domenica 20 ottobre 2013

l’Unità 20.10.13
COMUNICATO DEL CDR
La redazione de l'Unità ritiene inaccettabili le parole sul suo futuro di cui si è fatto interprete sul settimanale Left non si sa a quale titolo, Massimo Fagioli. Se sono annunci, semplici auspici o espressione del libero pensiero dovranno misurarsi con la ferma azione della redazione a tutela dell'autonomia e del radicamento de l'Unità nella sua storia, nel rispetto delle sue battaglie antiche e recenti che affondano le radici nell'esperienza gramsciana e procedono per l'intero '900 fino ai giorni nostri.
Ogni necessario processo di rilancio e innovazione de l'Unità, che la redazione auspica, non potrà prescindere da questo e dal fatto che il quotidiano appartiene fondamentalmente ai suoi lettori e alla sua storia, che ne ha fatto una voce essenziale per il pluralismo dell'informazione del Paese.
Le giornaliste e i giornalisti de l'Unità nel 90° della fondazione del quotidiano con il loro impegno professionale, con un confronto con la proprietà e con il contributo dei lettori e delle realtà politiche, sociali e culturali democratiche e di sinistra – in altre parole con il mondo di riferimento del giornale non mancheranno di dare il loro apporto sulla mission de l'Unità di oggi e di domani.

LA LETTERA DELL’AZIENDA A LEFT

Pubblichiamo di seguito la lettera che l’Amministratore delegato della Nie, Fabrizio Meli, ha inviato il 17 ottobre alla direzione del settimanale Left.
Gentile Direttore,
nel Suo settimanale, che come sa è allegato al nostro quotidiano
ogni sabato, sono stati recentemente pubblicati articoli, lettere, interventi che coinvolgono l’Unità, il direttore Claudio Sardo e l’Azienda che ho l'onore di rappresentare.
Credo che al di là di ogni legittima discussione, sia poco opportuno rappresentare il nostro giornale nei termini e nei modi citati anche in virtù degli accordi vigenti.
Cordiali saluti. Fabrizio Meli

il Fatto 20.10.13
Il movimento senza leader: “Casa, lavoro e dignità”
In migliaia al corteo per manifestare pacificamente
I migranti “Lampedusa, Lampedusa”
di Tommaso Rodano


C’è una moltitudine di individui, storie, bisogni e richieste nel corteo del 19 ottobre. Nei giorni che hanno preceduto la manifestazione, le ragioni della protesta sono rimaste nascoste, cancellate dall’attesa morbosa degli scontri e dei problemi di ordine pubblico. Nei giorni che la seguiranno, molte di queste richieste sono destinate a rimanere ancora inascoltate, cancellate dagli scoppi delle bombe carta e dalle immagini delle cariche. Questi bisogni, secondo le voci del corteo, sono lontani anni luce dalla sensibilità della politica e dei sindacati.
In piazza, a San Giovanni, si sono incontrate diverse migliaia di persone, quasi tutte per manifestare senza violenze. C’erano i movimenti per la casa, le famiglie sfrattate e quelle che hanno occupato un’abitazione. Con loro hanno marciato centinaia di migranti, chiedendo dignità e diritti, dopo le manifestazioni di cordoglio pubblico che seguono ciclicamente le stragi di Lampedusa. C’erano No Tav, studenti, cassintegrati e disoccupati. Queste sono alcune delle loro storie raccolte durante il corteo.

Corriere 20.10.13
Quei sessanta passeggini che fermano i «cappucci neri»
Le sberle di migranti e operai ai manifestanti più duri
di Goffredo Buccini


Porta Pia, le sette di sera, l’aria acre di lacrimogeni e fumogeni, il frastuono di slogan e bombe carta. Una mamma eritrea sistema nel passeggino la bambina, un batuffolo di un anno al massimo che, nonostante tutto, sonnecchia beata, vinta da quattro ore e passa di corteo: le canta una nenia, sussurrata all’orecchio. Accanto a lei, dieci ragazzotti del blocco nero si infilano passamontagna e magliette, e confabulano attorno a una mappa, decisi a tentare un ennesimo, inutile assalto: «Andiamo veloci, si passa da dietro», si ripetono frenetici a mezza voce.
La storia della manifestazione, con le sue contraddizioni, sta tutta qui, da San Giovanni fino al monumento del Bersagliere davanti alla Breccia, passando per via Merulana e per il quadrilatero di ministeri e uffici «sensibili» a ridosso di Porta Pia: almeno sessanta passeggini, almeno un centinaio di bambini di neppure dieci anni alla mano di mamme e papà, sotto bandiere rosse dei comitati per la casa, bianche dei No Tav, arcobaleno, multicolori, striscioni di Action, Cobas e vessilli dell’antagonismo militante; e non più di duecento teppisti organizzati, i balordi camuffati dentro questa sigla che può contenere tutto e nulla, come i loro stupidi cappucci neri, i Black bloc, con le loro bombe carta, le spranghe, il fuoco ai cassonetti, i petardi e le bottiglie contro i blindati e tutto il trito repertorio del teppismo metropolitano. Alla fine i passeggini e le mamme avranno la meglio, Porta Pia rimane in mano loro per l’acampada , la notte bianca della protesta, e questo sarà l’epilogo politico di una giornata per molti versi sorprendente, su cui bisognerà riflettere. V oi avete i manganelli, noi i bambini , è del resto uno degli slogan più efficaci alla partenza e solo all’arrivo si capirà che non è rivolto esclusivamente alle forze dell’ordine.
Attorno ai bambini e agli idioti del blocco nero, si snoda una manifestazione che — nonostante i momenti di tensione, le cariche, un tafferuglio più serio davanti al ministero dell’Economia, feriti e contusi, una pattuglia di fermati che aumenta durante la notte, una bomba carta con un proiettile calibro 12 che poteva fare molto male — è, e resta, colorata, sostanzialmente pacifica, aperta alle famiglie, alle donne, ai migranti che hanno Lampedusa nel cuore, agli universitari, ai non belligeranti, a chi vuole fare sentire la propria voce su diritti dimenticati come casa, integrazione, lavoro: un popolo di non rappresentati che, per un pomeriggio, si riprende il palcoscenico d’Italia alla faccia dei signori della guerriglia. Quanti sono? Cinquanta, settantamila? Di più? Sono buone le cifre degli organizzatori? Chissà. Dare numeri è difficile partendo da una piazza come San Giovanni, storica quinta delle manifestazioni comuniste dei tempi di Berlinguer e Lama, con un milione di militanti allora facilmente raccolti sotto le bandiere del Pci.
E tuttavia, la piazza è in buona parte colma, e la gente continua ad affluire fino alle tre del pomeriggio da via Carlo Felice, cinquanta pullman arrivano quando il corteo è già partito, perché carabinieri e polizia usano il buonsenso e rallentano ai caselli dell’autostrada le teste più calde. La saggezza delle nostre forze dell’ordine è, va detto subito, forse l’elemento decisivo della giornata: una giornata che molti temevano fosse la ripetizione del 15 ottobre di due anni fa, pomeriggio nero di paura per Roma.
«I compagni del 15 ottobre sono ancora incarcerati, ma sono qui con noi», scandiscono i leader del corteo dal camion blu che apre le fila e su cui è alloggiata una vera cabina di regia, che lancia parole d’ordine e fa controinformazione: «Non siamo quella banda di violenti che i giornali raccontano, scendete a protestare con noi!», strillano dunque dal Tir agli abitanti di San Giovanni e via Merulana, di Santa Maria Maggiore e di via Cavour, affacciati alle finestre. Ma in verità il 15 ottobre è lontano, al netto delle celebrazioni. E la scommessa della non violenza è, appunto, il secondo dato che incardina il pomeriggio.
Per la prima volta, il corteo ha un servizio d’ordine che funziona. In via XX Settembre uno dei teppisti dell’assalto al ministero viene preso a sberle, in viale del Policlinico la scena si ripete: sono migranti, senza casa, operai, disoccupati, che si tengono per mano sotto il camion dell’organizzazione e tamponano i flussi del blocco nero. In via Napoleone III, sede di Casa Pound, il faccia a faccia con una trentina di fascisti disposti a testuggine potrebbe far deragliare il corteo al grido di camerata basco nero/ il tuo posto è al cimitero, se il servizio d’ordine non lo impedisse a spinte e strilli. Attorno a Porta Pia, il servizio d’ordine non basta più e il blocco nero si manifesta infine, spaccando in due i manifestanti e fronteggiando i blindati: in via Boncompagni, con l’assalto all’Unicredit; in via Goito e via Cernaia; in via Sella bruciando cassonetti; in via San Martino della Battaglia, contro l’ambasciata tedesca; in via XX Settembre, dove l’attacco ai Finanzieri è violento, continuo, fino alla carica di reazione delle Fiamme gialle; in viale del Policlinico, dove due bombe carta colpiscono una camionetta dei carabinieri e un militare reagisce sparando due candelotti davanti alla folla. Frammenti di tensione, cariche di alleggerimento, spicchi d’umanità tra i cordoni. Un tunisino prega in ginocchio prima dell’attacco di via XX Settembre. Un Black bloc si sfila dal gruppo per chiedere a una fotografa di non riprenderlo, «sa, signora, alcuni di noi non sono mascherati e potrebbero avere grane: può evitarlo?», dice gentile; «non me ne frega un c...», risponde lei e continua a scattare, lui abbozza. Il mito nero dei Black bloc s’incrina in fretta. Nuova icona dei manifestanti è l’antagonista in sedia a rotelle che spruzza spray contro i blindati della Finanza. Nuove vincitrici sono le mamme coi passeggini, che restano a sera nella tendopoli improvvisata a Porta Pia, col Bersagliere avvolto in un vessillo No Tav e la musica dei Velvet Underground. Il sindaco Marino ha scelto il giorno giusto per andarsene in visita a Cracovia. L’assenza è del resto riempita dal capo della sua segreteria, Enzo Foschi, che consegna a Facebook il seguente pensiero: «I veri Black bloc sono tutti quei giornalisti infiltrati nel corteo... delusi dal fatto che non scorra il sangue». Nella sera che scende pacifica sulla capitale, non tutte le menti confuse sono protette da passamontagna.

l’Unità 20.10.13
Pace fatta: si va avanti
Letta sigla la pace con Fassina «Sarà lui a seguire la manovra»
Confronto di un’ora con il viceministro che aveva minacciato le dimissioni Il premier: «Stefano, la finanziaria è stata fatta mentre ero negli Stati Uniti, io stesso l’ho seguita via sms»
di Maria Zegarelli


ROMA Si sono incontrati alle cinque del pomeriggio, un’ora di confronto alla fine del quale entrambi si dicono soddisfatti di come è andata. «Incontro positivo» recita la nota di Palazzo Chigi. Dunque pace fatta tra Enrico Letta e Stefano Fassina che quando si salutano intorno alle sei si riaggiornano a lunedì mattina quando bisognerà mettersi a ragionare sui miglioramenti da apportare alla legge di stabilità in vista degli incontri informali che già a partire da martedì ci saranno tra governo e Senato. «Ci sono le condizioni per risolvere i problemi», dice il viceministro che nei giorni scorsi ha scritto una lettera al premier lamentando la scarsa collegialità che c’è stata nella stesura del documento varato dal governo. Ma adesso, risolta la «crisi», «pancia a terra e lavoriamo insieme», lo ha esortato Letta. Anche perché spetterà proprio al viceministro seguire la manovra in Parlamento e trovare la quadra sui nodi ancora aperti. Questa la mission che gli ha affidato ieri il premier. Nell’incontro di ieri Fassina ha ribadito le sue ragioni e ha trovato, raccontano da Palazzo Chigi, «molta attenzione da parte dal premier», ma il lungo incontro tra i due è servito anche per uno scambio di opinioni sul quadro politico, con le fibrillazioni che arrivano dal Pdl, con le dimissioni di Mario Monti di Sc, la decadenza che arriverà in Aula entro i primi di novembre e che potrebbe avere ripercussioni anche sul voto per la legge di stabilità. «Sono abituato all’instabilità», ha ammesso l’altro giorno Enrico Letta, ma è evidente che si guarda con grande attenzione e apprensione a quanto accade nel campo dell’alleato di governo.
LE CRITICHE ALLA MANOVRA
Le critiche del viceministro rispetto alla manovra sono note: troppo timida rispetto alle risorse destinate al taglio dell’Irpef dei lavoratori; maggiore attenzione alle pensioni e al pubblico impiego i cui stipendi sono bloccati da quattro anni, oltre alle perplessità sul-
la service tax. Sono le stesse perplessità che agitano tanta parte del Pd, a cominciare dal segretario Guglielmo Epifani che pur riconoscendo il cambio di passo della legge di stabilità (niente tagli alla Sanità, allentamento del Patto di stabilità interna) ha detto chiaramente che dovrà essere migliorata nei passaggi parlamentari. Epifani come lo stesso Matteo Renzi che ha liquidato come «anacronistico» il tetto del 3% imposto dall’Europa e che avrebbe preferito maggiore coraggio «perché 14 euro al mese non cambiano nulla», nelle buste paga degli italiani.
Nei giorni scorsi a chiedere a Fassina di restare al suo posto non erano stati soltanto i giovani turchi, a partire dal ministro Andrea Orlando, ma anche il ministro renziano Graziano Delrio. Lo stesso Letta ha tutto l’interesse a che il viceministro, che rappresenta l’ala di sinistra della coalizione, resti al suo posto. Dal Pdl, al contrario, non sono mancati gli inviti ad accogliere le dimissioni di questo viceministro le cui posizioni sono sempre state agli antipodi. Tanto che l’altro giorno c’era chi diceva che la tensione si era spinta così avanti che sarebbe stato complicato riuscire a ricomporre la frattura. Ma dopo cinque mesi di larghe intese l’arte della mediazione e della ricucitura si va via via affinando.
«Stefano, la legge di stabilità è stata messa a punto anche mentre io ero negli Stati Uniti, ho seguito i lavori con il cellulare e gli sms, non è stato un momento facile, ma ti chiedo di non sottovalutare quanto delle riflessioni che tu hai fatto nelle scorse settimane sia finito in questa manovra», ha spiegato il premier al viceministro. Da qui l’impegno ad un maggior coinvolgimento e una maggiore collegialità in tutte le decisioni che il governo dovrà assumere.
In mattinata il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, parlando delle tensioni Fassina-governo aveva detto che «una situazione di crisi produce anche questi effetti, non c'è una situazione di crisi che viene affrontata con serenità d'animo, tutti sono evidentemente preoccupati. Ogni comparto tira dalla sua parte, poi chi governa deve necessariamente tener conto di tutti e deve trovare la sintesi, questo è il problema». Sintesi che di fatto la stessa legge di stabilità partorita dal governo, «e adesso dice il ministro all'interno di questa proposta è possibile fare qualsiasi nuova proposta ma che tenga conto di un quadro di equilibrio».
Ma Letta, adesso, dovrà affrontare anche un’altra questione: Mario Monti, molto critico verso la manovra e in rotta di collisione irrimediabile con la sua ex creatura, Sc.

il Fatto 20.10.13
Pd, Renzi senza rivali su giornali e tv c’è solo lui
di Paolo Ojetti


Fino a dove arriva la par condicio? Vale anche per le imminenti primarie del Pd? Oppure per gli aspiranti segretari-premier-sindaci-euroitaloparlamentari esistono altre regole che stabiliscono tempi e modi delle apparizioni televisive? O non esiste niente di simile e tutto è lasciato al buon cuore dei direttori di reti e testate, il che – in definitiva – è pure meglio? Se questa è la risposta buona, allora si possono già tirare le somme: a minuti e occasioni (a volte anche solo pallidi pretesti di cronaca), la corsa al vertice del Pd non ha storia: Matteo Renzi sovrasta tutti e soprattutto nella settimana appena passata ha stracciato la concorrenza. Con la scusa di un’intervista al Corriere della Sera in cui annunciava una qualche profondissima rivoluzione istituzionale e dadaista, Renzi è rimbalzato per ogni dove a ripetere il sillogismo: io sono il nuovo che avanza. Così gli altri sono spariti. Ieri, sempre per via di un’intervista – questa volta a Repubblica – c’è stato un telecolpo di coda di Gianni Cuperlo. A domanda diretta (“Ma lei non si sente già sconfitto in partenza da Renzi?”) ha risposto con straripante ottimismo: “Io vi stupirò”, che risuonava come “io rinascerò”, il verso di Cocciante sui cervi a primavera. Cuperlo non è nemmeno un homo novus, ultimo segretario della gloriosa Fgci, ha 52 anni e un passato di scriba con D’Alema in volumi indimenticabili di 15 anni fa, Un paese normale e La grande occasione: come farà a stupire è una dura faccenda. E gli altri due? Civati, il prodiano di Monza, classe 1975, gestore della campagna elettorale di Ignazio Marino, ha dalla sua il nome evocativo e facile: Pippo. Dicono sia “aperto” al M5S, e questa potrebbe essere la sua rovina. Dell’ultimo, l’europarlamentare Pittella, nome e volto sono come quelli dell’uomo-ombra.
UNA SCOMMESSA: come si chiama Pittella? Gianni anche lui, ma per riemergere dal confino giù al nord e dall’ignoto televisivo non gli basterebbe nemmeno una serata a Ballando con le Stelle, avvinghiato a Naomi Campbell e Mario Balotelli. A questo punto, per rimettere un po’ d’ordine, sarebbe opportuno un bel quadrangolare catodico: Matteo, Pippo, Gianni uno e Gianni due, con voto in diretta sul telecomando, arbitri insindacabili Rizzoli e Pagnoncelli. Certo, a guidare il confronto ci vorrebbe David Letterman e non Bruno Vespa. Ma noi un Letterman non lo abbiamo e non ne è previsto l’acquisto nemmeno nella astuta legge di Stabilità. Peccato.

