martedì 22 ottobre 2013

il Fatto 22.10.13
L’appello
Non votate (tutti) quella riforma
Domani il Ddl che riscrive la Costituzione torna al Senato
Se non lo approvano i 2/3, referendum obbligatorio


IL VOTO FINALE dell’aula di Palazzo Madama è in calendario per domani mattina. I senatori sono chiamati a dare il via libera – in seconda e ultima lettura – al disegno di legge costituzionale che istituisce il Comitato parlamentare per le riforme. Una proposta contro cui, il 12 ottobre scorso, sono scese in piazza a Roma migliaia di persone, contrarie a questa “s co rc i a to i a ” per cambiare in fretta e furia la nostra Carta fondamentale. Ora, per il Senato, è l’ultima possibilità. E se l’approvazione sembra scontata, non è ancora chiaro quali saranno i numeri: se il ddl non ottiene i due terzi del voto, la legge dovrà essere obbligatoriamente sottoposta a referendum popolare. È quello che auspicano i firmatari dell’appello che pubblichiamo qui di seguito.
   Sig. Senatore, Sig.ra Senatrice, permetta anche ai semplici cittadini di dire la loro. La celebrazione di un referendum che consenta agli italiani di votare sulla deroga dell'art. 138 è possibile. Basta non partecipare alla votazione finale o dare un voto di astensione o votare contro il ddl di deroga dell'art. 138 su cui il Senato sta per pronunciarsi. Qualunque idea lei abbia delle riforme costituzionali, sarebbe un gesto coerente con la più volte proclamata volontà di rendere sempre obbligatorio il ricorso al referendum sulla revisione della Costituzione. In presenza di una legge elettorale su cui, peraltro, gravano forti sospetti di incostituzionalità e che distorce pesantemente la rappresentatività del voto degli italiani, sarebbe un atto di fedeltà allo spirito e alla sostanza della Carta costituzionale. Infatti, come risulta chiaramente dal dibattito all'Assemblea costituente, il quorum dei 2/3 necessario per evitare il referendum era stato pensato per un sistema elettorale di tipo proporzionale. Né si può in nome della stabilità del governo tenere fede a un “crono-programma” che impedisca ai cittadini di pronunciarsi sulla modifica di una norma importantissima della nostra Costituzione. Per questo Le chiediamo di raccogliere il nostro appello e di rendere possibile il referendum sulla revisione dell'articolo 138.

il Fatto 22.10.13
Corradino Mineo
“Io sono contro, basta ipocrisie”
intervista di Pa. Za.


Ho già inviato al capogruppo Luigi Zanda la mia dichiarazione di voto in dissenso. Non me la sento di approvare questo disegno di legge”. Corradino Mineo, ex direttore di RaiNews24, oggi senatore democratico, domani sarà uno (probabilmente l’unico nel Pd) a votare contro l’istituzione del comitato dei 40 che dovrà riscrivere la Carta.
Cos ’è che non la convince?
Indipendentemente dal merito della vicenda, io credo che dopo quello che è successo il 2 ottobre (la fiducia a Letta con retromarcia di Berlusconi, ndr) sia poco serio e poco credibile continuare a dire che stiamo facendo le riforme con il Pdl: nel Pd non ci crede più nessuno.
Ma nessuno dei suoi colleghi pare intenzionato a votare contro.
Ci sarebbe una vasta area che ragiona come me, ma c’è una prassi inerte che porta i senatori a non differenziarsi, perché se no cade il governo.
Lo chiede Napolitano.
Ha teletrasportato la politica del ‘76 ai giorni nostri. Le larghe intese nascondono il conflitto, non creano confronto.
Sulle riforme costituzionali, però, una ampia maggioranza è necessaria. Come si fa?
Io non ho paura del semipresidenzialismo in sè, il problema è con chi lo fai e con quali pesi. Se questa legge viene approvata con i 2/3 non finisce il mondo. Ma dire che possiamo farlo con il Pdl è una bugia. Berlusconi sta provando a passare come una statista, ma solo nella misura in cui risolvono i suoi guai personali.
Come se ne esce?
Rifacendo la legge elettorale e tornando ognuno alla propria strada. Ho fatto la stessa domanda ai 4 candidati al congresso del Pd. La pensano come me: aboliamo il porcellum e finiamola con le larghe intese. Il resto è un’operazione destituita di ogni credibilità.

l’Unità 22.10.13
Manovra, sfida dei sindacati
Sciopero nazionale di 4 ore in novembre
di Massimo Franchi


ROMA Non sarà generale, come chiedevano in molti. Ma in pochi pensavano si sarebbe fatto. Quattro ore di sciopero gestite a livello territoriale da qui a metà novembre. Vincendo le resistenze di Raffaele Bonanni («si decide in tre e io non ero d’accordo con lo sciopero generale»), il padrone di casa Luigi Angeletti e Susanna Camusso lanciano un segnale forte al governo per chiedere di «cambiare la legge di stabilità». Una via mediana, dunque. Sì allo sciopero subito e nel frattempo massima pressione sui partiti («Incontreremo tutti i capigruppo») per mettere a punto emendamenti che aumentino in modo sensibile il taglio del cuneo fiscale per lavoratori e pensionati. Poi il 15 novembre riunione unitaria dei direttivi di Cgil, Cisl e Uil: se la manovra non sarà cambiata, arriverà lo sciopero generale. Nel frattempo è probabile che i sindacati del pubblico impiego indicano uno sciopero generale del comparto, il più colpito dalla manovra. In quel caso i segretari generali parteciperanno in prima persona. Così come i pensionati, i primi a preparare la mobilitazione, saranno in prima fila alle manifestazioni territoriali prima di decidere un’eventuale grande manifestazione nazionale.
BONANNI ADERISCE CONTROVOGLIA
Il vertice a tre nella sede Uil di via Lucullo è durato più di due ore e mezza. Tempo trascorso a discutere sulla strategia migliore. Angeletti, Bonanni e Camusso hanno poi impiegato tutti i loro interventi in conferenza stampa per spiegare come i sindacati facciano proposte concrete per migliorare la legge. «La riduzione delle tasse sul lavoro al momento è simbolica. Ed essendo simbolica è del tutto inefficace e condanna il Paese alla stagnazione nel 2014-2015, all’aumento della disoccupazione e a nessun riassorbimento dei milioni di lavoratori oggi in cassa integrazione», ha attaccato Angeletti. Il fulcro delle proposte sindacali sta nei costi della pubblica amministrazione. «Invece che colpire i lavoratori, bloccando i loro contratti, noi facciamo proposte credibili, praticabili e secondo noi molto efficaci: adozione obbligatoria dei costi standard, accorpamento delle imprese pubbliche con poca utenza, ridurre significativamente le 30mila stazioni appaltanti, chiudere le società pubbliche che non hanno funzione», spiega il segretario generale della Uil.
Il capitolo a cui più tiene Susanna Camusso è invece quello della tassazione delle rendite finanziarie. «La legge di stabilità non determina il cambiamento necessario: il Paese rischia di perdere un’altra volta. Continuiamo ad essere il solo Paese in recessione e, soprattutto, continuiamo a perdere il lavoro. Noi vogliamo andare direttamente al punto: spostare risorse per lavoratori e pensionati. E lo si può fare anche a saldi invariati. Basta che le rendite finanziarie non siano più tassate meno di qualunque aliquota e meno che in tutta Europa, anche perché sono quelle che hanno guadagnato di più nella crisi. In secondo luogo, con un’operazione vera sui conti pubblici, non sui lavoratori che da 5 anni non hanno aumenti. Con i costi standard sui grandi beni di acquisto si può attivare un risparmio significativo, anche perché sennò rischia di vincere il partito delle privatizzazioni alla qualunque, di cui paghiamo ancora le conseguenze», chiarisce il segretario generale della Cgil.
Raffaele Bonanni ribadisce che nella «manovra ha vinto il partito della spesa pubblica, quello che si oppone al taglio degli sprechi, che difende aziende pubbliche come quella dei canarini intristiti. Non si è voluto mettere mano a sprechi, ruberie e assetti di potere». Poi si concentra sui dipendenti statali, «i più colpiti dalla manovra», storico feudo della Cisl: «Il pubblico impiego è ormai una sorta di cimitero, dove nulla si muove e a perderci sono solo le tasche dei lavoratori». Bonanni però ci tiente a non attaccare troppo il governo: «Siamo per la stabilità produttiva, niente polveroni. Parlo per me: non voglio essere confuso con tutti questi populisti che lavorano per la grande goduria dei poteri forti».
Cgil, Cisl e Uil poi non si dimenticano delle emergenze. «Per noi esodati e rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga sono emergenze e vanno risolte prima della legge di stabilità», sottolinea Camusso, «anche perché mancano ancora risorse per chiudere il 2013». «Spero che Giovannini ha aggiunto Bonanni capisca quando diciamo 'primum vivere deinde philosopharì. La nostra attenzione è rivolta sempre ai cassaintegrati e anche al processo di riassorbimento degli esodati».
SQUINZI: È UN SEGNALE DI PROTESTA
Angeletti, Bonanni e Camusso hanno più volte ricordato il loro documento sottoscritto con Confindustria. E il comune sentire con Giorgio Squinzi è continuato anche ieri. Alla notizia dello sciopero, il numero uno di viale dell’Astronomia ha commentato così: «È un segnale di protesta». E poi ha attaccato: «C'è il forte timore che nel passaggio da decreto a legge saltino fuori le solite porcate, porcherie, di cui abbiamo larga esperienza nel passato».

l’Unità 22.10.13
Tute blu
Landini (Fiom): la protesta è solo l’inizio di una stagione di lotte


«Credo che non ci si possa limitare a questa iniziativa». Così il leader Fiom Maurizio Landini, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano un commento alle quattro ore di sciopero indette dalle confederazioni sindacali contro la legge di stabilità.
«Il punto - ha aggiunto Landini a margine di un convegno a palazzo San Macuto - è cambiare radicalmente la manovra. Così non si va da nessuna parte». Quindi, per il sindacalista «questo è solo l'inizio. Bisogna non fermarsi e mettersi d'accordo su tutte le iniziative possibili, incluso anche uno sciopero generale».

Letta respinge il pressing «Dobbiamo saper dire no»
«La reazione di Cgil Cisl e Uil è precipitosa»
l’Unità 22.10.13
Se dire no è una spada a doppio taglio
di Toni Jop


Ieri Letta ha recitato una formula che è una spada a doppio taglio, e ne avrà certamente consapevolezza. Rivolgendosi alle organizzazioni sindacali, decisamente critiche sul senso di giustizia che animerebbe la recentissima manovra, ha detto: «Bisogna saper dire dei no». Sempre o solo ogni tanto?
Inutile fare gli spocchiosi: quando si fa politica, pure con serietà e coerenza, capita di doversi rimangiare alcuni assunti di partenza. Ma mai dovrebbe succedere che si possa franare, cedendo al realismo, sui principi. Per esempio, il governo ha lasciato passare una strategia sull'Imu che, cosa nota, è stata imposta dal Pdl di Berlusconi.
In netto contrasto con i criteri che la sinistra, il Pd, aveva platealmente candidato a governare la questione. E cioè, rendendo la tassa progressiva, direttamente proporzionale alla “ricchezza” dell'alloggio, sgravando i “poveri” e allo stesso tempo mettendo le casse dello Stato nelle condizioni di evitare l'aumento dell'Iva. Questione di principio: la progressività dei carichi fiscali non è una banale opzione, è una bandierina della cultura politica della sinistra. Bisognava saper dire dei no anche allora? Di nuovo: non facciamo i furbi. Se Letta avesse detto di no, probabilmente il governo sarebbe saltato. E magari non potevamo permettercelo. Così rischiamo di farlo saltare sull'impossibilità, ora, di far quadrare i conti se non facendo a pezzi qualche servizio, spingendo, in più, per amor del paradosso quel black bloc di Monti all'opposizione.

il Fatto 22.10.13
Trise peggio dell’Imu? Letta scarica il problema sui sindaci
Tra due anni le città con le casse vuote potranno tartassare le case
di Marco Palombi


Ma alla fine la nuova Imu (Trise) inventata con la legge di Stabilità sarà più pesante della vecchia Imu? Domanda rilevante – anche se rischia di far sparire dietro di sé il collasso delle spese per investimenti (circa 5 miliardi nel 2014) o la contrazione drammatica degli stipendi pubblici (dal 10,6 al 10,1 per cento del Pil) – a cui per ora si può rispondere solo all’ingrosso: la possibilità c’è, soprattutto dal 2015 in poi, anche se chi e quanto pagherà nel merito lo decideranno i singoli Comuni. La sostanza, ancor prima dei numeri, è questa: il governo ha comprato la pistola, l’ha caricata e l’ha messa in mano ai sindaci. Se sparare o no lo decideranno loro e loro si prenderanno la colpa.
ENTRIAMO NEL MERITO. Il tributo comunale Trise è diviso in due: la tariffa sui rifiuti (Tari) e quella sui servizi comunali (Tasi, modellata sull’Imu). Intanto è scontato che ci sarà un aggravio sul lato rifiuti: la Tari dovrà infatti coprire l’intero costo del servizio, obiettivo che la vecchia Tarsu (applicata ancora da quattro comuni su cinque) non raggiungeva. La mazzata vera, però, potrebbe arrivare dalla Tasi: l’aliquota per la prima casa varia dall’1 per mille (quella base indicata dal governo) al 2,5 per mille. Com’è ovvio la faccenda cambia di parecchio: da un gettito di 3,7 ad uno di 9,1 miliardi di euro. Il Tesoro, nella sua relazione tecnica, scommette sulla prima ipotesi anche perché ha stanziato un miliardo di euro per tenere basse le aliquote: in questo caso sulle prime case, dice l’esecutivo, ci sarebbe uno sgravio visto che il gettito della vecchia Imu e della componente servizi della Tares era di 4,7 miliardi. È anche vero che quel miliardo è stato stanziato solo per il 2014, come solo per l’anno prossimo è stato rifinanziato il fondo di solidarietà comunale (che dovrebbe compensare i minori introiti per le città). Anche per il 2014, comunque, non è affatto certo che i sindaci terranno l’aliquota al-l’uno per mille: se i loro bilanci lo richiederanno arriverà la mazzata. Di più: sulla Trise non si applicano le detrazioni standard da 200 euro, più quella da 50 euro a figlio, valide per l’Imu, il che comporta la possibilità che chi era esente dalla vecchia imposta oggi possa trovarsi a pagare (il regolamento è sempre in mano ai Comuni, anche se nella legge si parla anche di calibrare il tributo in base alla capacità contributiva Isee). Finita? Macché: agli inquilini è andata male di sicuro visto che – oltre a pagare la Tari come prima pagavano la tassa sui rifiuti – ora dovranno sborsare pure una cifra compresa tra il 10 e il 30 per cento della futura Tasi. Anche sulle seconde case e gli altri immobili (fabbricati agricoli, capannoni, eccetera) non è ancora chiaro quale sarà l’effetto della Tasi, ma la possibilità della stangata c’è: l’aliquota massima indicata dalla manovra – quella più alta dell’Imu per ogni categoria più l’uno per mille per i servizi comunali – consente infatti un incasso massimo di 22,1 miliardi di euro contro i circa 19 della vecchia Imu (ma, anche qui, manca la componente servizi della Tares, che però nessuno ha ancora mai pagato, visto che entra in vigore a dicembre per scomparire a fine anno).
COME SI VEDE, il tutto sembra studiato a bella posta per impedire a chiunque di capire cosa succede: nella sostanza il governo potrà vendersi l’abolizione dell’Imu che tiene contenti quelli del Pdl e ordinare di fatto ai sindaci di garantirsi lo stesso gettito sotto un altro nome. L’unico numero che conta, infatti, è proprio quello: da Imu e Tares – le imposte sulla casa – nel 2013 il governo si aspettava un gettito di circa 33 miliardi e c’è da scommettere che la Trise non porterà molto di meno alle casse dello Stato. La previsione di Confedilizia invece, diffusa ieri, è che la Trise non costerà come l’accoppiata Imu-Tares, ma assai di più: l’aumento di gettito sarà al minimo di 2,1 miliardi (+8,86 per cento) e al massimo di 7,5 miliardi (+31,65). Enrico Letta, ieri sera a Otto e mezzo, ha smentito: “Un’imposta federalista sul tema dell’abitazione è necessaria perché i Comuni forniscono servizi che oggi venivano pagati in vario modo e noi abbiamo deciso di fare un'unica tassa. Il gettito finale? Sarà inferiore della somma di Imu e Tares”. Almeno per il 2014.

