troppo pochi per affrontare la folla, altri, una ventina di nazisti, sono stati fermati alla stazione.
Anche fra gli antifascisti c’e chi arriva da Roma, come Eugenio Perugia, figlio di Lello, il Cesare di cui parla Primo Levi ne «La tregua», tutti i fratelli Perugia sono finiti ad Auschwitz, tre non tornarono: Giovanni, Mario, Settimio. «Mia nonna racconta Eugenio Emma Dell’Ariccia fu mandata da De Gasperi all’Onu con papà Cervi, per perorare uno sconto sui risarcimenti di guerra».
IL BLITZ DEGLI ESTREMISTI
Cala la notte la folla non si muove e mantiene l’assedio ai lefevriani e al feretro. Poi il colpo di scena. La cerimonia funebre a porte chiuse e riservata ad amici e parenti, come aveva spiegato il legale di Priebke Paolo Giachini, che poi rimetterà il mandato ai familiari dell’ex capo delle Ss viene sospesa dal sacerdote dopo che il prefetto di Roma vieta l’ingresso nella Cappella ad un gruppo di appartenenti all’estrema destra. Qualche minuto dopo prende corpo l’ipotesi di un annullamento della cerimonia funebre: il sacerdote celebrante si sarebbe tolto i paramenti ed avrebbe lasciato il luogo della cerimonia. Alle 20 e 25 arriva la notizia la notizia che la salma di Priebke per resterà ad Albano Laziale. Alle 21 e 30 alcuni manifestanti di estrema destra tentano di sfondare il cordone di polizia. La notte è lunga.

l’Unità 16.10.13
Il prefetto Pecoraro nella bufera
«Un grave errore»
di Marco Bucciantini


C’è chi chiede le dimissioni, come il Movimento Cinquestelle e Sel, c’è chi si limita allo sconcerto (il sindaco di Albano), c’è chi si dichiara «allibito e scandalizzato», come il responsabile sicurezza del Pd, il deputato Emanuele Fiano. Altri parlano di «grave errore» e di «scelta inopportuna». In breve: il prefetto Giuseppe Pecoraro è nella bufera dopo la forzatura nei rapporti istituzionali, che si è consumata nel pomeriggio di ieri, quando il sindaco di Albano Laziale, Nicola Marini, aveva firmato l’ordinanza che vietava il passaggio della salma di Erich Priebke sul territorio del comune dei Castelli, provvedimento annullato dalla contro-ordinanza del prefetto di Roma.
La decisione del rappresentante del governo sul territorio, custode dell’ordine pubblico, innesca un pomeriggio di tensione, che a tarda sera non risolve nemmeno il problema principale, che con puntuale realismo il prefetto aveva scaricato in periferia, sui colli, lontano dalla Capitale: Pecoraro deve aver creduto al colpo di fortuna, quando è arrivata la richiesta dei negazionisti lefebvriani. Così ha assecondato questa soluzione probabilmente apparecchiata da uno scellerato patto fra gli ultra tradizionalisti religiosi e i settori dell’estrema destra romana.
Il cadavere del boia nazista, ideatore e autore della fucilazione di 355 persone alle antiche cave di pozzolana nei pressi della via Ardeatina, mai pentito di quel fatto, di quella divisa, di quella follia, capace di lasciare un testamento video in cui riduce alla farsa l’Olocausto («le camere a gas erano solo cucine»), è stato rifiutato da tutti. Non lo ha voluto il suo Paese d’origine la Germania «qui seppelliamo solo i residenti», hanno liquidato la storia gli amministratori di Hennigsdorf, cittadina a nord di Berlino, dove l’ex Ss è nato cento anni fa. Non lo ha voluto l’Argentina («mai», semplicemente). Non lo ha reclamato il figlio Jorge, che da Bariloche, villaggio sulle Ande, non ha sbloccato la situazione (poteva farlo) né ha indicato una soluzione, se non l’indegna provocazione: «Portatelo in Israele». Non può tenerlo Roma, e il sindaco Ignazio Marino è stato chiaro, netto, coerente: né funerali né sepoltura.
I NIPOTINI DI LEFEBVRE
La disponibilità degli zelanti nipotini di Marcel Lefebvre ha appaiato quella del comune messinese di Fondachelli-Fantina, due borgate che sommano mille anime, nella vallata fra i monti Peloritani e i Nebrodi: è sembrata al prefetto una mossa mediatica e poco praticabile del sindaco, Marco Antonio Pettinato, «lo tumuliamo qui, per umanità, non ho pregiudizi», ha detto proprio così: «pregiudizi», come se la verità storica su Priebke fosse un preconcetto o una superstizione. Una sepoltura in questo cantuccio avrebbe creato una sorta di Predappio del sud, con traffico di simpatizzanti forse anche più indigesto: un santuario per i neo nazisti.
Pecoraro ha scelto si risolvere un problema alla volta: prima la cerimonia nella cappella di Albano, poi magari in nottata il trasferimento della salma al cimitero di Prima Porta, sulla Flaminia, per la cremazione. Sulle ceneri c’era tempo per decidere. Accogliere la richiesta dei lefebvriani è sembrato cinico agli abitanti del paese che assieme a Castel Gandolfo si affaccia sul delizioso lago. È sembrato a loro, alla gente che poi è andata in strada a cantare Bella Ciao che si volesse dimenticare per esempio la storia del partigiano ebreo Marco Moscati, collaboratore di Pino Levi Cavaglione, il comandante delle Bande dei Castelli. Nelle pinete, al riparo dai nazisti, lo chamavano «Marchello», faceva il commerciante ambulante, fu catturato e portato con gli altri 354 alle cave ardeatine: all’epoca dell'eccidio aveva 27 anni. E quelle cave diventarono «fosse». I resti del ragazzo furono identificati nel 2011, 67 anni dopo la fucilazione e la sepoltura senza funerali, in un buco riempito di terra.
Un calcolo si è detto cinico e realista, che non poteva riparare il prefetto Pecoraro dalla critiche ma che doveva (questo il gioco) scrivere la parola fine a questa imbarazzante e per certi versi irrisolvibile vicenda. Pecoraro si è scottato all’incendio che lui stesso ha appiccato: «Siamo allibiti e scandalizzati perché si è permesso in un comune italiano che non voleva» e nonostante il divieto del sindaco, «a un pullman di neonazisti di recarsi lì, a celebrare il maiale Priebke». Questo è Fiano, che non ci gira intorno.
Ma a tarda sera il conto è questo, ed è carissimo: un contenzioso istituzionale aperto, con la negazione di una scelta territoriale ponderata da un sindaco sensibile alla comunità che amministra. Un problema di ordine pubblico che da strisciante è diventato clamoroso, pericoloso. Un funerale non ancora celebrato e un cadavere ancora non seppellito. E una giornata insopportabile per il buon senso di molte persone.

l’Unità 16.10.13
La «regia» occulta di Boccacci dietro il rito lefebvriano
Il fondatore di Movimento Politico e Militia vive ad Albano e ieri era in prima fila
di Massimo Solani


Non è un caso, non può esserlo, che per sbloccare il lungo braccio di ferro sui funerali di Erich Priebke si è scelto proprio Albano, città di residenza di Maurizio Boccaci fondatore e leader dell’organizzazione neonazista «Militia». «Il nostro onore si chiama fedeltà. Libertà per Priebke. A te, oggi prigioniero di miserabili rinnegati, rinnoviamo il giuramento di chi ancora sa lottare». Firmato: «I camerati». Era il dicembre del 1995 e Roma si svegliò tappezzata da mille manifesti inneggianti ad Erich Priebke, appena estradato in Italia e già diventato un simbolo per l’estrema destra antisemita italiana. Fra i fermati durante l’attacchinaggio di quella notte anche Maurizio Boccacci. Un nome evocativo, uno dei cattivi maestri del neofascismo italiano, fondatore di quel Movimento Politico (sciolto nel 1993 con il decreto Mancino all’indomani dell’affissione di stelle di David gialle sui negozi di proprietari ebrei della Capitale e dopo gli arresti dell’«operazione Runa» contro l’estremismo di destra romano) che negli anni è stato palestra per una larga fetta della galassia nera della Capitale. Da Gianluca Iannone, poi fondatore di Casa Pound, a Gianluca Castellino poi leader del «Popolo di Roma» l’organizzazione «identitaria» vicina all’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno confluita poi ne La Destra di Francesco Storace.
Una storia nera, quella di Boccacci, di cui dopo i passaggi in Base Autonoma e Fiamma Tricolore, si erano perse le tracce e che invece, come un fiume carsico, è tornata alla luce davanti al cadavere di Erich Priebke. Non sono bastati gli arresti, l’ultimo nel dicembre 2011 quando il Ros colpì duramente l’organizzazione Militia, ultima creatura neonazista di Boccaci, che aveva tappezzato per mesi Roma di manifesti fascisti e antisemiti contro il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici e contro il sindaco Alemanno. Nei piani, secondo l’accusa del pm Tescaroli, anche il progetto di un attentato contro lo stesso Pacifici. Non sono bastate le condanne, come quella per gli incidenti del 1994 fra ultras giallorossi e polizia a Brescia (venne accoltellato anche un vicequestore) o, l’ultima, ad un anno di reclusione per ricostituzione del partito fascista nel novembre 2012.
Non può essere un caso, si diceva, se alla fine per sbloccare lo stallo sui funerali di Priebke si sia scelto Albano e la Confraternita lefebvriana San Pio X.
Con Militia, infatti, parte dei seguaci del vescovo francese Marcel Lefebvre, scomunicati da Giovanni Paolo II e poi «riavvincati» (ma senza successo) a Roma da Benedetto XVI, condividono l’antisemitismo e il negazionismo. «Le camere a gas non sono mai esistite, sono tutte bugie. Non un solo ebreo c’è stato ucciso», una delle tesi sostenute dal vescovo Richard Williamson, uno dei quattro ordinati da Lefebvre.
E sono in molti, in queste ore, a raccontare a microfoni spenti che la disponibilità della confraternita di Albano sia arrivata proprio grazie all’interessamento di Boccacci. «Priebke era un cristiano cattolico, un innocente dietro le sbarre», tuonava ieri don Floriano Abrahamowicz, prete lefebvriano di Treviso che in passato ebbe a spiegare che «le camere a gas erano usate per disinfettare gli ebrei». Frasi che gli valsero l’espulsione dalla Confraternita. «È uno scandalo come è stato trattato in Italia ha proseguito è stato perseguitato mentre si accolgono in modo dignitoso gli immigrati a Lampedusa. È una vergogna». «Priebke semplicemente ha applicato la legge internazionale marziale, non lo condanno assolutamente ha aggiunto Non è un criminale. I criminali sono stati i partigiani che hanno fatto saltare i ragazzi in via Rasella».
Per Boccacci, oggi cinquantaseienne, Priebke era più che un simbolo. Non a caso era stato fermato sotto la casa del boia anche il 29 luglio scorso, giorno del centesimo compleanno dell’ex comandante delle SS. Ed erano stati proprio i bravi ragazzi di MIlitia a presentarsi sotto la casa di Boccea per portare fiori sul cadavere. «Entreremo ai funerali perché Priebke fa parte del nostro mondo spiegava ieri oggi è un giorno in cui si rispetta la morte di una persona poi dalla prossima settimana Dio vede e provvede». E a chi gli chiedeva il senso di quella frase Boccacci ha spiegato: «Significa che Riccardo Pacifici è sempre nei nostri cuori». Quello stesso Pacifici di cui Boccacci, intercettato, diceva «trasformo un porco in un bell’angelo».