Repubblica 20.10.13
Congresso Pd, denuncia di Civati “In Sicilia 5mila tessere in bianco”


ROMA — Scoppia il caso tesseramento in Sicilia e a sollevarlo è il candidato alla segreteria del Pd Pippo Civati. «Noi siamo persone ingenue, forse, perché crediamo che questo congresso sia l’occasione per cambiare la sinistra, ma non siamo cretini. Possiamo verificare il numero delle tessere rilasciate in questi ultimi giorni, e siamo passati dalla sensazione che nessuno voleva iscriversi più al Pd al boom di richieste », ironizza Civati. Ma sono partiti i ricorsi nella regione. «Mi appello a tutti quanti perché si rispettino le regole, perché queste denunce sono un dispiacere», dice ancora il candidato. I civatiani siciliani denunciano: «Un pacchetto di 5mila tessere in bianco è stato consegnato solo ad alcuni dirigenti di Catania. Ci risulta anche che i sindacati distribuiscono gratuitamente le tessere, non sappiamo chi le paga, ma faremo chiarezza». Civati chiede a Renzi e Cuperlo di vigilare con lui su questi episodi.

Corriere 20.10.13
Intervista all’ex segretario dei democratici
Veltroni: il Pd non può credere di aver già vinto
La destra è avanti nei sondaggi
«Penso che Renzi abbia l’ispirazione giusta, però deve coltivare la profondità»
Non dobbiamo essere il partito delle tasse
intervista di Aldo Cazzullo

qui

Repubblica 20.10.13
Il restyling del ceto medio
di Nadia Urbinati


Le tensioni sociali che crescono nei Paesi europei, e sempre più fortemente in Italia, impongono una responsabile riflessione a politici e governanti sulla qualità e l’impatto delle loro scelte, sull’impossibilità di continuare con la politica delle misure contingenti. Spostare i libri sugli scaffali è un restyling che non basta a dare l’impressione che si cambi l’ordine delle cose. Sul fronte della diagnosi, politici e governanti devono interrogarsi sul peso che le loro scelte hanno e avranno sulla classe media, la cui sofferenza va di pari passo con la sofferenza della democrazia. Esserne consapevoli è la premessa per comprendere l’importanza delle politiche sociali e l’irragionevolezza di procedere senza un progetto che le rilanci, un nuovo New Deal per le democrazie sociali in declino.
C’è abbondanza di analisi quantitative sulla classe media e tuttavia, come ha osservato l’economista Anthony Atkinson, essere classe media è un affare complicato che il reddito da solo non spiega: perché avere aiuto domestico, affittare o possedere una casa decente, avere un lavoro ben retribuito o condurre un’attività lavorativa autonoma, non si traduce sempre e dovunque in una qualità della vita associabile con la condizione della classe media. E inoltre, in alcuni Paesi, come l’Italia, queste condizioni economiche diventano, ogni giorno di più, un privilegio di pochi. La classe media si è impoverita e la democrazia ne paga le conseguenze in termini di stabilità sociale e legittimità politica.
In tutti i Paesi occidentali la classe media ha subito un processo di dimagrimento. In Italia la classe media non è più quel largo e solido cuscino tra i pochi veramente ricchi e i pochi veramente poveri. La classe media comincia a essere per troppi un privilegio. E questo è un paradosso stridente, visto che la sua condizione mediana si è affermata proprio contro i privilegi di classe e per garantire al più gran numero di persone, con il lavoro e la professione, quella solidità di vita materiale e di riconoscimento sociale che nell’antico regime era solo di pochissimi. Essere classe media ha per questo significato fare da spina dorsale alla cittadinanza moderna.
Va da sé che il maggior nemico del governo democratico è una società nella quale la ricchezza è accumulata in una porzione ristretta della popolazione mentre la maggioranza, o quasi, è composta da chi vive nella povertà effettiva o nel timore di diventare povero. La classe media non è solo una categoria economica, dunque, ma una condizione psicologica e politica: basata sulla “tranquillità dell’animo” o l’essere certi che si può non soltanto vivere decentemente oggi, ma programmare un futuro altrettanto sicuro. È questa condizione di progetto che si ènegli anni assottigliata e, in alcuni Paesi, come l’Italia, in maniera davvero consistente.
Se si calcola la classe media solo in base al reddito, non si coglie questo malessere effettivo, sociale, morale e psicologico. Che invece viene registrato da tutti i sondaggi sulle aspettative per il futuro e le preoccupazioni associate alla stabilità della condizione lavorativa propria e dei propri figli. Per cui possedere una casa può comportare un rischio di povertà perché i salari e gli stipendi si erodono o scompaiono e, in aggiunta, perché i servizi sociali sono sempre meno sostenuti dalle politiche pubbliche. Quel che resta della classe media è quindi, per molti, il benessere della classe media di ieri. Viviamo sulle spalle dei nostri vecchi o di chi ci ha preceduto. Con le nostre fatiche non costruiamo più ma sopravviviamo, spesso a malapena.
Una classe media in grande sofferenza, dunque. Alla base della quale vi è un fattore che non viene messo in luce dagli economisti neo liberali: il declino dello stato sociale. Larghe fasce di cittadini devono far fronte al dimagrimento (in alcuni Paesi estremo) dei servizi sociali e al trasferimento sul reddito del costo di prestazione di base: la sanità, la scuola, l’assistenza ai bambini e agli anziani. Dalla capacità a far fronte a queste che sono necessità, non opzioni, si misura l’insufficienza di una definizione della classe media che non presta attenzione alla condizione socio-economica generale e che ispira politiche sociali inefficaci quando non distruttive (si veda la riforma Gelmini). Ecco perché la classe media diventa un vero e proprio indicatore del funzionamento delle democrazie e della fiducia dei cittadini verso le politiche dei loro governi.
Quello che i neo liberali non dicono è che la classe media è stata definita presumendo quel che non c’è più, cioè uno Stato che si prendeva cura di molte delle funzioni necessarie che oggi gravano direttamente sul reddito. La classe media presumeva un’economia socialdemocratica. Nulla di che sorprendersi, perché le democrazie sono rinate nel dopoguerra sulla promessa della piena occupazione in cambio del contributo fiscale per finanziare le condizioni sociali della cittadinanza, come la scuola, la sanità e l’assistenza. Su questi pilastri si è consolidata sia la classe media sia la democrazia; sul loro sgretolamento si gioca l’intero ordine delle cose.
Il destino della classe media coincide con quello della democrazia sociale. Per questo, una politica democratica non può non aiutare la solidità della classe media con politiche sociali. È irragionevole non vedere questo problema nella sua magnitudine, non comprendere che il malessere sociale si farà sempre meno sporadico e tollerabile.

Corriere 20.10.13
Il potere vuoto di un Paese fermo
di Ernesto Galli della Loggia


L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo? Sopraggiunta dopo anni e anni di paralisi, la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti. Siamo abituati a pensare che essa sia essenzialmente una crisi economica, ma non è così. L’economia è l’aspetto più evidente ma solo perché è quello più facilmente misurabile. In realtà si tratta di qualcosa di più vasto e profondo.
Dalla giustizia all’istruzione, alla burocrazia, sono principalmente tutte le nostre istituzioni che appaiono arcaiche, organizzate per favorire soprattutto chi ci lavora e non i cittadini, estranee al criterio del merito: dominate da lobby sindacali o da cricche interne, dall’anzianità, dal formalismo, dalla tortuosità demenziale delle procedure, dalla demagogia che in realtà copre l’interesse personale. Del sistema politico è inutile dire perché ormai è stato già detto tutto mille volte. I risultati complessivi si vedono. Tutte le reti del Paese (autostrade, porti, aeroporti, telecomunicazioni, acquedotti) sono logorate e insufficienti quando non cadono a pezzi. Come cade a pezzi tutto il nostro sistema culturale: dalle biblioteche ai musei ai siti archeologici. Siamo ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee : della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa. E naturalmente ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese. Mai come oggi il Nord e il Sud appaiono come due Nazioni immensamente lontane. Entrambe abitate perlopiù da anziani: parti separate di un’Italia dove in pratica sta cessando di esistere anche qualunque mobilità sociale; dove circa un terzo dei nati dopo gli anni ‘80 ha visto peggiorare la propria condizione lavorativa rispetto a quella del proprio padre.
Quale futuro può esserci per un Paese così? Popolato da moltissimi anziani e da pochi giovani incolti senza prospettive? Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere?
CONTINUA QUI

Repubblica 20.10.13
Se il coraggio de fare diventa incoscienza
di Eugenio Scalfari


BISOGNA intendersi sulla parola coraggio, una parola importante che si può prestare però a vari usi. Esiste anche la categoria del coraggio facile che è quello che in questi giorni, riferendosi alla legge di stabilità finanziaria varata dal governo, dice che bisogna fare di più e non bisogna temere di fare di più. Tutto questo però è molto retorico e bisogna stare attenti ad evitare che il coraggio troppo facile non significhi coraggio poco responsabile.
Di fronte alla legge di stabilità varata dal governo occorre un atteggiamento critico quanto si voglia, ma consapevole di vincoli e condizionamenti oggettivi che non si possono aggirare perché quella non sarebbe una prova di coraggio ma una prova di incoscienza.
I giudizi che precedono non sono miei ma di Giorgio Napolitano in un videomessaggio rilasciato al direttore di “24 Ore” e destinato all’assemblea dei giovani della Confindustria riuniti a Napoli. In realtà è indirizzato al Paese, alle forze politiche e sindacali, ai movimenti che agitano la società in difesa dei loro interessi e delle loro visioni della realtà.
Il presidente della Repubblica è — per definizione — il tutore e garante dell’interesse generale e ci richiama tutti, con quelle parole, alla realtà effettiva e non a quella immaginaria. Ci richiama agli impegni presi dal governo, anzi dai governi (dall’ultimo di Berlusconi, a quello di Monti e poi a quello di Letta iniziato sei mesi fa) e ci richiama ai doveri che si accompagnano ai diritti.
Il rapporto diritti-doveri viene spesso dimenticato.
Qualcuno sostiene che una comunità, anzi una nazione, ha il diritto di avere diritti. È vero e giusto, ma troppo spesso ci si scorda che ogni diritto crea un dovere. Giuseppe Mazzini, che non era certo un uomo qualunque e al quale la nostra nazione riconosce d’esser stato uno degli artefici della nostra unità, metteva addirittura i doveri prima dei diritti. Le lotte del nostro Risorgimento, la coscienza nazionale al di sopra dei localismi, l’indipendenza dal servaggio imposto da paesi stranieri, le repubbliche di Venezia e di Roma, le guerre contro gli austriaci, la spedizione di Sapri e quella dei Mille di Garibaldi, furono doveri dai quali nacque la nostra democrazia e lo Stato che ne ebbe e ne ha la rappresentanza.
Una democrazia purtroppo assai fragile e uno Stato che una parte rilevante di nostri concittadini non ha mai amato considerandolo un corpo estraneo se non addirittura nemico.
Giorgio Napolitano sa bene quanto lo Stato abbia bisogno d’esser rimodernato e quanto il tempo, le lobbies, le clientele, le mafie, l’abbiano logorato. Masa anche quanto numerose e pericolose siano le vanità, i disegni di potere, le tendenze anarcoidi, le egolatrie o più semplicemente le ingenuità che insidiano la necessità del cambiamento.
Di qui il suo richiamo di venerdì scorso alla realtà effettiva che condiziona le nostre scelte. Una realtà effettiva che molti tendono a ignorare o a dimenticare e consiste nel fatto che l’Italia è costola dell’Europa. Per uscire dall’emergenza non abbiamo altra strada che contribuire alla nascita dell’Europa, a far sì che essa intraprenda con coraggio la politica dello sviluppo economico e sociale, del lavoro, dei giovani, dell’eguaglianza insieme alla libertà.
So bene che questi richiami non godono di popolarità. Alcuni sondaggi stimano che perfino Napolitano, che ancora due mesi fa riscuoteva il favore dell’80 per cento dei cittadini mai raggiunto prima se non da Ciampi, sarebbe ora sceso al 70 pur restando ancora in prima posizione tra le personalità pubbliche. Ma questo nulla toglie ed anzi accresce il peso e l’importanza delle sue parole. In un momento di crisi e di confusione delle lingue, la sua voce ci esorta al coraggio responsabile. Per il poco che conta mi unisco anch’io alle sue parole. Lo dico e lo faccio da molto tempo: cambiamento e responsabilità, interesse generale che tenga in prima linea l’equità e lo sviluppo, il ricordo del passato nel suo bene e nel suo male e la costruzione d’un futuro che inveri le legittime speranze. E non l’indifferenza ma il risveglio, la partecipazione, i diritti e i doveri. Soltanto così nascono le speranze e i valori.
***
Molti temono che l’Italia sia condannata al “default” e la stessa Europa nel suo complesso, le sue imprese, le sue banche, le sue istituzioni siano ormai destinate al naufragio: una zattera che ancora galleggia ma il cui affondamento è inevitabile.
Marco Onado, in un suo articolo di ieri su “24 Ore” ha ricordato ciò che scrisse Mark Twain al giornale che ne aveva prematuramente annunciato la morte: «I rumors sono stati gravemente esagerati». Lui era ancora vivo e vegeto. Penso che sia esattamente così per quanto si dice sull’Italia e sull’Europa.
Il nostro è ancora un continente tra i più ricchi del mondo, animato di inventiva, di cultura, di fervide menti e capacità. Ma i “rumors” – a volte condivisi in buona fede, a volte guidati da interessi e altre volte da vocazioni anarcoidi – possono causare ferite profonde.
Il circuito mediatico che da almeno mezzo secolo determina la pubblica opinione e che con l’apporto delle nuove tecnologie di comunicazione ha ormai raggiunto una potenza mai vista prima, spinge, spesso inconsapevolmente, in quella direzione.
Il circuito mediatico vive di cattive notizie, di sensazionalismo, di “rumors”. Li amplifica, li trasforma in (immaginarie) realtà, influisce sulle aspettative. Tanto peggio tanto meglio se acquista più ascoltatori, più operatori in rete, più lettori. Non si tratta di un complotto anche se gruppi di “complottardi” ci sono ed hanno un loro peso; ma si tratta di una forza inerente alla modernità.
Questa forza è dovunque e talvolta suscita energie positive. Fu all’origine delle “primavere arabe”, ha sostenuto le opposizioni in Paesi dominati da dittature militari o teocratiche, ha rottamato nomenclature logore e corrotte, ha combattuto il terrorismo. Ma contemporaneamente quella stessa forza ha operato in senso contrario diventando strumento del terrorismo, delle dittature, delle nomenclature, delle lobbies, dei venditori di fumo. Ha svelato le verità e al tempo stesso ha accreditato le bugie. Soprattutto ha amplificato le contraddizioni.
Il Novecento ha visto nascere questa forza e ne è stato dominato nel bene e nel male. Oggi quelle contraddizioni, che prima influenzavano le “élite”, sono diventate fenomeni di massa, anzi di folla che è cosa assai diversa dalla massa.
La massa esprime ed è tenuta insieme da una visione comune, la folla è una raccolta di solitari disponibili a riconoscersi nel carisma del demagogo di turno; le masse sono tenute insieme da convinzioni, le folle sono dominate da emozioni.
Il circuito mediatico per le masse è uno strumento, per le folle è un padrone. La differenza, come vedete, non è affatto trascurabile.
***
I “rumors”, naturalmente, riguardano anche le banche che sono un ghiotto boccone.La ragione è evidente: le banche maneggiano una quantità elevatissima di denaro, se lo imprestano con “swap” di 24 o 48 ore, hanno un capitale che obbedisce a regole stilate dall’autorità bancaria europea da loro stesse partecipata e alle direttive della Commissione europea. E poi hanno una clientela che deposita fondi liquidi che esse prestano ai loro clienti. Le banche centrali vigilano sul rispetto delle regole e la correttezza delle operazioni.
Da qualche tempo anche la Bce ha iniziato ad occuparsi della vigilanza bancaria e dallo scorso luglio si è infatti costituito un comitato tra la Bce e la Commissione della Ue per studiare le modalità della sorveglianza che si applicherà nello stesso modo anche a tutti i Paesi membri dell’Unione, banche tedesche ovviamente comprese.
Del resto esiste già in Italia un precedente che fu applicato al Montepaschi quando scoppiò la crisi di quell’Istituto. Non c’era ancora a quell’epoca una vigilanza di dimensioni europee, era già in gestazione. La Banca d’Italia aveva una sua propria vigilanza munita di determinati poteri ed agì in base a quelli che anticipavano in molti aspetti le norme che sono allo studio e in parte già all’opera sul sistema bancario europeo nel suo complesso.
I “rumors” in questo caso non sono neppure stati tentati ma si è dato semplicemente notizia dello stato dell’arte che è noto a molti ma non ancora al “pubblico e all’inclita guarnigione” come recita un vecchio adagio.
Sulle banche però si discute largamente e con ragione perché il “credit crunch” è sempre più evidente e bisogna assolutamente venirne fuori. Senza “rumors” ma con la necessaria competenza di chi si occupa di temi così delicati, dei quali questo giornale per nostra fortuna dispone.
***
Chiudo con una notizia che riguarda Silvio Berlusconi. Qualche giorno fa sui teleschermi di Michele Santoro l’amico Massimo Cacciari ha giustamente urlato la sua noiadi doverne ancora parlare. La noia è anche la mia, ma la notizia è importante: la corte d’Appello di Milano ha sentenziato l’interdizione di Berlusconi per due anni dai pubblici uffici. Dunque la questione è ormai definitivamente chiusa e la Giunta ne prenderà atto nei prossimi giorni prima ancora del voto del Senato che a questo punto è diventato del tutto inutile ma egualmente ci sarà perché i parlamentari del Pdl vogliono e debbono dimostrare, tutti e senza eccezioni, la loro riconoscenza al “patron” che li ha creati e messi al mondo.
Compiuto questo atto che essi ritengono “dovuto” ricominceranno le beghe interne per chi deve essere l’erede e il Pdl esploderà.
L’ipotesi di mandare all’aria il governo Letta, come minaccia il “patron”, sembra però un’impresa piuttosto ardua. Andare alle elezioni in primavera è l’altra ipotesi ancora più ardua poiché Napolitano ha già detto che non scioglierà le Camere fin quando non ci sarà una nuova legge elettorale, fermo restando che questo governo deve — nelle dichiarate intenzioni del capo dello Stato — durare fino al semestre europeo con presidenza italiana e Letta è il premier più capace ed ascoltato per fare di quei sei mesi una fase centrale dell’evoluzione europea.
Questa è la ragione per cui Napolitano è oggetto di tante accuse: lo si attacca per mandare a casa Letta e gli autori di questa aggressione ormai li conosciamo uno per uno, magistrati faziosi, giornalisti faziosi, politici che brigano per rimpiazzare gli attuali inquilini del Quirinale e di Palazzo Chigi. Conosciamo i nomi uno per uno ma non li diremo perché non vorrebbero altro che questo. Perciò la cosa migliore è punirli col silenzio.