l’Unità 22.10.13
Pippo Civati
Dalla delusione alla speranza


Il Pd, oggi al governo in una coalizione innaturale e che assume sempre più i connotati di un disegno politico nato in un accordo di Palazzo anziché da una proposta elettorale, ha bisogno innanzitutto di ritrovare il proprio profilo culturale e politico, e nel farlo ha il dovere di ricostruire il popolo della sinistra facendo in modo di essere da questo attraversato: per chiudere un ventennio, ci vogliono libere elezioni democratiche, con una nuova legge elettorale, che avremmo potuto e dovuto già avere individuato. Prima ancora di selezionare i propri dirigenti (dai circoli al segretario) un congresso dovrebbe servire a dire chi siamo e cosa vogliamo fare quando siamo al potere e che rapporto avremo con esso.
(...) Un congresso è un patto che si rinnova con i propri iscritti ma è anche il processo con cui ci si contamina e si può crescere: al nostro esterno si agitano fenomeni e esperienze che ispirano la propria azione a quegli stessi valori a cui facciamo riferimento. Le proteste sociali dei sindacati, i comitati civici e le associazioni a tutela del territorio e dei beni comuni, il parallelo congresso di Sel che vorremmo fosse già con noi, i movimenti degli studenti, le innumerevoli esperienze di mobilitazione che trovano una sintesi nell’idea delle Costituzione come progetto da condividere ed attuare, tutti quei singoli che da soli si battono per una politica differente, per una società più giusta ed eguale, con tutti loro abbiamo il dovere di confrontarci e se possibile contaminarci. (...) Dobbiamo recuperare il senso del mondo intorno a noi, dopo averlo dimenticato per vent’anni e insomma perduto. Il movimento progressista è nato in Europa un secolo e mezzo fa con un'ispirazione e un'organizzazione fortemente internazionalista, dissoltasi poi nel corso di divisivi eventi storici. Si tratta di rafforzare il Partito del Socialismo Europeo, aprendolo alla “contaminazione” della cultura ecologista espressa dai Verdi Europei e ad alcune proposte radicali-riformatrici della Sinistra europea, nonché alle caratteristiche del progetto dell’Ulivo, che abbiamo affossato in Italia ed esportato in Europa soltanto in occasione della presidenza di Romano Prodi.

il Fatto 22.10.13
Guerra delle tessere da Torino a Catania: il Pd dei boss locali
Liste provvisorie e congresi sospesi per irregolarità a Napoli
Il miracolo delle adesioni che radoppiano
Stasera si riunisce la Commissione nazionale di garanzia
di Chiara Paolin


La lettera dice così: “Ci corre l’obbligo di denunciare l'incresciosa situazione che si sta verificando nei circoli Pd di Acri e Rossano, dove abbiamo notizia del fatto che il tesseramento si sta svolgendo senza alcuna verifica da parte degli organi regionali e provinciali, con dirigenti locali che arbitrariamente stanno procedendo alla compilazione di tessere operando con evidente squilibrio in favore di una delle componenti che concorre alla guida del partito”. Firmato Amedeo Valente e Luigi Gagliardi, membri della commissione di garanzia cosentina nonché renziani entusiasti. La risposta giunge puntuale dal comitato pro Cuperlo di Catanzaro: “Le candidature alla segreteria provinciale del Pd evidenziano impietosamente il tentativo velleitario di saltare su un carro, quello del “rottamatore” Renzi, ritenuto vincente e pertanto affidabile e foriero di positive ricadute”.
CANDIDATURE FURBESCHE, commercio di tessere, un viatico congressuale spinoso da sud a nord. In Sicilia il caso è noto: su Renzi stanno convergendo nomi grossi, come il sindaco di Catania Enzo Bianco, e tutti si danno da fare. Gabriele Centineo, sindacalista Cgil, ha criticato “l’appoggio offerto dalla segreteria Cgil catanese a uno dei candidati alla segreteria provinciale del Pd”. Trattasi di Jacopo Torrisi, giovane talento lanciato da Bianco e caso-simbolo della guerra per tessere: domenica doveva ricevere i voti per diventare segretario provinciale nel circolo di Misterbianco, ma è andata buca: i tesserati in città sono 100, all’apertura del seggio se ne sono presentati 300 accompagnati da esponenti Pd carichi di elenchi con nominativi e date di nascita da registrare al volo, e quota associativa in mano (15 euro). Natale Falà, segretario del circolo, ha bloccato tutto. Scrivendo su Facebook: “Adesso tocca a Voi dirigenti provinciali cambiare rotta, perché a Misterbianco avete tentato di sacrificare la base vera di questo partito in nome di una contesa che è solo Vostra”.
SPIEGA LA CIVATIANA Valentina Spata: “In Sicilia sta succedendo di tutto. Domenica a Palazzolo Acreide, nel Siracusano, hanno fatto votare i tesserati 2012 perché le iscrizioni del 2013 non ci sono ancora. E nessuno dice niente”. In realtà stasera è prevista a Roma una riunione della Commissione nazionale di garanzia per esaminare il caso Sicilia. Peccato che solo quattro giorni fa la stessa commissione abbia emesso una delibera inventandosi la “tessera provvisoria”, cioè un pezzo di carta dove c’è il nome dell’aspirante iscritto ma non il vero cedolino che attesta l’appartenenza. Perché quando il mazzo delle nuove tessere arriva dal partito centrale ai singoli circoli, dovrebbe starsene chiuso in un cassetto, a disposizione dei cittadini che si presentano per il rinnovo o l’iscrizione. Invece spesso finiscono in mano ai dirigenti che manovrano liste e listarelle. Pratiche che stanno agitando l’Italia tutta. Che hanno bloccato un congresso a Lecce. Che smuovono persino il posato Pd torinese. Fassino ha deciso di puntare su Renzi per riposizionarsi, e conta sull’esperienza di Salvatore Gallo, già ras craxiano e oggi signore delle tessere. Alcuni candidati anti renziani minacciano di abbandonare polemicamente la corsa ma Pino Catizone, ex Ds ora renziano, se la ride quando gli avversari lamentano una corsa sporca al tesseramento con adesioni possibili fino all’ultimo secondo: “Lo sanno tutti, è un compromesso: Renzi aveva chiesto congressi aperti a tutti i livelli per evitare le degenerazioni legate alla gestione delle tessere. Si è preferito un sistema che legasse i segretari locali e provinciali alle vecchie logiche politiche, in modo da creare una sorta di cordone sanitario contro Renzi. Non solo. I congressi regionali e nazionali sono stati (per la prima volta dalla storia del partito) artatamente scissi. C’è chi ha letto anche questo come misura anti Renzi”.
Come dire: la nomenklatura volevate fregarlo, lui fregherà loro. In realtà, a vincere facile saranno le vecchie volpi disseminate sul territorio italiano, gente che sfrutterà il gioco per dominare localmente il partito, come sempre. Però, per farsi eleggere (al circolo, in provincia o in regione), tocca curarsi gli elettori uno per uno. A Napoli, solo nell’ultima settimana, è accaduto un vero prodigio: i 7mila iscritti cittadini sono diventati quasi 10mila. Precisa il Mattino: Frattamaggiore passa da 252 a 500 iscritti, Castellammare da 400 a 650, Torre Annunziata da 280 a 470. Miracoli precongressuali.

il Fatto 22.10.13
Di slancio I rischi del “tutti a bordo”
Renzi e la rottamazione amorale
di Antonello Caporale


Se Matteo Renzi, come scrive nel suo programma, vuole “spalancare le porte del partito alla curiosità, alla passione”, perciò a militanti veri, senza altra pretesa che l’ascolto della propria idea, il giudizio su un loro pensiero, inizi a dare l’esempio e spalanchi, per farsi capire ancora meglio, pure le porte della sua corrente. Faccia leggere i nomi delle decine di nuovi supporters, e – curiosità per curiosità – inizi a spulciare i curricula di molte decine di essi. Prenderebbe posto forse lo stupore di vedere avviata in contemporanea la rottamazione dei vecchi vizi grazie all'aiuto dei portatori sani e indiscutibili del ciclo produttivo della poltrona arrotolata sotto al mento, teorici delle pratiche illustrate da De Gaulle: il potere non si conquista, si arraffa.
É L’INDIFFERENZA, l’ignavia e in troppi casi oramai la collusione con un sistema di governo ferocemente clientelare che debilita il corpo del Partito democratico, lo riduce a vessillo senza identità, spogliato di alcun valore specifico, e giustamente denigrato quando perora il cambiamento. Il cambiamento di che? E a quale titolo, con quale faccia? I valori, benedetti valori, sono rinchiusi e sempre dimenticati nelle cartelle del vasto programma che precede l’elezione. Valori ripetuti quindici volte da Cuperlo nella illustrazione del nuovo che verrà, trentacinque da Ci-vati. Renzi, che dichiara: “Voglio anche i voti di Grillo e del centrodestra”, si è fermato alla soglia di cinque, ed è stato un bene. Non affettare parole, ma produrre fatti e cure severe per un partito posseduto da un virus letale: il trasformismo della sua classe dirigente, l’opportunismo di vaste porzioni dell’apparato, l’immoralità come elemento oramai costituente.
In meno di quattro anni il numero degli iscritti si riduce di tre/quarti, con picchi in alto e in basso che documentano, oltre ogni ragionevole dubbio, la natura elettoralistica e sfacciatamente clientelare dei suoi iscritti. Erano 820.607 nel 2009, poi 617.240 nel 2010, quindi un salto all'ingiù: 500.163 nel 2012. Nel mese scorso Renzi riferiva di non più di 205mila tessere rinnovate. In meno di quattro anni dunque tre iscritti su quattro si sono dati alla fuga, ed è questa la migliore delle ipotesi. Un’ecatombe che avrebbe dovuto produrre patimento e riflessione in ogni angolo del partito, monopolizzare l'attenzione, dominare ogni azione conseguente. Invece zero. Resiste perciò (e purtroppo) l’ipotesi alternativa, che è anche peggio: iscrizioni gonfiate a tavolino, reclutamenti d’apparato, liste di accoglienza progettate alla bisogna, tessere on demand, intese nel senso dell’opportunità. Varietà di fenomeni deviati che conducono all’immagine di un partito-rana: si gonfia in prossimità del congresso, quando le tessere servono a vincere, si sgonfia fino all'inedia quando i giochi sono fatti. Meno siamo meglio stiamo.
IL ROTTAMATORE, se ancora l'intento è confermato, abbia almeno la prudenza di guardarsi intorno e chieda conto prima di accettare i regali. Dal sud è tutto un fiorire di disponibilità, e da qualche giorno, notizia davvero profumata, persino Vincenzo De Luca, il sin-due in procinto e alcuni in riflessiva posizione d’attesa. Anche Cuperlo, dirigente di qualità, vuole cambiare il partito, almeno così dice, e anche lui de-v’essere avvertito, perchè forse non sa che esiste una cronaca quotidiana di tessere comprate e vendute.
Singolarmente, come quella affibbiata a sua insaputa a una ragazza di Catania, o a pacchetti assai più nutriti e meglio assortiti. In Sicilia, accusa Civati, non c’è misura e non c’è controllo: “Il Pd va a chi offre di più”. E a Lecce acquisizioni di doti elettorali sospette sono state denunciate, illustrate nella loro singola predestinazione. Ma a chi interessa?

il Fatto 22.10.13
Lettera a Francesco
“Santità, intraprenda un viaggio nell’inferno degli abusi sessuali”
Una fedele violentata da bambina scrive al papa
“Guarderete senza cecità ai peccati della Chiesa?”
di Marco Politi


