sabato 19 ottobre 2013

l'Unità 19.10.13
L’editoriale
Vent’anni dopo: l’Italia che vuole cambiare
Per raddrizzare il Paese non bastano «le menti migliori della nostra generazione»: ci vuole il contributo di tutti
L’Unità si occuperà sempre di difendere e proteggere i diritti civili riconosciuti e quelli ancora da conquistare
Dobbiamo ricominciare a parlare dell’Italia e degli italiani. E proporre e imporre altri temi e altre priorità
di Luca Landò


L’ANNO PROSSIMO QUESTO GIORNALE COMPIRÀ 90 ANNI: A FONDARLO IL 12 FEBBRAIO 1924 FU UN CERTO ANTONIO GRAMSCI. Il 9 ottobre scorso sono passati 50 anni dal Vajont: prima della tragedia un solo giornale e una sola giornalista denunciarono con insistenza i rischi legati alla costruzione di quella gigantesca diga. Quel giornale era l’Unità e quella giornalista era Tina Merlin. Se andate sul sito dell’Unità e cercate nell’archivio storico vi appariranno delle pagine scritte a mano: sì, negli anni della clandestinità, quando era impossibile trovare una tipografia, l’Unità veniva fatta anche così, a mano.
Mi fermo qui perché il messaggio è chiaro. Il giornale che avete, che abbiamo davanti è un pezzo di storia di questo Paese. Ed è una storia importante, perché è la storia della sinistra e dei diritti, è la storia delle ingiustizie e delle lotte, è la storia del lavoro. Ed è la storia degli italiani. Quelli che in questo Paese hanno sempre creduto, anche quando credere era davvero dura. E quelli che ci credono ancora, anche adesso che la crisi divora la vita e non solo gli stipendi.
Se parlo dell’Unità e del suo passato è perché negli ultimi vent’anni l’Italia si è occupata di tutto tranne che di se stessa. Il Paese, la politica, le istituzioni persino, sono entrate in uno stato di trance dove la realtà dei fatti ha lasciato il posto alla finzione e all’illusione. Anziché dedicarsi agli italiani e ai loro problemi, questo Paese ha cominciato a parlare delle faccende di un uomo solo. Una follia, evidentemente. Ma una follia che stiamo pagando due volte.
La prima, perché quell’uomo è ancora lì, disposto a trascinare il Paese ancora più fondo nella speranza di evitare le conseguenze di una vicenda giudiziaria personale che riguarda solo lui e non il Paese. La seconda perché non è vero, come dicono, che l’Italia è in queste condizioni per il peso insostenibile della crisi internazionale e globale che tutti riguarda e tutti accomuna. Ci sono Paesi, entrati nella palude come noi, che sono riusciti a emergere con forza e slancio. Perché loro sì e noi no? E perché noi siamo ancora qui a discutere dello 0,1% del Pil e non del nostro futuro? Ecco la domanda, le domande, che la politica, tutta la politica, dovrebbe porsi con urgenza prioritaria, come le raccomandate.
La risposta è complessa, ma parte del problema sta proprio in quella lunga ipnosi che, in un modo o nell’altro, ha coinvolto tutti. È mancata un’altra Tina Merlin che ci svegliasse con le sue urla, che gridasse per tempo e con forza che un altro monte stava per crollare nel bacino dell’Italia.
Ora siamo a un bivio e tocca solo a noi scegliere: vogliamo uscire dal lungo letargo o vogliamo continuare a occuparci di affidi, di giunte e di pene accessorie? È vero, finché la destra non sarà davvero in grado di scegliere un altro leader e un altro orizzonte, che guardi all’Europa anziché ad Arcore, sarà impossibile non parlare di quell’uomo condannato per frode al fisco. Il punto è che rispondere alle minacce che il cavaliere rivolge alla stabilità del Paese, con conseguenze economiche e sociali devastanti per tutti, è sì necessario e indispensabile ma non è sufficiente. Dobbiamo fare di più.
Dobbiamo ricominciare a parlare dell’Italia e degli italiani. E proporre, suggerire, imporre altri temi e altre priorità. «Vaste programme», diceva De Gaulle, soprattutto dopo vent’anni di talk show fotocopia, con gli stessi invitati, gli stessi argomenti, le stesse domande. Dal ponte sullo stretto (ve lo ricordate?) alla legge elettorale ne è passata di acqua, ma il meccanismo è sempre quello: si parla si discute si litiga, ma intanto non succede nulla. Che nel caso del Ponte è un bene, nel caso del Porcellum un male. Dal primo gennaio a oggi questo giornale (come tutti gli altri) ha pubblicato 471 articoli in cui si parlava di riforma elettorale, quasi due volte al giorno come le pillole. Non è stata una nostra fissazione: un giornale racconta e resoconta quello di cui si parla. Ma il punto è proprio questo: di cosa si parla e quanto si parla in Italia? Perché parlare non vuol dire cambiare. E perché c’è una clessidra per ogni cosa. Anche per questo c’è bisogno di una voce che, come quella del capitano De Falco, emerga dal coro con uno stentoreo: «Fate quella legge, cazzo!».
Un giornale di sinistra come l’Unità starà dalla parte di chi vuole cambiare. Di chi vuole uscire dalla crisi investendo e costruendo, non tagliando e bloccando. Di chi vuole che la lotta all'evasione (120 miliardi l’anno, teniamola a mente questa cifra) sia una priorità di governo, non una frase da pronunciare in campagna elettorale. Di chi vuole che la disoccupazione giovanile diventi l’ossessione dell'intero Parlamento e non solo di genitori e famiglie. Di chi vuole che l’innovazione non sia il titolo di un convegno ma un programma di sviluppo: nell’Europa della banda larga e dei servizi su Internet, della efficienza digitale e della burocrazia annientata dalla rete, c’è un Paese, il nostro, dove duemila Comuni (uno su quattro) non sono nemmeno connessi. Poco tempo fa abbiamo pubblicato la lettera di due giovani informatici che hanno messo in piedi una piccola società di software e lavorano in rete con un’azienda di Silicon Valley, in California. Miracoli del mondo globale e digitale, si dirà. Peccato che i due vivano in Basilicata e per collegarsi debbano fare ogni giorno 40 chilometri in macchina per raggiungere la connessione più vicina. È questa l’agenda digitale di cui sentiamo dire da dieci anni? È questo il Paese che dovrebbe attirare investimenti stranieri?
L’Italia ha necessità, urgente, di tornare a crescere, ma per farlo deve cambiare passo, mentalità, priorità. Deve ripartire dal lavoro, quello che c’è e che va difeso, e quello che non c’è ancora perché va costruito, creato, inventato. Ma il punto è questo: ci sono oggi le condizioni per costruire, creare, inventare?
Per cambiare il Paese non bastano più «le migliori menti della nostra generazione», abbiamo bisogno di tutte le menti e tutte le generazioni. Quelle che ci hanno preceduto e quelle che stanno arrivando. Tra le firme più pungenti e illuminanti di questo giornale ci sono quelle di Alfredo Reichlin ed Emanuele Macaluso, classi di ferro ’25 e ’24. Nello stesso tempo, un Paese che non apre le porte ai giovani è un Paese debole e malato, prima ancora che un Paese sbagliato. Nella sala comandi che ha gestito la rotazione della Concordia c’erano giovani ingegneri di 26, 27 e 28 anni: uno era inglese, una tedesca e un altro belga. Tra gli italiani solo uno era sotto i 40 anni, tra gli stranieri solo due sopra i 30. Eccola la questione generazionale: non una sfida tra vecchi e giovani, ma un Paese che sappia mettere al posto giusto le persone giuste. Compresi quei laureati che ogni anno se ne vanno all' estero. Non è una questione affettiva, è un danno economico: dall'asilo al dottorato la formazione di un ricercatore costa all' Italia 124.000 euro. Negli ultimi dieci anni ne sono volati via 68.000, un esercito di ricercatori salito su un aereo per non tornare più: fanno 8,5 miliardi di euro senza contare quello che porteranno in termini di intelligenza e creatività. Produciamo menti e le regaliamo all’estero: è questa la famosa competitività? Quand’è che cominceremo a pensare a noi stessi?
Un ultimo punto. Come dicevo all’inizio, l’Unità non è solo un giornale: è un giornale di sinistra. Questo significa accogliere, difendere, ricordare quei valori che ci dividono dalla destra e dal mondo, solo in apparenza incolore, dell’antipolitica. Significa non cedere mai, nemmeno in tempo di crisi, sul fronte dei diritti civili, quelli riconosciuti da proteggere e difendere, e quelli ancora da elaborare e conquistare. Significa pretendere una legge, vera, sul conflitto di interessi, perché la libertà e la pluralità dell’informazione sono valori, questi sì, non negoziabili. E perché non è accettabile, dopo quello che abbiamo visto e subito in questi anni, che un altro grande editore di giornali e tv possa «scendere» in politica mantenendo il controllo di quei giornali e quelle tv: non accade in nessun Paese civile, non dovrà più accadere nemmeno qui. Significa chiedere l’abolizione della Bossi-Fini e del reato di clandestinità, perché non è così che si affronta e gestisce l'emergenza immigrazione, come la tragedia di Lampedusa ha dimostrato nel più drammatico possibile. Significa chiedere uguali diritti per tutte le coppie e tutti i conviventi, a cominciare dalle coppie gay come avviene in Francia, Portogallo, Spagna ma anche in Sudafrica, Nuova Zelanda e persino Uruguay. Significa discutere di fecondazione assistita e delle disposizioni di fine vita, serenamente e senza pregiudizi, come avviene da tempo in quasi tutti i Paesi d’Europa. Significa pretendere che un Paese civile rifiuti l’inaccettabile tortura che obbliga un detenuto a vivere in una cella di tre metri per quattro con altre quattro persone come accade ogni giorno nelle patrie galere. Di questo, anche di questo, dovrebbe occuparsi un giornale di sinistra come l’Unità, unendo il rigore delle notizie alla passione dell'impegno. Già, informazione e passione: ecco in due parole cosa è l’Unità.
PS
L’editore mi ha dato l’incarico di dirigere questo giornale e naturalmente lo ringrazio. È la prima volta, in Italia ma non solo, che al direttore internet di un quotidiano viene chiesto di dirigere anche l’edizione regina, cioè il giornale di carta: di solito succede il contrario. Segno dei tempi, forse. Sicuramente è il segno del cambiamento che l’Unità metterà in atto nelle prossime settimane, creando una redazione unica per la carta e per l’online, con l’obbiettivo di proporre ai lettori un modo nuovo, più moderno di vivere l’informazione.
Ricevo il testimone da Claudio Sardo che ha diretto il giornale con grande professionalità e che ringrazio davvero per il senso di amicizia che ha saputo trasmettere, non solo a me, ma a tutta la redazione. I suoi editoriali e le sue analisi politiche continueranno ad essere un punto di forza di questo giornale.

l’Unità  19.10.13
La condanna per l’eccidio
Cefalonia. Giustizia è fatta, ergastolo
per il boia nazista Stork che uccise 117 ufficiali italiani
Il tribunale militare di Roma condanna in contumacia il caporale oggi novantenne
L’Anpi: finalmente
di Adriana Comaschi


Sono passati settant’anni, ma ieri il boia di Cefalonia è stato condannato all’ergastolo. Alfred Stork, 90 anni, è stato giudicato colpevole dal Tribunale militare di Roma di aver ucciso 117 ufficiali italiani. Il verdetto arriva in contumacia. L’Anpi: «Finalmente».

«Finalmente un po’ di giustizia». Le parole dell’Anpi fotografano un’attesa lunga 70 anni. Tanto ci è voluto infatti perché si arrivasse, ieri, alla prima condanna per l’eccidio di Cefalonia, perpetrato dai tedeschi nei confronti dei militari italiani della divisione Acqui. Ed è ergastolo per l’ex nazista Alfred Stork, 90 anni, giudicato colpevole dell’uccisione «di almeno 117 ufficiali». Una sentenza storica, anche per il riconoscimento del diritto al risarcimento (che verrà definito in seguito) delle parti civili, tra cui è stata ammessa l’Anpi.
La sentenza di primo grado della seconda sezione del Tribunale militare di Roma, presieduta da Antonio Lepore, è senza precedenti in Italia sui fatti di Cefalonia, e la prima in Europa dopo Norimberga (i giudizi precedenti si sono conclusi con un’archiviazione, o per la morte dell’imputato). Il verdetto arriva però in contumacia: l’ex caporale del 54° battaglione «Cacciatori da Montagna» vive tranquillo in Germania a Kippenheim e ha sempre evitato il processo. Secondo un copione consolidato, il suo legale Marco Zaccaria insiste sulla tesi del subordinato costretto a obbedire ai superiori: «Stork è un capro espiatorio, era un semplice caporale che non poteva disattendere quegli ordini, in quel particolare momento storico». L’avvocato tira in ballo «il clima di questi giorni sul caso Priebke, può avere avuto il suo peso» e annuncia che presenterà appello non appena saranno disponibili le motivazioni (per cui il Tribunale si è riservato 60 giorni): «La condanna è eccessiva. E resta da vedere quale sarà la posizione della Germania di fronte a un’eventuale richiesta di estradizione».
UNA COMODA DIFESA
Lo stesso Stork ha ammesso di avere fatto parte di uno dei due plotoni di esecuzione dei militari italiani alla «Casetta Rossa»: qui caddero 129 ufficiali, i corpi poi ammassati uno sull’altro, praticamente l’intero stato maggiore della Acqui. L’ex nazista ne parla nel 2005 davanti ai magistrati tedeschi (senza difensore, la confessione è dunque inutilizzabile), e si dipinge come chi ha «solo» obbedito a degli ordini. Una linea contro cui si scaglia il procuratore militare di Roma Marco De Paolis, quando a marzo 2012 firma la richiesta di rinvio a giudizio per Stork. Con ragioni evidentemente accolte dal Tribunale. La condanna, sottolinea allora De Paolis, «afferma un princìpio molto importante: gli ordini illegittimi non devono essere eseguiti, nessuno può farsene scudo per giustificare crimini tanto orrendi. Anche i soldati devono rifiutarsi davanti a ordini scellerati. In tanti hanno detto no, e le fucilazioni non sono proseguite».
A Cefalonia non fu così. L’8 settembre 1943 Badoglio annuncia l’armistizio con gli angloamericani. La reazione degli ex alleati nazisti piomba anche su quest’isola, presidio al golfo di Corinto, dove sono di stanza la divisione Acqui oltre che carabinieri e forze della Regia Marina, protagonisti di una strana convivenza con i greci: non sparano un colpo, gli italiani, e per questo si fanno benvolere. I sopravvissuti ricordano la speranza, caduto il fascismo il 25 luglio, di poter finalmente tornare a casa. Dopo l’8 settembre invece la situazione precipita, l’ordine dalla Germania è che gli italiani consegnino le armi, in caso contrario saranno uccisi. Il generale Gandin, comandante della Acqui, prende tempo, molti dei suoi uomini decidono di fare resistenza, inizia la battaglia. Ma hanno «lo status di prigionieri di guerra», ricorda l’accusa a Stork, quelli poi fucilati senza pietà, «essendo nel frattempo intervenuta la resa delle truppe italiane nei confronti delle forze armate tedesche». E le convenzioni internazionali «imponevano un trattamento umano per i militari che avevano deposto le armi».
«Quello della divisione Acqui fu il primo atto di resistenza militare ricorda Ernesto Nassi, vicepresidente Anpi Roma e per questo migliaia di militari furono assassinati dalla ferocia nazista. Questa sentenza restituisce un po’ di giustizia, riportando l’attenzione sui fatti di Cefalonia». Ma il bicchiere è mezzo pieno per lo stesso Pm, soddisfatto «al 50% perché la sentenza arriva troppo in ritardo, sa di giustizia imperfetta». Parla poi di «colpevole ritardo» della giustizia il presidente dell’Anpi nazionale, Carlo Smuraglia, che rivendica però «lo sforzo investigativo del Procuratore militare e la caparbia tenacia di alcuni familiari delle vittime, delle associazioni e dell’Anpi». La cui ammissione a parte civile ne certifica l’impegno «a non disperdere il messaggio antifascista». L’Anpi Roma ha filmato tutte le udienze del processo Stork: ne farà un documentario «per colmare un buco nella memoria storica del nostro paese».