il Fatto 20.10.13
Mauro confessa: al Senato salverò B.
Sulla decadenza il ministro deciderà “al momento”
Il piano per prendere tempo e riorganizzare i popolari
di Sara Nicoli


E li chiamano “moderati”. Dentro Scelta Civica l’ora della resa dei conti è appena cominciata a botte di interviste incrociate grondanti risentimento . Se Mario Monti, dalle colonne del Corriere , accusa il ministro Mario Mauro e Pier Ferdinando Casini di “snaturare Scelta Civica”, nell’ottica di una politica “Gps, dei posizionamenti, dello slalom”, dalla Stampa il ministro della Difesa risponde e poi replica ancora da Padova, dove ieri si è svolto il primo convegno delle nuove anime del futuro “Partito popolare”: “È l’ora di fare una proposta politica concreta, ora abbiamo tempo perché il governo durerà ancora a lungo”. I motivi per cui Mauro ostenta sicurezza sulla tenuta di Letta nascono dal patto siglato con il Cavaliere che passa – anche, ma non solo – dal voto sulla sua decadenza in Senato. Che dopo la sentenza della Corte d’Appello di Milano di ieri, sembra sempre più incombente. Anche se, nella realtà, non lo è. L’accordo sarebbe quello di tentare di rinviare il più possibile il voto dell’aula di palazzo Madama sulla decadenza. Di fatto, l’evento non si potrà calendarizzare fino a quando la Giunta per il Regolamento non avrà detto la sua sulla proposta dei grillini riguardo al voto palese (appoggiato anche dal Pd), ma tocca ricordare che il presidente dell’organismo è Pietro Grasso. Che pare voglia prendersi tutto il tempo necessario per un’attenta valutazione del caso, “pressato” anche da Pdl, Lega e – a questo punto – gran parte di Scelta Civica a non accelerare i tempi. “Quello che vorremmo – ha detto infatti Gaetano Quagliariello – è che prima ci fosse una riflessione sulla legge Severino”.
Mauro, d’altra parte, ieri ha fatto eco a Casini sul fatto che “sul voto di decadenza di Berlusconi decideremo all’ultimo minuto”, ma la dichiarazione è servita solo a confondere le acque; il nuovo centrodestra ha bisogno di tempo per riorganizzarsi, i nuovi “popolari” sanno che non potranno fare a meno di Berlusconi, ma non lo vogliono neppure tra i piedi. Di qui la strategia che prevede, intanto , la creazione di un gruppo autonomo al Senato dove confluiranno, a partire probabilmente da martedì, i primi 12 transfughi da Sc. Poi potrebbe essere la volta degli alfaniani, in modo da creare la base per quello che sarà il nuovo “Partito Popolare”, intorno a cui costruire una sorta di “nuova” Casa delle Libertà, in un’ottica tutta elettorale. Svela, infatti, sempre Quagliariello: “Il centrodestra vuole provare a governare il Paese da solo ed è una cosa completamente diversa dal centro. È necessaria un’aggregazione tra forze, ma sono necessarie riforme delle istituzioni e della legge elettorale senza le quali il bipolarismo non si crea”. Si spiega così anche il placet dato da centristi e alfaniani al Senato a un cambiamento del Porcellum con una legge che preveda il doppio turno di coalizione. In questo modo, il Cavaliere resterebbe dentro il “sistema” rimanendo a capo della “sua” Forza Italia, con Alfano alla testa del Pp italiano e Casini a fargli da ideale spalla centrista. Ma per far questo ci vuole tempo e, dunque, bisogna evitare come la peste tutte quelle possibili scosse derivanti dall’umor nero di Berlusconi, sempre pronto a staccare la spina al governo per votare a marzo. Di qui la decisione di rinviare il più possibile - forse fino alla sentenza della Cassazione sull'interdizione - il voto sulla decadenza. Complice anche una parte del Pd che non vuole dare una mano a Renzi con un voto anticipato. E Pietro Grasso è di sicuro un loro esponente di primo piano.

La Stampa 20.10.13
Casson: “Ora cercheranno di fare melina al Senato, Grasso deve impedirlo”
Il senatore Pd: arriveremo prima della Cassazione
intervista di Grazia Longo

qui

il Fatto 20.10.13
Zavorre
Il corpo (di Berlusconi) di cui nessuno vuole disfarsi
di Furio Colombo


Questo sfortunato e disorientato Paese, che continua a essere forzato, piuttosto che guidato e persuaso a fare qualcosa, è ingombro di corpi. I corpi di vittime innocenti che non hanno trovato pietà e accoglienza. I corpi di colpevoli che, paradossalmente, si vendicano della civiltà con cui sono stati trattati da vivi e si vantano della barbarie con cui hanno tolto la vita ai loro morti. E il corpo di Berlusconi. Berlusconi è vivo e gli auguriamo lunga vita. Ma è politicamente finito e dunque anche nel suo caso bisogna rimuovere l'ingombro. Questa, infatti, è stata – una volta condannato – la strategia di Berlusconi: lasciarsi andare a corpo morto. Lo portino via i suoi, se ne hanno il coraggio. Di quel coraggio non si vede traccia. Ma poiché Berlusconi ha una gran folla di congiunti politici che continuano ad accorrere sul posto, sarebbe sgradevole – pensano i non berlusconiani (che non si sa mai quanto siano non berlusconiani) – intervenire mentre ci sono i parenti.
E COSÌ PER L'EX presidente Berlusconi accade l'opposto che per l'ex capitano Priebke. Priebke giace ancora a Pratica di Mare perché è stato rifiutato come soldato dal suo Paese e come padre dai figli. Berlusconi di figli ne ha troppi che gli si stringono intorno impedendogli di andarsene decentemente da solo o
– a qualcuno – di portarlo via. Sul suo Paese continua a pesare come un ingombro che è durato vent'anni e continua. Senza dubbio la trovata di lasciarsi cadere è stata geniale, e del resto si faceva, un tempo, nelle aule dei primi processi di mafia, fingendo un malore. Qui il malore è istituzionale. Oscilla fra sette od otto diverse interpretazioni della legge Severino sull’espulsione dal Senato, ha a che fare con voti palesi o segreti, conta sulle astensioni di tutti i tipi, il presidente del Senato, il presidente della Commissione, i capigruppo alle Camere, i suoi ministri al governo, i suoi deputati falchi e i suoi deputati colombe. Ha a che fare anche con la faccia mite – feroce (secondo le occasioni, ma senza pericoli per gli astanti) – della sua ex opposizione con cui adesso governa insieme. Come potrebbero essere loro a trasportare il corpo di Berlusconi decaduto, senza arrecare un’offesa ai congiunti inerti intorno al caro estinto politico? E così, lui rilancia ogni giorno la sfida: rimuovetemi, se ne avete il coraggio. In questo modo l'Italia è costretta a muoversi in cerchio intorno al corpo caduto, stando tutti attenti al tono garbato e alle buone maniere, e guardandosi bene dall'affrettare i tempi. Al contrario, l'unica soluzione decente (e astuta) sembra aspettare. Se ci comportiamo con la dovuta buona educazione, se mostriamo un comportamento umano ed estraneo all'antiberlusconismo viscerale, forse il corpo può restare qui e ogni danno sarà evitato.
Lo sanno anche loro che arriveranno le mani lunghe dei giudici, con nuove sentenze e nuove imputazioni e nuovi processi. Ma quello è il capitolo scandaloso e illegale dell’eliminazione per via giudiziaria dell'avversario politico che “loro” non riescono a eliminare per via politica. Non riescono chi, dato che i presunti avversari (che non sono stati mai invadenti e non hanno mai preteso di volere, sapere, denunciare) governano insieme, lo fanno con una certa grazia e mostrano una certa naturale propensione a stare vicini e insieme?
Non preoccupatevi, c'è un tempo per vivere e celebrare l'alleanza e un tempo per mordere a sangue l'avversario (per esempio, se bisogna salvare Mediaset dal vistoso decadimento, mandi qualcuno in un programma Rai di successo a portare accuse personali al conduttore, e poi non solo non molli l'osso, perché la situazione Mediaset è grave e urge danneggiare il più possibile la ex concorrente, ma continui, raddoppiando la cattiveria come nella spietata scorreria di un giustiziere). L'aspetto curioso di questa strategia è un esperimento, signore e signori, mai tentato prima: mordere a sangue e – nello stesso tempo – governare insieme. E anche: governare insieme e sghignazzare ogni giorno su quel che fa (e certo non fa, non può fare) questo governo alleato delle “grandi intese”.
APPROVARE alle Camere e svergognare sui giornali (non solo i loro giornali) attraverso le fonti controllate (ancora moltissime). Ma il corpo dell'uomo che si è buttato per terra e lancia ogni giorno la sfida “rimuovetemi se ne avete il coraggio! ” fa ben altri danni. Mettetevi nei panni di Letta, persino se non simpatizzate per la sua strana iniziativa del presiedere con grazia, buona educazione e buon inglese, un governo immobile. Letta deve trascorrere i suoi giorni di governo, in Italia e all'estero, con Berlusconi aggrappato al piede, un ingombro che fatalmente impedisce ogni passo. È stato gentile Obama a fingere di non vedere, ma Berlusconi è li, aggrappato e ci resta. Al momento possiamo calcolare il danno che ha fatto. Ma la sua bravura, riconosciamolo, è questa. Non sappiamo ancora il danno che farà. Pensate che sono in ansia, su questo, persino Alfano e Cicchitto.

l’Unità 20.10.13
Se la destra non archivia il Capo
di Michele Ciliberto


LA CORTE DI APPELLO DI MILANO HA STABILITO IN DUE ANNI IL PERIODO DI INTERDIZIONE DI SILVIO BERLUSCONI DAI PUBBLICI UFFICI. Questo, come recitava uno spot del governo di centrodestra alcuni anni fa, è un fatto, che si aggiunge ad altri due fatti: la condanna della Corte di Cassazione per frode fiscale; il voto di fiducia al governo Letta il 2 ottobre quando Berlusconi, in seguito alla presa di posizione dei ministri del Pdl, fu costretto a rimangiarsi la decisione
di fare cadere l’esecutivo.
In qualunque altro Paese si prenderebbe atto di questi fatti e si aprirebbe una nuova pagina nelle politiche del centrodestra italiano, chiudendo una stagione ventennale. Invece, come si vede dalle prime reazioni, i pretoriani di Berlusconi anche quelli che se ne differenziano nel giudizio sul governo hanno subito cominciato a parlare di persecuzione giudiziaria, di condanne ad personam, di agibilità politica che va comunque garantita al loro capo. È singolare ma non stupefacente, che in questa protesta si distinguano soprattutto le cosiddette colombe, quelli cioè che lo hanno «tradito» (il lemma è di Berlusconi) il 2 ottobre in occasione del voto di fiducia: quasi a volersi ricostituire una verginità e a dichiarare la propria legittimità nell’aspirare alla eredità politica del leader finito. Miserie di cui è costellata la vita politica italiana di questi mesi, istinti darwiniani. Ma il problema è questo: ci sono, nell’ambito del centrodestra attuale, forze che siano in grado, per motivi strategici e non per opportunismo, di avviare una nuova stagione chiudendo il lungo dominio di Berlusconi? Ovviamente non è solo un problema del centrodestra; e che sia all’ordine del giorno è dimostrato proprio dai cataclismi che si producono con ritmo quotidiano sia nel Pdl che in Scelta civica. Partiti che hanno come terreno di scontro l’opposto giudizio sul governo da parter dei «governativi» e dei «lealisti» fedeli al vecchio leader (e anche questo lessico è indice dei processi di feudalizzazione in corso). La principale differenza politica fra costoro si potrebbe esprimere in questi termini: gente come Mauro, Alfano, Lupi, Casini vuole fare propria, mutatis mutandis, l’eredità di Berlusconi; Monti che qualunque sia il giudizio sulla sua opera di governo è persona di altro livello vuole rompere con quella eredità e operare, rispetto al ventennio passato, una svolta strategica reale, ancorata effettivamente, e non in forma propagandistica, ai valori e alle politiche del Partito popolare europeo. Nel centrodestra la posta attualmente in gioco è dunque altissima, perché concerne il suo futuro e, come è naturale, anche il giudizio sul passato. E con questo arriviamo al punto centrale del problema, al berlusconismo.
Nonostante lamenti e piagnistei, Berlusconi è ormai personalmente «out» ma il berlusconismo continua ad essere vivo e vegeto. Ed è un sistema profondamente radicato nella politica e nella storia italiana, con proliferazioni anche nello schieramento di centrosinistra (e neppure questa è una novità). La classe dirigente del centrodestra parlamentari, manager pubblici e privati, giornalisti, cortigiani di diverse competenze pur avendo varia provenienza (democristiana, radicale, socialista), è berlusconiana come concezione del potere, dei rapporti tra i poteri, come cultura politica e ideologia sociale. È berlusconiana soprattutto nella concezione della democrazia. È gente abituata a muoversi sul terreno del «dominio», un dominio dolciastro, ma sempre «dominio» e in questo senso non è un frutto maligno caduto dal cielo: è profondamente radicata nella storia della destra italiana.
Pensare perciò che d’improvviso possa realizzarsi una conversio cioè una effettiva e profonda trasformazione nello schieramento del centrodestra italiano quale si è strutturato negli ultimi venti anni, è una illusione politicistica degna di una fiction televisiva. Si ripete spesso che la fine politica di Berlusconi non coincide con la fine del berlusconismo: giusto, eppure non se ne traggono le necessarie conseguenze. Come ci fu una «cultura» del fascismo, c’è stata una «cultura» del berlusconismo, anche se ci sono voluti molti anni per rassegnarsi a riconoscerlo: una «cultura» materiale e di «massa» diffusa in modi e forme capillari.
Se questo è vero, la costruzione di un nuovo centrodestra e di un efficace bipolarismo fondamentale per l’Italia è un lavoro arduo e complicato da svolgere sul piano culturale, politico, sociale, perché implica un’idea dell’Italia e del suo destino negli Stati uniti di Europa. E sarebbe bene che quelli come Monti capissero la profondità e la complessità del problema, se non vogliono continuare ad accumulare sconfitte e generare «traditori» (altro lemma tipico dei tempi).
Così come sarebbe necessario che la sinistra comprendesse che costringere la destra a darsi altre e nuove strategie liquidando il berlusconismo in tutte le sue forme, è un compito che la riguarda direttamente, perché coinvolge il presente e il futuro dell’Italia, e anche se stessa. E che agisse perciò di conseguenza: come direbbe il filosofo, i «contrari» operano nello stesso «soggetto» e ne portano la responsabilità. Altrimenti continueremo a camminare sull’orlo dell’abisso, come stiamo facendo da troppo tempo.

