venerdì 18 ottobre 2013

il Fatto18.10.13
L’Unità cambia direttore. Se ne va Sardo, arriva Landò


OGGI IN EDICOLA i lettori de l’Unità troveranno l’ultimo editoriale di Claudio Sardo. Finisce qui il suo incarico di direttore del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Da settimane si rincorrevano le voci su una sua sostituzione: Sardo, già in forze al Messaggero, era arrivato al vertice del giornale in piena era bersaniana. Ma a essere cambiata non è solo la guida del Pd. Anche Renato Soru, principale azionista della Nuova Iniziativa Editoriale (la società che edita il quotidiano) si è tirato indietro, mentre Matteo Fago - imprenditore del web e del turismo, è suo il sito di viaggi Ve  nere.com   - è salito al 47 per cento del pacchetto azionario della Nie. Prima si è pensato in grande, provando a convincere Walter Veltroni a tornare alla direzione del giornale. Fallita la trattativa, hanno nominato Luca Landò, già vicedirettore de l’Unità e direttore di www.unita.it  . Sardo continuerà a scrivere in qualità di editorialista.

Corriere 18.10.13
Luca Landò è il nuovo direttore de «L’Unità»


Sarà Luca Landò, da tempo vicedirettore del quotidiano e direttore della testata online,  a succedere a Claudio Sardo alla guida
de «L’Unità», testata che nel 2014 festeggerà  i novant’anni dalla fondazione. Lo ha comunicato una nota dell’editore del quotidiano, Nuova Iniziativa Editoriale. «A Claudio Sardo, che ha diretto il giornale in anni intensi e difficili,  va il ringraziamento dell’Editore per il lavoro svolto con costante impegno e professionalità. Impegno e professionalità — si legge nella nota — che resteranno patrimonio dell’azienda per
la quale Sardo continuerà a prestare la propria opera in qualità di editorialista e commentatore politico». Obiettivo di Landò, spiega l’editore,  è quello «di radicare maggiormente il quotidiano e di rafforzare il sito online, aprendo la stagione del sistema integrato de l’Unità». Landò, 56 anni compiuti ieri, è un giornalista con un passato
da neurobiologo: ha lavorato per anni all’università di Berkeley.

La Prima Pietra 18.10.13
Cambiamenti in vista a l’Unità

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Agi 18.10.13
L'Unita': Luca Lando' nuovo direttore. Il saluto a Claudio Sardo

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l’Unità 18.10.13
Fiom rientra a Mirafiori con «l’Unità»
Oggi in fabbrica dopo la sentenza che condanna la discriminazione dell’azienda
Le tute blu Cgil costrette a lasciare i locali sindacali perché non avevano fimato il contratto Fiat
La riammissione dopo la sentenza della Consulta
E presto tornerà anche l’Unità, sbullonata con le bacheche, come in altri siti del Lingotto
di Massimo Franchi


La foto di Gramsci. Il ritratto di Berlinguer. La gigantografia dell’assemblea oceanica con Trentin sulla pista per la prova auto. Oggi alle 11 torneranno al loro posto a Mirafiori. E presto tornerà anche l’Unità, sbullonata con le bacheche, come in altre fabbriche Fiat. Rientreranno alle 11 dalla stessa porta da cui uscirono il 4 gennaio 2012: la numero 2 di Corso Tazzoli. Quel giorno le facce meste dei delegati Fiom Cgil vennero immortalate dai fotografi mentre uscivano carichi di ricordi. Inventariato tutto, caricarono anche la fotocopiatrice sul camion. Dovevano lasciare la loro saletta per non aver firmato il contratto separato di primo livello Fiat, per non essersi piegati al modello Marchionne. Con una promessa. Oggi mantenuta: «Non abbiamo voluto che fosse la Fiat a imballare le nostre cose, e saremo noi a riportarle dentro», disse Giorgio Airaudo, allora responsabile Fiat della Fiom. Oggi, da deputato di Sel, ci sarà anche lui a festeggiare la fine dell’esilio.
«TORNIAMO A CASA»
Sono passati più di tre mesi dalla sentenza della Corte costituzionale. Mirafiori è fra le ultime fabbriche Fiat a ridare «agibilità sindacale» ai delegati Fiom Cgil. I 15 delegati delle Carrozzierie si riapproprierano dei 20 metri quadri della saletta. Fra loro Nina Leone, lavoratrice Fiat Mirafiori dal 1988. «Quel 4 gennaio non è certo stato un bel giorno, era come se qualcuno ti caccia di casa, quando hai il diritto a stare lì», racconta. Nina oggi rientrerà con in mano la Costituzione. «È la Carta che anche la Fiat deve rispettare, sarà bello rimettere le nostre bandiere i nostri simboli, sarà come tornare a casa, come quando ti viene ridato qualcosa di tuo, di dovuto».
In quella saletta Nina entrò nel 1994. «Sono stata eletta delegata quell’anno e in quella sala ci riunivamo in 25 più il funzionario». Fra i tanti ricordi ne sceglie uno: «La prima volta che ci entrò Claudio Sabattini, incuteva rispetto e io dalla prima all’ultima volta che l’ho visto gli ho sempre dato del “lei”, anche se lui mi riprendeva e mi chiedeva di dargli del “tu”. Con lui abbiamo fatto tante discussioni, elaborato tante strategie sulle vertenze, ognuno diceva la sua, si litigava spesso, ma alla fine, democraticamente, si trovava la sintesi».
Mirafiori è da sempre il simbolo della Fiat. Un gigante che da anni esemplifica la situazione del Lingotto in Italia. Dai 64mila lavoratori dei bei tempi, siamo scesi a 5.300. Dal 2010 si andava avanti a tre giorni al mese. Ma Lina e la metà del totale, tutti quell che avevano la sfortuna di lavorare sulla linea Idea-Musa, da più di un anno sono in cassa integrazione a zero ore: a meno di 900 euro al mese. I più fortunati continuano a lavorare tre giorni al mese sulla linea che sforna la Mito. Qualche centinaio ha avuto la fortuna di essere distaccato temporaneamente alla Bertone, fabbrica che diverrà un tutt’uno con Mirafiori.
5MILA IN CASSA DA ANNI
Lo scorso settembre Mirafiori ha rischiato di morire. La scadenza dell’ennesima cassa integrazione poteva decretare la chiusura definitiva. L’annuncio, procrastinato da due anni, del nuovo modello, un Suv Maserati, ha portato ad un rinnovo di un anno di cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione. «Ma il nuovo modello non arriverà prima del 2015. E di certo non darà lavoro a tutti i 5mila delle Carrozzerie di Mirafiori», spiega Federico Bellono, segretario Fiom di Torino. E ora la Fiom potrà spiegarlo a tutti. «Tornare lì ha sicuramente un significato particolare, ma è anche un fatto pratico perché i lavoratori potranno parlare con i delegati che avranno 8 ore di permesso rispetto alle decine degli altri sindacati. Ma ora gli operai potranno discutere, chiedere chiarimenti per esempio sulla dichiarazione dei redditi». Bellono ci tiene però a precisare: «La Fiom da Mirafiori non se n’è mai andata, c’eravamo clandestinamente ma c’eravamo. E il merito è stato proprio dei nostri delegati, quelli che hanno subito di più: se ora possiamo aprire una nuova fase lo dobbiamo a loro. Marchionne voleva farci fuori e non c’è riuscito. Ora non ci sono scelte da fare, c’è una sentenza da rispettare», attacca Bellono.
E infine Bellono fa una promessa. Una promessa che riguarda l’Unità. «A dire la verità a Mirafiori la bacheca non c’era da anni. Ma proveremo a rimetterla e a riportare anche l’Unità a Mirafiori. Le bacheche tolte alla Magneti Marelli di Bologna e Bari sono state uno dei punti più bassi della strategia di Marchionne e riportare il giornale di Gramsci in fabbrica ci fa molto piacere».

l’Unità 18.10.13
Pd: cambiare su pensioni e cuneo
Fassina pronto a dimettersi
di Maria Zegarelli


Ipiù critici rispetto alla legge di stabilità nel Pd sono i Giovani turchi e i renziani. Ma è il viceministro Stefano Fassina ad aprire un fronte di tensione tutta interna al Pd: ha scritto a Enrico Letta una lettera nella quale comunica di essere pronto a rimettere il proprio mandato se non ci sarà un chiarimento al suo rientro dagli States.
Duro il viceministro per essere stato escluso da tutta la fase preparatoria del ddl stabilità e per non aver ricevuto, malgrado ripetute richieste, la documentazione. E in serata il segretario Pd, Guglielmo Epifani, parlando ai microfoni del Tg5, gli dà ragione: «Credo che lamenti una mancanza di collegialità e credo che abbia ragione». Nel merito del provvedimento del governo, poi, lo stesso segretario chiede cambiamenti, soprattutto per gli interventi che riguardano «la parte di popolazione che sta peggio». È lì, dice, che bisogna rimettere mano: «Su tutta la parte relativa al sociale: indicizzazione pensioni, fondi per i non autosufficienti, intervento per le disabilità... Abbiamo tutta la parte della popolazione che sta peggio alla quale la finanziaria non dà l'attenzione necessaria».
Una legge di stabilità che spacca il Pdl tra lealisti e governisti, provoca le dimissioni di Mario Monti da Scelta Civica e agita il Pd. Effetti collaterali delle larghe intese, forse.
Nel Pd spetterà al responsabile economico del partito, Matteo Colaninno, lavorare di fino per cercare una mediazione interna e di sicuro il clima congressuale non aiuta. Sono i punti elencati dal segretario i più dolenti per i democratici dagli assegni di accompagnamento, all’indicizzazione delle pensioni, agli interventi in busta paga e al cuneo fiscale. Cesare Damiano entra nel merito: il taglio del costo deve essere destinato ai lavoratori dipendenti che percepiscono redditi medio bassi; per l'indicizzazione delle pensioni «si deve ripristinare quanto era previsto dalla Finanziaria del 2012 per le pensioni fino a sei volte il minimo, perché il Governo ha peggiorato la normativa che doveva decorrere dal primo gennaio del prossimo anno», mentre per gli esodati si devono trovare risorse per risolvere definitivamente il problema.
Il responsabile economico del Pd, però, se è convinto che dei miglioramenti vadano apportati, non accetta bocciature come quelle che dal fronte renziano e dai Giovani turchi sono arrivate: durante l’incontro di mercoledì con gli uffici di presidenza e i capigruppo di Camera e Senato ha più volte ribadito che questo è il primo provvedimento che dopo anni restituisce e non toglie. E se i tagli alla Sanità, ha aggiunto, sono stati evitati è stato grazie al lavoro del Pd, così come è avvenuto per il Patto di stabilità interna.
Troppo poco per i sostenitori del sindaco fiorentino, come sottolinea il suo consigliere economico, Yoram Gutgeld: «È così stabile, soffice ed equilibrata che praticamente è come se non fosse mai stata fatta, come se non esistesse». Gli rispondono su fronti opposti il lettiano Francesco Boccia e Pier Luigi Bersani. «È la base di partenza che possiamo rafforzare in Parlamento: certamente non è più tempo di pretendere che non si tocchi la spesa e al contempo si riducano le imposte», dice il primo aggiungendo che il ddl «è una speranza di cambiamento e si basa su tre pilastri: abbassamento delle tasse per famiglie e imprese, taglio della spesa improduttiva e avvio concreto delle dismissioni del patrimonio pubblico». L’ex segretario Pd non condivide le «riserve ingenerose», pur ammettendo che «sul tema del sociale, del pubblico impiego qualcosa da correggere c'è, dopo di che forse si sono create troppe aspettative».
Per i Giovani turchi è Matteo Orfini in un post su Facebook a spiegare cosa non va e perché, dice, non condivide il giudizio del segretario Guglielmo Epifani. Bisogna cambiare la filosofia su cui si reggono le misure. Come? «Con le stesse risorse destinate alla riduzione del cuneo potremmo produrre una vera svolta occupazionale, che avrebbe evidentemente anche l’effetto di rilanciare consumi e crescita. Investiamo quelle risorse in settori innovativi: infrastrutture digitali, cultura e ricerca, terzo settore, messa in sicurezza del nostro malandato territorio». Critico anche Gianni Pittella: «È una legge “camomilla”, che produrrà effetti per 8 euro nel 38% delle famiglie italiane, quindi veramente una cosa inutile».
A spezzare una lancia a favore di una manovra che non piace ai sindacati e spacca il Pdl è il ministro Graziano Delrio, renziano della prima ora, secondo il quale non ci sarà ancora una vera ripresa ma, «vedremo un segno più del Pil». Delrio guarda le cose positive: «Lo sblocco di un miliardo di investimenti per il patto di stabilità e i 3,2 miliardi per le opere pubbliche». Le proteste dei dipendenti pubblici? «Hanno completamente ragione, è un sacrificio per loro ma non c'era altro modo».

l’Unità 18.10.13
Susanna Camusso: «Letta ci ascolti, cambiamo la legge»
Il segretario Cgil delusa dal governo
«C’è ancora un’impronta liberista dannosa, affrontiamo le diseguaglianze e puntiamo su industria e innovazione»
intervista di Rinaldo Gianola


MILANO «Questa legge di stabilità non ci piace. Non ci sono le scelte di equità di cui il Paese ha bisogno, non si vede un cambiamento, le risorse che vengono messe a disposizione non riequilibrano la situazione di ingiustizia sociale di cui soffriamo. Il governo, soprattutto, non coglie l’urgenza di guardare al lavoro come fattore decisivo per lo sviluppo, in questa mancanza politica e culturale c’è qualche cosa di vecchio e, per me, di pericoloso». Susanna Camusso, leader della Cgil, analizza e commenta i contenuti della legge di stabilità e la sua delusione appare forse più accentuata dalla speranza a lungo coltivata, ma evidentemente sbagliata, che questa volta ci si poteva attendere qualche cosa di più e di diverso. In molti, soprattutto i sindacati si attendevano un segnale forte, positivo per il lavoro, i pensionati, i giovani, con interventi che tendessero a ridurre le diseguaglianze e gli effetti drammatici della crisi di questi anni.
Segretario Camusso, cosa si aspettava la Cgil?
«Certo non la rivoluzione. Non pensavo che Enrico Letta avesse la bacchetta magica. Ma qui c’è poco, bisogna essere chiari. Dopo le parole, le promesse del premier mi ero fatta l’idea che fossimo alla vigilia di un cambio di stagione, che potesse iniziare una fase nuova, una diversa politica economica, che si potesse maturare una strategia industriale, di investimenti, di ricerca all’altezza delle necessità dell’Italia. Ma le speranze sono andate deluse. Non ci siamo sul fisco, non ci siamo con il blocco dei contratti dei dipendenti pubblici, sul cuneo fiscale si poteva fare diversamente anche con le poche risorse a disposizione. Ora, lo dico con tutta la disponibilità a collaborare della Cgil, chiedo al governo di modificare l’impostazione e i contenuti della legge di stabilità».
Cosa salva?
«Le due uniche cose positive sono la decisione di non tagliare ancora la Sanità e il fatto che sia stato allentato il patto di stabilità dei comuni che libera un miliardo per gli investimenti. Su questi due capitoli si poteva costruire un disegno di politica economica di discontinuità dal passato».
Ma il problema vero è che le risorse sono poche, non ci sono tesori da investire. E l’Europa ci osserva pronta a sgridarci.
«Sì è vero, c’è anche questo fattore e nessuno si illude che ci siano miliardi da buttare. Ma il limite del disegno del governo è chiaro. Anche Letta parte dall’idea che l’unica cosa che conta è tagliare le tasse. Ma non è vero. Questo slogan del pagare comunque meno tasse va bene per il tea party, ma non è in sintonia con una politica seria, responsabile di riduzione delle diseguaglianze. Siamo, purtroppo, ancora prigionieri di un liberismo dannoso, che magari oggi si presenta in una formula meno cruenta, ci sono meno forbici in azione, ma il risultato è più o meno lo stesso. Non c’è la necessaria discontinuità nella politica di governo, non vedo un’azione coerente che possa davvero risollevare il Paese»
Un capitolo che lei avrebbe inserito nelle proposte del governo?
«Una serie di interventi di politica industriale. Investimenti e ricerca. Avrei concentrato le risorse in due campi: innovazione tecnologica di processi e prodotti, un programma coerente di riduzione del costo dell’energia. Abbiamo bisogno come il pane che riparta il ciclo di investimenti, che le imprese superstiti alla crisi siano capaci di competere sui mercati creando occupazione. Sarebbe stato utile anche un piano, forte però, di investimenti per la banda larga. Ma c’è poco, pochissimo. Letta
doveva scommettere con più coraggio sugli elementi di cambiamento».
E invece?
«Voglio fare un esempio che è anche un appello al governo. C’è il caso Piombino, abbiamo aperto il tavolo sulla siderurgia impegnandoci a difendere le produzioni e a salvare l’occupazione. L’Acciaieria è commissariata. Possibile che non ci siano i soldi per rifornire l’altoforno e farlo funzionare? Forse una dimenticanza. Ci aspettiamo che il ministro dello Sviluppo economico intervenga presto per risolvere questo caso».
Il viceministro Fassina pare voglia dimettersi deluso dal testo della legge di stabilità.
«Capisco. Se le scelte del governo non segnano un cambiamento vero, se non c’è una concentrazione di risorse dove davvero c’è bisogno, se non si guarda al lavoro, ai pensionati, a quelli che hanno assegni di 600-700 euro al mese, agli incapienti, diventa difficile condividere le scelte di un esecutivo che ha una maggioranza inconsueta e poco uniforme».
Il suo predecessore alla guida della Cgil, Guglielmo Epifani, oggi segretario del Pd, ha espresso una valutazione più serena della legge di stabilità.
«Epifani fa un altro lavoro, svolge altre funzioni. Ma non sfugge certo a Epifani la necessità di cambiare, di raccogliere le sollecitazioni del sindacato affinchè le risposte del governo alla crisi siano all’altezza dell’emergenza sociale. Sono sicura che il Pd si batterà per migliorare la legge».
Come si muoveranno i sindacati confederali nelle prossime settimane. C’è in ballo anche la proposta di uno sciopero generale?
«Lunedì prossimo ci vediamo con Cisl e Uil, valuteremo insieme la legge di stabilità e le richieste di modifica da presentare al Parlamento. Vogliamo informare e coinvolgere i lavoratori, avviare un processo lungo di mobilitazione unitaria. Tutti gli strumenti di lotta sindacale sono a disposizione». E Confindustria con la quale avevate presentato un documento comune di politica economica?
«Non abbiamo avuto occasioni di discussioni in questi giorni. Forse sull’impostazione della legge e sulle politiche di redistribuzione abbiamo opinioni diverse. Ma abbiamo fatto un bel lavoro in comune e spero di poterlo continuare».