il Fatto 19.10.13
Attentato incendiario all’Anpi di Legnano


ATTI VANDALICI ieri notte contro la sede dell’Anpi di Legnano. Sono stati lanciati ordigni incendiari che hanno causato la rottura di alcuni vetri e un principio d’incendio sull’atrio, danneggiando l’ingresso. All’esterno della sede sono comparse scritte ingiuriose: “Partigiani boia”. Al momento sono in corso i rilievi della Digos. “Adesso no a manifestazioni e presidi neo fascisti”: a chiedere di impedirli sono l’Anpi di Milano e di Legnano, dopo l’attentato incendiario subito dalla sede dell’associazione partigiani nella cittadina del milanese. In un comunicato l’Anpi condanna il “grave attentato” e denuncia un “clima e preoccupante creatosi nel Paese” e anche le “presenze sul territorio di formazioni politiche che praticano e diffondono opinione e atteggiamenti che si richiamano alle esperienze nazi-fasciste”. Per questo domanda a istituzioni e forze dell’ordine “di impedire a tali formazioni le agibilità che praticano attraverso presidi o manifestazioni”.

l’Unità  19.10.13
Con la memoria non si scherza
di Silvia Ballestra


Giornata della memoria, musei, sacrari, programmi scolastici, seminari. E ancora: romanzi, film, correva l'anno, teche Rai, documentari di History Channel. La memoria istituzionalizzata, pubblica, condivisa, si regge su riti, luoghi, momenti che non si discutono. SEGUE A
Eppure, la memoria è cosa fragile, a rischio, spesso sotto attacco di revisionismo, negazionismo addirittura. E quindi va protetta, sostenuta, alimentata, come giustamente non ci si stanca di ripetere. Eppure, puntualmete, anche il discorso sulla memoria può dividere. Tanto è benedetta, incoraggiata e sostenuta una memoria del ricordo, una memoria tramandata, tanto è derisa e vilipesa qualsiasi memoria «militante». Si sa, per definizione la memoria è cosa che pesca dal passato per guardare all’oggi e al domani. Eppure quando la memoria si declina al presente – quando per così dire si colgono i frutti di quel ricordo difeso e protetto, quando si mette in pratica la lezione della memoria – ecco scattare i distinguo, le dissociazioni, ecco spuntare un «buonsenso» che quella memoria tende a negarla.
Si dirà (e si è detto) che quello di Albano Laziale non è stato un bello spettacolo. Vero. Ma vero anche che la rivolta, spontanea e sincera, contro il feretro maledetto del boia Priebke è stata una manifestazione di rabbia vera, popolare, viva, contro lo sfregio del passaggio di quella salma che nessuno voleva. È il caso più recente, ma non l’unico. Tutti si adoprano a celebrare la memoria, ma quando per Milano passa un corteo di croci uncinate e passi dell’oca, si trova sempre chi giustifica e sopporta. E quando un sindaco lombardo (a Cantù) concede agibilità ai nipotini dichiarati di Priebke, provenienti da tutta Europa, lo scandalo non sembra poi così grande. È uno strano testacoda. Viva la memoria, quando è museale, teorica, quando non sporca, quando non blocca il traffico, quando non riguarda l’oggi. E invece, colpo di scena, abbasso la memoria quando si applica nella vita reale, quando risponde ad offese brucianti in presa diretta, quando sputa e tira calci.
Non dovrebbe essere questo, la memoria? Ricordare le vergogne passate per evitarne di nuove? E non sarebbe una buona applicazione della memoria – materia tanto benedetta – impedire di insultare una ministra di colore? O impedire marcette nazifasciste in una città italiana?
C’è una sorta di doppia morale nei commenti, così sensati e posati, così benpensanti e ragionevoli, ai fatti di Albano. Un apprezzamento senza se e senza ma di una memoria teorica, e una condanna variegata («incivile», «becera», «sguaiata», eccetera) di una memoria viva, vorrei dire militante. Impedire che in una città medaglia d’oro della Resistenza (Milano, per dire) passi un corteo di camicie nere con il braccio teso, o che si tenga un funerale indesiderato dalla popolazione in una cittadina partigiana (Albano, per dire) è questo: è memoria applicata. Certo, ha i suoi toni accesi, le sue cose brutte, le sue ineleganze, i suoi eccessi.
Ma non ha i suoi eccessi e le sue schifezze anche la storia che si vuole ricordare? Anche la memoria, come le guerre, le rivoluzioni, i rivolgimenti sociali, non è un pranzo di gala, può sporcarsi le mani, può incattivirsi. I cittadini di Albano, i sindaci che negano raduni nazisti, le iniziative che bloccano revisionismo e negazionismo fanno questo. Fanno memoria. Ricordano il passato e applicano quella lezione al presente. Niente di più, niente di meno. Ed è memoria non meno utile e preziosa di quella che sta nei libri.

l’Unità  19.10.13
Ardeatine, il boia che non si è pentito
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

L’assalto della folla al carro funebre di Priebke ha creato forti tensioni. C’è chi ha scagliato calci, chi ha tirato sassi contro la bara e chi, invece, al passaggio del funerale ha fatto il saluto romano. La storia e il perdono sono temi non sempre plasmabili. Io, per esempio, anche se in zona, non sarei andato al funerale. Mi sarei astenuto da qualsiasi forma di manifestazione. È morto Priebke? Amen. FABIO SÌCARI
Chiamato a commemorare l'eccidio delle Fosse Ardeatine l'allora sindaco Argan decise di sostituire il suo discorso con un silenzio. Meglio delle parole il silenzio ci avrebbe permesso di contemplare l’orrore di quello che era accaduto, diceva Argan e di silenzio invece che di parole ci sarebbe stato bisogno, dico io, anche oggi, in morte di Priebke. Con una motivazione molto simile perché un gran bisogno abbiamo di capire che cosa è successo, prima durante e dopo, nella mente dell'uomo che quell'eccidio decise e realizzò. Prima, perché la ricostruzione storica ha permesso di verificare come, da Hitler in poi, quello operato dal nazismo fu un reclutamento massiccio di quadri che si vendicavano, odiando e uccidendo, delle loro infanzie infelici. Durante e dopo perché gravissima deve essere stata la condizione di malattia che ha permesso ad Erich Priebke di negare, l'orrore e il dolore che dalla sua decisione erano derivati. Frutto di patologia e non di intervento del maligno, il male che l’uomo fa ai suoi simili condannando sé stesso al ruolo di mostro dovrebbe essere prevenuto e curato se davvero vogliamo che la storia dell’uomo non sia segnata in futuro da altri eccidi e da altri mostri. Di fronte ai quali io non riesco a sentire, oggi, che una pena infinita.

l’Unità  19.10.13
L'infamia della falsa retorica
Chiediamoci come vengono trattati oggi i rom e i sinti
che furono oggetto dello stesso destino toccato agli ebrei
di Moni Ovadia


LO SCORSO MERCOLEDÌ, RICORREVA IL SETTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI ROMANI DAL GHETTO EBRAICO DELL'URBE. L'azione programmata dalla metodicità nazista, avvenne al cospetto della popolazione stordita e sotto le finestre del Vaticano. La deportazione era stata preceduta da una delle tipiche messe in scena dei nazisti, ovvero la richiesta, da parte delle autorità naziste alla comunità ebraica capitolina, di fornire cinquanta chili d'oro alle «affamate» casse del Reich per evitare la deportazione stessa che come prevedibile vigliaccamente fu messa in atto ugualmente.
Il ricordo di questo tragico evento, ha visto molte commemorazioni alle quali ha partecipato anche il presidente Giorgio Napolitano insieme ad altre autorità e personalità della politica in occasione della cerimonia tenuta nella sinagoga principale della capitale.
A me personalmente, è toccato il privilegio di dare la voce a parti di un’opera folgorante di Giacomo Debenedetti, grande critico letterario ebreo, 16 ottobre 1943, scritta a ridosso dell'impressione provocata dal rastrellamento degli ebrei romani e di alcuni episodi immediatamente successivi. Ho letto il testo per il programma di Rai 3 Ad alta voce. Per la stessa occasione sono stato invitato a partecipare al bel talk show della mattina Agorà, in onda sulla stessa rete e, in attesa del discorso di Napolitano, ad un approfondimento sul tema proposto da Rai News 24 dov’ero in compagnia di due delle migliori teste pensanti dell'ebraismo italiano: la professoressa Anna Foa ed il professor David Meghnagi.
Come mia consuetudine da molti anni a questa parte, non ho tanto parlato della tragedia ebraica, ma del profluvio di retorica e di falsa coscienza che si accompagna alle commemorazioni di rito. Ancorché io sia ebreo e senta il dovere della memoria di ciò che accadde alla mia gente come un irrinunciabile imperativo, ritengo che questo dovere, oggi debba essere esercitato smascherando strumentalizzazioni e intossicazioni retoriche.
L'Italia è il mio Paese e, a mio parere, rischia di morire soffocato dalle sistematiche menzogne e falsificazioni che gli impediscono di accedere ad un confronto salvifico con stesso. La madre di tutte le retoriche è lo slogan «italiani brava gente». Ora, sia chiaro in Italia c'era e c'è tanta brava gente, ma non in quanto tale; i bravi e i coraggiosi furono e sono tali, gli altri no! Un Paese di brava gente non avrebbe lasciato espellere da asili e scuole bambini colpevoli solo di essere ciò che erano e tanto meno li avrebbe lasciati deportare con inaudita crudeltà nell'indifferenza. I fascisti italiani – la «brava gente» commisero in proprio, senza l'aiuto dei tedeschi – la «cattiva gente» -, due tentati genocidi, Cirenaica ed Etiopia. Tutto ciò appartiene al passato? Davvero? Andate a verificare come vengono trattati oggi i rom e i sinti che furono oggetto dello stesso destino toccato agli ebrei e che oggi, nel Paese della brava gente, vengono ancora perseguitati, segregati, sgomberati con perversa cattiveria, oggi come ieri. So che ascoltare tutto ciò può far imbestialire, ma siccome amo il mio Paese, non sono disposto a farne il danno con l'infamia della falsa retorica.

il Fatto 19.10.13
Furio Colombo
Mediterraneo, difendere o salvare?
risponde Furio Colombo


SENTO PARLARE (mi riferisco a giornali e tv) di una “missione militare umanitaria” da organizzare subito, con grandi mezzi, nel Mediterraneo. Ma non c'è incompatibilità fra le due definizioni della missione? E si può organizzare una azione umanitaria con queste leggi?
Ivano

CREDO che ci siano altre contraddizioni in questa materia, ancora tutta radicata nel diritto leghista, che non ha nulla a che fare con il diritto romano e il codice napoleonico. Provo a elencare. 1) È giusto usare sempre e solo la definizione di “trafficanti di uomini” per persone e – forse – organizzazioni che trasportano a pagamento disperati che altrimenti non avrebbero scampo, come è successo in Europa durante la Seconda guerra mondiale e per fuggire alle leggi razziste? Esempio: si trovava rifugio in Svizzera solo se certe guide disposte a tutto ti portavano in tempo in certi passaggi per un compenso non piccolo. A volte erano la sola strada di salvezza, e non ricordo che qualcuno li abbia chiamati “trafficanti di uomini” e “mercanti di carne umana”. È un'area ambigua, ma la definizione-Maroni-Calderoli-Borghezio, non può andare bene per chi sta dalla parte della civiltà. Per Maroni e i suoi, il reato è di farti arrivare vivi i migranti in fuga, non il “traffico”. 2) Poiché nessuna delle disposizioni persecutorie e disumane imposte dalla Lega e dal sentimento fascista (non solo la Bossi-Fini, non solo il “pacchetto sicurezza” di Maroni, non solo il trattato con la Libia che ha inventato i delittuosi respingimenti in mare, ma anche le varie circolari ministeriali e “regolamenti di attuazione”, che aggravano, per crudeltà e ottusità, il senso di quelle leggi) è stata finora toccata o rimossa, come si fonda, su un tale corpo legislativo (criminale ma coerente) un progetto militare-umanitario? Purtroppo resterà soltanto “militare”, secondo la micro visione di Maroni, che ha trasformato il problema umano della migrazione (quasi sempre per cause di vita o di morte) in problema di pubblica sicurezza da risolvere con arresti, imputazioni, carceri ed espulsioni, compreso il rischio immediato della pena di morte per i rifugiati restituiti al boia, a cura del governo italiano. 3) Sembra impossibile, e finora nessun commentatore ci ha fatto caso, ma il governo Letta ha parlato di “ricostituire il team di lavoro comune con il governo libico”. Avete letto bene: “il governo libico”, che non esiste, il cui primo ministro è stato appena rapito, e dove la polizia spara ai rifugiati e uccide coloro che cercano di allontanarsi dalla costa. La soluzione è buona per Maroni. Ma per un minimo di civiltà italiana?

il Fatto 19.10.13
Ospitalità siciliana
“Desaparecidos e violenze nei campi profughi”
di Veronica Tomassini