C. M. È UNA SIGNORA americana dai capelli bianchi, ultrasessantenne. È stata abusata da bambina in una parrocchia dedicata a san Francesco. Dopo l’elezione di Bergoglio si è fatta coraggio e ha deciso di scrivergli una lettera. Non sapeva ancora che il nuovo papa a volte prende il telefono e cerca chi gli ha scritto. Voleva però che la lettera gli arrivasse. Così è partita dalla Pennsylvania, si è recata in Europa, ha cercato un vescovo di cui conosceva l’impegno nel combattere gli abusi sessuali compiuti dal clero ai danni di bambini e bambine, e gli ha consegnato la lettera. C.M. non sa se è stata poi recapitata a papa Francesco come le era stato promesso. Il testo rappresenta quel “grido di dolore”, che migliaia di vittime sconosciute e – ricorda l’anziana signora – spesso svilite da esponenti del clero ancora decenni dopo, rivolgono alla suprema autorità della Chiesa cattolica perché sia fatta giustizia. La questione di come contrastare più efficacemente i crimini di pedofilia e di togliere ai delitti la protezione di archivi ostinatamente chiusi è un capitolo del pontificato di papa Francesco ancora da scrivere. L’appello dell’anziana signora non è di chi alza la voce. Lo stile, pervaso di religiosità quasi poetica, potrà stupire qualche lettore europeo abituato al confronto-scontro. Ma la tradizione della fede in America è intrisa di immagini spirituali. E questa donna, una sopravvissuta all’inferno dell’abuso, ha fiducia in Francesco. Con delicata chiarezza gli chiede di affrontare il tema dei crimini sessuali nella Chiesa “senza cecità”, di entrare volontariamente nell’ “inferno degli abusi”, di non arretrare davanti al “calderone di peccati” della Chiesa. Di partecipare lucidamente alla “crocifissione” di migliaia e migliaia di bambini abusati. È proprio l’afflato religioso a rendere particolarmente forte l’appello di C. M. poiché nasce dall’interno del cattolicesimo profondo, lì dove si è scioccati per i crimini commessi da preti e ci si volge al papa di Roma perché sani le ferite inflitte da chi ha strumentalizzato il potere sacro. Guai, ricorda la Bibbia, quando gli umili sono calpestati e invocano il Signore. La lettera di C. M. è un documento tragico nella sua dolorosa mitezza. Potrebbe essere stata scritta da un’abusata o un abusato in qualsiasi parte dell’orbe cattolico. In America latina, in Asia, in Africa, in Europa, nella diocesi suburbicaria romana di Porto e Santa Rufina, dove il vescovo mons. Gino Reali – interrogato a proposito di un prete abusatore – ha risposto in tribunale: “Non posso correre dietro a tutte le voci... Faccio il vescovo, non l’istruttore”.
Santità, nostro prezioso Fratello Francesco: la pace di Dio sia sopra di voi, ora e sempre.
Il mondo ha gioito quando il fumo bianco ha annunciato la scelta di uomo umile, che ha scelto il nome di Francesco – un santo che rinunciò ai suoi averi, persino alle sue vesti, iniziando il suo ministero nudo, senza alcuna protezione tranne quella di Dio.
Vi scriviamo mosse da un profondo amore per voi e da un’immenso dolore per la Chiesa e le sofferenze causate da esponenti della Chiesa…
Vi invitiamo a compiere un viaggio all’inizio del vostro pontificato – un viaggio che richiederà tutto il vostro coraggio e la fiducia in Dio, che vi ama smisuratamente. Vi esortiamo a entrare volontariamente in ciò che sarà per voi Giardino di Getsemani, crocifissione, sepolcro e resurrezione mentre vi trasformate pienamente nel leader, di cui la Chiesa ha disperatamente bisogno.
Nella vostra esperienza di crocifissione, se voi seguirete questa chiamata, voi resterete senza difese. Guarderete senza cecità nel calderone di peccati all’interno della Chiesa. Sperimenterete, con le braccia di Cristo strette affettuosamente intorno a voi, l’intensità delle sofferenze dovute all’attività e all’inattività di esponenti ecclesiastici attraverso i decenni e i secoli trascorsi. Sarete trafitti dalle male azioni della Chiesa a tutti i livelli. Sarete spogliato da ogni falsa illusione che possiate avere sulla Chiesa. Discenderete, come Gesù, nell’inferno della sofferenza. Sarete bagnati dalle sue lacrime e dalle vostre.
Sperimenterete il terrore di migliaia e migliaia di bambini, molti dei quali sono nuovamente traumatizzati da adulti da esponenti della Chiesa, che li sviliscono e impiegano manovre legali per evitare di assumere ogni responsabilità. Soffrirete il senso di vuoto di coloro, che ancora hanno paura di parlare. Sentirete il dolore che la Chiesa, usando la Scrittura, ha inflitto alle persone sulla base di razza, etnia, religione, genere e orientamento. Scavando profondamente nell’anima della Chiesa, scoprirete molti altri gruppi feriti. Sentite il loro dolore come se fosse il vostro.
Non cedete alla tentazione di nascondervi da ciò che vedrete. Abbracciatelo. Soltanto sentendosi sinceramente amate le parti frantumate potranno essere guarite…
Soltanto vivendo volontariamente la vostra crocifissione, potrete emergere pienamente come il leader, che siete chiamato ad essere. Soltanto allora sarete capace di parlare trasparentemente con la saggezza, la chiarezza, la gioia e la compassione del Cristo risuscitato… Sembra che San Francesco nel suo amore per la semplicità e la povertà abbia subito attacchi da parte dei propri frati, con il risultato delle sue dimissioni… Anche voi (papa Francesco) sarete attaccati dalla gente, specie da coloro che a ragione rifiutano di riconoscere ed affrontare i fallimenti della Chiesa…
Voi siete il nuovo Francesco. Io solamente un fragile canale. Insieme a persone di tutto il mondo io vi trasmetto teneramente il messaggio indirizzato a voi: “Ripara la mia chiesa”. Entrate nella vostra crocifissione ed emergete come colui che, con grande tenerezza e vulnerabilità, restaura il corpo di Cristo a livello delle cellule.
Curate anche il vostro corpo mentre fate il vostro cammino. È il veicolo attraverso il quale queste opere potranno essere compiute.
Vostra in Cristo. Fatto con amore.
C. M.

il Fatto 22.10.13
Calabria. Studenti contro il ministro dell’Istruzione


Momenti di tensione all’Università della Calabria durante la visita nell’ateneo del ministro del-l’Istruzione, Maria Chiara Carrozza. Alcuni studenti infatti hanno lanciato pietre e uova contro l’auto del ministro e altre vetture del corteo. A protestare i giovani che chiedevano, con urla e slogan, anche la liberazione dei giovani arrestati a Roma sabato scorso. Tra le richieste avanzate dagli studenti la riduzione delle tasse universitarie, garanzie sul diritto allo studio ed il reddito minimo garantito. “Vengo dal mondo dell’Università e capisco queste situazioni. Bisogna conoscere le ragioni della protesta”, ha commentato il ministro Carrozza che, a fine giornata, ha incontrato una delegazione di studenti che le hanno esposto i motivi della protesta. Duro invece l’intervento della parlamentare Pdl Jole Santelli che su quanto avvenuto ieri in Calabria ha commentato: “Vergognoso attacco al ministro Carrozza. Mi spiace che, per colpa dei soliti facinorosi violenti, l’Università di Arcavacata faccia una pessima figura. Una minoranza rissosa e intollerante non puó travolgere la maggioranza degli studenti corretti e seri.” In serata su twitter però lo stesso ministro Carrozza smentisce la notizia di pietre e uova contro la sua auto: “Posso assicurare che nessuno studente mi ha lanciato uova o pietre contro la macchina”.

l’Unità 22.10.13
Agrigento
Alfano contestato ai funerali farsa
di Agrigento e portato via dalla scorta
di Vincenzo Ricciarelli


AGRIGENTO Funerali di Stato dovevano essere, come annunciato solennemente dal governo a Lampedusa. Non lo sono stati. Al loro posto, diciotto giorni dopo la strage di immigrati, una cerimonia breve, seppure intensa e densa di sofferenza e rabbia, ad Agrigento, con il mare come orizzonte, dove a brillare era le assenze: le 366 salme delle vittime del naufragio del 3 ottobre disperse tra i cimiteri siciliani; i sopravvissuti bloccati nel centro di accoglienza di Lampedusa che oggi hanno protestato; il sindaco dell'isola Giusi Nicolini, volata da Giorgio Napolitano anche per chiedere che il 3 ottobre diventi la giornata della memoria delle vittime del mare. C'è invece il ministro dell'Interno Angelino Alfano nella sua città, contestato da attivisti ed eritrei al grido «Assassini, assassini, basta con la Bossi-Fini». La risposta del vicepremier arriva poco dopo: «I cosiddetti attivisti che hanno gridato assassini sono quelli che vogliono frontiere libere e scafisti in libertà. Non l'avranno mai vinta, proteggeremo le nostre frontiere salvando le vite umane». Ad Agrigento anche la ministra per l'Integrazione Cecile Kyenge, che definisce questo giorno «importante perché è la prima volta che con una cerimonia ufficiale si riconoscono vittime dell'immigrazione. È venuto il messaggio forte di diverse confessioni insieme, che la pace e la non violenza prevalgono su qualunque cosa». Per il ministro alla Difesa Mario Mauro «il dolore ci accomuna perché queste erano persone che avevano sperato nell'Italia. Siamo qui per ricordarli».
Ma mentre un Alfano messo sotto assedio dai manifestanti ripete che «abbiamo assicurato degna sepoltura ai morti e assistenza ai superstiti», promettendo una «caccia senza quartiere ai mercanti di morte», Nicolini, un migliaio di chilometri più lontano, attacca: «La verità è che nessuno ha pensato al dolore dei sopravvissuti e dei lampedusani». Con lei, informa una nota del Quirinale, Napolitano ha parlato dello stato attuale dei profughi accolti a Lampedusa e anche delle condizioni generali in cui opera l'amministrazione locale». Sulla stessa linea del sindaco, il primo cittadino agrigentino Marco Zambuto che ha parlato di «farsa di Stato. La presenza di rappresentanti del governo eritreo è una pugnalata a queste persone che sono morte». Di più: «Offende i defunti e mette in pericolo i sopravvissuti», si legge su uno striscione messo in mostra da eritrei giunti da più parti per partecipare alla cerimonia e per chiedere con un altro cartello: «Perché i sopravvissuti non sono stati invitati?». «Sangue nostrum e vittime delle vostre leggi», è scritto su un altro cartello. «Alfano ha detto che i morti avranno la cittadinanza italiana, e i vivi che fine hanno fatto?», si è chiesta una portavoce del gruppo di eritrei. In campo anche la Cgil critica al riguardo di «una cerimonia, tardiva, inadeguata, di facciata, specchio di un Paese che non ha un' adeguata politica dell'accoglienza».
Il premier Enrico Letta, intanto, promette: «Lavoreremo affinché la costa libera venga pattugliata. Terremo conto dei nostri interessi, non è immaginabile che le cose vengano gestite in questo modo. Non accetteremo più dalle autorità libiche mezze risposte o risposte insufficienti. Per noi il pattugliamento del mare vuol dire andare lì a far sì che le autorità libiche si assumano le loro responsabilità». Ma ieri è stato soprattutto un giorno di rabbia e dolore cui hanno provato a dare risposta le sure del Corano e i versetti del Vangelo, letti nel corso del rito islamico e cristiano. Una mano tiene ben in alto un piccolo cartello: «Quei 366 morti erano persone», per altri angeli dal volto nero impressi su un lenzuolo e che spiccano il volo oltre il Mediterraneo al quale non sono sopravvissuti.
Non si placano peraltro le polemiche sulla organizzazione «tardiva» della cerimonia, dopo che il 9 ottobre scorso, il premier Letta aveva promesso funerali di Stato per le vittime. Intanto, l'assessorato al Sostegno sociale e Sussidiarietà di Roma Capitale, che sta seguendo a stretto contatto con il ministero dell'Interno le procedure per lo spostamento e l'accoglienza in città dei superstiti della strage di Lampedusa, rende noto di essere in attesa dal Viminale della data di arrivo dei rifugiati.

il Fatto 22.10.13
Lampedusa
Quei bambini arrivati e spariti nel nulla
di Veronica Tomassini


Ci sono i bambini dell’11 ottobre, del disastro, degli uomini in mare. Delle sei ore acqua, delle urla, dei soccorsi. I bambini separati da due isole, inghiottiti dai giorni trascorsi. I loro nomi sono giaculatorie negli appelli dei padri, sono i bambini delle madri scomparse. Di quel barcone capovolto l’11 ottobre, tra Malta e Lampedusa. Non c’è ancora una lista aggiornata dei sopravvissuti, è tutto molto confuso, con i siriani alle frontiere arabe che chiedono, insistendo, dove sono i bambini. Sono vivi?
Alaa, giovanissimo padre aspetta Maram di 18 mesi. Durante le ore in acqua, Alaa e la moglie sorreggevano Maram, perché non gelasse in acqua. Una prova di forza, il loro ostinato martirio per salvarla, poi Maram è andata verso la Sicilia, su una motovedetta italiana. I genitori sono a Malta, dove sono stati identificati e quindi qui devono restare. Alaa non può muoversi, non può agire, cerca la bambina, ha con sé i documenti per dimostrare la sua paternità. Da Save the children spiegano che le procedure in atto intendono escludere il rischio che i bambini vengano dati in adozione senza una verifica vera della presenza in vita dei genitori, identificazione e procedure rapide, promettono da Save the children, che pure conferma il numero di sei orfani (gli unici sei sopravvissuti all’11 ottobre), al momento ospiti di una casa di accoglienza in Sicilia, ma non si ritiene utile fornire i loro nomi, dicono da Save the children, per ragioni di sicurezza, così come consigliato dal Tribunale dei minori. Non possiamo ancora dire se tra i sei ci sia anche Ma-ram. Sono desaparecidos, non compaiono in alcuna lista. I genitori tentano di trovarli diffondendo le loro foto attraverso siti e social network, come le due immagini che pubblichiamo. Una ritrae Alaa con la figlia di 18 mesi, Maram. L’altra Chirihan di 6 anni, Nurhan (8 anni) e Randa (10 anni): sono tre dei quattro figli (manca Selsbil di 2 anni) di un medico siriano, identificato a Malta. Si chiama Wahid Hassan Yosef, arrivato l’11 ottobre. Fonti non istituzionali lo hanno avvertito che le figlie si troverebbero a Lampedusa, forse. Wahid di Damasco ha perso notizie anche della moglie. Vivevano in Libia dal 1998, dove pensavano di trovare un Paese tranquillo non il caos consegnato alle milizie. Dice che avrebbe voluto morire lui in quella barca partita da Zwara. Ora si trova nel campo profughi di Hal Far, un ex caserma a 10 chilometri da La Valletta. Aisha, la moglie di Alaa, ha riconosciuto la figlia, Maram, in alcune immagini video provenienti da Lampedusa, ad Hal Far nel frattempo si prende cura di un’orfana di cinque anni. Il dottor Mohannad è detenuto nello stesso campo, cerca la piccola Nahel 8 mesi e Mhammad 7 anni. Non si hanno notizie nemmeno di Maruwa Awad, di 10-12 anni. “C’è un impegno altissimo per tutelare il più possibile i bambini sopravvissuti”, assicura Carlotta Bellini, responsabile del Dipartimento Protezione per Save the children. “Dobbiamo evitare la fuga di notizie che possano nuocere all’iter già avviato per identificazione e ricongiungimento”. Non si ha certezza nemmeno del numero dei naufragi, si cercano una madre e un figlio, forse annegati nelle acque tra Malta e Catania, il 12 ottobre, lei si chiama Randa Habib e il bambino Majed Alabbar, il marito della donna, Taher, è in un centro di accoglienza per immigrati irregolari, a Malta. Il naufragio risale al 12 ottobre: è stato verificato? C’è una lista dei sopravvissuti riferita a quella data? Cercate di capire il tipo di allarme precisano a più riprese da Save the children. Con un obiettivo: evitare che i bambini finiscano nel mercato nero delle adozioni.

Corriere 22.10.13
Il commissario Ue: pronti a procedere contro l’Italia
Cecilia Malmström: Roma renda dignitose le condizioni nel centro di Lampedusa
di Luigi Offeddu


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES — Se non miglioreranno le condizioni a Lampedusa e in altri centri d’accoglienza dei migranti, la Commissione Europea non esiterà ad avviare una procedura di infrazione: è il monito lanciato da Cecilia Malmström, svedese, commissario europeo agli Affari interni.
Due tragedie in mare in pochi giorni, con centinaia di vittime. Per Italia e Malta, un problema europeo, ma per il resto d’Europa un problema soprattutto nazionale. Qual è la sua opinione?
«Non dimenticherò mai le centinaia di bare che ho visto a Lampedusa, o la disperazione negli occhi dei sopravvissuti. Questi tragici eventi chiedono risposte immediate a livello nazionale ed europeo. A livello nazionale, gli Stati hanno la responsabilità di controllare i confini e soccorrere le barche in difficoltà, adempiendo alle leggi internazionali. Ricevono fondi e assistenza dalla Ue, per farlo. Nel 2007-2013, per esempio, l’Italia ha avuto 478 milioni per gestire i flussi migratori e dell’asilo, e 136 milioni in fondi speciali per la gestione speciale dei confini».
E il ruolo più proprio dell’Unione Europea?
«È chiaro che la pressione accresciuta sperimentata da Italia, Malta, Grecia e altri Paesi mediterranei è un problema Ue, e richiede risposte della Ue. Spero che questi orribili eventi forniranno l’occasione per accrescere gli sforzi e discutere le iniziative e misure europee».
Quali, in concreto?
«Il vertice Ue del 24-25 ottobre offrirà ai leader un’opportunità unica di dimostrare che l’Europa è basata sul principio della solidarietà e del mutuo sostegno. I recenti soccorsi comuni Italia-Malta hanno salvato centinaia di vite, e provato che una sorveglianza aumentata e coordinata è la chiave per prevenire le morti nel Mediterraneo. Perciò la Commissione Europea propone un’operazione estesa di ricerca e soccorso della Frontex (agenzia Ue per il pattugliamento dei confini, ndr ) nel Mediterraneo, da Cipro alla Spagna, diretta a salvare vite umane».
Quando scatterà?
«La missione è ben definita, insieme con altre misure, nel quadro di una task-force per il Mediterraneo, guidata dalla Commissione Europea in stretta collaborazione con le autorità italiane. Il lavoro preparatorio è già in corso dall’inizio di ottobre, e la prima riunione ufficiale della task-force avrà luogo fra due giorni, il 24 ottobre. Lo scopo sarà quello di definire misure concrete da presentare al Consiglio Ue degli Affari interni, il 6 dicembre».
È necessaria una nuova direttiva Ue sui temi dell’asilo e della ridistribuzione dei migranti fra i vari Stati?
«Nel breve periodo no, abbiamo appena adottato un pacchetto di misure. Bisogna però evitare anche un errore di prospettiva, per esempio nell’analizzare la situazione dei flussi di richiedenti-asilo in Italia, che sono sostanzialmente ridotti rispetto a quelli di altri Paesi Ue. Delle 330.000 richieste di asilo compilate nel 2012, il 70% è stato registrato solo in cinque Stati-membri: Germania (75.000), Francia (60.000), Svezia (44.000), Belgio (28.000) e Gran Bretagna (28.000). Nello stesso 2012, l’Italia ha ricevuto 15.700 richieste: non è tra i Paesi che subiscono la pressione maggiore».
La ministra italiana all’Integrazione, Carole Kyenge, ha definito «vergognose» le condizioni del centro di accoglienza di Lampedusa. Che cosa pensa di fare Bruxelles?
«L’Italia sta compiendo degli sforzi per migliorare la situazione generale e la Commissione Europea ha individuato fino a 30 milioni di euro aggiuntivi per sostenere Roma: credo che potrebbero essere utili anche per alleviare le condizioni nel centro di Lampedusa. È mia ferma intenzione garantire che tutti gli Stati Membri attuino efficacemente la legislazione Ue, che prevede condizioni degne e umane di accoglienza per i migranti: diversamente, non esiterò a ricorrere a procedure di infrazione».
A maggio del 2014, nel periodo delle elezioni europee, lei parteciperà al Global Forum di Stoccolma sulle migrazioni. Con quali obiettivi?
«La Commissione Europea considera questo Forum come una piattaforma molto importante per il dialogo informale e la cooperazione fra gli Stati del mondo sull’immigrazione. Senza dubbio, gli echi della tragedia di Lampedusa si percepiranno in quella sede, e dovranno ispirare tutti noi — soprattutto i Paesi Ue — a fare un progresso reale verso una politica migratoria europea più centrata sul migrante. Una politica che dimostri compassione e sostegno per le persone in cerca di protezione».