il Fatto 16.10.13
Albano tra rabbia, fede e ultrà
Lefebvriani e “Militia” inscenano gli “onori al capitano”
La piazza canta “Bella ciao”
di Tommaso Rodano e Nello Trocchia


Albano Laziale
Attorno al corpo del boia si è consumato lo scontro tra i nuovi fascisti, una trentina, e la comunità di Albano al grido di “Piazzale Loreto”. Alla fine i funerali del carnefice delle Fosse Ardeatine, l'eccidio di 335 innocenti consumato a Roma nel 1944 dai nazisti, si sono trasformati in un raduno di sodali e neo-nazi. In tarda serata, il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro ha vietato l'accesso al rito privato, destinato a parenti e amici, agli estremisti di destra. Estremisti che ormai, però, già si erano radunati per partecipare alle esequie. Dopo i dinieghi e i rifiuti incrociati, la celebrazione delle esequie di Erich Priebke è stata spostata ad Albano Laziale, cittadina in provincia di Roma che si è subito trasformata in meta di nostalgici.
In piazza c'era Militia Roma con il suo leader Maurizio Boccacci. In passato è stato fermato mentre affiggeva manifesti con la scritta: “Liberate Priebke”, il suo movimento politico di destra estrema fu disciolto nel 1993 grazie alla legge Mancino.
L'ex Ss, morto venerdì scorso a 100 anni, condannato all'ergastolo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, ha lasciato anche un testamento choc nel quale ha negato l'Olocausto e le camere a gas.
I CAMERATI DEL TERZO millennio, però, non hanno perso l'occasione per onorare il capitano boia. In tutto una trentina. In piazza anche Giuliano Castellino che già, nei giorni scorsi, su facebook aveva salutato Priebke con un classico di casa: “Onore al capitano, un leone che ha attraversato la storia”. Castellino, già nella Destra di Storace, e ora in un gruppuscolo dell'estremismo nero, in strada ha intonato cori dei tempi andati. La polizia ha separato le teste rasate dal civile popolo di Albano. Una comunità che ha provato a ricacciare l'incubo del boia in casa spintonando l'auto di Priebke quando è giunta davanti al cancello dell'istituto San Pio X dei padri lefebvriani che si sono resi disponibili alla celebrazione. Una decisione, quella di svolgere il rito funebre ad Albano, contro la quale si è espresso, inutilmente, il sindaco Nicola Marini.
Il popolo di Albano ha risposto alla decisione del prefetto di Roma scendendo in piazza e intonando “Bella Ciao”. La rabbia è condensata nelle parole di Marisa, proprietaria di un bar in zona: “Io ero piccola, ma ricordo l'orrore delle Fosse Ardeatine, il boia dovevano buttarlo in mezzo ai rifiuti”. L'associazione nazionale partigiani ricorda i fasti di Albano: “Questo comune è medaglia d'argento al valore della Resistenza. Recentemente una nostra sezione Anpi è stata dedicata a Marco Moscati, uno dei martiri delle Fosse Ardeatine”. Albano Laziale non vuole il corpo del boia che cerca ancora rito e sepoltura.

il Fatto 16.10.13
I 5 giorni che sconvolsero la memoria di Roma
Da venerdì la salma del boia delle Ardeatine imbarazza l’Italia
Una bara in giro per la città e funerali blindati
Mistero sulla sepoltura
di Enrico Fierro


Una bara che gira per tutta Roma, imbocca il Gra e finisce ai Castelli. Un carro funebre superscortato da sei macchine. Un morto che pesa su un Paese impotente e incapace di fare i conti con la sua storia e le sue tragedie. Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, umilia ancora l’Italia. La vicenda dei suoi funerali è surreale, degna di una commedia horror, se la storia non fosse terribilmente seria e se di mezzo non ci fosse lo strazio di quei 335 morti, militari e civili, uccisi come cani alle Cave Ardeatine il 24 marzo del ‘44. Massacrati senza pietà dal bel capitano, come si definiva Priebke quando da giovane si ammirava allo specchio nella sua divisa di Ss, l’uomo che mai nella sua interminabile esistenza ha mostrato un segno, anche lieve, di pentimento verso le sue vittime. Perché per lui, il capitano, gli italiani erano bestie, esseri inferiori al pari degli odiati giudei da rastrellare nel ghetto e nelle case della Roma popolare.
Priebke muore venerdì al Policlinico Gemelli, chiude gli occhi all’età di cent’anni, e la sua morte diventa di colpo un caso nazionale. Politico, come tutto in questo Paese eternamente sull’orlo di una crisi di nervi, ma anche di coscienze che si interrogano e si indignano. Torna un passato che non è mai andato via. Lievita la polemica. Priebke ha diritto a funerali e a una degna sepoltura. Siamo un paese cristiano. L’Italia non dimentica: mai funerali a Roma, città martire e medaglia d’oro della Resistenza. Il dibattito si accende, la tv e i talk godono. Lunedì mattina il corpo del boia delle Ardeatine è all’obitorio del Gemelli, la bara pronta a partire. Il Policlinico sorvegliato come Forte Knox.
FUORI C'È il carro funebre e le macchine pronte a scortarlo. Per dove non si sa, l’avvocato dell’ufficiale nazista cerca di depistare giornalisti e fotografi. Ore 14:26, il mistero dei funerali viene svelato da Nicola Marini, sindaco di Albano Laziale, città dei Castelli, che tenta di minimizzare: “Non ci è arrivata alcuna richiesta”. I funerali si faranno nella sua città, e Priebke sarà cremato a Roma. Lo lascia intendere l’avvocato del-l’ufficiale nazista. Tanto basta per suscitare le ire del primo cittadino di Albano. Alle 15:26 le agenzie di stampa battono la notizia di una sua ordinanza per vietare i funerali sul suo territorio. Intanto la bara, sorvegliata a vista dalla polizia, è ancora all’obitorio. E ad Albano la tensione sale. Ci sono gli antifascisti che non hanno dimenticato, ma anche neonazisti tedeschi e fascisti italiani. Braccia tese e “boia chi molla”.
ALLE 15:54 le agenzie rilanciano una dichiarazione del sindaco: “Mai firmato ordinanze”.
Alle 16:00, nuovo lancio: il sindaco ha firmato l’ordinanza. Basta? È sufficiente per alimentare un fuoco già alto? No, perché venti minuti dopo interviene il prefetto di Roma e revoca l’ordinanza del sindaco. Intanto la bara col corteo di auto di scorta è partita dal Policlinico Gemelli. Le spoglie di Priebke attraversano Roma verso sud. Passano per quei quartieri una volta popolari dove in quegli anni bui vivevano molti uomini e giovani massacrati alle Cave Ardeatine. Il resto è la cronaca di un funerale che non doveva mai essere celebrato. Di sputi sulla macchina che porta il corpo del boia, preti senza pietà con la testa annebbiata da incomprensibili revisionismi religiosi e storici. E scontri che durano fino a sera. Dove sarà sepolto Priebke? Non si sa. Non lo vuole nessuno. Né i suoi concittadini di Hennigsdorf, né la Germania, neppure a Pomezia, dove c’è il cimitero dei militari tedeschi morti nella Seconda guerra mondiale. E allora seppellitelo in Israele, la proposta sguaiata, volgare, offensiva, del figlio Jorge. No, lo vogliamo noi, dice il sindaco di Fondachelli Fantina, minuscolo paese siciliano, alla ricerca di un pizzico di notorietà. Fino a tarda sera la sala del convento dei lefebvriani di Albano è assediata da manifestanti. Il rito tarda a iniziare. La bara è in una stanza. Lontano da Albano, al cimitero di Prima Porta, periferia nord di Roma, i forni crematori sono tenuti aperti “oltre il normale orario di chiusura”, annuncia un comunicato. Forse Erich Priebke sarà cremato. Che fine faranno le sue ceneri? Spargetele in mare, propongono in tanti. Ma lontano da Roma, lontano dalle Fosse Ardeatine.

l’Unità 16.10.13
La provocazione e la ribellione
di Vittorio Emiliani


IL CRIMINALE NAZISTA MAI PENTITO, ERICH PRIEBKE, STAVA PER AVERE, DI STRAFORO, I SUOI FUNERALI AD ALBANO LAZIALE mentre fuori dalla cappella di una comunità lefebvriana (fuori dalla Chiesa cattolica), un gruppo di camerati neofascisti inscenava il solito penoso rito di saluti romani e di grida inneggianti al nazifascismo. La consueta, violenta, squallida volontà di sopraffazione. Ma la gente di Albano Laziale si è infuriata per quel sotterfugio autorizzato, di fatto, dal prefetto di Roma. Sarebbe stato molto più dignitoso il funerale in casa, in forma privata, che il Vicariato, inascoltato dal legale di Priebke, aveva saggiamente proposto. Perché il rito funebre non si nega a nessuno, neppure al peggiore degli uomini (e Priebke è stato fra i peggiori). Ma attorno ad esso ogni manifestazione di solidarietà politica, di esaltazione del nazifascismo e dei suoi orrori andava scongiurata, con lucida forza. E questo non è avvenuto ad Albano Laziale, contro la volontà dei suoi abitanti.
Era dunque sensata e pienamente comprensibile l’opposizione del sindaco di quel Comune medaglia d’argento della Resistenza, ad un funerale pubblico che inevitabilmente avrebbe richiamato i soliti fanatici di estrema destra. I fatti hanno dimostrato che aveva ragione. Non così il prefetto di Roma che quell’ordinanza ha annullato, in pochi minuti. Atteggiamento grave. Non possiamo dimenticare infatti che questo contestato rito pubblico è caduto alla vigilia di quel 16 ottobre il cui ricordo sanguina ancora nel ghetto di Roma e in tutta Roma. Uno dei rastrellamenti più spietati, casa per casa, scala per scala, dopo aver preteso con l’inganno più crudele tutto l’oro che i romani ebrei avevano potuto raccogliere. Bisognerebbe distribuire, almeno nelle scuole superiori, lo straordinario racconto di Giacomo Debenedetti 16 ottobre 1943, un’autentica, straziante tragedia corale. Bisognerebbe farne pubblica lettura ad ogni anniversario, nel ghetto, nei rioni, ovunque.
Questa deve essere la nostra reazione alle speculazioni che si sono imbastite sulla scomparsa e sui funerali di un nazista fra i più spietati e fanatici. È significativo che nessun Paese voglia le spoglie mortali di Priebke: non l’Argentina dove si era rifugiato, non la Germania dov’era nato e cresciuto nel culto di Hitler, non altri Paesi. Se, dopo il funerale (ieri è stato sospeso), sarà cremato, meglio che le ceneri vengano disperse nel vento. Abbiamo già troppi sacrari del fascismo nel nostro Paese, la tomba, cupa come poche, di Benito Mussolini a Predappio meta di sgangherate carovane di nostalgici (condannate dagli stessi figli finché ci furono, erano persone riservate). Stavamo per avere ad Affile un sacrario del generale Graziani che seminò stragi in Africa e firmò i famigerati bandi di Salò. Ma soprattutto raccontiamo ai più giovani la vera storia del nazismo e del fascismo, fino al terribile biennio 1943-45. Sarà il modo migliore per seppellire davvero, sotto il peso inesorabile della storia, Priebke e i suoi camerati più feroci.