Siracusa Ci sono i migranti desaparecidos, spariti dopo la sbarco, come Mahari Kidane, 33enne eritreo, scomparso il 26 settembre scorso a Pozzallo nel momento in cui il pullman, che lo avrebbe dovuto portare allo Sprar di Cosenza, stava per partire. Lo afferma Khalid Chaouki, deputato e Responsabile nazionale Nuovi Italiani per il Pd, che ha chiesto al governo di intervenire urgentemente in seguito a quanto riferito dal Fatto sul ‘campo dei pestaggi’, mentre rappresentanti di Human rights watch hanno già preso contatti con la nostra fonte.
NON È SPARITO solo Mahari, pare (sono canali da verificare tuttavia) che tra i desaparecidos vi possa essere un uomo morto di infarto mentre veniva picchiato in un centro di prima identificazione, ma non è possibile far coincidere le due identità. Noi torniamo in Sicilia, stavolta a Catania, torniamo indietro di qualche mese. Le testimonianze si riferiscono allo sbarco del 10 agosto scorso a largo delle coste di Catania. I migranti sono siriani e egiziani trattenuti dentro la scuola “Andrea Doria” per quattro giorni, sono venti migranti, rifiutano tutti l’identificazione, chiedono il ricongiungimento con i parenti che vivono in Nord Europa. Le testimonianze sono contenute all’interno di un video accessibile anche su youtube. In cortile ci sono donne, uomini e bambini. I bambini tengono sollevata una bandiera siriana, colorata su un pezzo di stoffa e urlano hurria, freedom, sembrano già degli adulti. Uomini dall’atrio alzano le braccia e le incrociano sopra la testa, guardando oltre le grate dove presidiano (inutilmente) mediatori culturali e attivisti. A un certo punto una famiglia viene condotta su una macchina blindata, scortata dagli agenti. Un’attivista chiede a gran voce (in arabo) da dietro le grate della scuola: “dove vi stanno portando? ”, la donna risponde che non lo sa, le chiedono di nuovo: e gli altri dove li hanno portati? La donna continua a rispondere che non lo sa. Quella donna, la sua famiglia e gli altri migranti saranno trasferiti nella sede della polizia scientifica per il riconoscimento.
Nello stesso giorno, una donna araba dentro un auto scura grida all’attivista oltre le grate: “Mi hanno picchiato con i manganelli! ”. E urla ancora “Ci hanno legato e picchiato. Hanno imprigionato mio figlio! ”. Gesticola, con le mani fuori dal finestrino. Gli agenti in cortile vigilano e non si accorgono del passaggio di informazioni perché in lingua araba. Parlano anche i bambini, ce n’è uno di sei sette anni, lo stesso che mostra una maglietta con su scritto We need lawer sos. Questo bambino spiega con chiarezza: “Ci hanno preso con l’inganno. Ci hanno promesso (qui non trova la parola, ndr) … ci hanno promesso l’avvocato. Volevo andare con mia madre, ma non mi hanno lasciato andare”.
Il bambino ha una canotta azzurra, parla al mediatore arabo attraverso le grate. Gli agenti controllano le uscite, i bambini tornano a urlare hurria, freedom. Nell’atrio, che è bloccato dagli agenti in tenuta antisommossa, tenta di mostrarsi una donna, con una casacca rosa, lo hijab nero, fa cenni agli attivisti, anche lei grida e spiega in arabo: “Hanno picchiato me e mio figlio per prendere le impronte. Mi hanno tolto il velo con la forza. Mi hanno legata, mi hanno sciolto i capelli”.
LA DONNA URLA che vuole i giornalisti per denunciare tutto, l’attivista da dietro le grate promette: li porteremo qui. Gli agenti la spingono dentro e chiudono le porte della scuola. Di nuovo il bambino con la canotta azzurra: “C’è uno col braccio rotto, devono chiamare l’ambulanza. A mia madre hanno preso le impronte con la forza e al padre di un altro bambino, di lui (fa segno al ragazzino accanto, ndr), hanno rotto il braccio”. Gli uomini in cortile alzano le braccia e le incrociano sopra la testa, uno impreca: “Bashar Al Assad è meglio di loro! ”. I bambini urlano freedom, hurria. Alle ore 20 di quel giorno, il 14 agosto, i migranti saliranno nei bus blindati diretti al Cara di Mineo.
(Testimonianze su youtube.com/watch? v=nC0frtdupWs)

il Fatto 19.10.13
Priebke
Lasciamolo al suo color di morte
di Roberta De Monticelli


Che meravigliosa chiarezza nelle parole di Barbara Spinelli: “Fare l’impossibile – mescolare pietà e orrore – perché l’impossibile e il difficile sono sorte dell’uomo che pensa, conosce se stesso, non segue l’istinto” (Repubblica, 16/10/2013). Affondano come lame nell’infinito dell’esigenza che la giustizia pura pone alla coscienza umana, anche di fronte al cadavere di un gerarca nazista che fino all’ultimo si rifiutò di riconoscere il vero. Anche a lui, proprio a lui, è dovuta una sepoltura. Gli è dovuta perché “tutto sta a non prendere il suo colore”, un colore di morte. Chi ha suggerito di gettare le sue ceneri in una fogna ha preso il suo colore. Ha accettato di somigliargli, come chi ha infierito sui cadaveri di Saddam Hussein, di Gheddafi, di Bin Laden.
“Tutto sta a non prendere il suo colore”. Che profonda verità sta in questa immagine. Il colore dell’ingiustizia è un colore stinto, mimetico, cangiante. Un colore ambiguo, di topo o di piombo. Il colore della mescolanza. Non di orrore e pietà
– che dove la pietà, pur muta, sopravanza l’orrore è letteralmente vittoria sulla morte, e per questo cosa sovrumana –, ma mescolanza di bene e di male, mescolanza in cui risiede il vero male. Perché il male assoluto, il male da tutti riconosciuto tale, ha perduto l’artiglio: e infatti il male assoluto, se ci pensate, esiste per noi solo al passato, quando ha finito, per lo più, di uccidere. Così è la menzogna quando è da tutti riconosciuta tale, non fa più male a nessuno. Male vero fa quando è ancora mista di verità, e per questo tanti se ne credono legittimati a distogliere gli occhi dalla parte di menzogna. Anche la menzogna uccide solo finché non è assoluta. È questa la sorte del male: medietà, mescolanza, ambiguità. Il suo color di topo è indifferenza, ignavia, terzismo: banalità. È la ganga sociale e consortile di cui si nutre ogni potere fondato sulla forza e su quel consenso passivo, impersonale e senza volto di cui è fatta, infine, sempre la violenza, e in primo luogo la violenza fatta alla verità. Il potere del farabutto è nel silenzio di chi non gli chiede ragione. Ci sono silenzi che hanno la stessa natura della nebbia e del fumo: offuscano le differenze, ottundono l’attenzione. O fanno prendere la consistenza e il colore del fumo anche alla parola, la cui essenza è luce, distinzione, chiarezza.
Di questa natura è il silenzio indifferente e il brusio come di un brulicar di topi – chi vincerà in quel partito, cosa farà quel capo, quanto ci guadagniamo noi
– che rende tutta di un indistinguibile colore la grande stampa, e quasi tutta la grande informazione: color di morte, color di nulla. Pensate alla protesta di quasi mezzo milione di cittadini contro il metodo piè-di-porco con cui un decreto governativo ha forzato la serratura della Costituzione, l’articolo 138 che stabiliva i modi e i tempi per modificarla.
PENSATE a Piazza del Popolo gremita di persone accorse a denunciare l’arroganza di chi crede di star seduto sopra la Costituzione e non sotto: chi l’ha vista, sui canali televisivi dei servizi pubblici? Pensate alle decine e decine di migliaia di individui che da pochi giorni tentano di far valere la loro voce contro il ventilato provvedimento di amnistia qui e ora, e nessun grande giornale ne sta dando notizia.
Immaginate tutte queste persone nella solitudine del loro grido muto, privato di suono, soffocato. Con loro sta rischiando la sepoltura anche ciò che resta della nostra democrazia.
Per questo dobbiamo essere tanto grati alle rare voci che avendo pubblico ascolto distinguono sempre con nettezza, dove bisogna farlo, il bene dal male, sciogliendo la mescolanza color di morte. Esse ci restituiscono un soffio di libertà. Se libertà è “sorte dell’uomo che pensa, conosce se stesso, non segue l’istinto”. Per un attimo, ci liberano dal male. E insieme dal brutto che sta devastando la Penisola, dalla violentata fragilità delle sue montagne alla stuprata bellezza dei suoi golfi, dei suoi mari, delle sue colline e delle sue città.
Non è vero che questo non c’entra: c’entra eccome. Anche il brutto, come il basso e il vile, come l’ingiusto e il falso, cresce nel silenzio dell’indifferenza, e prende il suo colore di morte. Simone Weil vide bene il perché. “È falso che non ci siano legami fra la perfetta bellezza, la perfetta verità, la perfetta giustizia; ci sono più che dei legami, c’è un’unità misteriosa, perché il bene è uno”.

l’Unità  19.10.13
Non si cambiano i principi della Carta
Attenti a non sostituire  la centralità della persona umana e della pace con altri valori
di Tania Groppi
Costituzionalista


LA PIÙ BELLA DEL MONDO: SOLTANTO ROBERTO BENIGNI POTEVA USARE PAROLE COSÌ NETTE PER DEFINIRE LA COSTITUZIONE ITALIANA. I COSTITUZIONALISTI, con maggiore prudenza e minore efficacia comunicativa, ci dicono che essa fa parte del «ciclo costituzionale del Secondo dopoguerra» e rappresenta oggi una delle costituzioni più antiche e solide a livello mondiale.
Quel che conta, è che entrambi – il comico ispirato e gli specialisti concordano nel rinvenirne le radici in un preciso momento storico e in un preciso clima culturale, quello che, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, ha visto il convergere di molteplici sforzi e tradizioni verso un medesimo risultato: rimettere al centro la persona umana e la sua dignità, assicurando la convivenza pacifica all’interno degli Stati e tra gli Stati.
Le Costituzioni del secondo dopoguerra sono marcate fortemente da questa duplice impronta: garanzia dei diritti e organizzazione di un assetto istituzionale che assicuri la dialettica democratica e la pace.
Esse si inseriscono in un movimento finalizzato a fondare un nuovo ordine mondiale, al pari della creazione delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, come il Consiglio d’Europa, o dei trattati a tutela dei diritti umani. Anche il processo di integrazione europea prende avvio in quell’epoca e con quello scopo, benché tendiamo a dimenticarcene, oggi che vediamo nell’Unione europea essenzialmente un rigido custode del pareggio di bilancio e della stabilità monetaria.
Quando si discute dell’attualità della Costituzione, della sua capacità di essere ancora, nel XXI secolo, la bussola capace di orientare le scelte della società italiana e di esprimerne l’identità, occorre tenere presente questo quadro fondativo: non si tratta di mere considerazioni storiche, avulse dal presente, ma dell’acqua nella quale la Costituzione trova il suo nutrimento e la sua stessa ragione d’essere.
Soltanto se riteniamo che le esigenze e i valori che guidarono la rifondazione della società occidentale dopo la Seconda guerra mondiale sono superate, se riteniamo che occorre oggi sostituire la centralità della persona umana e la pace con nuovi e diversi principi, possiamo affermare che la Costituzione ha perso la sua attualità e che occorre un nuovo momento costituente.
Ma se non la pensiamo così, allora è ancora alla Costituzione del 1948 che dobbiamo e possiamo guardare per cercare le risposte per le molteplici sfide di questa nostra epoca, certi e fiduciosi che, se avremo occhi capaci di vedere, le risposte non mancheranno.
Questo non vuol dire che la Costituzione non si possa aggiornare, modificare, rivedere, seguendo le procedure che proprio a questo fine essa stessa prevede: ricordarci quali sono le origini della Costituzione, qual è la sua essenza e le sue finalità, ci può aiutare a sdrammatizzare il dibattito, che di nuovo di questi tempi si fa virulento, sulla revisione costituzionale.
Anche le, legittime, a volte necessarie, modifiche della Costituzione, infatti, debbono essere funzionali al quadro di principi e valori che della Costituzione costituiscono l’essenza: se è chiara, ben esplicitata e condivisa la permanente adesione ad essi, allora si può guardare alle esigenze della revisione costituzionale senza pregiudizi e paure.

l’Unità  19.10.13
Cobas in sciopero contro la manovra


«Basta con l`austerità e con i suoi governi in Italia e in Europa, basta con i sacrifici per i settori più deboli e indifesi della società». Questo il leit-motiv dello sciopero generale di ieri, promosso dai Cobas, dall`Usb e da altre strutture del sindacalismo di base, che ha interessato in parte scuola, sanità, pubblico impiego, Telecom, trasporti urbani, principali fabbriche a partire dal gruppo Fiat, trasporto aereo e controllori di volo. La protesta «si è indirizzata in particolare contro la Legge di (In)stabilità, imposta dal governo Letta e da quel partito unico dell`austerità Pd-Pdl che, al di là delle baruffe politicanti tra consorterie, prosegue di comune accordo la disastrosa politica di tagli e sacrifici che ha aggravato, con conseguenze drammatiche per milioni di persone, la crisi in Italia: come è avvenuto negli altri paesi del Sud Europa costretti dagli Stati tedesco e nordeuropei e dalle loro strutture di servizio (Commissione Europea, BCE, trojka, governi succubi degli altri paesi), ad una recessione micidiale. È una politica che
infierisce a senso unico contro i salariati, i disoccupati, i precari, i pensionati poveri e buona parte del piccolo lavoro autonomo, tagliando incessantemente servizi pubblici e beni comuni, reddito e pensioni, investimenti nella scuola e nella sanità pubbliche, aumentando disoccupazione e precarietà, gettando in strada chi la casa o gli affitti non riesce più a pagarli». «E` falso hanno detto i manifestanti nel corteo che la Finanziaria diminuisca le tasse. Gli 8 euro mensili restituiti in media ai salariati sono abbondantemente annullati dall`aumento dell`addizionale Irpef comunale e regionale; il blocco dei contratti del PI infierisce su lavoratori che guadagnano la metà delle medie europee e che hanno perduto il 30% di salario negli ultimi anni; l`Imu rientra dalla finestra con altro nome; le rendite finanziarie restano tassate al 20% mentre il lavoro al 40-43%. E questi sacrifici non hanno diminuito il debito pubblico che anzi è passato in tre anni dal 120% al 135% del PIL, mentre la disoccupazione è salita dall`8% al 12%».

il Fatto 19.10.13
Schiaffi e insulti fra Monti e Casini in gioco i voti per salvare il Caimano
Con Scelta Civica spaccata ora salvare B. è possibile
Verso il voto sulla decadenza: 12 senatori nel nuovo gruppo vicino al Pdl
di Sara Nicoli