l’Unità 22.10.13
«Ecco il piano per arginare gli sbarchi»
Quattro punti presentati al Quirinale dal senatore Manconi
«Evitiamo le traversate del Mediterraneo e le stragi anticipando il momento in cui gli immigrati possono chiedere protezione»
di Umberto De Giovannangeli


Un piano in quattro punto per affrontare, a tutto campo e in una dimensione europea, l’emergenza migranti. Oltre «Mare Nostrum». Una «sfida» di civiltà, è quella lanciata ieri dal presidente della Commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi, e dal sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini. «Le persone che sbarcano sulle coste del nostro Paese sono in larghissima misura fuggiaschi da condizioni intollerabili (guerra civile, dittature, persecuzioni etniche, religiose e politiche) al punto che una quota rilevantissima ottengono una forma di protezione. La nostra soluzione per evitare il passaggio crudele dell’attraversamento del Mediterraneo è quello di anticipare il momento in cui possono chiedere protezione», spiega Manconi, in una conferenza stampa ieri al Senato. «Immaginiamo che questa richiesta di protezione possa essere posta nei Paesi di partenza laddove i flussi si aggregano o nei Paesi di passaggio dove è possibile realizzare dei presidi che accolgano e verifichino quelle richieste di protezione», aggiunge. «Con questo dice ancora Manconi non pensiamo di aver sconfitto gli schiavisti ma davanti a questa strage ci poniamo il problema giuridico, politico ed anche morale di ridurre il danno e limitare i numeri di questa strage infinita».
A TUTTO CAMPO
«Esiste una struttura dell’Ue, il Servizio europeo per l’azione esterna, che può rappresentare il cuore di questa attività unitamente alla rete diplomatica dei Paesi europei ed alle organizzazioni umanitarie argomenta il presidente della Commissione Diritti umani di Palazzo Madama -: chi ha necessità di protezione si rivolge a queste strutture e può ottenere un visto temporaneo che può consentire viaggi incruenti e legali in luogo di quelli letali ed illegali attraverso il Mediterraneo». Manconi precisa come questo sia previsto dalla direttiva Ue del 2001 che prevede l’equilibrata distribuzione nei Paesi europei di chi chiede protezione internazionale secondo le diverse articolazioni previste per le differenti figure. «È realizzabile dice ci sono anche le risorse economiche necessarie, ci vuole però la volontà comune». A sostegno del piano si esprimono i senatori Pd Andrea Marcucci e Mario Morgoni, e la vice presidente del Senato, Valeria Fedeli: «La proposta rimarca Fedeli è un impegno dell'Italia affinché il Consiglio Europeo del 24 e 25 ottobre prossimi applichi quanto previsto in caso di afflusso massiccio di sfollati nella Ue, vale a dire la concessione della protezione temporanea di un anno rinnovabile definendo quote di accoglienza per ciascuno Stato membro».
IL PIANO
1) L'Italia si impegna affinché il Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre prossimi applichi quanto previsto in caso di "afflusso massiccio di sfollati" nella UE, vale a dire la concessione della protezione temporanea di un anno rinnovabile (Direttiva 2001/55/CE), definendo quote di accoglienza per ciascuno Stato Membro. 2) Le modalità di individuazione dei beneficiari della protezione temporanea dell'Unione Europea potrebbero avvenire nei Paesi di transito e potrebbero avere luogo attraverso le Delegazioni diplomatiche del Servizio europeo per l'azione esterna e/o la rete diplomatico-consolare degli Stati Membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali e delle associazioni umanitarie. 3) Occorre realizzare presidi internazionali, creando le condizioni necessarie, nei Paesi rivieraschi della sponda sud del Mediterraneo e nei luoghi di partenza dei trafficanti di esseri umani, per l'avvio della procedura di concessione della protezione temporanea. I presidi vanno realizzati dalla stessa UE d'intesa con le organizzazioni internazionali e le associazioni umanitarie, utilizzando, tra l'altro, le risorse comunitarie destinate alla protezione civile. 4) Il trasferimento con mezzi legali e sicuri dal presidio internazionale al paese di destinazione, definito tenendo conto, tra l'altro, dal regolamento Dublino III in merito alla eventuale presenza di familiari, deve rientrare in un progetto coordinato europeo di "Ammissione Umanitaria" con il coinvolgimento di tutti gli Stati Membri, rafforzando le risorse del Fondo europeo per i Rifugiati. Il beneficio della misura di protezione temporanea non precluderebbe la presentazione della domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato nei singoli Paesi.
QUADRO EUROPEO
A supporto del piano, i promotori rimandano a risoluzioni, direttive e regolamenti europei.
Risoluzione del Parlamento Europeo del 9 ottobre 2013: La Risoluzione dedicata in particolare alla Siria, ma applicabile anche ad altri casi, riguarda le misure da adottare dall'UE e dagli Stati Membri per affrontare il flusso di migranti dopo le tragedie delle ultime settimane. Il testo fa riferimento all’ammissione umanitaria e ai programmi di resettlement.
Direttiva 2001/55/CE: La procedura prevista dalla Direttiva è che su proposta della Commissione il Consiglio europeo accerti un afflusso massiccio di sfollati (art. 5). Sono sfollati ai sensi della Direttiva coloro che hanno dovuto abbandonare il proprio Paese o sono stati evacuati e non possono essere rimpatriati in condizioni stabili e sicure a causa della situazione nel Paese
stesso: due esempi: a) le persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica; b) le persone che siano soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani o siano state vittime di siffatte violazioni.Per afflusso massiccio la Direttiva intende l'arrivo di un numero considerevole di sfollati sia che avvenga spontaneamente o sia agevolato, per esempio mediante un programma di evacuazione. La Direttiva stabilisce come necessaria la promozione dell' equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza.
Regolamento Dublino III: Dal 1° gennaio 2014 entrerà in vigore il Regolamento (UE) n. 604/2013, cd Dublino III, in base al quale, per agevolare il processo di determinazione dello Stato membro competente, alla presentazione della domanda di protezione internazionale, il richiedente segnali la presenza, negli Stati Membri dell'Ue di familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela.

l’Unità 22.10.13
Il sindaco di Lampedusa Nicolini da Napolitano: «La Bossi-Fini ha fallito»


È salita al Colle Giusi Nicolini, l’intrepida giovane sindaco di Lampedusa, proprio mentre ad Agrigento si consumava tra le contestazioni il rito in memoria degli immigrati morti nel naufragio del 3 ottobre. Una data che potrebbe diventare simbolo di una tragedia che appare destinata a continuare. Ne ha parlato il sindaco al presidente anche se una decisione di questo genere spetta al Parlamento.
Al colloquio tra il Capo dello Stato e Giusi Nicolini, un segno di preoccupata attenzione da parte di Napolitano, ha partecipato anche il presidente della commissione dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi che ha illustrato le proposte sui temi dell’ammissione umanitaria nell’Unione Europea.
Ma l’attenzione maggiore il presidente l’ha riservata allo stato attuale dei profughi accolti a Lampedusa, i sopravvissuti a quella che lui ha definito «la strage degli innocenti» e che ora si trovano a misurarsi con una situazione di accoglienza insostenibile. Ha raccontato delle sue quotidiane difficoltà il sindaco. Ha sollecitato «risposte concrete sul fronte umanitario che finora non ci sono state» ma anche modifiche ad una normativa, la Bossi-Fini il cui fallimento «è sotto gli occhi di tutti». Trovando l’attento ascolto di Napolitano che della necessità che l’Italia si dia una legge sull’asilo ha parlato fin dal primo momento.

l’Unità 22.10.13
Rom espulsa
L’appello di Leonarda: «Vi supplico, fateci tornare»


Leonarda Dibrani, l’adolescente rom la cui espulsione verso il Kosovo ha provocato un caso in Francia, ha chiesto alle autorità parigine di consentire il suo ritorno insieme alla famiglia.
«La Francia deve accettarci di nuovo. Io la supplico di permetterci di tornare il più presto possibile perchè questa non è la nostra casa», ha detto la ragazza, 15 anni, che come la madre e i suoi cinque fratelli e sorelle non è nata in Kosovo, ma in Italia.
Sabato scorso il presidente Francois Hollande, sulla scia delle proteste studentesche, aveva offerto a Leonarda di tornare da sola in Francia per completare gli studi, ma la giovane ha rifiutato l’invito.
«Non posso tornare da sola, non abbandonerei mai la mia famiglia. Non sono la sola ad andare a scuola, ci sono anche i miei fratelli e le mie sorelle», ha detto Leonarda.
Hollande è stato criticato ieri dal Front National per essersi mostrato troppo accondiscendente.

l’Unità 22.10.13
Tutti all’opera contro l’Ungheria antisemita
La denuncia in musica del maestro Ivan Fischer: «La cultura deve mostrare la verità nascosta»
di Marina Mastroluca


Ce l’aveva lì, sotto alle dita. Un pensiero ricorrente, un’idea pronta a germogliare. Forse però non avrebbe preso vita se non fosse stato per la politica sgrammaticata dell’ultradestra di Jobbik, cresciuta all’ombra dell’autoritarismo del premier ungherese Viktor Orban. Una politica violenta, intollerante, ferocemente anti-rom e apertamente antisemita.
E così Ivan Fischer, direttore della Budapest Festival Orchestra oltre che della National Simphony Orchestra di Washington racconta il New York Times si è ritrovato davanti al pianoforte, a casa sua, nella sala piena di libri in lingue diverse, così cosmopolita e lontana dal nazionalismo di provincia della nuova Ungheria. E ha scritto, lui ebreo, un’opera contro l’antisemitismo strisciante.
«La giovenca rossa» racconta un evento accaduto nel 1882, quando un gruppo di ebrei venne accusato ingiustamente della morte di una ragazza ungherese: l’affaire Tiszaeszlar. Fu una vicenda che divise il Paese, qualcosa come il caso Dreyfus in Francia, l’opinione pubblica schierata. Alla fine gli ebrei furono scagionati e la vampata di sdegno che aveva acceso la nazione si mostrò per quello che era: una manifestazione di antisemitismo.
«La cultura non dovrebbe interessarsi alla politica quotidiana ha spiegato Fischer -. Vogliamo che un’opera sia ancora valida il prossimo anno e quello dopo ancora. Ma penso anche che la cultura abbia la forte responsabilità di trovare l’essenza, la verità nascosta che giace dietro il giorno per giorno». E la verità è che la storia di oltre un secolo fa parla di oggi e che l’oggi purtroppo ripercorre spesso strade già viste e dolorosamente sbagliate: Jobbik, tra il tiro a segno nei campi rom e le sfuriate contro la finanza ebraica, lo scorso anno ha trovato il tempo per chiedere la riapertura del caso Tiszaeszlar, con l’intento di ribaltarne l’esito e di mostrare all’opinione pubbli-
ca la ferocia giudaica. Persino Orban ha ritenuto di dover prendere le distanze.
Dunque un’opera, dove la folla vociante per la morte della ragazza ungherese si trasforma sul palco negli hooligan degli stadi, tra vuvuzelas e slogan antisemiti. Un’opera dove il baritono canta: «Mi vergogno dell’agitazione antisemita. Come ungherese mi sento contrito, come patriota la disprezzo».
Ce n’era bisogno? Ce n’era, se il premio Nobel per la letteratura Imre Kertesz già un anno fa ha ammesso che la democrazia non ha mai attecchito nel suo Paese. E il pianista Schiff ha giurato di non fare più ritorno in Ungheria finché sarà guidata da Orban. Lo stesso Fischer ha preferito spedire la famiglia a Berlino, facendo il pendolare con Budapest perché non si sa mai. Ce n’era davvero bisogno se un regista teatrale come Robert Alfoldi, tanto famoso in Ungheria che il pubblico si accampava di notte davanti al teatro per aggiudicarsi un biglietto per le sue recite, è stato prima denigrato in parlamento per la sua omosessualità e poi cacciato dal Teatro nazionale. Il mese scorso, parlando a Vienna del ruolo della cultura Alfoldi ha ammesso di non essere come il governo vorrebbe che fosse ogni bravo cittadino ungherese, «cristiano, eterosessuale e con più di un figlio». «Ma penso che il lavoro di un regista teatrale sia fare domande, soprattutto quelle importanti per tutta la società». Cultura, appunto.

