lunedì 21 ottobre 2013

l’Unità Lettere 21.10.13
La verità sul giornale di Gramsci
di Gian Carlo Zanon


Caro direttore ho letto con piacere il suo editoriale di sabato 29 ottobre in cui lei ricorda gli anni di clandestinità del suo/nostro giornale. Naturalmente non può che farmi piacere il suo richiamo alle radici storiche del giornale fondato da Gramsci; questo mi sembra un ottimo modo di iniziare la sua direzione come viene accennato in coda all’articolo. In questa sua «proposizione programmatica» riecheggia un richiamo alla verità di cronaca che deve vedere oltre le «distrazioni di massa» come il caso infinito Berlusconi et similia. «Dì tutta la verità ma dilla obliqua» scriveva Emily Dickinson, che finiva così la poesia. «La verità deve abbagliare gradualmente/ o tutti sarebbero ciechi». Anche la bellissima risposta alla giornalista del Fatto Quotidiano del socio di maggioranza Matteo Fago fa ben sperare sul futuro del giornale «Da quando è nata mia figlia mi sono sentito in obbligo di fare qualcosa per il mondo in cui vivrà, da grande». Anch’io avrei una piccola/ grande esigenza: ecco volevo cortesemente chiederle di far in modo che la verità venga scritta fino in fondo su questo giornale fondato da un uomo, Antonio Gramsci, che per la verità è vissuto e per la verità è morto.

l’Unità 21.10.13
Etica e medicina: dalla parte dei pazienti
di Carlo Flamigni


A scanso di equivoci vorrei ribadire un concetto che torna di attualità ogni qual volta siamo attanagliati da una crisi: intervenire sui problemi della sanità cercando semplicemente di diminuire i costi chiudendo gli ospedali è del tutto sbagliato.
Così come sbagliato è offrire un minor numero di prestazioni magari facendole pagare in parte anche all’utente. Il buonsenso vorrebbe anzitutto che qualcuno provvedesse a diminuire gli sprechi, che sono enormi e a ristabilire un po’ di giustizia sociale e di democrazia, eventualmente facendo decidere ai cittadini quali sono le priorità. Ma ancora più importante, ed è di questo che voglio parlare, è la necessità di intervenire sulla scontentezza dei cittadini-pazienti.
Il rapporto tra i medici e le persone che si rivolgono a loro per aiuto è molto complesso e si basa su letture diverse, che coinvolgono la psicologia, l’etica e persino la politica. Si tratta di una relazione che tende a fondarsi sulle asimmetrie, come spesso accade quando i rapporti sono basati sul potere e non sul confronto tra differenti prerogative: accade per il rapporto tra cittadini e amministratori, tra cittadini e rappresentanti politici e tra cittadini e operatori pubblici. Nel campo della medicina tutto ciò è complicato dal fatto che i modelli di medicina attuati da molti (la maggior parte?) degli operatori nasce da una miscela di paternalismo, di difensivismo e di contrattualismo e crea un permanente clima di sfiducia generale. Non può essere un caso il fatto che in nessun altro Paese i medici godono di così poca simpatia e fiducia come in Italia e in nessun altro Paese finiscono altrettanto spesso in Tribunale accusati di quella che gli americani chiamano «malpractice»: non importa che vengano quasi sempre assolti, resta il fatto che le persone delle quali dovevano occuparsi con compassione e competenza li hanno giudicati dei cattivi professionisti e certamente non li amano e non li rispettano. Va anche detto che la metà dei cittadini italiani, interrogati su questi temi, dichiara che il loro medico non rispetta quel diritto alla autodeterminazione dal quale è nato il consenso informato e che dovrebbe rappresentare la vera grande novità nella relazione tra medico e paziente, una relazione che in teoria dovrebbe essere virtuosa e che invece è prevalentemente conflittuale.
Per spiegare le ragioni di questa crisi, alcuni sociologi hanno recentemente chiamato in causa l’antica ipotesi di Edward Banfield, uno studioso americano che alla fine degli anni Cinquanta passò un lungo periodo di tempo in una piccola città della Basilicata e pubblicò nel 1958 un studio intitolato «Le basi morali di una società arretrata», ripubblicato pochi anni or sono dal Mulino. La sua teoria era questa: la società che aveva preso in esame era affetta da una forma di patologia sociale (che lui definì familismo amorale) caratterizzata da una sorta di ripiegamento sul nucleo familiare e dalla concentrazione esclusiva su valori, interessi e obiettivi connessi con questo nucleo. Da questa regola generale Banfield ricavò alcune conclusioni logiche che ne descriverebbero gli effetti sulla gestione del bene pubblico e sulla vita politica, un elenco impressionante perché a chi lo legge danno l’impressione di trovarsi di fronte a uno specchio molto realistico e impietoso della società italiana di oggi.
Non ho evidentemente lo spazio necessario per riportare tutte queste previsioni, mi fermo a un paio delle più significative: nessuno perseguirà l’interesse comune salvo quando ne trarrà un vantaggio personale; chiunque affermerà di agire nell’interesse pubblico verrà considerato un truffatore; il pubblico ufficiale tenderà a farsi corrompere e anche se non lo farà verrà comunque ritenuto corrotto; i professionisti mostreranno una carenza assoluta di vocazione e di senso della missione. C’è di peggio, nell’elenco di queste previsioni, ma non mi utile ai fini del mio discorso.
Non è che le teorie di Banfield siano state accettate di nostri sociologi, anzi, nella letteratura più recente le critiche si sprecano: ma a pensarci bene qualcosa del genere per quanto riguarda la medicina potrebbe essere successo, cosa che risulta ancora più evidente se si fa una breve analisi di come si sono modificati nei secoli i modelli di etici ai quali gli operatori si sono adeguati, a cominciare da quello ippocratico e per finire con i più recenti e fastidiosi come quello contrattualistico e quello difensivistico. È possibile fare qualcosa per modificarli?
Per ora mi limito a dire che sì, è possibile. Il modello che la bioetica propone è quello che considera la medicina come un impegno di cura, o una alleanza terapeutica, basata sulla beneficialità nella fiducia, il cui impegno deve essere quello di tutelare la salute indipendentemente da pressioni esterne e da interessi personali, coinvolgendo il paziente nelle decisioni e coltivando quelle virtù morali e umane che consentono una vera e autentica comunicazione, sempre ricordando che il bene del paziente lo deve sempre e comunque stabilire lui, le nostre visioni personali del mondo non possono entrare in campo. È un modello che si basa sull’etica della cura o più modestamente sull’etica delle piccole virtù e il sentimento che lo ispira è la compassione, quella che sollecita l’anima razionale ad agire secondo il bene ed è la base del nostro appagamento e della pacificazione della nostra mente.

l’Unità 21.10.13
Una Maastricht per la ricerca
di Pietro Greco


«Una Maastricht per la ricerca». È il manifesto programmatico che hanno lanciato, giovedì scorso a Bruxelles, due europarlamentari italiani, Amalia Sartori presidente della Commissione industria, ricerca ed energia e Luigi Berlinguer, già ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca del governo italiano alla fine degli anni 90.
La proposta non è nuova. E andrebbe rafforzata. Ma, oggi più che mai, ha un valore strategico. È una priorità assoluta. L’unica che può far ripartire l’economia creare nuovi posti di lavoro e puntare a uno sviluppo ecologicamente oltre che economicamente sostenibile.
Viviamo – e non è un vezzo accademico ricordarlo – nell’era della conoscenza. In Italia pochi se ne sono accorti, ma ormai i due terzi della ricchezza prodotta nel mondo è ad alto contenuto di conoscenza aggiunto. Non c’è possibilità di crescita economica e neppure di «dolce decrescita» la prospettiva che ha (incredibilmente) proposto di recente per il nostro Paese un noto industriale senza ricerca, scientifica e umanistica, e senza innovazione.
L’Europa o, almeno, parte di essa è l’area che più di ogni altra al mondo sta vivendo la crisi. Non solo e, forse, non tanto per motivi finanziari. Ma anche e, forse, soprattutto, per la sua politica di ricerca scientifica e tecnologica. Una parte dell’Europa – la parte che maggiormente soffre la crisi e che comprende l’Italia – è fuori dall’«economia della conoscenza». Ha un’economia reale che non regge la competizione con il resto del mondo nella produzione di beni e servizi ad alto valore di sapere aggiunto.
Questa parte, Italia in primis, ha bisogno urgente, addirittura impellente, di cambiare modello di sviluppo. E la conoscenza è l’unica opzione che ha, con buona pace di quegli economisti che ci riservano il ruolo di destinazione turistica dei nuovi ricchi dell’Estremo Oriente.
D’altra parte basta una rapida comparazione, per verificare che gli unici Paesi europei che sono fuori dalla crisi e riescono a competere nel mondo della nuova globalizzazione (la Germania, la Svizzera, i Paesi scandinavi), sono i Paesi che investono: nell’alta formazione; nell’industria e nei servizi creativi; nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico.
I Paesi che vivono la crisi (Italia in primis) hanno urgente impellente bisogno di nuove politiche nazionali per un’economia (sostenibile) fondata sulla conoscenza. Sapendo, però, che nessuna politica nazionale da sola può riuscire a ribaltare la condizione di declino, che è un declino europeo (seppure con gradienti nazionali diversi).
Se il problema è del continente, allora solo una politica a scala continentale può risolverlo. Le difficoltà che ha l’Europa a entrare, come comunità regionale, nell’economia della conoscenza lo dicono bene nel loro manifesto Amalia Sartori, del gruppo dei popolari europei, e Luigi Berlinguer, del gruppo dei socialisti europei sono essenzialmente due: la quantità e la qualità degli investimenti; la frammentazione delle politiche.
Per oltre tre secoli l’Europa ha avuto il monopolio pressoché assoluto della produzione di nuova conoscenza scientifica e dell’innovazione tecnologica a essa legata. Per oltre settant’anni ha diviso la partnership mondiale con gli Stati Uniti. Ora fatica a tenere il passo anche non solo dei Paesi di più antica industrializzazione (Usa, Giappone), ma anche e soprattutto dei paesi emergenti. L’Europa laurea meno giovani di altre aree del mondo. L’Europa investe in ricerca meno di altre grandi aree geografiche. Da locomotiva della scienza universale ora rischia di diventare un vagone piombato.
Anche la qualità inizia a mostrare i primi segni di incrinatura. Il programma europeo Horizon 2020 sembra aver dimenticato l’insegnamento dell’americano Vannevar Bush che nel 1945 inaugurò la politica della ricerca e aprì l’orizzonte di una nuova economia ricordando il valore prioritario della scienza di base.
Ma, forse, il dato più preoccupante è la frammentazione. Solo il 5% degli investimenti in ricerca nell’Unione Europea è gestito a livello centrale, dalla Commissione di Bruxelles. Il 95% è gestito da stati gelosi. Con il risultato di avere 27 diverse e spesso divergenti politiche.
L’Europa deve riscoprire il suo rapporto privilegiato con la scienza e con l’innovazione. È un problema culturale. Ma anche politico. Occorre realizzare, finalmente e immediatamente, l’antico progetto di Antonio Ruberti: creare un’area europea della Ricerca. È questo il succo, strategico, del manifesto di Amoresi e Berlinguer. Le loro proposte concrete infrastrutture comuni, carriere comuni, cooperazione e coordinamento vanno nella giusta direzione. Ma, probabilmente, non bastano. Per avere una Maastricht della ricerca occorrono dei vincoli stringenti, come quelli della Maastricht economico/finanziaria. Proviamo a indicarne tre, in aggiunta a quelli di Berlinguer e Sartori. Portare gli investimenti europei in ricerca decisi centralmente a Bruxelles dal 5 al 30% entro il 2020. Fissare al 3% del Prodotto interno lordo la soglia minima degli investimenti in ricerca nazionali (di cui almeno l’1% di fonte pubblica). Fissare come obiettivo per il 2020 una quota di laureati nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni pari ad almeno il 50%. Sapendo che l’Europa e, con essa, l’Italia si salvano non solo e non tanto abbattendo il loro deficit finanziario, ma anche e soprattutto abbattendo il loro (ahinoi) crescente deficit cognitivo.

l’Unità 21.10.13
Tra le tende di Porta Pia
I giovani accampati: «L’abbiamo detto a tutti: niente spazio ai violenti»
Il corteo diventa presidio «Ce ne andiamo domani»
di Rachele Gonnelli


Restano le tende ma non la tensione. Gli organizzatori del corteo di Roma «ad alto rischio» sono soddisfatti: «Non era accettabile che qualche ragazzo rovinasse un lavoro di mesi». Monti in tv: «Manifestazione forte ma composta. Vogliono un futuro e hanno ragione».
Il giorno dopo la «Sollevazione generale» sono tutti effettivamente «sollevati», tanto tra le tende dell’acampada di Porta Pia quanto al Viminale. Niente di grave è successo, la manifestazione è stata grande ed è rimasta nell’alveo della contestazione lecita, i pochi che volevano andare oltre petardi e fumogeni sono stati respinti dal servizio d’ordine che cordonava gli spezzoni e la testa del corteo, mentre le forze di polizia hanno avuto un comportamento ineccepibile, con cariche solo di alleggerimento. Lo riconosce il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ringrazia non solo i 4mila agenti schierati ma anche e «di cuore» quella «parte larghissima dei partecipanti che si sono mostrati pacifici e anzi sono andati contro coloro i quali volevano andare contro le leggi». Per Alfano dunque «è andata molto meglio di quanto tante Cassandre sperassero». Poco prima, l’ex premier Mario Monti aveva avuto parole persino di stima per gli organizzatori del corteo antagonista davanti all’intervistatrice Lucia Annunziata: «È stata una manifestazione forte e per fortuna composta», ha esordito aggiungendo «quei ragazzi che vogliono avere un futuro hanno ragione».
Tra le tende sotto al monumento al bersagliere di queste manovre di palazzo non se ne sono accorti, non interessano. Ma le ragioni per un sorriso disteso ci sono tutte e persino più forti. «Abbiamo preparato il corteo per mesi e non potevamo permetterci che tutto il lavoro fatto venisse spazzato via perché qualche ragazzo voleva sfogare la propria rabbia e divertirsi. Ci siamo chiesti: ci conviene che finisca tutto come il 15 ottobre di due anni fa? Avere di nuovo l’opinione pubblica contro. No, noi non mandiamo le famiglie allo sbaraglio, le immigrate con i passeggini, e lo abbiamo chiarito in ogni sede». Chi parla è Barbara, dello sportello di Action, una delle tre gambe del movimento «per il diritto all’abitare» della capitale che ha organizzato, animato e protetto le ragioni della protesta. Le altre due gambe romane, quelle su cui poggia ora il presidio con le tende fino all’incontro con il governo di domani, sono lo storico Coordinamento di lotta per la casa e i Bpd, che sta per Blocchi Precari Metropolitani, gruppo nato nel 2007 tra disoccupati, immigrati, giovani precari, sfrattati, che hanno occupato immobili privati lungo l’asse della Prenestina. Roma è anche la capitale dell’emergenza abitativa, con 60mila senza casa. Ed è a Roma che si è tenuto il primo incontro nazionale su questo tema da cui è partita l’idea della «Sollevazione del 19 ottobre». L’incontro è stato il 2 giugno e poi ce ne sono stati molti altri a Napoli, Livorno, Milano, in Val di Susa, a Bergamo. Negli ultimi mesi, mentre il fronte si allargava ai NoTav e ad altri movimenti e cominciavano a serpeggiare anche idee più radicali e violente, è stato il movimento romano a ricondurre tutti a un obiettivo concreto: l’apertura, appunto, del tavolo con il governo.
Ieri mattina nell’assemblea plenaria tra gli igloo di tela, è stato Paolo Divetta, dei Bpd, ha ricordare gli obiettivi. Primo: l blocco degli sfratti per morosità. «Che sono sempre di più, ormai ci chiamano ache dai quartieri bene come Prati», racconta Barbara. Gli squat però non chiederanno al governo alcun nuovo piano di edilizia economica e popolare o come si voglia chiamare. Nessuna costruzione di nuovi palazzoni, magari oltre la cintura del «Sacro Gra». «Non vogliamo altri quartieri-ghetto, né altri favori ai palazzinari, hanno già costruito abbastanza dilapidando territorio, ci sono milioni di metri cubi di edifici sfitti, basta riqualificarli, se non sono capaci lo possiamo fare noi», dice Roberto, anche lui dello Sportello Action, che lavora a contatto con gli assistenti sociali, chiedendo l’Isee prima di inserire un nucleo familiare tra gli occupati. La Regione Lazio e il Comune di Roma hanno già tavoli aperti.
Ma gli squatter vogliono anche servizi, «reddito diretto e indiretto», come lo chiama Fulvio Massarelli del Laboratorio Crash di Bologna, del sito Infoaut, ala dura del movimento. E quindi spostamento di fondi dalle grandi opere come la Tav alle esigenze sociali che i Comuni da soli oltretutto con il taglio dell’Imu non ce la fanno più a sostenere. I mille asilanti eritrei arrivati da Lampedusa che l’altra settimana hanno occupato un palazzo vicino Termini, anche loro, dicono: «il nostro problema è comune: vogliamo un tetto». Il resto, dal no alla Bossi-Fini, diritto di transito per l’Europa, anche per loro viene dopo.

La Stampa 21.10.13
In tenda a Porta Pia contro euro e governo
“Siamo disperati”


Fernando, disoccupato di 52 anni, dice: «Il mio sogno è un gelato». Ha fatto il ferraio, il fabbro, ha lavorato nell’edilizia, in una fabbrica di gomma. È entusiasta che i giornalisti parlino con lui. Dice: «Domani compro La Stampa. Quanto costa?». Uno e trenta. «Eh, buonanotte. Io con un euro e trenta ci compro un chilo di pasta e il pomodoro e ci mangio quattro giorni». Dice di essere un esodato ma non ne ha chiaro il concetto. Ha contributi versati in Italia, Germania, Belgio. Fa lavoretti per la Caritas. «In cambio mi danno qualche soldo, qualche vestito. Così non devo andare a rubare». Vive in un appartamento occupato, «nove punto sette metri. Ma sono un privilegiato perché sono da solo e ho un televisore di trent’anni che funziona ancora bene».
I numeri
Alle 15.30 un ragazzo col megafono chiama a raduno i suoi, giovani dei centri sociali di Bologna e circondario. Saranno due o trecento. Vanno ai pullman. In piazza, davanti a Porta Pia e sotto al monumento al bersagliere, rimangono in poche centinaia. Hanno le tende, siedono sui cartoni. Ci sono bambini di ogni età. La più piccola si chiama Elisa e ha tre anni. Ragazzi ascoltano la musica e ballano, suonano strumenti a percussione, bevono birra italiana. Si gioca a pallone e si ascolta Tutto il calcio minuto per minuto. Due vecchi peruviani hanno piazzato una scacchiera su una cassetta di frutta. Ragazze puntellate di piercing si esibiscono con clavette, anelli e palle.
Jamal ha ventuno anni, i genitori eritrei ma è nato a Roma. Fa il meccanico per 850 euro al mese. «Abitavo in due stanze a 600 euro ma mi hanno sfrattato. Io e mia moglie eravamo sulla strada, allora ho preso il primo appartamento che ho trovato. Mille e 200 euro. L’ho lasciato subito». Adesso vive in occupazione. Qui sono rimasti soprattutto quelli dei comitati e delle associazioni per la casa. Gli altri stanno tornando verso le loro città, il loro mestiere. Alexandro ha 30 anni, è peruviano, abita a Monte Mario per 800 euro e 800 ne ricava dall’impiego di badante. «Viviamo coi soldi di mia moglie, che però è incinta. Fra tre mesi partorisce e per qualche tempo non so che faremo». Sua moglie è baby sitter. Ha appena finito di pulire una grande pentola in cui hanno cotto la pasta: sono venuti con bombola e fornello. Juan ha 35 anni, due figli di dieci e tre. Fa il muratore: «D’estate arrivo a guadagnare mille e duecento euro al mese, ma d’inverno il lavoro è poco, e ci sono dei mesi in cui non riesco a pagare l’affitto e il padrone dice che una volta o l’altra mi butta fuori». «La casa si prende», dicono gli striscioni. Oppure: «Occupamo perché non sapemo ’ndo annà». «Riappropriazione, sollevazione».
«No, non ti dico niente». Perché? «Non mi fido di te. Chi mi dice che sei un giornalista?». Ho la tessera. «E chi mi dice che la tessera non è falsa?». È una donna di colore, sulla quarantina, parla bene italiano. Arrivano altri: «Ti stupisci che non ti dicano il cognome? Dove abitano? Nessuno di noi è in regola. Io sono qui da 17 anni e vengo dal Sudamerica. Lavoro in nero a 600 euro. Se non lavoro quanto vogliono loro, se non dico signorsì, mi lascisno a casa e ne prendono un altro. La maggior parte di noi la casa l’ha occupata perché o paghi l’affitto e compri da mangiare a tua moglie e ai ragazzi. Io ho un figlio di 14 anni, vorrebbe le scarpe come i suoi amici. Gli ho detto: quanto costano? Cento euro, mi ha detto. Ma ringrazia il cielo se ti compro quelle da dieci».
Aspetteranno qui che arrivi qualcuno come se arrivasse la Madonna. Emilio ha 63 anni e un cartello addosso che dice «Euro assassino» ed «Europa usuraia». Fa il muratore. Peserà sessanta chili. Non lavora da tre anni. «Non ho i contributi, nessuno mi dà più niente da fare. Chiamano i rumeni che sono forti e si accontentano di due lire». Il ministro Maurizio Lupi è atteso fra due giorni. «Non mi aspetto che mi dica niente perché i politici non credono più in niente. Io non ero mai sceso in piazza prima di due anni fa. Vengo qui e cerco di essere dignitoso». Fino a ieri sera, a stamattina, c’era chi protestava per l’ambiente, chi per la scuola. Matteo ha 18 anni e viene da Ravenna. Ha una scopa e una paletta e con gli amici pulisce per terra. «La scopa l’abbiamo trovata qui, non sappiamo di chi sia. Ma non volevamo lasciare sporco». Dice: «Siamo venuti a Roma per cercare di trovare una sintesi fra le tante anime di questa piazza». Parla bene, Matteo, come un libro stampato. Spiega qual è la sintesi: «L’economia dev’essere al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio dell’economia».
Una soluzione ce l’ha Massimiliano. Ha 38 anni, vive a San Paolo fuori le Mura con la moglie, una figlia di 19 e una di due e mezzo. Lo stipendio è mille e due, non può permettersi l’affitto. «Hai mai sentito parlare di signoraggio? Sai meglio di me di che stiamo parlando. Basterebbero due decreti facili. Basterebbe l’emissione della moneta in mano allo Stato, che finanzierebbe politiche sociali e infrastrutture senza indebitarsi. Invece ci danno 14 euro. Ma che me ne faccio?». Si gira di scatto. Un urlo si è levato da sotto la statua del bersagliere: ha segnato Tevez.