Ieri è arrivato a gamba tesa anche Pier Ferdinando Casini, finito nella lista nera di Mario Monti dopo la sua decisione di dimettersi da presidente di Scelta Civica, decisione ribadita anche ieri come “irrevocabile”. “Prima mi chiedeva posti – ha sibilato l’ex leader di Scelta Civica – ora mi accoltella”. L’ormai ex alleato ha sferrato un attacco durissimo all’ex premier sostenendo che “le accuse nei miei confronti sono semplicemente ridicole”. Di più. Casini si è spinto fino a definire quello di Monti un “atteggiamento rissoso sull'azione dell'esecutivo” perché “questi continui distinguo, non sono accettabili”. Presa di distanza anche sulle dimissioni: “Non gli chiederò di ritirarle perché questo non mi riguarda”.
ALTRO CHE SOBRIETÀ. Non poteva finire peggio. Persino Corrado Passera, ieri, ha martellato Monti: “Scelta Civica mancava di radicalità, temevo che il progetto potesse finire così, ecco perché dissi no”. Il senatore a vita rimasto solo? L’immagine è quella. Mentre ribolle il terreno del centro politico che proprio oggi vedrà quella che sembra la nascita di un nuovo partito popolare: si parte dal Veneto “bianco” e da Villa Maschio, a Villafranca Padovana (Pd). A parlare di “Il Partito Popolare e il futuro dei moderati” ci saranno il segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa, Gaetano Quagliariello, Mario Mauro e Flavio Zanonato. La vecchia balena bianca, sembra proprio lì lì per risorgere. Tolto di mezzo un ingombrante Monti, che voleva fare di Scelta Civica il “suo personale” partito di sponda europea (questo, almeno, a sentire alcuni dei suoi detrattori), ora il primo passo sarà la creazione di un gruppo autonomo al Senato, composto da circa 12 dei 20 senatori ex Sc e che avrà la parola “popolare” nel nome: si tratta di Albertini, Casini, De Poli, Di Biagio, Di Maggio, D'Onghia, Marino, Mauro, Merloni, Oli-vero, Romano e Rossi. Ne resterebbero dunque fuori sette, con i 'lealisti montiani' in minoranza. Diverso il discorso alla Camera, dove tra i 47 deputati i montiani sono al momento la maggioranza. Ma in parallelo a quanto sta avvenendo, al Senato potrebbe anche a Montecitorio staccarsi da Sc e creare una componente autonoma. Il tutto, comunque, accadrà lunedì, a partire da Palazzo Madama dove – a questo punto – il pallottoliere sulla salvezza di Berlusconi potrebbe rimettersi in moto, complice il voto segreto.
IL PDL, PER QUANTO devastato dall’imminente scissione, si terrà unito nel nome della salvaguardia del “Padre Nobile”, la Lega non mancherà all’appello, mentre i 5 Stelle e il gruppo misto saranno compatti per il no. Poi, però, ci sarà il Gal, che potrebbe scegliere di votare contro la decadenza e il Pd. Che nel segreto dell’urna – è noto – potrebbe anche non tenere; nel partito, le spinte verso le elezioni a marzo sono forti e un voto per Silvio renderebbe la situazione ancor più fragile nella maggioranza che sostiene Letta. Dunque, i voti dei prossimi “popolari” serviranno. E molto. L’aveva capito, d’altra parte, anche Monti che nel pranzo che Mario Mauro ha consumato mercoledì scorso al circolo ufficiali di Roma, con Angelino Alfano e Berlusconi, non si è parlato di manovra economica. Ma di un’altra manovra, quella della fondazione di un partito centrista, cui Mauro vorrebbe dare la leadership al segretario del Pdl, ma anche una sorta di garanzia che un gruppo di senatori, gli ex Sc, potrebbero, nel segreto del-l’urna, fargli sponda nel giorno più importante. Il clima lo chiarisce Casini che, a proposito della decadenza, dice: “Non ho ancora deciso. Non è vero che ho contrattato con Berlusconi, non ho parlato con lui e non gli parlerò. Sará un voto che appartiene alla mia coscienza e basta. Al momento giusto lo dirò”.
Il partito centrista che verrà, composto per lo più da alfaniani di complemento, da ex democristiani di sempre e forse persino da qualche centrista del Pd costretto ai margini in caso di vittoria di Matteo Renzi (come Beppe Fioroni), si avvia a diventare una sorta di succursale del berlusconismo in salsa Dc che in prima battuta si muoverà, però, su un unico binario definito: salvare il Cavaliere al Senato. Poi verrà il resto.
La diaspora degli ex Sc, comunque, non sarà completa. Alcuni resteranno fedeli a senatore a vita. A partire da Ilaria Borletti Buitoni; la sottosegretaria ieri se l’è presa con Mauro, che “ha usato Scelta Civica per un altro progetto che non è Scelta Civica”. L’ultima resa dei conti martedì, durante il comitato di presidenza di Sc. Dove quelle che si conteranno saranno soprattutto le sedie vuote.

il Fatto 19.10.13
DC si nasce
Mario Mauro, il cinismo del ciellino che tradisce due volte
Scaricò il Cavaliere pensando a Bruxelles, ma dopo il flop dei montiani torna indietro
di Mar. Pal.


Come tutti i mistici, Mario Mauro – come quel Padre Pio, per dire, che ne segnò la nascita a San Giovanni Rotondo 52 anni fa – è un uomo assai pragmatico. Così descrisse la sua adolescenza foggiana, sul Giornale, Giancarlo Perna: “Sermoneggiava nel cortile o all’uscita di scuola di complessi ideali comunitari e religiosi e la sola cosa che gli uditori capivano è che avrebbe fatto strada”. Spiritualità e carriera, religione e affari, il perfetto ciel-lino – con 35 interventi in 15 anni è tra i politici più presenti al Festival di Rimini – è pragmatico sempre. Pugliese di nascita ma lombardo d’elezione, conosce Roberto Formigoni negli anni dell’università a Milano e di lì i due saranno sempre vicini. Anche ora che non sembra, si muovono in sincrono: verso il centro dal mondo berlusconiano il Celeste, verso destra il ministro della Difesa in ritorno dai lidi montiani dopo il tradimento del Cavaliere nel 2012.
Il luogo d’appuntamento è quel luogo del-l’anima che si chiama Partito popolare europeo: una Democrazia cristiana 2.0 buona per i tempi non lontani in cui Silvio Berlusconi sarà solo un ricordo e che il nostro ha cominciato a sognare mentre curava i rapporti a Strasburgo del Caro Leader. C’è il problema che, per ereditarne i voti, bisogna trattar bene l’anziano vicino all’addio, farlo sentire amato, accompagnarlo a un dignitoso trapasso politico: il ministro montiano – che aveva definito “deriva populista” e “tragico errore” la ricandidatura del povero Silvio giusto otto mesi fa – adesso vuole ricongiungersi con l’amico Formigoni e gli altri democristiani del Pdl sotto l’egida di un Cavaliere rassegnato alla pensione. Se quello si presenta, infatti, addio “Popolari” e addio Ppe: ai suoi amici di Bruxelles, che gli avevano “consigliato” l’avventura montiana, non interessa certo l’ennesimo partitino di centro. E così il nostro, che è uomo riservato ma pragmatico, per la causa si sottopone a lunghissimi e noiosi pranzi con Silvio e il capo congiurato Alfano; per questo s’acconcia a fare gruppo pure con gli avanzi Dc della Prima Repubblica tipo Casini. Politicamente, Mauro, è un conservatore tendente al reazionario: gran laudatore della Thatcher delle Falkland, nemico di ogni giurisdizione gay friendly, s’è battuto come un leone per le radici cristiane dell’Europa e sostiene che la bandiera Ue sia un simbolo cristiano (“il blu è il manto del colore della notte di Maria e le 12 stelle sono la corona dell’apocalisse”, misticamente interpreta). Gli è piaciuta assai la nuova Costituzione ungherese (“un testo all’avanguardia”), la stessa bocciata dal Consiglio d’Europa come “autoritaria” e “antidemocratica”. Cose che capitano, e d’altronde un certo entusiasmo per l’armi e l’ordine, aiuta in un ministro della Difesa.

il Fatto 19.10.13
La vita con il Male
La verità di Lapo: solo la stampa cattolica ignora la notizia
Il nipote dell’Avvocato racconta al Fatto le violenze subìte in collegio
di Alessio Schiesari


Per un giorno, tutto è passato in secondo piano. Il personaggio ieri è stato Lapo Elkann e le sue rivelazioni sugli abusi subiti da tredicenne. A certificarlo il più obiettivo e neutrale dei rilevatori: Twitter.
Fin dal mattino, Lapo è stato al centro del mondo social. L’hashtag con il suo nome è stato a lungo il più digitato d’Italia, ed è rimasto nei primissimi posti fino a sera: mai, prima d’ora, uno dei rampolli di casa Agnelli si era raccontato in modo così intimo e totale. Lapo ha rotto una tradizione consolidata in quella che è l’ultima grande dinastia italiana e si è raccontato senza tabù.
A PARTIRE DAI GIUDIZI sui politici: quel Berlusconi votato alle elezioni del ‘94 (in realtà erano quelle del ‘96), politico da cui si è sentito prima sedotto, poi abbandonato, come tanti altri italiani. Il parricida Alfano, compagno di treno per caso, ma che “ha dato prova di avere grandi coglioni”. La presa di distanza da Grillo, che secondo varie indiscrezioni Lapo avrebbe votato nel febbraio scorso: “Ero in America, ma non l’avrei votato comunque”. E le tante carezze a Renzi, che sembrano quasi un endorsement.
A catturare l’attenzione però è la notizia degli abusi sessuali subiti da ragazzino, quando era stato spedito in un collegio per corregere la dislessia. Lapo ha avuto la forza di raccontare gli angoli più oscuri del proprio passato, rompendo il muro di omertà che avvolge quasi tutte le storie di pedofilia, soprattutto quando riguardano i famosi. “Da quando ho compiuto 13 anni ho vissuto cose dolorose che poi mi hanno creato grandi difficoltà nella vita. Cose capitate a me e ad altri ragazzi. Parlo di abusi fisici. Sessuali. Mi è accaduto, li ho subiti”.
All’estero i primi ad accorgersene sono i francesi di Le Point, che hanno rilanciato la notizia già nel primo pomeriggio. Di sera Reuters, la più prestigiosa agenzia di stampa al mondo, gli ha dedicato un lancio che è stato rilanciato da molti siti in lingua inglese e dalle testate europee. In Italia l’intervista è stata ripresa un po’ tutti: da Repubblica a Vanity Fair, da il Giornale al Corriere, passando per Libero e Oggi.
I canali all news (SkyTg24, Rainews e Tgcom24) hanno mandato a rullo notizia e aggiornamenti, e anche i tg dei canali generalisti hanno dedicato servizi alle rivelazioni di Lapo.
Unica eccezione, la stampa cattolica, che si è accorta del caso Elkann solo quando i gesuiti hanno fatto alcune precisazioni sul racconto del rampollo Agnelli. Questa la nota a firma di Vitangelo Denora, delegato per le scuole della Provincia d’Italia della Compagnia di Gesù: “Ci sentiamo di dover escludere che abbia mai studiato in uno dei nostri collegi in Italia. Né, a quanto ci risulta, dopo aver compiuto le prime verifiche, in uno degli istituti della Compagnia presenti nel mondo”.
LAPO INFATTI NON HA studiato in Italia, ma all’estero. Gli abusi si sono verificati in un istituto di fede cattolica frequentato da religiosi di vari ordini, inclusi i gesuiti.
Denora non ha fatto mancare la propria vicinanza a Lapo Elkann: “Ha condiviso su un quotidiano una ferita profonda della propria adolescenza. Preghiamo per lui con tutto il cuore e condanniamo con ogni fermezza gli abusi compiuti nei suoi confronti”.

il Fatto 19.10.12
Vaticano Chiesa e peccati
Tocca a Bergoglio scoperchiare lo scandalo dei preti pedofili
di Marco Politi


“Voglio che questa storia serva a qualcuno”. L’improvvisa confessione di Lapo Elkann sugli abusi subiti in un collegio religioso (fuori d’Italia) è un segnale per papa Bergoglio. E non perché l’istituto appartenga allo stesso ordine del papa argentino, l’ufficio stampa dei gesuiti smentisce. Ma per due motivi cruciali. Il primo è che in certe istituzioni chiuse religiose – ma non solo – la repressione e la perversione dei criminali è così forte da non fermarsi nemmeno dinanzi al timore di essere scoperti dalle famiglie “potenti” della vittima. Figurarsi con quanta maggiore prepotenza e delirio di impunità si agisce e si è agito per secoli verso vittime socialmente del tutto indifese.
E l’intervista di Elkann come le innumerevoli testimonianze delle organizzazioni che difendono i “sopravvissuti”, a partire dalla statunitense Snap, sono lì a rammentarci che le ferite si trascinano e si approfondiscono negli anni a venire. Sino a risultare intollerabili e persino mortali. Il secondo elemento di riflessione – che bussa insistentemente alle porte del nuovo papato – è che il lavoro di pulizia, cominciato con Benedetto XVI, è ancora ai primissimi inizi.
Si tratta di rendere giustizia a vittime, la maggior parte delle quali è stata brutalmente silenziata per decenni. Non basta cessare di mettere bastoni tra le ruote della magistratura e della polizia, quando il crimine viene scoperto dalle autorità statali. Non basta nemmeno incoraggiare (parola soventemente ipocrita) le vittime a rivolgersi al giudice. Non è sufficiente. La Chiesa, per la funzione morale che si attribuisce, deve farsi parte attiva per portare alla luce i crimini che avvengono tra le mura delle sue istituzioni. E deve predisporre persone e strutture che possano assistere prontamente gli abusati, ascoltando le loro denunce e assicurando alla giustizia i colpevoli.
Perché il pontificato di Francesco è chiamato direttamente in causa? Perché una Chiesa, che vuole presentarsi con il volto della “tenerezza” (parola-chiave che ha spinto tante persone anche non credenti a volgersi verso Bergoglio con attenzione e interesse), non può chiudere gli occhi dinanzi al dramma di migliaia di vittime nascoste, sepolte dalla storia degli ultimi decenni, che ancora attendono giustizia.
ALMENO la giustizia di essere riconosciute come adolescenti (e oggi uomini e donne traumatizzati) feriti crudelmente due volte: al momento dell’abuso, spesso continuato per anni, e nel lungo arco di tempo in cui gli abusati sono stati negletti. “Nessuno vi ascoltava… (sentivate) che non vi era modo di fuggire dalle vostre sofferenze”, ha scritto Benedetto XVI nella sua lettera di autocritica ai cattolici irlandesi nel marzo 2010.
Al nuovo pontefice tocca dunque riprendere in mano il dossier sia assicurandosi che in tutte le conferenze episcopali vengano attivate strutture operative a cui si possano rivolgere le vittime (in molti Paesi, fra cui l’Italia, ancora non ci sono referenti diocesani né responsabili nazionali per contrastare il fenomeno) sia aprendo inchieste a tutti i livelli per far emergere crimini rimasti nascosti. Cosa deve provare una donna o un uomo violentati nel vedere che il prete di allora guida ancora la sua parrocchia o ha fatto carriera nei ranghi della Chiesa istituzionale?
C’È POI una questione scottante, che investe direttamente il pontefice nella sua veste di supremo responsabile della Curia e dei suoi apparati. Il 21 agosto scorso Francesco ha richiamato (praticamente destituendolo) il nunzio vaticano nella Repubblica Dominicana, mons. Jozef Wesolowski, accusato di ripetuti abusi sessuali nei confronti di ragazzi dei quartieri poveri e malfamati di Santo Domingo, a cui si presentava come “Giuseppe”.
Ora però l’opinione pubblica si chiede dove e come sarà processato il vescovo criminale. Tornare alle pratiche del passato, chiudendo la vicenda nel silenzio, non è possibile. Le vittime esigono giustizia e ne hanno il diritto. E la tolleranza-zero si prova solo con la piena trasparenza.

l’Unità  19.10.13
La tv vaticana lancia la sua sfida tecnologica
di Roberto Monteforte


Folle entusiaste accolgono un po’ ovunque Papa Francesco. Il nuovo vescovo di Roma con la semplicità dei suoi gesti essenziali e profondi è indubbiamente un grande comunicatore. Sicuramente per la sua capacità di vivere con normalità e vicino alle persone e ai più bisognosi di ascolto e attenzione la sua missione, ma anche per la forza delle immagini che lo ripropongono in ogni suo spostamento e che arrivano in ogni luogo. Che danno il senso di una prossimità con il pontefice. Merito del Ctv, il Centro televisivo vaticano che ieri ha festeggiato i 30 anni della sua fondazione annunciando in un convegno tenutosi ieri a Roma, presso la Stampa Estera, una sua impegnativa svolta tecnologica. Il direttore di Ctv, monsignor Dario Viganò spiega l’adeguamento delle «riprese» televisive a Papa Bergoglio, con i numerosi «piani ravvicinati» e le inquadrature che «indugiano sulla figura del pontefice e sulla sua capacità di stabilire e alimentare un dialogo appassionato con i fedeli» che evidenziano «la grande intensità emotiva che segna i suoi incontri». Ma la novità sta anche nella sfida tecnologica. Dal luglio 2013 il Ctv ha avviato un processo che permetterà la consultazione già dal 2014 del materiale, sia agli operatori interni sia a chi intenda visionare i documenti in archivio. «L’innovazione tecnologica osserva monsignor Viganò è un criterio di annuncio evangelico. Lo standard deve essere quello dei broadcaster americani. Se non fossimo partiti non avrebbero raccontato il Papa». E agli operatori del Ctv si è rivolto Papa Francesco con un messaggio di ringraziamento. «In questi decenni la tecnologia ha viaggiato a grande velocità, creando inaspettate reti interconnesse. È necessario mantenere la prospettiva evangelica in questa specie di “autostrada globale della comunicazione”» scrive il pontefice. Significativo anche il messaggio inviato al convegno dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

il Fatto 19.10.12
D’Alema a Renzi: “Il partito non è un hobby”
Gianni Cuperlo si presenta: bello, democratico e per pochi intimi
di Wa. Ma.