Corriere 22.10.13
Germania, laboratorio del salario minimo
È la condizione della Spd per la «coalizione»: Merkel prende tempo
di Paolo Lepri


BERLINO — Jonny Sauerwein, chef di un ristorante della città di Pöhl, in Sassonia, non ha dubbi. Il salario minimo generalizzato di 8,50 euro che la Spd ha inserito al primo posto in una lista di punti «non negoziabili» nel programma del futuro governo di grande coalizione, è una sciagura. «Nel mio locale — ha raccontato alla Bild — ho dieci collaboratori che guadagnano circa 7/7,50 euro all’ora. Con questa riforma il costo del lavoro aumenterebbe del 40%. Dovrei licenziare quattro persone oppure aumentare in modo notevole i prezzi». Senza entrare in questi dettagli, anche la cancelliera, in un discorso pronunciato la settimana scorsa alla vigilia della presentazione del «decalogo» socialdemocratico, ha sostenuto una tesi simile.
«Appoggio il diritto di ogni persona che lavora a tempo pieno di poter vivere con il suo stipendio», ha premesso Angela Merkel, aggiungendo però che un «eccesso di regolamentazione» rischia di avere ripercussioni negative sui posti di lavoro. Secondo la donna più potente del mondo (ed è questa la posizione da sempre dei cristiano-democratici tedeschi), devono essere sindacati e imprenditori, non il governo, a stabilire le retribuzioni. E le differenze tra le economie dei vari Länder non permettono di indicare per legge un tetto uguale in ogni settore e in ogni situazione.
In realtà, nonostante tutto, è molto probabile che il salario minimo arriverà anche in Germania, che è uno dei sette Paesi dell’Unione europea a non averlo. Se non nella versione «prendere o lasciare» dei socialdemocratici, almeno sulla base di un compromesso molto vicino alla proposta che è stata il cavallo di battaglia del partito in campagna elettorale. Sono molti segnali a farlo credere. La Spd sa che «compromessi saranno necessari» (come si legge nel documento approvato domenica dal minicongresso riunitosi a Berlino nel Willy Brandt-Haus), ma non intende cedere su questo argomento. Si tratta della priorità nel vero e proprio negoziato programmatico che inizierà domani. Insieme a retribuzioni uguali per uomini e donne, maggiori investimenti nelle infrastrutture e nell’educazione, una strategia per sviluppare la crescita nell’eurozona.
È significativo però che altre richieste siano state messe da parte, almeno per il momento, come l’aumento delle tasse per i redditi più alti e l’abolizione dell’assegno per le famiglie che non mandano i bambini all’asilo-nido. Tra l’altro, sul salario minimo c’è stata un apertura del governatore bavarese Horst Seehofer. Nell’Unione Cdu-Csu la posizione dei cristiano-sociali è più disponibile, è questo può voler dire molto. Tanto è vero che anche il capogruppo cristiano-democratico, Volker Kauder, si è detto molto ottimista sulla possibilità di un accordo. A farsi portavoce di altri dubbi è stato invece l’uomo del rigore, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, secondo cui niente deve contribuire a mettere in pericolo le attuali cifre dell’occupazione in Germania.
Gli avversari del salario minimo ricordano che circa un decimo dei lavoratori nei Länder occidentali della Germania guadagna meno di 8,50 euro all’ora. Questa percentuale sale considerevolmente ad Est, dove è un quarto degli occupati ad avere retribuzioni sotto la soglia chiesta dalla Spd. Alla luce di questi dati, si teme che molte aziende possano essere spinte a spostare la loro attività in Polonia o nella Repubblica Ceca dove i costi sono più bassi. Al di là del fatto che in Germania, soprattutto nelle regioni orientali, esistono in alcuni settori ancora paghe da 2 euro all’ora, gli esperti sono comunque convinti che sia determinante l’entità della cifra stabilita.
Secondo l’Istituto tedesco per le ricerche economiche (Diw), citato dall’agenzia Reuters , «sembra per esempio più consigliabile introdurre il salario minimo su un livello più basso, come è stato fatto in Gran Bretagna, per poi valutare con attenzione il suo impatto e quindi modificarlo progressivamente se necessario». Quel provvedimento fu firmato nel 1999 da Tony Blair. Un buon modello, forse, anche per Angela Merkel e il suo partner-rivale, Sigmar Gabriel.

Corriere 22.10.13
Pakistan
Rapporto Amnesty sui droni «Ecco le vittime innocenti»
di Monica Ricci Sargentini


Mamana Bibi, 68 anni, stava curando il suo raccolto nel villaggio di Ghundi Kala nel nord Warizistan quando due missili Hellfire tirati da un drone l’hanno incenerita. «Era lì nei nostri campi che raccoglieva l’erba per la cena — ha raccontato uno dei suoi nipoti, Zubair Rehman —, io stavo dando da mangiare agli animali, abbiamo visto il drone ma non ci siamo spaventati perché volavano sopra il villaggio giorno e notte». Poi davanti ai loro occhi Mamana scompare.
È questa una delle tante testimonianze raccolte da Amnesty International nel rapporto «Sarò io il prossimo? I droni statunitensi colpiscono il Pakistan», uno dei più completi studi esistenti per capire il fenomeno dal punto di vista dei diritti umani.
Mamana Bibi è stata uccisa il 24 ottobre del 2012. Pochi minuti dopo il lancio del primo drone sul campo agricolo ne è caduto un secondo facendo una strage di animali e ferendo alcuni nipotini della donna. In Pakistan li chiamano «attacchi ai soccorritori», perché rivolti contro quelli che erano corsi in aiuto alle vittime del primo drone. Per gli americani sono comunque tutti «terroristi». Come «terroristi» erano tante altre vittime dei 300 e più attacchi coi droni compiuti dal 2004 a oggi in Pakistan.
Amnesty International ha esaminato i 45 attacchi resi noti nella regione più colpita, il Nord Waziristan, tra gennaio 2012 e agosto 2013, compiendo, in nove casi, dettagliate ricerche sul campo. Il rapporto fornisce nuove prove sulle uccisioni illegali, in alcuni casi veri e propri crimini di guerra. «Grazie alla segretezza che avvolge il programma sui droni — ha dichiarato Mustafa Qadri, ricercatore di Amnesty in Pakistan — l’amministrazione Usa ha licenza di uccidere senza controllo giudiziario e in violazione degli standard basilari sui diritti umani».
Finora nessun funzionario statunitense è mai stato chiamato a rispondere di attacchi illegali coi droni in Pakistan. E, per quanto riguarda le vittime degli attacchi e le loro famiglie, non ci sono speranze di compensazione visto che gli americani ufficialmente negano di essere responsabili: «Non può esserci alcuna giustificazione per questi omicidi — ha spiegato Qadri —. Nella regione vi sono pericoli reali per gli Stati Uniti e i loro alleati e, in alcune circostanze, gli attacchi con i droni possono essere legali. Ma è difficile credere che un’anziana donna circondata dai nipoti stesse mettendo in pericolo qualcuno».
La promessa di incrementare la trasparenza sui droni, fatta dal presidente Obama nel discorso sul futuro della lotta al terrorismo, pronunciato alla National Defense University quest’anno a maggio, deve ancora diventare realtà: gli Usa continuano a rifiutare di rendere note persino le informazioni essenziali, fattuali o di tipo legale sugli attacchi. Se dei bersagli sono stati certamente colpiti (come il leader di al-Qaeda Abu Yahya al-Libi nel luglio 2012, oltre a talebani pachistani e membri del gruppo al-Haqqani), i droni americani hanno fatto molte vittime innocenti e istillato nella popolazione locale lo stesso tipo di paura che in precedenza era associata ai gruppi armati fondamentalisti.
Tra l’altro i gruppi legati ad al-Qaeda hanno ucciso decine di abitanti dei villaggi accusati di spiare per conto dei droni statunitensi. Gli abitanti di Mir Ali hanno riferito ad Amnesty International che ai bordi delle strade vengono regolarmente ritrovati corpi con su scritto che chiunque sia sospettato di fare la spia per gli Usa subirà la stessa sorte. Ora l’organizzazione umanitaria chiede agli americani un’operazione verità sui droni. E questa volta mostra a Washington le prove.

Repubblica 22.10.13
Compromessi e omissioni Molti autori si piegano pur di essere accolti a Pechino
Benvenuta censura. Così chi va in Cina accetta i tagli per vendere più copie
di Giampaolo Visetti


PECHINO. Anche la censura diventa una scocciatura trattabile, se a pretenderla è il mercato più ricco del pianeta. I «tagli» non sono più «amputazioni politiche», ma «adeguamenti alla cultura nazionale». A lanciare l’allarme sulla resa della democrazia occidentale all’autoritarismo cinese, nel nome del business, è ilNew York Times, che ha scoperto come scomodi testi di denuncia della dittatura comunista, editi in Europa e Stati Uniti, si trasformano sempre più spesso in ossequiosi saggi filo-cinesi non appena oltrepassano la Grande Muraglia. Esibizione di impegno democratico ad Ovest e conferma di tolleranza di regime in Oriente: a patto che il sacrificio valga un contratto milionario e la promessa di una fama istantanea tra gli ultimi essere umani ancora affamati di lettura.
Così scrittori e saggisti che dieci anni fa sarebbero stati banditi dalle librerie di Londra e San Francisco, se avessero accettato di piegarsi alle correzioni di Pechino, anelano oggi ai ritocchi dei «principi rossi», certi dell’indifferenza propria e del pubblico. E il caposaldo dell’impegno democratico, che costruiva successo e bilancio anche sull’opposizione alla repressione militare, non cade solo in biblioteca. Dilaga ormai nel cinema di Hollywood e nella musica di Liverpool, senza risparmiare la pittura di Parigi e perfino l’arte dell’antica Grecia.
A far esplodere il caso della nuova «censura commerciale relativa », la monumentale biografia del successore di Mao, Deng Xiaoping, data alle stampe da Ezra F. Vogel, docente emerito di Harvard. Episodi inediti fondamentali, raccontati nell’edizione inglese e frutto di decenni di ricerche, risultano scomparsi nella versione in mandarino. Tra questi: l’ordine ai media di ignorare l’implosione del comunismo nell’Europa orientale alla fine degli anni Ottanta; le lacrime del segretario generale del partito, Zhao Ziyang, quando venne arrestato alla vigilia della strage in piazza Tiananmen; lo scontro tra Gorbaciov e Deng, nel 1989, tale da far cadere a quest’ultimo un raviolo dai bastoncini.
Vogel ha detto che tagliare è stato «spiacevole ma necessario» per consentire all’opera di «raggiungere una massa di lettori che ormai l’Occidente si può solo sognare. Ho pensato che fosse meglio portare il 90 per cento del libro in Cina piuttosto che ottenere lo 0 per cento». Dettaglio: la versione originale del volume Deng Xiaoping e la trasformazione della Cina, in Occidente ha venduto 30 mila copie, mentre l’edizione «corretta» è già oltre le 650 mila in Cina.
Soldi in cambio di valori e i dati appaiono implacabili. Nel 2012 i guadagni degli editori americani, per gli e-book acquistati dai colleghi cinesi, sono cresciuti del 56 per cento. La case editrici della Cina lo scorso anno hanno comprato 16 mila titoli stranieri, rispetto ai 1664 del 1995. Gli agenti letterari cinesi affollano la Fiera di Francoforte,incuranti delle condanne contro le persecuzioni ai danni di Ai Weiwei e di Liu Xiaobo, o delle polemiche per il Nobel della letteratura al filogovernativo Mo Yan. «Il fatto è – scrive ilNew York Times – che la Rowling in pochi mesi in Cina ha guadagnato 2,4 milioni di dollari e la biografia di Steve Jobs ne ha fruttati 804 mila».
Scala così in secondo piano il blocco cinese del web, o la guerra industriale contro Apple, mentre le «limatine» non scandalizzano più e i «censori» vengono ribattezzati «correttori» anche nei templi dell’editoria democratica indipendente. Chi può permettersi di resistere a Pechino, del resto, vienesemplicemente cancellato, dagli scaffali ma pure dei mercati finanziari. Hillary Clinton face ritirare Living History dopo aver scoperto che interi capitoli erano stati soppressi dai censori cinesi. Alan Greenspan si è appena opposto alle modifiche al suo Age of Turbolence: hanno ottenuto l’esclusione dalle librerie cinesi, ma non la solidarietà di democratici e liberisti occidentali.
E non è detto che chi si adegua agli «equilibri contemporanei», ignorando le amputazioni asiatiche, venga poi ricompensato. La Cina acquista anche per eliminare e ai tagli dei redattori può seguire il macero del governo. L’opera di Re-becca Karl su Mao Zedong, nonostante il via libera alla censura, è finita dritta in discarica. Questione di decennale passaggio del potere. La nuova leadership rossa archivia quella vecchia e nelle 560 case editrici cinesi mutano gli equilibri tra i censori, quasi tutti membri del partito.
Ma la rivoluzione degli auto-dichiarati «riformisti» scuote anche i burocrati dell’Amministrazione generale della stampa e un difetto di auto-censura può valere la carriera. Errori imperdonabili: tollerare riferimenti politicamente scorretti agli «argomenti sensibili », come il Tibet, Taiwan, il Falun Gong, piazza Tiananmen, la Rivoluzione Culturale, il sesso, la corruzione del potere, o perfino la legge del figlio unico, il cibo tossico e la distruzione degli antichi quartieri. Risultato: saggi occidentali che cambiano titolo, aggettivi invertiti ed eventi reinventati. La fermezza culturale di Europa e Usa ridotta a stampella straniera del regime cinese, come l’influenza del softpower hollywoodiano e del rock britannico: spie e cattivi di Shanghai, nei cinema di Pechino risultano nati ad Hong Kong, i più sovversivi divi Usa emigrano obbedienti alla corte di «Wanda Group», mentre le star più impegnate della musica, pur di suonare a Guangzhou e a Shenzhen, rinunciano agli appelli per il Dalai Lama, o per i dissidenti arrestati, gridati invece a squarciagola a Madrid e a Berlino.
La riedizione diAlba Rossa, che nell’originale vede l’invasione Usa da parte di truppe sino-nordcoreane, si è auto-corretta sceneggiando un attacco solo coreano. Il regista Sam Mendes ha accettato dicensurare Skyfall,tagliando la scena del bodyguard cinese fulminato davanti a Bond. E lo stesso Tarantino, nel nome del botteghino cinese, non ha esitato a tagliareDjango,aspirando qualche ettolitro di sangue per non turbare i placidi eredi di Mao Zedong. La «commercializzazione della censura globale» suona dunque la campana della nuova «democrazia intellettuale flessibile». Problema: Pechino non è Pyongyang, l’Occidente accetta di non essere più l’Ovest e la Cina, dopo scarpe e t-shirt, si appresta ad esportare, ripulita, anche la civiltà euro-americana. L’affare del secolo: «made in China», of course.