l’Unità 20.10.13
Priebke, «accordo trovato» Tomba in un luogo segreto
In Germania o forse in Italia. Comunque in un posto di cui non verranno fornite le coordinate
Così la tumulazione dell’ex capitano delle Ss
di Gigi Marcucci


Il caso delle spoglie mortali di Erich Priebke, il capitano delle Ss che coordinò e contribuì personalmente all’eliminazione di 335 ostaggi alle Fosse Ardeatine, si avvia forse a conclusione, ma con una coda di veleni e polemiche. «Domani forse riusciremo a porre fine alla questione della sepoltura di Erich Priebke. Sono in corso contatti che sembrano proficui sia con la Germania sia con una persona che in Italia ha dato disponibilità». Cosi l'avvocato Paolo Giachini, legale dell'ex nazista mortò all’età di 100 anni, la cui salma si trova ancora all'aeroporto militare di Pratica di Mare. L’accordo riguarderebbe la possibilità di seppellire Priebke in una località segreta, forse in Germania, ma non si esclude che possa trattarsi di una località italiana. «Ormai sono tanti giorni che si trova in un hangar e ci potrebbero essere problemi di conservazione», ha aggiunto Giachini, senza rinunciare a criticare le istituzioni italiane e la Chiesa. «Per anni Priebke ha passeggiato liberamente per Roma e nessuno gli ha detto nulla, ora che è morto è il “mostro””». Giachini sembra invece aver “archiviato” l’idea di presentare una denuncia per sottrazione di cadavere in merito allo spostamento della salma da Albano a Pratica di Mare. Provvedimento indispensabile vista la reazione indignata della città laziale all’arrivo del feretro. «Ora che siamo tornati nella disponibilità del corpo dice Giachini e che si intravedono spiragli di soluzione, ritengo che sarebbe superflea. Spero che comunque tutto si risolva nel fine settimana e che da lunedì io potrò tornare ad occuparmi di altre questioni».
LA TRATTATIVA
Che l’accordo coinvolga anche alla Germania si deduce dalla possibilità, per il momento solo teorica, che il boia delle Fosse Ardeatine possa trovare sepoltura in patria. Ma il riserbo delle autorità tedesche è assoluto. «È auspicabile che i resti mortali del signor Priebke possano trovare trovare pace in maniera appropriata». Questa la posizione del governo tedesco sulla salma di Herich Priebke, espressa da Steffen Seibert, portavoce del cancelliere Angela Merkel.
Intanto un medico degli spedali civili di Brescia ha offerta la propria tomba di famiglia, al cimitero di Rovere nel veronese, per ospitare la salma di Erich Priebke da giorni “in sosta” all'aeroporto di Pratica di Mare. A raccontare la vicenda è il quotidiano locale “Brescia Oggi”, nell’edizione di ieri, secondo cui, Alberto Negri, 52 anni in servizio al nosocomio bresciano, acconsentirebbe a far deporre la salma del Priebke accanto a quelle di sua madre e sua nonna «per lanciare un messaggio: bisogna perdonare». «Spese di tumulazione» però, «escluse». Naturalmente non si sa se l’offerta potrà nemmeno essere presa in considerazione: per motivi di ordine pubblico, innanzitutto. Il fatto stesso che l’offerta di Negri sia ormai di dominio pubblico esclude che possa essere presa in considerazione.
«Al medico bresciano che offre la tomba di famiglia per la salma di Erich Priebke chiedo se sia mai stato alle Fosse Ardeatine e, qualora non ci sia stato, se non reputi il caso di venirci». È quanto dichiara il candidato a segretario del Pd di Roma, Tobia Zevi, commentando la disponibilità manifestata dal cardiochirurgo di Brescia. «Il dottor Negri dice di venire da una famiglia spiega Zevi abituata a farsi carico delle sofferenze altrui. Forse non ha pensato alle ferite che si sono riaperte in questi giorni non soltanto negli ebrei romani, ma in tutti gli italiani, nel vedere violato il territorio romano con inaccettabili manifestazioni di solidarietà nei confronti dell’aguzzino nazista».
«Il dottor Negri, delle cui buone intenzioni non posso dubitare aggiunge Zevi dovrebbe valutare quanta sofferenza può provocare il vedere che l’ospitalità alla salma di Priebke venga data da nostri concittadini e nel nostro territorio nazionale. Non può essere l`Italia a ospitare la salma del torturatore di Via Tasso».

il Fatto 20.10.13
Priebke, le proteste e la salma Ma dove sono finite le vittime?
di Silvia Truzzi

SU QUESTE pagine, ieri, Massimo Fini ha scritto dell’odio fuori tempo a proposito della bufera scatenata dalla morte di Erich Priebke. E come dargli torto quando parla di scomparsa della pietas? Quel che stupisce però è anche come il baccano sollevato attorno alla bara di un defunto abbia quasi completamente eclissato le sue azioni in vita: i 335 morti in via Rasella, certo. Ma anche molte altre storie, emerse dagli atti del processo Priebke, come quella di Gianfranco Mattei, gappista suicida nel carcere di via Tasso. “Questo comunista Mattei è terribilmente silenzioso, ma useremo il tenente Priebke che saprà farlo parlare con mezzi fisici e chimici” aveva detto Kappler. Per timore di tradire i suoi compagni, Mattei s’impiccò in cella.
Via Rasella – scrive Sandro Portelli in Quest’ordine è già stato eseguito (un libro che si deve citare, perché è il lavoro più completo su questa lunga vicenda) “è forse il solo terreno sul quale le posizioni della destra più estrema si siano fuse senza soluzione di continuità con il senso comune moderato. Ed è questa convergenza a rendere particolarmente inquietanti le narrazioni diffuse sulle Fosse Ardeatine”.
Il riassunto della mistificazione lo fa lo stesso capitano delle Ss, nel videomessaggio diffuso in questi giorni dal suo legale: “I Gap, comunisti italiani, in via Rasella hanno fatto un attentato contro una compagnia della polizia tedesca, tutti uomini dell'Alto Adige, quindi cittadini italiani, e questo fu fatto sapendo che dopo l'attentato viene la rappresaglia, perché Kesselring, quando ha preso il suo comando qui in Italia, ha messo su tutte le mura un avviso che qualunque attentato contro i tedeschi sarebbe stato punito con una rappresaglia”.
MA COME racconta l’Unità del 4 giugno ’48, Kappler al processo elenca quattordici azioni dei partigiani contro i tedeschi. E quando gli viene chiesto “quante volte fu effettuata la rappresaglia”, il nazista risponde: “Credo due volte soltanto”.
Eppure ancora nel 1997, Gianfranco Fini, segretario di An poi redento sul suolo d’Israele, diceva: “L’atto di guerra in quanto tale veniva considerato, anche dai vecchi che avevano fatto la Rsi, che erano rimasti fascisti fino alla fine, come atto legittimo. Ciò che veniva considerato vile era la mancata presentazione, nonostante fosse ben presente a tutti la conseguenza perché il diritto di rappresaglia era ampiamente previsto”. Sempre nel 1997 a Roma si potevano vedere manifesti in cui i giovani rautiani chiedevano la libertà di Priebke e la condanna per i “partigiani assassini”. L’abbiamo scritto, ma vale la pena ribadirlo: la rappresaglia non fu annunciata, non ci fu nessun tentativo né di catturare i responsabili, né di indurli a costituirsi.
Si svolse, negli anni Cinquanta, un processo contro i partigiani per accertare le loro responsabilità nella rappresaglia: si concluse con tre assoluzioni. Queste cose bisogna dirle. Non tanto per accreditare la fastidiosissima retorica della Resistenza, agitata come una bandierina senza distinguo, sorvolando sulla storia che ci racconta come la guerra partigiana sia stata combattuta da pochi quando c’era da rischiare la vita e usata da molti, dopo. Bisogna dirle soprattutto per oltrepassare il rumore di questi giorni senza dimenticare le vittime.

La Stampa 20.10.13
Io, frainteso e calunniato
di Piergiorgio Odifreddi

qui

Corriere 20.10.13
Il negazionismo da blog del matematico vanesio
di Aldo Grasso


Chi ha un pensiero è parco di opinioni, chi ha solo opinioni pretende di avere un pensiero. Al matematico Piergiorgio Odifreddi piace interpretare il ruolo di martellatore di verità. Non gli è bastata la lettera che un fin troppo generoso Joseph Ratzinger gli ha scritto per contestare le tesi del suo libro Caro Papa ti scrivo , edito nel 2011. Ci voleva qualcosa di più forte che lo restituisse alla ribalta. Così, sul suo blog, rispondendo a un lettore sull’esistenza delle camere a gas, è andato giù pesante: «Non entro nello specifico delle camere a gas perché di esse so appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato nel dopoguerra, e non avendo mai fatto ricerche, e non essendo uno storico, non posso fare altro che “uniformarmi” all’opinione comune; ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti, e che le cose possano stare molto diversamente da come mi è stato insegnato».
Siccome Odifreddi non ha fatto ricerche personali, è razionalmente possibile che qualcuno abbia mentito. Magari Primo Levi, magari i sopravvissuti ai campi di sterminio, magari le testimonianze e gli studi che esistono in proposito. Se non è negazionismo questo, poco ci manca. Ma al pretenzioso Odifreddi piace «épater le bourgeois », stupire. Come è facile immaginare, essendo la memoria del trauma della Shoah il fondamento stesso della costruzione dell’identità europea, le sue provocazioni non sono passate sotto silenzio.
Già lo scorso anno, sempre per un testo scritto sul sito de la Repubblica e poi rimosso, il matematico cuneese si era applicato alla contabilità funebre: i morti causati dai raid israeliani erano «dieci volte superiori» a quelli delle Fosse Ardeatine. Anni fa, nel suo libro Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) con piglio illuministico sosteneva questa tesi: «La critica al Cristianesimo potrebbe ridursi a questo: che essendo una religione per letterali cretini, non si adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo».
Ai martellatori di verità, ultimi eredi del positivismo ottocentesco, mentre si aggrappano alle loro opinioni capita spesso di martellarsi le dita.

La Stampa 20.10.13
Ma l’Olocausto non è un’opinione
di Mario Calabresi

qui


Corriere 20.10.13
La verità storica stabilita per legge errore di una cultura poco liberale
di Giovanni Belardinelli


Colpisce e preoccupa l’assenza di opinioni critiche riguardo al disegno di legge che intende punire con la reclusione fino a tre anni chi si renda colpevole del reato di negazionismo. La legge, che ha sostanzialmente l’appoggio di tutte le forze politiche, non è stata ancora approvata dal Senato solo per una questione procedurale (la richiesta del M5S che a votarla sia l’Aula tutta e non soltanto la commissione giustizia in sede deliberante). Ma con pochissime eccezioni (il radicale Marco Pannella, la giornalista Fiamma Nirenstein) nessuno sembra attraversato da dubbi circa il suo carattere illiberale, che pure dovrebbe essere evidente dato che la nuova norma sanzionerebbe pur sempre delle opinioni. La storica debolezza della cultura liberale nel nostro Paese è testimoniata appunto dal fatto che tendiamo a ignorare come la libertà di opinione si misuri in primo luogo in relazione alle opinioni che non condividiamo e che troviamo anzi aberranti.
Una legge del genere si inserisce in una tendenza, comune ormai a vari Paesi, a definire in via ufficiale cosa sia lecito e cosa sia proibito sostenere rispetto al passato, stabilendo di fatto delle verità storiche di Stato. È una tendenza forte soprattutto in Francia, dove esistono ormai varie lois mémorielles , come vengono chiamate; leggi che sono tutte da respingere in linea di principio, cioè indipendentemente da ciò che prescrivono o vietano, come sostennero qualche anno fa alcuni dei massimi storici francesi in un documento-appello intitolato «Libertà per la storia». È egualmente inaccettabile, dunque, sia la legge francese che punisce chi nega il genocidio degli armeni, sia la legge turca che, al contrario, vieta anche solo di nominare quel genocidio. Leggi del genere consegnano ai tribunali il diritto di avere l’ultima parola per stabilire se effettivamente una certa affermazione debba essere considerata «negazionista». Per di più, nel caso del disegno di legge in discussione al Senato, la nuova fattispecie di reato riguarda non solo la negazione dei crimini di genocidio e contro l’umanità, ma anche la loro «minimizzazione»: un concetto, evidentemente, non solo vago ma che implica l’esistenza di una versione ufficiale (stabilità da chi?) alla quale occorra attenersi.
Peraltro, una legge come quella contro il negazionismo non rappresenta nemmeno un modo sbagliato per raggiungere un obiettivo giusto (l’adeguata consapevolezza e conoscenza di ciò che sono stati alcuni tragici eventi storici, a cominciare dalla Shoah). La punizione per legge delle sue opinioni consente infatti al negazionista di ergersi a difensore della libertà di espressione, rischia di circondare le sue affermazioni di un alone di mistero. E questo potrebbe esercitare qualche attrazione su quella parte di opinione pubblica affascinata dal complottismo e dalle «verità segrete» che qualcuno — secondo una tipica affermazione dei negazionisti — vorrebbe tenere nascoste ricorrendo alla minaccia del carcere.
Ma se le cose stanno così, se sono tanti gli aspetti censurabili di una legge come quella sul negazionismo, diventa allora sorprendente la quasi completa assenza di discussione che la ha accompagnata. Segno di una pochezza culturale, di un radicato conformismo dell’intero nostro ceto politico, immemore evidentemente delle critiche che invece accompagnarono pochi anni fa, nel 2007, un analogo disegno di legge presentato dall’allora guardasigilli Mastella determinandone di fatto l’affossamento. L’Unità ospitò a quell’epoca un durissimo documento firmato da vari storici italiani, un intellettuale influente come Stefano Rodotà scrisse un articolo contro il progetto Mastella che diceva tutto già nel titolo: Libertà di parola. E tanti altri esempi si potrebbero fare. Oggi, invece, nulla di tutto questo ma solo silenzio.