Bello, democratico e per pochi intimi: Gianni Cuperlo si presenta così alla platea dei Democratici alla quale chiede il voto per diventare segretario. Lo slogan si riferisce al Pd e i pochi intimi sono ragazzi riuniti alla Città dell’Altraeconomia di Roma, dove inizia la campagna congressuale, ma la sua sembra una chiara volontà di marcare una differenza da Renzi. E il segno di una campagna “minoritaria”: alla possibilità di vincere lo sfidante ufficiale sembra crederci piuttosto poco. Lui e D’Alema, lo sponsor numero uno, non si risparmiano però le stoccate al sindaco di Firenze. Comincia il Lìder Maximo: “'Non condivido l'idea che si possa fare il segretario di un grande partito facendo il sindaco di Firenze e venendo un giorno alla settimana a Roma, come se fosse un hobby”. E poi ritorna sulla tesi che porta avanti da mesi: Matteo “è inadatto a fare il segretario”, sarebbe un “ottimo candidato alla guida del centrosinistra”, complementare a Cuperlo. Lui, Cuperlo, fa un discorso raffinato, come suo solito, passando dal protagonista del film Wall Street, Gordon Gekko, alla necessità di costruire un’altra economia, ma si accoda: “Se uno vuole fare il segretario di un partito deve dedicarsi al partito, se vuole fare bene il sindaco di Firenze fa il sindaco”. Attacchi e dichiarazioni funzionali: che tra i due ci possa essere un accordo post congresso è più che un’ipotesi. Tant’è vero che si scambiano reciproci attestati di stima. E che nei congressi locali in molti posti i candidati sono condivisi. Cuperlo non può non intervenire sulla lite a distanza tra Bersani e il Lìdfer Maximo entrambi suoi sostenitori nei giorni del-l’elezione del Capo dello Stato: "Mi pare che la discussione tra i due sia su cose avvenute nei mesi passati, tutto molto interessante ma vorrei che ci concentrassimo sull'Italia che abbiamo davanti”. Aspettando le primarie nazionali, intanto, si stanno già di fatto svolgendo i congressi locali con tanto di candidature imbarazzanti (vedi Crisafulli) e tessere anomale (come a Lecce).

il Fatto 19.10.13
Trattativa Stato-mafia. A caccia di scappatoie per Napolitano
Trincerato dietro un “massimo rispetto istituzionale” il Presidente prende tempo
I suoi consiglieri al lavoro per verificare come evitare l’obbligo della testimonianza
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo Alla Corte d’Assise di Caltanissetta dovrà spiegare i dettagli della sua “stretta collaborazione istituzionale e personale” con il predecessore Oscar Luigi Scalfaro; dovrà raccontare la sua verità sull’avvicendamento al Vi-minale tra Scotti e Mancino nel giugno del ’92; e soprattutto dovrà riferire se e cosa ha saputo, nella sua qualità di presidente della Camera, della famigerata trattativa mafia-Stato.
EPPURE Giorgio Napolitano, convocato a marzo scorso come testimone nel processo su via D’Amelio, non ha fatto una piega. Oggi che la Corte d’Assise di Palermo ha ammesso la sua testimonianza nel processo sulla trattativa Stato-mafia, dal Quirinale arriva invece un gelido comunicato che parla di “massimo rispetto istituzionale”, nell’attesa che i collaboratori del capo dello Stato possano conoscere il testo integrale dell’ordinanza dei giudici. Ma non è un azzardo ipotizzare che la convocazione di Palermo abbia provocato non poca irritazione nello staff del Colle e che i consiglieri del presidente siano già al lavoro per verificare le possibili scappatoie, con l’obiettivo di sottrarre il capo dello Stato dall’obbligo della testimonianza. Non escludendo un ulteriore ricorso alla Consulta, con un nuovo conflitto di attribuzioni sollevato, questa volta, contro la magistratura giudicante palermitana.
Due pesi e due misure, dunque, tra Palermo e Caltanissetta? Allora nessuna polemica ha accompagnato quella citazione. Nessun dubbio venne manifestato dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri che invece giovedì si è detta “perplessa” per l’ordinanza di Palermo. E nessuna patente di “originalità”, come quella affibbiata dal Pd Luciano Violante alla citazione nel processo sulla trattativa, venne attribuita alla convocazione del capo dello Stato nel processo Borsellino quater.
Oggi invece, l’ammissione come teste di Napolitano è bollata con un aggettivo, “inusuale”: l’ha usato l’altroieri il Guardasigilli, e l’ha ripetuto ieri Pierferdinando Casini, secondo cui “a prima vista è un nuovo capitolo di un nuovo sconfinamento istituzionale”. Più cauto, invece, Claudio Martelli, secondo cui “non si capisce su cosa Napolitano dovrebbe testimoniare”: “Se D’Ambrosio – argomenta Martelli – scrive che non vorrebbe essere considerato un ufficiale scrivano di volontà politiche che sarebbero state compromesse da accordi con la mafia, mi fa venire in mente la definizione di Pisanu, secondo cui ci sono state certamente delle ‘tacite intese’; ma un accordo indicibile e una tacita intesa è il medesimo concetto, quindi se il giudizio di D'Ambrosio e Pisanu convergono, cosa dovrebbe aggiungere Napolitano su questo punto non riesco proprio a comprenderlo”.
IN REALTÀ il tema è più circoscritto, e riguarda - come hanno sottolineato i pm in aula al momento dell’esibizione delle fonti di prova - il riferimento di D’Ambrosio al timore di essere considerato un “utile scriba di indicibili accordi”, timore del quale non c’e traccia nelle pagine del libro di Maria Falcone, anch’esso citato nella sua missiva dal consigliere giuridico del Quirinale. E l’unico che può svelare l’arcano è proprio Napolitano, che, come scrive il suo consigliere, “sa”. E se in ambienti dell’Avvocatura dello Stato ci si prepara già a una raffica di opposizioni alle eventuali domande dei pm, per ridurre fino ad annullarla, la strettoia creata dalla sentenza della Consulta, in ambienti della Procura di Palermo si valuta come “totalmente infondata” l’ipotesi che il capo dello Stato possa sottrarsi all’interrogatorio adducendo un inesistente diritto a non rispondere. L’unica deroga prevista dall’articolo 205 del codice di procedura penale riguarda il luogo dell’audizione, che deve essere “la sede in cui egli esercita la sua funzione di Capo dello Stato”: il Palazzo del Quirinale a Roma. E si estende anche ai presidenti del Senato e della Camera, al presidente del Consiglio dei ministri e quello della Corte Costituzionale, solo nel caso in cui questi richiedano espressamente di essere sentiti nelle rispettive sedi istituzionali (Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo Chigi o Palazzo della Consulta).
Per il resto, nessuna eccezione è prevista per lo svolgimento del rito. I rappresentanti delle più prestigiose istituzioni dello Stato sono considerati, infatti, cittadini come tutti gli altri, in base al principio di uguaglianza davanti alla legge sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

Repubblica 19.10.13
Togliete il bavaglio alla legge sulla stampa
di Giovanni Valentini


(…) Un mondo globale in cui la comunicazione, ormai, non è più uno strumento della politica ma ne è diventata l’essenza.
(da “Fuorigioco” di Mauro Calise – Laterza, 2013 – pag. 6)

Mandare in carcere i giornalisti per diffamazione equivale a negare la libertà d’informazione, cioè il diritto dei cittadini di essere informati. Non lo diciamo certamente per rivendicare una malintesa libertà di diffamare, bensì per tutelare quella d’informarsi. E infatti, di solito sono i regimi antidemocratici, autoritari, gli Stati di polizia, a privare i giornalisti della libertà personale.
È senz’altro confortante, perciò, che la Camera abbia abolito in prima istanza la carcerazione dei giornalisti, per sanzionare diversamente il reato di diffamazione a mezzo stampa che tale è e tale rimane. Ma l’aggravamento delle pene pecuniarie appare una forma di “monetizzazione” chiaramente intimidatoria, quasi una censura preventiva o un bavaglio virtuale, nei confronti della libera informazione. C’è da auspicare, quindi, che il Senato modifichi in seconda lettura la legge, per renderla nello stesso tempo più equa ed efficace.
Qual è in realtà il bene o l’interesse leso dalla diffamazione? Innanzitutto la reputazione e l’onorabilità delle persone direttamente colpite. E poi, anche un più generico «diritto alla verità » che spetta a tutti i cittadini.
Non ha senso, allora, prevedere multe vessatorie a carico dei giornalisti, se non quello di intimidirli, censurarli o imbavagliarli preventivamente. E quindi di impedire a loro d’informare e ai cittadini di essere informati. Il rischio più grave, anzi, è proprio quello dell’autocensura, per cui il giornalista – nella concitazione quotidiana del suo lavoro – sarà portato a non pubblicare una notizia scottante, magari su storie di corruzione o di criminalità organizzata, per non rischiare una multa che potrebbe costargli lo stipendio di parecchi mesi di lavoro.
La reputazione e l’onorabilità delle persone diffamate si ripara, piuttosto, con una smentita adeguata ed effettiva che contemporaneamente risarcisce il danneggiato e ripristina la verità anche a beneficio dei terzi: è già questa una sanzione professionale. Semmai sarebbe più ragionevole procedere a una condanna in denaro solo in caso di rifiuto della pubblicazione da parte del giornale o del giornalista autore della diffamazione. Lo stesso Diritto civile, del resto, consente di scegliere fra il risarcimento “in forma pecuniaria” o “in forma specifica” se questo è più conveniente per il colpevole: è – per esempio – il caso di scuola del vetraio che preferisce sostituire il vetro rotto con un sasso o una pallonata dal figlio minorenne, di cui è responsabile in forza della patria potestà, anziché pagare il danneggiato. Quanto sia parziale e insoddisfacente questa pseudo- riforma lo conferma anche il fatto che l’estensione del segreto professionale al giornalista pubblicista «sia accompagnato — come rileva criticamente il segretario della Federazione della Stampa, Franco Siddi – dalla conferma di rivelare la fonte qualora ritenuta determinante per dirimere una causa di diffamazione». A cui s’aggiunge la bocciatura dell’emendamento sulle cosiddette liti temerarie, quelle intentate in sede civile senza un motivo o un fondamento valido, per minacciare di fatto i giornalisti con la richiesta di risarcimenti esorbitanti. C’è evidentemente in tutto ciò un atteggiamento punitivo della classe politica che va ben oltre la giusta esigenza di tutelare la reputazione e l’onorabilità delle persone diffamate. E qui bisognerebbe riaprire anche il capitolo sulle azioni promosse contro i giornalisti dai magistrati che godono di un trattamento privilegiato da parte dei loro colleghi, sia sul piano della rapidità dei processi sia sul piano dell’entità degli indennizzi.
Da ultimo, appare tanto ambigua quanto inefficace la norma che contempla l’interdizione professionale per i casi di recidiva. Al tempo di Internet e dei social network, del citizen journalism o del giornalismo spontaneo, risulta quantomeno retrograda, anacronistica, inapplicabile. Sarebbe, in definitiva, un’interdizione dalla libertà di pensare e di manifestarela propria opinione.

l’Unità  19.10.13
Studenti francesi in piazza: Leonarda torni
In migliaia in Francia contro l’espulsione della ragazza rom. Bufera sul ministro Valls
Hollande chiede il silenzio. Estrema destra contro la ministra di origine africana: una scimmia
di Luca Sebastiani


Parigi Per sapere se Leonarda potrà tornare o meno in Francia bisognerà attendere ancora qualche ora, ma intanto il clamore suscitato dall’espulsione della quindicenne rom di origine kosovara, prelevata dalle forze dell’ordine nel corso di una gita scolastica il 9 ottobre, non accenna a diminuire. Mentre il presidente François Hollande si cela dietro il silenzio dell’Eliseo e il ministro dell’Interno Manuel Valls è sempre più al centro del fuoco amico della gauche, ieri per il secondo giorno di fila, sono stati gli studenti a incarnare l’emozione e lo sconcerto dei francesi.
Dopo il blocco, giovedì, delle lezioni in 14 licei della capitale, ieri, nonostante gli appelli del ministro dell’Istruzione Vincent Peillon di rientrare nelle classi, erano ben 45 le scuole chiuse per protesta. Un corteo di 12mila studenti ha sfilato al centro di Parigi (e altrettanti sfilavano nel resto del Paese), per chiedere il ritorno immediato sui banchi francesi di Leonarda Dibrani e di Khatchik Kachatryan, diciannovenne studente a Parigi, rimpatriato sabato scorso in Armenia. Per gli studenti non c’è legge che tenga: i due giovani espulsi erano studenti come loro e nelle classi dovevano restare. Chi se ne dovrebbe andare invece, ritengono, è il ministro Valls, responsabile di una politica eccessivamente rigida su immigrazione e diritto d’asilo in ossequio all’aria populista che tira sulla Francia insieme al balzo in avanti del Fronte nazionale di Marine Le Pen.
Il ministro però non ci pensa neanche a dimettersi, e ha anzi sempre sostenuto che il rimpatrio di Leonarda, minorenne, è avvenuto secondo le procedure previste dalla legge e in ragione dell’espulsione della sua famiglia che, dopo averle provate tutte nel corso dei tre anni passati in Francia, non ha ottenuto il diritto d’asilo. Se finora non ha cambiato idea, Valls è però stato costretto a cambiare i suoi programmi e a rientrare a Parigi prima del previsto dalle Antille dove si trovava in visita. Stamattina infatti il governo gli trasmetterà il rapporto dell’ispezione generale dell’amministrazione sullo svolgimento del rimpatrio di Leonarda. Il primo ministro Jean Marc Ayrault lo ha già promesso e nel caso ci siano state delle irregolarità, la giovane verrà ricondotta in Francia.
Ciò non toglie che il caso Leonarda costituisca l’occasione per una parte della maggioranza di mettere sotto accusa le politiche sull’immigrazione fin qui condotte in quasi solitudine dal ministro dell’Interno. Solo per fare un esempio: nel 2012 Valls ha battuto il record dei suoi predecessori riaccompagnando alle frontiere 36.822 immigrati contro i 32.912 dell’anno precedente, l’ultimo dell’era Sarkozy, che sulla fermezza contro l’immigrazione aveva capitalizzato un bel po’ di consenso proveniente dalla destra di Le Pen. Forse sarà anche per questa sua ostentazione muscolare che Valls oggi è l’unico membro del governo che può vantare una notevole popolarità in una Francia che è rimasta parecchio delusa dai socialisti al potere. Se da una parte Hollande ha favorito l’ascesa di Valls per garantirsi dagli attacchi della destra contro una gauche troppo morbida e idealista, come era successo a Lionel Jospin, dall’altra il ministro dell’Interno è oggi l’unica risorsa dell’Eliseo per sperare di risalire un poco la china dei sondaggi, che lo danno al minimo storico mentre Marine Le Pen ascende a picchi di gradimento mai visti per l’estrema destra.
Per dire quanto ormai il Fronte nazionale si senta «sdoganato», una candidata alle prossime amministrative nelle Ardenne, ha postato su Facebook a fianco di una foto della ministra di colore Christiane Taubira, l’immagine di una scimmia, aggiungendo che piuttosto che al ministero, vedrebbe meglio la Guardasigilli su un albero. Certo, contrariamente a quanto è avvenuto in Italia con l’analogo caso Calderoli, la candidata è stata espulsa dal partito, ma il caso è rilevatore di un clima nuovo, in cui le politiche populiste e la speculazione politica sull’immigrazione sembrano se non legittimare, quantomeno banalizzare il razzismo e i suoi stereotipi.