Repubblica 22.10.13
Nella città industriale i livelli di inquinamento hanno superato di 3 volte i limiti: e le autorità hanno bloccato scuole, aeroporti, fabbriche e strade
Cina La metropoli senza più respiro così Harbin chiude per smog
di Giampaolo Visetti


PECHINO Chiuso per smog. Prima o poi doveva accadere e la resa del mondo al veleno consuma in Cina il suo debutto. Parabola spietata sul costo insostenibile dell’obbligo di crescita: una metropoli di 11 milioni di abitanti costretta a fermarsi perché i residenti non possono più respirare. Lo stop è stato imposto ieri ad Harbin, capoluogo dello Heilongjiang, l’ex Manciuria, lembo dell’estremo Nordest, al confine con Russia e Corea del Nord. A far capitolare le autorità, decise fino all’ultimo ad evitare l’ignominia, il rischio di rivolte di massa e milionarie cause per risarcimento danni: le polveri sottili hanno superato i mille microgrammi per metro cubo, rispetto alla soglia di pericolo che l’Organizzazione mondiale della sanità fissa a 300. Il limite di sicurezza, per la stessa Oms, è però a 20: ciò significa che ieri ad Harbin le persone, uscendo di casa, avrebbero inalato dosi di particolato leggero 40 volte superiori a quanto «un essere umano può sopportare».
Così, per la prima volta nella storia, uno dei centri produttivi più ricchi del pianeta ha dovuto spegnere il motore: chiuse le scuole, fermate le fabbriche, sospesi i mezzi pubblici, interrotte strade e autostrade. Oltre 40 i voli cancellati perché lo smog, riducendo la visibilità a dieci metri, impediva ai piloti di vedere la pista dell’aeroporto. Il governo ha concesso un’amnistia agli automobilisti: chi fosse passato con il rosso, non riuscendo a distinguere il colore del semaforo, non verrà multato. Nelle prime ore del mattino gli incidenti in città, a causa di una nera coltre tossica, erano stati centinaia.
A far riesplodere l’emergenza nazionale dello smog, il primo giorno di accensione dei riscaldamenti domestici, quasi tutti ancora a carbone. Un mix fatale: l’arrivo del freddo, venti sabbiosi dalla Mongolia rimasta priva di foreste, stufe accese e industrie a pieno regime in vista delle festività occidentali di fine anno. Troppo anche per l’aria pestilenziale della Cina, capace ormai di neutralizzare mascherine e depuratori. E l’allarme è scattato anche a Changchun, nella regione di Jilin, oltre che e a Shanghai, dove è appena stata inaugurata la prima zona di libero scambio del Paese. Nel Sud, dove l’inverno comincia dopo, è questione di giorni. Tra i cinesi, sempre meno disposti a morire prima di essere diventati ricchi, monta la rabbia verso un potere incapace di tutelare la salute della nuova classe media urbanizzata, mentre la tivù di Stato mostra stuoli di funzionari che fanno razzia di filtri per l’aria. Lo scorso anno Pechino, per contenere l’inquinamento, fece ridere il mondo: vietò i tradizionali spiedini all’aperto, la ricreazione degli scolari in cortile e le soste degli anziani vicino alle finestre. Più radicali le misure annunciate nei giorni scorsi: 5 miliardi di yuan in 5 anni per premiare le regioni che abbasseranno lo smog, chiusura delle imprese sprovviste di depuratori e targhe alterne quotidiane nella capitale. Minaccia estrema: per Pechino, detentrice del record globale di auto circolanti e passeggeri sul metrò, sarebbe la paralisi. Misura però economicamente obbligata: 8500 i morti di smog nelle megalopoli cinesi nel 2012, più 60% i tumori ai polmoni di dieci anni.
La classifica dell’infamia, stilata dall’“Asian Development Bank” e che segnala le dieci città più inquinate della terra, non concede equivoci. Sette sono in Cina: Taiyuan, Pechino, Urumqi, Lanzhou, Chongqing, Jinan e Shijiazhuang. Il governo impone così alle regioni prossime alla capitale di tagliare i livelli di PM 2,5, le particelle più letali, del 25% entro il 2017. Sotto accusa cementifici e acciaierie, spina dorsale degli appalti di Stato, con i fondi da dirottare su importazione di gas naturale, centrali atomiche ed energia sostenibile. L’imbarazzo di Pechino ha raggiunto il massimo venerdì, quando il concerto della jazzista americana Patti Austin è stato improvvisamente cancellato. Non censurate, a sorpresa, le ragioni del forfait: grave attacco di asma causato dall’inquinamento nella capitale.
Fino a ieri le denunce straniere dell’irrespirabilità dell’aria cinese, centraline dell’ambasciata Usa in prima linea, venivano definite «indebita intrusione per destabilizzare la super-potenza emergente» e lo smog era chiamato «nebbia».Ora la svolta:l’aria tossica costa più del blocco di una metropoli, l’inquinamento frena la crescita e drammatizzare il problema, promettendo di risolverlo, per il potere rosso è l’unica via per scongiurare una rivoluzione verde. Anche il Quotidiano del Popolo invoca così «un’uscita rapida dall’assedio soffocante dei fumi» e l’agenzia Xinhua, con l’avvallo spaventato del governo, si spinge fino a dare la notizia che lo smog della Cina avvolge ormai anche la vetta del monte Fuji, il vulcano sacro dell’odiato Giappone. Di qui lo shock Harbin: punire una metropoli per educarne cento, denunciare gli scarichi nell’aria per scongiurare i veleni nel partito-Stato. Ammesso che i cinesi preferiscano davvero il libero respiro,al libero shopping.

Corriere 22.10.13
Sangue, tiranni e bugie
Le ferite del secolo lungo Corrado Stajano in viaggio fra le ombre del ’900
di Paolo Di Stefano


Altro che secolo breve, verrebbe da dire: un secolo lunghissimo, interminabile, è stato il Novecento. Con troppe guerre, troppe violenze, troppe crudeltà, persecuzioni, liberazioni e rotture e svolte. È il primo pensiero che viene non appena riemersi dalla lettura del nuovo libro di Corrado Stajano, La stanza dei fantasmi (Garzanti), tali e tanti sono gli spettri ancora vivi, appunto, in cui ci si imbatte nel racconto.
Immaginate alcuni vecchi oggetti rimasti per anni immobili sugli scaffali di una libreria: immaginate che questi oggetti come per magia rompano, improvvisamente, il naturale mutismo delle cose inanimate e comincino a prendere vita e voce, a svelare la propria ragion d’essere, a raccontare la propria storia, a ricordare quel che hanno visto e patito come piccoli frammenti di una vicenda molto molto più grande, quella finita nei manuali scolastici. Una fotografia d’infanzia, un pezzo di legno rosso, il ritrattino di una madre, la riproduzione dell’Auriga di Delfi, una misteriosa lama ad uso veterinario, due schegge di ferro, una mappa della Sicilia rovesciata… Potrebbero anche essere cianfrusaglie da rigattiere, e invece conservano un potente valore evocativo per chi li ha accolti da anni nella propria quotidianità famigliare.
In tutto ciò si sente anche il gusto ludico — infantile — di un bambino ormai cresciuto che continua a collezionare pezzi in disuso, scarti di giochi cui non vuol rinunciare per nulla al mondo. Ma ora Stajano sembra volerli ribattezzare, quegli oggetti, per strapparli all’intimità domestica restituendo loro una dignità, un senso, una funzione nel flusso della grande Storia. E così ogni oggetto libera tanti fantasmi, tante storie; ogni fantasma porta con sé un destino che si incrocia con altri fantasmi, altre storie e altri destini. In quella stanza in cui tutto ciò si anima e riprende vita, come i soldatini di piombo di Andersen, c’è il Novecento di Stajano, ovvero La stanza dei fantasmi , uno spazio fisico necessariamente ristretto (i muri dell’abitazione come le pagine del libro) che si dilata fino a contenere figure, intrecci e universi collettivi. Il romanzo è questo polmone che prende aria dalle epifanie fisiche respirando la storia a grandi boccate, un libro dall’apertura totale, in cui lo sguardo privato sprigiona l’energia di un racconto civile, morale, con una sorta di effetto a elastico, che fa della narrazione un filo che si rilascia e si tende in continuazione.
Si parte dall’immagine di un bambino vestito alla marinara nel cortile di una caserma. Più in là, inquadrato da una cornicetta liberty appesa al muro, c’è suo padre, con altri ufficiali dell’esercito italiano. È papà Stajano, che forse ha ancora negli occhi le atrocità della Grande Guerra, quando è stato ferito gravemente: non può ancora sapere che dovrà affrontare la campagna di Russia e persino la prigionia in un Lager nazista. È da quella piccola foto ingiallita che davanti agli occhi del lettore si materializzano gli spettri di una storia privata che si fa storia pubblica, inscindibili l’una dall’altra.
«I documenti — scrive Stajano — sono soltanto scheletri che vanno nutriti di carne». La carne è il racconto vivo, il suo ritmo cangiante che va e viene tra accensioni autobiografiche, ampi affreschi storici, brani degli autori amati (i taccuini dell’alpino Gadda, i dialoghi concitati del tenente Emilio Lussu…), commento morale, reportage e inchiesta, testimonianza diretta, racconto memoriale e racconto (quasi) d’invenzione, meglio d’immaginazione. Che Stajano sia un grande scrittore lo si vede non solo dallo straordinario controllo stilistico, ma dalla calibrata miscela e dal ritmo della sua satura . Sa tratteggiare i suoi personaggi — un gesto, uno sguardo — con pennellate rapide e sicure. Di suo padre, vecchio militare d’altri tempi, dice: «Passò gli ultimi anni di vita, immobile o quasi, dietro i vetri di una finestra a guardare la strada». Il presidente nazionale della Lega degli studenti greci in Italia «ha poco più di trent’anni e la faccia gonfia di un annegato appena ripescato dall’acqua» (è nel vertiginoso capitolo sui colonnelli, con il suo strascico italiano). Oscar, il fratello del terrorista Walter Alasia, è «di media statura, i capelli rasati, una maglietta, i mocassini, il parlare franco». Stajano è ipersensibile al paesaggio umano e ai suoi segreti, ma anche a quello naturale, per esempio quando mette a confronto le sue due anime, quella materna e quella paterna: da una parte la Pianura padana, «lineare come una tavola pitagorica», il suo «verde ombroso, tra i pioppi, i faggi, nell’umido delle rogge turgide d’acqua»; dall’altra «la terra rossa di Sicilia, disseccata, avida d’acque e il mare color cobalto che dai balconi della sua casa (la casa del padre , ndr), sulla punta estrema dell’isola, pare si possa sfiorare con le mani».
Le ferite della guerra, di ogni guerra, il dolore dei vinti di ogni parte, i tradimenti, la sopraffazione del potere, l’angoscia di una dignità perduta nella violenza del fascismo, ma anche nella brutalità del terrorismo e nella criminalità mafiosa: sono i motivi resistenti, si direbbe le ossessioni, che percorrono il libro di Stajano. Che ne va a rintracciare le ragioni anche lontano nel tempo, nel Seicento, nell’Ottocento, citando le sue fonti, i suoi autori con una precisione da scienziato che mette a frutto le sterminate letture di prima mano, i materiali di una vita e le indagini condotte da giornalista. Ma senza che il giornalista si imponga sulla pagina: qui il proposito è quello di arrivare a sfiorare una verità altra, non quella cronistico-giudiziaria e tanto meno quella storica, spesso già accertate. Qui il narratore non si accontenta delle certezze, ma si insinua nelle pieghe dei fatti aggiungendo domande su domande: chissà…, chissà…, chissà…, è un continuo porsi domande. Perché tutti sanno che cosa rappresentò il truce Farinacci per Cremona (vero fuoco del romanzo, con la Sicilia orientale), ma è dal viaggio che l’autore fa oggi nella sua città che emergono nuove inquietudini e angosce, interrogativi non solo sul passato, ma sul presente. È dal suono di una campanella nell’Istituto per l’artigianato, che un tempo fu la Caserma del Diavolo in cui era piazzata una mitragliatrice di morte; è dallo sciame di ragazze e ragazzi che ne escono allegri; è dal ricordo della madre forte e coraggiosa nel cuore della guerra; è da questi sondaggi fisici e affettivi che emergono tracce, segnali, domande impreviste. Come se il «calderone» della storia fosse ancora un ribollire di punti interrogativi. Ecco che seguendo le tracce del nonno Paolo, nella campagna della Bassa padana, viene fuori uno straordinario racconto di città, tra mercati, resse, rituali, conciliaboli, conflitti, contadini delusi e vittime del servilismo dei proprietari agrari al diktat mussoliniano. Eccoci a Londra, nei giorni più difficili per Churchill; a distanza di settant’anni, eccoci nel suo rifugio segreto, dove «tutto è ancora come fu»; lo sentiamo parlare e ragionare con le sue parole, lo vediamo muoversi cauto, pazientare e decidere. Siamo con lui, mentre intorno percepiamo le bombe che cadono sulla città, sulle chiese, sulle stazioni ferroviarie. Sentiamo la paura e la morte cui contribuì anche la funesta prepotenza del Duce. Eccoci, poco più in là, precipitati nel «nonsipuotismo» siculo raccontato da Tomasi di Lampedusa e infine con un lento zoom ci ritroviamo per le strade concitate della Palermo d’oggi, che ha dimenticato i giorni del maxiprocesso e delle stragi. Un «pellegrinaggio della memoria assassina».
Stajano è fedele all’idea gaddiana della guerra come «cozzo di energie spirituali», fuoco in cui ardono insieme il peggio e il meglio dell’animo umano. E ne va alla ricerca, indietro e in avanti, avvicinandoci agli aguzzini e ai partigiani, ai criminali mafiosi (tra cui spicca il ritratto del pentito Leonardo Vitale) e alle loro vittime. Ma nella stanza dei fantasmi non si stagliano solo gli opposti e gli antagonisti: i paladini del Bene e del Male, della giustizia e dell’ingiustizia, quelli che si sono svenati per un Paese migliore e gli altri che il Paese l’hanno sistematicamente distrutto. Ci sono anche i piccoli innumerevoli fantasmi che, per opportunismo o per inconsapevolezza, hanno abitato in una sterminata zona grigia: quelli che non vedevano e non sentivano. Offrire il proprio passato alle generazioni che verranno, come intende fare questo viaggio tra i fantasmi di ieri e di oggi, è un invito a evitare che le zone grigie, in cui non c’è né memoria né cultura, da comodo luogo in cui abitare diventino un luogo che ci abita.

Corriere 22.10.13
No, questi non sono solo fantasmi Il loro tempo è tutto al presente
di Claudio Magris


N o, non sono fantasmi quelli che popolano questo libro subito indimenticabile di Corrado Stajano, anzi che vivono in esso. I fantasmi non vivono, sono morti, e questo è invece un libro assolutamente di vivi. Mi fa venire in mente un pomeriggio di molti anni fa a casa di Biagio Marin, a Grado; ero andato a trovarlo con Alberto Cavallari, da pochissimo non più direttore del «Corriere», e, guardando fotografie di comuni amici, alcuni dei quali caduti nella Resistenza o comunque passati a miglior vita, Alberto, in uno dei suoi momenti di umor nero, disse: «Siamo tutti morti», al che Marin gli replicò, con tranquilla e irrefutabile autorevolezza: «No, siamo tutti vivi». Anche Corrado Stajano, del resto, dice che quei fantasmi «possono diventare entità di carne, ossa, sangue, fonti battesimali di un tempo perduto e ritrovato».
Sì, carne ossa e sangue. La carne, la vita è peritura, esposta ad attacchi di ogni genere — alla fame, alla malattia, all’oppressione, alla violenza, alla disperazione, alla tortura, alla morte — come racconta, con straordinaria e pacata forza epica, questo libro che rievoca guerre mondiali, memorie famigliari, resistenze, abominevoli persecuzioni e feroci e ingiuste vendette, miserie, ingiustizie, disincanti, umiliati e offesi su cui la vita, la storia e la politica sono passate come un rullo compressore, terroristi che sono pure vittime ma restano assassini. E, contrariamente a ciò che dice l’autore, non è un tempo perduto e ritrovato, quello che fluisce nel libro. Nessuna madelein e proustiana, bensì il senso forte, malinconico, sanguigno e amaro della vita, degli affetti, dei buoni combattimenti mai combattuti invano, del presente di tutto ciò che ha valore. In questo libro tutto è presente, stagliato sullo sfondo dell’eterno. Come vuole Leopardi, citato da Stajano, l’oggetto delle «ricordanze» è «determinato»; forte, incisivo e, solo per ciò, pervaso di autentico sentimento.
In questo libro Corrado Stajano rivela la natura del vero scrittore che fonde il valore, il sentimento, l’ideale con la concreta, tangibile, fisica realtà delle cose; che sa narrare la propria vita attraverso gli altri e soprattutto intessendola nella storia grande e oggettiva del mondo. È questo che fa un vero romanzo; un secolo diventa l’esistenza di un uomo e viceversa. Vi sono scene memorabili, di emozioni e di orrori; esecuzioni, umiliazioni collettive, fiori di generosità, gesti di inconsapevole eroismo. Piccola storia individuale, epica e trepida storia di famiglia, grande terribile e orrenda storia del mondo che non rinuncia a cercare di essere storia della salvezza. Precisione del cronista e pietas del narratore, giudizio severo e insieme comprensione del «mondo stravolto da una catastrofe». Eventi e personaggi veri; un libro come questo dimostra quanto avesse ragione Mark Twain dicendo che la verità è più fantastica della finzione.