l’Unità 16.10.13
La Legge
Accordo in Senato: sì al reato di negazionismo
Gli unici a votare contro sono stati Carlo Giovanardi (Pdl) e Enrico Buemi (Psi)


Accordo bipartisan in commissione Giustizia al Senato sul ddl per il contrasto del negazionismo. Con un emendamento firmato da tutti i gruppi, viene considerata apologia di reato la negazione dell'esistenza di crimini di genocidio o contro l'umanità e si aumenta della metà la pena prevista dal codice penale. «Fuori dei casi di cui all’articolo 302, se l'istigazione o l'apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo, crimini di genocidio si legge nel testo che modifica l'articolo 414 del codice penale crimini contro l'umanita' o crimini di guerra, la pena e' aumentata della meta'. La stessa pena si applica a chi nega l'esistenza di criminidi genocidio o contro l'umanità». L’emendamento è firmato da Pd,Pdl,Scelta Civica, M5S e Sel.
L’emendamento modifica così l’articolo 1 del ddl all'esame della commissione Giustizia del Senato che non interveniva direttamente sul codice penale ma modificava la legge del 13 ottobre 1975 in materia di contrasto e repressione di crimini di genocidio, contro l’umanità e di guerra, modifica, viene spiegato, considerata più fumosa e meno chiara dell'attuale, con il rischio di prestarsi a polemiche

La Stampa 16.10.13
Il nazista dove lo metto?
di Massimo Gramellini


Persone banali avrebbero celebrato i funerali di Priebke di soppiatto, nella cappella dell’ospedale in cui era stata composta la salma della SS centenaria. Avrebbero cremato il cadavere, disperse le ceneri in mare, come gli americani fecero con quelle di Bin Laden, e resa pubblica la notizia a cose fatte. Ma in Italia le persone banali si trovano esiliate in tinello davanti a un bicchiere di analgesico. Le stanze delle decisioni pullulano di creature originali che disprezzano la noiosa legge di causa ed effetto, in base alla quale il modo migliore per disinnescare un barilotto di dinamite non consiste nel bombardarlo. Ecco allora l’avvocato del defunto annunciare urbe et orbi (soprattutto orbi) l’orario e il luogo delle esequie, con sufficiente anticipo per permettere a nazifascisti e partigiani di non mancare all’appuntamento. E appena il sindaco di Albano Laziale, l’unico a essere visitato in tutta la giornata da un attacco di intelligenza, cerca di impedire l’incendiario consesso, viene subito zittito dall’illustre signor prefetto. Si proceda dunque all’arrivo scortato della salma nella chiesa dei padri fascio-lefebvriani riabilitati da Ratzinger, con il contorno inesorabile di risse, minacce, svenimenti, monetine e con il finale surreale di un funerale sospeso per invasione di campo e di una bara che continua a girare per l’Italia in cerca di oblio.
Prima ancora che la decenza, a suggerire di far sparire i resti di Priebke in silenzio era il buonsenso. Ma il buonsenso prevede che qualcuno si prenda la responsabilità di usarlo.

Repubblica 16.10.13
Seppellire Priebke ma ricordando tutto
di Barbara Spinelli


TUTTO sta a non dimenticare chi è stato, a seppellirlo nel silenzio, a fuggire le cerimonie vistose; ma seppellirlo si deve. È quanto si può dire su Erich Priebke, l’ufficiale delle SS che sotto gli ordini di Kappler, capo della Gestapo a Roma, si rese colpevole dei 335 morti delle Fosse Ardeatine.
Tutto sta a non prendere il suo colore,a non somigliargli: a fare l’impossibile – mescolare pietà e orrore – perché l’impossibile e il difficile sono sorte dell’uomo che pensa, conosce se stesso, non segue l’istinto. I vocabolari che usiamo sono colmi di emozione, di sdegno, anche di argomenti etico-politici, ma non hanno nulla a vedere col dilemma dei giorni scorsi: che fare, del corpo di chi fu tuo assassino? Come rispondere alla provocazione inaudita che è stata tutta la sua esistenza, visto che Priebke fino all’ultimo non s’è pentito, giungendo sino a chiamare «cucine » le camere a gas, nel testamento?
In mezzo a tanta ira meglio probabilmente non usare parole così intime, e abissali: pietà, amore. E forse aveva ragione Nietzsche quando ci riteneva capaci, sì, di amore del prossimo, «cioè di noi stessi»: non però dell’incommensurabile lontano, della radicale alterità. Forse amore e pietà sono parole troppo calde, mentre qui ci vuole qualcosa che trattenga l’istinto, che lotti contro la primordiale inclinazione naturale, che sia più asciutta e più imperiosa perfino del senso di giustizia. Meglio la parolaLegge. Che non necessariamente coincide con il giusto,o placa il dolore delle vittime.
Seppellire il nemico – come salvare il naufrago, o soccorrere la vedova e l’orfano: l’imperativo nasce da una cultura plurimillenaria, che oltrepassa l’ordine giuridico. Non a caso Antigone dà a quest’imperativo il nome di «legge non scritta», impartita dagli Dèi prescindendo dalle leggi della pòlis. Rispettare il corpo non più padrone di sé: dai tempi di Sofocle, prima che apparisse Cristo, è norma inviolabile. Il corpo stesso è pura incandescenza: non inumato esala miasma, contagio. Ricordiamo che nòmos, legge, è in origine la porzione di terra distribuita e assegnata. Compresa la porzione della tua tomba.
Tumulare il nemico non è amnesia, né amnistia. Il solo sospettarlo ci rende infinitamente sospetti: vuol dire che tumulare e scordare tendono a congiungersi, sono nelle nostre corde: anche questo è orrore. La memoria dei misfatti sopravvive alla morte: sinistro è dubitarne. Oggi Roma celebra il 70° anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto, e non commemoreremo meglio se avremo vietato a Priebke la sua porzione di terra. Se l’avremo consegnato ai lefebvriani della Confraternita San Pio X di Albano Laziale, che l’useranno politicamente. Se il sindaco di Albano avrà resistito al passaggio della salma in città, e il carro funebre sarà stato assaltato. Nulla è cancellato di quel che Priebke fece, e mai rinnegò. È normale (dunque normacondivisa) che la città di Roma tremi, e fatichi a seppellire chi disseminò morti ignorando ogni legge morale. Ma è norma anche dire a se stessi: «tra noi non così», la tomba gli spetta proprio perché lui la negò.
Colpisce il decreto severo del vicariato, che regge la Diocesi romana: nessun funerale in chiese o cimiteri; solo preghiere in casa del defunto. È previsto dal rito delle esequie, è nel diritto canonico, e gli italiani si sentono capiti. Ma non è scelta risolutiva, perché riguarda il funerale, non il seppellimento. I lefebvriani ne hanno profittato. Perché non è all’altezza – vertiginosa, labirintica – della domanda di Antigone: che si fa del corpo nemico? E cos’è questa cosa che non parla più e tuttaviadice:il corpo? È adeguato allalegge non scritta,non restituirlo alla terra? La casistica cattolica è conforme agli atti di Gesù?
Né possiamo sorvolare lo scabroso, nascosto nelle pieghe dei decreti vicariali: lo sconcertante diniego opposto a altre sepolture, su cui varrà la pena meditare. Nel 2006, la stessa diocesi negò i funerali a Welby, reo di eutanasia e suicidio. Fu sorda alla domanda della moglie, credente e praticante. Il rifiuto dei funerali di Priebke è forse difendibile, ma se non s’accompagna a un ravvedimento su Welby tutto si confonde e pericola. In qualche modo i due dinieghi producono un grumo atroce, accomunano. La Chiesa non potrà uscirne se non con una conversione, separando Welby da Priebke. Che si faccia ammenda e la sua morte sia dopo sette anni onorata. Che siano sconfessate le parole di Ruini, allora vicario di Roma: la Chiesa poteva concedere il rito religioso, purché si potesse dire che erano mancati nel ribelle «piena avvertenza e deliberato consenso». Lo ha rammentato Adriano Prosperi domenica su Repubblica: «Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina». Il vicariato apparve a tanti, cattolici e non, «gelidamente crudele». Tanto più la scelta oggi, mischiata com’è col caso Welby.
C’è chi ha chiesto, per non sperdere il dolore inflitto da Priebke, che il corpo venisse cremato d’imperio e le ceneri gettate non in una fossa, ma «in una fogna». Questo èprendere il colore dei morti, mimetizzarsi col male. Questo è dare tutto il potere alle Erinni, che lavano il sangue col sangue: solo digiusta vendetta e cruenza è fatto il loro mondo. Perché ancora non regnano gli Dèi che prescrivono leggi più forti del diritto del sangue, e le Erinni ancora non sono tramutate. Son tramutate non allontanando il ricordo dell’ira, ma mettendole al centro della Città, nell’Areopago, a futura memoria, e chiamandole non più Vendicatrici ma Benevole, Eumenidi.
Per questo i vocabolari vanno usati con timore e pudore: tanto bollente è la traccia lasciata dalle Furie. Forse le parole più misurate sono state dette da chi ha proposto di seppellire Priebke fuori dalle mura di Roma. Oppure da quel veterano inglese, Harry Shindler: che «il boia Priebke venga seppellito nel cimitero tedesco di Pomezia. Sarà in compagnia dei suoi pari, visto che in quel cimitero ci sono soldati tedeschi che presero parte a parecchie stragi in Italia, come quella di Marzabotto. Sarà in buona compagnia».
Ricordo personalmente quel cimitero. Nei primi ‘60, gli allievi della scuola tedesca a Roma erano condotti regolarmente alla necropoli. Ancora non era cominciata lapolitica della memoriatedesca. Ne ho ricordo perché frequentavo quella scuola. In due, ci rifiutavamo di andare e s’accendevano discussioni. Non mi offendeva che i compagni ci andassero, ma comeci andavano: senza pensarci, dato che «era nel programma». Penso che lì il corpo di Priebke avrebbe il suo posto. Avrebbe il suo posto anche in Germania, forse: nella città natale di Henningsdorf. Su Wikipedia, Priebke è annoverato tra «i figli e le figlie della città». Sarebbe appropriato e decente che Henningsdorf si dicesse pronta a accogliere la salma, prima o poi. Senza attendere che l’Italia lo chieda. Quale che sia la soluzione, una cosa pare chiara: la crudeltà con cui Priebke infierì non giustifica che noi s’infierisca sulle sue spoglie. Non è nemmeno la legge del taglione, perché occhio per occhio ha un significato preciso e non c’è modo di pareggiare i suoi misfatti. Né è questione di perdonare. Solo gli uccisi potrebbero.
Al tempo stesso non possiamo dimenticare chi siamo, oggi. La nostra storia recente non edifica. Il corpo di Saddam Hussein mostrato in TV quando fu estratto dal buco dov’era nascosto fu un abominio. Così quello di Bin Laden gettato in mare e rimosso. E Gheddafi linciato sotto gli occhi plaudenti dell’occidente. Fermiamoci un momento, prima di esibire certezze morali. Restare umani non è cosa facile. Perché nell’umano abita con tutta naturalezza il disumano delle Erinni, e perché Priebke, come nel racconto di Borges, è «simbolo di una detestata zona» della nostra anima. 