il Fatto 19.10.13
“Scimmia” E il Fn caccia la candidata


Un altro “caso Kyenge” scuote la Francia: Anne-Sophie Leclere, candidata del Front National di Marine Le Pen alle elezioni municipali di marzo, ha paragonato la ministra della Giustizia Christiane Taubira, nata nella Guiana francese, a una scimmia. Un episodio che ricorda le offese leghiste di Roberto Calderoli al ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge che suscitarono reazioni indignate anche in Francia. La direzione del Fn ha subito sospeso la candidata dell’estrema destra nelle liste di Rethel, un comune delle Ardenne di 7.500 abitanti.
Mentre il premier Jean-Marc Ayrault ha espresso “totale solidarietà” alla Taubira e le ha assicurato tutto il suo sostegno dopo “le parole di carattere razzista di cui è stata vittima”. Leclere, titola di un negozio di pesca, aveva pubblicato un fotomontaggio sulla sua pagina Facebook in cui si vedeva una scimmietta accanto alla Taubira. Sotto, la scritta “a 18 mesi” sull'immagine dell’animale e “adesso” sulla foto della ministra. Per difendersi la 33enne aveva poi detto: “La scimmia resta un animale, un nero è un essere umano. Ho amici neri e non per questo dico loro che sono delle scimmie”.

Repubblica 19.10.13
I due ragazzi che dividono la sinistra di Hollande
di Bernardo Valli


IN QUESTE ore due ragazzi, Leonarda e Khachik, una kosovara e un armeno, mettono in crisi il governo socialista, dilaniano la sinistra e turbano tante anime della laica Quinta Repubblica. In Francia, in particolare a Parigi, gli studenti che scendono in piazza per protestare hanno di solito, nell’immediato, l’appoggio dei genitori, di quelli conservatori come di quelli progressisti. I quali poi magari, col tempo, ci ripensano e si riappropriano delle idee che per istinto hanno delegato ai figli che sfilano sui boulevards. I motivi di questa spontanea solidarietà non sono soltanto quelli familiari. I giovani in agitazione sulle sponde della Senna sono l’espressione della scuola: e le scuole sono i templi, le chiese della République. E quindi vanno rispettate.
L’indignazione espressa da liceali e ginnasiali, sotto lo sguardo comprensivo degli adulti, può sembrare un paradosso.
Infatti, è dovuta all’espulsione di Leonarda, la kosovara, e di Khacik, l’armeno, vale a dire di due immigrati irregolari in un paese in preda a un forte vento di estrema destra, con evidenti venature xenofobe. Di recente i sondaggi hanno dato il Front National come il virtuale primo partito di Francia. Nonostante questo, esplode la solidarietà in favore di due stranieri espulsi perché senza permesso di soggiorno. La ragione è chiara, semplice, giudiziosa: la cacciata dei due giovani dalla Francia, proprio mentre frequentavano le loro rispettive scuole, è apparso un sacrilegio. Come nel Medio Evo le chiese erano un luogo sicuro per i fuggitivi, ricorda Laurent Joffrin, così i democratici considerano oggi le scuole.
Aggiunge uno storico, Patrick Weil, che la polizia ha agito correttamente per quanto riguarda il quadro giuridico; ma non per quel che riguarda lo spirito della legge. Quest’ultima consente di condurre alla frontiera uno straniero che ha esaurito inutilmente tutte le pratiche per regolarizzare la propria situazione. Ma la stessa legge autorizza a concedere il permesso di soggiorno a titolo umanitario, quando sono in gioco importanti problemi privati, familiari: e l’integrazione scolastica dei figli rientra in questo caso. Inoltre, il fatto che Leonarda sia stata interpellata proprio mentre partecipava a un’iniziativa della sua scuola, aggrava la situazione.
Manuel Valls, il ministro socialista degli Interni, è sotto accusa. Ed anche questo può apparire paradossale perché Valls è l’uomo politico più popolare di Francia. Comunque lo era fino a qualche giorno fa. A metterlo ko è stata Leonarda, la ragazzina kosovara, dicono adesso con ironia gli studenti che mani-festano per le strade di Parigi.
L’emozione provocata dall’espulsione dei due giovani è attribuita, in gran parte, alla tensione creata dal ministro degli Interni. Il quale è diventato un accanito accusatore dei rom, delle donne col burqa e, in generale, delle minoranze immigrate, principali bersagli del Front National ma anche di larghi strati della società. Manuel Valls ha raggiunto la sua straordinaria popolarità presentandosi appunto come il campione della sicurezza. Alla quale è strettamente collegato il problema dell’immigrazione e dell’islamismo.
Popolare ministro di un governo impopolare, Valls è la centro di accese polemiche nel suo stesso partito. È in egual misura un personaggio prezioso, per gli ampi consensi che raccoglie nell’elettorato di destra e di sinistra, e l’imbarazzante espressione di una sinistra che per combattere il Front National ne adotta a volte metodi e linguaggio. L’espulsione dei due scolari viene giudicata come il frutto della sua politica. Gli si rimprovera di inseguire la popolarità venendo meno ai principi della sinistra. E dimenticando quanto sia pericoloso alimentare l’ansia, già forte, per la sicurezza.
Manuel Valls contende al Front National il monopolio dell’ordine. Il suo obiettivo, come uomo di sinistra, è di dimostrare che un governo socialista può garantire l’autorità e, potenzialmente, come dice Max Weber, l’«uso del monopolio della violenza fisica legittima ». È quel che Valls scrive nel libro (Sécurité) in cui esprime con chiarezza le sue idee. Idee approvate da François Hollande, che gli ha affidato il ministro degli Interni, e sulle quali adesso il caso della giovane Leonarda getta una cattiva luce.

il Fatto 19.10.13
La corruzione cinese svelata dalle amanti
Le concubile dei funzionari pubblici si organizzano in movimento per denunciare on line le malefatte: il  15% dei casi viene scoperto così
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino In Cina c’è un detto popolare sui nuovi ricchi. “La bandiera rossa sventola fuori le mura. Ma anche all’interno garrisce alta ed eretta”. Cosa significa se lo fa spiegare l'ispettore Chen, novello Sherlock Holmes dagli occhi a mandorla i cui casi sono tradotti in Italia da Marsilio. “Un riccone può anche avere amanti, segretarie, concubine, di tutto e di più, ma non necessariamente divorzia dalla moglie, né significa che abbia problemi in casa”.
All'interno delle mura domestiche forse no, ma le ricadute sulla sua carriera possono essere oggi più pesanti di quanto si potesse immaginare in passato. L'agenzia di stampa Xinhua ha pubblicato un'interessante statistica sui casi di corruzione: dall'inizio del 2013 il 15% degli scandali sono esplosi online grazie alle confessioni delle amanti. Ci si potrà fidare di queste giovani ragazze conosciute al karaoke e abbagliate da un tenore di vita che possono solo aver sognato? Vanno ascoltate anche quando parlano perché non hanno ottenuto ciò che gli è stato promesso? E se il loro obiettivo fosse unicamente quello di screditare un'altra donna – magari più giovane e carina – perché ha conquistato l'attenzione e il portafoglio di chi le ha mantenute per anni?
Mentre l'opinione pubblica si pone queste domande, il fenomeno ha assunto dimensioni tali da meritarsi un nome, una sorta di etichetta: ernai fanfu ovvero “amanti contro la corruzione”. E se un giorno dovessero mettere insieme forze e informazioni potrebbero provocare un vero e proprio terremoto politico.
Uno studio dell'Università del Popolo di Pechino ha dimostrato come il 95% dei funzionari corrotti si vanta di aver avuto relazioni extra-matrimoniali (normalmente a pagamento) mentre il 60% di loro ha mantenuto un'amante.
Zheng Tiantian - che prima di pubblicare la sua tesi di dottorato in antropologia sociale all'Università di New York ha lavorato per due anni in un karaoke di Dalian – descrive la sua esperienza in Red Lights (2009). “Gli uomini con più potere erano quelli che sapevano controllare fisicamente ed emotivamente le proprie escort. Erano
capaci di privarle della loro libertà e poi abbandonarle”.
Oggi le cosiddette ernai sono per lo più ragazze di campagna che cercano fortuna in città. Hanno spesso un livello di educazione molto basso ma sono pronte a tutto pur di “svoltare”. Ed è proprio una di loro che confida alla Zheng: “preferisco essere amante piuttosto che moglie. Si fanno più soldi”.
E quando denunciano i funzionari corrotti spesso sono mosse dalla stessa avidità di denaro. Ma non sempre ottengono i risultati sperati. Lo studio di Xinhua che sdogana le ernai fanfu pubblica un dato che suona come un avvertimento: il 23% di chi ha denunciato è stato successivamente accusato e/o detenuto per diffamazione o per aver “causato problemi”.

Corriere 19.10.13
L’Economia cinese è tornata a correre ma i catastrofisti non sono sconfitti
di Guido Santevecchi


L’economia della Cina è cresciuta del 7,8 per cento nel terzo trimestre di quest’anno. Tornando ad accelerare rispetto al +7,5% del secondo trimestre e al +7,7% del primo. Ottimismo tra gli esportatori di merci, macchinari, materie prime, dall’Australia alla Germania. A questo punto nessuno dubita più che la Repubblica popolare centrerà l’obiettivo di crescita al 7,5% fissato per il 2013. Che sarà comunque il passo più lento in 23 anni per la seconda economia del mondo. Il rallentamento è forte, se si ricorda che ancora all’inizio del 2010 il Prodotto interno lordo correva quasi al +12% l’anno.
Quindi, il risultato di ieri lascia aperto il dibattito tra i «due partiti»: quello degli economisti-catastrofisti che continuano a prevedere l’esplosione della bolla immobiliare, disoccupazione per effetto dell’eccesso di capacità produttiva dell’industria, dissesto finanziario a causa dell’indebitamento per credito facile, «hard landing» finale, che significa «precipitare».
Già ieri gli analisti hanno avvertito che il quarto trimestre per la Cina non sarà così positivo: la ripresa della domanda mondiale è ancora instabile, come dimostra la lieve contrazione delle esportazioni cinesi registrata a settembre. Pechino insiste che il rallentamento è programmato, per costruire una qualità della crescita invece della «semplice» quantità: vale a dire più reddito per i lavoratori. Il premier Li Keqiang promette di guidare la transizione verso un’economia trainata dai consumi interni più che dalle esportazioni. Se manterrà la parola, sarà un’ottima notizia anche per il mondo globalizzato.
Il partito degli economisti-ottimisti segnala che su questo fronte la Cina potrebbe aver fatto progressi insperati. Finora i consumi delle famiglie cinesi sono stati valutati al 34-36% del Prodotto interno lordo: in Occidente siamo tra il 58% dei tedeschi e il 70 degli americani. Il grosso del Pil cinese è dunque costituito da investimenti in infrastrutture ed edilizia e stimoli all’industria (di Stato). Ma ora un nuovo studio porta i consumi privati dei cinesi al 46%. Per Pechino meno esportazioni e più importazioni: sarebbe meglio per tutti. 

il Fatto 19.10.13
I barboni di New York castrati in nome della scienza


Rastrellati per le strade della Bowery, negli hotel da due soldi. Negli anni 50 e 60 un medico di New York usò i barboni di New York per un esperimento medico senza garanzie di successo. Perry Hudson offriva agli straccioni del Lower East Side - alcolizzati, molti malati mentali - un’offerta che oltre mille di loro non rifiutarono: se avessero accettato di sottoporsi a biopsie della prostata - e in alcuni casi alla castrazione - avrebbero avuto un letto pulito e 3 pasti gratis per alcuni giorni più cure mediche gratis se fosse stato scoperto che avevano un tumore.
Non è la prima volta che in nome della scienza atrocità vengono commesse nei confronti dei più deboli: per quattro decenni, a partire dal-l’inizio degli anni ‘30, centinaia di neri poveri furono esposti alla sifilide senza ricevere cure per osservare il decorso naturale della malattia. L’Esperimento Tuskagee fu bloccato dal ministero della Sanità Usa solo nel 1972.
Negli anni 50 il cancro alla prostata era diagnosticato quasi sempre troppo tardi e quasi sempre fatale. Il dottor Hudson voleva dimostrare che, preso presto, il tumore poteva essere contenuto e curato.
Il medico non aveva però informato le sue cavie umane che le biopsie avrebbero potuto portarli all’impotenza e a lacerazioni rettali. Le terapie in caso di diagnosi di tumore - la rimozione della ghiandola e in molti casi dei testicoli - erano inoltre ancora tutte da dimostrare. “Io però ero convinto che funzionavano. Dicevo loro che il tasso di cura era estremamente alto”, ha detto al New York Times lo scienziato che ha 96 anni e vive in Florida.

l’Unità  19.10.13
Il Paese che voleva Margherita
Esce martedì «Italia sì Italia no», il libro postumo di Margherita Hack
Un lascito appassionato alle generazioni future scritto dalla scienziata poco prima di morire. Ne pubblichiamo uno stralcio