Repubblica 18.10.13
Lavoratori delusi dalla manovra
Camusso: “Si rischiano licenziamenti di massa”
Il leader Cgil inizia dalla Scavolini il suo viaggio tra le fabbriche. “Troppo scarse le risorse per la cassa in deroga, la legge di Stabilità deve cambiare”
intervista di Roberto Mania


PESARO — «Non bastano i 330 milioni di rifinanziamento per la cassa integrazione in deroga. Ne servono di più, molti di più, per tamponare quella che sta diventando una vera emergenza sociale, con il rischio di un’ondata di licenziamenti di massa». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, parla all’assemblea dei lavoratori della Scavolini di Pesaro. Ha deciso di far partire da qui, da quella che è una vera oasi nel deserto italiano della deindustrializzazione incombente, il suo viaggio dentro il lavoro. Pensa che si debba ridare centralità e visibilità a chi lavora, ma soprattutto che si debba ritrovare il senso della «comunità» tra chi lavora. Proprio quello che c’è qui, classico caso di un capitalismo familiare che ha funzionato e che funziona: neanche un’ora di cassa integrazione negli anni della recessione in un’azienda che mai ha pensatodi delocalizzare, che ha investito e innovato prima che la Grande Crisi modificasse i connotati del nostro sistema produttivo. «Serve più attenzione nei confronti di chi lavora», conferma Valter Scavolini, che più di mezzo secolo fa, insieme al fratello Evelino, ha fondato un gruppo diventato un brand del made in Italy, partendo da un piccolo garage. Ora questa grande fabbrica «è per noi come un figlio», aggiunge la nipote Emanuela Scavolini, vice presidente esecutivo, la donna che ha assunto la guida.
Sì, qui c’è la tranquillità del posto di lavoro. I camion fuori sono pieni di cucine da trasportare in tutto il mondo. Si lavora just in time, senza accumulare pezzi in magazzino. Ai 1.100 euro mensili in media si aggiunge ogni anno almeno una mensilità grazie al premio di produzione. I metalmezzadri, figura tipica di quel “terzo capitalismo” dei distretti che ha sostenuto l’economia mentre declinava la grande industria privata e pubblica, resistono ancora: gli operai non hanno voluto che si modificasse in inverno l’orario 7,15-16,15 (pausa pranzo compresa) perché dopo la fabbrica passano alle piccole coltivazioni. Il metalmezzadro ora controlla su un monitor il montaggio delle cucine che avviene praticamente tutto in automazione. Ma la tranquillità per il posto di lavoro nonriesce ad annullare — nemmeno qui — l’incertezza per il futuro. Sono in duecento in assemblea con la Camusso. E al segretario della Cgil chiedono di sapere quando andranno in pensione, visto che la riforma Monti-Fornero ha associato ai 40 anni di contributi i 62 anni di età. E la pensione si allontana per chi è entrato giovanissimo in questa fabbrica. Il capitolo pensioni, che ancora solo in parte affronta il nodo esodati, è uno dei grandi temi assenti nella legge di Stabilità. Anche per questo il giudizio del sindacato è negativo. «Siamo pronti a mobilitarci e lo faremo. Bisogna uscire da uno stato di rassegnazione perché è possibile cambiare in Parlamento lalegge di Stabilità», spiega Camusso. «Segretario — dice uno dei membri della Rsu — , quando ci dici di venire, veniamo a Roma e li cacciamo dal Parlamento a calci nel culo». Linguaggio grillino in questo distretto industriale politicamente “rosso” che alle ultime elezioni però ha fatto toccare punte del 40% al Movimento 5 stelle. Anche questo — secondo Camusso — «è il segno della stanchezza dei lavoratori, la diffusa coltivazione in solitudine di un rancore verso l’altro considerato un nemico ». Non piace il governo delle larghe intese. Chiede un operaio di mezza età: «Qual è l’opinione del sindacato: lasciare questo governo o andare a votare?». Risponde Camusso: «La mia preoccupazione è che non cambi assolutamente nulla. Ma se un governo non dà risposte al mondo del lavoro è meglio che vada a casa. Per questo chiediamo di cambiare la legge di Stabilità, altrimenti ne trarremo le conseguenze».

l’Unità 18.10.13
Oggi i Cobas in piazza, inizia il fine settimana di Roma militarizzata


Inizia oggi la due giorni «terribile» della Capitale, blindata per il corteo dei Cobas, la partita di serie A fra Roma e Napoli (entrambe oggi) e la manifestazione di domani dei collettivi (fra cui i No Tav) e dei movimenti per la casa. Altissima l’allerta per il terrore di incidenti, specie dopo quanto accaduto alla manifestazione degli indignados dell’ottobre di due anni fa con scene di devstazione e saccheggio e violenti scontri fra manifestanti e forze dell’ordine. Ieri il sindaco Ignazio Marino si è detto «preoccupato positivamente» per lo svolgimento dei cortei: «Avremo un’unità di crisi permanente coordinata dal gabinetto del sindaco ha detto per seguire in stretto contatto con il ministero dell’Interno tutto ciò che accade nella nostra città, sperando che le manifestazioni saranno democratiche e lontane da ogni forma di violenza. Me lo auguro veramente».

l’Unità 18.10.13
Austerity e legge di stabilità
Sciopero Usb, corteo a Roma. Fermi i trasporti


Oggi sciopero generale dell’Usb con manifestazione nazionale a Roma. Alle ragioni della protesta, proclamata da tempo, si aggiungono i contenuti della legge di stabilità «con cui il governo delle larghe intese spiega Usb ha riaffermato le politiche antipopolari e la logica dell’austerity». A Roma sono attesi i oltre 100 pullman, l’appuntamento è in piazza della Repubblica alle ore 10, il corteo si concluderà in piazza San Giovanni con comizi e musica.
A Roma è stato confermato lo sciopero degli autobus tra le 8,30 e le 17. La metropolitana sarà invece in funzione tutta la giornata, i mezzi di superficie saranno in funzione dalle 17,00 a fine servizio. Lo sciopero dei trasporti, come quello degli altri comparti è confermato nel resto d’Italia.

l’Unità 18.10.13
Lampedusa
Lunedì le esequie dei naufraghi, il sindaco Nicolini: «Non ci sarò»

La cerimonia di commemorazione delle vittime dei naufragi dei migranti nel mare di Lampedusa, avvenuti lo scorso 3 e 11 ottobre, si terrà lunedì 21 ottobre, alle ore 16, ad Agrigento. Lo ha comunicato il Viminale. La cerimonia avrà luogo al molo turistico di S. Leone, alla presenza dei rappresentanti del governo e delle istituzioni. Non ci sarà in vece, e non senza polemica, il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini. «Non sarò ad Agrigento spiega perché, quello stesso pomeriggio, verrò ricevuta dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, insieme al senatore Luigi Manconi, presidente della commissione straordinaria per i diritti umani del Senato. Sono comunque estremamente amareggiata che questa commemorazione, benché tardiva e a corpi già sepolti, non si faccia a Lampedusa. La comunità della mia isola non merita di non essere coinvolta e di essere convocata a decisione già presa». Nei giorni scorsi Nicolini aveva contestato la «confusione» e i «ritardi» sui funerali di Stato annunciati dal premier durante la sua visita a Lampedusa.

La Stampa 18.10.13
Funerali di non è Stato
di Massimo Gramellini


Come può prendersi cura dei vivi un Paese che non riesce a decidere nemmeno sui morti? La bara di Priebke gira l’Italia da una settimana, strattonata e presa a calci appena si affaccia per strada, senza trovare una buca dove andare a nascondersi. Intanto ci siamo dimenticati di fare i funerali alle vittime di Lampedusa. Proprio così: dimenticati. Ministri, primi ministri e affettate figure istituzionali hanno sfilato con sguardi dolenti sul molo e davanti alle salme della tragedia. C’è stato cordoglio, c’è stato sdegno, c’è stato lo sciame sismico di dichiarazioni scontate. Quel che non c’è stato, come sempre, è lo Stato. Qualcuno che, tra un cordoglio e uno sdegno, trovasse il tempo per allestire una cerimonia solenne di congedo per quei poveri cristi.
A chiunque di noi si rechi in visita a una camera ardente viene spontaneo chiedere il giorno e il luogo dei funerali. Invece a Lampedusa i nostri globetrotter della lacrima non si sono neppure domandati se fossero previsti, dei funerali. Colpisce la loro ostinazione nel rifiutarsi di sfogliare almeno le figure del manuale del buonsenso. Dopo avere riunito su una zattera centinaia di disgraziati, il destino li ha infine dispersi tra vari cimiteri siciliani, tumulati in silenzio dentro tombe anonime. Ma lo scrupolo di coscienza, che è il nome con cui dalle nostre parti si chiama la coda di paglia, ha suggerito allo Stato di correre ai ripari. Lunedì prossimo, a cadaveri ampiamente sepolti, si terrà una commemorazione ad Agrigento, città nota per avere dato i natali al filosofo Empedocle e poi, per compensare, ad Alfano.

Repubblica 18.10.13
La cerimonia a San Leone, dove ha casa il vicepremier Alfano
L’ultima beffa di Lampedusa ad Agrigento l’omaggio alle vittime
di Alessandra Ziniti


LAMPEDUSA — Una commemorazione per le vittime dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre sul molo turistico di San Leone ad Agrigento lunedì pomeriggio. L’annuncio del Viminale coglie di sorpresa e indigna la gente di Lampedusa. Che i solenni funerali di Stato promessi dal premier Letta il giorno della sua visita con Barroso non ci sarebbero mai stati, era apparso evidente quando le 358 vittime della prima tragedia del mare erano state portate via e disseminate per la tumulazione in diversi cimiteri siciliani. Ma che la commemorazione funebre si debba celebrare a San Leone (la località balneare di Agrigento dove ha casa il ministro dell’Interno Alfano e dove non è mai approdato un solo immigrato) e non a Lampedusa lascia senza parole il sindaco Giusi Nicolini. «Lunedi non ci sarò, per quel giorno sono stata invitata a Roma dal presidente della Repubblica. Sono estremamente amareggiata che questa commemorazione, benché tardiva e a corpi già sepolti, non si faccia a Lampedusa. La mia comunità non merita di non essere coinvolta e di essere convocata a decisione già presa. L’ho già detto: se ci avessero comunicato che portavano via le bare, avremmo organizzato per questa gente se non dei funerali di Stato almeno dei funerali di paese». E come una beffa suona anche la scarcerazione del tunisino Hichem Ben Chalbi, arrestato un anno fa perché ritenuto lo scafista del barcone naufragato a settembre 2012 facendo 70 vittime. Il giudice lo ha assolto vista l’assenza in aula dei superstiti che lo avevano riconosciuto e che non si sa più dove sono. L’uomo sta meditando di chiedere all’Italia i danni per un anno di ingiusta detenzione.

l’Unità 18.10.13
Processo Stato-mafia Napolitano sarà teste
di Claudia Fusani


Le massime cariche dello Stato saranno testimoni dell’accusa nel processo sulla presunta trattativa iniziata nel 1992 e andata avanti almeno fino al 1994, ma non è escluso anche oltre, tra parti dello Stato e Cosa Nostra. La Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha deciso ieri, dopo una lunga camera di consiglio, di ammettere tutti i 175 testimoni chiesti dall’accusa. Tra questi, la prima carica dello Stato, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la seconda carica il presidente del Senato Piero Grasso e il primo dei pm, il procuratore generale Gianfranco Ciani, e una sfilza di politici della prima Repubblica. Saranno tutti sentiti come persone informate sui fatti «in ordine si legge nel dispositivo della Corte alle richieste provenienti dall’imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla cosiddetta trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento investigativo delle Procure interessate». Si tratta, infatti, delle persone che tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 l’ex ministro e vicepresidente del Csm Nicola Mancino contattò quando seppe dell’inchiesta sul suo conto della Procura di Palermo, che da anni cerca di fare luce, anche con le Procure di Firenze e Caltanissetta, sul presunto patto tra Stato e mafia che avrebbe messo fine alla stagione delle bombe (’92-’94).
Un processo che è una pagina di storia, ne sente il peso e l’imbarazzo. Dagli scranni della Corte d’Assise lo Stato guarda se stesso ed è chiamato a giudicarsi in un gioco perverso che vede insieme, per la prima volta, sul banco degli imputati, boss come Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e il pentito Giovanni Brusca. Per tutti loro l’imputazione è di violenza e minaccia allo Stato.
IMPUTATI BOSS E POLITICI
Tra gli imputati anche Massimo Ciancimino che risponde di calunnia e di concorso in associazione mafiosa. E Nicola Mancino, trascinato nel processo con l’accusa di falsa testimonianza. Un altro ex ministro, Calogero Mannino, ha scelto l’abbreviato. Stralciata, infine, per motivi di salute, la posizione di Provenzano. Al centro del processo quel pezzo drammatico di storia d’Italia cominciata nel 1992 con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima. Era il 12 marzo. Iniziò, quel giorno, una striscia di sangue e bombe che si concluse nel gennaio 1994 (attentato fallito allo stadio Olimpico di Roma) e passò attraverso le stragi di Capaci, via d’Amelio, Roma, Firenze e Milano. Secondo l’accusa, i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia (fino a un anno fa c’era Ingroia), da quel giorno alcuni politici tra cui Mannino, preoccupati di finire nel mirino della mafia, avrebbe attivato «canali clandestini per interloquire con i boss e far cessare il sangue e le bombe». Tra le controprove di una trattativa in corso, di un «do ut des tra politica e Cosa Nostra» come hanno già scritto i giudici di Firenze, gli oltre 300 detenuti che furono sottratti al regime del 41 bis. Storia controversa assai e con più angoli di lettura zeppa di dimenticanze e vuoti di memoria. Come quella di Nicola Mancino diventato ministro dell’Interno dopo Capaci e che non ricorda di aver incontrato il giudice Borsellino pochi giorni prima di morire.
«La Corte ha ammesso tutti i testimoni, centinaia di documenti e le richieste probatorie tra cui alcune intercettazioni» si fa notare da parte dell’accusa dove c’è assoluta consapevolezza della delicatezza ma anche della necessità di questo passaggio giudiziario. È la prima volta che un presidente della Repubblica sfila come testimone in un processo di mafia.
Il Quirinale fa sapere di essere in attesa di «conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione per valutarla nel massimo rispetto istituzionale». Esiste, tecnicamente, la possibilità di sollevare un conflitto tra poteri dello Stato (come già successe ai tempi delle intercettazioni, poi distrutte, tra Napolitano e Mancino) e quindi di evitare la testimonianza. Vedremo. Di sicuro il presidente della Repubblica sarà sentito, è una sua prerogativa, al Quirinale. E rigorosamente all’interno, scrivono i giudici, «tra i confini tracciati dalla sentenza della Consulta». In pratica la testimonianza può essere ammessa solo sulle cose che il teste ha appreso «fuori dalle funzioni presidenziali o prima di essere nominato Capo dello Stato».
«INDICIBILI ACCORDI»
L’accusa vuol sentire Napolitano sulle «preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio» in una lettera che gli inviò il 18 giugno del 2012. Amareggiato dai veleni seguiti alla pubblicazione delle sue telefonate con l’ex ministro Nicola Mancino, intercettato nell’inchiesta sulla trattativa, D’Ambrosio dopo poco stroncato da un infarto presentò le dimissioni a Napolitano con una lettera in cui negava di avere esercitato pressioni sulla gestione delle indagini. Uno sfogo in cui a un certo punto compare la frase che interessa i pm: «Lei sa scrisse D’Ambrosio a Napolitano che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi, quasi preso dal timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». A cosa si riferiva D’Ambrosio? Indizi in proposito arrivano dalle intercettazioni di Mancino relative a Francesco di Maggio, il numero due del Dap nel 1993.
Il presidente del Senato Pietro Grasso sarà sentito, invece, sulle richieste di informazioni sull’andamento delle indagini sulla trattativa che Mancino gli sollecitava quando era capo della commissione Antimafia.