il Fatto 20.10.13
I vescovi nella notte di Halloween
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, non me lo sarei mai aspettato, dopo l’arrivo di Francesco. Ma i vescovi emiliani hanno, tutti insieme, condannato come “satanica” la notte di Halloween, ovvero, per dirla con Charlie Brown, della Grande Zucca.
Vanna

ANCH’IO HO LETTO la notizia con meraviglia, come del resto mi era capitato in eventi simili negli scorsi anni. Qualcosa tormenta alcuni vescovi italiani che riescono a occuparsi di Halloween mentre il 40 per cento dei giovani è senza lavoro. Cercherò di dire perché tutto ciò è fatuo, provinciale e un un po’ bugiardo. È fatuo perché la festa di Halloween, così come esiste adesso, sia in America, sia in Europa (e più in Italia che altrove) è una mite festa commerciale (si devono comprare cose e oggetti di poco valore ma per tanti bambini) a cui i ragazzi partecipano con travestimenti un po’ improvvisati e con la formula di “scherzetti o dolcetti” (“trick or treat”, negli Usa) che non ha nulla di satanico neanche per un esorcista professionale. È provinciale quando finge che si tratti (una fissazione della incolta Lega Nord) di eventi importati da altre culture. Chi non ricorda i grandi fuochi che tanti di noi hanno visto, da bambini, in campagna nel cambio di stagione autunnale? Halloween si colloca nello spazio, un po’ entusiasmante e un po’ pauroso, dei falò notturni. A chi ha un minimo di cultura scolastica, oltre alla memoria, il falò, se mai, ricorda l’eretico bruciato, non il diavolo. Ma un po’ bugiarda la condanna di Halloween lo è anche quando finge di non conoscere le tradizioni come la festa dei morti nel cattolicissimo Messico: scheletri, candele, maschere terrificanti e dolci, prima o dopo la funzione religiosa. E in un Paese come l’Italia in cui è popolarissima la Befana, certo estrapolata dal nordico Halloween, e dove impazza un commercialissimo carnevale pre-quaresima? In esso (mi riferisco a quello improvvisato nelle famiglie) appaiono tutti i tipi di travestimenti, compresi i diavoli e le armi. Come si fa a dire, in buona fede, che il carnevale (nella misera versione corrente) e la festa di Halloween non siano l'uno la continuazione dell’altro, per un divertimento un po’ triste, ma certo non satanico, dei bambini?

il Fatto 20.10.13
L’infettivologo. I Concorsi universitari
“La colpa non è di noi baroni”
di Bruno Tinti


Di tanto in tanto si perde qualche certezza. E si scopre che è meglio non affidarsi ai luoghi comuni, per quanto ossessivamente ripetuti. Sono andato in ospedale per un controllo. Mi visita un vecchio amico, Gianni Di Perri, ordinario all'Università di Torino, direttore della clinica di malattie infettive all'ospedale Amedeo di Savoia. Un “barone”.
È vero che finalmente vi tagliano le unghie e cambiano il sistema dei concorsi?
Eh si...
Vi scoccia, eh?
Per niente, è dal '92 che i “baroni” le unghie non ce l'hanno più; solo che il nuovo sistema è tutto sbagliato.
Passare da commissioni esaminatrici locali a una nazionale estratta a sorte dovrebbe impedire i favoritismi; sai che raccontano di studenti che fanno gli autisti ai professori per “guadagnarsi” il concorso? Per non parlare di altri tipi di prestazione...
Può essere successo. Tu non conosci magistrati che si sono venduti qualche processo?
In effetti...
Il problema non sta nella commissione nazionale. Sta nel tipo di esame. A furia di limitare la discrezionalità della Commissione per evitare favoritismi, hanno impedito la selezione. Nel 1992 c'è stata la riforma. Commissione locale ed esame su quiz, curriculum e prova pratica.
E non andava bene?
Per niente. I quiz se li imparavano a memoria...
Già, ora che mi ci fai pensare questa stessa idiozia l'hanno applicata per qualche anno al concorso per magistratura. Li superava gente che sapeva mettere le crocette al posto giusto; ma diritto e giurisprudenza sono un'altra cosa...
E sai qual è il peggio? Che, su 100 punti disponibili, chi non sbaglia un quiz ne prende 60. Favoritismi zero, vero; ma preparazione professionale... Restano 40 punti. 25 derivano dal curriculum. Però 7 dipendono dal voto di laurea: 110 e lode, vale 7; 110 vale 6,5 e via così fino a 99 che vale 0. Anche qui discrezionalità inesistente. Ma c'è laurea e laurea: quelle di università prestigiose sono una cosa, altre sono più facili da ottenere. Lo stesso vale per la tesi: una tesi in malattie infettive, per un posto in questa specialità vale fino a 7, in altra materia meno. Ma anche qui bisognerebbe chiedersi: in quale università ti sei laureato? Capito che succede quando si confonde la patologia con la fisiologia? (Sorride, il gergo medico applicato alla gestione organizzativa lo diverte).
Ma resta la prova pratica.
Vale solo 15 punti. Uno studente di Torino che ha preso 105 alla laurea e ha sbagliato qualche quiz (chi se ne frega, non significa niente) sarà superato da uno studente di una università poco qualificata che si è laureato con 110 e lode e ha risposto correttamente a tutti i quiz. Un'ingiustizia e una stupidaggine. E poi, con il nuovo sistema, l'aboliranno: troppo potere ai baroni... Solo quiz e curriculum studi, cioè voto di laurea. Tutto automatico, a che serve una Commissione? Basta un computer.
Proprio vero. Ma quelli che depositano dal notaio i nomi dei vincitori del concorso e poi si scopre che lo azzeccano?
Se ti chiedono di pronosticare il vincitore di Juventus-Crotone tu cosa dici? I quiz li superano tutti o quasi, i voti di laurea si sanno prima, la prova pratica non è in grado di spostare la graduatoria, il risultato è scontato nel 99% dei casi. Ti faccio un esempio. Ultimo concorso fatto da me. Tre posti. Due li hanno vinti medici laureati con me in malattie infettive. Laurea 110 e lode, prova pratica fantastica. Il terzo posto lo ha vinto una che veniva da altra regione, mai conosciuta, molto brava comunque. Quiz perfetti, laurea 110 e lode, prova pratica buona. Ha superato una dottoressa locale bravissima che però si era laureata con 105 perché nei primi due anni aveva accettato voti bassi. Non vincerà mai nessun concorso, brava che sia; chiunque con voto di laurea alto (magari all’Universita di Poggiofiorito) e quiz superati la batterà. Pensa cosa succederà con esame limitato a quiz e voto di laurea.
Un bel casino. Ma allora?
Non è difficile. Commissione nazionale sorteggiata tra professori della materia: infettivologi per infettivologia, oculisti per oculistica. Niente quiz. Voto di laurea e curriculum che possono valere un massimo di 30 punti. Poi prova pratica che attribuisce fino a 70 punti. Qui la Commissione ci mette la faccia: in un esame pratico orale la preparazione di chi ha frequentato a lungo le corsie (anziché fare l’autista al barone) emerge di sicuro. Non sarà facile, pubblicamente, mescolare il grano e il loglio.
E il clientelismo?
Ma i componenti della Commissione sono sorteggiati! Ci sarà il disonesto che favorirà l'amico o l'amico degli amici. Ma questo non ha nulla a che fare con le “baronie”. Secondo te saranno sempre tutti disonesti?.
Mi trovo a pensare al mio vecchio lavoro, al Csm lottizzato dalle correnti, al sorteggio dei componenti del Consiglio come metodo per evitare il clientelismo, alla fiera opposizione dei correntocrati. I "baroni" ci sono proprio dappertutto.

l’Unità 20.10.13
Rom espulsa
Hollande: «Torni ma da sola»
La 15enne dal Kosovo: «Non lascerò la famiglia»
Il 74% dei francesi sostiene la linea dura di Valls
di Luca Sebastiani


Il capitolo finale dell’affaire Leonarda prende i contorni di un surreale dialogo tra sordi, con un presidente della Repubblica che indirizza motu proprio un atto di clemenza ad una quindicenne, la quale rifiuta con sdegno e rimanda al mittente le sue contraddizioni. Già, perché tutto il dramma dell’adolescente rom kosovara prelevata dalla polizia nel corso di una gita scolastica e rimpatriata insieme alla famiglia, è racchiuso nella contraddizione in cui si dibattono i socialisti tra fermezza e umanità, i due termini che avrebbero dovuto orientare la politica di François Hollande in tema d’immigrazione. Ma i due termini sono conciliabili? È possibile una sintesi che permetta alla sinistra di differenziarsi dalla destra? Un dubbio amletico ha turbato in queste ore le coscienze dei camarades, tra i quali molti pensano ormai che la gauche, intrappolata com’è al potere tra una crisi che lega le mani e un populismo cui non si sa proprio come rispondere, stia smarrendo la sua anima.
La breve allocuzione televisiva con cui ieri Hollande ha rotto il silenzio dietro cui si era trincerato da quando martedì l’affaire Leonarda era esploso col suo groviglio di ragione ed emozione, è stata l’incarnazione di questa impossibilità a scegliere. Dopo aver ribadito che l’espulsione della giovane insieme alla sua famiglia si è «svolta nel rispetto del diritto francese» come testimonia il dossier di 46 pagine che gli era stato rimesso dall’ispezione generale dell’amministrazione, Hollande ha anche concesso che, sempre ad opinione degli ispettori, i funzionari di polizia che hanno prelevato la ragazza dal bus di scuola, «non hanno dato prova del discernimento necessario». Per questo, per evitare altri casi simili e risparmiare alle coscienze dei francesi la violenza di certe situazioni, verrà inviata ai prefetti l’ingiunzione di evitare in futuro i prelievi di irregolari dalle scuole o mentre si stanno svolgendo attività didattiche esterne.
MALESSERE A SINISTRA
Quanto a Leonarda, ha aggiunto Hollande, «conto tenuto delle circostanze» e per puntiglio «d’umanità», se lo richiederà, «un’accoglienza le sarà riservata, ma a lei sola». La quindicenne, però, ha subito risposto che non ci pensa neanche a lasciare la famiglia, tanto più che anche i fratelli e sorelle frequentavano la scuola in Francia.
Ma la scelta salomonica del presidente oltre a non convincere Leonarda non è riuscita a quietare né la gauche né tanto meno la piazza. Dopo il corteo studentesco di venerdì scorso, anche ieri le associazioni e gli studenti hanno sfilato a Parigi, mentre tra le forze della sinistra continuava la bagarre. Il Partito comunista e il Parti de gauche di Melenchon hanno denunciato «la crudeltà abbietta» del presidente, mentre a destra Hollande è stato attaccato per voler, come sempre, «tenere insieme capra e cavoli». Anche il segretario del Ps Harlem Desir, pur elogiando la scelta d’umanità dell’Eliseo, ha però chiesto che «tutti i figli della famiglia di Leonarda possano tornare a studiare in Francia», mentre i socialisti che nei giorni scorsi hanno invocato i valori della sinistra contro la linea della fermezza incarnata al governo da Manuel Valls, per ora hanno preferito tacere prendendo atto che Hollande ha per ora voluto dare ragione al ministro degli Interni.
Del resto nella disaffezione storica dei francesi verso i socialisti, Valls è l’unico membro dell’esecutivo ad essere ancora popolare. Ed anche molto. Secondo un sondaggio di ieri il 74% dei francesi approva l’operato del ministro, mentre il 65 è contrario ad un eventuale annullamento dell’espulsione di Leonarda. La legge è legge, e va rispettata al di là dell’emozione. Come aveva detto nei giorni scorsi Valls, appunto.

il Fatto 20.10.13
Leonarda a Hollande: da sola non torno
Il presidente pone le sue condizioni alla bimba rom espulsa
Lei rifiuta. La Francia si indigna: “Crudeltà”
di Roberta Zunini


O la scuola o la famiglia. In diretta tv, il presidente socialista francese Hollande ha fatto sapere che permetterà alla ragazzina rom espulsa, Leonarda Dibrani, di rientrare in Francia “per completare gli studi”, purché senza familiari. Una decisione criticata pubblicamente dal segretario del suo stesso partito, Harlem Desir, che chiede la riammissione anche delle sorelle e della madre. Ma che scontenta anche quel 65 per cento di francesi che, secondo i sondaggi, non vuole il loro ritorno. Così la destra parla di “premio agli imbroglioni” , mentre la sinistra radicale accusa Hollande di “abietta crudeltà”. Parla anche il ministro dell’Istruzione italiano, Maria Chiara Carrozza: “Credo che sia stata una cosa abominevole, non si può arrestare in quel modo una ragazzina in gita scolastica”. La vicenda della 15enne rom di origine kosovara, nata in Italia e cresciuta in Francia senza documenti regolari, prelevata dalla polizia mentre era in gita, si sta ingarbugliando sempre di più. Le parole del capo dello Stato, definito “senza cuore” da Leonarda, hanno fatto passare in secondo piano il risultato dell’inchiesta amministrativa voluta dal governo in seguito alla decisione del ministro degli Interni, il socialista Manuel Valls, di ordinare la “deportazione” in Kosovo dell’adolescente e della sua famiglia.
NONOSTANTE L’ONDATA di sdegno che ha fatto scendere in piazza per tre giorni migliaia di studenti dei licei di tutto il Paese, il rapporto ha sentenziato che “tutto è stato conforme ai regolamenti in vigore. Ma le forze dell’ordine non hanno mostrato il discernimento necessario prelevando la ragazza mentre era in gita scolastica”. Il dossier, messo online per una consultazione pubblica, suggerisce inoltre di “evitare qualsiasi intervento non solo negli spazi e negli orari di scuola ma in tutto l’ambito delle attività scolastiche”, cioè anche durante le gite. Una precauzione che avrebbe risparmiato a Leonarda l’umiliazione di sentirsi chiedere dai compagni cosa avesse fatto di tanto grave per essere prelevata dalla polizia. Leonarda, che aveva concesso un’intervista in cui diceva che a Mitrovica sarebbe impossibile per lei proseguire gli studi perché parla solo francese, ha risposto al presidente: senza le sorelle, sostiene, non rientrerà. “Signor Hollande non ha compassione per la mia famiglia? Anche le mie sorelle studiano in Francia e qui in Kosovo avrebbero le mie stesse difficoltà”.
IL CLASSICO colpo al cerchio e alla botte che potrebbe trasformarsi in un boomerang per la sua popolarità, già in caduta vertiginosa, e per il governo, in cui ci sono state molte frizioni per il comportamento di Valls. Il ministro socialista, che sin dall’inizio del suo mandato ha mostrato il pugno di ferro nei confronti dei clandestini e dei rom, è accusato di perseguire una politica di destra per guadagnare consensi personali. In effetti, oggi è uno dei politici più popolari tra i francesi. Ma se si dovesse andare alle urne, stando ai sondaggi di una settimana fa, la vittoria andrebbe allo xenofobo Front National di Marine Le Pen. Da Fano, dove la famiglia aveva vissuto, il sindaco Aguzzi ha dichiarato all’agenzia Afp che le autorità avevano “fatto pressione” sui Dibrani perché i bambini, anziché andare a scuola, “venivano mandati a mendicare”.