VORREI: UN’ITALIA MODERNA CHI AMA L’ITALIA DOVREBBE ESSERE OBIETTIVO E CRITICO; riconoscerne i difetti ma anche i pregi. Cerchiamo perciò di passare in rassegna cosa funziona in questa nostra azienda Italia e cosa no, e come si potrebbe intervenire per renderla più vivibile e accogliente per tutti. E il modo più giusto e più chiaro per iniziare a parlare di questa nostra Italia è riferirsi alla Costituzione che continua a indicarci la via da percorrere. Passeremo in rassegna i principali articoli della prima parte della Costituzione, ossia i princìpi fondamentali. Si discute da tempo della necessità di riforme che la rendano più agile. È irritante leggere sui giornali dell’urgente necessità di queste riforme, senza che mai o quasi mai si spieghi in cosa consistano e il perché della loro urgenza. Esse riguarderebbero l’ordinamento della Repubblica e il suo funzionamento. Per esempio, le leggi le fa il Parlamento, devono essere approvate da Camera e Senato in forma identica. Questo per evitare colpi da mano dall’una o dall’altra parte, a cui poteva essere particolarmente sensibile un paese appena uscito da una dittatura, ma in pratica oggi può avere anche l’effetto di rallentare e persino impedire l’approvazione di una legge, apportan-do piccole insignificanti modifiche, così da rimandarla avanti e indietro, da una Camera all’altra per la difesa di piccoli particolari interessi. Nient’altro che una gran perdita di tempo. È necessaria una migliore preparazione scientifica delle classi dirigenti: consideriamo l’assurdo della condanna a 6 anni dei geologi che non hanno previsto, e non potevano prevederlo, il terremoto dell’Aquila. Casomai erano da condannare gli architetti che potevano costruire tenendo conto del rischio di terremoti, soprattutto in una zona tanto soggetta a eventi sismici. La scarsa importanza data alla ricerca dipende anche dalla scarsa cultura di chi ci governa. Tagli alle università, agli enti di ricerca, stipendi vergognosamente bassi dei docenti di scuola elementare e media e dei ricercatori se si confrontano con i guadagni astronomici di politici, giocatori di calcio, cantanti, presentatori televisivi. Tutti fatti che stanno ad indicare in quanta poca considerazione è tenuta la cultura dalla maggioranza degli italiani.
NON VORREI: LE PANCHINE NEGATE
Mancanza di cultura vuol dire anche paura e rifiuto del diverso, non capire quanto invece possa arricchirci la conoscenza di abitudini e costumi diversi, come maggiore cultura vuol dire anche maggiore apertura e solidarietà verso l’altro. Uno splendido esempio d’inciviltà ce lo ha dato la Lega. Durante la permanenza al governo, la Lega con il sentimento di fratellanza verso gli immigrati che la contraddistingue ha fatto togliere – dove ha potuto – le panchine dalle stazioni ferroviarie, dai giardini pubblici ecc. perché non possano sdraiarsi per dormire i senza tetto.
VORREI: UNA VERA DEMOCRAZIA
L’Italia che vorrei? Quella disegnata dalla nostra Costituzione, in parte attuata quasi subito, in parte dopo molti anni e in parte non ancora. Il significato della nostra Costituzione fu illustrato da Piero Calamandrei in un discorso rivolto agli studenti nel 1955 e riportato qui sotto perché altri studenti e tutti i cittadini di oggi ne comprendano la profonda moralità. Ma la madre della nostra Costituzione è nata ad Atene più di 25 secoli fa e da Pericle fu illustrata ai cittadini (...)
VORREI: PIÙ FERVORE
Sono novantenne, ho avuto la fortuna di nascere e traversare quasi un intero secolo. Un secolo speciale in cui si sono avuti più cambiamenti che nei cinquanta secoli in cui sono cresciute e si sono sviluppate le civiltà cinesi, fenice, egizie, fino alla grande civiltà greca, radice della moderna Europa. Ancora all’inizio dell’Ottocento il mezzo di trasporto era il carro o la carrozza trainati da animali. Le prime ferrovie risalgono al 1830, e in Italia le prime sono state a Napoli, che ha anche avuto la prima metropolitana. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, il governo dei Borboni fu moderno e innovativo. Ai primi del Novecento Giosuè Carducci nella poesia Davanti San Guido scrive «ansimando fuggía la vaporiera» e ripenso ai fochisti tutti neri di carbone e seminudi davanti alla fornace della locomotiva che alimentavano continuamente. Mi viene il dubbio: ma li ho visti davvero da bambina o me lo immagino? E intanto la Freccia Rossa scivola silenziosa sui binari paralleli all’autostrada, appare e scompare in un attimo lasciandosi indietro le macchine che viaggiano a 150 km/ora.
NON VORREI BERLUSCONI
Abbiamo avuto «mani pulite» a cancellare il binomio Dc-Pci poi sostituito con il peggior periodo dal punto di vista della moralità pubblica, del rispetto delle leggi, del senso dello stato che ha fatto dell’Italia un paese da operetta e riempito il parlamento d’indagati e incompetenti, scodinzolanti davanti a quel fenomeno da avanspettacolo che è stato (e che è ancora oggi) Berlusconi.
NON VORREI: TANTI SPRECHI
È opportuno ricordare i disastri e lo sperpero di denaro pubblico per puri fini propagandistici. Per esempio, i costi per attrezzare il convegno del G8 alla Maddalena e poi decidere di trasferirlo invece all’Aquila, appena uscita da un devastante terremoto, e assegnare in pompa magna ai terremotati casette di compensato, tralasciando invece la ricostruzione, che è ancora lontana. Altro bell’affare è stata la proposta del ponte sullo stretto di Messina, che probabilmente non si farà mai, non solo per i costi ma per la pericolosità, poggiato com’è su una zona altamente sismica. Però studi e progetti sono stati fatti e bisogna pagarli. (...) Oggi, che una profonda crisi economica ha colpito il mondo occidentale, e al governo dell’Italia, dopo che erano state provvisoriamente chiamate in aiuto persone serie (il solito governo tecnico), ora c’è una «strana» coalizione, cosa possiamo aspettarci? Anche se senza la bacchetta magica, e con una colorazione piuttosto destrorsa, com’è oggi l’Italia? È vero che c’è una miseria crescente? O forse ci eravamo abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità.

SU UNITA.IT
«Pan di Stelle», l’ebook con i suoi articoli per l’Unità

Il rapporto tra Margherita Hack e l’Unità risale a molto, molto tempo fa. In un’intervista rilasciata nel 1999 lei stessa racconta che cominciò a leggere il giornale negli anni Cinquanta e che, da allora, il vizio di sfogliare l’Unità prima di cominciare la giornata lavorativa non l’ha più lasciata. Abbiamo raccolto tutti i suoi articoli pubblicati sul nostro giornale nell’ebook «Pan di stelle» che trovate su www.unita.it e che potete scaricare (costa 3,99 euro). Dal suo primo pezzo sull’astronomia pubblicato nel 1980 fino ai commenti più politici degli ultimi anni.

Corriere 19.10.13
Ipazia filosofa, matematica e astronoma martire civile del fanatismo cristiano
di Eva Cantarella


Accadde ad Alessandria d’Egitto, nel mese di marzo del 415 a.C.: una donna venne crudelmente assassinata, le sue carni fatte a brandelli, gli occhi cavati dalle orbite, i resti dati alle fiamme. L’assassino non era un marito o un amante tradito, un maniaco o un serial killer… A ucciderla fu una folla inferocita. Perché? La donna si chiamava Ipazia, ed era un’esponente di spicco dell’aristocrazia ellenica. Iniziata allo studio dal matematico Teone, suo padre, Ipazia insegnava matematica, astronomia e filosofia nella scuola platonica, di cui si dice fosse il capo. C’era chi diceva che la sua sapienza superava quella dei filosofi della sua cerchia. Una posizione eccezionale per una donna, ai tempi (e non solo). Ma non fu la misoginia la causa della sua morte. Si colloca invece all’interno dalla lotta che per secoli oppose paganesimo e cristianesimo. A distanza di un secolo dall’Editto di Costantino che aveva concesso ai cristiani libertà di culto, il potere imperiale aveva dichiarato guerra ai culti pagani. Dal 319 il cristianesimo era religione di Stato, e le costituzioni imperiali arrivavano a stabilire la pena di morte per i pagani. Ad Alessandria, poi, il vescovo Cirillo si distingueva per un atteggiamento particolatamente violento e persecutorio. E al suo servizio agiva un gruppo di fanatici estremisti, i «parabalani», monaci del deserto egizio provenienti dalle file degli zeloti. Furono loro gli assassini di Ipazia. L’orrore e la bestiale crudeltà del massacro sconvolse il mondo della cultura dell’impero romano d’Oriente. E sconvolge ancora, dopo 1.500 anni. 

il Fatto 19.10.13
Il peggio della diretta
Paolo Crepet imbianca, ma non lascia la trincea
di Fulvio Abbate


Sere fa, a Porta a Porta, immancabilmente su Rai1, ho piacevolmente ritrovato il caro Paolo Crepet. Oh, intendiamoci, può anche darsi che l’uomo, il professionista, l’ospite fisso non si sia mai assentato, e dunque averlo percepito lontano dall’occhio del ciclone mediatico sia stata una mia allucinazione, un ribaltamento del dato di realtà. Quasi che Crepet, come nell’apologo della suora guardiana narrato da Buñuel in un film, non si sia mai mosso dalla sua cattedra di associato opinionista televisivo, sempre lì a commentare, com’è normale per uno psicoanalista, un ex collaboratore di Franco Basa-glia, tra Cogne e molto altro ancora, a ripetere il suo mantra-j’accuse di fronte all’evidenza di ogni delitto, ossia che è sempre colpa della famiglia. D’altronde, generazionalmente e culturalmente parlando, Crepet non può non avere perfetta memoria di un opuscolo pubblicato più di trent’anni addietro dai Radicali, nel quale si affermava che proprio la famiglia, nemica giurata di Paolo C., “è ariosa e stimolante come una camera a gas”.
Un tempo bello e affascinante come un levriero afgano, oggetto di interesse femminile, grazie a quel ciuffo, al baffo argentato da intenditore di se stesso, e perfino ai golf lampeggianti tinte da concessionario di auto di lusso, fra rosa e verde pastello, l’altra sera Crepet mi è però apparso ben più brizzolato del solito, di un sale e pepe “british”, quasi simile allo zio colonnello che corre in soccorso di Vivien Leigh nel Ponte di Waterloo, sì, un fascino “regimental”, e così, sempre d’improvviso, mi è sembrato che nessun peccato di narcisismo potesse più essergli attribuito.
FORSE ANCHE per merito del personale dei commentatori televisivi giunti negli studi dopo di lui. Crepet come un pioniere, un vero punto saldo della riflessione sui fatti di cronaca che dovessero necessitare un pronto intervento psicologico o addirittura psichiatrico, o comunque del supporto di un laureato che sappia appunto spiegare che le maggiori colpe ricadono per definizione sui congiunti, e hai voglia di dire che in assenza di questa sarebbe la diaspora sociale. Ecco, ora che ci penso, Paolo Crepet anche l’altra sera da Bruno Vespa, davanti al plastico monumentale a tetto scoperchiato della casa di Perugia teatro della tragica fine di Meredith Kercher, con la sua lievemente afflitta distanza dai luoghi comuni fino sparsi a piene mani da molti dei presenti, è riuscito a svettare, a mostrarsi come un pezzo unico esperto di dinamiche, come dire?, condominiali. Il momento più esaltante è arrivato quando il professor Crepet è dovuto uscire, baionetta inastata, dalla trincea della propria noia per ribattere al padre dell’imputato Sollecito che: no, un conto è l’orma del piede sul pavimento, ben altro conto è la stessa orma su un tappetino da bagno. È stato in quel momento che non ho potuto fare a meno di esultare per la versatilità del-l’Esperto, in quell’esatto istante mi sono detto che sulla famiglia rischia davvero di avere ragione lui.
www.teledurruti.it  

Repubblica 19.10.13
Verità pericolose
Da Socrate a Don Chisciotte, il destino di chi cerca giustizia
L’uno difendeva la libertà di pensiero; l’altro l’ideale Ecco perché ogni uomo può rispecchiarsi in loro
di Alberto Manguel


Il testo di Manguel è parte del suo intervento scritto per “L’altra metà del libro”, il festival da lui curato e in corso fino a domani al Palazzo Ducale di Genova. Tema di questa seconda edizione è “Irruzioni di memoria”. Tra gli ospiti Roberto Calasso, Emmanuel Carrère, Eduardo Galeano, Melania Mazzucco, Elizabeth Strout, Timur Vermeswww.palazzoducale.genova.it

Il 19 gennaio 2007, lessi che il giornalista turco di origine armena Hra nt Dink era stato assassinato a Istanbul da un nazionalista turco, un ragazzo di appena diciassette anni, perché aveva criticato la negazione del genocidio armeno da parte del governo. Uccidere i giornalisti che tentano di dire la verità è un costume consacrato dal tempo e le giustificazioni addotte per questo crimine godono di una tradizione altrettanto antica (uso i termini “consacrato” e “godono” a ragion veduta). Da San Giovanni Battista a Seneca da Rodolfo Walsh ad Anna Politkovskaja, i dicitori di verità e i loro giustizieri occupano uno scaffale sorprendentemente vasto nelle nostre biblioteche.
Poco più di ventiquattro secoli fa, nel 399 a. C., tre cittadini ateniesi portarono in tribunale il filosofo Socrate, perché ritenuto una minaccia per la società. Al termine del processo, durante il quale accusa e difesa presentarono le rispettive tesi, la maggioranza della giuria, formata da rappresentanti dei cittadini ateniesi, riconobbe Socrate colpevole e, con singolare severità, lo condannò a morte. Qualche tempo dopo, Platone, il discepolo che forse più di ogni altro amò Socrate, trascrisse il suo discorso di difesa che è giunto fino a noi con il titolo diApologia. In esso, Platone fa discutere a Socrate molti argomenti: il concetto di empietà, il carattere dei suoi accusatori, le imputazioni di eresia, corruzione dei giovani e oltraggio all’identità democratica ateniese. Quest’ultima accusa echeggia ancor oggi curiosamente familiare. E, come un filo luminoso che corre lungo tutta la sua disquisizione, Socrate analizza la questione delle responsabilità dei cittadini in unasocietà giusta.
Circa a metà del suo discorso, il filosofo prende in considerazione i rischi a cui si espone chi voglia dire la verità nel mondo della politica. «Nessun uomo sulla terra che, coscienziosamente, impedisca il verificarsi di ingiustizie e di illegalità nel proprio stato di appartenenza», dice Socrate, «potrà mai salvare la propria vita. Il vero difensore della giustizia, che intenda sopravvivere anche per breve tempo, deve necessariamente confinarsi nella vita privata e abbandonare la politica».
Non c’è dubbio. A partire dai primi profeti, è lunga la lista di chi, avendo detto la verità, ha pagato con la vita questa vocazione umana, e ogni anno Amnesty International pubblica un corposo elenco di persone detenute in tutto il mondo, per la sola ragione di aver fatto sentire la propria voce. Hans Christian Andersen, neiVestiti nuovi dell’imperatore,dimenticò di dirci che cosa accadde al bambino che fece notare che l’imperatore, in realtà, non aveva niente addosso. Non ci sorprenderebbe di certo scoprire che il suo non fu un destino felice.
Socrate spiega alla corte di essere più che consapevole dei rischi che si corrono nel dire la verità. La persona che si oppone a ingiustizie e illegalità, osserva Socrate, paga con la vita la sua scelta di dire la verità su queste ingiustizie e illegalità. Fin qui tutto è chiaro. Ma poi, Socrate, per il quale il perseguimento della verità è, come dovrebbe essere per ciascuno di noi, l’obiettivo primario dell’esistenza, prosegue dicendo che, se una persona vuole salvare la pelle «anche per breve tempo», questo obiettivo va circoscritto alla sfera privata e non è permesso che debordi nel più vasto ambito sociale.
Ma come è possibile fare questo?
A meno che il tono di Socrate non voglia essere pericolosamente ironico, proprio lui, più di chiunque altro, dovrebbe sapere che ogni volta che si ricerca la verità, ogni volta che si mette in dubbio una bugia, ogni volta che si tenta di smascherare una frode, un’impostura, un inganno, ogni volta che si fa notare che l’imperatore in realtà è nudo, si deve necessariamente sconfinare proprio in quel terreno comune, in quel mondo che abitiamo con i nostri concittadini. Ai due estremi della vita siamo soli, nel grembo materno e nella tomba, ma lo spazio che intercorre tra essi è un regno condiviso, in cui i diritti e le responsabilità di ciascuno sono definiti dai diritti e dalle responsabilità dei nostri vicini, e ogni spergiuro, ogni falsità, ogni tentativo di nascondere la verità danneggia chiunque in quel regno, incluso, in fin dei conti, lo stesso mentitore. Dopo che Socrate fu costretto a porre fine alla propria vita, gli ateniesi si pentirono, chiusero ginnasi e palestre in segno di lutto, bandirono due degli accusatori da Atene e condannarono a morte il terzo.
Socrate era consapevole che ogni società si definisce in due modi: attraverso ciò che permette e attraverso ciò che proibisce, attraverso ciò che include, riconoscendolo come propria immagine, e attraverso ciò che esclude, ignora e nega. Ogni cittadino che vive all’interno delle mura di una società ha un doppio obbligo: quello di obbedire a queste comuni inclusioni ed esclusioni (vale a dire, alle leggi della società) e l’obbligo verso se stessi. Una società viva deve avere, all’interno del proprio tessuto, gli strumenti per consentire a tutti i cittadini di mettere in atto questo doppio dovere: quello di obbedire alle leggi e quello di metterle in discussione, quello di rispettarle e quello di cambiarle.Una società che permetta ai cittadini soltanto uno dei due doveri (una dittatura o uno stato anarchico) è una società che non ha fiducia nei propri principi ed è perciò a rischio di estinzione. Gli esseri umani hanno bisogno della protezione comune della legge, come pure della libertà di dare voce ai propri pensieri, alla propria testimonianza, ai propri dubbi, tanto quanto hanno bisogno della libertà di respirare. Questo è fondamentale.
Forse ci è più facile comprendere le parole di Socrate se le ascoltiamo riecheggiare in un suo distante e bizzarro discepolo, un certo gentiluomo della Mancia che, ossessionato dalla lettura dei romanzi cavallereschi, decide un giorno di diventare lui stesso un cavaliere errante per mettere in pratica i precetti di valore e onestà «per accrescere il proprio onore e servire il proprio paese». Come Socrate, Don Chisciotte conosce i rischi nel tentare di «impedire il verificarsi di ingiustizie e di illegalità nel proprio stato di appartenenza». E per questo, Don Chisciotte viene considerato un pazzo.
Ma che cos’è esattamente la sua pazzia? Don Chisciotte scambia i mulini a vento per giganti e le pecore per guerrieri, e crede in cavalli volanti e incantatori, ma al di là di tutte le sue fantasie, ha fede in qualcosa di solido come la terra su cui cammina, ossia la necessità perentoria di giustizia. Le visioni fiabesche di Don Chisciotte sono immaginazioni circostanziali, modi per far fronte al grigiore della realtà. Ma nell’impeto della sua passione e nelle sue incrollabili convinzioni, egli ritiene che gli orfani debbano essere aiutati e le vedove salvate – anche se, a causa delle sue azioni, il destino sia del salvatore che delle vittime peggiora. Ecco il grande paradosso con cui Cervantes ci mette a confronto: la giustizia è necessaria anche se il mondo rimane ingiusto. Le azioni malvagie non devono rimanere incontrastate, quand’anche dovessero seguire mali maggiori. Jorge Luis Borges fa esprimere questo concetto a uno dei suoi personaggi più terribili: «Che il Paradiso esista pure, anche se il mio posto è all’Inferno» .
Traduzione di Giovanna Baglieri