il Fatto 18.10.13
Stato-mafia Sarà testimone a Palermo
Cosa sapeva D’Ambrosio degli “indicibili accordi”?
Ora Napolitano deve dire tutta la verità
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo Non fu, con tutta probabilità, un semplice testimone. Nel ’93, quando lavorava con Liliana Ferraro al-l’Ufficio studi degli Affari penali di via Arenula, Loris D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo, anche se inconsapevole, nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire il 41bis, nell’ambito del dialogo tra Stato e mafia.
È QUESTO il significato attribuito dalla Procura di Palermo alla lettera che lo stesso D’Ambrosio, divenuto consigliere giuridico del Quirinale, scrive il 18 luglio 2012 al capo dello Stato esternandogli il “vivo timore” di esser stato considerato un “utile scriba” e usato come scudo a “indicibili accordi”, proprio in riferimento al periodo tra l’89 e il ’93. Ed ecco perché i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia intendono chiedere a Napolitano, da ieri ammesso come testimone del processo di Palermo, se e cosa venne a sapere delle preoccupazioni del suo consigliere giuridico, ma soprattutto di quegli “indicibili accordi” cui D’Ambrosio fa riferimento, nella stagione tra l’attentato all’Addaura e le stragi. Chi avrebbe usato come “scudo” D’Ambrosio? E perché? Lo spin doctor del Quirinale, scomparso il 26 luglio 2012 per un attacco cardiaco, è tra i comprimari dell’indagine sulla trattativa, per essere stato l’interlocutore privilegiato dell’ex senatore Nicola Mancino che tra la fine del 2011 e la primavera del 2012 tempesta il Colle di telefonate in cerca di protezione.
IN QUEL periodo, mentre l’inchiesta entra nel vivo, per due volte, nel giro di 57 giorni, D’Ambrosio viene interrogato dai pm di Palermo come “persona informata sui fatti”: la prima il 20 marzo, a Roma; la seconda il 16 maggio, nel capoluogo siciliano. La prima volta, il consigliere giuridico nega di essere in possesso di informazioni utili agli inquirenti: “Non ho alcuna notizia specifica – dice – sull’iter seguito per la nomina di Di Maggio”. Ma la seconda volta, il pm Di Matteo gli comunica che la sua voce è stata “pizzicata” in una telefonata con Mancino, intercettata dalla Dia. In quella telefonata, registrata il 25 novembre 2011, è lo stesso D’Ambrosio a rivelare a Mancino di aver “assistito personalmente” alla stesura del decreto, scritto nell’ufficio della Ferraro, per la nomina di Di Maggio a vice-capo del Dap.
Cosa dice il consigliere del Colle al telefono? “Qui – ammette – ormai uno dei punti centrali della vicenda comincia a diventare proprio la nomina di Di Maggio al Dap”. E ancora: “Io ho assistito personalmente a questa vicenda... ricordo chiaramente il decreto, Dpr, scritto nella stanza della Ferraro... il Dpr che lo faceva vice-capo del Dap”. Perché non ne aveva parlato prima? D’Ambrosio si giustifica scaricando tutto su Mancino: “Il senatore telefona tutti i santi giorni, perché si sente sotto pressione”. Ma il pm Di Matteo gli contesta le contraddizioni tra le dichiarazioni del primo interrogatorio e la conversazione telefonica. E qui D’Ambrosio, in palese difficoltà, annaspa: “Io voglio dire... la mia idea non era il Dpr, era come la base del Dpr, cioè non c’era il visto, visto, visto, non so se mi sono spiegato. (...) Cioè io quello che sostengo è che può anche essere stata una bozza predisposta lì (...). Però io il Dpr vero e proprio non l’ho visto”.
È IPOTIZZABILE, sostengono adesso i pm della trattativa, che in quell’ufficio di via Arenula, D’Ambrosio avesse collaborato più attivamente, proprio come uno “scriba”, alla stesura di quel decreto che permise a Di Maggio, che non aveva i titoli, di andare a dirigere il Dap al fianco di Adalberto Capriotti. Lo stesso che il 26 giugno ’93, subito dopo essere stato nominato, inviò una nota al ministro della Giustizia Giovanni Conso, suggerendo di non prorogare i 41bis in scadenza entro la fine dell’anno, per lanciare “un segnale di distensione”.
È il cuore della trattativa Stato-mafia: un passaggio sul quale, secondo la Procura di Palermo, si allunga l’ombra del generale del Ros Mario Mori. Nella requisitoria del processo per favoreggiamento alla mafia, che si è concluso il 15 luglio scorso con l’assoluzione di Mori, il pm Di Matteo ha sostenuto che, nel contesto della trattativa, in quei mesi si muoveva in sinergia una robusta cordata istituzionale: e a tal proposito ha citato proprio le parole di D’Ambrosio, al telefono con Mancino: “Era un discorso che riguardava nella parte 41bis... alleggerimento 41bis... Mori... Polizia... Parisi... Scalfaro e compagnia”.
DOPO AVER LAVORATO agli Affari penali, D’Ambrosio fu vicecapo di gabinetto dei guardasigilli Conso, Flick e Fassino. Era in via Arenula uando il 23 dicembre ’96, sotto il governo Prodi, il Parlamento decise la chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara, lanciando un altro segnale della “distensione bipartisan” in tema di mafia. Ma dei suoi dubbi, di quei timori relativi agli “indicibili accordi” che ora i pm vogliono chiarire direttamente con il capo dello Stato, non si sarebbe saputo nulla se lo stesso inquilino del Colle non avesse rivelato un anno fa l’esistenza della lettera del consigliere, indicato come vittima di una campagna mediatica. Quella stessa lettera che adesso lo obbliga a salire sul banco dei testimoni.

il Fatto 18.10.13
Il precedente
Gladio, Casson: “Quando Cossiga mi disse di no”
di Gianni Barbacetto


Un presidente della Repubblica, prima di Napolitano, fu già chiamato da un giudice a testimoniare: era Francesco Cossiga, nel 1990 ancora silenziosissimo inquilino del Quirinale. Il magistrato si chiamava Felice Casson, giudice istruttore di Venezia che, indagando su una strage nera, l’eccidio di Peteano, aveva scoperto le tracce di depositi segreti di armi sparsi per l’Italia (i “nasco”) e una misteriosa pianificazione militare fino ad allora sconosciuta. Dopo aver interrogato il nero che si era autoaccusato dell’azione di Peteano, Vincenzo Vinciguerra, e due generali dei servizi segreti, Gian Adelio Maletti (Sid) e Pasquale Notarnicola (Sismi), Casson chiede al presidente del Consiglio Giulio Andreotti di avere accesso agli archivi del Sismi. Andreotti un po’ tira per le lunghe, poi concede l’accesso. E giovedì 26 luglio 1990 negli archivi di Forte Boccea il giudice trova i documenti che provano l’esistenza della pianificazione Stay Behind, in Italia chiamata “Gladio”, nata nel 1951 da un accordo tra Cia e Sifar (il servizio segreto militare), tagliando fuori il Parlamento e perfino il governo italiano. A quel punto Andreotti gioca d’anticipo e rivela qualcosa (con molte bugie) della struttura segreta. Nei documenti di Gladio, Casson scopre che c’è un politico italiano che ha avuto un ruolo attivo nella pianificazione, quando negli anni ’60 era sottosegretario alla Difesa: un certo Cossiga, nel 1990 capo dello Stato. Codice alla mano, il giudice istruttore chiede la sua disponibilità a rendere deposizioni come testimone. Da quel momento, Cossiga il Silenzioso si trasforma in Cossiga il Picconatore: comincia ad attaccare il giudice (“l’efebo di Venezia”) con violente dichiarazioni ai giornali. Tracimerà su ogni argomento e non si fermerà più, fino alle sue dimissioni, nell’aprile 1992. Inaccettabile, per Cossiga, sedersi di fronte a un giudice per rispondere su pianificazioni segrete, esplosivi di Stato, depistaggi e stragi. Qualcuno chiede di giocare la carta del conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato, ricorrendo alla Corte costituzionale. Ma i codici parlano chiaro: anche il capo dello Stato può essere sentito come testimone dall’autorità giudiziaria, lo dice l’articolo 205 del nuovo codice del 1989 (“La testimonianza del presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di capo dello Stato”), in continuità con l’articolo 356 del precedente codice di procedura penale. Il conflitto non viene neppure sollevato e qualche tempo dopo si convince anche Cossiga, tanto che manda due ufficiali da Casson a trattare le condizioni della deposizione.“A quel punto però la mia indagine era andata avanti – ricorda oggi Casson – avevo sentito ministri e generali, politici e capi di Stato maggiore, e non avevo più bisogno di Cossiga”. Era corso al palazzo di giustizia di Venezia anche Amintore Fanfani, che pure non era stato chiamato: “Mi ha detto – prosegue Casson – che riteneva suo dovere venire a dire quanto sapeva, e cioè che, benché fosse stato più volte premier, era stato tenuto all’oscuro di Gladio, che era dunque una pianificazione segreta con catene di comando fuori dalla Costituzione: la conoscevano i vertici di Cia e Sifar-Sid-Sismi e solo alcuni politici. Come Cossiga, che alla fine però riconobbe che era legittimo che un giudice chiedesse d’interrogare il capo dello Stato: proprio come oggi – ribadisce Casson, diventato parlamentare del Pd – è pienamente legittimo che la corte d’assise di Palermo interroghi il presidente Napolitano”.

Corriere 18.10.13
Matteo Renzi
«Voglio una rivoluzione capillare Bisogna che tutti cambino, anche l’establishment finanziario»
intervista di Aldo Cazzullo


Sindaco Renzi, come trova la legge di Stabilità?
«Il Pd ha un segretario, si chiama Epifani; è giusto che la commenti lui. Chi pensa che da qui alle primarie io faccia il controcanto al Pd, o peggio al governo, si sbaglia. Dobbiamo parlare dell’Italia dei prossimi dieci anni, non della contingenza».
Ma la contingenza è decisiva: tutti i Paesi stanno rialzando la testa dalla crisi, tranne il nostro.
«Credo che ci sia bisogno di una svolta radicale. Una rivoluzione capillare che non passa dalla legge di Stabilità, ma dalla riconsiderazione del sistema italiano. Lo sostengo da tempo. Ho un unico rammarico: non aver spiegato a sufficienza che la rottamazione non è solo il sacrosanto ricambio generazionale. Quello di cui l’Italia ha bisogno non è cambiare tutto, ma cambiare tutti. Ognuno nella sua testa dovrebbe cambiare un pezzettino. Anche l’establishment economico e finanziario, che ha colpe forse non più gravi di quelle dei politici, ma ha fatto perdere tempo e occasioni all’Italia».
Per una svolta radicale servono soldi che non ci sono. O dobbiamo chiedere all’Europa di sforare il tabù del 3%?
«Il 3% è anacronistico. L’Europa deve cambiare; non per l’Italia, per se stessa. Ma prima di chiedere all’Europa di cambiare, dobbiamo fare in casa le riforme che rinviamo da troppo tempo. La formula per risolvere la crisi italiana non è un algoritmo complicato; è la semplicità. Semplificare la burocrazia, il fisco, la giustizia, le norme sul lavoro. Perché non possiamo avere le stesse norme sul lavoro della Germania?».
Semplificare il fisco? Il Pd è considerato il partito delle tasse.
«Mi trova lei un altro sindaco che in piena crisi abbia abbassato l’Irpef?».
Dello 0,1%...
«Dallo 0,3% allo 0,2%, il 33% in meno. Per il Comune, milioni di euro in meno di entrate. Ma è importante il messaggio: la sinistra non può essere considerata il partito delle tasse. Durante la scorsa campagna per le primarie avevo proposto un intervento sul cuneo fiscale da 21-22 miliardi, per cui un signore che guadagna 2 mila euro al mese se ne sarebbe ritrovati in busta paga cento in più».
Come li prende i soldi? Ai pensionati?
«Io parlo delle pensioni d’oro. C’è chi prende 5 o 10 mila euro al mese. Sulla parte retributiva della sua pensione — che di fatto costituisce un regalo dello Stato — è legittimo chiedere un contributo. Per non parlare di alcune reversibilità. E dei tagli alla spesa pubblica, che vanno fatti, individuando i settori su cui intervenire. Oggi faccio un passo indietro. Quando toccherà a noi, le proposte le faremo in modo chiaro. Di queste cose parlerò in un incontro nelle prossime settimane a Milano» .
Ce lo dica adesso: quale sarebbe la sua politica economica?
«Tutto ciò che viene dalla dismissione del patrimonio pubblico va a ridurre il debito. Tutto ciò che viene dal recupero dell’evasione va a ridurre la pressione fiscale. Lo Stato non può intervenire con la logica degli ultimi anni. E ogni riferimento alla Telecom dei capitani coraggiosi e all’Alitalia è puramente voluto. Non possiamo continuare con un modello dirigista, con lo Stato che decide e la Cassa depositi e prestiti che fa da tappabuchi».
Di fronte alla crisi un intervento pubblico è inevitabile, non crede?
«Ma il sistema capitalistico italiano ha responsabilità atroci. Inutile lamentarsi solo della politica; anche le banche hanno le loro colpe da emendare. Ogni euro investito in operazioni di sistema e perduto è un euro tolto alle aziende, alle famiglie, agli artigiani consegnati all’usura che alimenta la criminalità. Il sistema bancario è entrato in mondi da cui dovrebbe uscire. Compresa l’editoria. Posso dirlo?».
Certo .
«Considero positivo che si sia sciolto il patto Rcs. L’Italia è stata gestita da troppi patti di sindacato che erano in realtà pacchi di sindacato. Faccio il tifo per i manager che stanno cambiando il sistema. Deve finire il capitalismo relazionale, in cui spesso lo Stato ha finito per coprire le perdite. L’eccesso di vicinanza tra politici, imprenditori e banche ha creato operazioni sbagliate. E’ assurdo che per salvare un’azienda come Ansaldo Energia si metta mano alla Cassa depositi e prestiti, cioè ai soldi della vecchietta o dell’immigrato, cui viene chiesto a propria insaputa di pagare i giochi spericolati di chi ha fatto impresa con i soldi altrui».
Non è che i politici siano innocenti.
«È per questo che mi candido alla guida del Pd. Per cambiarlo. Non per fare il grillo parlante di quello che fa oggi il governo, ma per costruire un partito nuovo, che non conclude affari con i capitani coraggiosi, che sta in mezzo alla gente. A Civiltà Cattolica che gli chiedeva perché non sia entrato nell’appartamento papale, Francesco ha risposto proprio così: non perché sia troppo lussuoso, ma perché renderebbe più difficile il contatto con la gente».
A proposito di capitani coraggiosi, D’Alema dice che lei, per non logorarsi, logorerà Letta.
«È un giudizio sbagliato. D’Alema è una persona intelligente, ma questa sua qualità non lo mette al riparo da clamorosi errori di giudizio. Nel caso di D’Alema non è il primo, purtroppo per lui. Io ho 38 anni: posso aspettare. Il punto è che l’Italia non può aspettare. Compito di tutti noi che abbiamo responsabilità è dare una mano perché le cose si facciano. A Enrico do volentieri una mano».
Lei aiuta Letta? Dice sul serio?
«La cronaca di questi sei mesi ha smentito chi mi accusava di cospirare. Continuo a non dare alcun alibi a chi mi accusa di voler criticare il governo per anticiparne la fine. Io non attacco il governo. Parlo di quel che serve all’Italia nei prossimi anni. Convinto che l’Italia possa avere un futuro straordinario».
Lei teme che in Parlamento ci sia un accordo per una legge elettorale che perpetui le larghe intese?
«Il Pd farà il congresso e le primarie, con candidati che propongono soluzioni diverse anche per la legge elettorale. Io faccio la mia proposta. Sono per una legge che garantisca l’alternanza, il bipolarismo, e un risultato chiaro. Chi vince le elezioni non potrà mai avere il diritto di dire “non mi hanno fatto lavorare”. No all’inciucione generalizzato: le larghe intese devono essere l’eccezione, non la regola» .
Lei ha chiesto di spostare la discussione sulla legge elettorale dal Senato alla Camera. La Finocchiaro le ha risposto di no.
«Se in Parlamento si forma una maggioranza favorevole a una norma chiara e trasparente, per cui chi vince governa e non si ritorna ad accordicchi nelle segrete stanze, io sono il primo a festeggiare. Ma se si pensa di poter ulteriormente bloccare il Paese con un’operazione da prima Repubblica, senza statisti da prima Repubblica, allora sia chiaro che ci sarà il dissenso non solo mio ma della maggioranza dei senatori del Pd; come la Finocchiaro ha avuto modo di verificare in queste ore in modo riservato. Il Pd è vincolato dalle primarie. Decidono gli elettori che vanno al gazebo, non una senatrice che ha l’unico titolo di essere lì da trent’anni».
Tra le riforme da fare lei cita la giustizia, cara soprattutto alla destra.
«La riforma della giustizia è una priorità per gli italiani, non per la destra. Non so se riuscirà a farla questo Parlamento o il prossimo. So che è indispensabile, dopo 20 anni di provvedimenti ad personam. Non è possibile reggere lo spread tra Italia e Germania, per cui un provvedimento di natura civilistica da loro richiede un anno e da noi 4. Non è possibile ricorrere alla custodia cautelare nella misura di oggi. Non è possibile che i tempi della giustizia amministrativa siano sempre un incognita: se voglio togliere una bancarella dal mercato devo aspettare che si pronunci il Tar, per aprire la caffetteria di Palazzo Vecchio deve attendere due mesi in più per il ricorso sull’appalto… Ormai sugli appalti pubblici lavorano più gli avvocati dei manovali».
Si ricandiderà a sindaco di Firenze, la prossima primavera?
«Se i fiorentini lo vorranno, sì. Non voglio diventare un pezzo di burocrazia romana. Voglio mantenere la freschezza che mi viene dal girare in mezzo alla gente, senza lampeggiante, con la mia bici».
Come può fare entrambe le cose?
«La storia del doppio incarico è ridicola. Il segretario di un partito ha quasi sempre un altro incarico. Bersani era segretario e parlamentare, Epifani è segretario, parlamentare e presidente di commissione. Il segretario del Pdl è ministro dell’Interno, il leader di Sel è presidente di Regione. Martine Aubry era sindaco di Lilla e segretaria del Ps. E poi dipende da cosa deve fare un partito. Se si vuole un Pd tutto centrato su Roma, è logico che il segretario ci passi tutta la settimana. Se, come spero, porteremo alla guida amministratori locali, avremo un Pd molto più snello. Vorrei che il pastone del tg la sera non mi trovasse mentre salgo ed esco dalle stanze di partito, ma mentre inauguro una biblioteca, come ho appena fatto» .
In attesa degli amministratori, arriva la vecchia guardia. Dopo Franceschini si è schierato con lei Latorre. Ma il rinnovamento lo fa o no?
«La stragrande maggioranza di coloro che stavano contro di me continua a stare contro di me; gli altri si contano sulle dita di una mano. Noi dobbiamo andare avanti con tutti. Non credo a un Pd che butta fuori la gente: sono per includere, non per escludere. Perché respingere quelli della vecchia guardia che non ce l’hanno con te? E poi ho un rapporto di stima con Gianni Cuperlo. È una persona perbene, di cui non condivido tutto ma che ascolto con grande piacere. Se vinco le primarie, il giorno dopo lavorerò per allargare».
Non faccia il finto modesto. Tutti sanno che vincerà le primarie.
«Il risultato è tutt’altro che scontato. Un conto è se vota un milione di persone, un conto se ne arriva il doppio. L’8 dicembre, con le feste religiose a Milano, Roma, Palermo, è la peggiore data possibile. Spero di coinvolgere la gente, fin dal prossimo 25 ottobre alla Leopolda, proprio perché la sfida in gioco è decisiva».
Il Pdl si dividerà?
«Non lo so. So che non sopporto quelli che hanno osannato per vent’anni Berlusconi, arrivando a votare che Ruby era la nipote di Mubarak, e ora lo attaccano perché è stato condannato e ha perso il controllo del partito. Passi il dibattito su falchi e colombe, tacchini e pitonesse. Ci risparmino lo spettacolo di iene e avvoltoi».
La sua uscita contro amnistia e indulto, proposti da Napolitano, è stata interpretata anche come un modo per rivendicare l’autonomia della politica dal Quirinale. È così?
«Io ho un rispetto profondo per il presidente della Repubblica. Per la figura istituzionale, e per la persona. Ma trovo irrispettoso proprio nei confronti di Napolitano trasformare un messaggio di 12 cartelle in un diktat, per cui bisogna far così e basta. Alcuni commentatori non lo sanno, ma il presidente della Repubblica è il primo a essere consapevole che la funzione del suo messaggio era stimolare il dibattito. Io ho fatto la mia parte. Il falso unanimismo su questi temi è frutto di superficialità. Si cambino le leggi che riempiono le carceri, la Giovanardi e la Bossi-Fini. E si prenda atto dell’esperienza del 2006: a sette anni da un indulto non se ne può fare un altro. È diseducativo. Significa che lo Stato rinuncia a fare lo Stato. Non ho la pretesa di avere la verità in tasca. Ma se c’è una cosa da dire, la dico in faccia, chiara. Io non sono cambiato».