Corriere 21.10.13
«Lavoriamo al bar e nei call center»
I ragazzi in tenda dopo la guerriglia «La nostra è rabbia, non violenza»
E citano il filosofo Agamben
di Fabrizio Caccia


ROMA — Ora si sono tolti i cappucci e le felpe nere, sono tornati ragazzi normali stesi al sole di Porta Pia, l’«Acampada» andrà avanti fino a domani e dalle vicine case occupate di via Goito arrivano piatti di pasta fumante al sugo, per alimentare la lotta e queste giovani vite bollenti di «gioia e rivoluzione». Domenica pomeriggio: «Ma chi credete che siamo, noi sotto queste tende? Forse i Sioux?», ti guardano un po’ sfottenti, i ragazzi del Movimento. «Il cappuccio è una difesa, la nostra è solo rabbia, la violenza è altrove, sta nei palazzi marci, si chiama capitalismo, brutalità del lavoro, false buste paga, nuovo schiavismo», racconta Karim, 25 anni, facchino marocchino della logistica di Bologna, con la maschera di Anonymous che adesso gli fa da cappello e lo ripara dai raggi. «Tra noi non ci sono buoni e cattivi, è inutile e sbagliato fare distinzioni», spiega Francesco, del Coordinamento romano di lotta per la casa.
Anonymous, già. Al massimo nomi ma niente cognomi. Movimento che nasce dal basso e rifiuta di farsi etichettare: No Tav, No Muos, No Expo, No Cave, No Tir... Aspettano i pullman per tornare a casa i torinesi di «Askatasuna», i milanesi del «Cantiere», i molisani per l’acqua pubblica e i pugliesi del «Garganistan», con la stella rossa dipinta sulle magliette. Ci sono anche tante ragazze tra loro, giovani donne arrabbiate che hanno letto i libri del filosofo Giorgio Agamben e ti parlano senza un dubbio dello «Stato d’eccezione», «ciò che per voi è illegale per noi è legittimo, capisci?» . I cassonetti incendiati, le bombe carta contro i finanzieri e la polizia, le vetrine sfasciate delle banche, i lanci di sassi e bottiglie: per loro è «conflitto», sono «pratiche di lotta», «assedio ai ministeri doveva essere e assedio è stato», rivendicano in blocco, in maniera convinta, ripensando ai disordini di sabato. «Fuckausterity», ecco un’altra parola d’ordine. E ancora: «Mutuo Soccorso», «Riappropriazione e sollevazione», «No a sgomberi e sfratti».
Insospettabili: «Noi siamo quelle che la mattina ti rispondiamo dai call center o ti serviamo il caffè al bar...», dice la ragazza che ha letto Agamben, bionda, romana e con due occhi dello stesso color del cielo che loro, adesso, tutti insieme, vogliono provare di nuovo ad assaltare, in quest’inizio di terzo millennio, cento anni dopo il movimento operaio di Pietro Secchia.
«Movimento che nasce dal basso e tale vuole restare, nelle valli e nei territori, senza leader e rappresentanti ufficiali — avverte Niccolò, del coordinamento universitari di Bologna —. Due anni fa, il 15 ottobre 2011, il corteo degli Indignados fu molto più violento di quello di ieri, ma perché quel giorno si volle mandare un messaggio preciso ai partiti e ai sindacati che se ne volevano appropriare. E il messaggio arrivò: infatti per strada stavolta eravamo soli...».
Ce l’hanno con la stampa, con i giornalisti, quelli di Occupy Porta Pia: «Cambiate le vostre parole — ammonisce Karim —. Soltanto così potrete cambiare le cose e anche il mondo. Avete riempito pagine e pagine parlando solo di scontri e di violenza, ignorando completamente la nostra lotta per la casa, il reddito minimo, la solidarietà ai 51 licenziati della cooperativa Sgb che lavoravano per la Granarolo. C’erano anche loro a sfilare, ma chi l’ha scritto di voi? Nessuno».
I disoccupati di Napoli, i migranti di Roma in lutto per i morti di Lampedusa. Il coro dell’Acampada è di assoluto rimprovero: «Alla vigilia, voi giornalisti, vi siete fatti impressionare dai proclami degli anarchici (“Noi siamo la bottiglia di nitroglicerina che vacilla sulla testa di uno spillo...”) e dai messaggi delle presunte Nuove Br. Ma non è questa la nostra lotta, non è la lotta che ci interessa».
Ora da qui non se ne andranno finché i palazzi romani non li avranno ascoltati. Sposteranno le tende nel parcheggio del ministero per non intralciare il traffico del lunedì mattina. E lì aspetteranno pazienti fino a domani, martedì, finché non li riceverà il ministro Maurizio Lupi e con lui parleranno finalmente di diritto alla casa. A Firenze, poi, la settimana prossima avranno un incontro anche con l’Anci e il ministro dell’Interno Angelino Alfano: sul tavolo la patata bollente delle occupazioni e del problema dell’accoglienza degli immigrati nonostante la Bossi-Fini. Il calendario è fitto d’appuntamenti: «Facciamo pressione sui nostri carcerieri, il 2 e 3 novembre ci rivedremo a Pisa, il 9 e 10 novembre poi si torna a Roma», annuncia un ragazzo sotto al monumento del bersagliere che ricorda la Breccia di Porta Pia. «Fare breccia», guarda caso, è anche il loro obiettivo. «Voi avete un approccio morale a un problema sociale, è questo l’errore — concludono Niccolò e i suoi amici stretti in cerchio attorno al cronista fuori dalle tende di Porta Pia —. Eppure è semplice la questione: è giusto stare con l’1% che ha tutto o col restante 99? Stare dalla parte dei poveri o di chi ha la pancia piena? Noi questa scelta l’abbiamo fatta».

Repubblica 21.10.13
Il racconto
“Ai black bloc non frega niente di noi ecco perché li abbiamo cacciati via”
Tra gli “acampados” di via Nomentana: loro la casa e la macchina ce l’hanno
di Corrado Zunino

HANNO deciso di stare ai patti, dopo aver registrato il successo del lungo corteo del sabato che ha attraversato lento e corposo il centro di Roma. Hanno attutito i guaiprevisti.
HANNO abbandonato alle imprese luddiste i violenti d’attitudine e i disperati crescenti (sempre più giovani, va registrato). Quelli di Porta Pia, i post-indignati, glioccupy per sempre, restano a presidio di una piazza simbolica, ma oggi non paralizzeranno il traffico della Nomentana. Hanno inviato i fax in questura: tredici tende e due gazebo restano ai piedi del ministero delle Infrastrutture, li hanno già spostati, però, nell’area parcheggio liberando l’incrocio.
Quelli di Porta Pia parlano sempre più ad alta voce di rivoluzione — «il giorno che non ci sarà polizia, il giorno che non ci sarà bisogno di un Parlamento e la politica la faremo tutti noi» —, ma tengono la luce accesa sull’obiettivo quotidiano. Sono riusciti a contenere i danni collaterali della marcia più pericolosa dell’anno, necessità primaria per sopravvivere, e, quindi, a portare all’attenzione del paese una questione sommersa eppure urgente: il problema della casa (di chi non ce l’ha, di chi l’ha occupata, di chi, ceto medio andato in pensione con 2 milioni e 800 mila lire e 400 mila lire d’affitto da pagare, ora che la pigione è passata a 1.200 euro al mese è in morosità e sotto sfratto). Quelli di Porta Pia, metà sono stranieri, africani, sudamericani, manovali dell’Est, si mettono in fila per la pasta al sugo con il pecorino preparata dalle madri delle organizzazioni. Leggono i giornali in tenda, commentano acidi lo spazio offerto agli assalti dei black bloc quando l’assedio del corteo voleva essere duro, non violento. Poi alzano lo sguardo verso gli interventi al microfono sul piedistallo della statua dei bersaglieri. Una ragazza, ha preso una manganellata durante le cariche all’Economia, racconta: «A quei centocinquanta che chiamano black bloc non glie ne frega niente di noi e delle nostre lotte, molti hanno casa, macchina e garanzie ».
Non erano solo centocinquanta, in verità. E molti sono sottoproletari urbani. Rivela ancora la ragazza: «Durante la manifestazione un poliziotto si è spostato dal suo contingente, mi ha preso da parte e mi ha detto: “In un’altra situazione ti avrei chiesto il numero di telefono”. Agenti, abbiamo bisogno di voi, venite a difenderci. Difendete i cittadini a cui hanno tolto i diritti». Metà piazza applaude, metà intona canzoncine sulla “malattia polizia”.
Lo scarto degli antagonisti dai luddisti questa volta c’è stato, in parte è riuscito. Il movimento dei movimenti — dicitura riecheggiata ieri, ma il copyright è del Casarini no global del 2001 — ci aveva provato due anni fa, a San Giovanni.Allora la carica rabbiosa fu prepotente, il numero dei casseur impressionante e chiara l’organizzazione dei centri sociali belligeranti. Due anni fa Askatasuna, ora al centro delle lotte No Tav, fu protagonista militare, ieri ha partecipato senza guidare nulla. Così il temuto Acrobax romano. A cinque attivisti fiorentini, ancora, la polizia ha consegnato il foglio di via al casello di Roma Nord, a corteo iniziato. «Io li ho visti in faccia, i vendicatori, quando hanno tirato giù le maschere », racconta Angelo Fascetti, storico leader dell’Asia, movimento romano per la casa. «Ho provato a parlare con loro, ma parlavo con un muro: c’era solo rabbia, voglia di spaccare». Andrea “Tarzan” Alzetta, fuori dal Consiglio comunale di Roma per le sue condanne da strada, fondatore di Action, racconta: «Abbiamo respinto le teste di c... perché qui c’è gente che lotta per cose concrete ».
Sul piano formale il movimento deve restare unito, e allora «non ci sono buoni e cattivi tra noi». Oggi, dopo le prime solidarietà sotto il carcere di Regina Coeli, ci sarà un presidio rumoroso in piazzale Clodio, dove i pm si sono presi 48 ore per valutare le prove offerte dalla polizia per i sei arrestati (tre donne, un cinquantenne anarchico di Genova, poi un sedicenne denunciato). Uno dei sequestri è la mappa con il percorso e i tre obiettivi per l’assedio (ministero Finanze, Cassa depositi e prestiti, ministero Infrastrutture) trovata in una tasca, ma quella fotocopia è stata distribuita a tutti i corteanti alla partenza di piazza San Giovanni.
Una nuova manifestazione, sempre a Porta Pia, è stata convocata per domani, un’ora prima dell’incontro alle Infrastrutture con il sindaco Marino e il ministro Lupi. Le richieste «non sono negoziabili »: blocco degli sfratti e della vendita del patrimonio pubblico, un piano di politiche abitative pubbliche, no alle grandi opere e ai grandi eventi, ritiro della Bossi-Fini e cittadinanza per i rifugiati. Gli antagonisti si infilano tra le contraddizioni delle larghe intese al governo. Il movimento assedierà a Firenze il ministro dell’Interno, Angelino Alfano (tra il 24 e il 26 ottobre), e organizzerà una nuova assemblea a Roma il 9 e 10 novembre. «Porta Pia è stato l’inizio, l’assedio continua, è l’ora della vendetta».

Repubblica 21.10.13
L’attore: mi è sembrata una manifestazione tranquilla, con tanta gente che aveva la metà dei miei anni
Celestini: “Sto dalla parte degli antagonisti gli scontri? Era un corteo non una passeggiata”
intervista di Francesca Giuliani

ROMA — Ascanio Celestini, lei ha partecipato alla manifestazione di sabato: quali sono state le sue impressioni?
«È stata una bella manifestazione, grande, tranquilla. Ero con due miei amici. C’era tanta gente che aveva la metà dei miei anni. Ci siamo sentiti un po’ dei vecchietti».
Gli scontri temuti non sono mancati. Li ha visti?
«Io mi sono spostato tra la parte centrale e la coda del corteo: quando siamo arrivati all’altezza di Casa-Pound ho notato tanti che guardavano in una stessa direzione. Ho sentito qualche petardo, un po’ di puzza nell’aria. Ma poteva essere di tutto».
Dall’interno del corteo c’è stato chi ha tentato di bloccare i violenti: video e foto di giornata lo documentano. È come dire che i buoni sono riusciti a isolare i cattivi?
«Ho visto, per esempio, video e foto di persone chine in terra. Se qualcuno dice: “Stanno prendendo dei sampietrini”, io non posso sapere cosa stessero facendo davvero in quel momento ».
Ma gli scontri li abbiamo visti tutti.
«Io non li ho visti»
Sa che alcuni fermati saranno processati?
«È successo altre volte: li prendono,poi magari li accusano per devastazione e saccheggio. Capi di imputazione che hanno senso se radi al suolo un quartiere. Ma se dai fuoco a un bancomat magari può essere vandalismo».
Il ministro Alfano ha parlato di “forze dell’ordine” contro “forze del disordine”. Che ne pensa?
«Una manifestazione non è una passeggiata. È l’espressione di unaprotesta, contiene della rabbia. Quello di Alfano mi sembra uno slogan, un modo di semplificare».
Ma sintetizza una verità?
«La sera prima del corteo sono stato a San Giovanni, a salutare gli “attendati”; sono stato anche a Porta Pia, un luogo storicamente carico di significato anche se, chi l’ha scelto, lo ha fatto perché lì ci sono la sede delle Fs e del ministero delle Infrastrutture. Conosco bene i No Tav, i No Muos, i No dal Molin: con loro in estate ti puoi fare tre mesi di campeggi, e discutere».
Archiviamo i cortei? Dice che hanno fatto il loro tempo?
«Può essere bello considerare altre forme di protesta. In un’assemblea puoi capire molto di più di un problema. Certe manifestazioni, se precedute da troppa stampa, da tanta ansia per i cittadini, diventano una scocciatura e dei problemi non si parla nemmeno più».

l’Unità 21.10.13
I bambini invisibili
Sono i piccoli migranti con le loro tragedie
In un saggio le vite di piccoli cittadini stranieri traumatizzati e spaventati che si ritrovano nel nostro Paese privi di assistenza
di Manuela Trinci

Psicoterapeuta dell’infanzia e adolescenza

«NON ANDIAMO CON LA STESSA BARCA PERCHÉ SPESSO LE BARCHE AFFONDANO, E UNO DI NOI DEVE SOPRAVVIVERE PER RACCONTARE DELL’ALTRO, PER RACCONTARE DI NOI». questo aveva detto ad Alì il suo compagno di avventura al momento della partenza per Lampedusa. Da questa frase, oggi più che mai drammaticamente vera, addirittura in attesa come siamo di un «cimitero per i migranti», Giancarlo Rigon e Giovanni Mengoli hanno voluto scrivere un saggio di straordinaria limpidezza narrativa che nulla concede al vuoto sensazionalismo della contemporaneità, focalizzando piuttosto l’attenzione su alcune «vite» di ragazzini, cittadini stranieri, che si trovano nel nostro paese privi di assistenza e rappresentanza da parte di genitori o di altri adulti legalmente responsabili per loro. «Minori stranieri non accompagnati» si definiscono e in Italia, nel 2012, ne sono stati segnalati 7.575 dei quali molti sono poi spariti, vittime di quella «invisibilità» che li caratterizza sino dal loro arrivo. Così, con semplicit-à e immediatezza, nel libro Cercare un futuro lontano da casa. Storie di minori stranieri non accompagnati (pp. 120, euro 10, Edb) si raccontano le tragedie e le speranze di alcuni ragazzini, appena adolescenti.
Diciamo subito che non sempre sono storie a lieto fine. Alcune sono storie ancora senza fine e comunque sono storie che iniziano male, in luoghi sfortunati e proseguono a stento: tra pericoli, ferite, cadute, miserie, separazioni e tradimenti, fughe e inciampi. Sono storie epiche per loro: piccoli eroi senza volerlo. Perché è vero che sono miracolosamente vivi, però non sono illesi. Se avessero voce, se non fossero «invisibili», chiederebbero solo il rispetto del diritto di asilo politico e il riconoscimento dell’identità, indispensabili per crescere. Invece loro, che hanno fra i dodici e i sedici anni, hanno il terrore di compiere quei diciotto anni che segnano il passaggio a una condizione giuridica differente: da minori passeranno a essere solo stranieri!
Provengono da terre dove soffiano venti di guerra oppure dove disperazione degrado e miseria non danno speranza. Hanno calli nelle mani e una falsa furbizia negli occhi, magari sono già passati dalla prigione o hanno vissuto nei campi profughi o combattuto, a forza, nelle milizie islamiche. Scappano dai guardiani della fede, da dittatori sanguinari, da famiglie spezzate e rase al suolo dalla cieca barbarie dell’odio. Scappano e viaggiano talvolta anche aggrappati a due tavole di legno tra le ruote di un tir, o nascosti per giorni tra frutta e verdura, o semiassiderati in celle frigo. Odissee. Cercano nell’Europa, una terra, un paese, dove stare tranquilli, dove nessuno ti fa morire e ti fa del male e dove magari, lavorando, si possono persino mandare i soldi a casa, a chi è rimasto. Si chiamano Mehdi, Ahmed, Alì, Arif, Hamin, Bledar, Irina, Mohamed, Tarik e Mudassar, ma una volta in Italia, per loro, inizia un altro viaggio, verso l’integrazione in un paese ignoto. E questo secondo viaggio è contrassegnato da ostacoli di tipo diverso, sgambetti burocratici e non solo..., certo non meno insidiosi, come commenta anche Giannantonio Stella nella sua rigorosa prefazione. E se al loro fianco ci sono gli educatori delle comunità che, oltre e al di là degli ingiusti tagli economici, continuano a svolgere il loro cruciale compito, le conseguenze di tanti patimenti si fanno sentire. Non di rado i ragazzini di giorno si tagliano per dar nome a quel cumolo di sentimenti che preme dentro e la notte gridano urli di guerra oppure proprio non dormono, perché hanno visto che, nella traversata verso Lampedusa, chiunque si addormentasse veniva gettato in acqua, per alleggerire la carretta del mare.
In più, in questo imperdibile libro, alle storie narrate seguono commenti autorevoli: da Ballerini, a Prodi, da Lerner a Zampa a Frascaroli, Giovannini, Guerra, Milano e ancora Spadafora.
Voci di denuncia per far da coro a piccole biografie, che nulla hanno da invidiare a Remì, il trovatello di Senza famiglia, o a Marco, il bambino che traversò Dagli Appennini alle Ande per raggiungere la mamma malata. Un libro, dunque, uno scritto per lasciare traccia di queste vite ignorate, e per pensare che una via d’uscita è possibile sempre che gli sguardi di tutti non si voltino dall’altra parte e non ci si rassegni all’idea che tutto questo scempio sia perfettamente normale.

l’Unità 21.10.13
CGIL, CISL E UIL
Oggi la decisione su come mobilitarsi
di Massimo Franchi

Un vertice a tre per decidere come mobilitarsi. Molto difficile che sia uno sciopero generale, molto probabile che sia un primo presidio davanti al Parlamento e una seconda grande manifestazione nazionale in un sabato di novembre. Se Cgil e Uil spingono per una mobilitazione più forte, la Cisl è più morbida e sottolinea «l’inversione di tendenza contenuta nella manovra».
Alle 9 nella sede Uil di via Lucullo si terrà l’incontro Luigi Angeletti, Susanna Camusso e Raffaele Bonanni: discuteranno di come mobilitarsi contro la legge di stabilità. L’obiettivo numero uno dei sindacali confederali è quello di modificare profondamente il disegno di legge uscito dal Consiglio dei ministri di martedì. Per questo Cgil, Cisl e Uil hanno
già aperto i canali di comunicazione con i partiti per mettere a punto emendamenti condivisi. Il primo punto è quello di un forte aumento degli stanziamenti per ridurre il cuneo fiscale.
Internvendo al Tg1 Angeletti ha spiegato: «Decideremo le forme di lotta più idonee. Non escludiamo nulla, neanche lo sciopero generale». Molte le sollecitazioni arrivate dalle federazioni. Se Maurizio Landini (Fiom) ha chiesto espressamente uno sciopero generale, rinnovando la richiesta a Fim e Uilm di proclamarlo per i metalmeccanici, anche i pensionati, categoria più colpita dalla manovra, preparano la mobilitazione, chiedendo una rivalutazione completa per le pensioni sotto i 3mila euro.