Corriere 22.10.13
Lella Ravasi Bellocchio, psicanalista junghiana, autrice di “Come una pietra leggera. Giochi di sabbia che curano”
«Terrapia», giochi con la sabbia per liberarsi dagli incubi


A volte le mani rivelano segreti che la parola non sa o non può dire. A volte la sabbia, sottile, leggera, impermanente come un sogno o come un mandala, diventa il mezzo ideale per raccontarsi. Le mani e la sabbia, un gioco che si fa terapia, fluido tramite di un inconscio afasico, che tra quei granelli trova voce per plasmare segreti, ricreare emozioni sepolte. Perché, parafrasando Prospero, noi siamo fatti della stessa sostanza della terra e nella terra andiamo a frugare le nostre ombre, là dove il pensiero si ritrae. «Alla fine si tratta di mettere in scena i sogni», sintetizza Lella Ravasi Bellocchio, psicanalista junghiana, autrice di Come una pietra leggera. Giochi di sabbia che curano (Skira, pp. 128, e 15).
Quel gioco di vita incantatore lei lo mette in pratica da anni, attraverso le rappresentazioni ricreate nel suo studio da tanti piccoli pazienti e anche da qualche adulto. Le loro storie, raccolte ora nel libro, mostrano un approccio singolare al rapporto terapeutico. Che qui passa attraverso a una cassetta dal fondo azzurro ripiena di sabbia, un po’ d’acqua per impastarla e un armadio delle meraviglie, scrigno di infiniti oggetti lillipuziani, sassi, perle, legnetti, casette, lettini, ma anche di figurine umane, donne, uomini di ogni età, di personaggi fiabeschi e mitologici, di animali domestici e feroci… Da scegliere e sistemare nel paesaggio sabbioso secondo i dettami di quella storia segreta che si dipana come in sogno per immagini, in un’area misteriosa oltre la parola.
Una «terrapia», la definisce scherzosa la psicanalista rubando il termine a un piccolo paziente che ben aveva colto la concretezza della materia e delle «cose» rappresentate. La stessa intuizione di Freud: «Non si interpreta, si costruisce», avvertiva in uno dei suoi ultimi saggi.
Ad affondare le loro manine in quella «scatola di mondo» in cerca di paure e ansie indicibili sono tanti bambini: Giovanni, che soffre di balbuzie, si rappresenta in ogni scena solo su una panchina rossa. Martino, che a 4 anni decide di volersi vestire da femmina e sceglie tutte le principesse della vetrina per rappresentarlo. Bianca, 7 anni, terrorizzata da un lupo che solo lei vede. Lella gioca con lei a catturarlo inscenando una sorta di rito magico in cui la bestiaccia resterà intrappolata per sempre. Mentre il piccolo Anton, che arriva dalla steppa russa, raffigura come dei principi quei genitori che l’hanno abbandonato e se stesso come il figlio dello zar…
Ad aprire e chiudere il libro due storie di «grandi» tornati bambini: Paolo che nella sabbia mette in scena una morte per lui imminente, Letizia che tenta di dare un senso a quella, improvvisa, del giovane marito. «Il lavoro sul lutto ci accompagna in ogni incontro analitico — ricorda l’autrice—. Forse la sabbia cenere è la materia che ci accoglie tutti, i vivi e morti, quelli che sono passati come noi che passeremo». «Polvo seràn, mas polvo enamorada ». Polvere sottile come la sabbia, che si perde e svanisce ma non del tutto. Perché, come dice il verso di Quevedo, è «polvere innamorata».

Corriere 22.10.13
Il Bardo nelle storiche produzioni della Bbc


Diretto da Rodney Bennett, l’Amleto interpretato da Derek Jacobi con Claire Bloom (e nel doppiaggio a cura di Giampiero Maccioni con la traduzione italiana di Eugenio Montale) inaugura  da oggi la collana di dvd «Il grande teatro  di William Shakespeare» in edicola con il «Corriere della Sera» (al costo di 10,90 € + il prezzo del quotidiano). Si tratta di 14 dvd da collezione, della serie dedicata al teatro prodotta dalla Bbc, che presentano le più note opere del massimo poeta inglese con cast d’eccezione, da seguire in italiano oppure in lingua originale ascoltando le interpretazioni storiche di interpreti assai noti. Da segnalare ad esempio tra le prime uscite l’Otello  (la versione italiana si basa sulla traduzione di Eugenio Montale) nella messinscena interpretata da Anthony Hopkins (e con Bob Hoskins nel ruolo del perfido Iago) che sarà in edicola dal 29 ottobre, mentre il 5 novembre uscirà il Romeo e Giulietta che vede tra gli interpreti John Gielgud (la versione italiana si basa sulla traduzione di Salvatore Quasimodo), il 12 novembre si potrà vedere Helen Mirren tra gli attori del Sogno di una notte di mezza estate , e così via continuando con John Cleese, Ben Kingsley e altri mattatori. L’iniziativa in edicola continuerà fino al 21 gennaio, proponendo le quattordici piéce più note tra le tragedie, le commedie e i drammi storici del Bardo inglese.
I.Bo.

Corriere 22.10.13
Amleto, primo uomo moderno Questa tragedia aiuta a conoscere meglio se stessi
Dietro la metafora, il genio inglese parla dell’oggi
di Massimiliano Chiavarone


«To die, to sleep. / To sleep, perchance to dream. Ay, there’s the rub, / For in that sleep of death what dreams may come / When we have shuffled off this mortal coil / Must give us pause. There’s the respect / That makes calamity of so long life». («Morire, dormire. / Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, / perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire / dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale / deve farci esitare. È questo lo scrupolo / che dà alla sventura una vita così lunga»).
Lo afferma Amleto, nell’omonima tragedia shakespeariana, prima scena atto terzo, quando credendosi solo e invece spiato dal re e da Polonio, declama il suo celebre monologo che assume il carattere di riflessione universale sul senso della vita e della morte. Sul desiderio di giustizia e la volontà di combattere per ottenerla. E se ciò è giusto o sbagliato. È questo il primo titolo de Il grande teatro di William Shakespeare , 14 dvd che il «Corriere» ripropone per godersi le migliori opere del Bardo. Un omaggio a William Shakespeare (1564-1616), uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi, di cui l’anno prossimo ricorrono i 450 anni dalla nascita. Da più parti, però, si è registrato un fenomeno che è diventato un’emergenza. Shakespeare è poco conosciuto a quella umanità anagraficamente più giovane. I suoi titoli, le sue trame, le sue idee, i suoi personaggi sono a loro distanti e addirittura ignoti. Che fare? Certo la scuola, innanzitutto, è chiamata a correre ai ripari, insegnando Amleto e La Tempesta , le sue tragedie e commedie, poesie e sonetti. Alcuni, nel tentativo di colmare il divario, anzi voragine tra generazioni, hanno pensato di proporre versioni semplificate di questo genio del teatro, selezionando le opere e i passi, le scene più significative e i personaggi più rilevanti, in edizioni ridotte e sintetizzate.
Addio dunque a quel sistema di metafore e allegorie, figure retoriche e doppi sensi, riflessioni sulla vita compiute attraverso il linguaggio che solo i testi di Shakespeare nella loro interezza possono dare. A questo punto ci si chiede. Cos’è la verità? Se non, citando Nietzsche in Verità e menzogna , «un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che non sono che illusioni e metafore». E appunto è solo la conoscenza completa di una frase, di un pensiero, di un’opera teatrale di Shakespeare che ci permette di individuare le illusioni della vita coperte dalle parole, per smascherarle. Solo così si intende appieno perché Amleto parlando a Rosencrantz dice: «Non c’è niente che sia un bene o un male, ma è il pensare che lo rende tale». Leggere, quindi, i testi di Shakespeare, seppure, in base alle condizioni di partenza, anche attraverso la mediazione della traduzione, diventa tempo «per pensare a sé», per superare le barriere del linguaggio, andare al di là del testo e conoscere meglio se stessi, gli altri e il mondo che ci circonda, permettendo, come Joseph Conrad, in tempi diversi, aveva intuito straordinariamente, di far penetrare l’oscurità della vita nella lingua stessa, scardinandone le convenzioni, rompendo quel brillìo luccicante delle parole con le pause e le esitazioni amletiche.
Le tragedie e le commedie di Shakespeare, i suoi versi e le parole messe in bocca ai suoi personaggi, non sono solo questione di stile. Quelle frasi racchiudono stratificazioni di vissuti profondi che portano chi legge a riflettere e ripensare alle proprie esperienze. A diventare interprete di quella terra di mezzo in cui realtà e finzione si mescolano. Anzi Amleto si trasforma anche in un progetto di critica, commento e traduzione collettiva. È il caso di The Global Hamlet , in cui attraverso una piattaforma web chiunque potrà inviare la traduzione di un verso, l’aggiunta di una nota o l’illustrazione di una delle scene della tragedia. Ogni contributo sarà poi selezionato da una ristretta cerchia di esperti per arrivare alla messa a punto di un testo finale. Dunque applicare l’intelligenza collettiva all’arte, complice Amleto, il personaggio che apre la porta ai tempi moderni, perché introduce quell’approccio alla vita fatto di razionalità pervicace e ossessiva.
Il suo «essere» rivolto all’azione e il «non essere» che è inazione e morte, ma che diventa cifra testuale di un’alienazione poi di portata storica, di un potente e anticipatore squarcio sulla crisi della contemporaneità, in cui si cronicizza la percezione di una realtà complessa e sfuggente, ambigua e inesorabile. Siamo fatti di tubi piccoli e grandi che attraversano il nostro corpo, vasi che trasportano liquidi e fluidi, sangue e umori, la vita che alimenta se stessa nel suo eterno scorrere. Quel sistema di canali si trova, in modo speculare, anche all’esterno, in quei numerosi filamenti di cui il caso ci avvolge ogni giorno.
Un mistero che si traduce in fatti che accadono o in riflessioni che ci capita di fare. Ecco la lingua di Shakespeare nel suo alveo originario ricalca quel flusso ininterrotto che dentro e fuori di noi è il segno della vita. Quelle parole devono essere assorbite diffondendosi da quel conio quanto più possibile vicino al concepimento primigenio per vedere quei bagliori che illuminano il senso dei fatti, dell’esistenza, dell’inizio e della fine di ogni cosa. È dunque la lingua stessa, il testo completo di Shakespeare che ci parla abbattendo qualsiasi barriera temporale, mettendo sullo stesso piano l’uomo del Seicento e quello di oggi, sempre alle prese con gli eterni tumulti della vita.
E il cinema ha saputo fare propria questa lezione con interpreti di valore assoluto da Laurence Olivier con un Amleto cupo e romantico e all’opposto Kenneth Branagh nel suo monumentale film di quattro ore in cui dà vita a un eroe energico ed eccessivo che naufragherà nella conclusione di un’epoca. Da ricordare anche le interpretazioni di Ian McKellen e Ethan Hawke. Amleto ha poi ispirato Akira Kurosawa ne I cattivi dormono in pace (1960), Claude Chabrol con Ophélia del 1962 e Tom Stoppard in Rosencrantz & Guildenstern sono morti , vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 1990.

Repubblica 22.10.13
La verità e la legge
Carlo Ginzburg: “Perché è un errore punire i negazionisti”
Lo storico spiega le ragioni che lo vedono contrario a una norma “Si tratta di un fenomeno ignobile, ma è inaccettabile farne un reato”
intervista di Simonetta Fiori


Lo studioso Carlo Ginzburg (Torino, 15 aprile 1939) Figlio di Leone e Natalia Ginzburg ha scritto, tra gli altri,Il filo e le tracce. Vero, falso, finto (Feltrinelli)