il Fatto 18.10.13
Cuperlo trova lo slogan: ”Bello e democratico”


“MATTEO RENZI? È solo un visitor”. Massimo D'Alema definisce così il candidato alle prossime primarie del Pd. “Non credo che avrà la maggioranza assoluta tra gli iscritti”, continua, “e se ha intenzione di fare anche il sindaco di Firenze e di venire a Roma due giorni alla settimana stiamo freschi. I problemi che ha il nostro partito sono complessi". La speranza di D’Alema è che Renzi e il suo avversario Gianni Cuperlo possano trovare un accordo dopo il congresso. “Sarebbe un bene per il partito e non per me che ormai sono un simpatizzante e non un dirigente del Pd. Loro hanno caratteristiche complementari”. Intanto, la sfida entra nel vivo. Cuperlo ha scelto per la sua corsa alla segreteria del Pd lo slogan: “Bello e democratico”.

il Fatto 18.10.13
Rodotà premier
Guerra a colpi di libri (democratici)


Le polemiche tra Massimo D’Alema e e Pier Luigi Bersani hanno ormai un passo narrativo. Posato. Lento. Retrospettivo. Nel degno rispetto della tradizione comunista. Accade che il primo, D’Alema, conferma a Marco Damilano per il volume Chi ha sbagliato più forte quanto anticipato dal Fatto nel maggio scorso, a proposito del pre-incarico a Bersani: “Era poco lucido e gli suggerii di fare un passo indietro e proporre al Colle Rodotà premier”. Obiettivo: stanare il M5S. La risposta da un altro libro, quello dei bersaniani Di Traglia e Geloni, Giorni Bugiardi: “Nessuno mi ha mai suggerito altri nomi l’incarico”.

Corriere 18.10.13
La guerra delle ricostruzioni
Elezioni e l’idea di Rodotà premier D’Alema contro Bersani. E viceversa
di M.T.M.


ROMA — In altri tempi uno scontro tra D’Alema e Bersani avrebbe suscitato un profluvio di commenti, un’inondazione di flash di agenzia e paginate di giornali. Ora non è più così. Segno dei mesi che in politica trascorrono con sempre maggior crudele velocità: basta poco a relegare nel passato, seppur recente, certi personaggi, lanciando sulla ribalta nuovi e più giovani protagonisti.
Il dissidio tra ex va in scena su due libri. Nel primo, quello del giornalista dell’Espresso Marco Damilano, intitolato «Chi ha sbagliato più forte», D’Alema critica Bersani. Fondamentalmente, per due ragioni. La prima è che alle ultime elezioni politiche «ha sbagliato un rigore a porta vuota»: «C’è stata un’eccessiva continuità con il passato, uno scarso contenuto innovativo, scarsa capacità di comunicazione» e chi più ne ha più ne metta. Poi l’aggiunta, perfidamente affettuosa: «Voglio bene a Bersani, ma dopo il voto ha perso lucidità. Era dominato dall’idea che senza avere la maggioranza avrebbe potuto comunque fare il governo, cosa palesemente infondata. Ne parlammo e gli dissi di stare attento. Gli consigliai di fare un gesto, di cambiare lo scenario, di candidare Rodotà alla guida del governo. Il Movimento 5 stelle sarebbe stato messo in difficoltà e forse la legislatura sarebbe cominciata diversamente».
Rivelazione, quest’ultima, che peraltro non è nuova. La scrisse nel maggio scorso Fabrizio D’Esposito sul Fatto , attribuendo a D’Alema questo suggerimento e a Bersani una risposta negativa così congeniata: «Io me la voglio giocare fino in fondo». All’epoca l’allora segretario smentì tutto. Assai più sfumata la presa di posizione dell’ex premier che si limitò a precisare di non aver parlato con il Fatto .
Adesso la notizia rimbalza di nuovo, grazie al libro di Damilano. E Bersani si arrabbia e smentisce: «Nessuno mi ha mai suggerito altri nomi per l’incarico». Mentre gli ultrà bersaniani Chiara Geloni e Stefano Di Traglia nel libro «Giorni Bugiardi», che uscirà il 6 novembre, ricordano che l’ex segretario ha ribadito anche a loro «che non è mai accaduto niente di simile».
La polemica finisce qui, con pochi irridenti commenti dei neoparlamentari del Pd e con l’ex premier che a sera cambia bersaglio e se la prende con Renzi, definendolo un «visitor»: a suo avviso solo un accordo tra lui e Cuperlo può salvare la situazione.

Repubblica 18.10.13
L’ex premier contro l’ex segretario: “Dopo il voto perse lucidità, Prodi fu imposto, un grave errore”
Scoppia la guerra tra D’Alema e Bersani “Non volle Rodotà premier”. “Una bugia”
di Silvio Buzzanca


ROMA — «Pier Luigi Bersani dopo il voto ha perso lucidità. Io gli avevo consigliato di candidare Rodotà alla guida del governo », rivela Massimo D’Alema. «Ho già smentito più volte: nessuno mi ha mai suggerito altri nomi per l’incarico. Tutti sanno che non avrei mai impedito nascita governo se l’ostacolo ero io», replica Bersani. Un confronto, uno scontro, tra i due big del Partito democratico, che questa volta, strano di questi tempi, si consuma nelle pagine dei libri. L’ex premier, parla infatti nel volume “Chi ha sbagliato più forte. Le vittorie, le cadute, i duelli dall’Ulivo al Pd” scritto da Marco Damilano. Libro di cui l’Espresso in edicola oggi pubblica delle anticipazioni. Il pensiero dell’ex segretario è invece immortalato in “Giorni bugiardi”, scritto a quattro mani da Stefano Di Traglia e Chiara Geloni che è stato anticipato ieri e che uscirà in libreria nelle prossime settimane.
I ricordi di D’Alema sull’ultimo spezzone di vita politica e sul ruolo di Bersani sono agrodolci. L’ex premier dice a Damilano: «Voglio bene a Bersani, l’ho sostenuto in ogni modo. Anche il gesto della rinuncia alla candidatura al Parlamento lo ha certamente aiutato nel fuoco delle primarie. Cosa potevo fare di più?», ma continua D’Alema, «dopo il voto Bersani ha perso lucidità, era dominato dall’ideache senza avere la maggioranza avrebbe comunque potuto fare il governo, cosa palesemente infondata».
In questo contesto D’Alema sostiene di avere consigliato a Bersani il passo indietro a favore di Rodotà. Scelta che avrebbe prodotto un rapporto diverso con i grillini. Perché, spiega, «il Movimento 5 Stelle sarebbe stato messo in difficoltà. E forse la legislatura sarebbe cominciata diversamente». E D’Alema rivela di avere anche parlato con Romano Prodi e di averlo avvertito che la sua candidaturaal Quirinale rischiava «di esporlo a una vera e propria trappola ». «Trovo grave» - spiega D’Alema - che sulla candidatura Prodi «la segreteria non abbia sentito il dovere di aprire una discussione politica» Lui, l’ex segretario, replica dalle pagine dell’altro libro. Ma in serata, D’Alema, ad una iniziativa di Italiani Europei conferma tutto. «Bersani — dice — rispose che avrebbe riflettuto dopo la valutazione che facemmo. Ma evidentemente la proposta a Napolitano non fu fatta ».
L’ex premier però non risparmia critiche eanche a Renzi. D’Alema dice: «Io parlo da militante e più che altro da osservatore visto che sono un dirigente del Pse ma non del Pd e penso che le primarie per il segretario hanno innescato un elemento plebiscitario che è stato foriero di una serie di guasti e infatti non ha funzionato perché la nostra cultura politica è refrattaria a una cultura plebiscitaria».
La figura del sindaco di Firenze aleggia sullo sfondo. Ma D’Alema non ha certo timore di tirarlo in ballo. «Renzi — dice — è fuori dal tempo e sta facendo una campagna completamente personale. Io ho l’impressione che lui si sia imbarcato su una strada rischiosa». Secondo l’ex premier, se restasse sindaco e venisse eletto segretario, «avremo una sorta di visitors che viene a Roma quando ha tempo».

La Stampa 18.10.13
Ex compagni
di Francesca Schianchi


Le ultime elezioni, quelle «non vinte»? «Abbiamo subito uno shock, c’è stato un rigore a porta vuota sbagliato». Pier Luigi Bersani? «Gli voglio bene, l’ho sostenuto in ogni modo», ma «dopo il voto ha perso lucidità, era dominato dall’idea che senza avere la maggioranza avrebbe comunque potuto fare il governo». Tanto che, racconta Massimo D’Alema, «gli consigliai di fare un gesto, di cambiare lo scenario, di candidare Stefano Rodotà alla guida del governo. Il M5s sarebbe stato messo in difficoltà e forse la legislatura sarebbe cominciata diversamente». E, ancora, «trovo grave che dopo il disastro che era accaduto con Marini la segreteria non abbia sentito il dovere di aprire una discussione politica».
Fino a ieri, la voce che tra l’ex segretario del Pd Bersani e l’ex premier D’Alema fosse sceso un certo freddo, si iscriveva nel genere del retroscena. Da ieri con il libro del giornalista dell’Espresso Marco Damilano «Chi ha sbagliato più forte» (Laterza), qualche elemento in più irrompe sulla scena. In una curiosa sfida tra volumi in uscita. Perché per dire la sua versione, che no, nessuno gli ha mai proposto un cambio di cavallo, Bersani si affida al libro «Giorni bugiardi» di due dei suoi più fedeli collaboratori, Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, in uscita il 6 novembre (Editori internazionali riuniti). Con un’anticipazione diffusa ad hoc ieri: «Quelle di D’Alema sono ricostruzioni che non mi sento di condividere. Ho già smentito più volte: nessuno mi ha mai suggerito altri nomi per l’incarico. Tutti sanno che non avrei mai impedito la nascita del governo se l’ostacolo ero io».

La Stampa 18.10.13
Odifreddi
Il blog calamita per antisemiti
di Elena Loewenthal


Mentre mezza Italia è all’inseguimento delle spoglie di un criminale nazista fiero di esserlo stato, l’altra infesta il web di parole orrende. La responsabilità primaria di questo inquinamento verbale torrenziale, bulimico, è di Piergiorgio Odifreddi e del suo blog. Il matematico impertinente nonché tuttologo visibilmente in cerca di visibilità lancia da un pezzo i suoi strali contro Israele, che con un risentimento fetido equipara ai peggiori criminali seriali della storia.
Il web, si sa, è diventato ormai il luogo dove l’esercizio della libertà di parola diventa come nulla lo sproloquio dell’arbitrio, della parola che si lancia al vento della rete giusto per farsi sentire. A forza di gridare forte, Odifreddi è riuscito ad attirare entro il suo campo gravitazionale una costellazione di voci accomunate da quello che non si stenta a definire una nuova forma di (vecchio) antisemitismo.
Dall’odio per Israele alla diffidenza per la storia del Novecento così come ci sarebbe stata «propinata» dai vincitori il passo non era poi così lungo. Si è compiuto in questi giorni, sull’onda del tardivo decesso di un boia nazista. Perché più delle parole di Odifreddi – che potremmo anche prendere con il beneficio d’inventario della trovata mediatica, della boiata da megafono – sconcertano i commenti degli internauti, rimbalzati come una fiumana tossica per tutti i social network.
E di questi commenti, stupisce che più della furia, della voglia di presunta rivalsa storica, siano intrisi di una razionalità assurda, di quella serietà che possiamo immaginare sul volto arcigno di una maestrina, le mani sui fianchi e il piede che batte per terra. C’è chi avanza dubbi sull’efficacia dello Zyklon B e sull’infiammabilità di quell’aria impestata per dimostrare che i racconti arrivati da Treblinka e Auschwitz sarebbero incongruenti e dunque falsi. Chi dice che le ha viste bene, a Dachau, ed erano docce vere, altro che! Chi, più in generale, invoca delle prove dello sterminio, che in fondo non ci sono...
Una quantità inenarrabile, insomma, di sentenze, di assurdità declamate. Un quadro terribilmente desolante che suscita due pensieri, tristi entrambi. Il primo è che chi scatena e lascia spazio a tali nefandezze verbali ha delle pesanti responsabilità intellettuali prima ancora che morali. La seconda è che forse l’istanza della memoria esige una revisione. A giudicare da queste escandescenze, ricordare non serve. Diventa anzi una comoda scappatoia per alienare quella memoria, misconoscerla e rinfacciarla a chi l’ha subita. Quella storia lì, dei campi, del gas, dei forni crematori è dell’Europa, di tutti, prima ancora che del popolo ebraico. Il delirio di parole scatenato da Odifreddi è una sconcezza terribile, per me una fitta di dolore misto a rabbia e l’anelito assurdo ma irrefrenabile a un poco di oblio. Lasciatemi in pace con i miei milioni di morti.