Corriere 21.10.13
Le donne di «Se non ora quando» e la legge contro la violenza
«Cittadine anche fra le mura domestiche»

Caro direttore,
con l’approvazione della legge contro la violenza sulle donne è accaduto un piccolo grande rivoluzionamento nella cultura del nostro Paese. Finalmente, attraverso l’introduzione di nuove norme, si definiscono per la prima volta e si puniscono con più severità le violenze compiute entro le mura domestiche da chi ha vincoli familiari o affettivi con la vittima. Basterebbe questo risultato a considerare questa legge una vittoria importante non solo delle donne ma della coscienza civile del Paese. Vogliamo ricordare a quanti sembrano dimenticarlo o sottovalutarlo che considerare reati e per di più gravi le violenze compiute da mariti, amanti, fidanzati spazza via il vergognoso alibi dell’amore e rende chiaro a tutti il vero significato di questi atti: sono intimidazioni, ritorsioni, vendette compiute da uomini che non riescono a sopportare abbandoni e rifiuti, che non riescono ad accettare la libertà di donne che dicono «non sono una tua proprietà». Finora le donne non avevano alcuna certezza che la loro libertà sarebbe stata garantita dalle istituzioni dello Stato democratico, che la loro dignità di cittadine sarebbe stata assicurata anche nell’ambito delle relazioni familiari e affettive. Troppe le resistenze che si opponevano a farvi entrare il diritto. Ora le donne vedono riconosciuta la loro cittadinanza anche dentro casa. Hanno una sicurezza in più. E proprio perché l’impianto della legge ha a suo fondamento la difesa della libera volontà ad essa si accompagna il dovere della responsabilità: la irrevocabilità della querela (per situazioni particolarmente gravi) discende direttamente dal fatto che, nella legge, la vittima è vista come un soggetto libero e pienamente responsabile delle proprie azioni. E questo sarebbe paternalismo, negazione della libertà femminile, manifestazione di una logica securitaria? Si può argomentare che la legge è paternalistica, che pretende di tutelare le donne deboli, ecc., a condizione di condividere una visione antistituzionale, o radicalmente liberale, secondo la quale le donne sono fuori o sopra o di fianco, ma comunque estranee alla legge e la loro libertà non ha nulla a che vedere con la polis. È una posizione legittima, anche se abbiamo dovuto prendere atto che non ha portato risultati positivi per le donne italiane. Ma volere tante donne nelle istituzioni e poi combattere aspramente un provvedimento che reca comunque la loro impronta — come testimonia il largo numero di donne di ogni orientamento che insieme a tanti uomini si sono battute per migliorarlo e approvarlo — è segno di incomprensione o di pregiudizio ideologico. A questo riguardo conviene ricordare che tutte le leggi che hanno cambiato la vita delle donne italiane (dal divorzio al nuovo diritto di famiglia all’aborto) sono state varate con l’accordo formale o informale di donne e uomini appartenenti a schieramenti politici e a culture diverse. Per rendere efficace una legge, cioè tradurla nella concretezza della quotidianità, occorre infatti che ci sia condivisione e largo consenso in tutti i soggetti che devono applicarla, ad esempio, per quanto riguarda la 1079, dai poliziotti ai giudici, da chi gestisce i centri ai media.
Se non ora quando-Libere
(Antonella Anselmo, Anna Carabetta, Rita Cavallari, Cristina Comencini, Licia Conte, Antonella Crescenzi, Ilenia De Bernardis, Fabrizia Giuliani, Francesca Izzo, Donatina Persichetti, Fabiana Pierbattista, Annamaria Riviello, Simonetta Robiony, Serena Sapegno, Sara Ventroni)

il Fatto 21.10.13
Pippo Civati:  “Il Pd in Sicilia a chi offre di più”

La campagna di Sicilia sta portando frutti amari a Pippo Civati, candidato outsider alla segreteria del Pd. “Se va avanti così dice lui da Palermo -, quaggiù non avrò neanche uno dei miei eletto negli organi territoriali: altro che rottamazione, sempre di stare alla Targa Florio”.
Cioè alla corsa d’auto (d’epoca), amarcord delle vecchie astuzie politiche, col guizzo sempre tonico del gattopardismo.
Civati ieri s’è sentito dire da Gandolfo Librizzi, componente del comitato per il congresso siciliano del Pd, che non si è riusciti a votare in diversi circoli cittadini: “I responsabili hanno le tessere in mano, ma non i pagamenti dei neo iscritti spiega Librizzi -. Quindi l’iscrizione non è perfezionata, e non si può calcolare il bacino dei tesserati né il numero dei delegati che ogni circolo deve scegliere per il congresso provinciale. S’è bloccato tutto”.
Civati, che succede?
Già qualche giorno fa, a Catania, ho battuto sulla nota dolente: pacchetti di tessere comprate a migliaia, iscrizioni improvvise che spingono le correnti storiche e tagliano la strada alle candidature alternative.
Cioè a lei. Non sarà che ognuno porta acqua al suo mulino, semplicemente?
Guardi, il mio al massimo è un mulino a vento, una guerra senza speranza. Lo dico più da elettore del Pd che da candidato alle primarie: davvero non possiamo aver perso mesi e mesi a inventare regole, regolette e regolamenti astrusi per scoprire che i vecchi metodi stravincono sempre.
I responsabili locali del partito dicono che in Sicilia è tutto regolare, che lei non ha prove sulle “tessere prepagate”.
Se vogliono prove possiamo anche dargliele.
Che fa, minaccia?
Macchè minacce, io mi limito a fare la solita profezia nefasta: se nel voto degli organi locali il successo delle correnti più forti sarà massiccio, e poi invece alle primarie il risultato verrà diverso, nessuno avrà dubbi su come funziona ancora oggi il Pd. E mica solo in Sicilia.
Alla sua denuncia ha risposto qualche big del partito?
No.
Neanche una telefonata per dire che si farà qualche verifica in più?
No.
Del redivivo Crisafulli che si dice nel Pd siciliano?
Mah, non riesco a capire come una persona che lo scorso febbraio era in-candidabile ora possa tornare in corsa.
Un ex senatore è sempre un ex senatore.
Ho capito. Ma se noi andiamo avanti a dire che dobbiamo rottamare tutto, e poi invece le facce sono sempre le stesse, come pensiamo di convincere gli italiani a votare per noi?

l’Unità 21.10.13
Civati: «Voglio un Pd in cui ci sia anche Sel. E con volti nuovi»
Il candidato alla segreteria del Pd: «Una lunga storia di delusioni ha allontanato gli elettori dal campo del centrosinistra, quello che voglio ricostruire»
«Mi lascia stupefatto scoprire che D’Alema proponeva Rodotà premier, proprio come me»
intervista di Natalia Lombardi

«È la mia ossessione». Quale? «Quella del protagonismo degli elettori, perché abbiamo un grande elettorato e un piccolo partito, invece dobbiamo aprirci di più, dice Pippo Civati, classe 1975, candidato alle primarie del Pd. Il suo slogan è «Le cose cambiano, cambiandole». Giovedì presenta a Roma al Teatro Vittoria la squadra e il programma. Civati, quali sono i punti cardine della sua mozione?
«I contenuti sono quelli del mio manifesto, il fulcro è quella che chiamo l’ossessione del protagonismo degli elettori del Pd. Perché una lunga storia di delusioni ha allontanato gli elettori dal campo del centrosinistra, quello che voglio ricostruire. Voglio un partito in cui ci sia anche Sel, come avevamo promesso in campagna elettorale. Sono quattr’anni che faccio notare l’opportunità che questi movimenti hanno per il Pd, non sono stato ascoltato, spero di esserlo dal 9 dicembre in poi».
Invece si è fatto il governo con il Pdl...
«Ecco, abbiamo ritirato la parola d’onore data agli elettori. Nella carta d’intenti c’era tutto il contrario di quello che abbiamo fatto, non solo per opportunismi e errori, ma questi ci sono costati parecchio nei confronti degli elettori». Di quali opportunismi parla?
«Be’, l’episodio dei 101 è quello più monumentale... E poi leggere che D’Alema dice le stesse cose che dicevo io, ma non erano pubbliche, è incredibile, se è vero. Bersani dice di no. Allora ero considerato un dissidente perché chiedevo che si provasse a cambiare gioco, e adesso scopro che D’Alema, il più lontano da me, dice le stesse cose...». Quando D’Alema suggerì a Bersani di proporre Rodotà come premier?
«Ma sì, io lo chiamavo il piano C, trovare un premier che non fosse Bersani per fare un governo del presidente con una maggioranza diversa. Abbiamo cercato di farlo, altri volevano altre cose e le hanno ottenute, ma se durano all’infinito non saranno un successo per il centrosinistra».
Sarebbero le larghe intese?
«Già, ora tutti fanno la Dc con i voti degli altri, Mario Mauro con i voti di Monti, Alfano con quelli di Berlusconi. l’ho scritto nel blog... Anni fa si chiamavano ribaltoni. Certo mi impressiona che questo congresso non affronti con determinazione la difesa del bipolarismo, il confronto sinistra-destra, un ritorno all’esercizio della democrazia con una nuova legge elettorale. Renzi dice: ve lo dico dopo. E perché? Io lo dico subito quale legge voglio».
Ecco, quale legge?
«Si deve ripartire da uno schema simile al Mattarellum, perché dia governabilità più sicura».
Anche Letta vuole il Mattarellum... «Bene, per una volta siamo d’accordo». A proposito di Letta, che ne pensa della legge di stabilità?
«È la Stabilità delle larghe intese. Non si può neppure rimproverare a Letta se è un po’ poco. Certo che ci sono poche risorse sul cuneo fiscale, ma abbiamo fatto un casino con l’Imu... Si può cedere un po’ meno, ma con un governo di questo tipo non puoi fare molto». Pesa sempre la minaccia di crisi legata alle questioni giudiziarie di Berlusconi. «Certo se avessimo una destra ricompo-
sta, tipo quella della Merkel, potremmo fare delle politiche di eguaglianza, vicine a noi, e più liberalismo da destra moderna. Io voglio un governo politico, ma qui i nuovi leader europei sono Giovanardi, Formigoni e Alfano. Sono in difficoltà. Poi si contagiano, ora anche Mauro vuole salvare Berlusconi». Torniamo al Pd: lei viene dato quasi a parimerito con Cuperlo, che pure è sostenuto da D’Alema e Bersani. Come si sente? «Mi sento bene. Ho dovuto prendere posizioni dure anche per me, che non sono uno spregiudicato, senza riferimenti a nessuno... Ho raccolto il disagio e un bisogno fortissimo di cambiamento nel Paese, ma è un bisogno senza una “casa”. Dovremmo darla noi. C’è un’urgenza determinata dal disagio sociale ma anche dal mondo che sta cambiando. Ecco, sia la sofferenza che la speranza che abbiamo negato sono elementi che sostengono la mia sfida».
Lei fa riferimento soprattutto ai giovani?
«I giovani che ho visto dappertutto hanno votato Grillo, anche quelli vicini a noi. Certo vorrei che i nostri interlocu-
tori fossero loro. Nella mia mozione insisto sulla prospettiva globale del cambiamento. Larghe intese...planetarie». Renzi dice di non volere correnti nel partito. Come immagina il Pd? Ci sarà spazio per le minoranze?
«Sono stato in Sicilia e, più che la rottamazione, ho visto delle auto d’epoca restaurate sapientemente... Che con Renzi, sospettato di sostituire Letta, ci siano quei parlamentari che sostengono Letta, mi sembra strano. Che quelli che chiamava “disastro e vicedisastro” stiano con lui è incredibile...».
Chi sono?
«Veltroni e Franceschini. Io propongo la sostituzione come nel calcio, un gruppo dirigente innovativo. Sarà un cambiamento democratico, se vincerò». Ha denunciato delle tessere «in bianco» a Catania, iscritti a loro insaputa.
«Le tessere si fanno di persona personalmente, come dice Camilleri. Se da 50 iscritti in un circolo diventano 400 c’è qualcosa che non va, o tessere pagate in anticipo... o 10 circoli in un posto solo. Se me lo spiegano magari lo capisco. Ai miei ho detto di non fare così». Quali sono i suoi nomi nuovi?
«A Testaccio giovedì ci saranno Elly Schlein, ventenne che ha fatto l’OccupyPd e uno come Walter Tocci; poi amministratori locali come Mirko Tutino, che ha spento l’inceneritore di Reggio Emilia; o l’economista Filippo Taddei, giovane, bravissimo, poi Salvatore Tesoriero con cui stiamo elaborando il complesso problema delle carceri. Ecco, nomi nuovi per fare una sinistra». Un Pd collocato nel Pse?
«Sì, ma andrei più in là. Vorrei il Pse aperto all’alleanza dei progressisti, sull’idea dell’Ulivo. Usciamo dal dibattito sulle etichette, possiamo interloquire con i Verdi e la sinistra, e vorrei conservare la linea che va da Prodi a Delors. E poi dovremo proporre temi forti, come il reddito minimo, avere più coraggio su alcuni temi, ecco».

La Stampa 21.10.13
Mario Monti risale in politica
“Questo è il governo del disfare” L’ex premier esce dal silenzio e attacca Letta: “Inginocchiato di fronte al Pdl”
Inginocchiandosi di fronte al Pdl per tagliare l’Imu, l’esecutivo ha scelto di non fare
una manovra adeguata sul cuneo fiscale
Il governo è minacciato dal Pd che è una variabile perturbata e dal Pdl che fa diktat: certe volte si scrive Letta e si legge Brunetta
Dopo la manifestazione di Roma
Quei ragazzi vogliono un futuro, vogliono una società più equa, hanno ragione Queste cose dovrebbe farle la politica

Corriere 21.10.13
Monti: governo succube del Pdl, si scrive Letta e si legge Brunetta
«C’è chi si posiziona col navigatore». Casini: così sei diventato premier
di Marco Galluzzo

ROMA — «Tutto è condizionato da Berlusconi, dalla sua posizione». E fosse solo questo. La conseguenza è che «il governo Letta è inginocchiato al Pdl, tanto che spesso» le misure «si scrivono Letta, ma si leggono Brunetta». E a proposito di ginocchia: l’attuale ministro Mario Mauro, presunto traditore, «venne da me in ginocchio pregandomi di prenderlo».
Mario Monti viene intervistato nel corso della trasmissione In mezz’ora . Dice di tutto e in modo non sempre pacato, almeno nei contenuti. Nel mirino c’è il governo, che dovrebbe durare «cinque anni, che ha il miglior premier possibile», ma poi «per il predominare di Pd e Pdl è diventato il governo del disfare alcune riforme fatte in passato».
Una critica che si porta dietro un’analisi: «Tutto è condizionato dalla posizione del senatore Berlusconi. D’altra parte dopo che varammo la legge Severino, Alfano alla Camera ritirò la fiducia alla politica economica del mio governo». Senza un contratto di coalizione chiaro, prosegue l’ex premier, accadrà in futuro quello che è successo per la manovra, con Letta che sull’Imu «si è inginocchiato al Pdl, con la conseguenza di una manovra non adeguata sul cuneo fiscale e facendo aumentare l’Iva». Insomma Letta sarà anche bravissimo ma secondo Monti sta sbagliando tutto, a cominciare dai fondamentali. Misure errate e senza riforme strutturali.
Nonostante il caos interno a Scelta civica c’è ancora più di una chance che alla fine il gruppo del Senato resti in piedi, «alcuni di quegli undici senatori che hanno messo la firma su quella dichiarazione mi hanno detto di loro iniziativa in queste ore che non intendono assolutamente seguire gli altri su due cose: voteranno per la decadenza di Berlusconi e non vogliono un gruppo con l’Udc».
Lui, Monti, fa capire che voterà, quando arriverà il giorno, per la decadenza di Berlusconi: «Per me la votazione è sull’applicazione di una legge approvata un anno fa e che allora non fu contestata, non è un giudizio su una persona. Qui vediamo se in Italia c’è o no lo Stato di diritto». Detto questo, «se venisse usata la grazia per Berlusconi io non mi scandalizzerei».
La spaccatura interna a Scelta civica ovviamente tiene ancora banco e l’ex premier, ovviamente con ironia, fa notare che trova «strano che Mauro e Casini criticano Scelta civica per un non sufficiente appoggio al governo e vanno verso coloro che lo minacciano davvero». Ovvero, a detta di Monti, verso l’aria di centrodestra. «Chi minaccia la stabilità del governo? È ridicolo dire che sia Scelta Civica. Piuttosto è minacciato dal Pd che, in questa fase precongressuale, è una variabile indipendente; e dal Pdl che fa continui diktat, tanto che spesso si scrive Letta ma si legge Brunetta».
A stretto giro la risposta di Renato Brunetta, «troppa grazia senatore Monti, troppa grazia. Forse il suo giudizio su Letta-Brunetta è condizionato dalla sua recente e fallimentare esperienza di governo. Le coalizioni sono sintesi di programmi, sensibilità e rappresentanze. Richiedono la fatica del giorno per giorno, ma anche la capacità di visione. Giorno per giorno e visione che facciamo fatica a vedere in lei e in quel che resta del suo movimento».
L’ex premier aveva anche ironizzato a I n mezz’ora sui «politici che hanno in mano il Gps, il navigatore, per vedere dove posizionarsi». Ma Pier Ferdinando Casini, intervistato dal Tg5, sostiene che «è stato lui a servirsene per andare a Palazzo Chigi» e definisce «doppia morale» appoggiare il governo e «sottoporlo ogni giorno a una gragnuola di critiche». A Monti risponde anche Mario Mauro: «Letta inginocchiato al Pdl? Monti è lontano dalla realtà sul governo come su tutto il resto. Il governo sta salvando l’Italia dal baratro e noi vogliamo contribuire a rafforzarlo, senza un bombardamento quotidiano di critiche. Se anche Monti converge sull’ipotesi di creare il Ppe in Italia ben venga: stia tranquillo, le pulsioni populistiche del Pdl non ci interessano».

Corriere 21.10.13
Pd, i candidati si dividono anche sulla legge elettorale
La spinta del sindaco. Cuperlo: non si fa a spallate
di Ernesto Menicucci

ROMA — «Renzi? Adesso faccia il sindaco di Firenze, poi da grande deciderà cosa fare. Non si possono avere due ruoli». Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria del Pd, «stuzzica» il rivale Matteo Renzi. Niente alleanze, per ora, anche se ammette che «l’unico ticket da scongiurare è quello sanitario...». È un botta e risposta a distanza, quello tra i due principali — stando ai pronostici della vigilia — duellanti. Il vecchio e il nuovo a confronto? «Non mi sento così. In campo ci sono idee e progetto per il Paese», insiste Cuperlo. Che aggiunge: «Segretario e premier? «Per quanto mi riguarda no, sono separati».
Una sfida nella quale, al momento, non ci sono possibili intese. Lo dice Renzi, in un’intervista all’Unità («parlarne adesso è prematuro, ma voglio davvero rottamare le correnti», il pensiero del sindaco di Firenze), e lo ribadisce Cuperlo: «In Italia, e nella sinistra, c’è il vezzo di anticipare l’esito delle competizioni: faremo una bella discussione, non solo sulle persone ma anche sulle idee, e credo ci siano diverse correnti». Il deputato pd, però, aggiunge: «Il congresso è appena iniziato e mi fa piacere che ci sia un clima sereno e di stima reciproca con Renzi».
Uno dei punti in discussione è la legge elettorale. Renzi, coi suoi parlamentari, accelera per superare il Porcellum, andare verso il doppio turno e «fissare» il concetto del bipolarismo («se vinco io, mai più larghe intese: anche da noi ci sono nostalgici del grande centro», ha ribadito anche ieri), Cuperlo sembra frenare: «La legge elettorale va cambiata, perché è un impegno morale con gli italiani, ma non lo si può fare a spallate e colpi di maggioranza: serve una condivisione più ampia di quella che sostiene il governo». Sull’impostazione di fondo, però, i due avversari sembrano d’accordo: «Va restituita ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti, e la sera delle elezioni bisogna sapere chi ha vinto. No a operazioni neocentriste, dalla frontiera del bipolarismo non si torna indietro». Mentre la legge di Stabilità, secondo Cuperlo, va migliorata su «pensioni, specie quelle d’oro, esodati e politiche sociali».
Il clima congressuale, comunque, si surriscalda un po’ ovunque. In Sicilia, Pippo Civati denuncia la presenza di «cinquemila tessere in bianco», mentre anche nella Capitale sono partite le votazioni nei circoli per eleggere il segretario del Pd Roma che, nei difficili rapporti tra partito e Campidoglio, dovrebbe fare da «contraltare» a Ignazio Marino. In campo quattro sfidanti: Lionello Cosentino, appoggiato da Goffredo Bettini; il bersaniano Tommaso Michea Giuntella (era uno dei quattro della famosa foto col pugno chiuso vicino all’ex segretario), il renziano Tobia Zevi (nipote di Tullia) e la civatiana (e ricercatrice) Lucia Zabatta. Le votazioni andranno avanti fino al 2 novembre, ma è anche probabile che — alla fine — nessuno dei quattro superi il 50% dei consensi tra gli iscritti, necessario per vincere al «primo turno». In quel caso, deciderebbe il voto dell’Assemblea del partito, dove scatterebbe il gioco di alleanze tra le diverse componenti. E non è detto, a quel punto, che chi entra Papa in conclave non finisca per uscirne cardinale.

La Stampa 21.10.13
Pdl senza Silvio?
Briatore: «Anche io voterei Matteo»

«Matteo Renzi in questa situazione prenderà molti voti. E se Berlusconi non è più in Forza Italia io stesso voterò Renzi». Lo ha detto Flavio Briatore, ospite di Maria Latella su Sky Tg24. «Bisogna ha affermato capire cosa farà Berlusconi se sarà ancora il leader. Gli altri, senza di lui, non prenderebbero il 3%».

Corriere 21.10.13
Briatore: se non c’è Silvio voterò sicuramente Renzi

«Matteo Renzi in questa situazione prenderà molti voti. E se Berlusconi non è più in Forza Italia io stesso voterò Renzi e non il Pdl». Lo ha detto Flavio Briatore, ospite ieri di Maria Latella su Sky Tg24. «Bisogna capire — ha detto — cosa farà Berlusconi, se sarà ancora il leader. Gli altri, senza di lui, tutti assieme non prenderebbero il 3%». Briatore ha poi criticato i cosiddetti «ministeriali» del Pdl: «Berlusconi, dopo tutto quello che fatto, nel momento di debolezza l’hanno pugnalato alle spalle. Alfano, che ha la sindrome del delfino, lo ha pugnalato. Questi non vogliono le elezioni perché sanno che sono finiti». L’imprenditore ha poi sottolineato anche come «in Italia non esiste meritocrazia, i soliti noti partecipano e i politici gli danno una mano. Manager che fanno danni alle ferrovie e poi li mandano all’Alitalia e rovinano pure quella e gli diamo soldi per mandarli via».

Corriere 21.10.13
Voto segreto o palese, la Giunta in bilico
L’offensiva di Alfano Il vicepremier: Severino non retroattiva
di Virginia Piccolillo

ROMA — Appuntamento al 29 ottobre. Il primo step in cui verrà di nuovo affrontato il destino politico del senatore «decadente» Silvio Berlusconi, in attesa che i due anni di interdizione comminati sabato dalla Corte d’appello di Milano vengano accettati dalla difesa o sottoposti al vaglio della Cassazione, sarà la riunione di quel martedì. Giorno in cui la giunta del Regolamento del Senato dovrà discutere se il voto in aula sulla applicazione della legge Severino al caso del Cavaliere, condannato il primo agosto a 4 anni per frode fiscale, dovrà essere palese o segreto: il primo previsto per questioni di cariche o composizioni parlamentari, il secondo imposto per votazioni relative alla persona come la richiesta di arresto.
È l’ultimo inceppo procedurale nel cammino dell’applicazione di quella norma sulle «liste pulite» votata come «immediatamente» esecutiva da Pd, Pdl e Scelta civica nella scorsa legislatura. Ma rinnegata dal Pdl che anche ieri con Angelino Alfano avvertiva: «Oggi la questione centrale è la enorme sproporzione, inaccettabile, tra i due anni stabiliti dai giudici di Milano e i sei previsti dalla legge Severino. Come si fa ad applicare una legge così afflittiva in modo retroattivo? Noi siamo fortemente contrari a questa applicazione retroattiva e speriamo davvero che il Parlamento e il Pd correggano la propria impostazione». Una posizione che però non è più isolata come quest’estate. E che ora con i nuovi equilibri politici creati anche dalla frantumazione di Scelta civica, potrebbe trovare inediti alleati nella marcia verso il voto segreto che favorirebbe Berlusconi.
Ecco perché tutti puntano l’attenzione su Linda Lanzillotta, di Scelta civica. Oltre a Karl Zeller della Svp, che annuncia di essere contrario al cambiamento del regolamento richiesto dal M5S, è lei il possibile ago della bilancia. In giunta infatti ci sono 3 membri del Pdl, 1 della Lega e 1 di Gal pro voto segreto, più Zeller. Sull’altro fronte ci sono invece 3 membri del Pd, 1 di Sel e 2 di M5S pro voto palese. Oltre a quella di Zeller anche l’opzione di Lanzillotta potrebbe essere decisiva. «Non so ancora cosa farò — dice al Corriere — ascolterò il 29 le relazioni di Anna Maria Bernini (Pdl) e Francesco Russo (Pd) e poi deciderò». Nessuna idea precisa? «Sto studiando la questione. Certamente sono contraria a fare ora una nuova norma del regolamento. Non si può scivolare dall’essere contro le leggi “ad personam” a essere favorevole a quelle “contra”. Serve un’attenta valutazione della procedura. Cercherò di attenermi al merito della questione». Nessuna influenza politica sulla decisione dovuta al riposizionamento di Scelta civica dopo l’addio di Mario Monti? «Guardi, le ho spiegato esattamente quale sarà il mio metro di valutazione: solo la procedura, null’altro». In serata lo stesso Pier Ferdinando Casini replica alle accuse lanciate da Monti di utilizzare il voto contro la decadenza come arma di avvicinamento al Cavaliere: «Un anatema di comodo — dice Casini —. Monti stesso riferisce che molti di noi hanno dichiarato di voler votare per la decadenza di Berlusconi. Di cosa parliamo?». Così, mentre il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, cerca precedenti per accreditare la tesi che il voto sulla decadenza debba essere palese, è lo stesso candidato alla segreteria del partito Gianni Cuperlo ad avvertire che, sebbene «auspicabile», forzare sul voto palese. «C’è un regolamento — spiega Cuperlo su Sky — non vorrei che dalle leggi ad personam precipitassimo nelle regole contra personam. Non sarebbe conveniente». Il pdl Maurizio Gasparri taglia la testa al toro: «Il Senato si fermi e attenda la conclusione dell’iter giudiziario».