La Stampa 20.10.13
Pussy Riot, Nadia  vince sua battaglia e cambia carcere
Nadezhda Tolokonnikova, leader delle Pussy Riot piega le autorità con lo sciopero
della fame. Adesso sarà trasferita

qui

l’Unità 20.10.13
Eritrea e Somalia, la fabbrica dei migranti
I genitori puniti per la fuga dei figli, l’odissea del viaggio, le prigioni
Dove nascono i disperati che ci vedono come un miraggio
di Umberto De Giovannangeli


Dobbiamo renderci conto che l’emergenza non è rappresentata da chi arriva sulle nostre coste, quella è gente viva. L’emergenza e là nel Mediterraneo, in Siria, in Eritrea perchè il destino di queste persone è segnato». Le parole della presidente della Camera, Laura Boldrini, si proiettano oltre la sponda sud del Mediterraneo, è danno conto della tragedia di popoli che vivono da decenni sotto regimi sanguinari o in Stati in balia dei più feroci gruppi qaedisti. È il caso dell’Eritrea e della Somalia. In migliaia, nella loro fuga disperata hanno conosciuto la brutalità dei campi di concentramento realizzati in Libia dal Colonnello Gheddafi. Braccati, ricattati, in balìa delle mafie dei trafficanti di umani. Molti di loro sono morti sulle carrette del mare; altre centinaia hanno perso la vita nel deserto del Sinai.
SENZA DIRITTI
Dietro la strage di Lampedusa, c’è il dramma di migliaia di migranti provenienti all’Africa subsahariana o dal Corno. La maggior parte di questa umanità disperata è eritrea. Asmara ha un governo proprio solo dal 1993, anno di indipendenza dall’Etiopia dopo anni di guerriglia per ottenere la liberazione. Al potere del Paese, una repubblica presidenziale monopartitica, sempre lo stesso uomo: Isaias Afwerki. Amnesty International, nel suo ultimo rapporto descrive così l’Eritrea: un Paese dove «l’arruolamento militare nazionale è rimasto obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato. È rimasto obbligatorio anche l’addestramento militare per i minori. Le reclute sono state impiegate per svolgere lavori forzati. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici hanno continuato ad essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. L’impiego di tortura ed altri maltrattamenti è stato un fenomeno diffuso. Non erano tollerati partiti politici d’opposizione, mezzi di informazione indipendenti od organizzazioni della società civile. Soltanto quattro religioni erano autorizzate dallo Stato; tutte le altre erano vietate e i loro seguaci sono stati sottoposti ad arresti e detenzioni». Ma nemmeno lasciare l’Eritrea è semplice. Amnesty spiega che «per coloro che venivano colti nel tentativo di varcare il confine con l’Etiopia è rimasta in vigore la prassi di “sparare per uccidere”». La scelta di molti giovani di fuggire costa ai genitori multe salatissime. E se non si riesce a pagarle si perde la casa, la terra o si finisce in prigione.
La mancanza di un sistema legale e di protezione di migranti, rifugiati e potenziali richiedenti asilo, alimenta il mercato dell’emigrazione illegale e del traffico di esseri umani. Ad agosto scorso, secondo l’Unhcr, 27 imbarcazioni sono partite dalla Libia verso l’Italia, per un totale di 3044 persone a bordo, in grandissima parte eritrei, somali ed etiopi. La guardia costiera libica ha intercettato un numero imprecisato di imbarcazioni e i migranti «bloccati» sono stati riportati in Libia e detenuti per aver lasciato illegalmente il Paese.
Altro inferno: la Somalia. Terra di conquista per la nebulosa qaedista. Campo di battaglia per al-Shebaab al-Mujaheddin, che ieri ha rivendicato l’attacco kamikaze in un ristorante della città di Beledweyne, nel centro della Somalia (almeno 17 morti), frequentato da militari. È lo stesso gruppo che ha condotto, un mese fa, il sanguinoso attacco al centro commerciale «Westgate» di Nairobi. Su 174 Paesi analizzati dall’organizzazione Transparency International nel rapporto mondiale sulla corruzione, l’Eritrea risulta 150esima e la Somalia ultima. Si legge su uno studio pubblicato da Transparency Italia: «In Africa, oggi, la corruzione è diventata un fatto normale e accettato, anche se sta lacerando il continente. Il futuro rubato dai governi corrotti. Il destino dell’Africa è quello di dipendere dagli altri, nonostante abbia delle ricchezze incredibili». Paesi devastati da guerra, integralismi e regimi corrotti. Da questo fuggivano i migranti morti a Lampedusa.

La Stampa 20.10.13
Il macabro gioco dei cecchini siriani sparare alla pancia delle donne incinte
La denuncia di un medico britannico tornato dalla Siria: allenano la mira La ricompensa: pacchi di sigarette

qui

l’Unità 20.10.13
Il carcere e la scienza
Quelle carceri sono contro la scienza
Il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie
Questo dimostra che la persona che abbiamo messo in carcere, non è la stessa vent’anni più tardi
di Umberto Veronesi


Il dibattito sulla giustizia, che si è scaldato negli ultimi giorni attorno ai temi dell’amnistia e dell’indulto, non è solo politico ma anche civile, culturale, etico e per certi aspetti scientifico.
Nella mitologia greca Nemesi, dea della vendetta, era il volto tragico di Dike, dea della giustizia. Per molti secoli il concetto di vendetta e giustizia sono stati interscambiabili, finché arrivò l’insegnamento di Gesù di Nazareth, che introdusse l’idea di perdono e di ravvedimento: la «metànoia» che Giovanni Battista predicava sulle rive del Giordano. In sostanza la possibilità di una metanoia presuppone che anche chi ha sbagliato può cambiare.
Perché anche chi ha sbagliato può cambiare il proprio pensiero e dunque può essere recuperato.
Questo principio è stato ripreso nei tempi moderni, quando molti Paesi hanno affinato l’idea di una giustizia rieducativa. Un modello avanzato in questo senso si trova ad esempio in Norvegia, il cui codice penale non prevede pene detentive superiori a 21 anni (salvo reati di crimini contro l’umanità e genocidio) nel rispetto di una filosofia e un’organizzazione orientata al reinserimento dei criminali nella società. È in nome di questa filosofia che tutta la popolazione ha accettato con grande senso civico anche la condanna (ad appunto 21 anni di prigione) di Breivik, l’autore di una strage di ragazzi inermi e giovanissimi, che tutti ben ricordiamo. È un principio a volte difficile da accettare emotivamente, ma che ha condotto a risultati molto concreti: la Norvegia ha uno dei tassi di recidiva di crimine fra i più bassi del mondo.
Anche la Costituzione italiana all’articolo 27 recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», ma purtroppo la realtà delle nostre carceri sembra ignorare del tutto questo punto. La situazione delle celle è stata definita da Silvio Scaglia come peggiore di quella descritta dai giornali, dove per il carcerato «c’è meno spazio di quello che le leggi prevedono per i maiali». Ma se neppure la dignità è rispettata, come si può anche solo pensare a una rieducazione?
Del resto la nostra legge ammette ancora l’ergastolo ostativo, che è un’infamia perché è una condanna a morire in carcere; dunque una forma diversa, ma non meno crudele, di pena capitale: una pena di morte civile o pena fino alla morte, perché chi sa di non poter mai più tornare alla sua vita, è condannato ad una agonia lenta e spietata. Tanto da far dire riporto una frase dell’ergastolano Carmelo Musumeci «fatemi la grazia di poter morire».
Un sistema carcerario punitivo è contro la civiltà ed è contro la scienza. La ricerca scientifica ha ormai dimostrato in modo certo che il Dna dell’uomo è programmato per il mantenimento della specie e invita dunque a procreare, educare, abitare, fare sapere, costruire ponti e legami che rendano più sicura la vita. Pertanto l’uomo è biologicamente portato al «bene», e il «male» è la reazione a situazioni avverse, ad abusi o violenze subite. Come diceva sant’Agostino il male è la privatio boni, l’ombra del bene o la sua assenza. Di conseguenza, se il bene è l’origine, è possibile riportarvi chi è caduto nel vortice del crimine. Anche qui ci viene in aiuto la ricerca scientifica che, pochi anni fa, ci ha confermato che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie in grado di generare nuove cellule. Questo dimostra scientificamente che la persona che abbiamo messo in carcere, non è la stessa vent’anni più tardi e che per ogni uomo esiste per tutta la vita la possibilità di cambiare ed evolversi, adattandosi a nuovi stimoli.
Mi ha molto colpito a questo proposito il caso di Anthony Farina, ricordarto ai media pochi giorni fa dalla moglie del noto attore Colin Firth, Livia Giuggioli.
A soli 18 anni Anthony, un ragazzino povero, brutalizzato, vittima di abusi e violenze in famiglia, con il fratello di 16 anni rapina un fast food, spinto dalla madre. Durante la rapina il fratello minorenne uccide una persona e Anthony, pur innocente, entra comunque nel braccio della morte. Oggi Anthony ha 40 anni, ancora rischia la pena capitale in Florida e la sua vita è appesa agli appelli degli attivisti contro la pena di morte, come Livia. Come può la civile America uccidere un uomo per un crimine che forse, o forse no ha commesso 22 anni fa? Come si può nel terzo millennio legittimare la violenza vendicativa, come nella Grecia antica, perpetrando un omicidio di Stato?
Proprio per combattere la violenza in ogni sua forma, soprattutto se istituzionalizzata, ho fondato cinque anni fa il movimento «Science for Peace», a cui aderiscono molti uomini di scienza, fra cui 21 Premi Nobel. A partire dallo scorso anno , ci siamo impegnati in una campagna internazionale a favore di una giustizia rieducativa e per questo nel corso della prossima Conferenza mondiale Science for Peace, sul tema «Dna Europa» che si terrà a Milano il 15 e 16 novembre prossimo, dedicheremo una sessione ai sistemi giudiziari e carcerari europei. Siamo convinti che un’Europa unita, Premio Nobel per la pace 2012, debba promuovere sistemi di pena che neghino la vendetta e la violenza, rispettino la dignità umana e tendano al recupero della persona in ogni fase della sua vita.

La Stampa 20.10.13
Camus, cent’anni da maneggiare con prudenza
Una nuova biografia indaga lo scrittore e i suoi tormenti, mentre in Francia una mostra
lo celebra evitando gli aspetti più problematici
di Paola Dècina Lombardi

qui
cfr. Onfrey su Camus e Nietszche, sul domenicale del Sole di oggi (più tardi qui)

Corriere 20.10.13
La rivincita del cervello
La simulazione dei supercomputer rilancia l’indagine sul modello umano
Per un’intelligenza artificiale «amica»
di Giovanni Caprara


Alan Turing verso gli anni Cinquanta del secolo scorso esplorava l’idea di una intelligenza artificiale. Anzi, ideava un metodo per distinguere questa forma di elaborazione da quella umana. Il matematico Turing arrivava dalle ricerche sui codici segreti che in Gran Bretagna durante la guerra erano un mezzo prezioso per decifrare le intenzioni e i piani nazisti. Guardando all’intelligenza artificiale prendeva come modello il cervello umano e lo indagava per trarre idee alla sua ardua sfida.
Nel frattempo, era il 1954, un gruppo di illustri studiosi americani riunito in un seminario estivo al Dartmouth College battezzava queste indagini Artificial Intelligence . Subito dopo lo sviluppo fu tumultuoso sotto la guida dei padri fondatori della nuova disciplina: John McCarthy della Stanford University, Marvin Minsky al MIT e Allen Newell e Herbert Simon alla Carnegie-Mellon University.
Nei decenni seguenti, però, le inevitabili difficoltà che la frontiera nascondeva mettevano in discussione la visione di riferimento del nostro cervello proiettando gli studi verso orizzonti diversi. Negli ultimi tempi la visione è di nuovo cambiata e il modello del cervello umano è tornato ad essere considerato come punto di partenza.
«È vero — dice Amedeo Cesta dell’Istituto della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche —. La ricerca era piombata in una crisi estrema e la delusione aveva anche preso il sopravvento perché sembrava quasi impossibile affrontare l’argomento. In realtà, dopo i successi iniziali gli scienziati si sono concentrati su aspetti particolari, piccoli problemi, con un riduzionismo eccessivo senza una visione generale. In questo modo ci si è allontanati dalla necessità di mettere idee più complessive di un sistema di intelligenza artificiale, ma essenziali».
Il recente cambio della strategia deriva da due fattori importanti. Il primo riguarda l’enorme progresso delle ricerche sul cervello che offrono cognizioni prima inesistenti. Il secondo aspetto è legato alla straordinaria capacità di elaborazione che oggi hanno i supercomputer consentendo di simulare e verificare intuizioni e principi. «Ciò permette — aggiunge Cesta — di riconsiderare le idee di fondo con una nuova maturità. Anche per quanto riguarda la prospettiva. Cioè, si guarda sempre più a un sistema di intelligenza artificiale che non sostituisca l’uomo ma lo integri nelle sue necessità: dalla valutazione della capacità di scelta ad altri aspetti concettuali delle nostra mente».
Intanto gli scienziati cercano di evitare alcuni rischi in agguato. «Oggi c’è un eccesso di informazione — precisa Cesta — ed è necessario selezionare gli elementi essenziali finalizzati agli scopi da raggiungere tenendo conto che la conoscenza è in rapida evoluzione». Cercando di arrivare a sistemi artificiali che non siano in grado di nuocere all’uomo come accadde con il computer AL 9000 che governava l’astronave del più bel film di fantascienza mai realizzato come 2001: Odissea nello spazio.
In tale prospettiva e per la necessità di indagare cognizioni fondamentali e nuove prospettive, l’Europa e gli Stati Uniti hanno varato ciascuno un programma di ricerca proiettato nel decennio. In Europa è partito proprio all’inizio di ottobre il progetto Human Brain Project coordinato dal neuro scienziato Henry Markram dell’Ecole Polytecnique di Losanna e ben più ricco di quello americano. Gli scopi sono molteplici e riguardano soprattutto tre obiettivi: costruire un supercomputer mille volte più capace degli attuali esistenti che apra un nuovo mondo di possibilità; conoscere il funzionamento di base del nostro cervello e, infine, costruire un cervello completamente artificiale. In parallelo in America si punta ad una mappatura dettagliata delle funzioni cerebrali. Entrambi nella prospettiva di utilizzare, strada facendo, i risultati ottenuti applicandoli al campo medico nella cura di alcune patologie.
«Nel 2045 l’intelligenza artificiale supererà nelle capacità quella umana», afferma Ray Kurzweil illustre specialista della Computer Science chiamato a guidare un team di sviluppatori di Google. Alcuni lo hanno accusato di eccesso di ottimismo, ma al di là delle date l’ambizioso obiettivo oggi è più chiaro e affrontabile rispetto al passato.

Corriere 20.10.13
Un viaggio nella «scatola delle meraviglie»
di Caterina Ruggi d’Aragona


La materia grigia in scena: 700 chili di fili luminosi descrivono 100 miliardi di neuroni Giulia mangerà il suo biscotto? O rispetterà il divieto della mamma? Quale impulso prevarrà? Come si muoveranno nel frattempo i neurotrasmettitori che controllano le emozioni? Queste, tra tante altre, le risposte che cerca di dare a grandi e bambini Brain, il cervello, istruzioni per l’uso , esposizione interattiva di carattere scientifico appena atterrata a Milano. Nata da una collaborazione tra il Museo di Storia Naturale di Milano e l’American Museum of Natural History di New York, che la promuovono e organizzano assieme al Comune di Milano, Codice. Idee per la cultura, 24 Ore Cultura (Gruppo 24 Ore), Guangdong Science Center, Guangzhou e Parque de las Ciencias (Granada), la mostra — dopo il successo di New York — sarà fino al 13 aprile in allestimento al Museo di Storia Naturale di Milano. Unicum italiano (non sono previste altre tappe nella Penisola) che rappresenta al meglio il coté scientifico dell’Autunno americano, la stagione milanese dedicata cultura, arte e tradizioni americane. Al tempo stesso, «Brain» è un festeggiamento per il 175° compleanno del Museo di Storia Naturale, il più antico museo civico. Ed è un segnale della spinta milanese verso l’approccio anglosassone alla divulgazione scientifica. «L’amministrazione comunale cercherà sempre di più — ha annunciato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno durante l’inaugurazione della mostra — di produrre e sviluppare occasioni di approfondimento scientifico, che riteniamo essenziali per l’attrattività turistica di Milano e la crescita cognitiva della cittadinanza».
Brain. Il cervello, istruzioni per l’uso è una mostra per tutti perché, attraverso installazioni artistiche e multimediali, modelli, testimonianze, approfondimenti e giochi interattivi, accompagna il pubblico alla scoperta del cervello. Dopo essere entrato idealmente «dentro» un cervello, il visitatore passa attraverso 700 chili di fili luminosi, l’installazione di Daniel Canogar che, usando solo materiali riciclati, simula l’attività dei nostri 100 miliardi di neuroni. Il «teatro introduttivo» trasmette poi le informazioni basilari sul chilo e mezzo di materia cerebrale racchiusa nel cranio che, nonostante i grandi passi avanti compiuti negli ultimi anni dalla ricerca, resta in parte misteriosa. Un mistero indagato a diversi livelli da biologia, genetica, neurologia, psicologia, filosofia...
Mentre il 1900 è stato segnato dalla grande scoperta del Dna, questo secolo sembra caratterizzarsi per la sfida alla comprensione della scatola delle meraviglie. «L’uomo è l’unico essere vivente in grado di pensare al suo pensiero», sottolinea il curatore della mostra Rob DeSalle, ricercatore presso il Sackler Institute for comparative genomics dell’American Museum of Natural History, che ha ideato un viaggio multimediale di forte impatto visivo e emozionale per spiegare con semplicità la conformazione e il funzionamento del cervello; le aree specifiche dedicate ai cinque sensi; i meccanismi che regolano percezioni, emozioni, opinioni, sentimenti. Uno schermo interattivo invita a usare le mani per capire come comunicano i neuroni; un’installazione spinge a elaborare visivamente i pezzi colorati di un puzzle nell’immagine di un notissimo dipinto. Un’enorme riproduzione plastica dell’area sottocorticale del cervello troneggia al centro della sezione dedicata al cervello pensante, che spiega tra l’altro come durante il sonno i ricordi vengano trasferiti nella memoria a lungo termine; una massa a forma di imbuto di filamenti di rame e argento evoca lo sviluppo neuronale del feto e l’incredibile riorganizzazione del cervello durante le fasi della vita. Uno zoom futuristico, infine, mostra le più avanzate tecnologie utilizzate nella ricerca delle cure per patologie come Alzheimer, Parkinson e i disturbi dell’umore.
A scandire il viaggio in sette sezioni tematiche, accompagnato da Novartis come main sponsor e dall’Associazione italiana sclerosi multipla quale charity partner, momenti di gioco che mettono alla prova la concentrazione, la propensione alle lingue, la memoria a breve termine e quella procedurale, quella grazie alla quale una volta imparato a andare in bicicletta o a eseguire una sequenza di danza non dobbiamo più richiamare alla mente i singoli passaggi. Disegnare una stella guardandone l’immagine rovesciata allo specchio ci dimostrerà dopo avere ripetuto lo stesso movimento più e più volte che non lo dimenticheremo più.