Corriere 18.10.13
Il matematico negazionista e le ragioni della Storia
di Stefano Jesurum


Il noto matematico Piergiorgio Odifreddi di mestiere scrive e insegna in Università. Insomma fa il maestro. A latere si esercita anche nell’antica arte dell’intellettuale a tutto tondo, del grillo parlante, nella fatti-specie blogger di Repubblica. E spesso inciampa, ruzzola, travolgendo il buon senso e il buon gusto oltre che il rispetto per i lettori, l’opinione pubblica, la Storia. Succede da anni: le sabbie mobili in cui si perde sono sovente quelle dell’antisemitismo più o meno conscio e del negazionismo. È accaduto anche in questi giorni di sconvolgenti anniversari (Fosse Ardeatine, rastrellamento del ghetto di Roma) e tempeste emozionali legate ai funerali di Priebke.
Dopo avere sostenuto che i crimini di Israele sarebbero ben peggiori delle Fosse Ardeatine, ora sostiene che il processo di Norimberga sia stato un’opera di propaganda, roba da film e mitologie: «Non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda”... almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti, e che le cose possano stare molto diversamente da come mi è stato insegnato». Chissà, forse annuncerà di voler chiudere il blog per colpa del «complotto» contro di lui. L’aveva già minacciato tempo fa, sgridato da Scalfari per scivolate simili a questa, poi –— ahinoi — aveva beatamente ricominciato. Il docente. Facesse il bidello sarebbe cacciato da scuola, facesse l’insegnante in un liceo i genitori protesterebbero, invece — come sottolinea la giornalista scientifica Daniela Ovadia — fa lo scienziato... Un paio di commenti scandalizzati ma le sue opinioni hanno la forza della «razionalità». Si dice uomo di sinistra. Che non è garanzia di nulla: le ricerche sui nuovi fascismi segnalano un’area di sovrapposizione tra le opinioni di una certa sinistra estrema e quelle della destra. E io dico: se CasaPound e Odifreddi sostengono le medesime tesi non è certo un problema nostro, no? D’altronde il buon vecchio August Friedrich Bebel lo ripeteva un secolo e mezzo fa che «l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli».

il Fatto 18.10.13
Diffamazione, alla Camera passa il bavaglio preventivo
Il ddl abolisce il carcere per i giornalisti, ma prevede multe pesantissime e l’obbligo di rettifica senza risposta o commento
Niente ammenda per le querele “intimidatorie”
di Sara Nicoli


Una toppa peggiore del buco. Montecitorio vara la nuova legge che riforma il reato di diffamazione a mezzo stampa (ora passa al Senato, dove si prevedono tempi lunghi) e cancella il carcere per i giornalisti e i direttori delle testate. Peccato, però, che a fronte di questa concessione alla stampa, le forze politiche abbiano aumentato in modo robusto le multe introducendo anche l’obbligo della rettifica senza commento a favore dell’offeso. In più, la maggioranza ha pensato bene di eliminare qualsiasi ammenda verso chi intenta querela nei confronti dei giornalisti a scopo squisitamente intimidatorio (resta solo una multa di 10 mila euro nei casi più eclatanti), ovvero le cosiddette “querele temerarie”. Niente carcere, insomma, ma un guinzaglio alla stampa assai più corto attraverso altri modi, tutti economici, per stringere il bavaglio ai giornalisti. La legge è passata con 308 voti a favore, 117 contrari (Sel e M5S) e 8 astenuti.
NEL TESTO PERÒ ci sono pasticci vistosi. Nella diffamazione a mezzo stampa, per esempio, è stata tolta l’aggravante del fatto determinato e questo, fatti i debiti conti, rende la diffamazione fatta da un giornalista meno onerosa di quella che può colpire un diffamatore da salotto, la cui multa è stata elevata fino a 10 mila euro nel caso in cui il reato venga commesso tra privati. Contraddizioni che, probabilmente, verranno riviste nel passaggio a Palazzo Madama ma che suscitano perplessità sull’intero impianto della legge. Ma andiamo alle multe. Per la diffamazione semplice, si diceva, si va dai 5 ai 10 mila euro. Se, invece, si è consapevolmente attribuito a qualcuno un fatto falso, allora la multa sale da 20 mila a 60 mila euro (sinora il tetto massimo era di 50 mila euro), con tanto di obbligo di riportare per esteso della sentenza, fatto a cui nessun giornale cartaceo potrà ottemperare visto che spesso le decisioni superano le cento pagine. Probabilmente al Senato ci si accorderà per la sola pubblicazione del dispositivo della sentenza, ma resta pesante l’entità della tetto massimo per le multe, soprattutto per i free lance non tutelati dall’ombrello di un editore. In caso di recidiva, è prevista anche l’interdizione dalla professione da sei mesi ad un anno, ma la pubblicazione della rettifica è giudicata come causa di non punibilità. Le rettifiche, tuttavia, dovranno essere pubblicate senza commento e risposta, menzionando espressamente il titolo, la data e l’autore dell’articolo diffamatorio. In caso di violazione dell’obbligo scatterà un’ulteriore sanzione amministrativa da 8 mila a 16 mila euro. Insomma, la libertà di movimento del giornalista, anche senza carcere, resta sempre molto ridotta. Tanto che stavolta il delitto di diffamazione è stato esteso anche ai siti Internet, con unica esclusione dei blog, che restano nella responsabilità dell’autore del post. Ma c’è di più.
IN CASO di diffamazione, il danno sarà quantificato sulla base della diffusione della testata, della gravità dell’offesa e del-l’effetto riparatorio della rettifica. L’azione civile dovrà essere esercitata entro due anni dalla pubblicazione. Una sorta di “fine pena mai” per il giornalista che potrà trovarsi a rispondere di una querela, a livello civile, anche molto tempo dopo la pubblicazione dell’articolo. Cambia, invece, la musica per i direttori delle testate, prima sempre responsabili di omesso controllo. Non risponderanno più a titolo di colpa e potranno delegare le funzioni di vigilanza (in forma scritta) a un altro giornalista che dovrà prendersi anche la responsabilità dell’omissione di controllo di un testo al posto del direttore. In ultimo, il segreto professionale, che viene esteso anche ai pubblicisti anche se resta l’obbligo di dichiarare la fonte nel caso in cui questa sia fondamentale per accertare la prova di un reato.

il Fatto 18.10.13
Falsi tirocini, primario di Roma ai domiciliari


FALSIFICAVA i registri delle sale operatorie e i libretti universitari degli specializzandi in modo da far ottenere loro la necessaria documentazione per il praticantato. In cambio costringeva i tirocinanti a turni massacranti. Per questo un medico dirigente del Sant’Andrea di Roma, nonché membro di una Scuola di Specializzazione Universitaria, è stato arrestato (ai domiciliari) ieri mattina dai carabinieri del Nas. É accusato di concussione, falsificazione ideologica e materiale di atti pubblici e violenza privata. A far scattare l’indagine, la denuncia di uno dei tirocinanti. L’inchiesta poi ha consentito di accertare che, nel 2012, alcuni medici specializzandi avevano partecipato con successo all’esame finale della scuola di specializzazione senza aver effettuato le attività di praticantato in sala operatoria obbligatorie. Il medico, secondo l’accusa, con la collaborazione di tre colleghi, anche questi indagati, falsificava registri e libretti universitari con l’annotazione della partecipazione ad operazioni chirurgiche. In cambio, costringeva i tirocinanti a svolgere turni massacranti e a presidiare il reparto di terapia intensiva, nell’arco notturno, anche in assenza di anestesisti.

Corriere 18.10.13
L’ultimo sondaggio assegna al Front National di estrema destra il 24% dei consensi, più di ogni altro partito in Francia
Sinistra arcaica, Destra screditata dietro il successo di Marine Le Pen
di Jean Marie Colombani


Esiste un pericolo Fronte nazionale in Francia? Nel momento in cui l’ondata populista rappresenta, su tutto il territorio europeo, una minaccia, quella di sconvolgere l’equilibrio del Parlamento europeo durante le elezioni della prossima primavera, questa domanda non è sorprendente. Se in Austria, che non ha disoccupazione, l’estrema destra sfiora il 30 per cento, in Francia, che ha una disoccupazione di massa, ci sono tutte le ragioni di preoccuparsi per l’ascesa del Partito della famiglia Le Pen, padre e figlia. Inoltre, c’è oggi un male francese che si chiama catastrofismo. Che siate membro dell’opposizione, giornalista, dirigente d’azienda, insomma chiunque voi siate, in Francia vi distinguerete e attirerete l’attenzione solo a condizione di descrivere la realtà sotto il suo aspetto più cupo. Sembra che il Paese non abbia come punto di riferimento nella storia che il Giugno 1940 e la disfatta, e sia irresistibilmente attirato verso l’abisso. A costo di scavare la propria tomba. In politica, questo significherebbe spianare la strada al Fronte nazionale.
Così, a partire da un’elezione cantonale (i dipartimenti sono divisi in cantoni) e da un sondaggio, che situa la lista di Marine Le Pen in cima alle intenzioni di voto nelle elezioni europee, i mass media e numerosi politici hanno decretato, in coro, che il Fronte nazionale è il «primo partito di Francia». La realtà è diversa. L’elezione cantonale di Brignoles, nel dipartimento del Var, vinta dal Fn, è stata esageratamente mediatizzata e interpretata. Ma esiste in effetti il pericolo che l’estrema destra si rinforzi a seconda che altri, in particolare fra gli intellettuali, sostengano sempre più le sue idee.
Brignoles è una piccola città tipica dell’arcata mediterranea, da Perpignano a Nizza, dove l’estrema destra, grazie in particolare all’inizio, a una forte presenza di coloro che sono rimpatriati dall’Algeria, è ben installata. Da moltissimo tempo, in una città come Marsiglia, il cui sindaco è dell’Ump (il Partito della destra classica), all’interno di un dipartimento a maggioranza socialista, gli elettori si dividono in tre terzi: un terzo di destra, un terzo di sinistra e un terzo di estrema destra. Il cantone di Brignoles quindi era di estrema destra già nel 2011. Era stato ripreso dalla sinistra grazie all’annullamento dello scrutinio. Questo porta a due, sui 4.500 cantoni che esistono in Francia, il numero dei seggi detenuti nelle assemblee dipartimentali dall’estrema destra. E’ dunque urgente mantenere il senso della misura.
Quanto al sondaggio, occorre ricordare, come tutte le inchieste d’opinione, che esso non ha valore predittivo. Riflette una costante: i francesi sanno, come gli altri europei, che questo scrutinio non incide sull’esercizio del potere nazionale. E’ quindi tradizionalmente molto favorevole alle «piccole» formazioni, quelle che sono poco o per nulla rappresentate in Parlamento, cioè l’estrema destra, gli ecologisti e il centro. E’ quindi improprio e falso far credere che il Fronte nazionale sia il primo partito. Per ora, il primo resta il partito socialista, non solo perché ha la maggioranza in Parlamento, ma anche perché controlla la quasi totalità delle regioni, i due terzi dei dipartimenti e il 60 per cento delle grandi città. E l’Ump incarna fin da adesso l’alternanza. La prima scadenza che abbiamo davanti, le elezioni municipali per le quali il Fronte nazionale ha difficoltà a trovare candidati, dovrebbe riportare l’estrema destra al suo posto, quello di un Partito protestatario che certamente sconvolge le carte in tavola, ma al quale non si è sicuri, o ci si vieta, di affidare l’esercizio del potere.
Tuttavia, l’estrema destra cresce. E si rafforza nell’opinione pubblica. E’ colpa della crisi? La crisi è una buona scusa. E’ vero che il partito di Marine Le Pen propone, come si dice in Francia, di «raser gratis», cioè promette quel che sa di non poter mantenere: ritorno alla pensione a 60 anni, aumento dei salari, svalutazione massiccia, quindi uscita dall’euro e così via. Tutte promesse assurde che hanno l’effetto di attirare un voto popolare. Ma uno sguardo su trent’anni di insediamento dell’estrema destra nel paesaggio francese non lascia alcun dubbio: le spinte in avanti dell’estrema destra sono direttamente correlate alla questione dell’immigrazione, al suo aumento evidente. Là dove i tassi di immigrazione sono marginali, il Fn resta marginale (è così in tutta la parte occidentale del Paese). E quando si dice immigrazione, bisogna essere consapevoli che si tratta, per una parte dell’opinione pubblica tentata dal Fn, di rifiutare figli di immigrati i cui genitori, per esempio, erano originari del Nord Africa e che oggi sono giovani francesi che aspirano a trovare un lavoro.
In effetti, il Fn oggi approfitta soprattutto delle difficoltà della sinistra, del discredito della destra, e della ripresa da parte di quest’ultima dei temi portanti dell’estrema destra: fra questi, al primo posto c’è il rifiuto dell’immigrazione.
La sinistra? L’impopolarità del potere è tale, oggi come ogni volta che c’è un’elezione parziale a qualunque livello, che l’elettorato della sinistra si astiene. Svanisce. Scompare. Tale evaporazione è aggravata dalle divisioni della sinistra: un Partito socialista che ha mantenuto perlopiù riflessi arcaici, ecologisti che non vedono al di là della gestione del loro piccolo mondo, comunisti prigionieri di Jean-Luc Mélenchon, che si abbandona costantemente a eccessi demagogici devastatori.
In tale contesto, la destra dovrebbe prepararsi a governare. Riconoscere i propri errori passati (cosa che rifiuta di fare), visto che ha lasciato la Francia in un desolante stato economico, ma anche morale. Invece, fa di tutto per rendere isterico il dibattito e proclama il presidente della Repubblica illegittimo. Mentre la sua preoccupazione principale è chiedersi chi, fra Nicolas Sarkozy, François Fillon o Jean-François Copé, presidente dell’Ump, abbia le migliori possibilità di vincere le presidenziali del 2017. A parte Alain Juppé, che oggi appare come il grande saggio, tutti cercano di far trionfare ciascuno il proprio campione. E la battaglia è al culmine. Ma poiché, al tempo stesso, la destra ha rinunciato alla maggior parte delle barriere ideologiche che la distinguono dall’estrema destra, essa facilita il trasferimento a quest’ultima dei propri voti. E quando François Fillon dice che, di fronte alla scelta di votare per i socialisti o per l’ estrema destra, egli sceglie il partito «meno settario», dimentica l’essenziale: la parola «pericoloso». Se il Fn non è più pericoloso, allora gli elettori di destra hanno il permesso di votare per l’estrema destra.
Un presidente che non riesce a tener in riga i suoi, un governo che manca di professionismo, e ancora nessun risultato da mettere in avanti, una destra che si discredita da sola: sono questi i veri atout del Fronte nazionale. Con, in più, i mass media che fanno a gara nel catastrofismo e ogni giorno trovano una qualità supplementare in Marine Le Pen. Omettendo di leggere i suoi discorsi, in cui potrebbero facilmente constatare che lei non aspira ad allearsi con l’Ump e la destra classica, ma a sostituirsi ad essa. Prima o poi, sarà bene che destra e sinistra rinsaviscano...
(traduzione  di Daniela Maggioni )

Corriere 18.10.13
Studenti in piazza per Leonarda

Migliaia di studenti ieri a Parigi si sono scontrati con la polizia davanti al ministero dell’Interno.
I ragazzi protestavano per l’espulsione della studentessa kosovara Leonarda. Ieri il padre ha rivelato che la giovane è in realtà nata in Italia.

l’Unità 18.10.13
Troppi profughi
Sofia costruisce muro anti-siriani
Sarà lungo 30 chilometri e alto tre metri, al confine tra Bulgaria e Turchia
Polemiche con Ankara per i controlli
Già 6000 i rifugiati, nei prossimi mesi è previsto l’arrivo di altri 20mila
di Roberto Arduini


Sarà lungo 30 chilometri e alto tre metri il muro anti-migranti che la Bulgaria si appresta a costruire ai confini con la Turchia. Il progetto è già avviato: più che un muro di cemento, sarà una barriera di filo spinato sostenuta da una base fissa e da colonne in calcestruzzo. Il governo ha intenzione di erigerlo nei pressi di Elhovo, nel sudest del Paese, per frenare l’ondata di immigrati, soprattutto dalla Siria. Il viceministro dell’Interno, Vasil Marinov, ha escluso che il fil di ferro sarà attraversato da corrente elettrica, anche se ci saranno sensori in grado di segnalare tentativi di passaggio. Non è male per il confine terrestre più orientale dell’Unione europea.
Poco più a sud, il confine separa tre nazioni: Turchia, Bulgaria e Grecia. Il fiume Evros è l’ultimo ostacolo per tutti coloro che tentano di approdare in Europa. E in centinaia si tuffano nel tentativo di raggiungere la sponda bulgara. È la «porta orientale», citata anche dal ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, in audizione ieri al Senato: «La rotta che porta via terra in Bulgaria è il punto d’uscita del grande flusso migratorio utilizzato dai siriani, fuoriusciti in Libano e Giordania».
MISURE D’EMERGENZA
«Il governo nel panico per i rifugiati», titolava ieri il quotidiano bulgaro Sega, che spiegava nell’articolo che le autorità bulgare si preparano ad adottare «una serie di misure d’emergenza per la crisi dei rifugiati». Negli ultimi mesi ne sono arrivati nel Paese oltre seimila, il 90% dei quali siriani, mentre secondo le previsioni a breve ne potrebbero arrivare altri 20mila. Il ministero dell’Interno riceverà perciò 13,5 milioni di euro supplementari, di cui 5 milioni dedicati alla costruzione del muro lungo la frontiera con la Turchia. Sofia ha anche chiesto ad Ankara di rafforzare il controllo della frontiera comune, per ridurre l’afflusso di rifugiati. «La parte turca s’è impegnata a rafforzare le misure (di controllo) sulla frontiera ha fatto sapere il ministro Tsvetlin Yovchev noi abbiamo ottenuto il loro accordo per creare delle pattuglie comuni». La Bulgaria ha proposto ad Ankara e ad Atene di creare un centro comune di controllo della frontiera nella regione del principale posto di passaggio, Kapitan-Andreevo, e lungo la frontiera con la Grecia. «Ma quasi l’85% degli immigrati illegali passano la frontiera turca attraverso Elhovo», ha specificato il viceministro, e proprio questa zona, ha aggiunto, è la più difficile da controllare lungo il confine di 259 chilometri con la Turchia.
Obiettivo ufficiale della barriera, ha detto Marinov, non è fermare chi cerca rifugio e scappa dal conflitto siriano, ma aumentare il livello di sicurezza in questa parte della frontiera. Proposto già in passato, ufficialmente il progetto aveva addirittura solo lo scopo di fermare le invasioni di animali malati.
Dall'inizio della crisi siriana, la Bulgaria ha visto aumentare esponenzialmente l’arrivo di profughi e richiedenti asilo dal Paese mediorientale. Tutti arrivano dopo essere transitati in Turchia. Tutti o quasi, vedono nella Bulgaria solo una tappa di passaggio, nel tentativo di raggiungere i Paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Molti hanno parenti e amici che li aspettano, ma non possono raggiungerli, almeno fino a che non saranno usciti dal limbo legale in cui sono bloccati. Negli ultimi mesi, secondo i dati ufficiali, il loro numero ha subito una brusca accelerazione. «Se nei mesi passati registravamo 400 arrivi al mese, ad agosto abbiamo toccato i 1500», ha spiegato Marinov. Ogni giorno la polizia di frontiera ferma decine di persone e secondo le autorità bulgare, le limitate strutture di accoglienza del Paese sono già esaurite. Nel caso di un’ulteriore escalation della guerra civile in Siria, però, il peggio potrebbe ancora arrivare. Tanto che il ministero della Difesa ha annunciato la decisione di mettere a disposizione 26 siti in disuso, che potrebbero fornire un tetto provvisorio ad almeno 10mila persone.
Sofia così accarezza l’idea di sigillare le proprie frontiere, ma il progetto appare difficilmente realizzabile. Non tanto perché in aperto contrasto con impegni internazionali (come la convenzione di Ginevra sui rifugiati) ma perché sarà difficile blindare tutta la frontiera.