Repubblica 21.10.13
Il Partito democratico
Decadenza, il voto segreto agita il Pd Cuperlo: “No a regole contra personam”
Alfano ai democratici: sulla legge Severino ripensateci
di Liana Milella

ROMA — Paura del voto segreto? Ma «neanche per sogno». Un cambio di regole contro Berlusconi? «Proprio l'opposto, è il tentativo di rispettare le regole fino in fondo». Il Pd giura di «non avere paura» del voto del secolo sulla decadenza di Berlusconi. Quando Gianni Cuperlo, a metà pomeriggio, lancia il sasso sull'inopportunità di cambiare in corsa la regola sul voto segreto in aula, la prima reazione dei Dem è diindifferenza. Lui, uno dei candidati alla segreteria del Pd, butta lì due parole. Per carità, Cuperlo conferma quello che ogni Pd dice da settimane, che «è auspicabile il voto palese», ma allarga le maglie di un dubbio che serpeggia nel partito. «C'è un regolamento e non vorrei che precipitassimo nelle regole contra personam » è l'idea di Cuperlo. Già, il punto è proprio questo. Se per votare sulla decadenza sia o meno il caso di bocciare la regola che rende possibile il voto segreto se 20 senatori lo chiedono. La giunta per il Regolamento, che ha al vertice il presidente del Senato Pietro Grasso, per una settimana negli Usa, ha incardinato la discussione, ma ora se ne riparla il 29 ottobre. Il Pdl è sul piede di guerra, contesta tutto, a partire dalla legge Severino. La attacca il vice premier Alfano per «l'enorme e inaccettabile sproporzione tra i 2 anni stabiliti dai giudici di Milano e i 6 previsti dalla legge». Sfida il Pd: «Come si fa ad applicare una norma così afflittiva in modo retroattivo? Siamo contrari e speriamo che il Pd la corregga ».
Ma il Pd è intenzionato ad andare avanti. In fretta. Luigi Zanda, il capogruppo Pd al Senato, siè sempre dichiarato per il voto palese. Fa parte della giunta. Non vede ombra di procedure contra personam. «Ogni volta che ci sono dubbi, si porta la questione in giunta, questo è il metodo corretto. Non anticipo come voterò, ma davanti a un caso così delicato bisogna avere la certezza che il metodo sia corretto». Poi, con nettezza: «Senza danneggiare nessuno, ma neppure senza favorirlo ». Sa bene Zanda che nel Pd sono in tanti a favore del voto palese. Basta sentire l'ex pm Felice Casson. «Certo che dobbiamo votare così, è un segno di trasparenza e di rispetto per gli italiani che chiedono un Parlamento pulito ». Casson parla di una prassi favorevole al voto palese che parte dall'autorizzazione a procedere per Andreotti nel '93 e finisce con un voto altrettanto famoso eanch'esso palese, quello per dire sì all'arresto dell'ex tesoriere della Margherita Lusi.
Sembrerebbe, a sentir lui, che perfino interrogarsi su una modifica del regolamento del Senato sia inutile. La pensa allo stesso modo Nicola Latorre. Nettissimo sul punto: «Non bisogna proprio cambiare niente. Già oggi ci sono ampi margini per un voto palese perché qui decidiamo sulla decadenza di un senatore, non sul destino della persona. Lo facciamo in un momento politico che, come nel '93, richiede la massima trasparenza. Nel Pd non ci sono né dubbi, né mal di pancia, né tantomeno timori di perdere». Di paure, invece, ne ha Miguel Gotor. Non di come potrà votare il Pd, ma di cosa farà l'M5S. «Temo un doppio gioco dei grillini, ai quali farebbe solo comodo seuna mancata decadenza di Berlusconi dovesse ricadere tutta sul Pd. Per questo io sono per il voto palese, ma se nella giunta i tempi si allungano, allora tanto vale votare a scrutinio segreto. Già adesso l'avverbio della legge Severino – il condannato decade “immediatamente” – è andato a farsi friggere». Quanto al merito Gotor è per il voto perché «si vota per garantire il plenum del Senato».
Chi sta in giunta come il lettiano Francesco Russo e divide pure con la Pdl Anna Maria Berniniil compito di fare da relatore, mette un paletto: «Il caso non è semplice, anche se con le regole della Camera il voto sarebbe chiaramente palese, ma staremo bene attenti a non prendere una decisione politica contro Berlusconi. Gli italiani chiedono trasparenza, quindi il voto palese, ma solo a fronte di forti argomenti giuridici. State tranquilli, niente giustizialismo». Il renziano Andrea Marcucci si definisce «molto sereno» perché «lo scrutinio segreto o palese per il Pd non muta il risultato». Per certo Marcucci esclude che «si possa cambiare il regolamento adesso perché si perderebbero dei mesi, mentre si deve votare il prima possibile». La pensa così anche Giorgio Tonini, contrario a «modificare le regole sul caso specifico », ma convinto che come per Lusi il voto palese sia possibile, ma «non si farà perché il Pdl lo chiederà segreto». «Non la facciamo lunga, deciderà Grasso» dice il vice capogruppo Claudio Martini. «Ma questo voto non può diventare un tiro alla fune: non ho paura né se sarà segreto, né se sarà palese, ma ce l'ho se le forze politiche non saranno capacidi gestirlo».

l’Unità 21.10.13
Linda Lanzillotta: «Sono l’ago della bilancia ma non so come voterò»
La senatrice montiana determinante in giunta del regolamento: «Aspetto le relazioni,
si tratta di interpretare e valutare i precedenti»
intervista di Claudia Fusani

È l'ago della bilancia. E non scioglie la riserva. Suspence fino alla fine, cioè il 29 ottobre, ma anche oltre. Nella duplice consapevolezza che il suo potrebbe essere il voto che farà la differenza nel mettere fine alla vita parlamentare di Berlusconi. E anche nella complessa vita del governo Letta. «Se non ci sono dubbi su cosa fare nel voto finale visto che si tratta di applicare una legge votata dal Parlamento, sul voto segreto dice il vicepresidente del Senato Linda Lanzillotta che è l'unico rappresentante di Scelta Civica nella giunta del Regolamento di palazzo Madama deciderò solo quando mi sarò documentata sui precedenti di aula che in questo caso fanno giurisprudenza». Montiana di ferro, in questo momento e suo malgrado, Lanzillotta è anche il jolly che può fare la differenza nel mazzo di carte che restano in mano al senatore Mario Monti per regolare i conti dentro Scelta civica e con Berlusconi.
In giunta per il Regolamento sono sei pari, sei per il voto palese, sei per il voto segreto. Il suo voto farà la differenza. Ha già deciso cosa farà?
«È sicura che resto solo io? Non mi risulta che la Svp abbia deciso...»
Il senatore Karl Zeller della Svp ha spiegato in queste ore che voterà per il voto segreto perchè è «contrario a cambiamenti in corso».
«Questa è una vicenda su cui Scelta civica non si è ancora espressa. Si tratta di due fasi diverse. In linea generale siamo favorevoli a cambiare le regole se queste servono a rendere le procedure più trasparenti. Quindi non siamo contrari, in assoluto e per il futuro, però. Ora invece siamo nella fase di interpretazione dell’articolo 113 del Regolamento del Senato sullo scrutinio segreto»
Per prassi garantito a patto che sia un voto «sulla persona». Non sarebbe singolare cambiare nello specifico perchè c’è di mezzo Berlusconi?
«Come ho già detto non abbiamo ancora deciso. E non c’è dubbio che io sia contraria tanto alle norme in favore quanto a quelle in sfavore di casi specifici. Ma in questo caso si tratta di valutare e interpretare i precedenti, quante altre volte cioè è già successo che il Senato abbia respinto il voto segreto. Ecco perchè sarà molto importante il lavoro dei due relatori, la senatrice Bernini (Pdl) e il senatore Russo (Pd)».
Sarà determinante il suo convincimento personale oppure prevarrà la linea decisa dal partito?
«Vorrei dire che dovrà prevalere la decisione soggettiva, ma temo che alla fine sarà seguìto l’orientamento del partito».
E qui le cose si complicano visto lo scisma in atto in Scelta civica e l’ira di Monti nei confronti di chi, come Mauro, ha deciso di fare gruppo nel centrodestra con Alfano, i governativi del Pdl e Casini.
«Appunto, anch’io in questo momento mi sto occupando soprattutto di Scelta civica, un partito popolare e liberal democratico, radicalmente riformatore, legato all'Europa. Spero che la decisione di Monti possa dare una scossa e fare chiarezza». E quel voto in giunta è un’arma preziosa.

il Fatto 21.10.13
Decadenza, B. conta sui fuggitivi da Monti
di Chiara Paolin

Davanti alle telecamere di Lucia Annunziata, Mario Monti lascia trasparire un lampo velenosetto: “Sulla decadenza di Berlusconi io voterò in base alla relazione che la Giunta del Senato farà pervenire in aula: per me la votazione è sull’applicazione di una legge approvata un anno fa e che allora non fu contestata, non un giudizio su una persona. Vediamo se in Italia c’è o no lo Stato di diritto. Altri senatori, tra gli 11 di Scelta civica che mi hanno sfiduciato, hanno detto che intendono fare la stessa cosa”.
DUNQUE IL PALLOTTOLIERE del voto pro o contro Silvio è sempre in movimento, apparentemente stabile nel dare vantaggio a chi vuol mettere fuori gioco il Cavaliere, ma suscettibile di sorprese causa modalità di espressione: procedendo col voto segreto (come pare ormai probabile), il campo dei franchi tiratori sarà vasto e iperbolico.
La verità è che nel gioco lento del governo bipartisan, ognuno deve curare almeno un po’ l’orto di partito mirando alle elezioni che prima o poi verranno. E allora gli Scissionisti di Scelta civica diventano importanti: “Non siamo appassionati ai giochi di palazzo e alle sigle, ma a un grande centrodestra. Noi dobbiamo riunire tutta l’area alternativa alla sinistra come ha fatto il Polo della Libertà nel ‘94 e la Casa delle Libertà nel ‘96. Lo ha fatto Berlusconi vincendo in entrambi i casi. Noi puntiamo ad una larga vittoria del centrodestra, unendo tutta l’area alternativa alla sinistra. Il futuro è una larga vittoria, non una larga intesa”. Parole che il Tg1 ieri ha piazzato nella edizione delle ore 20, il massimo ascolto per il segnale più chiaro: quel 7,2 per cento che l’ultimo sondaggio (Lorien, ieri sera) riconosce al centro di Monti e Casini serve eccome per gabbare il Pd.
Nel merito della decadenza, Alfano va sul classico: “La legge Severino non può essere retroattiva, nè prevedere un periodo di esclusione dalla politica di 6 anni che va ben oltre i 2 dell’interdizione. Siamo certi che il Pd potrà rivedere la sua posizione”. Poi ci pensa Daniela Santanchè a spingere un po’ di più: “In Italia ci sono dei traditori. Il primo è il Pd, perché è venuto meno ai patti. Poi c’è il Capo dello Stato, che sta facendo il suo secondo mandato perché lo ha proposto Berlusconi, ma la pacificazione di cui aveva parlato non c’è ha detto ieri l’onorevole nell’Arena di Massimo Giletti -. Ho votato Napolitano, ma oggi non lo voterei più. Deve mantenere la parola data ed essere arbitro della Costituzione, non un giocatore”.
A STRETTO GIRO la risposta istituzionale del partito: “Siamo certi che i parlamentari delPdl non condividono le gravi affermazioni dell’onorevole Santanchè nei confronti del presidente Napolitano. Le sue rimangono valutazioni personali e come tali vanno giudicate” dettano alle agenzie di stampa i presidenti dei gruppi di Senato e Camera, Renato Schifani e Renato Brunetta. Mentre l’ecumenico Cicchitto così fraseggia: “La via maestra è il binomio Alfano-Berlusconi. E traditore non si dica più a nessuno”.
Insomma tutto per bene nel Pdl che ondeggia tra manovre instabili, fratture interne e leader ingombranti: decadenza o interdizione, il problema è sempre lì.

Corriere 21.10.13
La banca di Verdini e quei pagamenti in nero
Ottocentomila euro nell’89 e lui ammette: succede, nel contratto scrivi 10 e invece è 20
di Sergio Rizzo

ROMA – Impossibile non fare un salto sulla sedia quando Denis Verdini ammette davanti alla telecamera di aver ricevuto un pagamento in nero. Ottocentomila euro per un terreno venduto a un muratore di Palermo trapiantato a Campi Bisenzio, alle porte di Firenze. «Un’operazione», dice, «che per fortuna risale a tantissimi anni fa». Il 1989, quando il protagonista di questa vicenda non era ancora uno degli uomini politici più potenti d’Italia, senatore e coordinatore del partito di Silvio Berlusconi. E poi, si giustifica, «come si fa normalmente nella vita, se tu nel contratto scrivi dieci e invece è venti…». Anche se proprio normale non è, soprattutto se poi i soldi il suo debitore li prende dalla banca della quale il senatore in questione è anche il dominus, il Credito cooperativo fiorentino.
Come non è normale che un signore al centro di mille misteri e con seri precedenti penali dia 800 mila euro al senatore in questione come contributo per il suo giornale claudicante. Si chiama Flavio Carboni, e in quel momento ha in ballo un investimento eolico in Sardegna che incontra difficoltà perché il governatore pidiellino Ugo Cappellacci ha deciso di cambiare le regole. «Era interessato ad aprire le pagine in Sardegna», dice il coordinatore del Pdl. «Ma cosa me ne fregava? Chiamavo frequentemente Verdini perché insistesse su Cappellacci per, diciamo così, applicare la legge. La legge del suo predecessore», è la versione di Carboni. Che adesso vuole il denaro indietro.
Sono due frammenti del lungo servizio di Sigfrido Ranucci che stasera va in onda su Rai tre per Report di Milena Gabanelli nel quale si ricostruisce l’incredibile scalata di Verdini ai vertici del potere politico. È lui che nel partito stabilisce nomine e incarichi. È lui che decide chi occupa un seggio in Parlamento grazie al famigerato Porcellum che porta anche il suo marchio, essendo copiato dalla legge elettorale della rossa Toscana frutto di un accordo fra Verdini e la sinistra. È lui che s’impegna per difendere Berlusconi dall’«assedio» dei magistrati…
Viene da una famiglia povera e nessuno lo aiuta. Ma nella capacità di creare cortocircuiti fra la politica e gli affari è quasi imbattibile. In pochi anni mette insieme una fortuna, dalle attività editoriali alle proprietà immobiliari: ne ha pure in Svizzera, a Crans Montana. Tutto ruota intorno a una piccola banca, il Credito cooperativo di Campi Bisenzio. Da quel piccolo istituto arrivano i soldi per gli imprenditori amici e soci di Verdini impegnati negli appalti pubblici, quale il costruttore Riccardo Fusi, che sarà coinvolto nelle inchieste sulla Cricca. Arrivano anche i finanziamenti per i compagni di partito in difficoltà, come il senatore Marcello Dell’Utri. E arrivano anche i denari per alimentare le attività dell’editore Verdini. Al punto che quando interviene la Vigilanza salta fuori che fra i più esposti con la banca della quale è presidente da tempo immemore c’è proprio lui. Dodici milioni di euro, per l’esattezza. «Deve rientrare», commenta Milena Gabanelli, «e qui si mobilita l’esercito della salvezza. Il compagno di partito Antonio Angelucci ha fatto partire dal suo conto in Lussemburgo circa 10 milioni e in pegno si prende le due ville in Toscana. Si mobilita anche Riccardo Conti, il parlamentare Pdl diventato noto per aver comprato il palazzo di via della Stamperia a Roma per 26 milioni, rivenduto nella stessa giornata a 44, e in quello stesso giorno stacca anche un assegno alla signora Verdini per un milione 150 mila euro. Sette milioni e mezzo invece arrivano da Veneto Banca. Ma chi garantisce?». Le garanzie, spiega Ranucci, vengono nientemeno che da Berlusconi.
Vi chiederete: com’è possibile che un senatore in carica gestisca una banca, che per giunta presta quattrini a lui stesso, ai politici e a discussi imprenditori? La legge in effetti lo vieta, ma siccome c’è una deroga per le cooperative, e quella di Campi Bisenzio è una coop pur essendo una banca commerciale a tutti gli effetti, non ci sono ostacoli formali. Una sovrapposizione di ruolo inconcepibile in qualunque Paese normale, che lui però non fa nulla per nascondere. Anzi. È proprio quella la sua forza. Per i cento anni del Credito di Campi Bisenzio organizza perfino una grande festa con un testimonial d’eccezione: Rosario Fiorello. Qualche mese dopo l’istituto viene commissariato. E il Fondo di garanzia delle Bcc tappa il buco. Milena Gabanelli ricorda che i commissari hanno chiesto ai manager del Credito cooperativo un risarcimento danni di 44 milioni. E i guai sono appena cominciati. Domani è prevista l’udienza preliminare del procedimento per presunta truffa allo Stato nel quale è coinvolto Verdini per i finanziamenti pubblici incassati dal gruppo editoriale del suo «Giornale della Toscana» .

Corriere 21.10.13
La paura di scendere dalle giostre ideologiche
La schizofrenia degli intellettuali nel sistema di contrapposizione continua
di Luca Mastrantonio

Negli ultimi giorni, quel cabaret intellettuale chiamato Italia ha presentato due numeri nuovi: un ateo, il matematico Giorgio Odifreddi, che credendo di parlare al telefono con il Papa ha chiesto una prefazione al suo libro; e uno stimato costituzionalista, Stefano Rodotà, che vuole istituzionalizzare in una Fondazione l’occupazione illegale di un teatro.
La realtà supera così l’indignazione che si può provare per gli intellettuali del piffero. Quanti cioè usano il carisma e la propria autorevolezza per irretire, blandire. Sono la degenerazione del Pifferaio magico: il suonatore che nella celebre favola, grazie alla magia del piffero, prima libera la città dai topi e poi, per vendicarsi, rapisce i bambini.
Roberto Saviano è stato un Pifferaio magico buono quando ha «derattizzato» dall’omertà Casal di Principe, poi si è incattivito attaccando i suoi critici come se fossero tutti camorristi. Sospesi tra magia buona e demagogia sono anche Alessandro Baricco, Marco Travaglio e Gianpaolo Pansa; sempre bianca è la magia di Marco Paolini, pifferaio che non suona per finte rivoluzioni. Come fanno invece gli intellettuali orwelliani, tipo Piffero, il maiale della Fattoria degli animali per cui tutti gli animali sono uguali, ma alcuni più degli altri.
I pifferai, volubili, non sono più quelli di una volta, ha sottolineato Pierluigi Battista. Ma non è più solo un problema di incoerenza. Erri De Luca, per esempio, è fedele alle sue provocazioni No Tav, anzi, le esaspera, ricavandone grande visibilità; utile, se hai un libro da promuovere. È dietrologia? Sì. Come quella praticata da Gianni Vattimo, Giulietto Chiesa, Paolo Becchi e De Luca stesso. L’incapacità di accettare le cose per come si mostrano. Uno dei tanti guasti prodotti da un bipolarismo che, come ha scritto Guido Vitiello sul Foglio , «da politico si è fatto psichiatrico», portando «alle più surreali contraddizioni».
Tra i disturbi del sistema bipolare c’è la Schizofrenia Cognitiva di chi pubblica per Mondadori e combatte Berlusconi e la Demenza Storiografica di chi, come Alberto Asor Rosa, rivaluta il fascismo dopo aver combattuto il berlusconismo in nome di un antifascismo astratto. Ci sono poi autrici di libri licenziosi che diventano castigatrici di costumi (il Ninfomoralismo di Lidia Ravera e Melissa Panarello) e scrittori dai valori tradizionali che difendono la trasgressione più volgare (il Cattolibertinaggio di Luca Doninelli e Susanna Tamaro).
Il bipolarismo è dovuto alla contrapposizione berlusconiani e antiberlusconiani e all’attrazione esercitata da due poteri del ventennio: media e giustizia. Filippo Sensi, su Europa , ha letto il libro come un «trenino circense e melanconico» i cui binari, però, sono a circuito chiuso. Come «montagne russe». Cosa c’è dopo? Per ora si sa quello che non c’è: un altro giro di giostra. Chi lo pagherebbe? Luigi Mascheroni guarda a sinistra. Sul Giornale ha letto Intellettuali del piffero come «il conto, salato, che una generazione post-ideologica presenta, a futura vergogna, a quanti ci hanno incantati con la loro sedicente superiorità morale».
Nell’ultimo capitolo del libro si racconta la lotta di classe anagrafica tra Vecchie Trombette, che istigano al parricidio i propri figli per castrarli (Umberto Eco, Massimo Cacciari...), e Giovani Tromboni, che fingono di essere più adulti di quello che sono, per essere accettati — o notati. Che fare? In Italia, la rivoluzione non si fa, diceva Umberto Saba, perché siamo un paese fratricida. Forse i giovani intellettuali dovrebbero iniziare a non farsi la guerra tra loro e scendere dalle giostre ideologiche di questo ventennio. Questo sì, sarebbe rivoluzionario. Altro che parricidio.

l’Unità 21.10.13
Ritardo scolastico
Edifici vecchi e insicuri
I fondi stanziati? «Pochi»
di Luciana Cimino