Corriere 20.10.13
«Ma per i simboli ci vuole l’arte»
Ludovica Lumer: «Allargo la visione con la neuroestetica»
di Roberta Scorranese


Mentre dipingeva le sue mele gialloverdi, Cézanne ripeteva spesso: «Nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello. E devono aiutarsi tra loro». Si era nella seconda metà dell’Ottocento, ma il legame profondo tra arte e materia cerebrale cominciava a prendere forma, in un’Europa sempre più attenta agli abissi psichici. A Vienna, più tardi, Freud e Arthur Schnitzler si confronteranno in accese discussioni sull’argomento, dopo aver condiviso i banchi universitari negli studi in medicina; le forme inquietanti di Klimt indagheranno sulle ferite inconsce, mentre le teorie di Darwin avevano diffuso l’idea di un essere umano come prodotto «di un’evoluzione biologica». Misurabile, dunque.
«Oggi l’anello che tiene insieme arte e cervello è declinabile in numerose discipline, prima fra tutte la neuroestetica», dice Ludovica Lumer, 42enne milanese. Ludovica ha studiato filosofia e neurobiologia, prima di specializzarsi in neuroestetica con il britannico Semir Zeki, massimo studioso di questa particolare scienza che analizza il cosiddetto «occhio del cervello». Da due mesi, Lumer è a New York per fare un passo avanti: è stata ammessa alla Psychoanalytic Society & Institute. «In sostanza — ride — unirò la psicanalisi allo scandaglio della neuroestetica». Uno sguardo completo, dunque, che abbraccia l’intero concetto di «visione», esterna e interna, quella che si ferma sull’opera d’arte e quella che ne restituisce una parte all’inconscio.
Ma in che modo l’arte ci ha aiutato a comprendere i meccanismi del cervello? «In molti modi — afferma la ricercatrice — io credo che l’estetica, oggi più che mai, sia fondamentale. Ci aiuta a dare delle risposte laddove la scienza deve necessariamente fermarsi. Un artista e medico come Cesare Pietroiusti, durante un convegno, ha detto che se improvvisamente l’arte sparisse dal mondo, il microfono che lui in quel momento aveva in mano non avrebbe mai più avuto la possibilità di essere altro che un microfono». Così come il famoso orinatoio di Marcel Duchamp cesserebbe di essere un’opera e tornerebbe a essere un accessorio scabroso. Ecco il primo «sostegno»: l’arte aiuta il cervello a costruire significati simbolici. Produce senso, come aveva intuito anche lo storico e critico Ernst Gombrich (per il quale le immagini che l’artista crea, vengono poi ricreate, a loro volta, nel nostro cervello). Lumer cita esperimenti: «Per visualizzare le fasi dell’elaborazione dei colori nel cervello umano, Zeki ha utilizzato le opere dei Fauves». E anche alcuni dipinti di Cézanne, come «Pommes, pêches et poires». Con una vera risonanza magnetica. Il potere dei colori di Monet o delle distorsioni di Picasso va anche oltre: alcuni ricercatori parlano di «simulazione incarnata», l’inclinazione a ripetere le azioni che vediamo nell’opera.
«In un altro esperimento — continua la studiosa — è stata analizzata la “risposta” davanti al celebre “La trahison des images” di Magritte. Ebbene, detto in termini molto semplici, l’occhio interiore registra l’immagine della pipa e la parola “pipa” in modi interessanti». E ancora: perché alcune opere d’arte ci piacciono e altre no? «A questo — annota Lumer — ha cercato di rispondere una ricerca di Zeki condotta con il collega giapponese Kawabata. Hanno mostrato tele molto diverse tra loro a un centinaio di persone. Al di là del risultato dell’esperimento, quello che incuriosisce è il paradigma che ne è scaturito, il disegno della misurabilità di un’esperienza soggettiva così personale, intima». Zeki e Kawabata hanno osservato che, mentre i rappresentanti del campione scelto guardavano quadri descritti come «belli», nel cervello si attivava l’area nota per il suo coinvolgimento nei meccanismi di ricompensa. Dunque, il bello ci rende felici. Lo ha dimostrato, in Italia, il gruppo di ricerca di Enzo Grossi, che ha esaminato un campione di quasi duemila persone.
Ma vale la pena ricordare che il cervello stesso ha una sua valenza estetica: una specie di meccanismo di precisione irrorato da alchimie ancora inspiegabili in una forma emblematica, simile a una ghianda, un guscio fertile. Non è una divagazione: il neurologo americano Frank Lynn Meshberger, visitando la Cappella Sistina, ha ravvisato, nel gruppo pittorico michelangiolesco «Creazione di Adamo», l’immagine di un cervello (lo ha scritto in un famoso articolo pubblicato sul Journal of American Medical Association). Se dunque è vero, come diceva Cézanne, che «nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello», l’arte è un validissimo sguardo segreto da non lasciar appassire.

Corriere La Lettura 20.10.13
Una riflessione sul disagio della civiltà
Il recinto mentale che esclude gli altri
di Daniele Giglioli


Le immagini dei migranti annegati al largo di Lampedusa ci turbano in modo diverso da quelle di un terremoto o di un disastro aereo. Stavano venendo qui, stavano venendo da noi. Tentavano di attraversare le nostre frontiere; e le frontiere non sono solo esterne, ma anche interne. Se li piangiamo, significa che in minima parte il loro sbarco è riuscito — la parte ahimè peggiore, quella che ci induce a solidarizzare con gli altri solo nella misura in cui sono vittime. Un piccolo pezzo di loro ha preso posto nella geografia di ciò che definiamo «noi». Ma un posto inerte, scollegato, non connesso con ciò che pensiamo di potere e dover fare. Infatti non sappiamo che fare, e l’invocazione all’Europa perché ci aiuti ha più il sapore di uno scongiuro che di una scelta razionale. Il «noi» non è arrivato all’Europa. Alzi la mano chi si sente nell’intimo europeo. Non solo perché non c’è, diceva sarcasticamente Henry Kissinger, un numero di telefono dell’Unione europea, ma nemmeno un sentire comune, un simbolo in cui riconoscersi, lo straccio di una squadra di calcio.
Commozione senza agency , senza soggetto, senza decisione. Per risultare efficace, la ristrutturazione del «noi» dovrà essere ben più radicale. Perché nemmeno il più accanito fautore dei respingimenti può dire «non solo non li voglio, ma non mi importa nulla di loro» senza entrare in contraddizione con se stesso, con la sua umanità, con la sua capacità di empatia. La nicchia culturale che ci ospita non potrà proteggerci ancora a lungo.
Nicchia, empatia, frontiere interne, trasformazione antropologica sono termini che ricavo da un bel libro uscito da Einaudi, Nuovi disagi nella civiltà (pagine 202, € 19,50), curato da Francesca Borrelli in dialogo con due psicoanalisti, Francesco Napolitano e Massimo Recalcati, e un filosofo, Massimo De Carolis. Senza la pretesa di riassumere un intreccio di voci molto composito, ne traggo qualche spunto per il dibattito attuale.
Inevitabile è per l’animale umano vivere in nicchie artificialmente costruite che svolgono la funzione di quello che per le altre specie è il loro ambiente. L’uomo non dispone di un ambiente prestabilito, è povero di istinti che guidino automaticamente la sua condotta (autunno: vola a sud), ed è ricco invece di pulsioni plastiche e indeterminate. Incapace di distinguere a priori tra quanto nel mondo esterno è segnale (pertinente alla sopravvivenza) e rumore (ciò che non lo è), è strutturalmente aperto alla contingenza illimitata del cosmo. Sia la creazione di nicchie sia il continuo trascenderle fanno parte della sua dotazione di specie. Naturale gli è altrettanto tracciare confini e oltrepassarli. Ciò che lo definisce è il suo essere indefinito, l’impossibilità di dire «noi» una volta per sempre. L’umanità si coniuga al futuro, e non per afflato avventuroso o virtuoso, ma per ragioni biologiche in cui ne va della sua sopravvivenza. Suo destino è il progetto, e universale è il problema di quanto aprire e chiudere ogni volta le frontiere psichiche, culturali e istituzionali. Un problema non drammatico per epoche stabili (ma sono mai esistite?) e particolarmente angoscioso per quelle in cui le nicchie esibiscono la loro impossibilità a durare in eterno.
La nostra è tra queste. Se il mercato è globale, anche le migrazioni sono un tutto integrato, che non prevede la possibilità di isole o fortezze più o meno felici. I capitali viaggiano liberi, uomini e donne vogliono fare lo stesso: questione di fatto e non di diritto. Prima ne prendiamo atto e meglio è. A quale bussola rivolgerci allora, che non sia la paura o la commozione post festum ?
Le neuroscienze spiegano che gli umani condividono con le scimmie superiori un apparato cerebrale dotato di neuroni cosiddetti specchio, che fondano la possibilità dell’empatia, del sentire ciò che l’altro sente incorporando i suoi stati mentali (gioia, dolore) attraverso il coinvolgimento di aree del cervello che servirebbero a mettere in moto le nostre reazioni qualora ci trovassimo nella sua situazione. Ma la mera empatia è insufficiente sia a riparare le nicchie sia a fabbricarne di nuove — altrimenti lo saprebbero fare anche le scimmie. A differenza di loro, l’uomo dispone di uno strumento che ha come sua prima prestazione, al contrario di quanto si potrebbe pensare, di sospendere l’empatia invece che di rafforzarla: il linguaggio verbale, che possiede la virtù di distaccarsi dalla contingenza immediata attraverso una serie di dispositivi, il più importante dei quali, ha mostrato Paolo Virno nel suo Saggio sulla negazione (Bollati Boringhieri, pagine 203, € 16), è la parola «no». Un nazista ha sempre la possibilità di sentire il dolore che infligge a un ebreo (osservandone la mimica, sentendone il pianto), ma anche di accantonarla dicendo: non è un uomo, non è uno di noi. Il linguaggio dissolve il «noi» originario. Non ci cibiamo forse di animali? Ma prestazione specifica del linguaggio è anche quella di ricostituire una sfera pubblica che nega la negazione, include, negozia, ridefinisce di continuo lo spazio del «noi», in modo non sempre pacifico e senza soluzioni predeterminate.
Linguaggio e politica, diceva Aristotele, sono il proprio dell’uomo. Anche altre specie vivono associate, anche loro sono dotate di voce. Con essa, però, sono in grado solo di esprimere piacere o dolore, non di deliberare insieme sul giusto e sull’ingiusto. Ed è proprio questo che ci manca, quando contempliamo le tragedie di coloro che chiedono accesso al nostro spazio politico: non la compassione, ma la capacità di includerli nel recinto della deliberazione. Non ci sarà soluzione fino a quando da vittime non li riconosceremo come soggetti (dotati di desideri e non solo bisogni), decidendo e non piangendo con loro. Che a ciò fungano ancora le nicchie in cui a tutt’oggi viviamo — stati nazione, accordi di Schengen —, cioè il «noi» in cui ci riconosciamo, ecco il punto in sospeso.
Un problema complesso. Contrariamente a quanto si dice, i problemi complessi chiamano spesso soluzioni drastiche, e il Novecento ne è testimone. Il razzismo di stato fu una, un’altra l’internazionalismo proletario presto smentito da regimi che non permettevano ai loro cittadini di lasciare il Paese. E diciamoci la verità: funzionavano, sul piano sia logico che pratico. Se non funzionano oggi è perché con il «noi» che implicavano non vogliamo avere più nulla a che fare, il che è un bene. Tutto da reinventare, insomma, ma non del tutto senza bussola: non è la morale, è la specie che lo chiede, e lo rende possibile. Solo così la politica può tornare a essere un’etica, nel senso originario del termine: non la ricerca del bene e del male, ma di cosa sia razionalmente desiderabile per una «buona» vita in comune.

La Stampa TuttoLibri 19.10.13
Dov’è nascosta la coscienza degli uomini
Un neurofisiologo e un medico psichiatra indagano i segreti del cervello
tra veglia e sogno, anestesie e delfini
di Giovanni Bignami

qui

Corriere La Lettura 20.10.13
Splendori di una corte malata
Il virtuosismo dell’ultimo Velázquez: principini cagionevoli e spose bambine
di Giovanna Poletti