il Fatto 18.10.13
Il nuovo muro del Nord (Europa)
di Michela Danieli


CHI APRIRÀ LE PORTE a quanti sopravvivono alla quotidiana roulette russa nel mediterraneo? Di certo non il Nord Europa, che se con un occhio compassionevole guarda i cadaveri restituiti dal nostro mare, con l’altro controlla che le sue frontiere siano adeguatamente blindate. Per sfuggire alla guerra e alla fame, il popolo dei rifugiati accetta qualsiasi sfida. Ma chi offrirà loro un futuro, dopo? I summit Ue si intrecciano a dichiarazioni di circostanza che inneggiano alla solidarietà verso l’Italia, ma finora, provvedimenti concreti non si sono visti. La storia insegna che molti profughi chiederanno asilo al Nord Europa, chi dichiarando lo status di rifugiato, chi dimostrando un ricongiungimento famigliare.
Se però è sui Paesi scandinavi che contiamo, la fiducia si rivela mal riposta. Partiamo dalla Danimarca. Economia da tripla A, tasso di disoccupazione inesistente, da maggio però il governo ha sospeso il trattato di Schengen e reintrodotto i controlli alle frontiere. “Troppi immigrati. Negli scorsi anni abbiamo visto crescere i crimini transfrontalieri” – spiegano, giustificando così l’introduzione di nuove apparecchiature elettroniche per l’identificazione alla frontiera tedesca, di controlli serrati nei porti e sul ponte che collega alla Svezia.
Già la Svezia, dove ormai la parola “immigrazione” provoca nel-l’opinione pubblica reazione da gas urticante. Il partito di estrema destra tiene sempre viva la memoria collettiva sulle rivolte dello scorso maggio che hanno infiammato i sobborghi di Stoccolma, per mano di immigrati. Devastate scuole, bruciate auto, feriti a sassate passanti, poliziotti, vigili del fuoco. Tutti motivi per non accettare nuovi profughi. Così da mesi la polizia effettua controlli a tappeto nella metropolitana di Stoccolma, per rintracciare i clandestini e procedere all’espulsione, mentre da Göteborg, città d’approdo, i comuni protestano e accusano il Governo e l’Ue di averli lasciati soli e senza fondi, ad affrontare il fenomeno crescente dell’accattonaggio.
E siamo in Norvegia. Protezionista verso la sua inespugnabile economia petrolio-centrica, ha accontentato giusto la scorsa settimana l’ala estrema del neogoverno di destra: manette ai clandestini e rigidi protocolli per il riconoscimento dell’a s i l o. Resta la Finlandia. La sua brillante economia ha cronico bisogno di manodopera e quindi gli immigrati sono ben accetti, soprattutto perché svolgono i lavori meno remunerativi, nei settore edilizia, sanità, istruzione e trasporti marittimi.
Nel 2012 oltre 9mila stranieri hanno ottenuto la cittadinanza, il doppio rispetto gli anni precedenti. Anche qui però sono giunte le correnti xenofobo- populiste, già al lavoro (con discreto successo) per instillare veleno sociale, facendo leva su un grande classico: “Di questo passo, il welfare, basterà per tutti? ”.

Corriere 18.10.13
Dramma della schiavitù moderna
Ci sono circa 30 milioni di schiavi nel mondo
I Governi non ignorino i numeri
di Guido Santevecchi


Ci sono circa 30 milioni di schiavi nel mondo. In India 14 milioni, segue la Cina con 3 milioni, poi Pakistan e Nigeria. In rapporto alla popolazione, il Paese con la più alta percentuale è la Mauritania: tra i 140 e i 160 mila disperati, il 4% di mauritani è ridotto in schiavitù.
Il «Global Slavery Index 2013» definisce la «moderna schiavitù» su questi indicatori: il possesso o il controllo di persone attraverso le catene dell’indebitamento; il traffico di esseri umani per sfruttamento sessuale o lavoro forzato; matrimoni obbligati di minori; bambini costretti a fare i soldati. Se 30 milioni di schiavi ci possono sembrare una frazione millesimale a confronto degli oltre sette miliardi di abitanti della terra, ricordiamoci che è più del doppio del totale degli uomini e donne strappati dall’Africa durante la tratta degli schiavi tra il Sedicesimo secolo e il 1807, quando fu formalmente bandita. Secondo i registri di bordo delle navi negriere, in quei duecento anni furono imbarcati in catene 12,5 milioni di africani. I tre quarti dei nuovi schiavi sono in Asia. Ma ci sono anche nel nostro mondo: 57-63 mila negli Stati Uniti; 8-9 mila in Francia; 10-11 mila in Germania; tra i 7.500 e gli 8.300 in Italia. La nazione più liberale è la Finlandia: 670-740 schiavi su 5.414.293 cittadini. Il rapporto elaborato dal gruppo australiano Walk Free Foundation è sostenuto da personalità come l’ex segretario di Stato americano Hillary Clinton e l’ex premier britannico Tony Blair. Gli autori dicono che molti governi non saranno contenti di sentirsi chiamati in causa. Ma è tutta la comunità internazionale che dovrebbe dare alcune risposte: all’epoca dello schiavismo «legalizzato», due secoli fa, i negrieri numeravano meticolosamente le loro vittime. Oggi la schiavitù è una lunga linea grigia.
Certo, questi esseri umani sfruttati sono una massa nascosta dai loro carcerieri, mobile, stagionale, come i raccoglitori di fragole in Inghilterra o quelli di pomodori nel Sud d’Italia. O le lucciole che popolano le strade di periferia. Ma forse il problema è anche che le loro vite valgono così poco che non le vogliamo contare.

Repubblica 20.10.13
Ecce Homo
Riscritta la storia umana, veniamo da un’unica specie
Lo studio pubblicato su “Science” da David Lordkipanidze: un teschio ritrovato in Georgia è la prova che cambia la teoria dell’evoluzione
di Marco Cattaneo

Prima un albero, poi un cespuglio e adesso un ramoscello striminzito. Potrebbe essere questa l’ultima versione della metafora che descrive il cammino dell’evoluzione umana. Come riferisce un articolo suScience, infatti, David Lordkipanidze e i suoi colleghi che studiano i preziosi fossili umani di Dmanisi, in Georgia, risalenti a un milione e 800.000 anni fa, hanno avanzato una proposta che stravolgerebbe tutto lo schema della nostra evoluzione, almeno negli ultimi tre milioni di anni.
Secondo l’idea del cespuglio avanzata da Stephen Jay Gould, il modello più accreditato dell’evoluzione umana vuole che molte specie siano convissute, lungo i 5-7 milioni di anni in cui ci siamo separati dalla linea evolutiva degli scimpanzé. In particolare, a partire da circa tre milioni di anni fa sarebbero stati presenti, più o meno contemporaneamente, tre nostri parenti, Homo habilis, H. rudolfensis e H. ergaster, vissuti tutti in Africa. A cui poco dopo, per i tempi dell’evoluzione, si sarebbe aggiunto Homo erectus. Erano state le notevoli differenze morfologiche dei fossili più antichi, scoperti in luoghi distanti e attribuiti a epoche diverse, a spingere gli antropologi ad attribuirle a specie differenti.
Lì in mezzo, tra i tre antenati più vecchi e H. erectus, si era collocato Homo georgicus, l’uomo di Dmanisi, dove Lordkipanidze e colleghi raccolgono reperti da più di vent’anni, cercando di ricostruire la storia di quella sorprendente popolazione umana, la più antica fuori dall’Africa, che abitava tra le montagne del Caucaso. La fortunata caccia al tesoro dei georgiani ha permesso di mettere insieme una collezione di cimeli senza uguali. Ci sono i crani di almeno cinque individui, diversi per sesso e per età ma decisamente contemporanei: un maschio anziano e privo di dentatura, due maschi maturi, una giovane donna e un adolescente di sesso ignoto.
Ed è l’ultimo cranio studiato,Skull 5, ad aver messo la pulce nell’orecchio agli studiosi georgiani e ai loro colleghi di Harvard, dell’Università di Tel Aviv e dell’Istituto di antropologia di Zurigo che firmano l’articolo diScience.A differenza degli altri quattro, Skull 5 – il più completo cranio così antico del genere Homo mai scoperto – presenta caratteristiche primitive. Ha una scatola cranica piccola, il volto allungato, la mascella superiore quasi scimmiesca, grandi denti. Tutti elementi che rimandano alle antiche specie africane. Gli altri crani, invece, mostravano caratteristiche che richiamavano quelle del più moderno Homo erectus, asiatico.
Così, il gruppo di Lordkipanidze ha usato la TAC e modelli 3D al computer per confrontare i suoi fossili. E ne ha concluso che, per quanto quelle ossa appaiano molto diverse, le loro differenze non sono superiori a quante se ne troverebbero confrontando cinque esseri umani moderni, o cinque scimpanzé. Tanto basta aconfermare che i cinque individui di Dmanisi appartengano alla stessa specie, come faceva pensare anche il fatto che siano stati scoperti nello stesso luogo e nello stesso strato, e dunque che fossero contemporanei.
Questo risultato riapriva la domanda: dato che presentano caratteristiche antiche e moderne al tempo stesso, a quale specie vanno attribuiti gli umani di Dmanisi? Per risolvere l’enigma gli studiosi hanno eseguito la stessa analisi statistica sui dati relativi a Homo erectus, H. rudolfensis e H. ergaster, per arrivare a una conclusione inquietante: levariazioni di quei fossili – non molto differenti da quelle dei “cinque di Dmanisi ” – non indicano che appartenessero a specie diverse. Anzi, la loro variabilità è compatibile con l’appartenenza a una stessa specie. Se questa ipotesi fosse accolta con favore, quest’unica specie prenderebbe ilnome di Homo erectus, il primo a essere scoperto, nell’isola di Giava, nel lontano 1891. Mentre quello che oggi è chiamato H. ergaster ne sarebbe al massimo una sottospecie, H. erectus ergaster. E ancora più complicato sarebbe il destino dei fossili georgiani, la cui popolazione diventerebbe H.erectus ergaster georgicus.
Per il momento l’articolo di Science ha fatto scoppiare una bomba nel piccolo universo degli antropologi, come riconosce Philip Rightmire, uno degli autori dello studio. Da Ian Tattersall, dell’American Museum of Natural History di New York, a Ron Clarke, dell’Università del Witwatersrand a Johannesburg, sono piovute le critiche.
«I fossili di Dmanisi – spiega Giorgio Manzi, della «Sapienza» Università di Roma, il cui nuovo libro Il grande racconto dell’evoluzione umana sarà in libreria a giorni – portano con sé eredità del passato e caratteri di forme che si sarebbero evolute nel futuro. Quel sito è una specie di “ombelico del mondo” del Pleistocene. E la loro eccezionale variabilità rappresenta una specie di instabilità morfologica». Ma non significa che rivoluzioni la storia della nostra evoluzione.
Purtroppo il dibattito non potrà beneficiare dell’unico strumento che risolverebbe la questione una volta per tutte, l’analisi del Dna. «Per il momento – dice Gianfranco Biondi, dell’Università dell’Aquila – non siamo in grado di estrarre il Dna dalle ossa come è stato fatto per Homo sapiens e i Neanderthal. Non abbiamo la tecnologia per andare oltre 150.000 anni fa». In altre parole, dobbiamo aspettare. A meno che altre scoperte non tornino a infiammare il dibattito tra gli antropologi.

Repubblica 18.10.13
Il garantismo è di sinistra
Ferrajoli: “La malagiustizia colpisce solo i deboli”
Leggi ad personam protagonismo dei magistrati, “populismo giudiziario”, norme inapplicabili
Il più noto filosofo italiano del diritto spiega in un libro lo stato disastroso del nostro sistema
intervista di Simonetta Fiori


«Perché tanta resistenza all’indulto, soprattutto tra gli elettori democratici? Credo si tratti di un meccanismo perverso, che porta a sospettare sempre e comunque della politica. Un pregiudizio che naturalmente può essere spiegato con l’ultimo ventennio della storia italiana. Quello proposto dal presidente della Repubblica è un atto sacrosanto, che andrebbe illustrato nella sua banale umanità». Settantatré anni, fiorentino, Luigi Ferrajoli è il filosofo del diritto italiano più conosciuto all’estero, forse più famoso nella scena internazionale che nel nostro paese. Ha scritto saggi fondamentali che hanno definito una nozione complessa di garantismo, non solo come sistema di divieti e obblighi a carico della sfera pubblica a garanzia di tutti i diritti fondamentali (dunque sia i diritti di libertà che i diritti sociali), ma anche come sistema di divieti e obblighi a carico dei poteri privati del mercato. Il suo percorso intellettuale è cominciato alla scuola di Norberto Bobbio, di cui è considerato tra gli eredi più autorevoli, ed è proseguito negli anni Sessanta in veste di giudice dentro Magistratura democratica, dove confluivano culture politiche diverse. Ferrajoli s’identifica nel “costituzionalismo garantista” che poi significa «una scelta di campo a sostegno dei soggetti più deboli, come impongono i principi di giustizia sanciti dalla Costituzione».
Le sue posizioni – anche nel terreno delicatissimo della riforma della giustizia – sfidano alcuni tabù della sinistra. Difende la separazione delle carriere tra giudice e Pm, ferma restando l’assoluta indipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico («La sinistra è caduta in un equivoco, anche perché all’epoca di Craxi la separazione fu proposta con l’intento di assoggettare i pm all’esecutivo»). E questo suo ultimo prezioso libro-intervista con Mauro Barberis, filosofo del diritto altrettanto competente, contiene giudizi originali sulla crisi della politica e della democrazia, di cui il tema della giustizia è parte essenziale. A cominciare dal “populismo penale” in voga nel dibattito pubblico (Dei diritti e delle garanzie, ilMulino).
Professor Ferrajoli, che cos’è il populismo giudiziario?
«È il protagonismo dei pubblici ministeri poi passati alla politica. Sono rimasto colpito dall’esibizionismo e dal settarismo di alcuni magistrati, sia durante i processi che in campagna elettorale. Ho proposto anche una sorta di codice deontologico che richiama ai principi di sobrietà e riservatezza, oltre che al dubbio come costume intellettuale e morale. Temo molto quando il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria credibilità professionale. Cesare Beccaria lo chiamava “il processo offensivo”, nel quale il giudice anziché essere un “indifferente ricercatore del vero” diviene “nemico del reo”».
Lei sottolinea il carattere “terribile” del potere giudiziario.
«Sì, carattere “terribile” e “odioso”, dicevano Montesquieu e Condorcet. È il potere dell’uomo sull’uomo, capace di rovinare la vita delle persone. Purtroppo i titolari di questo potere possono cedere alla tentazione di ostentarlo. Cosa sbagliatissima. Quanto più questo potere diventa rilevante, tanto più si richiede una sua soggezione alla legge e al principio di imparzialità. Un obbligo che è a sua volta fonte di legittimazione del potere giudiziario ».
Il populismo penale, le fa notare Barberis, è di fatto l’opposto del garantismo. «Sì, in realtà l’opposto del garantismo è il dispotismo giudiziario, che è presente in tutte le forme di diritto penale con scarse garanzie, in particolare caratterizzate – come avviene in Italia – da una legalità dissestata».
Cosa intende?
«È il vero problema oggi. Disponiamo di leggi incomprensibili perfino ai giuristi, mentre la chiarezza è l’unica condizione della loro capacità regolativa, sia nei confronti dei cittadini che nei confronti dei giudici. Per prima cosa il Parlamento dovrebbe far bene il proprio mestiere, ossia scrivere le leggi in modo chiaro e univoco. È questo il solo modo per contenere l’arbitrio del potere giudiziario. Un obiettivoche non si raggiunge certo riducendo l’autonomia dei giudici e dei pubblici ministeri a vantaggio del potere esecutivo».
Forse è anche per difendere la propria autonomia minacciata che alcuni magistrati sono arrivati ad eccessi.
«Non c’è alcun dubbio. Derisi e pressati da un potere irresponsabile, alcuni talvolta hanno agito per autodifesa. Anche la martellante campagna diffamatoria promossa dalla destra sull’uso politico della giustizia ha finito per inquinare la stessa cultura giuridica dei magistrati che hanno reagito in modo corporativo all’accusa. Non dimentichiamoci che in tutti questi anni la riforma della giustizia ha ruotato esclusivamente attorno ai problemi personali di Silvio Berlusconi, riducendosi a un assurdo corpus iuris ad personam.
E la parola garantismo ha finito per significare la difesa dell’impunità dei potenti».
Un’accusa che viene rivolta alla sinistra, anche da parte non strettamente berlusconiana, è di aver cavalcato quel potere terribile a cui alludeva prima, sostituendo Marx con le manette.
«Mi sembra una ricostruzione ingiusta. La caratterizzazione “giustizialista” – parola che detesto – di una parte della sinistra è stata provocata dallo scandalo dell’anomalia di questo ventennio. Non la giustifico, ma posso spiegarla. Siamo stati governati da una persona che è al centro di una quantità enorme di processi, una parte dei quali forse infondata ma altri fondatissimi. Da qui anche l’enorme aspettativa verso il diritto penale, da cui si pretende che assicuri l’eguaglianza delle persone davanti alla legge».
Non è così?
«Purtroppo da luogo dell’eguaglianza formale il diritto penale è diventato il luogo della massima diseguaglianza. Quella che viene più facilmente colpita è la delinquenza di strada, con la sostanziale impunità dei potenti. Quasi il 90 per cento delle condanne per fatti di corruzione negli ultimi vent’anni è stato inferiore ai due anni, con conseguente sospensione condizionale della pena. Anche l’evasione fiscale di fattoresta impunita».
Forse questo spiega perché l’opinione democratica tema l’indulto. Per una volta che viene applicato il principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, si teme che l’indulto possa cancellarlo.
«Sì, ma si tratta di un sospetto tanto velenoso quanto infondato. Naturalmente spetta al Parlamento evitare che a beneficiare dell’indulto siano i reati di corruzione o frode fiscale, reati che non sono mai entrati nella tradizione dell’amnistia. E, per le ragioni che ho ora esposto, a chi si oppone al provvedimento bisognerebbe ricordare che la criminalità dei colletti bianchi è di fatto assente dalle carceri. Le celle sono piene di povera gente, tossicodipendenti e immigrati clandestini. Sarebbero loro a trarne vantaggio».
Anche per snellire la macchina giudiziaria, lei ha proposto la soppressione di alcuni reati come l’immigrazione clandestina. Pochi giorni fa è cominciato in Senato l’iter per la sua abolizione.
«I nostri tribunali sono paralizzati da un marasma di figure di reato che si potrebbero cancellare. Quello di immigrazione clandestina è poi un’assoluta vergogna. Teorizzato nel 1539 da Francisco de Vitoria, per giustificare conquista e colonizzazione del nuovo mondo, loius migrandi è rimasto per secoli, fino alla Dichiarazione universale del 1948, un principio fondamentale del diritto internazionale. Oggi che il processo s’è invertito – sono le popolazioni povere da noi depredate a venire nei nostri paesi – il diritto s’è capovolto in reato. Il risultato è una terribile catastrofe umanitaria. Potrei definirle “le leggi razziali” di questi anni».