Vito Scafidi era un ragazzino quando ha perso la vita. E’ morto nel 2008 per il crollo del controsoffitto della sua aula, nel liceo Darwin di Rivoli. Il Pubblico Ministero Gauriniello dopo la sentenza del Tribunale di Torino che aveva condannato per quell’incidente i responsabili della mancata manutenzione, affermò: «Chi è stato assolto e chi condannato oggi è secondario. L’importante è che sia stato ribadito il principio dell’obbligatorietà degli interventi di manutenzione all’interno degli edifici scolastici».
Ribadito il principio però rimane una quotidianità di scuole fatiscenti, dove i soldi non ci sono neppure per le manutenzioni di piccola entità, figurarsi per mettere a norma istituti costruiti in zone sismiche o pieni di amianto. Tanto che l’elenco delle tragedie sfiorate nelle scuole è lunghissimo. Nello scorso sanno sono stati almeno una trentina gli incidenti potenzialmente gravi tra crolli, distacchi di intonaco, caduta di finestre, solai, tetti, controsoffitti. Dal sud al nord.
Come, a titolo d’esempio, a Padova, quando il 27 maggio un pezzo di intonaco si è staccato dal soffitto cadendo sopra la cattedra in un liceo e solo la fortuna ha fatto sì che non ci fosse nessuno in classe. Lo stesso è successo, sempre a maggio, nei bagni di una scuola elementare di Agrigento. Oppure a Torino, dove una studentessa è rimasta ferita da alcuni calcinacci ad aprile 2013. O il cedimento strutturale dell’elementare e materna «Romolo Balzani», a Roma, che ha costretto alla chiusura della scuola e quindi al trasferimento di 350 bambini in altri quartieri. Sempre nella capitale, Liceo Orazio, la cassa di una persiana si è sganciata dal suo alloggiamento finendo su uno studente di 16 anni che ha riportato un trauma cranico e toracico. In provincia di Lecco, invece, il distaccamento di una porzione di intonaco dal soffitto ha ferito tre bambini di prima elementare. A Messina tre incidenti dello stesso tipo in tre diverse scuole nel solo mese di ottobre dello scorso anno. Senza contare le scuole non attrezzate, senza spazi in comune, palestre, sala mensa. O quelle con barriere architettoniche a fronte di 207.244 studenti disabili. D’altronde, la maggior parte degli edifici destinati all’istruzione sono stati costruiti in Italia non oltre il 1976, e quindi ben prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica. A leggere gli ultimi dati a disposizione sono almeno il 50% del totale le scuole costruite in zone ad alto rischio di terremoti. Mentre, secondo il rapporto annuale sulla sicurezza delle scuole di Cittadinanzattiva nel 39% dei casi lo stato di manutenzione degli edifici scolastici è del tutto inadeguato. «È aumentata la consapevolezza degli insegnanti ma si è aggravato il dato sulla manutenzione – spiega Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale della scuola di Cittadinanzattiva questo vuol dire che sono diminuiti i fondi dell’ente proprietario (Comuni o Province) quindi è aumentato il numero di richieste inevase che il dirigente è obbligato a fare e l’ente locale non ottempera. È un dato inquietante perché poi succedono incidenti gravi». Al momento sono i più piccoli a patire di più: le scuole primarie prese come campione evidenziano mancanze nei bagni (dalla carta igienica al sapone), classi pollaio, insufficienza, per i tagli degli ultimi anni, di personale Ata per l’assistenza, aule danneggiate, banchi rotti.
FINANZIAMENTI
Una situazione emergenziale sulla quale il governo Letta sta provando ad arginare danni e conseguenze con uno stanziamento di 450 milioni di euro. «Abbiamo attivato tre diverse linee di finanziamento – spiega il sottosegretario all’Istruzione con delega all’edilizia scolastica Gian Luca Galletti – tra queste ci sono 150 milioni che andranno a gara in tempi immediati attribuendo a sindaci e presidenti di provincia poteri straordinari». Inoltre nel dl «L’Istruzione riparte» viene dato alle Regioni la possibilità di contrarre mutui trentennali, a tassi agevolati, con la Cassa depositi e Prestiti e con oneri di ammortamento a carico dello Stato per la costruzione di nuove scuole o per interventi straordinari. «Apprezziamo il grande sforzo compiuto dall’attuale governo – commenta Bizzarri – ma è poca cosa rispetto al reale fabbisogno, basti pensare che il costo di un edificio scolastico di media dimensioni, antisismico, energetico, a norma è di 5 milioni di euro; anche valutando solo interventi di manutenzione si riescono a coprire al massimo 1500 istituti su 42mila di cui 13mila in zone sismiche». «È un buono inizio – dice anche la Cgil ma manca un piano a lungo termine che presuppone ragionamenti su interventi mirati e non soldi a pioggia».
Una «programmazione di almeno 10/15 anni» serve anche per Cittadinanzattiva. La certezza di ricevere i fondi, insomma, «che non si interrompano, i danni si creano perché si smette di finanziare, manca ancora una parte del miliardo di euro promesso dall’allora governo Berlusconi, noi abbiamo chiesto di sapere dove sono finiti quei soldi». La messa in sicurezza delle scuole «è una priorità del governo – assicura il sottosegretario Galletti non abbiamo terminato il nostro lavoro ma è un inversione di rotta dato che il patrimonio immobiliare scolastico si era fortemente degradato negli ultimi anni a causa del Patto di stabilità. Non pensiamo di avere sistemato ma di aver dato un contributo importante per mettere i nostri figli in sicurezza».

I NUMERI
40% È la percentuale di edifici da ristrutturare
Secondo il rapporto di Cittadinanzattiva quattro edifici su dieci avrebbero bisogno di un intervento di consolidamento e ristrutturazione
1976 L’ultimo anno di costruzioni di molte scuole
Molti edifici sono stati tirati su ben prima dell’entrata in vigore della normativa anti sismica. A leggere gli ultimi dati a disposizione sono almeno il 50% del totale le scuole costruite in zone ad alto rischio di terremoti
450 mln Sono i finanziamenti stanziati da Letta
«Un terzo di questi andranno subito a gara attribuendo a sindaci e presidenti di provincia poteri straordinari». Lo assicura il sottosegretario all’Istruzione con delega all’edilizia scolastica Gian Luca Galletti

Corriere 21.10.13
Espulsione della Rom Leonarda
Pesa sui Francesi l’ombra di Vichy
di Aldo Cazzullo


Ricordate Au revoir les enfants ? Il film autobiografico di Louis Malle, Leone d’oro a Venezia nell’87? Il regista racconta una storia di quand’era bambino. Nella sua scuola, il collegio dei carmelitani scalzi di Fontainebleau, arriva un ragazzo taciturno e misterioso, Jean Bonnet. Il protagonista, appunto Louis Malle da piccolo, dopo un’iniziale diffidenza diventa suo amico. E scopre che Jean Bonnet si chiama in realtà Jean Kippelstein, e come altri ebrei è stato nascosto dai religiosi. Ma Joseph, lo zoppo che lavorava nel collegio come inserviente, licenziato per i suoi furti, fa la spia con i nazisti; fino allo straziante «arrivederci ragazzi» con cui il direttore del collegio, deportato insieme con i ragazzi che aveva protetto, si congeda dai suoi allievi.
Per comprendere appieno il motivo per cui il caso di Leonarda — la ragazza rom presa dalla polizia durante una gita scolastica ed espulsa — scuota tanto la coscienza della Francia, occorre tener conto del grande rimorso e della grande rimozione di Vichy, vale a dire lo Stato collaborazionista negli anni dell’occupazione tedesca. Com’è ovvio, i due casi non sono per nulla paragonabili: i ragazzi ebrei finivano nelle camere a gas. Ma l’idea stessa di un allievo prelevato da scuola evoca, nell’inconscio di una parte dei francesi, una vergogna sopita e troncata. Per De Gaulle, il regime di Vichy era «nul et pas abvenu»: mai esistito. Mitterrand, grande amico di René Bousquet, capo della polizia nei giorni dell’occupazione nazista di Parigi e del Vel d’Hiv (il velodromo d’inverno dove vennero ammassati gli ebrei), rifiutò sempre di chiedere scusa; si dovette attendere il 1995 perché un capo dello Stato — Jacques Chirac — riconoscesse le corresponsabilità francesi nella Shoah .
Non è inutile ribadire che si tratta di un’evocazione, non di una comparazione; ma non è inutile neppure ricordare che anche i rom furono perseguitati. Oggi la polizia francese non è al servizio di un odioso oppressore; applica una legge della République. E la maggioranza dell’opinione pubblica approva la linea dura, senza troppi ripensamenti storici. Ma l’imbarazzo di una parte consistente dei francesi si spiega anche con la presenza nell’ombra di un fantasma del passato non facile da esorcizzare .

Repubblica 21.10.13
Il patto tra Angela e Hannelore la Germania si affida a due donne
La Spd dice sì alla Grosse Koalition. La Kraft sarà vice-Merkel
di Andrea Tarquini


BERLINO — Angela Merkel, la zarina sorridente, sarà il numero uno della nuova Grosse Koalition. Ma con ogni probabilità il vero numero due sarà un’altra donna, Hannelore Kraft, governatore del Nordreno-Westfalia (lo Stato più popoloso del paese), socialdemocratica riformista, protagonista dello psicodramma di ieri in cui al minicongresso straordinario ha convinto la riluttante base della Spd a governare la Germania, quindi di fatto l’Europa, insieme all’avversario naturale. Due donne al vertice della prima potenza europea, un inedito assoluto mondiale. Povero potere maschilista, fatti da parte.
Ieri pomeriggio, nel teso, sofferto congresso-lampo straordinario Spd per decidere se andare o no da sconfitti al governo insieme ai vincitori, è stata Hannelore a trascinare la base, non il presidente (maschietto) del partito Sigmar Gabriel. E sebbene lei dica di voler restare governatore a Düsseldorf, non pochi scommettono su un suo imminente incarico nella futura Grosse Koalition. Nella politica tedesca, che dà priorità bipartirosan alla difesa più dura dell’interesse nazionale, ogni cambio di poltrona è possibile da qui a dicembre o inizio gennaio quando il nuovo governo sarà formato. Probabilmente con due donne di colore diverso nei ruoli-chiave, appunto.
Angela Merkel è all’apice della sua forza, dopo il trionfo elettorale alle politiche del 22 settembre. Ma spariti i liberali (suoi alleati fino a ieri) dal Bundestag, ha bisogno d’un nuovo alleato. Mentre i suoi pur indeboliti rivali nel partito, tutti maschietti dell’Ovest, non rinunciano a sfidarla. Ecco allora il soccorso a sorpresa. L’unica donna che conta nel vertice socialdemocratico, Hannelore Kraft appunto, temuta come rivale pericolosa da Gabriel e dagli altri maschietti alla guida, leha dato l’appoggio insperato convincendo a fatica, ieri al “Konvent” (congresso straordinario) del più antico partito della sinistra europea, della necessità di governare insieme.
Intese e feeling tra signore? Può essere. Le due biografie a lomodo si somigliano. Hannelore è più giovane di Angela: è nata a Muelheim an der Ruhr, nel cuore del bacino minerario e industriale tedesco fin dai tempi del Kaiser, il 12 giugno 1961, sette anni in meno rispetto alla “zarina”, classe 1954. Decenni di lotte dure per imporsi come donna-leader a sinistra, dal dottorato a Duisburg fino agli studi al King’s college di Londra. E drammi personali, come quando i medici le diagnosticarono, errando, un cancro mortale. Un passato non meno difficile di quello di “Angie” a est del Muro. «Il nostro compito da sinistra è migliorare la qualità della vita della gente, non imbalsamarci come eterno partito di protesta, per questo dico di fare il governo insieme a loro», ha affermato ieri Kraft. E ha avanzato proposte in forte convergenza con Merkel e quindi con l’ala sinistra del centrodestra: «Politica preventiva » per aiutare i poveri, welfare forte, forti investimenti in opere pubbliche e altro per rafforzare domanda interna, ripresa e occupazione. C’è da scommettere che lavoreranno bene insieme, anche se litigando qualche volta, le due “supergirls” della democrazia tedesca.

Corriere 21.10.13
Pubblicare in Cina è una fortuna (al prezzo di qualche censura)
di Guido Santevecchi


Il professore emerito di Harvard Ezra F. Vogel è felice: la sua biografia di Deng Xiaoping in Cina ha venduto 650 mila copie. Un successo tanto più grande se si considera che negli Stati Uniti si è fermato a 30 mila. Ma il professore emerito ha dovuto pagare un prezzo: la censura. Nella traduzione cinese sono stati tagliati passaggi «sensibili», come quello sulle lacrime di rabbia del leader Zhao Ziyang, epurato durante la repressione della Tienanmen nel 1989. Via anche un passaggio che raccontava del nervosismo di Deng durante un banchetto con Gorbaciov mentre fuori gli studenti facevano lo sciopero della fame: «A Deng tremavano tanto le mani che lasciò cadere un raviolo dalle bacchette». Quel raviolo non è andato giù alla censura, che ha tagliato.
Vogel è comunque soddisfatto, perché 650 mila copie con un 10 per cento di omissis sono meglio di una versione integrale non pubblicata, ha detto al New York Times : «Spiacevole ma necessario».
L’industria editoriale Usa sta facendo affari in Cina: l’anno scorso i profitti da e-book americani nella Repubblica popolare sono cresciuti del 56%. Nel 2012 gli editori cinesi hanno comprato all’estero oltre 16 mila titoli. Molti autori ed editori occidentali sono pronti all’autocensura pur di andare in libreria a Pechino e dintorni.
Il rituale dell’autocensura vale anche al cinema: niente geopolitica e poco sesso. Fino a poco tempo fa la Cina era la riserva di cattivi per Hollywood, poi i produttori hanno spiegato agli sceneggiatori che il mercato è pur sempre il mercato: così nel remake di Alba Rossa che prevedeva gli Stati Uniti invasi da una coalizione Cina-Nord Corea, i cinesi sono stati lasciati tranquilli a casa. A Skyfall la censura di Pechino ha tolto la scena nel grattacielo di Shanghai in cui un bodyguard cinese viene ucciso sotto gli occhi di Bond; e poi via la parte in cui Bardem ricorda di essere stato tradito a Hong Kong e torturato. Quentin Tarantino ha sforbiciato da solo Django, rendendo meno rosso il colore del sangue e accorciando gli schizzi dopo le revolverate .
Per sopravvivere al mercato globalizzato dovremo diventare tutti «flessibili» come il professor Vogel e un po’ cinesi nei gusti ?

La Stampa 21.10.13
Arabo fra i “giusti” d’Israele. La famiglia rifiuta il premio
Un medico egiziano allo Yad Vashem: salvò pazienti ebrei a Berlino
di Francesca Paci


Gaza. A 34 anni dagli accordi di Camp David la pancia degli egiziani non ha ancora metabolizzato la pace con il vicino sionista. Sotto Mubarak, nei giorni rivoluzionari di piazza Tahrir, durante la fugace presidenza Morsi come adesso nel mezzo della transizione guidata dall’esercito, tra interlocutori laureati ma anche tra persone semplici, basta nominare Israele perché la conversazione si congeli all’istante. Così quando alcuni giorni fa la famiglia Helmy ha ricevuto la notizia dell’onorificenza concessa dal museo dell’Olocausto di Gerusalemme al proprio defunto congiunto Mohamed, il primo arabo a essere riconosciuto dallo Yad Vashem «Giusto tra le Nazioni» per aver salvato la vita a una ragazza ebrea, ha declinato l’offerta. Troppo compromettente perfino dopo 70 anni.
A settembre il Museo dell’Olocausto aveva diffuso la storia di Mohamed Helmy, un medico egiziano che nel 1942, nella Berlino nazista, si era adoperato per proteggere la sua paziente 21enne, la madre, la nonna e il patrigno, risparmiando loro la deportazione. All’epoca Helmy non lavorava già più all’istituto statale Robert Koch, da cui era stato cacciato dal regime in quanto non ariano, ma proprio esercitando privatamente aveva potuto adattare lo studio a nascondiglio. Lo Schindler arabo morirà nel 1982 a poca distanza dalla sua protetta e dalla fidanzata tedesca Frieda Szturmann, anche lei nominata «Giusto tra le nazioni» per averlo aiutato.
«Saremmo stati felice di ricevere un’onorificenza alla memoria di Helmy da qualsiasi altro Paese» ammette all’Associated Press Mervat Hassan, moglie 66enne e velata del pronipote del dottore. Da Israele no. La donna, intervistata nella sua casa del Cairo, non nega il problema, nonostante Camp David le relazioni tra Egitto e Israele restano «ostili»: «Helmy non si occupava di una certa nazionalità, di una razza o di una religione, aiutava i suoi pazienti e basta». Evidentemente l’idea che oggi quella sua vocazione gli possa valere l’inclusione nella lista dei 25 mila coraggiosi di 44 Paesi celebrati da Israele metterebbe in imbarazzo gli eredi. Con la società in cui vivono, innanzitutto.
Finora a riportare la notizia sui media arabi era stato solo il quotidiano egiziano «Al Ahram». L’Olocausto resta un tabù nel mondo musulmano. Quando l’attore Omar Sharif ebbe una breve liason con la collega ebrea Barbra Streisand il Cairo minacciò di ritirargli il passaporto. Certo, allora Sadat e Begin non si erano ancora stretti la mano, ma ancora oggi, nonostante la storia, la famiglia Helby non fa onore al coraggio del dottor Mohamed.

Repubblica 21.10.13
Le elezioni Amministrative, Netanyahu preoccupato per la svolta
Gerusalemme va al voto destra spaccata e la città rischia un sindaco ultraortodosso
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — Si vota domani in Israele per le amministrative e in ballo ci sono le municipalità delle maggiori città da Haifa a Tel Aviv, ma la battaglia per la poltrona di sindaco a Gerusalemme ha preso un sapore del tutto particolare. Lo scontro diretto è all’interno della Destra, dell’alleanza che sostiene a livello nazionale il premier Benjamin Netanyahu.
A sfidare il sindaco uscente Nir Barkat, c’è Moshe Lion, uomo d’apparato scelto da Avigdor Lieberman – il leader dei nazionalisti – e dai rabbini ortodossi che governano le popolose comunità haredi della Città santa come feudatari. L’alleanza nazionalistireligiosi vuole un suo uomo a governare Gerusalemme, custode religiosa e sacrale dell’ebraismo, immersa nei suoi riti, che deve restare ben distinta dalle luci e dalle attrattive ludiche di Tel Aviv. Su questo “patto” i nazionalisti, un pezzo del Likud (il partito del premier) e gli ultraortodossi hanno scelto il candidato “giusto” da contrapporre al sindaco uscente, certamente più moderno e dinamico.
Barkat nei suoi 4 anni di governo ha capito che Gerusalemme è un tesoro internazionale e una città complessa, in una democrazia diversa che deve servire i suoi abitanti ebrei, cristiani e musulmani. L’ultimo sondaggio dice che è in vantaggio di una quindicina di punti, ma il numero dei gerosolimitani indecisi supera abbondantemente il 20%. Al voto non partecipano i residenti palestinesi che abitano nella parte Est della città, occupata nel 1967, e sono ben il 40% degli abitanti.
Per evitare brutte sorprese nel governo,Netanyahu ha deciso di non schierarsi, con il timore – scrivono i giornali – di inimicarsi l’alleato Lieberman, con il quale i rapporti non sono idilliaci, specie dopo la presentazione alle ultime elezioni nazionali nell’unica lista Likud-Beitenu. Il premier ha scritto una lettera di sostegno e auguri ai 43 candidatisindaco del partito in tutto Israele ma non a Moshe Lion. Ma ha anche ignorato il suo amico personale Nir Barkat. Il sindaco uscente tace, il suo sfidante invece dice convinto: «Il premier voterà per me».
Il timore che la Città santa per le tre religioni finisca nelle mani di un sindaco nazionalista e religioso ha messo in allarme la sinistra. «Dobbiamo liberare Gerusalemme dai mediatori di potere ultra-ortodossi che troppo spesso vedono la città solo come una loro esclusiva, piuttosto che la capitale di Israele, il cuore e l'anima del popolo ebraico, un centro delle religioni del mondo e una città moderna che deve funzionare senza problemi», dicono al Labor Party. La leader Shelly Yachimovich ha scritto una lettera agli elettori del Partito a Gerusalemme invitandoli a votare la lista comune con l’altro partito di sinistra Meretz per il Consiglio, ma Barkat come sindaco: «si è rivelato capace come amministratore, ed è certamente un uomo migliore del suo sfidante».

Repubblica 21.10.13
Il culto della pistola che gli yankee credono un diritto
di Vittorio Zucconi


Non esisterebbero gli Stati Uniti d’America senza la polvere da sparo. Una nazione continente, divenuta un colosso che da ormai un secolo proietta l’ombra di sé sulla Terra, non sarebbe quella che conosciamo, amiamo, subiamo, odiamo se gli emigrati europei che dal XVI secolo la invasero avessero dovuto sterminare i nativi e conquistare un territorio grande trentuno volte l’Italia a fil di spada, come i romani il proprio impero. Il Nuovo Mondo, a Nord come a Sud dell’Equatore, fu conquistato e soggiogato con lo schioppo, la pistola e poi il revolver imbracciato. Da qui si deve partire per comprendere l’indistruttibile, inattaccabile, e per noi inspiegabile, culto delle armi da fuoco che imprigiona generazioni dopo generazioni di americani.
Ottantasette persone al giorno — quasi 32 mila all’anno — muoiono sotto i colpi di un’arma da fuoco e 137 — 50 mila all’anno — sono ferite.
Nel 2015, prevede il Centro nazionale di ricerca sulle vittime del crimine, pistole, fucili automatici, fucili a pompa, uccideranno più uomini, donne e bambini di quanti cadano per incidenti stradali. Eppure, mentre le compagnie di assicurazione, la autorità pubbliche, le lobby di cittadini come le «Madri Contro i Guidatori Ubriachi», le case automobilistiche, spingono, lavorano e progettano instancabilmente per limitare i rischi inerenti all’uso di un mezzo utile come l’automobile, ogni spinta per strappare le armi dalle mani dei civili (bambini inclusi) si infrange contro la diga di quella che il storico Richard Hofstadter definì «la cultura delle armi».
E’ un falso di comodo, un luogo comune da giornalismo pigro, spiegare la presa ferrea delle mani americane sul calcio delle loro armi con la lobby dei fabbricanti di fucili e pistole e sui finanziamenti elettorali che la National Rifle Association fa piovere sui candidati amici. L’economia della “sei colpi” o dei fucili automatici esiste, naturalmente, ed è robusta. Lavorano 129.817 rivenditori di armi, negli Usa, uno ogni tremila abitanti. L’industria che le produce, illustrata da nomi storici come la Colt, la Smith & Wesson, la Winchester che inventò il fucile a ricarica rapida che falciò il West, ha un volume d’affari di 31 miliardi di dollari e questo senza calcolare il mercato secondario, di armi cosiddette d’antiquariato o usate. Ma anche questa cifra notevole impallidisce davanti al tabacco e alle sigarette, che la formidabile lobby del fumo non riuscì a difendere dalla rivolta nazionale: in 30 anni, il mercato è sceso da 841 miliardi di sigarette vendute ai 350 miliardi di oggi.
Le lobby sono tanto più efficaci quanto più il loro messaggio tocca corde nei cittadini ai quali si indirizza e fa vibrare sentimenti profondi. Il possesso di un’arma da fuoco non è un piacere dannoso, un vizio voluttuario dal quale sia possibile riabilitarsi. E’ considerato un diritto scolpito non soltanto nella Costituzione, che i Padri Fondatori scrissero pensando a quell’Inghilterra dove possedere un’arma era considerata una salvaguardia contro la prepotenza del Signore e dei suoi scherani, ma nella convinzione che la possibilità di difendersi sia la massima espressione della propria individualità.
Non servono le statistiche, dove si dimostra che il crimine violento è in diminuzione da decenni negli Usa, omicidi con armi da fuoco incluse. Non scuote la “cultura della pistola” neppure la periodica strage di innocenti per mano di lucidi dementi che fanno piovere raffiche su bambini delle elementari, come nella scuola di Newtown, in Connecticut. O la scoperta che centinaia di bambini muoiono per incidenti dovuti ad armi in casa, anche se dotate di sicura. Quei massacri sono letti, e pianti, e commiserati e presto dimenticati, come «il prezzo della libertà», comel’incidente stradale è il prezzo della propria mobilità e autonomia. E i tentativi, blandi e timidi di governi e presidenti come Obama, dopo il puntuale, ricorrente sacrificio sull’altare della pallottola, sono visti come attentati alla “americanità”. L’Obama che vorrebbe intaccare un poco la follia è, implicitamente, un «comunista», un «non americano».
Quando si sparse la voce che la Casa Bianca avrebbe proibito almeno il commercio di armi da guerra, le copie efficientissime dei Kalashnikov, degli M16 in dotazione all’Esercito, e limitato la capacità dei caricatori, quei 129 mila negozi furono svuotati in pochi giorni. Non da cowboy di ritorno, da pistolero, da folli, ma da madri di famiglia, maestre, insegnanti d’asilo, infermiere, medici, avvocati, persone di impeccabile reputazione. Conosco bene, e personalmente, un anziano signore, pensionato di un’agenzia di assicurazione, che possiede, ed esibisce orgoglioso, sessanta tra fucili e pistole e mitragliette. Tutte perfettamente funzionanti e periodicamente revisionate.
Nella irrisolta ambiguità di quel secondo Emendamento della Costituzione, che garantisce il diritto di «portare e possedere armi», ma la precede con «la necessità di una ben regolata milizia per la sicurezza di un libero stato», quel privilegio è considerato da milioni di irriducibili come assoluto. Senza lo schioppi ad avancarica riposto nella madia dei “minutemen”, dei volontari pronti a partire «in un minuto» per la Guerra di Indipendenza, gli Stati Uniti non esisterebbero. Senza i Winchester i Pionieri sarebbero stati alla mercé di Sioux, Cheyenne, Apache, Seminole, Irochesi, di tutte le nazioni di nativi ben più esperti di loro nel maneggiare archi, frecce e accette spaccacranio.
Senza le fonderie e poi gli altiforni della Pennsylvania che vomitavano armi a milioni, il Sud, sostenuto dalle potenze europee, avrebbe spezzato gli Stati Uniti di Lincoln e le Forze alleate non avrebbero sconfitto il nazismo. Già nella Prima guerra mondiale, i soldati del Corpo di spedizione americano gettati senza preparazione sul fronte della Argonne contro i soldati del Kaiser, eccellevano come tiratori individuali, per avere maneggiato fucili nelle loro fattoria, fino dalla prima infanzia. Poligoni di tiro per bambini sono ovunque e una classica strenna natalizia nella zone rurali del Kentucky, del Tennessee, del Texas, dell’Arizona, è il primo schioppetto o la prima rivoltella per i figli. Rosa per la femminucce, azzurri per i maschietti e perfettamente funzionanti e letali.
Il Culto della Colt, l’arma che «pacificò il West» è tessuto nella storia di questa nazione e neppure Obama ha mai osato sfidarlo, limitandosi a rosicchiarne i lembi. Ci saranno altre Virginia Tech, altre Columbine, altre Aurora, altre Newtown, e non è una possibilità, è una certezza. Fino a quando l’ultimo americano vivo strapperà il fucile dalla «fredde mani » dell’ultimo morto, come disse Charlton Heston imbracciando, appunto, un fucile.