«Quello contro il negazionismo è un disegno di legge inaccettabile. Reputo grave il modo dilettantesco con cui la classe politica l’ha riproposto, senza tenere conto delle serie obiezioni mosse in passato su questo tema». Carlo Ginzburg è lo storico italiano più conosciuto all’estero. Figlio di due ebrei illustri, Leone e Natalia, ha intercettato nelle sue vaste ricerche il tema del complotto e della persecuzione. «È una materia scottante e molto dolorosa. Ma proprio per questo non ho paura dell’aggettivo “freddo”: è mancata un’analisi distaccata, fredda, razionale su un provvedimento che rischia di produrreeffetti gravi».
La nuova legge è ora affiorata in Parlamento in coincidenza di due fatti incrociati: la morte dell’aguzzino Priebke, seguita dalla vicenda tempestosa della sua sepoltura, e il settantesimo anniversario della razzia del Ghetto, con gli oltre mille ebrei condotti a morire.
«Sì, questo duplice contesto ha creato una forte emozione pubblica. Ma le emozioni non sono mai consigliere di buone leggi. E allora la prima operazione che dobbiamo fare è recidere il legame tra questo nuovo disegno di legge e i contesti immediati in cui è stato proposto».
Perché il disegno di legge non la convince?
«Vanno fatte due valutazioni diverse: una riguarda il principio e l’altra l’opportunità. Dico subito che a mio parere entrambe portano a giudicare in maniera negativa questo disegno di legge. Sul piano del principio, è inammissibile imporre per legge unlimite alla ricerca. È un punto di principio che prescinde dal contenuto. Le tesi dei negazionisti sono ignobili dal punto di vista morale e politico e non costituiscono in alcun modo una provocazione sul piano intellettuale. Nessuno storico può essere indotto a rivedere le proprie argomentazioni sulla base di queste tesi. Però sul piano del principio non si possono porre dei limiti alla ricerca. E non sono ammesse eccezioni».
E le ragioni di opportunità?
«I negazionisti sono farabutti in cerca di pubblicità. Cercano un “martirio” a buon mercato e colgono ogni pretesto per farsi propaganda. Nei paesi in cui è stata adottata la legge, i tribunali sono diventati una formidabile cassa di risonanza delle loro tesi. Ma poi si aggiunge una seconda ragione di opportunità, e qui entriamo in un tersireno più delicato».
Quale?
«È quello che investe la ricerca storica. Parlo per esperienza diretta. Mi sono trovato, in un contesto accademico non italiano, a discutere un lavoro che ho definito, con un giudizio messo agli atti, “un caso di negazionismo felpato”, morbido. In esso non venivano formulate tesi negazioniste esplicite: però, attraverso una serie di distinguo, si avanzava una conclusione che andava implicitamente in quella direzione. Portare un caso del genere in tribunale sarebbe una follia. Se ne possono immaginare molti altri: la ricerca è fatta di argomentazioni che non s’identificano sempre con l’alternativa tra bianco e nero».
Poi quello del genocidio è un tema di discussione continua tra gli storici. Si fatica a trovare una nozione condivisa.
«Cosa distingue lo “sterminio” dal “qua- sterminio”? Sembra la traduzione tragica di un problema logico posto dai greci: il sofisma del sorite (o del mucchio) detto anche dell’uomo calvo. Se ti strappo un capello, diventi calvo? E se te ne strappo due? O tre? Ora, nel caso del genocidio, non si tratta di capelli immaginari ma di vite umane. A che punto scatta la nozione di genocidio? Mi fa orrore pensare che questo tipo di discussione possa finire in tribunale. Se poi qualcuno arriva a sostenere che quello che è successo in Europa tra il 1941 e il 1945 non è stato un genocidio, allora è inutile discutere: chi pronuncia queste affermazioni si autoesclude dalla comunità storiografica. Ma non si porta alla sbarra».
Il testo della legge è molto generico: punisce chi nega l’esistenza del genocidio ma anche dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità. Indro Montanelli, che ha a lungo negato l’uso del gas iprite in Etiopia, sarebbe finito in galera.
«Sul livello morale di Montanelli rinvio al libro, molto documentato, di Renata Broggini:Passaggio in Svizzera.Certo quello che lei cita è un caso che avrebbe dato origine a un contenzioso giuridico assurdo. Non sono queste le cose da portare in tribunale. Ho l’impressione (ma posso sbagliare) che oggi gli storici italiani siano abbastanza compatti contro la legge. Non c’è unanimità, ma quasi. Anche per questo colpisce la quasi unanimità, ma di segno contrario, della classe politica».
Il dissenso grillino ha riguardato più la modalità di approvazione che il contenuto della legge. Qualcuno tra gli storici si domanda se il negazionismo vada penalmente condannato perché servirebbe a contrastare la possibilità della discriminazione e della persecuzione.
«Non c’è dubbio che l’antisemitismo dichiarato sia oggi molto più presente, in Italia, rispetto a dieci anni fa. Un antisemitismo complesso, in cui confluiscono sia una componente neonazista sia una componente di sinistra, che identifica il capitalismo con la finanza ebraica. Un libro recente di Michele Battini ci ricorda che questo antisemitismo di sinistra ha radici nell’Ottocento, tra i seguaci di Proudhon. E poi c’è una terza componente, più recente, che si nutre dell’ostilità alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi. È una politica che mi ripugna: ferocemente ingiusta e (nel lungo periodo) tendenzialmente suicida. Ma l’antisionismo è stato ed è, molto spesso, una maschera dell’antisemitismo».
Questa pericolosa miscela agisce anche in altre parti d’Europa.
«In Italia però l’antisemitismo s’inserisce in un panorama più ampio, caratterizzato da un razzismo vergognoso che, diversamente da quanto succedeva in passato, è entrato a far parte del discorso pubblico. Basti pensare agli insulti contro la ministra Kyenge, che hanno fatto il giro del mondo. Oggi l’immagine dell’Italia nel mondo include anche questo. Potrebbero verificarsi episodi di razzismo ancora peggiori di quelli ai quali assistiamo: ma unache punisse il negazionismo non servirebbe a impedirli».
Adriano Prosperi ha sostenuto che sia la propaganda negazionista sia le leggi improvvide per combatterla sono sintomi di un problema italiano: non aver fatto i conti fino in fondo con la Shoah.
«I crimini compiuti dal nazismo sono stati di gran lunga superiori, per entità, a quelli compiuti dal fascismo. Ma anche il processo di elaborazione si è svolto, nei due paesi, in modo molto diverso. In Italia la Resistenza è stata usata come un alibi per rimuovere il passato. Anche in Germania, nel dopoguerra, c’è stata continuità col nazismo, in alcuni settori: l’università, la burocrazia. E il Sessantotto ha rappresentato una vera cesura: una resa dei conti con la generazione dei padri, compromessa col nazismo. Oggi, un fenomeno ripugnante come quello che si è verificato in Italia – un vero sdoganamento del razzismo – sarebbe impensabile in Germania».
Al di là del giudizio morale, un tratto che colpisce nel negazionismo è l’aspetto paradossale: a essere negato è uno degli eventi più documentati della storia umana.
«Il negazionismo si alimenta di molte cose: per esempio, del mito del complotto degli ebrei. Da quando in Francia, nel 1321, circolò la voce che i lebbrosi, istigati dagli ebrei, avevano cercato di avvelenare i cristiani, le versioni del complotto sono state innumerevoli, fino aiProtocolli dei Savi Anziani di Sione oltre. È un elemento che differenzia l’antisemitismo da altre forme di razzismo: nessuno ha mai parlato, credo, di complotti dei neri americani contro i bianchi. Ma dietro il fantasma del complotto si legge l’ambivalenza, il timore della superiorità attribuita agli ebrei. E di un complotto della lobby ebraica, ricca e potente, abbiamo sentito parlare anche di recente ».
Forse è anche per la sua ambivalenza che la teoria del complotto ebreo trova oggi terreno fertile tra i giovani impauriti di realtà depresse, sul piano economico e culturale. È un fenomeno che vediamo anche in Italia.
«Questo è vero. Basti vedere quel che succede in Ungheria. In una situazione di crisi profonda la proposta di un capro espiatorio preconfezionato può avere successo. Ma a questo pericolo non si risponde con una legge. Il terreno privilegiato per contrastarlo è la scuola».

Repubblica 22.10.13
Perché la democrazia non può non dirsi atea
Ethos pubblico “senza Dio” nel saggio di Paolo Flores d’Arcais
di Giovanni De Luna


C’è una “santa alleanza” che coltiva il proposito di chiedere aiuto Dio per superare la crisi di valori che attanaglia le democrazie occidentali; uno schieramento eterogeneo in cui è possibile trovare il manifesto antilluminista di Joseph Ratzinger, l’impegno di Jürgen Habermas perché la religione ritrovi un ruolo importante nello spazio pubblico della cittadinanza, Tariq Ramadan pure decisamente contrario a fare della religione un fatto privato, papa Wojtyla e la sua crociata contro il relativismo etico. Tutti accomunati nella condanna dell’illuminismo («la superbia luciferina con cui l’homo sapiens rinnova il peccato originale») e nel sostenere che, in assenza del Sacro, l’uomo sia irrimediabilmente condannato a una deriva materialistica che lo scaraventa in un deserto etico, condannandolo a una perpetua carestia morale.
Contro questo schieramento, con lucida intransigenza, scende ora in campo Paolo Flores d’Arcais: «O Dio o il cittadino, due sovrani non possono coesistere». Floresnon ha dubbi: la democrazia è imprescindibilmente atea; «la religione resta un fatto di coscienza che ha diritto di manifestarsi in forma pubblica solo come culto, senza velleità e pulsioni di colonizzare o comunque colorare una sfera pubblica che per essere democratica deve restare atea». Non solo la democrazia non ha bisogno di Dio per sopravvivere, ma anzi “senza Dio” è la condizione necessaria e sufficiente perché essa possa prosperare. Introdurre la religione nello spazio pubblico - afferma Flores inLa democrazia ha bisogno di Dio: falso! - finirebbe per mettere a rischio ogni forma di coesione, sovrapponendo alla fisiologica conflittualità del pluralismo politico laico le tensioni distruttive delle dispute religiose, con le varie confessioni tese a enfatizzare il proprio Dio contro quello degli altri. Come si vede, è un discorso di grande attualità oggi in Italia, anche alla luce della svolta di papa Bergoglio. Prescindendo però dalle ultime novità pontificie, Flores, contro la presenza sempre più invasiva della Chiesa, propone l’autonomia di una sfera pubblica fondata su un ethos repubblicano «diffuso in modo pervasivo tra i cittadini » e che riconosce come beni irrinunciabili «l’esercizio inesausto del confronto politico razionalmente argomentato » e «il rispetto di ogni stile di vita che non comporti imposizioni ad altri ». I valori che ispirano questo ethos sono quelli “minimi” costituzionali, desunti dal principio “una testa un voto” che è all’origine storica della democrazia liberale.
Proprio pensando all’Italia, sembra però che l’ethos pubblico così come viene definito nel libro non basti a rafforzare la sovranità del cittadino tenendola a riparo da quella di Dio. L’ethos pubblico è una costruzione culturale, nasce dalla capacità della classe politica di costruire un recinto virtuoso in cui i cittadini possano riconoscersi in interessi e in valori comuni. Valori legati ad esempio a un “patto di memoria” che ritrovi nel nostro passato la forza di una tradizione repubblicana, sottolinei le virtù di una democrazia che è nata sulle rovine della dittatura fascista con una impronta “militante” molto accentuata e niente affatto minimalista. Nella Seconda Repubblica i valori sono stati invece schiacciati sugli interessi. E una volta che questo succede, i guasti possono essere irreparabili. Lo spiega bene una citazione di Tocqueville (dello stesso Flores): «La passione del benessere spinge a un ardore insensato verso i beni materiali e porta una nazione a chiedere al suo governo esclusivamente il mantenimento dell’ordine». Una democrazia ridotta ai minimi termini, segnata da un asfittico pragmatismo e colonizzata dalle ragioni dell’economia sembra destinata ad arrendersi a un discorso religioso che, con papa Francesco, si ripropone con grande autorevolezza.

IL LIBRO La democrazia ha bisogno di Dio: Falso! di Paolo Flores d’Arcais Laterza, pagg. 128 5 euro

Repubblica 22.10.13
Festival della Scienza
Le leggi della Bellezza
di Giovanni Spataro


Chimica, fisica, biologia: discipline spesso accusate di essere aride. Ma tra le ragioni della ricerca c’è il piacere dell’indagine,che rivela l’eleganza e l’armonia della natura.
Se ne parlerà da domani a Genova, in diversi giorni di appuntamenti che animano la città

Lo scienziato non studia la natura perché sia utile farlo. La studia perché ne ricava piacere; e ne ricava piacere perché è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena conoscerla, e la vita non sarebbe degna di essere vissuta”. Questa affermazione è del francese Henrì Poincaré, vissuto tra fine XIX e inizio del XX secolo, uno degli ultimi esempi di scienziato in grado di dare contributi cruciali in diversi ambiti. Il suo rapporto con la bellezza non è un caso isolato e illustra in modo efficace un’impostazione che ha caratterizzato l’impresa scientifica fin dagli albori. Durante la rivoluzione copernicana, il colpo di grazia al sistema geocentrico che rispettava le sacre scritture è arrivato agli inizi del XVII secolo da tre equazioni di una semplicità formale disarmante frutto dell’ingegno di Keplero. L’astronomo tedesco era arrivato alle equazioni rivoluzionarie, che per prime hanno descritto il moto dei pianeti su orbite ellittiche attorno al Sole, perché i tentativi di conciliare i risultati delle osservazioni astronomiche dei suoi colleghi con un sistema planetario centrato sulla Terra avevano prodotto risultati complessi e contorti, impossibili da accettare per uno come lui che credeva nell’azione delle leggi dell’armonia in natura.
Rimanendo sempre nell’ambito dei personaggi che hanno fatto la storia della scienza, anche Albert Einstein ha la sua notevole dose di bellezza. La teoria della relatività generale, che ha trasformato le nozioni classiche di spazio, tempo e materia, è stata giudicata dai suoi colleghi una delle più belle di sempre per la sua semplicità, completezza ed estetica matematica. Ed è proprio grazie al senso estetico di Keplero ed Einstein che astrofisici come Robert Kirshner, ospite del Festival della Scienza di Genova, il cui filo conduttore que-st’anno è la bellezza, possono studiare il cosmo e la sua evoluzione. Il senso estetico pervade anche chi si occupa del mondo a scala atomica e subatomica. Un esempio clamoroso è il fisico britannico Paul Dirac, premio Nobel nel 1933 e tra i fondatori della meccanica quantistica, il quale affermava che una teoria fisica bella dal punto di vista matematico ha maggiori probabilità di essere corretta. Alcune sue strutture, i coni di Dirac, sono tornate alla ribalta nel 2004 con la scoperta del grafene, un materiale costituito da atomi di carbonio legati a formare un reticolo di esagoni su un piano dello spessore di un atomo.
Grazie ai coni di Dirac il grafene è un conduttore di elettricità senza eguali, una delle sue tante caratteristiche che lo rendono promettente per applicazioni innovative, come illustrerà un altro ospite del festival, il russo Kostya Novoselov, Nobel per la fisica nel 2010 insieme ad Andre Geim proprio per aver scoperto questo materiale.
Il bello è argomento anche delle scienze della vita e delle sue rivoluzioni, tra le quali la più importante è quella di Charles Darwin che nel suo Origine delle specie,libro del 1859, ha tolto l’uomo dal centro del mondo animale e ha cancellato la creazione divina elaborando la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, a Genova tema del filosofo e naturalista David Rothenberg. Darwin ha concluso quel libro epocale con l’affermazione: “Vi è qualcosa di grandioso in questa visione della vita”. Un po’ quello che forse ha pensato Lucrezio, il poeta latino del I secolo a.C. autore diDe rerum natura, opera a cavallo tra poesia, filosofia e scienza, a Genova argomento del matematico Piergiorgio Odifreddi. Diceva Primo Levi di Lucrezio che “voleva liberare l’uomo dalla sofferenza e dalla paura, si ribellava contro ogni superstizione, e descriveva con lucida poesia l’amore terrestre”. La visione di Poincaré non è poi così lontana.

Repubblica 22.10.13
Niente paura il futuro è rosa
Matt Ridley, autore di “Un ottimista razionale”
intervista di Enrico Franceschini


CHI È RIDLEY 55 anni, inglese, è scienziato, scrittore, businessman.
Autore di diversi libri di divulgazione scientifica - tra i qualiGenoma-ha ottenuto successo mondiale con Un ottimista razionale.
Conservatore, è membro della Camera dei Lord e fa parte dell’American Academy of Arts and Sciences

La scienza è bella perché ci fa stare meglio di quando si stava peggio. Sembra un’ovvietà, ma non lo è: secondo una diffusa opinione il progresso tecnico-scientifico si è rivelato una fregatura, l’era contemporanea è una delle peggiori della storia e insomma - come afferma il noto detto - si stava meglio quando si stava peggio, in un passato più semplice e bucolico. A smentire questa tesi è tra gli altri Matt Ridley, giornalista dell’Economist e autore di The rational optimist (Un ottimista razionale, ed. Codice), il libro che presenterà al Festival della scienza di Genova.
Davvero la scienza ci ha dato un mondo migliore?
«Sotto qualunque aspetto il mondo di oggi è migliore di ogni altra era. La gente vive più a lungo, subisce meno violenza, soffre meno malattie, mangia di più, respira aria più pulita, riceve una migliore istruzione, è più felice. Ci sono le statistiche a dimostrarlo, la mortalità infantile a livello mondiale è scesa del 70 per cento rispetto a quando sono nato io e la povertà estrema è stata quasi eliminata».
Respiriamo aria più pulita nell’era del cambiamento climatico?
«Immaginate che aria si respirava a Londra cento o duecento anni fa e sarete contenti dei progressi fatti».
Ma come essere ottimisti in un pianeta con troppa gente, troppo poche risorse e una superpotenza emergente non democratica come la Cina?
«Non tutto è perfetto e il mondo può essere migliorato, ma è già meglio di com’era e migliorerà ancora. La crescita demografica in realtà è rallentata e si fermerà intorno a metà secolo. L’idea che le risorse alimentari ed energetiche stiano per finire è un mito: ci serve il 65 per cento di terra in meno per produrre la stessa quantità di cibo di 50 anni fa, avremo gas e petrolio ancora abbastanza a lungo per sviluppare un nucleare pulito, energie verdi e inventarne altre. E c’è un trend generale verso la democrazia, non verso la dittatura, inclusa la Cina, certo più liberale oggi che al tempo di Mao».
Allora per lei la scienza è veramente bella?
«È la più bella di tutte le discipline, comprese quelle artistiche. Non c’è nulla di esteticamente piacevole come una grande scoperta scientifica, a mio avviso è bella quanto un quadro, un romanzo, un film, una sinfonia».
Ma la scienza è quasi sempre collegata al profitto, le pare giusto?
«Non è proprio così. La maggior parte della scienza non nasce dal profitto: nasce dalla curiosità degli scienziati, degli uomini. Certo, le innovazioni scientifiche producono dei profitti, ma non c’è niente di male nel profitto di per sé: è quello che pagherà le nostre pensioni, attraverso i fondi pensione che investono i risparmi della gente comune. E poi basta guardare Genova, la città di questo festival, dove il commercio condusse allo sviluppo di una grande civiltà e di una grande cultura».