IL LIBRO E L’AUTORE Luigi Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie. Conversazioni con Mauro Barberis Il Mulino pagg. 192 euro 15

Repubblica 18.10.13
Da oggi i seminari per il decennale della sua scomparsa
La sfida di Bobbio alla dittatura del generale Pinochet
di Massimo Novelli


TORINO Invitato dalle Università Cattoliche di Santiago e di Valparaìso a tenere una lezione su democrazia e pluralismo, il 29 aprile del 1986 Norberto Bobbio venne accolto dagli studenti con un grande striscione su cui c’era scritto: «Benvenuto signor Bobbio, quelli che lottano per la democrazia e la libertà la salutano». Il Cile era ancora sotto la dittatura del generale Pinochet. La presenza del filosofo della politica, la sua conferenza, ebbero dunque il valore di una sfida al regime, segnando un altro passo in avanti per la riconquista della democrazia. La fotografia dello striscione di benvenuto, che pubblichiamo, è stata collocata nello studio che fu di Piero Gobetti, a Torino, nell’edificio di via Fabro 6 che ospita il centro studi intitolato all’autore de La Rivoluzione Liberale. Si tratta di un’immagine significativa, posta adesso in un contesto ideale, che può essere presa a simbolo delle manifestazioni che a partire da oggi, con un incontro sui legami fra Eugenio Garin e Bobbio e su quelli fra politica e cultura, per l’intero 2014 scandiranno il decennale della scomparsa dell’intellettuale piemontese, avvenuta il 9 gennaio del 2004. Anche la data dell’iniziativa odierna non è casuale: Bobbio era nato il 18 ottobre del 1909. Il progetto complessivo è curato dal Centro Gobetti, in collaborazione con la famiglia Bobbio.
Tra gli argomenti che verranno affrontati in seminari e incontri, oltre a quelli della memoria civile in Italia, dei rapporti di Bobbio con i suoi editori, dell’opera giuridica e dei luoghi della sua vita, c’è il tema della sua dimensione internazionale. I viaggi, le lezioni all’estero, dalla Cina al Sudamerica, così come la corrispondenza con gli intellettuali stranieri e la relazione con la Società Europea di Cultura fondata da Umberto Campagnolo, sono molto bene documentati dall’archivio di Bobbio, ospitato al Centro studi di via Fabro. Proprio oggi, durante l’anteprima del ciclo di appuntamenti per il dieci anni dalla morte, Pietro Polito, direttore del Gobetti, lo illustrerà nel corso di una visita.

La Stampa 18.10.13
Divinità e potere a Roma
Augusto messo a nudo
Duecento capolavori alle Scuderie del Quirinale nel bimillenario della nascita dell’imperatore
di Silvia Ronchey


Il pudico principe, il dominus tutto decoro, il severo tristis per Ovidio pater patriae, il pontifex massimo, in pubblico e nelle ipostasi marmoree della sua autorappresentazione che fu tale in senso stretto se sul letto di morte, come narra Svetonio, chiese agli astanti di applaudire la sua «commedia» amava mostrarsi meticolosamente abbigliato, quando non togato e capite velato come nelle statue di Palazzo Massimo o di Ancona.
Fa una certa impressione vederlo completamente nudo. Ma è così che audacemente e teatralmente si presenta, un Augusto messo a nudo nell’illusionistico striptease della storia dell’arte, al pubblico della grande mostra aperta fino al 9 febbraio alle Scuderie del Quirinale, dove l’Augusto di Prima Porta il braccio alzato a chiedere silenzio, i bei piedi eroicamente scalzi, le ginocchia scoperte dalla gonna militare, la lorica istoriata di immagini di propaganda e appena sfiorata dal paludamentum che ricade molle sul polso che regge le lancia è per la prima volta affiancato al suo diretto modello marmoreo: il Doriforo di Policleto.
La somiglianza con il candido nudo che è epitome del Canone classico greco perfino nei tratti del viso è straniante, l’intenzionalità della citazione certa. E ha ragioni altrettanto radicate nella costruzione d’immagine del principato augusteo, la cui esegesi al pubblico è al cuore del concept della mostra, esplicitato dal suo ideatore Eugenio La Rocca nel secondo dei saggi che firma nel catalogo Electa: La costruzione di una nuova classicità.
Che il linguaggio artistico del saeculum Augustum non sia classicistico, ma «neo-classico» in senso proprio è suggerito fin dalla disposizione dei materiali, molti dei quali mai esposti e ora riuniti per la prima volta, come i rilievi di Medinaceli-Budapest. L’itinerario segue l’evolversi del pensiero politico del «divo» fino alla morte (14 d.C.) e all’apoteosi intesa, con un occhio all’ideologia e l’altro all’antropologia del mondo antico, come creazione di un nuovo dio, cui è dedicata una delle più emozionanti sezioni, con l’epifania dell’immenso Augusto di Arles e con il saggio Morte e apoteosi di Annalisa Lo Monaco.
«Io non vivo del passato. Per me il passato non è che una pedana», dichiarava Mussolini nella Sala dell’Impero della mostra che nel 1937 celebrò il bimillenario della nascita del princeps con deliberata attualizzazione del riordino statale augusteo in quello dell’«ordine nuovo» fascista, come illustra Andrea Giardina, Augusto tra due bimillenari. Il primo imperatore, il maker stesso di quella durevole entità che i bizantini chiameranno «l’animale imperiale», nel ricreare il suo novus ordo si servì del passato ma non certo in funzione restauratrice; un recupero «proattivo» che i suoi intellettuali interpretarono in «un canone», secondo Alessandro Schiesaro, «dalla straordinaria capacità di resistenza»: Virgilio e Orazio, Properzio e Tibullo, Ovidio e Livio, ma anche i perduti Cornelio Gallo e Vario.
Così, anche il linguaggio figurativo attinse alla classicità per riattualizzarla e non per imitarla freddamente, nonostante il giudizio tombale di Bianchi Bandinelli, ispiratore dei luoghi comuni novecenteschi sul classicismo augusteo che la mostra di Eugenio La Rocca mira a dissipare per sempre.
La legittimazione di ogni princeps, dal Medioevo all’età contemporanea, passerà sempre dal rinvio a Roma e al suo principe: per i duci e cesari novecenteschi come per altri meno cupi ascesi al ruolo imperiale dopo un percorso di cesarismo: Federico II, Lorenzo il Magnifico, più di tutti Napoleone.
Se nell’età napoleonica la creazione del Neoclassico segue la scoperta della scrittura e degli arredi pompeiani, il cortocircuito si enfatizza se si considera che i più belli sono augustei. La mostra ne presenta di straordinari, dal lussuoso braciere bronzeo con satiri itifallici, scoperto nei praedia di Iulia Felix durante gli sterri borbonici di Pompei e noto già dal Settecento, agli sgabelli della domus del Graticcio di Ercolano, testimonianze di una vita quotidiana raffinatissima. Napoleone si ispirò a Augusto, e la costruzione anche qui di una nuova classicità conferma che nessuno «stile impero» è mai restauratore, né è mai ideologicamente solo reazionario, ma in un qualche, non necessariamente gradevole modo anche rivoluzionario.
Lo è per esempio nell’esaltata celebrazione augustea della «pace», nella visionaria celebrazione della vita rurale, nella delirante nostalgia per la fertilità dei campi e degli animali, pacificati come gli istinti umani, per un’età dell’oro che torna contrapposta alla tetra stagione delle guerre civili. Un momento ipnotico che si riflette nelle Georgiche di Virgilio come nei capolavori delle Scuderie: nel gruppo dei Niobidi, i cui frammenti sono per la prima volta riuniti, e secondo la loro disposizione nell’obliquo del frontone, o nei tre grandi rilievi Grimani di Palestrina, giustamente comparati, nell’economia compositiva oltre che nel soggetto, ai versi virgiliani: «Il rilievo della cinghialessa, uno dei momenti più emozionanti dell’arte antica, non è classicismo ma invenzione suprema» (La Rocca).

Corriere 18.10.13
Lo stile di Augusto
Il mito dell’imperatore che inventò la comunicazione attraverso l’arte
di Edoardo Sassi


Indietro nel tempo, venti secoli fa, il tramonto della Repubblica Romana e la nascita dell’Impero: una nuova epoca storica. E, va da sé, anche un nuovo gusto. Protagonista assoluto di quella stagione il figlio adottivo e pronipote di Cesare, colui che dopo la morte diverrà il divus Augustus, l’Augusto divinizzato, l’uomo che da mortale, durante i quattro decenni del suo lungo principato, aveva esteso i confini di Roma fino alla massima espansione, oltre l’intero bacino del Mediterraneo.
A raccontare da oggi Augusto, la sua epoca, le sue contraddizioni, i suoi successi, una mostra di impianto rigorosamente scientifico ma anche di impatto spettacolare, allestita a Roma presso le Scuderie del Quirinale e inaugurata ieri dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nata da un progetto dell’archeologo Eugenio La Rocca — e da lui curata con Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger — la rassegna resterà aperta al pubblico fino al 9 febbraio 2014, anno in cui ricorrerà il bimillenario della morte del princeps , deceduto a Nola il 19 agosto dell’anno 14 dopo Cristo. Una mostra che dunque inaugura di fatto, sia pure in anticipo di qualche mese, le tante celebrazioni per questa ricorrenza ufficiale e che interrompe così un lungo «silenzio» espositivo sull’imperatore che durava dal lontano 1937.
All’epoca, a un anno dalla proclamazione di tutt’altro impero, fu infatti il regime fascista a voler celebrare con la massima visibilità un altro bimillenario, quello della nascita del divus . E proprio una certa fascistizzazione del mito Ottaviano Augusto, con il suo corredo di magniloquente retorica, deve aver pesato in questi settantasei anni di assenza di Augusto dall’agenda espositiva italiana. All’epoca, alla colossale «Mostra augustea della Romanità» fu riservato l’intero Palazzo delle Esposizioni, e sventramenti furono effettuati, sempre a Roma, per creare l’attuale piazza intitolata all’imperatore, isolandone contestualmente il Mausoleo.
Oggi, in tutt’altro clima storico-politico e senza forzature ideologiche, c’è la voglia di ripercorrere le tappe folgoranti di una biografia, di una carriera politica e di un’intera stagione con una selezione di grande pregio che annovera oltre duecento opere, tra le quali non pochi capolavori. Un’antologia non facile da mettere insieme e alla quale hanno infatti lavorato in tanti, sia italiani, sia francesi (la mostra è organizzata in collaborazione con il Louvre e dopo Roma sarà al Grand Palais di Parigi dal 19 marzo al 13 luglio 2014); sia lo Stato (Soprintendenza archeologica di Roma), sia il Comune (Assessorato alla Cultura, Azienda speciale Palaexpo, Musei Capitolini, Sovraintendenza).
Escluse volutamente la pittura e l’architettura per motivi logistici e perché entrambe ampiamente rappresentate a Roma tra collezioni museali e luoghi fisici (tanti, dall’Ara Pacis al Teatro Marcello, i monumenti «augustei» e le pitture parietali in situ), la mostra alle Scuderie si incentra, come spiegano i curatori, «sulla scultura, sui bronzi, sulle terrecotte, le monete, le gemme, i cammei, i gioielli e sulle arti cosiddette minori, con una scelta critica basata su opere che rivelano nel modo più idoneo il sistema di comunicazione adottato da Augusto e dalla sua corte, e che presentano una qualità artistica superiore alla media».
Il percorso si apre con la colossale Statua marmorea di Augusto, oltre due metri di altezza, ritrovata nel teatro antico di Arles (il torso rinvenuto nel 1750, la testa nel 1834). Al suo fianco una scultura raffigurante la moglie Livia, del tipo orante. A seguire una pressoché ininterrotta sequela di meraviglie tra marmi, ori, argenti, vetri, tripodi, anelli, torsi, crateri o ritratti, provenienti da alcuni tra i maggiori musei del mondo (British, Metropolitan e Louvre alcuni dei prestatori stranieri).
Tra i picchi dell’esposizione, il confronto ravvicinato tra il Doriforo di Pompei (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) e la celeberrima Statua di Augusto cosiddetta da Prima Porta, prestata dai Musei Vaticani, scultura in marmo ritrovata sulla via Flaminia nella villa di Livia e che fece da prototipo alle onnipresenti effigi dell’imperatore. Altro prototipo famoso esposto, la Statua togata con capo velato, ritrovata nel 1910 nelle fondamenta di una casa in via Labicana.
E al tipo Prima Porta appartiene inoltre la splendida testa bronzea da Meroe, Sudan, oggi a Londra, ritrovata volutamente sepolta sotto il pavimento di accesso a un tempio della capitale nubiana e per questo perfettamente conservata. Quel seppellimento aveva lo scopo di far calpestare, simbolicamente, l’odiato Augusto da chiunque entrasse nell’edificio destinato a celebrare le vittorie dei sovrani meroiti.

Corriere 18.10.13
«Cerebrale e politico. Ma l’inquieto Cesare suscita più passioni»
Fu uno stratega, non un condottiero
di Roberta Scorranese


Andrea Giardina, uno dei più fini conoscitori della Roma antica, introduce la figura di Augusto citando Karl Marx: «Secondo il filosofo, nell’era del capitalismo, il concetto di soddisfazione è volgare. Forse è per questo che, ancora oggi, Cesare è più popolare di Ottaviano: Cesare era un insoddisfatto, in fondo un perdente, uno che è morto assassinato. Augusto no: troppo preciso e astuto per essere anche coinvolgente. Ecco perché su di lui sono stati realizzati pochissimi film, pochi spettacoli teatrali, molte statue celebrative ma poche tele a effetto drammatico. Diciamo che la modernità si identifica con i personaggi sofferenti, in un impeto che mescola cattolicesimo e romanticismo».
Già, a differenza del padre adottivo, Augusto è morto nel suo letto e non assassinato; è ricordato per la finezza politica più che per il coraggio militare; non ha mai vestito i panni del «dittatore democratico», bensì ha dato vita all’Impero romano. «Augusto è entrato nell’agone politico poco più che adolescente (19 anni, ndr ) — dice Giardina, che nel catalogo della mostra ha curato un saggio sul personaggio — ma ha immediatamente dimostrato un grande talento politico, riuscendo a barcamenarsi tra Antonio e Bruto. Aveva ricevuto un’educazione regolare, conosceva la retorica e almeno il latino e il greco. Ma era un cerebrale, un ragionatore».
Machiavellico, più che istintivo. E così la sua fortuna, nell’età moderna, è stata altalenante. «La Rivoluzione Francese e quella Americana non lo hanno amato — continua lo storico — preferendogli Bruto o Catone l’Uticense, i martiri vittime del potere. Poi, nella seconda metà dell’Ottocento, Augusto ricomparve, anche come modello artistico». Ritratto o scolpito quasi sempre con la toga, nella veste canonica del cittadino romano, in un fermo equilibrio intriso di valori patriottici, non poteva non diventare un «faro» per Benito Mussolini, il quale, nel 1937, colse l’occasione di celebrare il bimillenario della nascita dello stratega, al fine di identificarsi con lui. Eppure, per Giardina «la dimensione guerriera di Augusto aveva molte incrinature. Nonostante il fatto che, sotto di lui, l’impero romano fu notevolmente accresciuto, e anche se nelle Res gestae il principe enfatizzava i propri successi militari, ciò non significava che egli potesse essere considerato un grande condottiero» .
È sempre stato più un simbolo astratto che non un’immagine concreta dell’uomo «nel fango e nella polvere». Però che lungimiranza politica: vissuto a cavallo tra il mondo pre-cristiano e quello cristiano, unificò l’Impero, divise le province, unificò il fisco imperiale, riorganizzò l’amministrazione di Roma. I limiti? Per Giardina, Augusto non ha saputo «anticipare quell’osmosi sociale verticale che arriverà dopo l’addio alla schiavitù, né intercettare cambiamenti sociali», come quelli nati dall’allargamento della cittadinanza romana. Quel che oggi resta, è (anche) un patrimonio d’arte e memorie non ancora del tutto scandagliato .