La Stampa 21.10.13
A quasi cinquant’anni dall’attentato di Dallas
“Bob rubò il cervello di Jfk”
Un libro rilancia i misteri sull’omicidio di Kennedy
Il fratello non voleva che l’autopsia svelasse i farmaci presi dal presidente
di Paolo Mastrolilli


NEW YORK Era stato Robert Kennedy che aveva fatto sparire il cervello di suo fratello John, dopo l’autopsia al Bethesda Naval Hospital. Così almeno sostiene Robert Swanson, nel suo libro in uscita per l’anniversario dell’omicidio del presidente americano. Lo scopo di Bob non era quello di nascondere che John era stato ucciso da un colpo sparato frontalmente, come vorrebbero gli amanti delle cospirazioni, ma piuttosto evitare che i medici potessero indagare e rivelare le precarie condizioni di salute del fratello e le molte medicine con cui si curava.
In vista del cinquantesimo anniversario dell’attentato di Dallas, che cade il prossimo 22 novembre, sono usciti o stanno uscendo decine di libri. Ad esempio quello di James Reston junior, dove si nega persino il fatto che Kennedy fosse il vero obiettivo del killer, o quello di Larry Sabato, che smentisce tutte le dietrologie e sostiene la responsabilità esclusiva di Lee Harvey Oswald. James Swanson ha contribuito alla lista delle pubblicazioni con «End of Days: The Assassination of John F. Kennedy», in cui ha scavato su diversi fatti curiosi.
Quello più interessante riguarda il «braingate», ossia il mistero sulla fine del cervello del presidente. Di sicuro si sa che era stato sottoposto all’autopsia, nel Bethesda Naval Hospital di Washington, e poi riposto in un contenitore di acciaio inossidabile per conservarlo. Ma poi non è mai stato sepolto con il resto del corpo, nel cimitero nazionale di Arlington. «Per un certo periodo scrive Swanson questa teca fu sistemata dentro un armadio negli uffici del Secret Service», ossia l’agenzia del governo americano che ha l’incarico di proteggere la vita dei presidenti. Quindi l’organo era stato trasferito in una cassetta e trasportato insieme con altri reperti ai National Archives. Era in una stanza di massima sicurezza, dove avevano accesso pochissime persone, tra cui la fedelissima segretaria Evelyn Lincoln che stava mettendo insieme le carte presidenziali.
«Nell’ottobre del 1966 scrive Swanson si scoprì che il cervello e altri materiali dell’autopsia mancavano, e non sono stati più ritrovati». La leggenda voleva che fossero spariti per coprire la verità sull’omicidio. L’analisi del cervello, infatti, avrebbe dimostrato che Kennedy era stato ucciso da un colpo sparato frontalmente, e non da quelli esplosi alle spalle da Oswald, che si trovava nel Texas School Book Depository. Quindi il vero assassino era un altro.
Il ministro della Giustizia Ramsey Clark aprì un’inchiesta sulla scomparsa dei reperti, ma non appurò mai in maniera definitiva cosa fosse successo. «Raccolse però abbastanza prove secondo cui era stato Bob Kennedy, con l’aiuto della sua assistente Angie Novello, a rubare il contenitore». Il motivo non era nascondere la verità sull’omicidio, ma piuttosto coprire il fatto che John soffriva del morbo di Schmidt, una malattia che colpisce il sistema endocrino provocando affaticamento, debolezza estrema e perdita di peso. «La mia conclusione spiega Swanson è che fu Robert a prendere il cervello del fratello. Non lo fece per cancellare le prove di una cospirazione, bensì per cancellare le prove della reale estensione della malattia di cui soffriva il presidente degli Stati Uniti, e forse anche per cancellare le tracce del numero elevato di farmaci che stava prendendo»

Corriere 21.10.13
Jovanka, vedova di Tito e della Jugoslavia
Dalla ribalta mondiale all’oblio in povertà
di Monica Ricci Sargentini


Si è spenta ieri a Belgrado a 88 anni la prima vera «first lady» comunista Fu la regina dell’eleganza negli anni della dolce vita socialista nella Jugoslavia di Tito, l’uomo che aveva sposato, appena ventottenne, nel 1952 quando lei era una tenente dell’esercito e lui, sessantenne, il capo indiscusso della Repubblica Socialista Federale. Ieri Jovanka Broz è morta in un ospedale di Belgrado per un attacco cardiaco. Avrebbe compiuto 89 anni il 7 dicembre. Gli ultimi 36 anni li ha passati, povera e dimenticata, reclusa in un piccolo appartamento statale di Dedinje, una zona residenziale di Belgrado, che per molto tempo non ha avuto nemmeno il riscaldamento. Nel testamento l’ex «first lady» comunista ha chiesto di essere seppellita accanto al marito da cui era stata separata a forza nel 1977, tre anni prima della sua morte. «Tito mi ha amata fino all’ultimo», aveva confidato a un settimanale di Belgrado in una rara intervista.
Serba, nata nelle campagne della Croazia nel 1924, a 17 anni Jovanka si unì ai partigiani, la resistenza comunista jugoslava diretta da Tito durante la Seconda guerra mondiale. Poi nel 1950 il trasferimento come segretaria nel palazzo del governo di Belgrado e il colpo di fulmine. La bella guerrigliera bruna diventò per Josip Broz moglie (la terza), consigliera e spalla inseparabile. In casa e all’estero, coperta di diamanti e di pellicce. Insieme la coppia ospitò la famiglia reale britannica nelle campagne di Leskovac, invitò Sophia Loren a Villa Bianca, la residenza del maresciallo all’interno dell’arcipelago delle isole Brioni dove la Jugoslavia si guadagnava un posto di prima fila sulla scena politica mondiale come Paese leader dei non allineati. Tranne Adenauer e de Gaulle, Tito incontrò tutti: Elizabeth Taylor e Richard Burton, Gina Lollobrigida e Jackie Kennedy, il padre dell’Egitto moderno Gamal Abdel Nasser e il pandit Nehru, l’uomo che insieme a Gandhi portò l’India all’indipendenza. E poi Ho Chi Minh, Fidel Castro, Nikita Krusciov, Willy Brandt, Saddam Hussein.
Due anni fa una mostra al Museo della storia della Jugoslavia di Belgrado ha svelato il lato borghese e più nascosto della coppia presidenziale della vecchia Federazione. Vestiti di Dior, uniformi degne di un re, guanti di pelle, mutande di seta, scarpe inglesi, cappelli italiani. Si racconta che subito dopo il matrimonio Jovanka trascorse mesi all’ambasciata jugoslava a Roma per imparare le buone maniere dell’alta società e le regole del protocollo. Da allora in poi assunse una postura impeccabile e quel look elegante che ancora ricordiamo.
Una vita dorata finita di colpo nel 1977 quando la moglie del maresciallo sparì dalla circolazione dopo essere stata sospettata di aver tramato con i generali jugoslavi: «Vollero regolare i conti con mio marito attraverso di me — raccontò nel 2013 — e riuscirono a separarci». Quando Tito muore nel 1980 le viene ordinato di lasciare la residenza presidenziale e trasferirsi a Dedinje. «Mi cacciarono di casa in camicia da notte senza la possibilità di prendere le mie cose, una foto di noi due, una lettera, un libro. Da allora fui trattata come una criminale» ricordò lei in un’altra intervista.
Nel 1983 comincia una lunga battaglia per rimpossessarsi di 860 articoli, tra cui vestiti, gioielli, argenterie, porcellane. Nel 2006 le viene finalmente riconosciuta una pensione, nel 2009 le viene reso il passaporto e la libertà ma non i suoi beni. Ieri se ne è andata senza aver vinto l’ultima battaglia.

Corriere 21.10.13
Un appello degli storici contro le verità di Stato
risponde Sergio Romano


Negazionismo della Shoah: apologia di reato. Così una nuova, fredda, norma riduce un abominio della storia dell’umanità, un qualcosa di talmente terribile a mera formula da codice giuridico. Ma davvero le nazioni moderne, democratiche, emancipate politicamente e culturalmente non sanno fare di meglio per sottolineare una tale mostruosità? Non si trovano argomenti scientifici tali da confutare a livello culturale tesi aberranti come il negazionismo della Shoah? Evidentemente no, bisogna ridurre tutto al «pensiero di Stato», al «è così perché lo dice la legge», senza dibattere e svergognare nel merito chi sostiene, certo sbagliando, ma assolutamente con pieno diritto (libertà di pensiero) il contrario. Cosa ne pensa?
Gianpaolo Perinelli

Caro Perinelli,
Spiace dirlo, ma il «reato di negazionismo» ha trovato un clima favorevole, paradossalmente, nel Paese di Voltaire, di Montesquieu, di Madame de Staël, di Benjamin Constant e di Alexis de Tocqueville. Nel 1990 il Parlamento francese ha approva una legge, proposta dal deputato comunista Gayssot, che punisce la negazione del genocidio. È probabile che la Francia volesse fare ammenda per la politica antisemita del regime di Vichy e dimostrare al mondo che non vi sarebbe stato nel suo futuro un nuovo «caso Dreyfus». Ma quella legge illiberale ha avuto il prevedibile effetto di suscitare una sorta d’invidia in tutti coloro che si sentivano dimenticati e trascurati. Se la negazione del genocidio ebraico è un reato, perché non riservare lo stesso trattamento alle stragi e ai massacri di cui furono vittime altri gruppi etnici e religiosi? In una lettera a Dino Messina apparsa sul suo blog («La nostra storia»), uno studioso dell’Università di Roma, Eugenio Di Rienzo, ha ricordato che «alla normativa Gayssot ha fatto seguito, nel 2001, l’approvazione di altre due disposizioni legislative che puniscono come reato la negazione del genocidio armeno e qualsiasi affermazione tendente a non considerare la schiavitù come un “crimine contro l’umanità”». Per alcuni mesi, qualche anno fa, sembrò addirittura che la «negazione del genocidio» sarebbe diventata un reato europeo.
Fu quello il momento in cui gli storici cominciarono a manifestare le loro preoccupazioni e a lanciare segnali d’allarme. Fra i primi a prendere posizione vi furono Pierre Nora, autore di un grande studio sui luoghi della memoria, e René Rémond, storico della Francia moderna e contemporanea. Il primo è di origine ebraica, il secondo, morto nel 2007, era cattolico. Nora, in particolare, ha creato un’associazione («Liberté pour l’histoire») e ha chiesto ad altre sedici persone di firmare un appello. Appartengo a quel gruppo, e credo che la migliore risposta alla sua lettera, caro Perinelli, sia la riproduzione del testo: «Preoccupati dei rischi di una moralizzazione retrospettiva della storia e di una censura intellettuale, noi ci appelliamo alla mobilitazione degli storici europei e alla saggezza dei politici. La Storia non deve essere schiava dell’attualità né essere scritta sotto dettatura da memorie concorrenti. In uno Stato libero nessuna autorità politica ha titolo per definire la realtà storica e per restringere la libertà dello storico sotto la minaccia di sanzioni penali. Agli storici noi chiediamo di raccogliere le loro forze all’interno del loro Paese creando strutture simili alla nostra e, in questo momento, di firmare individualmente questo appello per imprimere un colpo di freno alla deriva delle leggi sulla memoria.
Ai responsabili politici chiediamo di comprendere che se hanno l’obbligo di custodire la memoria collettiva, non devono istituire, con una legge e per il passato, delle verità di Stato la cui applicazione giudiziaria può avere gravi conseguenze per il mestiere dello storico e per la libertà intellettuale in generale. In democrazia la libertà per la storia è la libertà di tutti».

Corriere 21.10.13
E tu di che cervello sei? Nuova teoria su come pensiamo
Il Dalai Lama è del tipo riflessivo, Liz Taylor di quello elastico
di Massimo Piattelli Palmarini


Uscirà nei prossimi giorni (da Simon and Schuster, il 5 novembre) un libro intitolato «Top Brain, Bottom Brain: Surprising Insights Into How You Think», ovvero: «Cervello alto e cervello basso: rivelazioni sorprendenti su come pensiamo». Ne sono autori il noto neuroscienziato cognitivo Stephen M. Kosslyn, professore a Harvard, e lo scrittore e sceneggiatore G. Wayne Miller. Gli aggettivi alto e basso si contrappongono ai precedentemente ben noti destro e sinistro, perché Kosslyn e Miller intendono fare piazza pulita della leggenda (secondo loro) che esista un cervello destro, deputato alle forme, l’immaginazione e le analogie e un cervello sinistro, deputato invece al calcolo, la logica e il linguaggio.
Kosslyn è stato uno dei neurobiologi cognitivi più importanti degli ultimi anni, noto soprattutto per le sue ricerche sulla «pura» formazione di immagini mentali a occhi chiusi e la sbalorditiva somiglianza di questa con la reale visione, non solo dal punto di vista cognitivo, ma anche per via dell’identica attivazione di alcune regioni cerebrali in entrambe, mostrata proprio da Kosslyn e collaboratori circa venti anni orsono. Ma quale percorso ha portato oggi Kosslyn all’individuazione del cervello alto e basso? «Già nello studio della visione e della cognizione visiva mi ero interessato alla differenza tra le connessioni ventrali (quindi basse) e dorsali (quindi alte). Poi ho notato interessanti corrispondenze di questa suddivisione anatomica e funzionale in altri campi. Con due collaboratori abbiamo svolto una vasta ricerca su tutto quanto si sapeva, pubblicata su American Psychologist due anni fa. Diventava importante evitare la distinzione destro/sinistro, analitico/intuitivo, logico/creativo. Volevamo analizzare in modo diverso come le diverse parti del cervello elaborano l’informazione. È sorta in me l’idea che il cervello, come un tutto, è un sistema integrato e dobbiamo considerare come le diverse parti interagiscono. Sono emersi i quattro modi di interazione che descriviamo nel libro, che si propone di far riflettere sulle implicazioni, tutte testabili, di questo nuovo modo di analizzare cervello e pensiero».
I quattro modi di funzionamento e interazione identificati da Kosslyn e Miller per il cervello alto e il cervello basso si chiamano Dinamico («Mover») , Riflessivo («Perceiver») , Creativo («Stimulator») ed Elastico («Adaptor») . E possono essere rispettivamente caratterizzati così.
Dinamico (Mover) : utilizzo alternativo, a scelta, sia del cervello alto che del cervello basso, un modo di funzionamento che si traduce in pianificazione a lungo termine, azioni costanti, con conseguenze positive ma non immediate delle azioni. E che rende atti a diventare leader. Tipico di persone che hanno dovuto attraversare un’infanzia difficile o notevoli iniziali contrarietà, poi superate. Gli esempi indicati nel libro sono i fratelli Wright, pionieri dell’aviazione, il presidente Franklin Delano Roosevelt e la star televisiva americana Oprah Winfrey.
Riflessivo (Perceiver) : utilizzo opzionale e modulare del cervello basso, ma non del cervello alto. Esplorazione in profondità del proprio pensiero e delle proprie azioni, situandoli in un contesto ampio. Esempi citati: religiosi come il Dalai Lama e scrittori come Emily Dickinson. Schivi, poco inclini ad apparire sotto i riflettori, in genere non realizzano personalmente dei grandi progetti e non ricevono credito per quanto hanno suggerito.
Creativo (Stimulator) : l’inverso del modo precedente. Intenso uso del cervello alto, ma non del cervello basso. Eseguono progetti anche complessi, ma non si curano di seguirne le conseguenze, né sanno modificare i progetti quando cambiano le situazioni. Possono essere creativi e originali, ma rischiano di non fermarsi in tempo, creando problemi a loro stessi e agli altri. L’esempio è il campione di golf Tiger Woods, oppure alcuni ben intenzionati attivisti sociali americani che hanno fallito, alla fin dei conti, nel conseguire i propri obiettivi.
Elastico (Adaptor) : scarso uso opzionale tanto del cervello alto che del cervello basso. Niente progetti a lungo termine. Si è assorbiti dal contingente e dalle richieste immediate dell’ambiente. Si segue il gregge, anche se spesso si è giudicati spiritosi e vivaci. Si è ottimi membri di un team, negli sport e nelle imprese. Tra gli esempi: alcuni celebri campioni americani di baseball e, curiosamente, anche l’attrice Elisabeth Taylor, che risulta essere stata donna molto spiritosa, ma cattiva programmatrice della propria vita privata, con i suoi ben otto matrimoni.
Resta il tema del linguaggio. Come rientra in questa nuova suddivisione?
Le aree cerebrali connesse con il linguaggio, a detta di Kosslyn, sono particolarmente interessanti: «A prima vista sembrano una notevole eccezione alla nostra generalizzazione sulle funzioni del cervello alto (top) e del cervello basso (bottom). Infatti l’area di Broca, notoriamente coinvolta nella produzione del linguaggio, si situa in quella che per noi è la regione inferiore del lobo frontale. Riceve ricche connessioni dalle regioni superiori di tale lobo, ma anche dal lobo temporale e dalle regioni motorie, somato-sensoriali e parietali». Quindi quali conclusioni si possono trarre? «Questo schema di connessioni suggerisce che l’area di Broca funziona in parte come se appartenesse al cervello alto, come sarebbe da aspettarsi, dato che controlla la bocca, la lingua, le labbra e le corde vocali durante la produzione del linguaggio. Però sappiamo anche che quest’area si attiva quando capiamo il linguaggio e questo è caratteristico delle funzioni del cervello basso. Inoltre, si attiva quando cerchiamo di capire il senso delle azioni delle altre persone, e dei loro gesti non verbali, di nuovo una funzione del cervello basso. Quindi, l’area di Broca gioca un ruolo nel classificare e interpretare le informazioni che riceviamo dall’esterno, come ci aspettiamo che avvenga, data la sua localizzazione anatomica. Dato che, però, gioca anche un ruolo nel generare i movimenti dell’apparato vocale, si conferma quanto sosteniamo nella nostra teoria: i due sistemi cerebrali, alto e basso, interagiscono senza posa e lavorano sempre insieme».
Fino a ieri, alcuni sostenitori della diversità tra cervello destro e cervello sinistro non hanno lesinato «ricette» su come migliorare la nostra intelligenza, attraverso esercizi mentali, allenamenti a diversi tipi di pensiero e simili. La nuova teoria del cervello alto e del cervello basso di Kosslyn non offre nulla di simile. «Assolutamente no, nessun suggerimento di questo tipo, nessuna ricetta, nessuna terapia. Sottolineiamo ripetutamente nel nostro libro che nessuno dei quattro “modi” di funzionamento integrato del cervello è superiore agli altri tre. Ciascuno di questi è più o meno utile degli altri in circostanze diverse».
Il libro traccia ciascuna di queste biografie esemplari e spiega in dettaglio come le varie fasi e il profilo biografico globale mostrino l’attivazione e l’interazione (o la mancanza di interazione) tra i due cervelli. Personalmente, sono piuttosto persuaso che la storia del cervello destro e sinistro, seppur gonfiata a dismisura e divulgata in modo talvolta grezzo, non sia una leggenda. Ma forse, da ora in avanti, potremmo integrare queste suddivisioni, e parlare di cervello basso sinistro, alto destro e così via. Qualche biografia paradigmatica italiana non mancherebbe, ma asteniamoci, per ora.