l’Unità 16.10.13
16 ottobre 1943. La cicatrice di Roma
Il rastrellamento di 1024 ebrei 70 anni fa Dai lager ritornarono solo in sedici
La memoria di quanto accadde è rimasta viva, palpitante e drammatica grazie alle storie di chi è sopravvissuto pedina inconsapevole della Storia nella sua epicità e nel suo complesso
Oggi, nel secolo di «passioni corte», tutto questo forse non sarebbe possibile
di Tobia Zevi


ERICH PRIEBKE È MORTO A ROMA POCHI GIORNI PRIMA DEL 16 OTTOBRE, settantesimo anniversario della deportazione ebraica dal Ghetto. Una coincidenza tragica e quasi perfetta. Le ore di quel terribile sabato mattina sono descritte mirabilmente in un libretto di Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943. Attraverso gli occhi di Laurina S., un’ebrea romana, il grande critico racconta la razzia «in diretta», nell’incredulità delle vittime che fino all’ultimo avevano rifiutato di cogliere i pur pesanti segnali della minaccia incombente. La lingua oscilla tra il nitore assoluto, che ricorda Primo Levi, e alcuni cedimenti alla commozione, assai misurati, mitigati dalla consapevolezza letteraria. Forse è per questa ragione che lo stesso autore, a proposito del suo libretto, sosteneva che fosse stato scritto da un Anonimo romano, quello della Vita di Cola.
Gli ebrei romani destinati alla deportazione furono arrestati quella mattina, condotti al Collegio militare, da lì alla stazione Tiburtina, poi a Fossoli, e giunsero d Auschwitz il 22 ottobre, dopo un viaggio in treno in condizioni inimmaginabili (senza acqua e aria, tra gente che moriva ed escrementi). Di quei 1024 ebrei romani tornarono in sedici, alcuni dei quali raccontarono la loro storia decenni più tardi e da allora non hanno mai smesso di offrire la loro preziosa testimonianza. Furono, quegli ebrei romani, pedine inconsapevoli della Storia, quella del secolo breve, quella del Male assoluto, quella insomma che si studia, e speriamo si studierà, sui libri; storie nella Storia. Come Priebke, del resto: personaggio perfetto, nel suo genere, perché non ha mai mostrato il minimo segno di pentimento o di umana compassione. È stato davvero, in senso etimologico, assoluto, sciolto da ogni convenzione di umanità. Si è difeso trincerandosi dietro agli ordini ricevuti, come se l’ubbidienza potesse assolverlo da una carnefici perpetratata freddamente. Entrato dunque un po’ per caso nella Storia, ne è stato attore protagonista del Male.
Chiissà se un giorno verrà celebrato con altrettanta solennità un processo a uno scafista, a uno che ha fatto morire centinaia di disperati nel mar Mediterraneo. Non è probabile, e non è detto che l’imputato riuscirebbe a divenire un’incarnazione del Male. Intanto per via del nome, difficile, per noi, da ricordare e pronunciare. E, inoltre, perché la sua storia sarebbe probabilmente più simile a quella delle sue vittime di quanto la trama richiederebbe. Tra un SS e un internato si instaurava una distanza abissale, persino ontologica, come ricorda Levi. Al contrario lo scafista e il profugo sono, letteralmente, «sulla stessa barca». È probabile che proprio questa prossimità dei corpi induca lo scafista a comportarsi in modo efferato, a ribadire la sua posizione preminente. Ma rimane, nella sua biografia, la permanenza nei vari centri di detenzione nordafricani e italiani, il rischio corso nella fuga dalle polizie e tra i marosi, la subalternità alle organizzazioni criminali. Se un giorno verrà celebrato, quel giusto processo contro chi ha ammazzato centinaia di innocenti disperati, è probabile che non racconterà la Storia, che non avrà un vero e proprio protagonista.
Credo che questo divario non sia riscontrabile solamente attraverso il confronto fra i nostri drammi quotidiani e la Shoah, una tragedia dai contorni e dalle dimensioni per fortuna non comparabili ad altre tragedie precedenti e successive. Credo che tutto ciò abbia a che fare anche con le caratteristiche di fondo dell’epoca presente, con il suo sentimento del tempo, con le sue passioni, con uno stato d’animo generazionale. La Guerra propone immediatamente un carattere epico della Storia. E epico è in fondo anche il Dopoguerra: Danilo Dolci e Giuseppe Di Vittorio, l’educatore e il sindacalista, simboli di un’epoca capace di aprire ai più umili le porte dell’istruzione e di affermare i diritti degli sfruttati. Un’epopea condivisa anche dai suoi protagonisti anonimi, ingranaggi della Storia, storie nella Storia. Penso a Mario Z., che mi raccontava come, subito dopo la guerra, aveva accompagnato la moglie tubercolotica all’Ospedale San Camillo di Roma, dove avrebbe partorito il primo figlio in un reparto per malati infettivi. Lui aspettava in strada, fuori dai cancelli, con in mano una mela, un pezzo di pane e un barattolo di conserva, a partire dai quali avrebbe allevato due figli, li avrebbe fatti studiare, avrebbe comprato loro due piccole case, anche grazie a un’unione indissolubile con la sua compagna. Attore non protagonista, ma di un’epopea.
Il sentimento del tempo, dicevamo. Chi di noi, soprattutto tra i più giovani, si sente parte di un’epopea? Le tragedie dei nostri giorni – come abbiamo visto – rischiano di non «fare» memoria, di non trasformarsi in epica. Sarà per il colore della pelle, per i nomi difficili da pronunciare, perché la nostra era è talmente bombardata da informazioni da non riuscire a trattenerne nessuna. Altrettanto vale anche per le esperienze positive, eroiche, che pure ci sono. Chi canterà le gesta del giovane precario, lacerato tra tre lavori e tuttavia capace di occuparsi anche del nonno handicappato? E chi descriverà la fatica degli operatori di quella casa famiglia, che ospita bambini malati provenienti dal Sud Italia e dal Sud del mondo?
Senza la Storia, rischiano di non esserci neanche le storie. E senza proiezione verso il futuro rischia di sparire la memoria, che si nutre appunto del futuro nel passato. Qualcuno ha parlato di «epoca delle passioni tristi», in rapporto al tempo delle grandi ideologie e dei grandi movimenti (spesso tragici) di popolo. Forse sarebbe più esatto parlare di «passioni corte», frammentate, episodiche. Passioni e impegno alti e nobili, ma incapaci di coagulare partecipazione e di durare nel tempo. Un’epoca, una generazione, che rischiano di non riuscire a costruire una memoria condivisa.

l’Unità 16.10.13
Sopravvissuto all’inferno
Alberto Mieli aveva solo 17 anni nel 1943
«Spero, prego che nessuno veda quello che abbiamo visto noi nei lager nazisti Eravamo trattati come numeri, fatti a pezzi per gioco. Ci costrinsero a dormire sui corpi dei morti»
di Stefania Miccolis


ALBERTO MIELI AVEVA DICIASSETTE ANNI NEL 1943 E VIVEVA CON LA FAMIGLIA NELLE CASE POPOLARI DELLA GARBATELLA. Ricorda che quel 16 ottobre vennero avvisati e scapparono a nascondersi in una casa dietro il Ministero di Grazia e giustizia. «Ci avvisarono che stavano facendo rastrellamenti al ghetto. Credevamo prendessero solo gli uomini per mandarli a lavorare, invece purtroppo presero bambini, donne incinta, vecchi e malati; 1200 persone. In giro per la città c’erano dei delatori, per tremila lire vendevano la vita di un uomo. Ma non posso dire ci fosse antisemitismo a Roma, tanto è vero che dei miei familiari sono stato preso solo io. I miei fratelli, eravamo in otto, sono stati accolti ciascuno da una famiglia della Garbatella, ci fu una grande solidarietà, vennero trattati come figli».
«Del 16 ottobre c’è poco da raccontare si commuove Alberto Mieli, ricordando quel giorno ed ha anche un tremolio mentre parla fecero trovare i camion fuori dalla piazza dove oggi c’è la scritta che ricorda il rastrellamento, e caricarono le persone». Non bastarono quei cinquanta chili d’oro che i tedeschi vollero dalla comunità ebraica (e molti cattolici parteciparono a questa raccolta) con l’assicurazione che gli ebrei non sarebbero stati toccati. «Io fui preso a novembre, per una banalità». Racconta quel giorno in cui suonò l’allarme e si nascose in un ricovero antiaereo, in un sottoscala: «per fare l’uomo, detti dieci lire a due partigiani. In cambio ricevetti due francobolli ai quali non detti nessuna importanza, e li misi nel taschino della giacca». Dopo tre giorni nello stesso sottoscala entrarono tre della Gestapo e quattro della Xa Mas; messo al muro e perquisito gli trovarono i francobolli: «Ebbi la presenza di spirito di dirgli che li avevo trovati per terra davanti a un negozio in via Arenula».
In prigione al Regina Coeli fu messo nel sesto braccio:«Il braccio era sotto controllo diretto della Gestapo e della SS. Ero insieme ai prigionieri politici; non saprei dire i loro nomi e poi adesso non li riconoscerei perché stanno disgraziatamente tutti dentro le fosse Ardeatine. Tutto il sesto braccio finì completamente alle fosse Ardeatine e poiché non raggiunsero il numero, presero anche cinquantasei ebrei» (Alla domanda su Priebke, risponde controvoglia: «Lui non solo dette l’ordine, ma fece parte dell’uccisione diretta; ma è una cosa vergognosa tutta l’importanza che televisioni e giornali hanno dato a costui. Che importanza vuole dare a un uomo che ha vissuto cento anni senza pentirsi?»).
Dopo essere stato torturato per quei francobolli -lo portarono al campo di Fossoli vicino a Carpi, quindi ad Auschwitz. «Nessuna mente umana può immaginare che cosa facessero ad Auschwitz. Uccidevano per la malvagità di uccidere. Era una cosa indescrivibile. Non avevano nessun rispetto per la vita umana. I bambini di duetre mesi, presi per i piedini, lividi di freddo, li facevano dondolare e poi con violenza li lanciavano in aria e gli sparavano come se fossero stati dei volatili. Una malvagità incredibile. Prendevano ragazze, appena adolescenti, le portavano nelle baracche adibite a bordelli».
Mostra il numero marchiato sul braccio a Birkenau: «Eri un numero, non un essere umano. Mi salvai perché mi mandarono a lavorare nelle fabbriche di guerra a Sosnowiec, c’era un poco più di mangiare ed ho avuto la fortuna di lavorare con civili. Ricorda la marcia dei 620 km per arrivare al confine della Cecoslovacchia, nel mese di febbraio, notte e giorno. «Avevamo perso la cognizione del tempo. Eravamo lerci, non ci facevano lavare e la notte dormivamo in mezzo alla fanghiglia delle bestie. Ci rinchiusero poi per sei giorni nei vagoni piombati, senza acqua e senza cibo. Molti morivano e i corpi venivano messi lungo le pareti dei vagoni. Di notte li usavamo come cuscini; a volte ti voltavi e ti trovavi col viso del morto davanti». Mentre piange, Alberto Mieli spera che nessuno veda più ciò che i suoi occhi furono costretti a vedere. «Papa Wojtyla mi chiese un giorno: figliolo come hai fatto a salvarti da quell’inferno? Io gli dissi: Santità a questa domanda non so risponderle».
Non sa rispondere. Ha le mani che tremano e gli occhi lucidi Alberto quando se ne va.