Come in un gigantesco caleidoscopio, i cristalli colorati del Prado continuano a stupirci. Cambiando posizione, creando infiniti e suggestivi accostamenti, il Museo ci invita a guardare i suoi capolavori con occhi sempre diversi. Dopo il giovane Ribera, l’ultimo Raffaello e il giovane Van Dyck, oggi è infatti la volta dell’ultimo Velázquez.
Javier Portús, curatore della mostra e conservatore della pittura spagnola del Museo, ha preso come spunto la famiglia di Filippo IV per abbracciare tre decadi di storia spagnola, radunare una trentina di dipinti, tra cui alcune rare tele giunte da istituzioni straniere, e mettere a fuoco, con ottica precisa, la ritrattistica di Diego Velázquez negli ultimi anni della sua vita.
Facendo riferimento alle date, sono esposte opere realizzate tra il 1650, anno del secondo viaggio in Italia, e il 1659, anno della sua morte a Madrid. Un periodo dunque breve, ma fondamentale per comprendere la pittura del maestro di Siviglia. Si tratta di capolavori senza tempo che hanno precorso, con una tecnica fin soprannaturale, gli ultimi slanci di pittura figurativa dell’Ottocento.
Portús ha setacciato in maniera coscienziosa le pareti del suo museo, cogliendo, fior da fiore, le immagini di una corte destinata verso un lento ma inesorabile viale del tramonto. I volti immortalati da Velázquez, prima di essere dei capolavori di pittura, sono la testimonianza diretta di una consanguineità subdola, incrociatasi ossessivamente alla ricerca di un’impossibile oligarchia, fondata non sulle idee ma sulla stirpe.
Le stanze dell’ala Jerónimos diventano così lo specchio sincero delle corti europee alla fine del Seicento, indebolite dalle conseguenze di un’ottusa progenie, ma capaci di commissionare arte immortale. Già negli anni Quaranta, il cielo dell’immenso regno di Filippo IV d’Asburgo era offuscato da nuvole funeste. Alle difficoltà politiche ed economiche, come le rivolte del Portogallo e della Catalogna, l’esacerbato conflitto con la Francia e la spaventosa epidemia di peste che aveva dimezzato in pochi mesi la popolazione di Siviglia, si era aggiunta la morte del giovane principe Baltasar Carlos, erede designato del trono di Spagna e sposo predestinato della giovanissima cugina Marianna d’Austria: un lutto che aveva devastato i sentimenti e la ragion di Stato.
Filippo IV, rimasto vedovo nel 1644, e avendo ormai solo un’erede femmina, pensò bene di non perdere l’occasione per impalmare lui stesso la quindicenne Marianna, di trent’anni più giovane e quasi coetanea di sua figlia. Dal matrimonio nacquero Felipe Próspero, che morì prematuramente, l’infanta Margherita, che sposò Leopoldo II d’Austria, e infine Carlo II, futuro re di Spagna.
La spiegazione di questa complessa tessitura dinastica è importante per capire la mostra di Portús che riunisce, da una sala all’altra, i volti sempre simili di diverse generazioni della famiglia Asburgo. Nella prima sezione sono invece presentati quattro ritratti eseguiti a Roma, tra cui l’olio, dipinto come un etereo pastello, che riprende il cardinale Camillo Astalli, e il celebre Camillo Massimo, dalla veste blu e l’incarnato roseo. Quest’ultimo capolavoro, giunto da Londra, oltre a riflettere più di altri la lezione veneta assorbita da Tiziano e Tintoretto, metterà le basi alla ritrattistica velazqueña a partire dal suo rientro a Madrid, avvenuto nel 1651 in seguito ai reiterati solleciti del re.
Dopo aver visto Raffaello, Michelangelo e Caravaggio e dopo esser riuscito a riprodurre la verità del terribile sguardo di Innocenzo X, Velázquez sarà capace infatti di entrare nell’anima della famiglia reale con la stessa intensità riservata finora a nani, buffoni e personaggi di fantasia. Nei volti simili, quasi identici di Marianna e Maria Teresa, incorniciati da quelle tipiche acconciature ornate di nastri, veli e farfalle, dipinti con una pennellata fluida e veloce, traspaiono le differenze di carattere delle due cugine. Marianna, sposata giovanissima al vecchio monarca e continuamente ingravidata alla ricerca di un erede, risulta imbronciata e melanconica, mentre la sua figliastra e cugina Maria Teresa, dagli occhi vivi e le gote rubizze, appare serena nell’attesa del matrimonio combinato con il futuro Re Sole.
Le repliche eseguite dal genero Juan Bautista Martínez del Mazo e dalla sua bottega, esposte in mostra, pur restando assolutamente valide, cedono al confronto per alcuni dettagli pittorici, ma soprattutto per la mancanza di quell’ineffabile sguardo che solo il loro maestro sapeva infondere.
La sala più commovente della mostra è forse quella dedicata ai bambini: un’inedita galleria di principini malaticci e morituri, dall’occhio innocente e rassegnato, di principesse travestite da imperatrici, con i volti appoggiati come per caso sul collo e sulle spalle bianche. I loro abiti, se non fosse per il pennello efficace di Velázquez, che ha saputo trasformare ogni tessuto, ogni brodure e ogni gioiello in saggi di pittura inarrivabile, appaiono talmente sontuosi da sembrare inerti modelli per maison d’alta moda.
La grande ultima verità che ci ha regalato Velázquez, prima della morte, è la sua nuova rappresentazione dello spazio. Per tramandare forse i fasti di una dinastia in declino, l’ambiente dentro il quale sono immobilizzati i suoi personaggi, non è più mero sfondo scenografico, ma ambiente vissuto. Luci, ombre, mobili, tappeti, fiori e tendaggi immergono chi osserva nel lusso quotidiano dei Palazzi reali. Con la sua pittura straordinaria, che il Palomino chiamava verità, Velázquez ha saputo inventare anche l’atmosfera.

Corriere La Lettura 20.10.13
No, Gramsci non è Marco Aurelio
Che pigra l’installazione per il pensatore al Bronx Ma ha creato lavoro. E smontarla è stato un peccato
di Robert Storr


Quando si parla di «scultura pubblica» di solito si pensa a monumenti permanenti dedicati alla grandezza. Inoltre, dall’antico Marco Aurelio equestre sul colle del Campidoglio al Gattamelata a cavallo di Donatello a Padova, dall’imponente e incombente Balzac di Rodin a Parigi alla gigantesca e sfaccettata testa di Picasso a Chicago, l’«arte pubblica» tende a essere identificata con la statuaria o con le diverse espressioni dei suoi moderni equivalenti. Sarebbe dunque plausibile immaginare che, quando l’artista svizzero Thomas Hirschhorn si è accinto a creare il suo Monumento a Gramsci , avesse in mente qualcosa del genere, malgrado le difficoltà insite nel compito di conferire grandiosità scultorea alla figura minuta e ingobbita del vulcanico Gramsci. Sarebbe però un errore, sotto ogni punto di vista.
Il «monumento» che Hirschhorn ha creato in un cortile alberato tra tetre case popolari, in un ancor più tetro quartiere del Bronx (un distretto di New York popolato da milioni di poveri, perlopiù di colore, che pochissimi turisti della Grande Mela hanno occasione di conoscere) appartiene piuttosto al genere che Joseph Beuys definì «scultura sociale», e che critici e artisti meno politicizzati hanno ribattezzato «arte relazionale».
L’installazione di Hirschhorn — aperta agli inizi di luglio e chiusa a metà settembre — era una via di mezzo tra un finto parco giochi e un centro sociale improvvisato, e disponeva di una stazione radio, una piccola tipografia, una biblioteca, laboratori d’arte per bambini, un teatrino all’aperto e numerosi spazi, sia fisici che intellettuali, ove la gente del quartiere e di altre zone poteva incontrarsi e parlare a tutti i presenti e — avendo a disposizione tipografia e radio — a chi non lo era. Quando ci sono andato con un collega di Venezia, in un soleggiato giorno di tarda estate, c’era poca gente, equamente suddivisa tra bambini e adulti del quartiere, che in sostanza consideravano l’installazione come una gradita espansione degli spazi sovraffollati del loro quotidiano, e intrepidi intellettualoidi provenienti da ogni angolo del globo, curiosi sia di fare un giro in una leggendaria zona di degrado urbano sia di seguire gli sviluppi dell’opera di Hirschhorn (il precedente Monumento a Bataille del 2002, per Documenta 11, era stato installato in un caseggiato popolare abitato in prevalenza da turchi, a Kassel). Da sempre in favore della critica sociale, a sovvenzionare il progetto è stata la Dia Art Foundation, voluta da una delle figlie di John e Dominique de Menil, ferventi cattolici e attivisti aristocratici.
Tutt’altro che eccezionali, le contraddizioni intrinseche al connubio tra enormi ricchezze di famiglia e visione sinistrorsa dell’arte come politica, spiegano almeno in parte le inevitabili discrepanze tra intenzione e ricezione, che l’«arte relazionale» e la «scultura sociale» tentano di nascondere. Il fatto che il reazionario critico «libertario» Peter Schjeldahl abbia accolto con lo stesso calore della Scuola di Francoforte gli ispirati accademici che hanno scritto dei saggi per il catalogo della mostra la dice lunga su quanto il progetto fosse infarcito di belle intenzioni e idee confuse.
In realtà, in questa commemorazione buonista di uno dei più grandi pensatori rivoluzionari italiani c’è stata troppa pigrizia intellettuale.
Vero è che la biblioteca vantava qualche cimelio proveniente dalla casa museo di Antonio Gramsci in Sardegna, ma non è del culto delle reliquie dei santi che la «critica postmoderna» ha bisogno, né è ciò che Gramsci avrebbe voluto. Inoltre, le edizioni italiane della sua opera completa sono di scarsa rilevanza per una comunità che parla creolo, spagnolo e inglese. La sezione dedicata all’arte proponeva libri che riflettono i gusti per le «neo-avanguardie globali» della Dia ma, a parte un paio di volumi dedicati al pittore concettuale Glenn Ligon, cresciuto nelle contigue Forest Houses, non ce n’erano altri che riguardassero artisti di origine africane o ispaniche. E poi, i testi raccolti sotto la voce «Terrorismo» spaziavano dall’acuto saggio di Leonardo Sciascia sulla vicenda Moro a resoconti scandalistici sugli anni di piombo, di dubbio valore per chiunque in qualunque epoca, ma in particolar modo per gli attuali abitanti dei palazzoni di mattoni dei dintorni.
Che un intero scaffale della biblioteca di un quartiere del Nord America in penoso stato di degrado fosse audacemente dedicato al «Comunismo» è degno di nota, ma non se ne evinceva che qualcuno stesse «organizzando» le masse o, meglio ancora, le stesse istruendo in modo sistematico. Di positivo c’è che tra il novero di artisti, scrittori e critici che hanno partecipato all’evento e i fruitori primari del «monumento» c’era maggiore consonanza, e che il temporaneo fermento generato dall’iniziativa è stato largamente apprezzato dalla gente del quartiere.
Mentre cercavo la stazione della metropolitana per tornare a Brooklyn, ho chiesto indicazioni a un atletico ragazzo di colore, che era stato assunto per effettuare le opere di demolizione alla chiusura dell’installazione. Era molto contento perché il «monumento» aveva creato lavoro e perché, per tutta la durata dell’evento, l’endemica violenza tra bande e polizia era diminuita in modo vistoso. Poi però ha indicato le impalcature in legno e ha aggiunto con un sospiro: «Ma ricomincerà tutto come prima, quando questa roba se ne andrà».
(Traduzione di Laura Lunardi )

Repubblica 20.10.13
Il museo del mondo
Monet e il magico nulla dei due salici
che sembrano di Debussy o di Mallarmé
di Melania Mazzucco


Cosa fanno gli artisti quando scoppia la guerra? La evitano? La cercano? La polvere da sparo e la dinamite zittiscono l’arte o la infiammano? I pittori si arrendono alla brutalità della storia? Oppure, imperturbabili ma non indifferenti, continuano a creare, per opporre alla violenza che annienta la forza della vita?
Nel 1914 Claude Monet ha 74 anni. È un patriarca con la barba da profeta — bianca, lunga, folta. Padre della pittura moderna e di una famiglia sterminata, ha cresciuto due figli suoi e sei della compagna — poi moglie — Alice, che è scomparsa nel 1911, lasciandolo vedovo per la seconda volta. Meteoropatico, è d’umore malinconico, talvolta tetro. In febbraio è morto prematuramente il suo primogenito. L’epica stagione dell’impressionismo è lontana: ciò che suscitò scandalo e scherno è stato assimilato. Si sono già succedute altre avanguardie — simbolisti, nabis, puntinisti, fauves, cubisti, futuristi... Monet si è appartato dall’agone artistico. Non espone più in gruppo e dal 1888 solo in personali. Venerato dai giovani, li tiene a distanza e non vuole allievi. Parigino di nascita cresciuto a Le Havre, dal 1883 vive in campagna, a Giverny, a 70 chilometri dalla capitale. Col tempo, ha ampliato la proprietà e ridisegnato il paesaggio circostante: ha costruito ponti, scavato uno stagno, piantato fiori esotici — peonie, iris, crisantemi, giacinti, ninfee — trasformandolo in un lussureggiante giardino artificiale, vagamente giapponese. Le specie straniere hanno suscitato le (vane) proteste dei contadini: Monsieur Monet avvelena l’acqua, mucche non potranno più abbeverarsi... I fiori di Giverny, piantati inizialmente per diletto, lo hanno sedotto. Ne segue la crescita, soffre quando l’inverno li gela, proibisce ai nipotini di giocarci vicino e a chiunque di toccarli. Essi — per gli altri — sono tabù. Ormai ha smesso di dipingere il mare, i treni, le stazioni, le città straniere. Non viaggia più per procurarsi soggetti da dipingere. Il giardino di Giverny è divenuto l’unico soggetto della sua pittura.
Non ha perso l’abitudine di dipingere le variazioni della luce ‘en plein air’. Pianta ancora il cavalletto vicino allo stagno e trascorre ore in una poltroncina di vimini, riparandosi dal sole sotto un ombrellone bianco. Ma è anziano, malato e quasi cieco a causa di una doppia cataratta che gli è stata diagnosticata nel 1912: ora all’aperto prepara gli abbozzi, ma la parte più importante del lavoro la compie nell’atelier. Lì ritocca incessantemente le sue pitture. Sovrappone grumi di colore al pigmento già secco, vela, cancella, rinnega, a volte prende a calci le tele, le sfonda, brucia e distrugge. Monet, lento, esasperante, non sa più finire. Le sue opere restano incompiute, provvisorie, aperte. Insegue il sogno faustiano di fermare il sole. Di dipingere la perfezione dell’istante. Insomma, l’impossibile — ciò che per sua natura è invisibile: il tempo.
Durante la guerra, quando il fronte tedesco minaccia Parigi e in città si sente tuonare il cannone, Monet è a Giverny a dipingere ninfee. Ha già creato (nel 1899-1900 e nel 1905-08) due serie di quadri con questo soggetto; 48 ne ha esposti nel 1909 e altrettanti ne ha distrutti. Ma quei fiori acquatici, tanto cari all’immaginario liberty,lo ossessionano. Stavolta però non realizzerà quadri tradizionali, come nelle serie precedenti. Abolirà cielo e orizzonte, disegno e descrizione. Creerà pitture murali enormi, come dovesse decorare le pareti di un palazzo immaginario (nessuno gliele ha infatti commissionate). Chi le guarderà, dovrà sentirsi circondato e consolato dalla natura. La sua decorazione avrà la funzione calmante e terapeutica di un acquario. Per realizzare il progetto, nel 1916 allestisce un atelier più spazioso. Raffigurerà solo l’acqua, gli alberi che vi affondano le radici e le ninfee che vi fluttuano, in ogni minuto del giorno e stagione. Sorprendendo con le più delicate sfumature del colore ogni vibrazione della luce, increspatura di foglia, screziatura di corteccia. Così, fermerà ogni attimo della vita che fugge — e lo metterà in salvo. Per anni, per Monet esisteranno solo i due salici del giardino, le ninfee e i riflessi nell’acqua — uno specchio ondeggiante e mobile, che cambia e respira.
In una foto scattata allora a Giverny si vedono lo stagno, le ninfee che vi galleggiano e l’ombra di una testa. È il vecchio Monet col cappello di paglia, che guarda ciò che dipingerà e che noi guarderemo. Di lui però resta solo l’ombra. Il pittore ha attraversato lo specchio: ora è dall’altra parte. È l’immagine di un congedo: ma felice, quasi entusiasmante.
I due salici,composizione formata da 4 pannelli lunghi ciascuno più di 4 metri, è uno dei tasselli di quest’opera che ha la trasparenza di un sogno — paragonata a una musica di Debussy o a un poema di Mallarmé. Gli alberi inquadrano lo spazio come colonne. Ma Monet rifiuta la prepotenleza della linea retta: i tronchi si curvano, armoniosamente. Le foglie e le ninfee nello stagno sembrano vaporizzate, e hanno la stessa brumosa inconsistenza delle nuvole che si specchiano nell’acqua. Il riflesso instabile non è meno reale dell’oggetto. E non si sa chi rifletta cosa. La tonalità dominante è fredda, rosa-malva-blu, perché è l’ora dell’alba. L’immagine fantasmatica e sfumata si legge meglio da lontano. Da vicino la materia pittorica è così spessa e granulosa da diventare indecifrabile. Proust osservò che Monet era riuscito a dipingere il nulla. Non ciò che si vede, poiché non si vede niente, ma il fatto stesso di non vedere. L’indeterminato genera bellezza: è una vecchia regola del sublime estetico.
Nel 1918 la Grande Guerra finisce, e alla patria vittoriosa Monet vuole offrire un monumento. Però non sarà un inno alla morte. Dona alla Francia le 19 gigantesche
Ninfeeche l’hanno occupato durante il massacro dell’Europa. Tuttavia non se ne priva e le trattiene nell’atelier — rilavorando quella pittura vivente, che cesserà di mutare solo nel 1926, con la sua morte. Nel 1927 lo Stato francese può installare leNinfee all’Orangerie delle Tuileries, e farne la “Cappella Sistina dell’impressionismo”. All’inaugurazione il pubblico, sconcertato, non capì il senso di quel dono. Eppure era ovvio. Monet aveva offerto al suo paese una vegetale, liquida antitesi dei bronzi funebri e retorici che stavano sbocciando in tutte le piazze del continente. La pazienza dell’acqua, il pianto degli alberi, la fuggevole esistenza delle nuvole e la bellezza ostinata dei fiori contro la distruzione, le piramidi di ossa e il veleno del sangue.
Claude Monet: I due salici (1916-1920 circa) particolare 2 x 17 mt olio su tela Musée de l’Orangerie Parigi