Corriere 21.10.13
La legge di Coelho: la Natura è guerra
«L’inverno si confronta con l’autunno e l’autunno con l’estate. Dobbiamo adattarci»
intervista di Armando Torno


Un colloquio con Paulo Coelho offre sempre riflessioni. Lo scrittore brasiliano si esprime con concetti essenziali, forti, diretti. I suoi personaggi sono dei contemporanei, anche se vissero secoli fa. Per tale motivo la data 14 luglio 1099, giorno in cui Gerusalemme si prepara all’invasione dell’esercito crociato, quanto proferisce un uomo greco, conosciuto come il Copto, ci riguarda. Questo signore — si legge ne Il manoscritto ritrovato ad Accra (Bompiani) — ha riunito gli abitanti della città, senza curarsi del sesso o degli anni, nella piazza dove Pilato consegnò Gesù ai suoi esecutori. Ci sono cristiani, ebrei e musulmani; tutti attendono un discorso che li inciti alla imminente battaglia, ma il vecchio saggio, rovesciando le regole, li invita a prestare attenzione agli insegnamenti che giungono dalla vita di ogni giorno, siano essi sfide o difficoltà da affrontare. Il Copto sostiene che la vera saggezza nasce dall’amore, dalle perdite sofferte, dai momenti di crisi oltre che da quelli di gloria. Persino dalla meditazione sulla morte. Per questo e per numerosi altri motivi abbiamo rivolto alcune domande a Paulo Coelho. L’occasione è il suo ritorno a Milano. Una eccezionale serata che dopodomani lo vedrà ospite in Duomo.
Desidera aggiungere un pensiero a «Il manoscritto ritrovato ad Accra»?
«Quello che si trova in questo mio libro è una denuncia contro la mancanza di valori che caratterizza la vita di oggi e che tutti avvertiamo. Non parlo di quelli convenzionali o borghesi, insomma del genere che cercano di imporci e che sono altrettanto pericolosi».
Di quali allora?
«Mi riferisco ai valori che guidano la nostra esistenza, quelli veri in ogni tempo. Noi oggi ci dibattiamo nel mezzo di una confusione creata dal “politicamente corretto”. Parlare di questo e di altre cose scontate è inutile».
Si potrebbero forse riassumere in una soltanto...
«Sì, tutti i valori che contano potremmo vederli riflessi nella domanda che Dio pose a Caino, immediatamente dopo il primo omicidio che si vide sulla Terra. Caino uccide suo fratello Abele e Dio gli chiede senza giri di frase: “Dov’è tuo fratello?”. Ritengo sia questa la domanda a cui dobbiamo rispondere. Proviamo a porcela: “Dov’è mio fratello?”».
Lei intende dire...
«Semplicemente che dobbiamo chiederci come sia possibile realmente aiutare i nostri fratelli in un momento storico in cui disponiamo di tanti strumenti per farlo, come le social community, per esempio; ma anche per il fatto che siamo molto più impegnati e molto più informati, grazie a Internet, su quello che succede nel resto del mondo».
Ne «Il manoscritto trovato ad Accra»...
«Mi scusi se la interrompo ma vorrei dire che in questo libro non desidero contrapporre semplicemente la pace alla guerra. Quello che ho cercato di analizzare è il rapporto che intratteniamo con i nostri nemici, con coloro che la pensano diversamente da noi. E quando parlo di pace, non mi riferisco a qualcosa di statico ma di dinamico. La Natura ci insegna che viviamo in uno stato di conflitto costante. L’inverno si confronta con l’autunno e l’autunno con l’estate; e così di seguito. In fondo la Natura è questo processo costante di adattamento alle circostanze della nostra vita».
È possibile comprendere questo confronto?
«Le risponderò con un semplice invito: guardi in cielo in una limpida notte e vedrà le stelle. Ma in realtà gli infiniti astri luminosi che costellano la volta celeste non sono altro che grandi esplosioni, e tali esplosioni sono una metafora di quelle che viviamo dentro di noi».
Scusi, prima stava parlando di pace...
«Sono convinto che la pace sia uno stato mentale, che non esclude però il confronto. Il confronto è molto importante, un sotto tema del fatto che ogni giorno ci troviamo dinanzi a nuove sfide, nuove decisioni da prendere. Se si ricerca semplicemente la pace senza desiderarla in noi si finisce vittima di una routine distruttiva».
La pace dunque...
«Mi scusi se interrompo ancora la sua domanda ma desidero ribadire che io credo fermamente in quanto sostenuto da Carl Gustav Jung in merito all’anima del mondo (e questo lo si evince anche dal mio libro L’Alchimista ). Tutte le cose hanno un senso, o meglio: tutto è una cosa sola. Noi siamo parte di un’anima gigantesca che io chiamo Dio. Siamo il sogno di Dio, e possiamo decidere se trasformare questo sogno in un incubo oppure in qualcosa di bello. Potremmo anche dire che l’anima custodita in ogni uomo è un frammento del sogno di Dio e noi partecipiamo a questo sogno».
Forse in un sogno è difficile trovare la soluzione che il mondo cerca ...
«Sono pienamente connesso con l’attuale momento storico e questo lo si comprende anche da “Il manoscritto ritrovato ad Accra”, un libro, devo sottolineare, che narra di eventi in teoria accaduti secoli fa. Tuttavia, nonostante il tempo trascorso, non abbiamo imparato nulla. Tutto è rimasto com’era: i nostri valori, le nostre domande continuano ad essere senza risposta. Oggi, ovviamente, possiamo volare, disponiamo di aeroplani sofisticati, abbiamo Internet, ogni genere di auto, tutto, ma i nostri interrogativi non hanno ancora trovato una soluzione. E non penso sia tanto importante avere una risposta perché l’essenziale è accettare la vita, che è un mistero. Occorre essere umili da non rifiutare proprio tale mistero. Oggi, quello che cerco di fare è essere umile di fronte al mistero della mia vita. Rispettandolo».
Ora la sua vita passerà un grande momento nel Duomo di Milano...
«Si tratta di un’occasione speciale della mia esistenza, di quelle che non si dimenticano. Tante volte mi sono recato al Duomo, ne ho osservato l’architettura e mi sono detto: “Mio Dio, questo è uno dei monumenti più belli al mondo!”. Ora, improvvisamente, grazie ai miei lettori, alla mia casa editrice, ai librai avrò l’opportunità di essere lì, di rivolgermi alle persone più care. La considero una benedizione di Dio. Significa molto per me pensare che mi troverò in una cattedrale che è una pietra miliare della storia».
Proferite tali parole nel suo inglese ben curato, Paulo Coelho sembra desideroso di fuggire altrove. Dalla Gerusalemme dei Crociati o dagli azzardi dell’alchimia, dal Duomo dove si riflettono i lavori di Leonardo e i desideri di Napoleone, le omelie veementi di Carlo Borromeo e il fonte battesimale in cui divenne cristiano Agostino, Coelho corre nella realtà. Semplicemente aggiunge: «Sono grato a Elisabetta Sgarbi, il mio editore, per il suo sostegno, per la fiducia che ha avuto in me nel tempo. Quando lesse le bozze del mio primo libro, decise di stamparne 50 mila copie. Mi ricordo che pensai, giacché sono una persona responsabile e non voglio deludere, “Mio Dio, 50 mila copie in un Paese dove sono un emerito sconosciuto!”». Sorride. Si sistema il maglione nero. Forse potrebbe proferire altre frasi, ma chi scrive desidera aggiungere la risposta di Elisabetta a tali parole: «Fu una scommessa, in cui tutti credemmo, come se L’Alchimista e il suo protagonista avessero conquistato anzitutto noi, prima che librai e lettori. Quello che ora mi pare importante è sottolineare la continuità del successo di Paulo Coelho in Italia: non ha eguali in nessun altro Paese in cui i suoi libri sono tradotti».

Repubblica 21.10.13
Il mio Kafka segreto
Quelle pulsioni omosessuali nascoste nei romanzi
Alcuni biografi rintracciano nell’autore del “Processo” desideri repressi alla base di diverse sue inquietudini. Le riflessioni dello scrittore irlandese John Banville
di John Banville


Che dobbiamo fare di Kafka? Sicuramente non quello che fece lui di se stesso, o quantomeno che voleva farci credere di aver fatto di se stesso. In una lettera alla sua paziente fidanzata Felice Bauer dichiarava: «Sono fatto di letteratura: non sono e non posso essere altro». Questa concezione di se stesso come artista tormentato è strettamente collegata alla visione della sua situazione come quella di un uomo che fatica a mantenere la propria salute e sanità mentale di fronte a un mondo implacabilmente inospitale. Negli annali della lamentazione, da Giobbe e Geremia all’Innominabile di Beckett, nessuno si è consacrato all’arte del gemito costante con la dedizione, la energia e la squisita sottigliezza dell’autore dellaCondanna e diLettera al padre, dei diari e della corrispondenza con Felice Bauer e con l’amante Milena Jesenská, oltre che con il suo amico Max Brod.
Nonostante la particolarità delle sue opere – quale altro scrittore ha modellato un panorama letterario così istantaneamente riconoscibile come il suo? – come artista Kafka generalmente viene visto come un foglio bianco. Nel suo breve saggio intitolato Franz Kafka: The Poet of Shame and Guilt,
Saul Friedländer cita la definizione del grande scrittore data dal critico tedesco-americano Erich Heller («il creatore della lucidità più oscura nella storia della letteratura») e prosegue osservando che l’impenetrabilità dei testi di Kafka ha fatto sì che venisse visto come un ebreo nevrotico, un religioso, un mistico, un ebreo che si odiava, un criptocristiano, uno gnostico, il messaggero di un freudianesimo antipatriarcale, un marxista, l’esistenzialista per eccellenza, un profeta del totalitarismo o dell’Olocausto, una voce simbolo del modernismo, e molto altro ancora… Reiner Stach, nella sua biografia di Kafka (ancora non terminata) si sforza di giungere a una conoscenza altrettanto approfondita dell’oggetto dei suoi studi, e dell’epoca e del luogo in cui visse e lavorò. Stach è al tempo stesso estremamente ambizioso e lodevolmente modesto. Il suo desiderio, ci dice, è arrivare a percepire «che cosa significa essere Franz Kafka», ma al tempo stesso lascia intendere che cercare anche soltanto «di avvicinarcisi un po’» è un’illusione: «I tranelli metodologici non servono: le gabbie della conoscenza rimangono vuote, cosa otteniamo allora in cambio di tutti i nostrisforzi? La vera vita di Franz Kafka? Certamente no. Ma un’occhiata fugace o uno sguardo prolungato su di essa sì, forse questo è possibile».
Uno degli elementi del metodo seguito da Stach consiste nel tracciare punto per punto una mappa dei dati biografici disponibili, confrontandola con i dati autobiografici inseriti nelle opere di Kafka (e Kafka è autobiografico ovunque, anche se cerca di coprire le sue tracce con cura meticolosa). Il volume due,Die Jahre der Entscheidungen,comincia nel maggio del 1910, in mezzo all’eccitazione per l’approssimarsi della cometa di Halley. «Per mesi i giornali avevano parlato in toni allarmati del rischio di una collisione, di esplosioni gigantesche, incendi enormi e onde di marea, la fine del mondo ». Il 18 maggio, il giorno in cui la cometa si sarebbe schiantata sulla Terra o le sarebbe passata accanto senza far danni, folle eccitate affollavano le strade e i caffè di Praga, fra loro «un uomo magro e nerboruto... più alto di una testa di tutti quelli intorno a lui». Viene da chiedersi quanta attenzione dedicasse Kafka alla paventata collisione celeste. Se vogliamo basarci sui diari e sulle lettere, dobbiamo concluderne che guardava agli eventi importanti della sua epoca con una stanca indifferenza; basta pensare alla sua famosa annotazione nel diario del 2 agosto 1914: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio scuola di nuoto».
Definendo, meravigliosamente, Kafkacome «il poeta del suo stesso disordine», Friedländer espone la sua tesi in modo esplicito: «I Diari e le Lettere indicano abbastanza chiaramente che – fatta eccezione per il costante rimuginare sulla sua scrittura, la quintessenza del suo essere – le questioni che tormentarono Kafka per la maggior parte della vita erano di natura sessuale».
Più avanti Friedländer rafforza la sua tesi, insistendo che «a parte la supremazia assoluta che attribuiva allo scrivere, le questioni sessuali diventarono la preoccupazione più ossessiva nella vita di Kafka». Di che genere erano queste questioni sessuali? «Tutte le fonti indicano […] che i suoi sensi di colpa non erano collegati a iniziative concrete da parte sua, ma a fantasie, a possibilità sessuali immaginate». E queste possibilità, lascia intendere Friedländer, erano in origine di natura omoerotica.
Friedländer basa la sua tesi principalmente su prove interne ricavate dai romanzi e racconti di Kafka, ma indaga anche su certe omissioni fatte da Max Brod nelle versioni delle lettere e dei diari date alle stampe. Ad esempio, c’è un’annotazione del 2 febbraio 1922 che Brod, scrive Friedländer, «censurò nella traduzione inglese», ma lasciò inalterata in tedesco. Ecco quello che scrisse Kafka, con i passaggi «censurati» tra parentesi quadre: «Fatica sulla strada per [il] Tannenstein la mattina, fatica mentre guardo la strada di salto con gli sci. Felice piccolo B., in tutta la sua innocenza un po’ offuscata dai miei fantasmi, almeno ai miei occhi, [specialmente la sua gamba distesa con il calzino grigio arrotolato], il suo sguardo che vaga senza meta, le sue chiacchiere senza scopo. A questo proposito mi viene in mente ma questo è già forzato che verso sera voleva andare a casa con me».
C’è anche qualche sguardo di ammirazione lanciato in direzione di un paio di giovani svedesi di bell’aspetto. Non si possono certo definire delle prove schiaccianti: l’elemento forse più significativo è il fatto che Brod abbia ritenuto necessario operare queste discrete omissioni, perché sembra indicare che nutrisse sospetti concreti sulle tendenze sessuali del suo amico.
Friedländer, al pari dell’esperto di Kafka Mark Anderson, ritiene «altamente improbabile che Kafka abbia mai preso in considerazione la possibilità di relazioni omosessuali », né cerca di dare a intendere, neanche per un momento, che le «possibilità sessuali immaginate» che Kafka può aver coltivato siano la chiave per svelare gli enigmi al centro del corpus di opere del grande scrittore.Ma una volta che questo genio è uscito dalla bottiglia, non c’è modo di farcelo rientrare. Desideri omosessuali repressi senza dubbio spiegherebbero alcune delle più singolari tra le oscure inquietudini dello scrittore praghese, come il disgusto verso le donne che spessissimo manifesta, la sua fascinazione per la tortura e lo svisceramento, e soprattutto, forse, l’ossessione di tutta una vita per suo padre, o per meglio dire per il Padre, l’eterno mascolino.
Le reiterate crisi di disgusto verso se stesso dello scrittore sono impressionanti, e spesso rasentano l’isteria. In una lettera a Milena Jesenská, Kafka offre una delle sue metafore più belle e terrificanti – «Nessuno canta così puro come coloro che sono nel più profondo inferno; – quello che crediamo il canto degli angioli è il loro canto» – ma la fa precedere da una sofferta ammissione (o è una distorta forma di vanteria?): «Sporco sono, Milena, infinitamente sporco, perciò faccio tanto chiasso per la purezza». E questo lo diceva una persona ossessivamente e schifiltosamente astemia e semivegetariana, di cui amici e conoscenti commentavano spesso e volentieri l’eleganza dei suoi completi blu e il candore immacolato delle sue tovaglie e delle sue lenzuola. Kafka senza dubbio si portava qualche oscuro turbamento nel profondo dell’animo.
© 2013 by John Banville
Lo scrittore e giornalista irlandese è nato nel 1945. Il suo ultimo libro tradotto in Italia s’intitolaUna educazione amorosa(Guanda)

Repubblica 21.10.13
Clelia Farnese, una vita ribelle
La biografia di Gigliola Fragnito sulla bellissima nobildonna
di Benedetta Craveri


«Questo libro racconta la storia del sequestro di una donna nella Roma di Sisto V: non di una donna qualsiasi, ma della bellissima Clelia, figlia naturale del cardinale Alessandro Farnese, nipote di Paolo III». Fin dall’incipit del suo nuovo libro,Storia di Clelia Farnese. Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma (Il Mulino, pagg. 340, euro 25), Gigliola Fragnito mette in chiaro di avere cambiato prospettiva di ricerca.
Dopo avere dedicato alle strategie censorie della Chiesa post-tridentina saggi importanti come La Bibbia al rogo (1997) eProibito capire(2005), l’autorevole studiosa ha infatti provato a ricostruire, intrecciando approccio biografico, storia politica e microstoria, l’avventura di una giovane nobildonna ribelle in lotta con il proprio destino, alla luce degli usi e costumi della società in cui si era trovata a vivere. Ma l’autrice non si è limitata a raccogliere, di archivio in archivio, una formidabile messe di documenti, facendone la solida impalcatura di una indagine appassionante. Ha saputo trovare iltono, il linguaggio, il ritmo narrativo giusto per raccontare in sedici brevi capitoli, per la gioia di tutti i lettori che amano la storia, una vicenda che avrebbe incantato Stendhal, sullo sfondo fastoso e crudele di una Roma tardo rinascimentale.
Veniamo alla protagonista del libro. Nata nel 1557, figlia naturale del cardinale Farnese e di madre ignota, Clelia fa il suo ingresso in società a quattordici anni, nel 1571, nel momento in cui suo padre la dà in moglie a Giovan Giorgio Cesarini. Le alleanze matrimoniali, come si ha modo di vedere nel corso della lettura, costituiscono lo strumento per eccellenza usato dalle grandi famiglie per estendere e rafforzare la loro rete di influenza. I primi a farvi ricorso sono i papi con i loro bastardi eAlessandro, che aspira alla tiara, non è da meno.
La scelta di Cesarini – vanaglorioso, libertino e terribilmente rozzo – non è tuttavia felice e, dal canto suo, Clelia si rivela presto una pericolosa pietra d’inciampo per le ambizioni paterne. Bella, intelligente, piena di gioia di vivere – nel suo
Viaggio in Italia,Montaigne la ricorderà come «la più amabile donna che fosse allora in Roma» –, Clelia si impone presto come una delle più brillanti protagoniste della scena mondana. Gli Avvisi (prime forme di giornalismo) e le “pasquinate” ne registrano i successi, ma anche le intemperanze. Poco incline alla sottomissione d’obbligo per le spose cristiane, la giovane donna non si rassegna ai tradimenti del marito e non si limita alle scenate. Nel 1579 circola anche la voce che abbia bastonato a morte la Bella Barbara, la cortigiana amata dal marito.
Il comportamento di Clelia è in sintonia con quello dell’alta società romana che dopo la morte del domenicano Pio V, interprete intransigente dell’ortodossia religiosa e morale della Controriforma, ha tirato un sospiro di sollievo ritornando alle vecchie abitudini. Ma se la spregiudicatezza dei principi della Chiesa non accenna a diminuire, l’ipocrisia è ora d’obbligo e le apparenze vanno rispettate. È quanto Alessandro Farnese, dominato dall’ossessione di diventare papa, esige inutilmente dalla figlia che non riesce a capire la necessità di questa doppia morale. Ne ha invece colto perfettamente l’importanza il più pericoloso rivale di Alessandro, il cardinale Ferdinando de’ Medici, che già nel 1569 informava la sorella Isabella «della libertà che qui si ha segretamente, et quanto noi siamo fuori dalle riforme».
Alessandro riuscirà a sbarazzarsi della presenza ingombrante della figlia quando questa, a ventotto anni, diventerà vedova. Madre di un figlio che ama teneramente e finalmente padrona di disporre di sé, Clelia si rifiuta testardamente di riprendere marito e Alessandro non si fa scrupolo di ricorrere alle maniere forti. Con l’assenso, sia pur recalcitrante, del papa, Clelia viene rinchiusa nella Rocca di Ronciglione e poi costretta a passare a seconde nozze con Marco Pio di Savoia, marchese di Sassuolo. Non meno infedele e brutale del primo, il secondo marito di Clelia ha, agli occhi del cardinale Farnese, il pregio di risiedere nei suoi feudi padani e dare solide garanzie di tenere la moglie lontana da Roma.
Separata dal figlio, relegata in provincia, alla mercé di un marito violento, Clelia vivrà attanagliata dalla nostalgia e la scomparsa del padre, la morte insperata del marito, ucciso in un agguato, non le consentiranno di recuperare il tempo perduto.
Liberatosi della figlia, Alessandro Farnese non riuscirà però ad avere ragione di Ferdinando de’ Medici e la storia di Clelia si intreccia a quella della rivalità dei due cardinali nemici. Una rivalità che si gioca sullo scacchiere politico come nelle alleanze matrimoniali, sulla preziosità delle collezioni antiquarie come sulla magnificenza dei ricevimenti e l’importanza delle residenze – Alessandro riceve splendidamente a Palazzo della Cancelleria e Caprarola, Ferdinando si spinge fino ad organizzare una caccia alla leonessa a Villa Medici sul Pincio. Ma, miglior politico del Farnese, è l’astuto, dissimulato cardinale fiorentino ad avere la meglio: dopo aver impedito l’elezione del nemico al soglio pontificio, succederà al fratello sul trono di Toscana. Dobbiamo prestare fede alla voce di una relazione fra Ferdinando e Clelia – «Il Medico cavalca la Mula Farnese »? La Fragnito non si sbilancia, ma mostra bene come entrambi i cardinali se ne siano serviti, sia pure per opposte ragioni, per perdere Clelia.