l’Unità 16.10.13
Riccardo e Lisetta. Storia di due fratelli
Pubblichiamo alcuni stralci dal libro «Io ci sarò» di Lia Levi, che spiega ai più piccoli le leggi razziali e la Resistenza
di Lia Levi


MA UN’ALTRA BRUTTA BESTIA SI ERA MESSA DI TRAVERSO NELLA LORO STRADA a rendere più complicata la vita di Riccardo e Lisetta (e naturalmente quella della famiglia).
Proprio nei giorni del terribile incidente dei genitori l’Italia era entrata in guerra, con i tedeschi come alleati e i francesi e gli inglesi come nemici. Ma era ormai da due anni che per qualcuno era come se la guerra fosse già scoppiata. Il capo del governo fascista aveva deciso un giorno di fare una sua battaglia privata puntando il bersaglio sugli ebrei italiani. Ne erano venute fuori delle leggi speciali che toglievano agli ebrei quasi tutti i diritti, compreso quello di lavorare (per gli adulti) e di andare a scuola (per i bambini e i ragazzi).
Ecco, la famiglia di Riccardo e Lisetta, quella dei nonni e degli zii e di tanti loro amici erano ebree e perciò si erano trovate all’improvviso in grandi guai. Senza lavoro e fuori dalla scuola la vita si era presentata con delle belle complica-
zioni!Per fortuna nelle città abbastanza grandi era stato dato il permesso di organizzare delle scuole ebraiche, giusto in tempo per Riccardo, che era potuto entrare in Prima elementare in un istituto ebraico a Roma. Per Lisetta non ce n’era stato bisogno. Era ancora beatamente troppo piccola.
Quando i suoi genitori erano morti, Riccardo era ormai in Terza. Dopo, quando si era cominciato a discutere della sistemazione dei bambini, il «problema scuola» era stato il primo a venir fuori. Nel paese della Sabina dove vivevano i nonni una scuola ebraica certo non esisteva.
Era stato anche per questo, oltre che per l’età dei nonni, che si era capito: i nipoti non potevano restare a vivere con loro. I nonni li avrebbero visti ancora, questo era sicuro. Ogni estate si sarebbero trovati tutti insieme con le cugine a fare baraonda in quella grande casa vicina alla campagna.
Nella Ferrara dove abitavano zio Mauro e zia Silvia una scuola ebraica invece c’era e tutti ne dicevano un gran bene perché vi insegnavano docenti bravissimi e persino uno scrittore.
Per Riccardo non era certo questa la prima delle sue preoccupazioni. Per lui sarebbe andato benissimo passare tutto il tempo a guardare lo zio quando aggiustava le radio, ma pare proprio che per gli adulti quella della scuola sia una vera fissazione.
E torniamo alla nostra storia, al momento in cui i due fratelli si erano salutati. Riccardo era già partito con lo zio, e Lisetta giocava con la cuginetta Viviana alla scuola delle bambole. Avevano litigato quasi subito su chi doveva fare la maestra, e si erano messe a gridare, così, sbuffando con aria da grande dama, era dovuta intervenire Carola, la sorella più grande di Viviana, che aveva suggerito: – Una di voi è la maestra, l’altra la direttrice –. Le due bambine avevano accettato con grande entusiasmo questa meravigliosa idea.
Viviana di mattina andava all’asilo e zia Flora aveva convinto Lisetta. Si sarebbe divertita di sicuro, diceva, e con le maestre nessun problema, lei ci aveva già parlato, avrebbero accettato una nuova bambina anche se si era già a metà dell’anno.
Per vincere la paura Lisetta aveva infilato nel cestino della merenda la sua matita preferita. Era un pastello di un giallo così forte che poteva sembrare anche arancione, l’ideale per quando le veniva voglia di disegnare il sole. Lei con un colore così fantastico ne disegnava tanti di soli e con raggi lunghissimi che quasi uscivano dal foglio. Quella matita giallo-arancione Lisetta all’asilo la faceva vedere a tutti come se fosse il migliore oggetto che uno possa incontrare nella vita.
Un giorno non l’aveva più trovata nel cestino e aveva pianto tutte le sue lacrime. Era stata Viviana, con il suo occhio furbo a cui non sfuggiva niente, a trovare il colpevole. Era un bambino dal naso schiacciato di nome Sergio, che da vero sciocco aveva nascosto la matita nella tasca del suo grembiule a quadretti bianchi e celesti. La matita era più lunga della tasca e così spuntava con il suo giallo-arancione come una macchia o una freccia che indicava “ecco qui il colpevole”. – Non ci provare mai più! – aveva gridato Lisetta. – Io ho un fratello grande che tu non sai cosa è capace di fare a quelli che si mettono contro di me.
© 2013 Edizioni Piemme SpA, Milano Pubblicato in accordo con Grandi & Associati

Corriere 16.10.13
Compirebbe settant’anni oggi
La vita mai iniziata del bimbo senza nome
di Gian Antonio Stella


Compirebbe settant’anni oggi, il «bambino senza nome». Era il più piccolo degli ebrei romani rastrellati nella retata del 16 ottobre del 1943. E morì senza neppure essere registrato. Che senso aveva, nell’ottica degli assassini nazisti, registrare un essere insignificante?
Sua mamma si chiamava Marcella Perugia, aveva 23 anni, era sposata con Cesare Di Veroli, che quel giorno maledetto scampò fortuitamente alla «grande razzia» e ne avrebbe portato il peso per tutta la vita. La ragazza, raccontano ne «Il futuro spezzato: i nazisti contro i bambini» Lidia Beccaria Rofi e Bruno Maida, avvertì le prime doglie la sera del 15 ottobre, poche ore prima della retata al ghetto. Era un venerdì.
«Arrestata e rinchiusa con gli altri deportati al Collegio militare di via della Lungara, fra il Tevere e i piedi del Gianicolo, i tedeschi consentono a convocare un medico italiano che, appena giunge, afferma che il parto si presenta difficile e bisogna ricoverare la giovane sposa in ospedale. Il permesso viene negato e nella notte tra sabato 16 e domenica 17, Marcella Perugia in Di Veroli, distesa su un giaciglio in un angolo del cortile, isolata alla vista degli altri prigionieri, dà alla luce un bimbo: il piccolo, considerato “nemico del Reich”, si trova immediatamente in stato di arresto. Accanto alla giovane madre ci sono gli altri suoi due figli, Giuditta di sei anni e Pacifico di cinque».
Saranno caricati insieme sul treno blindato che il 18 ottobre partirà dalla stazione Tiburtina per Auschwitz. Dove Marcella, Giuditta, Pacifico e il «bimbo senza nome» saranno uccisi il 23 ottobre. Insieme a gran parte dei bimbi razziati quel 16 ottobre di pioggia.
Al rastrellamento assistette inorridita, tra gli altri, Fulvia Ripa di Meana. Che avrebbe descritto in «Roma clandestina» i piccoli prigionieri sui camion caricati a Fontanella Borghese: «Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti e aveva bruciato nei loro occhi le lacrime infantili».
Neanche uno di quei bimbi, su 288, tornò. Nell’Ossario digitale messo online da Liliana Picciotto c’è tra le foto quella di Fiorella Anticoli che aveva due anni e due fiocchi bianchi sui riccioli. Raccontano Lidia Beccaria Rofi e Bruno Maida: «Ad Auschwitz solo Fiorella si salva, passando la “selezione”. Un anno dopo, nel novembre 1944, viene evacuata da questo campo e trasferita a Bergen-Belsen. Sarà l’unica bambina ebrea italiana a sopravvivere a 18 mesi nei campi di sterminio. Alla liberazione di Belsen, il 26 aprile 1945, un soldato alleato scatta una fotografia di Fiorella in mezzo a un gruppo di ex deportati, e questa immagine fa il giro del mondo dei giornali: a Roma anche il padre, Marco Anticoli, la vede e comincia a sperare. Purtroppo Fiorella, sfinita dai patimenti e dalla denutrizione, non riesce ad abbracciarlo e spira il 31 maggio 1945». E c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di scrivere sui muri «onore al camerata Priebke»…

l’Unità 16.10.13
Tutte le iniziative. Oggi la diretta su RadiTre


Le celebrazioni per ricordare il sabato nero del Ghetto ebraico di Roma, 70 anni dopo, sarà aperto stamane alle 11 in Sinagoga alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del rabbino capo Di Segni e del presidente della comunità ebraica Pacifici. Saranno presenti anche i sopravvissuti della Shoah. Alle 18,45 partirà la marcia silenziosa degli ebrei romani e della Comunità di Sant’Egidio che prenderà il via da piazza S.Maria in Trastevere e arriverà fino a Largo 16 ottobre 1943. Verrà ricordato il percorso dei deportati che dal ghetto furono condotti al Collegio Militare a Trastevere prima di essere imprigionati nei treni con destinazione Auschwitz. Dalle 19.30 uno speciale di Radio3 in diretta dal Portico d'Ottavia a Roma. Il direttore Marino Sinibaldi in compagnia di storici e altri ospiti seguirà la fiaccolata e la commemorazione ufficiale e darà voce a memorie e testimonianze di chi visse in prima persona quel tragico sabato nero. Una pagina di storia che colpì non solo gli ebrei romani residenti nel vecchio Ghetto, ma che sconvolse tutta la città. Una memoria collettiva tramandata, a fatica, di padre in figlio e che oggi dovrebbe finalmente trovare un riconoscimento condiviso anche per raggiungere le giovani generazioni. E alle ore 17 all’Isola Tiberina (Sala Assunta) l’associazione Voci nel Deserto ripercorrerà i luoghi della memoria dall’Isola Tiberina alla Stazione Tiburtina, con un gruppo di artisti, storici e giornalisti si impegna nel tener vivo il ricordo di quanti hanno sacrificato la propria vita a beneficio del prossimo e della giustizia.