Repubblica 19.10.13
Ma è polemica per un intervento anti-israeliano
Gli storici italiani: “No a una legge sul negazionismo”
di Simonetta Fiori


Una legge “ambigua”, “di difficile interpretazione” e “di ancor più difficile attuazione”. Gli storici bocciano il provvedimento sul negazionismo ora in discussione in Parlamento. E non è la prima volta. Già sei anni fa, la comunità dei contemporaneisti si mostrò compatta nel respingere il disegno di legge presentato dall’allora ministro Mastella. Questa volta, però, la protesta non arriva dalla Sissco, la società dei contemporaneisti dove è in corso un’animata discussione, ma dai tre curatori dellaStoria della Shoah: Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso.
Il principio che muove la protesta è sempre lo stesso: la verità storica non può essere fissata per legge o nelle aule di un tribunale. Questo accade solo nei regimi totalitari. Lo disse allora Carlo Ginzburg, insieme ad altri duecento storici. Lo ripete oggi Marcello Flores. «Il testo della legge è molto generico. Condanna chiunque nega l’esistenza di “crimini di guerra”, o “di genocidio”, o di “crimini contro l’umanità”. Ma sulla definizione di genocidio – e su quali siano stati i genocidi nella storia – ferve un’accesa disputa tra gli storici e – cosa ancor più problematica – non c’è accordo tra i giuristi. Per non parlare dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità. E allora chi decide? Un tribunale internazionale? O forse solo nazionale? È il giudice a stabilire caso per caso a quale decisione di tribunale o interpretazione di studiosi rifarsi?».
Là dove è stata introdotta la legge – in Germania e in Austria, in Svizzera e in Francia – i risultati sono stati modesti. «Con l’aggravante», aggiunge Flores, «che i processi si sono rivelati una formidabile tribuna per la propaganda di tesi vergognose». La macchina spettacolare è sempre stata un’arma potentissima nelle mani degli “assassini della memoria”, secondo la definizione di Vidal-Naquet. Al vittimismo mediatico di Faurisson – documenta un recente saggio di Claudio Vercelli – deve moltissimo la diffusione del negazionismo prima in Europa e poi nella Repubblica islamica di Ahmadinejad.
Oggi c’è il problema del web, funzionale all’enorme moltiplicazione della “grande macchina di depistaggio”. Ma il rimedio – insiste il documento presentato da Flores, Traverso e Levis Sullam – non è riposto in una legge, che anzi crea la “perversa convizione” di aver risolto la questione. «Il razzismo si sconfigge solo con l’educazione, la cultura, la ricerca».
E la Sissco? Ancora non ha prodotto un documento ufficiale. Agostino Giovagnoli, il presidente, dice che la quasi totalità degli storici è sulle stesse posizioni espresse da Flores e gli altri. Anche se – aggiunge – bisogna intervenire sulle manifestazioni di odio e apologia del razzismo, che però sono già colpite dalle leggi esistenti. La mailing listdella società è ora infiammata da un’improvvida mail di Aldo Giannuli, autore di ricerche archivistiche, che definisce la nuova legge «un omaggio alla lobby filo-israeliana», introdotta con l’intento «di rafforzare le ragioni di Israele». Un giudizio che giustamente solleva all’interno della Sissco molte reazioni polemiche (“una scivolata”, dice il presidente). E che rischia di portare la discussione da un’altra parte. A conferma che il cortocircuito tra dibattito pubblico e negazionismo, storia e politica può avere effetti nefasti.

Repubblica 19.10.13
Cervello, ultima frontiera
L’organo più complesso sta rivelando segreti e poteri insospettabili
Ora le più recenti scoperte sono riassunte a “Brain”, un’esposizione a Milano che unisce scienza e divertimento
Per spiegare cosa determina le superiori capacità mentali della nostra specie
di Anna Lombardi


Una stanza buia che fa da scrigno a un unico tesoro tenuemente illuminato, quella massa labirintica e gelatinosa poco più grande di un meloncino che è il cervello umano. E poi un tunnel invaso di scoppiettanti cavi elettrici, che si illuminano incessantemente per un solo istante come fuochi artificiali impazziti: a simulare l’inestricabile sequenza confusa solo in apparenza di impulsi elettrici che portano informazioni al nostro cervello. Fino a trovarsi davanti a un informe gigante dalle mani enormi e naso orecchie e bocca sovradimensionati. A esemplificare quanto per la nostra mente siano importanti le informazioni che arrivano dai sensi.
Già. Si affida anche all’arte, quella modernissima delle installazioni, la mostra Brain. Il cervello: istruzioni per l’uso,che si inaugura domani al Museo Civico di Storia Naturale di Milano. Una grande mostra scientifica, allestita attraverso reperti, ma anche filmati, esperimenti interattivi e giochi, che ha già fatto il giro del mondo. Partita dall’American Museum of Natural History di New York (sì, proprio quello reso famoso dal film Una notte al museo) l’esposizione è stata ideata da uno dei suoi più importanti studiosi: Rob DeSalle, curatore per lo stesso museo della divisione zoologia degli invertebrati, lo scienziato che nel 1992 isolò quello che era allora il più vecchio frammento conosciuto di Dna. Dopo le puntate in Cina e Spagna, ora tocca all’Italia, grazie a un adattamento curato da Giorgio Racagni, direttore del dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università di Milano e dalla professoressa Monica Di Luca, esperta di Farmacologia sempre a Milano. Il percorso è un viaggio all’interno dell’organo umano più misterioso e affascinante. «Il suo funzionamento è così elaborato», spiega Vitto-rio Bo, editore di Codice Idee per la cultura che ha co-prodotto la mostra, «da non essere ancora interamente svelato». Ne sa qualcosa il povero Albert Einstein: perfino dopo la morte il genio del XX secolo non riuscì a trovare pace, il suo cervello fu asportato e conservato nella speranza di cogliere con un’impietosa autopsia i suoi misteri gloriosi.
La mostra made in America segue fortunatamente tutt’altro percorso. Divisa in sette sezioni che mostrano la centralità del cervello in ogni nostra attività, «prova a illustrare», dice la professoressa Di Luca, «concetti complessi con un linguaggio adatto a tutti. Con lo scopo di sensibilizzare tutti noi sull’importanza di studiarlo e imparare a preservarlo, ma anche con l’obiettivo di combattere malattie degenerative, arricchire le sue potenzialità».
L’esposizione svela la storia, la fisiologia e i numeri strabilianti del cervello: come i 100 miliardi di neuroni che ci portiamo in testa, capaci singolarmente e in un solo secondo di inviare qualcosa come 1.000 segnali informativi, che passano dall’uno all’altro a una velocità che tocca i 400 chilometri orari. Perché ogni pensiero è un viaggio che si forma all’interno di questa macchina che è poi un insieme di strutture interconnesse, ciascuna con responsabilità e poteri, in costante mutamento: come in un fantasmagorico ritratto di Arcimboldo. «Ogni singola informazione che approda al cervello determina cambiamenti e nuove combinazioni di idee», ha detto proprio DeSalle all’inaugurazione della mostra nella sua New York. «Ecco perché chiunque visiterà questa mostra cambierà per sempre, anche senza volerlo, il suo approccio al concetto stesso di pensiero». Magari, scoperta dopo scoperta, provando a illuminare un po’ questa nostra stanza buia.

Repubblica 19.10.13
Le applicazioni pratiche per l’immediato futuro
Neuroni guaritori e ricordi innestati
di Giorgio Vallortigara


Che cosa c’è di speciale nel cervello umano? Una riposta potrebbe essere il numero di neuroni, che cambia in animali diversi. Si va dai 302 del verme Caernohabditis elegans (una star dei laboratori di neurobiologia), ai 100mila del moscerino della frutta ai 23 miliardi o agli 85 miliardi (entrambi valori stimati) dei cervelli, rispettivamente, dell’elefante e dell’uomo. È improbabile però che il numero da solo spieghi le superiori capacità mentali della nostra specie. Elefanti, delfini e balene ne hanno in quantità considerevole. Forse ci sono tipi di neuroni che solo la nostra specie possiede o che forse possiede in numero maggiore. Tra i candidati vi sono i Ven (neuroni di von Economo), che si pensa siano associati a funzioni superiori come quelle legate alla presa di decisioni in un contesto sociale. I neuroni di von Economo sono numerosissimi nel cervello umano, un po’ meno in quello degli scimpanzé e paiono assenti nei cervelli delle scimmie non antropomorfe. Ma l’entusiasmo per i Ven si è attenuato di recente perché pare che siano presenti anche nelle balene e nei delfini.
La risposta che trova maggiori consensi ha a che fare con il cablaggio dei neuroni, cioè con il modo in cui sono interconnessi. Il problema è però la disarmante complessità dei circuiti nervosi, anche in organismi con un numero di neuroni molto inferiore a quello umano. Il topo, con i suoi modesti 75 milioni, può formare 10 alla 11 sinapsi: un numero enorme.
Di che tipo di tecniche disponiamo per affrontare questa complessità? E possiamo svilupparne di migliori? I due principali progetti di ricerca, quello finanziato negli Stati Uniti dal presidente Obama, Brain Initiative,e quello della Comunità europea, loHuman Brain Project, forniscono differenti risposte. Il primo è rivolto allo sviluppo di nuove tecniche: i neuroscienziati hanno già a disposizione molti strumenti, come la risonanza magnetica funzionale, per visualizzare l’attività cerebrale in vivo, e varie tecniche di raccolta dei segnali elettrici, come la magnetoelettroencefalografia. I differenti segnali elettrici cerebrali già oggi possono essere usati per comandare dispositivi elettronici: alla recente “Notte della Ricerca” al museo Muse di Trento, gli scienziati Jens Scharzbach e Angelika Lingnau hanno mosso una macchinetta con la sola “forza del pensiero” (vedere il sito
www.unitn.it/en/cimec). Ma nuove strabilianti tecniche sono appena arrivate e altre arriveranno: l’optogenetica, che combina tecniche di genetica e di ottica per inserire nei neuroni proteine sensibili alla luce; cosicché il neurone possa essere poi attivato semplicemente stimolandolo con la luce. Oppure la recentissima tecnica Clarity, che consente di visualizzare il cervello come se fosse trasparente.
L’europeo Human Brain Project ambisce invece a riprodurre, letteralmente, un cervello. Il direttore del progetto, Henry Markram del Politecnico di Losanna, lo ha già fatto introducendo in un computer i dati relativi a una colonna di neuroni della neocorteccia di ratto e spera di farlo, con l’aiuto di supercalcolatori, per l’intero cervello umano.
Non mancano le voci di dissenso: Steven Rose, celebre neurobiologo britannico, ha scritto sulla rivista European Journal of Neuroscience che sia loHuman Brain Project che il Brain Action Map - il nuovo progetto che Obama si appresta a lanciare per lo studio del connettoma, il pattern di connessioni tra neuroni - sembrano più destinati a favorire l’industria Ict (cioè dell’informazione e della comunicazione) che le conoscenze sul cervello.
Dunque che tipo di conseguenze possiamo immaginare per l’immediato futuro? A parte certe applicazioni pratiche come l’uso dei segnali nervosi per azionare vari marchingegni (che può avere grande rilievo per certe categorie di pazienti), le implicazioni sul modo in cui pensiamo a noi stessi e alla nostra vita mentale - alla nostra memoria, per esempio - possono essere sconvolgenti. È di queste settimane la notizia che alcuni scienziati del Massachusetts Institute of Technology hanno prodotto falsi ricordi nel cervello dei topi, usando appunto tecniche di optogenetica. La materia della mente può essere, letteralmente, a breve nelle nostre mani.
* Giorgio Vallortigara dirige il CIMeC, Centre for Mind/Brain Sciences dell’Università di Trento.