IL LIBRO Storia di Clelia Farnesedi Gigliola Fragnito (Il Mulino pagg. 340 euro 25)

Repubblica 21.10.13
Un padre di nome Bergman
I ricordi di Linn Ullmann “Prima che morisse progettammo un libro insieme”
Mentre esce il suo nuovo romanzo “La ragazza dallo scialle rosso”, la figlia del regista rievoca i loro dialoghi e i rapporti con Truffaut e Fellini
di Mario Serenellini


PARIGI Si fa avvolgere nei suoi romanzi dalle nebbie di Norvegia, che adora per le movenze misteriose, ma la sua scrittura è piena di luce. Luce di set, che dà forma ai personaggi, artificio solare che ha segnato la vita dei suoi genitori: Liv Ullmann e Ingmar Bergman. «Quando scrivo, la luce è subito lì. E mi chiedo: a questo punto che farebbe il direttore di fotografia di mio padre, Sven Nyqvist?». Lontana dai set ma non dal cinema, di cui è spettatrice appassionata ampiamente preparata dal padre e da cui ricava “istruzioni per l'uso” nella fabbricazione delle sue storie montaggio alternato, va e vieni nel tempo e nello spazio -, Linn Ullmann è al suo quinto libro, che esce da Guanda, La ragazza dallo scialle rosso(pagg. 369, euro 18). Lontano e vicino alla sua infanzia, alle nonne, al padre, alla madre: un romanzo dove un delitto di stupida crudeltà avvia sguardo e riflettori su una comunità domestica affettuosamente oppressiva e inestricabile, composta dai genitori, due figlie e una nonna di sontuosa e solitaria indipendenza, con background d'antichi lutti e risentimenti. Dalla lucenebbia del romanzo non tarda a prender corpo il ricordo del padre: per l'autrice, occhi chiari e capelli biondi della madre, il richiamo più concreto è l'isola di Fårö, dove il regista delPosto delle fragole e diFanny e Alexander, dopo decenni di volontario esilio, èmorto nel 2007, a 89 anni.
Nel romanzo di Linn Ullmann, una figlia va a ritrovare il padre con cui non ha più rapporti da anni, lasciato a sé stesso nell'isola di Fårö: molti potrebbero immaginare che sia lei. «Io sono un po' in tutti i miei personaggi, nel bene e nel male», risponde Linn. «Ma mai situazioni e figure sono per intero la mia autobiografia. Nei mesi che hanno preceduto la morte di mio padre, mi sono trasferita a Fårö, con mio marito e la figlia più piccola. Avevo un progetto, con mio padre: scrivere un libro insieme. Io gli avrei rivolto domande, lui avrebbe risposto e io avrei trascritto. Tutto sul filo dei ricordi, un approccio alla natura stessa della memoria: che cos'è, che significa il fatto che la perdia-mo, come possiamo ricorrervi per creare qualcosa di nuovo... La sua malattia s'è però aggravata e il libro che avevamo progettato non l'abbiamo finito».
Nei ricordi di Linn riaffiorano gli ultimi giorni trascorsi con suo padre. «Abbiamo passato la maggior parte del tempo a parlare di noi: molto anche di musica, dei film che a entrambi erano piaciuti, della famiglia, tutte le mogli e tutti i figli, la nonna che lui aveva tanto amato. Qualche giorno prima che morisse, ho chiamato mia madre chiedendole se voleva venire a Fårö a dirgli addio. È arrivata subito. L'ultima ora, l'ha passata con lui».
Una nonna giganteggia nel romanzo: ne è il volano eccentrico, forse la figura più giovane, libera edisperata. «Quanto mi sono divertita a costruire quel personaggio! È una donna tragica, comica, anarchica, chic, testona, non appena possibile ubriaca e ancora bellissima: una donna anziana dal passato pieno e con tanti segreti, mai pronta a morire. Il modello viene forse dalla nonna paterna, che ho conosciuto solo dal racconto di mio padre, perché è morta nel 1966, l'anno in cui sono nata. Ma soprattutto, nel personaggio c'è molto della nonna materna, con cui ho avuto un rapporto molto forte. S'è occupata di me quand'ero bambina. Era libraia e lettrice accanita: non potrò mai ringraziarla abbastanza per il ruolo che la letteratura ha poi avuto nella mia vita. Le ho dedicato il mio terzo romanzo, Grace».
A molti potrebbe venire in mente un remake dell'infanzia di François Truffaut, lui pure svezzato dalla nonna materna, grande appassionata di libri e letture. In effetti, incalza Linn, «io sono cresciuta avendo negli occhi il cinema di Truffaut. Quando mio padre mi ha fatto vedere per la primavolta, bambina, I 400 colpi,è stato un colpo di fulmine. Sempre accanto a mio padre, e ancora bambina, ho poi scoperto La calda amante: ho creduto allora di aver imparato tutto il necessario su rapporti e sessualità tra adulti e sulla natura di uomini e donne. Da allora, ho cominciato a interessarmi in modo sempre più circostanziato all'anatomia dell'infedeltà». I suoi genitori l'hanno portata con loro nell'Italia della Dolce Vita? «Ero troppo piccina. Mi lasciavano con la nurse in Norvegia. In Italia sono venuta dopo: mai con i miei genitori. So che avevano incontrato Fellini e che a Roma avevano trascorso giornate di favola. Mia madre era bellissima. Mio padre, che non amava viaggiare, s'era comunque divertito. Per ora, la mia conoscenza dell'Italia è di turista e di lettrice, con un debole per la buona cucina e il design di classe. Grazie a mio padre, prevale, su tutto, la passione cinematografica per il made in Italy. Al suo ritorno dall'Italia, mi fece vedere film di Fellini: avevo 8 anni. Mi ricordo che, prima di proiettare
Amarcord, si girò verso di me: “Se non ti piace questo film, non ab-biamo più nulla da dirci”».
Linn Ullmann ora dirige la fondazione Bergman a Fårö. Sono molte le attività che vi si svolgono. «Prima di morire», racconta la scrittrice, «mio padre mi confidò il suo grande desiderio: che la casa e l'adorata isola di Fårö continuassero ad accogliere laboratori e ricerca artistica. Così ci siamo dati da fare per trovare finanziamenti per una residenza d'artisti non commerciale. È stata dura, ma cel'abbiamo fatta. Oggi, The Bergman Estate a Fårö esiste: possono venire e rimanere fino a tre mesi nella residenza, per lavorare su progetti d'ogni genere, artisti da tutto il mondo: filmmakers, scrittori, attori, fotografi, anche giornalisti».Riemergono altri ricordi, quello, per esempio, dei film visti insieme, la figlia e suo padre. «Erauno stage permanente! Le ultime estati, guardavamo due film al giorno: prima proiezione alle 3 del pomeriggio, la seconda alle 7. Una visione sistematica che si è ripetuta, due anni fa, a Cannes, dove ero in giuria, presidente Robert De Niro. Un gran divertimento, anche lì. La differenza tra Cannes e Fårö? A Cannes mi presentavo con abiti più ricercati e scarpe superlative». Visioni e ascolti: nel romanzo ricorre l'evocazione di “storie da capezzale”, di fiabe-ninnananna, raccontate per favorire il sonno. Come nel suo primo romanzo,
Prima di addormentarti. «È una mia esperienza infantile, meravigliosa. Mia nonna mi addormentava sempre con il racconto di qualche storia. Anche mio padre. È da mio padre e da mia nonna che ho imparato il potere, e il piacere, di raccontare storie».
«Ma i ricordi più belli restano nel cuore», conclude Linn Ullmann. «Sono quelli che trasmetto ai miei figli o su cui, chissà, scriverò un giorno un libro. Mi viene in mente la citazione di mio padre da Gertrude Stein: Le storie che racconti, non scriverle mai».

Repubblica 21.10.13
“Hedda Gabler, casalinga disperata come le quarantenni infelici di oggi”
Lo spettacolo-cult di Thomas Ostermeier al festival RomaEuropa
di Anna Bandettini


BERLINO Fra quelli che hanno seguito il teatro di questi anni è un idolo: quarantacinquenne, tedesco della Bassa Sassonia, dal ’99 alla testa dell’ambitissima e prestigiosa Schaubühne di Berlino dove è direttore artistico e regista di spettacolicult, dove oggi sta provando il nuovo Little foxesdal testo di Lillian Helman con Nina Hoss star del cinema tedesco e dove conserva sul tavolo del suo studio il Leone d’oro alla carriera ricevuto a Venezia l’anno scorso. Thomas Ostermeier arriva ora in Italia, al festival RomaEuropa, per presentare uno dei suoi successi “antichi”Hedda Gabler di Ibsen (in tedesco coi sottotitoli), un allestimento del 2005 che ha continuato a vivere nel repertorio del teatro con ovazioni internazionali da New York a Londra e critiche entusiastiche per come un “classico” sia diventato vivo, moderno, specchio dei quarantenni di oggi. L’occasione è dunque importante: perché ricapitola il senso di un’avventura con un eccellente gruppo di attori, dalla protagonista Katharina Schüttler a Jörg Hartmann, Lars Eidinger, Annedore Bauer che recitano senza mai abbandonarsi alla routine, e perché è un lavoro di interpretazione notevole, inscritto nei gesti, nelle entrate, negli sguardi, nella musica... Una Hedda Gabler che Ostermeier con il drammaturgo Marius von Mayenburg ha riletto come fosse Sarah Kane, la radicale, cupa, geniale autrice inglese.
Ostermeier la sua Hedda è una trentacinquenne col broncio, scostante e francamente antipatica. Perché?
«Perché Ibsen racconta una perversione della femminilità. Hedda è una donna egoista e pericolosa, per sé e per gli altri, annoiata dalla banalità della gente intorno a lei, compreso il mediocre marito Telman. L’arrivo di Lovborg, antica fiamma, diverso dagli altri , potrebbe essere una via d’uscita da quella mediocrità borghese, ma Hedda è debole:fuggire vorrebbe dire povertà, insicurezza... Non ce la fa e per questo odia sé e gli altri. Hedda è una terrorista».
O una quarantenne “casalinga disperata”.
«Lei ha fatto l’errore di tante donne della mia generazione, almeno in Germania, donne che hanno fatto la scelta opportunistica: “mi prendo un marito cheprovvede per me e mi fa fare la bella vita”. Fanno, cioè, quello che i loro genitori avevano messo in discussione. C’è molto spirito reazionario nella mia generazione ».
Magari lo fanno perché non hanno di meglio: lavoro non ce n’è, gli amici chissà...
«È come se i 35-40enni non ce la facessero a sostenere la batta-glia per sopravvivere: la società chiede loro troppo. Quindi stanno a casa. Specie le donne. E naturalmente questa scelta non li rende felici».
Nemmeno la sicurezza borghese?
«Sì, certo, successo, denaro, bellezza... Ho amici che scelgono una ragazza perché è bella, rappresentativa, uno status symbol. Che aberrazione: sembrava superata dagli anni Ottanta. La verità è che noi quarantenni abbiamo bisogno di un gioco che non ci faccia essere depressi per le nostre debolezze. E il gioco può essere la bella moglie, la famiglia, il benessere... Ma tutto questo non può soddisfarci. Chiediamo troppo alla famiglia, agli amici, alle mogli... Per questo ci sono tanti divorzi».
Lei è crudele con la sua generazione.
«Forse. Però alla fine dello spettacolo, quando Hedda si suicida e nessuno degli altri se ne accorge, né il marito, né gli amici, come se non fosse successo... È una scena tosta, sì, ma può anche far sorridere».

Corriere 21.10.13
Il Festival di Genova
Nella misura dei sogni più segreti
È la coscienza, più che l’inconscio, lo scandalo di quella che un tempo chiamavamo l’anima
Una «sonda» può esplorare l’attività di un cervello in coma
di Giulio Giorello


È la coscienza, più che l’inconscio, lo scandalo di quella che un tempo chiamavamo l’anima. Però, «misura ciò che è misurabile, e rendi misurabile ciò che ancora non lo è» era l’imperativo di Galileo Galilei. Con la coscienza, prima ancora di trattare sottili questioni filosofiche di come essa si colleghi al corpo, «abbiamo un problema pratico e urgente», scrivono Marcello Massimini (Università degli Studi di Milano) e Giulio Tononi (Università del Wisconsin) nel loro volume «Nulla di più grande» (Baldini & Castoldi). «Sappiamo che l’esperienza cosciente può essere generata anche da un cervello che sia temporaneamente e interamente isolato dal mondo esterno». Per esempio, «la straordinaria ricchezza dell’esperienza di un sogno ci viene regalata senza bisogno che un solo impulso nervoso entri o esca dal cranio». Tuttavia, siamo soliti valutare la coscienza altrui sulla base dello scambio di informazioni con l’esterno. Può esserci, allora, coscienza senza comunicazione? Oggi, «milioni di pazienti con lesioni cerebrali devastanti (che solo cinquant’anni fa sarebbero state letali) sopravvivono al coma e... finiscono per trovarsi in universi inaccessibili». In greco «coma» voleva dire sonno profondo; ma mentre chi dorme può essere svegliato e tornare a raccontarci i suoi sogni, il comatoso non risponde ai richiami, non ci dice cosa sia per lui quella condizione che tanto assomiglia al «sonno di morte» che turbava il principe Amleto.
Ne discuto con Marcello Massimini: «Un paziente in coma, se non muore a tempo breve, abitualmente apre gli occhi nel giro di qualche settimana: il tronco encefalico ricomincia a funzionare a pieno regime, consentendo una respirazione spontanea efficace e il recupero di quella che i neurologi chiamano vigilanza. Molti di questi pazienti, tuttavia, non recuperano la capacità di interagire con l’ambiente esterno e sono etichettati come incoscienti». In questi casi, l’assenza di una prova non significa necessariamente prova dell’assenza. Occorre andare più a fondo e sviluppare misure oggettive. Per investigare meglio il cielo, Galileo aveva messo a punto il suo cannocchiale; per Massimini, disponiamo adesso di una «sonda» che ci consente di «bussare sulla corteccia con la TMS (Transcranial Magnetic Stimulation), per ascoltare l’eco elettrica che il cervello produce tramite la EEG (Elettroencefalogramma)». Lo stimolo TMS attiva un gruppo di neuroni corticali che reagiscono generando impulsi elettrici, i quali a loro volta attivano altri neuroni con proprietà diverse, che generano nuovi impulsi elettrici, innescando una complicata reazione a catena. Insomma, questo tipo di «perturbazione» permette di saggiare quel delicato bilancio tra differenza e unità che rende il cervello un sistema complesso, un requisito teorico fondamentale per la coscienza.
La tesi di Massimini e Tononi è, in breve, che la coscienza nel cervello sia una questione di equilibrio e che la «rottura di esso non sia necessariamente irreversibile». Quali siano le procedure da seguire perché il cervello che dorme «torni a essere la meravigliosa cattedrale della coscienza» è ancora campo aperto all’indagine. In molti casi i pazienti che escono dal coma hanno subito lesioni strutturali tali da non lasciare spazio a irragionevoli speranze; ma in altri casi può andare molto diversamente. Massimini mi racconta quel che gli ha confidato un collega che era passato attraverso il coma, riassumendo il tutto in una sola battuta: «Solo ciò che è misurabile è davvero migliorabile». Sembra che questa sia una reminiscenza tratta da un saggio dello storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn (l’anno scorso ricorreva il cinquantenario del suo celebre libro dedicato alla Struttura delle rivoluzioni scientifiche). Comunque, ben si accorda con lo slogan galileiano con cui abbiamo cominciato. Massimini ci tiene a sottolineare come tutto questo vada contro un luogo comune assai diffuso, quello per cui misurare equivarrebbe a ridurre o impoverire qualcosa che vale. Invece, la misura valorizza ciò che riteniamo più prezioso. Dobbiamo persistere nell’affinare gli strumenti di misura, proprio per non cedere allo spirito di rinuncia per cui la coscienza sarebbe qualcosa di insondabile, un mistero destinato a beffarci per sempre.

Corriere 21.10.13
Il Festival di Genova
L’estetica della Scienza
Il futuro trova la grande Bellezza
di Erika Dellacasa


«Mostriamo che armonia e incanto sono anche in una mano artificiale» Alla ricerca della grande Bellezza. Quella della scienza. Del pensiero, dell’uomo, della natura, delle città e della vita. Ma, soprattutto, l’ineffabile Bellezza dei numeri (basti l’eleganza intrinseca della formula della relatività: un grande matematico diceva che se una formula non è elegante non è neanche giusta). «Abbiamo sofferto per decenni delle conseguenze della riforma Croce e Gentile — dice il presidente del Festival delle Scienze, la manager di ricerca Manuela Arata —. Quando furono separati gli studi scientifici da quelli classici, la Bellezza sembrò spostarsi tutta da una parte, quella letteraria, lasciando dall’altra una specie di pensiero arido. Non è così, non lo è stato nei secoli. La Bellezza veniva espressa classicamente con una formula: la sezione aurea. Per non parlare del rapporto fra la musica, l’armonia e la matematica. Oggi finalmente cominciamo a riconoscerlo». Con la voglia, anche, di dire che il made in Italy non ha il suo pregio estetico solo nei settori più riconosciuti nel mondo, l’arte, la moda o la gastronomia. Anche la mano artificiale progettata e costruita interamente in Italia dall’Iit di Genova e dal Centro ricerca E. Piaggio dell’Università di Pisa, un arto perfettamente in grado di afferrare con la giusta forza una fragola o una pietra, guidato solo dagli impulsi muscolari dell’avambraccio (grazie alle scoperte dei neuroscienziati), è il prodotto di un grande pensiero.
La Bellezza, dunque, introdotta da una frase di Marie Curie («Sono tra coloro che pensano che la scienza abbia una grande Bellezza. Uno scienziato nel suo laboratorio non è solo un tecnico: è anche un bambino messo di fronte a fenomeni naturali che lo affascinano come una favola»), quale filo conduttore del decimo Festival di Genova che per festeggiare il compleanno ha invitato i bambini nati il 23 ottobre del 2003, un’occasione di gioia. «Abbiamo voluto sottolineare — dice Vittorio Bo, direttore del Festival — la luce, la gioia contro i tempi difficili, lavoriamo per il futuro con uno spirito un po’ corsaro: dobbiamo cercare orizzonti nuovi per restare attrattivi». Il Festival (dal 23 ottobre al 3 novembre) ha assunto un profilo sempre più caratterizzato dalla formazione: alla divulgazione scientifica si è aggiunto un approccio informativo per i giovani «per far conoscere le nuove professioni — spiegano gli organizzatori — , i nuovi lavori che ancora oggi il sistema scolastico non è in grado di rappresentare: chi avrebbe detto che Facebook poteva diventare un lavoro e redditizio?». Arrivano così per la sezione «Capitani coraggiosi» gli imprenditori che portano ai ragazzi non solo la loro testimonianza, ma anche le immagini, i suoni delle loro aziende (ci saranno Catia Bastioli, Brunello Cucinelli ed Elena Zambon). Quest’anno il Paese ospite del Festival è la Corea del Sud, il cui sviluppo, innestato su una tradizionale cultura della Bellezza, è stato vorticoso: è il terzo Paese del mondo per registrazione di brevetti.
I momenti culminanti del Festival sono ancora gli incontri con i protagonisti della ricerca (fra questi il Nobel trentaseienne della Fisica Kostya Novoselov), perché la scienza non solo può ma deve farsi capire: lo dirà a Genova lo psicologo Daniel Goleman, che presenterà il suo ultimo libro sulla comunicazione scientifica. Che ci aiuta a capire dove viviamo. Lo farà l’intervento dell’antropologa Nina Jablonki sull’evoluzione del colore della pelle legato alla Bellezza umana (impareremo mai a vedere la Bellezza dell’altro?). Giorgio Vallortigara, studioso del cervello degli animali — con il taglio tipico del Festival che ti incuriosisce per condurti dove non avresti immaginato di avventurarti — parlerà del cervello della gallina, ingiustamente simbolo di stupidità. E il filosofo, naturalista e clarinettista David Rothenberg parlerà dei suoni degli animali. L’importante, infatti, è non fermarsi mai al luogo comune, questo insegna la ricerca. La raganella con i colori della muta è il simbolo grafico di questa decima edizione: il mondo cambia pelle se vuol diventare più bello, le idee balzano in avanti sulle zampe della raganella anche se non sanno bene dove atterreranno, la casualità fa parte del quid imponderabile della scoperta. La Bellezza è vicina.

Repubblica 21.10.13
Qualcuno dica che quel gioco non è un gioco
La sedicenne di Modena che ci svela il nostro abisso
di Concita De Gregorio


CE L’AVETE, ce l’avete avuta una figlia di sedici anni?
Che si veste e si trucca come la sua cantante preferita, che sta chiusa in camera ore e a tavola risponde a monosillabi, che quando la vedete uscire con il nero tutto attorno agli occhi pensate mamma mia com’è diventata, ma lo sapete, voi lo sapete che è solo una bambina mascherata da donna e vi si stringe il cuore a vederla uscire fintamente spavalda. Dove va, a fare cosa, con chi. Ve li ricordate, i vostri sedici anni? Quando Facebook non c’era e passavate pomeriggi al telefono fisso a dire no, sì, ma dai…, e poi quando vostro padre vi diceva ora basta, libera quel telefono vi chiudevate in camera, anche voi, a scrivere a penna su quaderno ché il computer non c’era, e se c’era era uno solo, enorme, sempre spento, inaccessibile. Ecco, fate lo sforzo di ricordare perché una ragazza di sedici anni è quella cosa lì, da sempre e per sempre anche se cambiano i modi e le mode, i vestiti e le canzoni, i modi di parlarsi perché con la chat si fa più infretta ma è uguale, in fondo.
È COME stare pomeriggi interi al telefono, a canzonare il tempo a prenderlo in contropiede e ingannarlo. Una ragazza di sedici anni è una persona a cui la vita deve ancora succedere e non lo sa, e ha un po’ paura e un po’ fretta, e molto desiderio che passi veloce il momento e che arrivi quello, alla meta dei diciotto, in cui “nessuno mi può obbligare, ora”.
Io non lo so, nessuno lo sa tranne lei e quelli che erano lì, cosa è successo alla ragazzina di Modena che – dicono gli investigatori, i parenti, ora anche gli adulti che rivestono incarichi pubblici una sera d’estate a una festa di compagni di scuola è stata violentata da cinque, sei, non è sicuro quanti amici. Amici, attenzione. Nessun livido, nessun graffio, nessun segno di violenza che segnali la sopraffazione fisica in senso proprio. Erano compagni di scuola. Alcuni maggiorenni da poco, varcata l’agognata meta dei diciotto, altri, almeno uno, no. Aveva bevuto lei, avevano bevuto probabilmente tutti perché come sa chi si guarda intorno gli adolescenti, oggi, bevono. Superalcolici, moltissimo. Costano meno delle droghe, spesso si trovano nelle case già disponibili all’uso. Shortini, alla mescita. Pochi euro a bicchiere, nessuno chiede la carta d’identità. Bevono i quindicenni come i trentenni, uguale.
Io non lo so com’è andata, quella sera, in una casa della più rassicurante delle città emiliane, la Modena delle scuole modello degli imprenditori che non si arrendono al terremoto, delle donne imprenditrici che vendono figurine nel mondo, dei ristoranti celebrati oltreoceano. Uno faceva il palo, scrivono gli agenti di polizia, gli altri a turno nella stanza “avevano rapporti sessuali completi” con la ragazzina. Non c’è niente di più algido di una relazione, niente di meno adatto a descrivere il tumulto, il disordine, lo sgomento, la resa. Lei cosa pensava, come stava, cosa voleva, cosa diceva? Non si sa, nessuna relazione può raccontarlo.
Dicono, i verbali, che erano tutti ragazzi “incensurati e di buona famiglia”. Aggiungono, le cronache, che sono passati quasi due mesi dall’evento e che nessuno – nessuno – ha fatto un gesto o ha detto qualcosa, né a scuola né in famiglia, nelle molte famiglie coinvolte, che somigliasse alla presa d’atto di un reato, o quanto meno di una vergogna, di una colpa, di un dispiacere. Niente, silenzio. Il sindaco ieri ha detto che “inquieta che questi ragazzi non distinguano il bene dal male”. Inquieta, certo. Pone il problema della responsabilità. È loro, che geneticamente, naturalmente non sanno distinguere o è della generazione che li ha cresciuti, e non gli ha fornito i ferri essenziali per l’opera di elementare distinzione? È dei figli o dei padri, la colpa?
Anni fa, a Niscemi, Caltanissetta, un gruppo di minorenni massacrò di botte, strangolò con un cavo di antenna e gettò in una vasca di irrigazione una coetanea, Lorena Cultraro, 14 anni. Era incinta, rivelò l’autopsia. Uno degli assassini, quindicenne, chiese al giudice, dopo aver confessato l’omicidio: “Ora che le ho detto cosa è successo posso tornare a casa?”. A vedere la tv, a giocare alla play. Tornare a casa. Era il 2008, cinque anni fa. Si scrissero articoli sgomenti, intervennero psicologi di fama, dissero che certo in quelle zone del Paese, al Sud, è tutto più difficile. Zone d’ombra,povertà di mezzi e di sapere, l’adolescenza sempre un enigma. Ora, cinque anni dopo, siamo a Modena. Emilia culla di bandiera di democratica civiltà e di sapere. Certo questa ragazzina non è morta, per sua fortuna. Forse non ha nemmeno lottato per evitare quel barbaro rituale che chissà, magari era proprio quello che l’avrebbe fatta diventare grande, finalmente. Forse per qualche tempo ha pensato: è stato quello che doveva essere.
Però arriverà, deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole senza essere per questo canzonato e dal coro irriso dica no, non è quello che deve, non è questo che devi accettare per essere accettata. Non devi fare silenzio. Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco. Non è nemmeno un gioco.
Verrà il giorno in cui capiremo l’abisso in cui siamo precipitati pensando che fosse l’anticamera del privé del Billionaire, che fortuna essere ammessi all’harem, e sapremo di nuovo dire, come i nostri nonni ci dicevano: è una trappola, bambina. Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l’auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.