Corriere 16.10.13
«Io, iraniana in esilio ora posso tornare a casa»
L’artista Shirin Neshat: ottimista, dopo 40 anni
intervista di Viviana Mazza


La recente apertura dell’Iran, coincisa con la vittoria alle presidenziali di giugno del moderato Hassan Rouhani, si è concretizzata in un inedito clima di dialogo con la comunità internazionale, ieri, a Ginevra nel primo giorno del nuovo round sul nucleare. Teheran ha presentato un piano «in grado da far superare lo stallo nei negoziati». Ma dopo un decennio di mancate intese — hanno messo in chiaro sia gli iraniani sia gli americani — ci vorrà tempo per arrivare a un accordo e mettere fine alle sanzioni contro la Repubblica islamica.
«Ho parlato proprio ora al telefono con mia madre in Iran e le ho detto: “Penso di poter tornare finalmente a casa”. Ma lei mi ha risposto: “No, è troppo presto”». Shirin Neshat, 56 anni, l’artista iraniana più famosa e premiata al mondo per la sua fotografia, le video-installazioni e i film che esplorano questioni di genere, di identità e di potere nelle società islamiche, parla al Corriere da New York, dove vive e lavora. Per lei, divisa tra una vita americana e l’eredità iraniana (e distante da una madre ottantenne che può incontrare solo «in Paesi terzi come la Turchia e Dubai»), questo è un momento di grande ottimismo. «Tra gli iraniani della diaspora, molti si chiedono se sia arrivato il momento di tornare». Nata a Qazvin, a 150 chilometri da Teheran, Neshat si è trasferita in America nel 1974 (5 anni prima della Rivoluzione Islamica che rovesciò lo Scià) per studiare arte a Berkeley, ed è tornata solo nel 1990 in un Iran cambiato radicalmente: quel viaggio e il contatto con gli effetti di quella rivoluzione l’hanno trasformata in un’artista, a partire dalle famose immagini in bianco e nero di donne con visi, mani e piedi istoriati da calligrafia persiana e giustapposti alle armi («Donne in Allah», 1993-1997). La differenza tra ieri e oggi è evidente osservando i volti di «Il libro dei re» (2012) ispirati alla gioventù istruita e non-ideologica della «Rivoluzione Verde» iraniana e delle Primavere arabe. Ma oggi Neshat assicura che il suo Paese è lontano da una nuova rivoluzione.
L’ultima volta che ha messo piede in Iran?
«E’ stato nel 1996. Non mi sentivo al sicuro. Non sono su una lista nera, niente del genere, ma il mio lavoro è stato criticato nei giornali governativi. Di solito il regime ha problemi con personaggi come me».
Di fronte ai colloqui tra l’Iran e l’America e ai segnali di apertura interna dopo l’elezione del presidente Rouhani, si sente ottimista?
«La verità è che, come molti iraniani, sono molto ottimista, anche se tutto è ancora nuovo, anche se è troppo presto. Fuori e dentro l’Iran, c’è un senso di grande eccitazione per la possibilità di cambiamento e di moderazione. Non parlo del nucleare, non ne so abbastanza: sono un’artista. Ma dal punto di vista culturale, la gente dice che c’è una nuova energia: molte gallerie stanno aprendo, c’è chi investe nell’arte, tanti osano di più. La reazione è stata quasi immediata. Allo stesso tempo, però, ci sono casi come quello del regista Mohammad Rasoulof, cui è stato confiscato il passaporto al ritorno in Iran, a settembre. Ma ciò non mi sorprende: i suoi film sono molto critici, anzi mi aveva colpito il fatto che fosse tornato così presto».
Che speranze nutre la gente nei confronti di Rouhani?
«Gli iraniani non pensano di sbarazzarsi del regime ma sperano di tornare ad una situazione di apertura simile a quella che avevamo prima di Ahmadinejad, con la presidenza di Khatami. In quel periodo, anche alcune delle mie opere furono messe in mostra in Iran. Mi sono pentita di non essere rientrata allora: avrei dovuto farlo prima che la situazione peggiorasse con Ahmadinejad e col ritorno a una politica estremista. Ora alcuni prigionieri politici sono stati rilasciati, ci sono segnali nei confronti delle donne. La mia famiglia e i miei amici sono ottimisti. E ci sono speranze di pace tra l’Iran e gli Usa dopo quasi 35 anni. Ma è presto, la politica è imprevedibile».
A che cosa crede siano dovute le attuali aperture dell’Iran?
«Ad essere onesti, parte del cambiamento è dovuto al fatto che Khamenei, la Guida Suprema, si è reso conto che la gente non è la stessa del 1979 e che non tollera l’estremismo. I cambiamenti vengono dall’alto, perché il regime ha capito che per restare al potere deve modificare il proprio modus operandi. I giovani di oggi sono molto diversi dalla mia generazione, che è stata responsabile della rivoluzione. Allora le donne erano più sottomesse agli uomini e alla religione, e non erano istruite: io ho studiato, ma le mie sorelle no. Dopo la Rivoluzione Islamica le donne sono state incoraggiate ad andare all’università, e oggi quasi tutte studiano, lavorano, e fanno sentire la propria voce. L’uso di Internet, poi, ha connesso gli iraniani al mondo. Questa è la principale minaccia per il regime: la gente non è più sottomessa».
Però la gente non vuole una nuova rivoluzione?
«Gli iraniani si sono fatti furbi. Hanno capito che non c’è verso di avere una rivoluzione, perché non ci sono leader alternativi e, dunque, la situazione va modificata dall’interno cambiando lentamente il sistema. Hanno visto cos’è accaduto in Egitto e in altri Paesi dove rovesciare i regimi non ha portato ai risultati sperati, e stanno pensando che sia meglio optare per cambiamenti graduali. Alcuni, poi, non vogliono davvero rovesciare il regime perché sono nati dopo la Rivoluzione Islamica ed è tutto ciò che conoscono, ma vogliono una maggiore moderazione».

La Stampa 16.10.13
A Ginevra Teheran e Usa tornano a parlarsi
Ma Gerusalemme: «Noi non ci fidiamo». Netanyahu contro i negoziati
Iran, Israele avverte “Pronti a colpire”
di Francesca Paci


TEL AVIV Il primo round dei colloqui di Ginevra con i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e la Germania sull’arricchimento dell’uranio iraniano sembra aver soddisfatto la Repubblica degli ayatollah ma soprattutto i suoi interlocutori che, puntando sull’effetto Rohani, pianificano ottimisti di rivedersi al più presto. Tanto che ieri sera le delegazioni americana e iraniana si sono riunite a livello di viceministri in un bilaterale durato oltre un’ora.
La valutazione della giornata è invece tutt’altro che positiva per Israele, che aveva già criticato l’apertura di Washington. «Abbiamo imparato nel 1973 a non sottostimare il nemico e dopo aver pagato il prezzo dell’auto illusione non commetteremo più quell’errore» afferma il premier israeliano Netanyahu durante la cerimonia per i 40 della guerra del Kippur. Il discorso, rivolto alla Knesset, è indirizzato alla comunità internazionale. «Non rinunceremo all’ipotesi di un attacco preventivo» ribadisce il premier. La storia insiste insegna: «La pace (con l’Egitto ndr.) è stata raggiunta con la forza».
Israele segue lo sviluppo dei negoziati di Ginevra con preoccupazione. Una fonte interna al governo racconta il dilagante pessimismo e l’impressione diffusa che gli Usa stiano scendendo a compromessi con Teheran prima che sia necessario: «Da una parte c’è la convinzione che l’ultima parola sul nucleare tocchi alla irriducibile guida suprema e non all’apparentemente riformista Rohani, per cui concedere troppo potrebbe significare regalare tempo allo scenario peggiore, quello in cui l’arricchimento possa essere convertito segretamente in uso militare in poche settimane». Non a caso la posizione di Netanyahu che un anno fa era grossomodo allineata su quella internazionale nel concedere fino al 20% di arricchimento si è irrigidita e la linea rossa si è avvicinata allo zero.
Poi c’è il contesto politico: «Bibi è isolatissimo. Era riuscito a convincere la sua riluttante coalizione a riavviare i colloqui con i palestinesi in cambio del sostegno Usa sull’Iran ma ora rischia di saltare tutto. La pressione psicologica ha un peso. E se è vero che parte dell’intelligence e dei vertici delle forze armate sono contrarie a un raid contro l’Iran senza il supporto di Washington, bisogna ricordare che alcuni documenti sull’attacco al reattore iracheno del 1981 desecretati pochi mesi fa rivelano similitudini con la situazione attuale. Anche allora non si pensò di poter distruggere tutto ma di ritardare di due o tre anni il programma che poi Saddam non riuscì più a recuperare».

Repubblica 16.10.13
Soldi dalla Bmw, la Merkel nella bufera
“Alla Cdu 690mila euro subito dopo il no all’accordo sui gas di scarico”
di Andrea Tarquini


BERLINO — Un clamoroso caso di lobbismo legale esplode a Berlino, e pesa sull’immagine di Angela Merkel. Proprio nella fase iniziale dei difficili colloqui con Spd e Verdi alla ricerca di una nuova maggioranza, e all’indomani del njetcon cui alla riunione dei ministri dell’ambiente dell’Unione europea il rappresentante tedesco Peter Altmeier (Cdu come la cancelliera) ha bloccato un accordo che impegnava gli Stati Ue a una graduale, ma radicale riduzione delle emissioni delle auto made in Europe. Una riduzione osteggiata soprattutto dai produttori tedeschi di auto di grossa cilindrata. Proprio i grandi azionisti del più prestigioso, cioè Bmw, numero uno mondiale del segmento premium, ha versato alla Cdu/Csu, il partito di Merkel, una donazione enorme: 690mila euro. Il sospetto di un legame tra la donazione e quel no tedesco a Lussemburgo è fortissimo, e riecheggiato dai maggiori media, dalle opposizioni e dalle ong anti-lobbismo e ambientaliste. Tutto legale, come dicevamo: secondo le leggi federali,chiunque può donare somme anche forti ai partiti democratici, per poi dedurle dalle imposte. L’unica, ferrea, condizione è che le donazioni superiori ai 50mila euro debbano essere dichiarate con la massima tempestività dai partiti al Bundestag. È così che, appunto, la notizia è venuta fuori.
L’iniziativa è venuta dai massimi azionisti di Bmw, tutti membri della mitica famiglia-casato Quandt. Il 9 ottobre, Johanna Quandt e i suoi figli Stefan Quandt e Susanne Klatten hanno versato ciascuno 230mila euro al partito della cancelliera. E ieri, una settimana dopo, il Bundestag ha pubblicato la notizia sul suo sito web. Totale, 690mila euro, una bellamanna, soprattutto dopo l’intensa e costosa campagna elettorale per le elezioni politiche del 22 settembre scorso. Stefan Quandt detiene il 17,4% dell’azionariato Bmw, la madre Johanna il 16,7% e Susanne Klatten il 12,6. Il resto sono “pagliuzze”, come si dice nel gergo di Borsa, cioè titoli disseminati tra moltissimi piccoli azionisti.
Non è la prima volta che la famiglia Quandt versa, sempre legalmente, forti somme al partito di maggioranza relativa. Nel 2009, dopo le penultime legislative, i tre del casato donarono ognuno 150mila euro alla Cdu. E cifre considerevoli anche ai liberali (Fdp), che però questa volta sono rimasti sotto la soglia di rappresentanza.
«È uno scandalo», dice Christina Deckwirt dell’associazione Lobby Control, e spiega: «La donazione più alta mai ricevuta da un partito avviene meno di un mese dal voto». Klaus Ernst, vice capogruppo parlamentare della Linke (la sinistra radicale) denuncia il «caso più lampante di politica comprata dai big dell’economia da molti anni a questa parte: la Bmw ha in pugno Angela Merkel, non è mai successo in modo così aperto, la vicenda dovrebbe avere un seguito in Parlamento».
Proprio lunedì, a Lussemburgo, il ministro dell’ambiente tedesco aveva bloccato al vertice coi suoi colleghi il disegno di legge per far scendere le emissioni delle auto a 95 grammi di co2 a chilometro per le auto nuove. «Ci vuole più flessibilità, i nostri produttori di grandi auto investono molto anche nelle ibride e nelle elettriche», ha detto. Ma le grosse cilindrate made in Germany inquinano molto più di una Fiat, di una Renault o di un’auto piccola-media giapponese o coreana.