«la Naumachia che Augusto aveva fatto realizzare a forma di ellisse lì vicino, tra le odierne chiese di San Cosimato e San Francesco a Ripa»
Corriere 18.10.13
Sulle sue tracce, dal miglio aureo al mausoleo
di Lauretta Colonnelli


Passeggiando nella capitale tra i resti monumentali e qualche sorpresa sotterranea Tutte le strade portano a Roma, recita un proverbio nato dall’efficiente sistema viario dell’antica Urbe. In realtà tutte le strade partivano da Roma, da una colonna marmorea rivestita di bronzo, che fu posta nel Foro da Augusto, divenuto «curator viarum» nel 20 a. C. La colonna si chiamava «miliarium aureum», pietra miliare aurea, e da questa si misuravano in miglia tutte le distanze dell’Impero. La base della colonna, decorata con palmette, è visibile ancora oggi davanti al tempio di Saturno, ai piedi del Campidoglio.
Si potrebbe partire da qui per una passeggiata alla ricerca dei monumenti che ricordano il primo imperatore romano. Non lontano dal miliario ci sono i resti del suo Foro, collocato ortogonalmente rispetto a quello di Cesare e riconoscibile dalle colonne del tempio di Marte Ultore che vi era inserito. Su via dei Fori imperiali si incontra la sua statua loricata, copia novecentesca in bronzo di quella marmorea ritrovata il 20 aprile 1863 nella villa della moglie Livia a Prima Porta e conservata ai Musei Vaticani. Gli storici hanno sempre detto che la lorica (la corazza dei legionari) fosse in pelle. L’archeologo sperimentale Silvano Mattesini sostiene che fosse cucita in undici strati sovrapposti di lino, come quella di Alessandro Magno, detta «linothorax». Lo dimostrerebbero i laccetti che si vedono sotto il braccio destro della statua, usati per stringere la lorica fino a renderla aderentissima, come si faceva con i corsetti femminili nel Settecento. La statua di Augusto come pontefice massimo, conservata al museo di Palazzo Massimo, risale invece agli anni immediatamente successivi al 12 a. C., quando l’imperatore assunse la più alta carica sacerdotale.
Ma il cuore della Roma augustea si trovava in Campo Marzio, nell’area oggi compresa tra il Parlamento e il Tevere, in prossimità del «pomerium», il confine sacro della città. Qui il 30 gennaio del 9 a. C. fu inaugurata l’Ara Pacis, concepita per celebrare la pace augustea, dopo le imprese compiute a nord delle Alpi e in Spagna. L’imperatore fece costruire contemporaneamente l’«horologium solarium», la più antica meridiana di Roma. Tracciata su un pavimento in lastre di travertino, misurava 160 metri per 75. Lo gnomone era costituito dall’obelisco di Heliapolis (ora in piazza Montecitorio) che Augusto aveva trafugato dall’Egitto con lo scopo, come scrive Plinio, di «captare l’ombra del sole e quindi stabilire la durata dei giorni e delle notti». Il 23 settembre, compleanno di Augusto, l’ombra veniva proiettata sull’Ara. Un lembo dei resti della meridiana, è visibile nel cortiletto al numero 48 di via di Campo Marzio. Sepolta ben presto sotto i detriti alluvionali, l’Ara Pacis fu dimenticata per un millennio, finché i suoi resti cominciarono a tornare alla luce. Nel 1938 venne finalmente ricomposta, trecento metri a nord dalla collocazione originaria, accanto al Mausoleo che Augusto aveva fatto costruire nel 29 a. C. e che Strabone descrisse con ammirazione, come «un grande tumulo presso il fiume, su alta base di pietra bianca, coperto fino alla sommità di alberi sempre verdi; sul vertice è il simulacro bronzeo di Augusto e sotto il tumulo sono le sepolture di lui, dei parenti e dei familiari». Nel 1936, dopo le demolizioni attuate nella zona per costruire l’attuale piazza, il mirabile Mausoleo prese quell’aspetto di «dente cariato» che si vede ancora oggi (la definizione è di Antonio Cederna). Fu l’ultima trasformazione delle tante subite nei secoli: fortilizio nel medioevo, anfiteatro per spettacoli e corride alla fine del Settecento, sala per concerti con il nome di Auditorium Augusteo per l’orchestra di Santa Cecilia ai primi del Novecento.
Un’altra curiosa traccia della Roma augustea si trova a Trastevere, nei sotterranei di un palazzone costruito nel dopoguerra al numero 9 di via della VII Coorte. Qui si conservano i resti della caserma del corpo dei vigili del fuoco istituito nel 6 d. C. dall’imperatore. Sono svaporati i circa cento graffiti ritrovati nel 1866 sulle pareti: raccontavano la vita difficile dei pompieri, in una città fatta in gran parte di legno. «Sono stanco, datemi il cambio», lasciò scritto uno di loro. Affrontavano il fuoco con pompe a sifone, pertiche, corde, scale, recipienti per l’acqua. Forse l’attingevano dalla Naumachia che otto anni prima Augusto aveva fatto realizzare a forma di ellisse lì vicino, tra le odierne chiese di San Cosimato e San Francesco a Ripa, e che era alimentata dal lago di Martignano, attraverso l’acquedotto dell’imperatore, uno degli undici dell’epoca. Trastevere è uno dei 22 rioni di Roma che derivano dalle 14 «regiones» in cui Augusto aveva diviso la città .

Repubblica 18.10.13
Augusto
Il primo imperatore che trasformò Roma in una città di marmo
Alle Scuderie del Quirinale da oggi sculture e oggetti provenienti da tutto il mondo ricostruiscono la storia e la personalità di Ottaviano a duemila anni dalla morte
di Claudio Strinati


ROMA Duemila anni fa moriva l’imperatore che si celebrava come princeps di una nuova età dell’oro, e oggi Roma ricorda Augusto con una grande mostra alle Scuderie del Quirinale progettata da Eugenio La Rocca (e realizzata da un comitato scientifico composto da La Rocca stesso, Claudio Parisi Presicce, attuale Sovrintendente capitolino, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger). Rispetto alla mostra tenutasi aBerlino del 1988 nel Gropius-Bau questa romana si basa sulla più aggiornata conoscenza degli studi e mette al centro il tema della produzione artistica senza la pretesa di sviscerare ogni aspetto del mondo augusteo, tramite uno sforzo organizzativo eccezionale che ha impegnato le maestranze delle Scuderie, sotto la direzione di Mario De Simoni coadiuvato da Matteo Lafranconi, in un allestimento che ha richiesto mesi di lavoro, degno veramente di ogni lode.
L’esposizione appare quale vera e propria epopea di cui offre subito una sintetica immagine la superba scultura dell’Augusto di Arles, opera gigantesca da confrontare con l’Augusto di Prima Porta, altro titano pure presente. Qui alle Scuderie il grande argomento è quello della visione della classicità e dei caratteri peculiari dell’arte nell’età augustea. Ottaviano Augusto, attraverso l’arte e la letteratura, tese a dimostrare come con il suo avvento fosse ritornata la mitica “età dell’oro”. Ovunque, all’epoca, appare il suo ritratto nei diversi momenti del lunghissimo comando. Oggi ne restano poco più di duecento raggruppabili, come ben si vede in mostra, in tre tipologie fondamentali: ora viene paragonato ad Apollo, ora è un nudo in armi, ora è togato e velato, custode della pace, rinnovatore della grande tradizione antica. La sua effigie è monumentale o visibile su gemme, cammei, monete. La sua presenza investe di sé ogni manifestazione artistica di cui la mostra offre vasta documentazione, anche sepittura e architettura appaiono solo da proiezioni di suggestive immagini che accompagnano il visitatore.
Come fu formulato in arte il principio del ritorno dell’età dell’oro, della consacrazione di una fase sociale di pace, prosperità, ordine e bellezza? Trasgressivo, ironico, spiritoso, prudente ma portato alla battuta aspra e volgare, Augusto padre della patria volle che la produzione artistica del suo tempo ambisse a presentarsi come sintesi universale incentrata, appunto, sull’idea del ritorno alle origini riscontrate negli atti di governo e nella politica generale, nell’amministrazione e nella gestione delle risorse, quale si vede nell’Ara Pacis, eretta in suo onore a partire dal 13 a. C. L’imperatore vuole creare uno spazio estetico necessario per definire un potere assoluto e ambiguo, pacificatore e insieme ipocritamente attento a utilizzare costantemente lo strumento del ricatto e del pettegolezzo per comprare qualunque cosa, dal potere militare, alla legittimità della discendenza da Giulio Cesare, alla subdola forza della diffamazione, mescolando vizi privati e pubbliche virtù tali da costringere il Senato a acclamarlo e proteggerlo. Dice lo storico Svetonio che Augusto in tarda età avrebbe affermato di aver preso Roma quando era una città di mattoni e di averla trasformata in una città di marmo. La verifica storica, attuabile anche nel percorso della nostra mostra, gli dà ragione. C’è, peraltro, una miriade di autentici capolavori che permettono di avere chiara la visione di un’arte che è tale perché così la vuole il potere costituito ma che parla con un linguaggio autonomo che di quel potere è largamente in grado di prescindere.
I principi della Riconciliazione e della Rinascita sono chiaramente espressi nell’Ara
Pacis ma risultano altrettanto chiaramente espressi in tutta l’arte augustea. Dal Louvre (che ha collaborato in modo determinante a questa mostra che vi verrà poi esposta dopo la sede romana) è giunto anche l’unico frammento dell’Ara
Pacis portato via da Roma e di cui, nella ricostruzione attuale nell’edificio di Meier, si vede un calco. È un frammento stupendo, paragonato in mostra a un altro pezzo sublime che dice molto sulla scultura romana del tempo la Tellus proveniente da Cartagine e che è in chiaro rapporto con il riquadro detto la Saturnia Tellus dell’Ara Pacis.
Questi pezzi memorabili permettono di orientare tutta la visita, a condizione di comprendere il loro “classicismo” che non è imitazione a Roma del modello greco, ma è una rinnovata e vivente sintesi di arcaico e moderno, di idealizzazione e naturalismo secondo un principio di verità e intimità che Augusto, vero Giano bifronte distruttore e insieme salvatore dei valori repubblicani, porta nel dibattito culturale romano facendone un prototipo di riferimento per i secoli a venire. Quello che veramente colpisce è la raffinatezza e la delicatezza estrema di certa produzione artistica come nei formidabili argenti provenienti dal tesoro di Boscoreale o le incredibili ceramiche sigillate aretine prestate in parte dal Louvre, per non parlare di alcuni arredi della casa come una serie di vetri che documentano la eleganza e la preziosità di questa arte, imperiale ma sobria e discreta. Sorprende, nella visita alla mostra, l’afflato del sentimento che si vede in numerosissime opere che tutto sembrano meno che apoteosi servili del potere. Lo si percepisce bene, ad esempio, nei tre rilievi marmorei Grimani (due da Vienna e uno da Palestrina) forse parti di un ninfeo con le rappresentazioni di una pecora, una leonessa e una cinghialessa che nutrono i figli, immagini di tale sublime bellezza e di tale potenza espressiva da potersi paragonare alla poesia virgiliana o ovidiana. Tra queste opere ragguardevoli vanno almeno ricordate le bellissime lastre di terracotta Campana (dalla antica collezione di provenienza) anche queste in buona parte dal Louvre, o il fenomenale Tripode con un braciere, in bronzo, da Napoli.

Repubblica 18.10.13
Quando il potere fu racchiuso in un solo nome
Il significato del titolo attribuito al sovrano dal 27 a.C.
di Maurizio Bettini


Il titolo che Ottaviano assunse nel 27 a.C., Augustus, lo stesso con cui continuiamo a chiamarlo, non ha dato nome soltanto a un mese, Agosto, o a quel Ferragosto, Feriae Augusti, che ancor oggi celebriamo con tanta dedizione. Lo ha dato a un’intera epoca, l’età augustea appunto, uno dei momenti più alti, e insieme più problematici, della civiltà romana. “Età augustea” vuol dire infatti Virgilio e Orazio, Ara Pacis e Teatro di Marcello – un fiore meraviglioso nato però dal sangue, e destinato comunque a trasferire in occidente il seme dell’impero e del potere assoluto. Ma se età augustea significa tutto questo, che cosa vuol dire a sua volta Augusto? O meglio, che cosa significa augustus?
Svetonio racconta che Ottaviano da giovane portava il cognomen di Thurinus, e che Antonio, per denigrarlo, usava chiamarlo così nelle sue lettere. In seguito egli assunse il nome di Gaius Caesar e infine, per suggerimento del senatore Munazio Planco, quello di Augustus. L’imperatore stesso, nel catalogo monumentale delle sue imprese, leRes gestae, ricorda con orgoglio il momento in cui questo titolo gli fu attribuito, in cambio della generosità con cui aveva rifiutato i poteri straordinari e restituito la res publica al popolo. Lo storico Cassio Dione, però, racconta la storia in modo diverso.
Secondo lui Ottaviano, desiderando esser chiamato con un appellativo speciale, avrebbe dapprima scelto quello di Romulus, in questo modo identificandosi direttamente con il fondatore della Città. Poi però, temendo che tale decisione lasciasse adito al sospetto di aspirare al “regno” – un’ipotesi inaccettabile per i Romani – ripiegò su Augustus. Il che non significava peraltro abbassare le proprie ambizioni, al contrario.
Questo titolo infatti veniva generalmente attribuito alle divinità, come Giove, Apollo o Esculapio. Ovidio, in uno dei suoi non rari momenti di imbarazzante adulazione, non esiterà a mettere in evidenza il valore divino, sovrumano, che questo appellativo implicava. Se infatti Pompeo fu detto “grande” (Magnus) – scriveva neiFasti – e Fabio addirittura “grandissimo” (Maximus), essi furono comunque celebrati con onori umani: «ma Augusto ha in comune il proprio nome con Giove». Al di là dell’adulazione ovidiana, però, bisogna dire che Ottaviano, come in molti altri casi, anche quando si trattò di scegliersi un titolo d’onore sapeva bene quello che faceva.
L’aggettivo augustus, infatti, affondava le proprie radici in una delle configurazioni linguistiche e culturali più antiche, e più rilevanti, della civiltà romana. Si tratta di una famiglia di parole che si rifà al verbo augeo “accrescere” nel senso, anche sacrale, di portare a compimento con successo una determinata azione; e vanta termini come augurium, ossia l’esplicita approvazione che gli dèi concedevano a un’impresa; augur, il nome che designa colui che aveva il compito di prendere gli
auspicia,ossia di consultare la divinità riguardo all’azione da intraprendere (cosa che a Roma si faceva regolarmente prima di qualsiasi decisione importante); e ancora il termine auctor, colui che dà inizio e porta al successo un certo processo, e insieme ad esso auctoritas, ossia la condizione di “autorità” detenuta da qualcuno nel senso della sua capacità di portare felicemente a conclusione, ancora una volta, una certa azione: la più nobile, come si vede, e la più giustificabile forma di autorità che ci si possa augurare. Assumendo il titolo di Augustus, dunque, se Ottaviano ascendeva in qualche modo al mondo degli dèi, come sosteneva Ovidio, accedeva anche al più laico, ma non meno importante universo costituito dal “successo” delle proprie iniziative e dalla auctoritas che ne sta all’origine. Due qualità fondamentali per chi vuole governare un impero.

Corriere 18.10.13
«Io, il Teatro Valle e la nuova Fondazione»
di Stefano Rodotà


Signor Direttore,
da qualche tempo il «Corriere della Sera» conduce una campagna contro l’occupazione del Teatro Valle. Scelta ovviamente legittima, anche se discutibile. E che, comunque, non esime dal dovere di dare una informazione corretta. Ieri si faceva riferimento a una mia dichiarazione, presentata con molta evidenza, nella quale parlavo di «rigore giuridico impeccabile». È opportuno che i lettori sappiamo che mi riferivo allo statuto della Fondazione Teatro Valle appena costituita, statuto che inviterei l’autore dell’articolo a leggere per valutare se la mia affermazione sia o no corretta. Aggiungo che ho pronunciato quelle parole nel corso di un intervento nel quale sottolineavo come gli occupanti, ricorrendo a quello strumento, avessero scelto la via istituzionale, invitando quindi a valutare la loro azione anche da questo punto di vista. Nell’articolo, invece, si segue una via diversa con un accostamento tra la vicenda del Teatro Valle e quella della Val di Susa, improponibile proprio per la ragione che ho appena ricordato. Che cosa si vuol lasciare intravvedere, una sorta di sottofondo violento che accomunerebbe le due esperienze? Poiché non voglio fare non richieste difese d’ufficio di quel che è accaduto da più di due anni al Teatro Valle, inviterei a leggere le parole equilibrate e informate di Antonio Audino sull’ultimo numero del domenicale del «Sole24Ore».