Repubblica 16.10.13
Cambiano i palinsesti dei media cinesi: stop ai programmi patriottici, via libera agli show comici La “terapia dello humour” non risparmia neppure i cartoni animati. Ma non piace agli internauti
Pechino e il buonumore di Stato “Compagni, ridere è glorioso”
di Giampaolo Visetti


Dal terrore al buonumore. La Cina gira le spalle ai generali e abbraccia i comici. Per l’unica propaganda della storia confortata dal successo, è una svolta: la stabilità del potere sottratta alle minacce in carcere e affidata alle risate in televisione. A ufficializzare il “grande balzo in avanti” della persuasione di partito, il cambio improvviso nei palinsesti dei media di Stato: stop a programmi patriottici e film nazionalisti e via libera a show e commedie capaci di far ridere. Da Mao Zedong a Mister Bean, star anche al di là della Grande Muraglia.
Dietro la metamorfosi del dipartimento per la repressione, i nuovi guru assunti ai leader rossi per studiare gli orientamenti popolari. Sentenza-shock: tempestare la gente di rievocazioni, divieti ed editti anti-stranieri, non serve a costruire consenso attorno ai funzionari comunisti. Al contrario: giovani e classe media vogliono dimenticare, smettere di temere e, se possibile, sognano di spassarsela e morire di battute. Dunque è ufficiale, «compagni ridere è glorioso» e la Cctv, emittente del regime, promette che i ricordi saranno spazzati via dall’ilarità.
Quasi un miliardo e mezzo di cinesi invitati a lasciarsi andare, piuttosto che a dissentire. Al punto che per la prima volta la tivù pubblica ha ottenuto il via libera per fare dello spirito anche sull’ossessione per la bandiera. Nell’ottobre 2012 aveva trasmesso un sondaggio-fiume sul tema della felicità. Domanda: sei felice? Risposte memorabili, tra cui: «Il mio nome è Zeng». Quest’anno si è puntato in alto. Quesito: ami la tua patria? Repliche senza censura, subito diventate spettacolo, tra cui quella di un ambulante: «Preferisco vendere cocomeri».L’esaltazione dell’ironia contro l’obbligo della piaggeria, a patto che l’esibizione della libertà ufficiale abbia un obiettivo politicamente corretto: trasformare il relax in sostegno al sistema.
Non che l’“Operazione sbellichiamoci” abbia convinto tutti. Gli internauti obbiettano che dal dovere di una «falsa felicità» Pechino è passata all’obbligo di un «falso patriottismo» per ottenere un «finto divertimento collettivo ». Sotto accusa, proprio la tivù. «Chiede se vuoi bene alla patria, come il fidanzato che continua a domandare “mi ami”: si passa il tempo in allegria, ma l’indice di gradimento non sale». Non cambia però l’ordine delle autorità: meno ideologia e più umorismo, perché la Cina, da superpotenza musona, deve trasformarsi nel dominio del sorriso.
Dalle battute ai fatti: per i prossimi cinque anni l’industria cinematografica di Stato ha ridotto del 57% film storici e biografie dei padri della repubblica, per concentrare i fondi su commedie brillanti e concorsi tra attori comici. «È la scoperta dell’intrattenimento quale surrogato contemporaneo della dottrina», spiega Zhan Jiang, docente dell’università di studi esteri della capitale. «Un autoritarismo post totalitario prende atto che un popolo impegnato a ridere sul divano ha meno voglia di marciare in piazza». E la terapia della barzelletta democratica, storico virus esportato dagli Usa, non piace solo agli autocertificati riformisti del politburo. A sostenerla, anche i mercati.
I capital-comunisti vantano due record: sono già la più numerosa classe media e la più osservante massa di consumatori del pianeta. Gli economisti della Fudan di Shanghai lo insegnano da anni: risate e buonumore sono concime d’oro per pubblicità e acquisti, avvelenati invece da paura e depressione. In un Paese che archivia il contadino e l’ope-raio, per consegnarsi a colletto bianco e consumatore, ovvio che anche la propaganda ceda infine al marketing. Meglio impugnare il portafoglio che il fucile, conta più il Pil dell’esercito e l’ordine di ridere per spendere non risparmia nemmeno i bambini.
Giornali e tivù si scagliano così contro i cartoon, accusati di essere «violenti e scurrili», e la censura blocca le serie «volgari e pornografiche ». Problema: troppi animaletti si insultano e si pestano, plasmando una generazione di “figli unici-mostri”. L’agenzia
Xinhua ha fatto i conti: Grande Lupo in un anno ha ricevuto 9544 padellate, Capra Simpatica è stata bollita viva 839 volte e Allegro Orso ha detto 21 parolacce in dieci minuti. Di qui l’ultimo ordine di Pechino: stop ai topi dotati di motosega e via libera agli «eroi che esaltano i valori confuciani». Primo comandamento animato: «Insegnare a grandi e piccoli a ubbidire». Un freno a Mao, ma pure a Tom&Jerry. Obbiettivo di partito: una risata non ci seppellirà.

Repubblica 16.10.13
Apocalisse a Damasco
Il giudizio universale secondo Maometto
Per il mondo islamico la Siria è la terra da dove Gesù partirà per sconfiggere l’Anticristo
Nella tragedia della guerra in corso un retroscena teologico unisce musulmani e cristiani
di Pietrangelo Buttafuoco


Domani, quando sarà già il tempo ultimo — culmine di tutti i giorni, vigilia del Dì del Giudizio — a Damasco tornerà Gesù. Apparirà nella terra dove tutto è guerra, proprio quando tutto sarà solo guerra, scenderà nel minareto bianco della Moschea degli Ommaydi, che per questo porta il suo nome; e dalla Siria, il Cristo, muoverà a cavallo verso Gerusalemme, dove sconfiggerà l’Anticristo. Così sarà secondo il vaticinio attestato dalla tradizione islamica, ed è il segreto intimo e remoto di tutti i musulmani che attendono il ritorno del figlio di Maria, Spirito di Allah,«eminente in questo mondo e nell’Altro» secondo il Corano.
Nella città della Cupola della Roccia, dunque, da dove Maometto si alzò in volo per conoscere la promessa dei cieli e lo spavento dell’inferno, memoria di quel viaggio fatto in groppa al Buraq (la prima non occulta fonte della Divina Commedia di Dante), Cristo — secondo la tradizione sciita — incontrerà il Mahdi, ovvero “il ben Guidato”, e con lui metterà pace sulla terra. Per i sunniti, invece (la maggioranza della comunità islamica), Cristo e il Mahdi sono la stessa persona. Per sunniti e sciiti, comunque, l’interpretazione sulla battaglia finale coincide. Gesù sconfiggerà il nemico, per quaranta anni governerà su tutta la terra e poi morirà.
Gesù, dunque, che nei secoli della storia, asceso al cielo, non è mai morto (neppure sul Golgota, quando Allah seminò la confusione presso i suoi carnefici dando loro l’illusione di crocifiggerlo), dopo il suo regno avrà morte carnale e verrà sepolto a Medina accanto a Maometto per risorgere insieme a lui nel giorno del Giudizio Universale.
Damasco non è dunque un dettaglio: il minareto di Gesù si trova appunto nella moschea siriana dove Giovanni Paolo II, il 6 maggio del 2001, si recò a pregare trascinando tutto il peso della sua sofferta vecchiaia innanzi alla tomba di Giovanni, il Battista, lì seppellito. E l’intera Siria non è un elemento secondario nella teologia islamica. Per l’islam, infatti, oltre che il punto chiave del capitolo finale — ampiamente citata nelle fonti dei sapienti e degli esegeti tra i “segni” — è anche luogo d’avvio della Rivelazione. La Siria, nel sentimento musulmano, è Bosra, la città dove aveva eremo Bahira, il monaco cristiano che, per primo nella storia, riconobbe il Sigillo della Profezia in Maometto ancora bambino. Dal suo monastero, Bahira vide le palme piegarsi per fare ombra su un caravanserraglio, poi vide muoversi una nuvola — in una giornata di caldo irreparabile — che sembrava volesse riparare dal sole qualcuno. Allora il monaco interrogò gli uomini della carovana e scoprì con loro un orfano nelle cui carni era impresso il segno della volontà di Allah. «Proteggetelo», raccomandò Bahira ai mercanti in viaggio lungo quella rotta, «affinché non venga perseguitato come Gesù».
Bahira, nella cristianità, venerato dagli ortodossi slavi, è riconosciuto santo col nome di Sergio e risulta di fatto dimenticato in Occidente (è un santo letteralmente cancellato dal novero, forse l’unico caso) per lo scandalo di aver stabilito già nel VI secolo islam e cristianesimo “come raggi della stessa luce”. La geografia coincide con la viva vena diuna storia antica resa attuale nelle cronache di queste ore. Lo stretto legame delle due religioni si ravviva quando, nella poetica visione degli sciiti, perfino le quattro braccia della Croce sono “parusia”, l’evento di ciò che è. Secondo Abu Ya Qub Sejestani, sapiente persiano del IV secolo, nell’intersecarsi del Legno e nelle quattro parole d’attestazione della fede islamica (il Tawhid), c’è il simbolo del medesimo segreto: la parusia, l’appalesarsi del divino che avverrà al termine della “notte dell’umanità”. E la croce del Golgota arriva proprio dalla Siria.
È quasi come un prologo in cronaca rispetto a ciò che preparano i cieli, che sembra addensarsi nel sentimento del mondo islamico; e non c’è credente nell’islam, oggi, che non abbia fatto — quasi a svelare un retroscena teologico nella tragedia siriana in corso — un pensiero sulla descrizione dei tempi ultimi. L’avversario del Mahdi, l’Anticristo — ilcui nome in arabo è Dajial — avrà la caratteristica di proclamare nel nome dell’umanitarismo i sentimenti di giustizia, di pace e l’uguaglianza di tutte le religioni allo scopo di salvare i popoli. L’Anticristo, secondo la religione islamica, sarà convincente, benevolo ed etico. Sarà forte di tutte le virtù civili e l’intero mondo guarderà a lui affascinato. Si presenterà al cospetto del mondo come musulmano, ma il Dajial, l’Avversario, seminerà la confusione nella comunità dei credenti accendendo la “fitna”, ovvero “la separatezza”, la guerra fratricida. La Siria, denominata nell’esegesi coranica Sham (una regione che comprendeva anche il Libano, la Palestina e la Giordania), secondo il racconto delle raccolte sciite sarà teatro di un’altra figura demoniaca denominata Sufyani, un discendente di Abu Safyan, nemico di Maometto; e nel Libro dell’occultazione di An-Numani i capitoli sul tema del “tempo ultimo” sono espliciti. L’imam Alì disse: «Ci sarà un terremoto nello Sham dove più di centomila persone moriranno. Quando ciò avverrà vedrai i cavalieri dei cavalli grigi con bandiere gialle provenire dall’occidente e si fermeranno nello Sham. Ci sarà grande terrore e morte rossa.
Poi vedrai sprofondare un villaggio presso Damasco chiamato Harasta. I mangiatori di fegati siederanno sul pulpito di Damasco. Allora tornerà il Mahdi». Quella dei “mangiatori di fegati” è una pratica purtroppo vista anche di recente, nei filmati diffusi dai “ribelli”, e i riferimenti simbolici rispetto agli eventi in corso in Siria confermano nell’opinione dei musulmani l’approssimarsi della “notte dell’umanità”.
Anche in tempi a noi più vicini, con il filosofo musulmano francese René Guénon, la regione dello Sham, ritorna tra le mappe sapienzali come “punto sensibile” di controiniziazione del mondo, precisamente una delle “Sette torri del Diavolo”.
È un capitolo della cultura tradizionale questo delle Sette torri, ed è quasi una sorta di cartografia della geopolitica dove salta agli occhi un fatto: l’ubicazione dei luoghi, dall’Iraq alla Siria, per non dire del Sudan e della Nigeria, corrisponde ai teatri dei conflitti nell’epoca a noi attuale.
La successione dei cieli, le età vivificanti secondo la Rivelazione coranica, riscatta il tempo. È la nostalgia di un’età il cui albore è armonia. Tutta la storia a noi contemporanea, dal punto di vista islamico, ha in controluce la profanazione dei luoghi sacri. Così dalla Guerra del Golfo, dove i cingolati americani calpestarono la sacrissima penisola arabica, fino alle Primavere Arabe consumate lungo il percorso che dalla Libia (sede del Tempio di Ammone), oltre l’Egitto e poi ancora una volta in Siria, ripercorrono — fino a Elia Capitolina (ossia Gerusalemme) — il pellegrinaggio di guerra e vittoria di Iskander (è il Bicorne che fondò Iskandria, di cui si legge nel sacro Corano e da più fonti identificato in Alessandro il Macedone), che ha lasciato in eredità alla scienza tutta militare dell’impero: «Chi vuole la Persia deve passare dalla Siria».
Per i musulmani, la cui prospettiva storica è ovviamente metafisica, lo scontro di civiltà dell’Occidente (a partire dalla passeggiata di Sharon alla spianata delle moschee di Gerusalemme) diventa angoscia da “fitna”, la guerra fratricida all’interno della comunità dei credenti. Ed è ciò che nella forma più spaventosa sta accadendo in Siria, una dura prova che oggi porta l’intero universo islamico all’estremo appuntamento col Millenarismo. E col realismo della strategia politica.
Un preludio e un postludio di un’eternità ritardata. C’è un patto di cavalleria mistica che rende il Mahdi e Gesù responsabili l’uno dell’altro. Ma c’è pur sempre un prologo in cronaca, visionabile su Youtube, rispetto a ciò che attendono i cieli. Domani, quando sarà il tempo ultimo.

l’Unità 16.10.13
Valle Occupato. Et voilà, la prima stagione
Da Perrotta a Delbono gli occupanti presentano il loro cartellone, fino a giugno. Ma quale soluzione per la sala?
di Francesca De Sanctis


ROMA ECCOLA QUI. UNA BELLA CARTELLINA COLOR AVORIO CON LACCETTO ROSSO. All’interno c’è il calendario della prima stagione del Teatro Valle Occupato. Anzi, più che una stagione intesa come cartellone che mette in fila un nome dopo l’altro, un «progetto artistico», che si chiama «AltResistenze». Gli occupanti ci tengono a precisarlo: «ospitiamo artisti con i quali poter riflettere insieme sul nostro fare arte». I loro nomi, con i titoli degli spettacoli, sono scritti in rosso e blu su un foglio bianco appeso alla parete del foyer. E allora scorriamo rapidamente la lista. Si comincia domani con Mario Perrotta, che presenta il suo nuovo lavoro, Un Bès – Antonio Ligabue. A seguire, il 22 e 23 ottobre, un viaggio nel cinema di Davide Manuli. Poi ci sono Antonio Latella, Pippo Delbono con un progetto di formazione sul linguaggio cinematografico, Silvia Gallerano e Cristian Ceresoli, Davide Enia e Silvia Giambrone, Cristina Rizzo, Giacomo Ciarrapico, Daniele Prato, Ulderico Pesce e i Tetes del Bois, Fausto Paravidino con la prima produzione del Teatro Valle Occupato, Il macello di Giobbe. E ancora Roberta Torre, Paolo Mazzarelli e Lino Musella, Industria Indipendente, Michele Santeramo e Leo Muscato, Fanny&Alexander, Theatre L’Eventail, Davide Iodice e Alessandra Fabbri, Tom Lanoye e Christophe Sermet, Gogmagog e Marcella Vanzo, Carlota Corradi e Veronica Cruciani, Balletto Civile, Motus...La stagione che è stata presentata alla stampa inizia ora e prosegue fino a giugno. Come dire: noi stiamo qui, sicuri che nessuno avrà il coraggio di sgomberarci... In effetti in questi due anni e mezzo di occupazione nessuno ha osato farlo. Ma se è vero che nel 2011 ricordiamo che l’occupazione è avvenuta subito dopo lo smantellamento dell’Ente teatrale italiano e per scongiurare l’arrivo dei privati quel gesto aveva un grosso valore simbolico, è anche vero che ora è arrivato il momento di provare a tirare fuori da questa esperienza quello che di buono c’è e di trovare una soluzione vera che parta dal dialogo per l’antico, prestigioso e bellissimo Teatro Valle.
Nessuno dice che sia semplice, ma proprio perché una volta tanto un teatro riesce a guadagnarsi l’attenzione mediatica, bisognerebbe sfruttarla per discutere seriamente su tutto il sistema teatrale italiano, sulle tante cose che non vanno. Perché l’impressione è che il Teatro Valle sia diventato una specie di «imbuto», dove sono confluiti tutti i problemi che ci portiamo dietro da anni ma che continuiamo ad ignorare: tanto per fare un esempio, le compagnie non romane faticano ad esibirsi nella Capitale perché molte sale chiedono il pagamento dell’affitto e allora, guarda caso, molti dei nomi in cartellone al Valle vedono come una gran bella opportunità quella di esibirsi nel teatro occupato.
L’altro giorno, ad una cena fra amici, si è sollevato un dibattito accesissimo attorno a questo argomento: qualcuno sosteneva che l’appropriazione del più antico teatro di Roma da parte di un gruppo di artisti (?) non è un gesto democratico, tra l’altro si sa che in questi due anni gli occupanti si sono scannati fra di loro; che lì, in quel teatro, vorrebbe tanto tornare a vedere spettacoli di respiro internazionali. Secondo altri, invece, occupare sarebbe stato l’unico modo per sottrarsi alla consuetudine tutta italiana di affidare un teatro come questo a un Lavia o a un Barbareschi e per evitare che di trasformasse nel solito carrozzone mangia soldi o nell’ennesimo Stabile con il quale scambiare gli spettacoli. Su una cosa mi pare fossimo tutti d’accordo: la situazione di illegalità che persiste (è nata la Fondazione sì, ma la Siae e l’affitto dei locali per esempio non vengono pagati) e la concorrenza sleale verso le altre sale romane.
A questo punto però non si tratta più di stare da una parte o dall’altra. Ma di riportare un gesto che è stato di rottura in una normalità da tutti realmente condivisa. Il primo passo da compiere è senza dubbio il dialogo, immediatamente: gli occupanti del Valle incontrino le istituzioni, prima di tutto l’assessore capitolina alla cultura Flavia Barca e il ministro ai Beni culturali Massimo Bray. Cosa state aspettando?

l’Unità 16.10.13
Il decreto della discordia
Alzata di scudi dei teatri su «Valore cultura»
Il ministro Bray corre ai ripari dopo le proteste in tutta Italia Sabato un primo incontro a Milano con Pisapia e Maroni per Scala e Piccolo
di Luca Del Fra


DA PALERMO A TRIESTE, E CON GRANDE SCALPORE DA MILANO PER L’ALZATA DI SCUDI DELLA SCALA E DEL PICCOLO TEATRO, piovono critiche, anche pesanti, su molti aspetti del decreto «Valore cultura», convertito con una notevole messe di emendamenti nella Legge 112/2013. Corre ai ripari il ministro per i Beni e le Attività Culturali Massimo Bray, intanto fissando per sabato un incontro a Milano con il sindaco Pisapia, il governatore della Lombardia Maroni e i rappresentati dei due teatri.
Alla base della rivolta meneghina, cui si uniscono anche Roma, con l’Accademia di Santa Cecilia, Torino con il Teatro Regio, e altri teatri, ci sono le norme che regolano la presenza dei soci privati nelle fondazioni e che, secondo il provvedimento, dovrebbero impegnarsi economicamente per un periodo non inferiore ai 5 anni (finora non c’era obbligo e ben che andasse si arrivava a 3), mentre i posti loro riservati nei Cda sarebbero limitati. Queste norme si aggiungono a quelle precedenti che inseriscono le istituzioni di spettacolo dal vivo partecipate dallo Stato tra gli enti soggetti ai tagli della spending review: così si può avere un quadro delle ansie che hanno spinto molti operatori a parlare di strisciante statalizzazione.
Scala, Piccolo, Regio, e Santa Cecilia, sono tra i pochi, forse gli unici, a poter vantare bilanci da anni in pareggio, e a fronte di queste norme considerate paralizzanti e dissuasive dell’intervento economico dei privati, sembrano mal digerire la creazione di un fondo speciale (75 mln di euro) per salvare teatri in pesante deficit o vicini alla liquidazione come il Carlo Felice di Genova e il Maggio musicale fiorentino.
I regolamenti iperburocratizzati per l’erogazione di questo fondo «salvateatri» hanno altresì scatenato l’ira dei sindacati: per accedere al fondo un teatro dovrebbe azzerare i contratti integrativi e sottoporre i suoi lavoratori, compreso il personale artistico, ad altre norme penalizzanti. I sindacati nazionali hanno già annunciato un ricorso. È questo probabilmente uno degli aspetti politicamente più delicati della normativa sulle fondazioni lirico-sinfoniche contenute nella Legge 112/2013, poiché fa pagare ai lavoratori deficit creati da direzioni spesso non ineccepibili è il caso di Firenze e di Genova -, in una logica spiace dirlo molto simile a quella della legge Bondi, contro cui nel 2010 l’intero centrosinistra alzò le barricate.
Merita ricordare come i contratti nazionali dei musicisti italiani siano tra i più bassi e miseri d’Europa, negli anni stipulati con la logica perversa di fare bella figura con il Governo non concedendo aumenti salariali, ma cedendo in normativa: da questo derivano i privilegi, oramai rari, contenuti in alcuni contratti integrativi e che questo provvedimento difficilmente andrà a colpire, rischiando di paralizzare l’attività dei teatri. D’altra parte il deficit delle 14 Fondazioni lirico-sinfoniche, viene descritto come assai grave, 340 mln di euro: circa la metà del costo di un cartellino e di un contratto quinquennale per una star del calcio. Un indebitamento vorticosamente cresciuto a causa dei tagli al Fondo Unico dello Spettacolo (Fus, gli investimenti dello stato nelle attività culturali), operati negli ultimi anni dai governi di centrodestra e dai tecnici. Si ha un bel dire che le 14 fondazioni lirico-sinfoniche assorbano il 42% del Fus, ma se si guarda alla sostanza si tratta di 240 mln di euro l’anno: solo l’Opéra di Parigi riscuote dalla Francia oltre 100 mln di euro l’anno.
In attesa dell’incontro di sabato, dal ministero si sono detti disponibili al confronto e a concedere finanziamenti straordinari per le istituzioni milanesi in vista dell’Expò. Il tutto rischia di apparire un contentino per placare gli animi, non risolvendo i problemi contenuti nella Legge 112/2013, anzi oscurandone gli aspetti positivi. Malgrado rigidezze e ingenuità, infatti il provvedimento prova a disciplinare il rapporto tra privati e istituzioni di spettacolo, un terreno che esteso in generale alle fondazioni culturali appare del tutto brado e con regole fai da te. Basti pensare che pur reclamando posti nel Cda e potere decisionale, i privati quando una fondazione va in deficit non hanno obbligo di ripianare il passivo che resta onore e onere dei soci pubblici. E lì a dimostrarlo ci sono 75 mln di euro dei contribuenti per il fondo «salvateatri» messo a disposizione dallo Stato.