mercoledì 23 ottobre 2013

il Fatto 23.10.13
138, ultima chiamata al Pd: “Consentite il referendum sul ddl”
Oggi il Senato vota il testo che stravolge la Carta
Senza il sì dei 2/3 possibile la consultazione popolare
di Luca De Carolis


Assalto alla Carta, ultimo atto in Senato. Con un’unica, flebile incognita (o ancora di salvezza): il numero dei votanti. Oggi Palazzo Madama approverà in seconda lettura il ddl costituzionale 813-b, che stravolge l’articolo 138, la “valvola di sicurezza” della Carta, e affida a un comitato di 42 parlamentari il compito di riscrivere almeno metà della Costituzione. Cifre alla mano, non c’è partita: a favore della riforma voteranno i partiti di governo più Lega Nord e gruppi sparsi. Contrari, solo Cinque Stelle e Sel. Ovvero, 57 senatori su 321. Insomma, il ddl che spalanca le porte alla riforma presidenzialista passerà di certo a Palazzo Madama.
RIMANE una speranza: ossia, che il testo non venga approvato dai dei due terzi dei suoi componenti (214 voti), così da rendere possibile un referendum sul testo, impossibile in caso di approvazione con maggioranza “qualificata”. I firmatari del manifesto in difesa della Carta, “Via Maestra”, hanno rivolto un appello pubblico a tutti i senatori: “Permettete anche ai semplici cittadini di dire la loro, rendete possibile il referendum”. Parole indirizzate innanzitutto al Pd, il gruppo più ampio a palazzo Madama con 108 senatori. Lo scorso 11 luglio, in occasione del primo passaggio in Senato, i Democratici votarono compatti sì al ddl. Con due eccezioni: Walter Tocci e Silvana Amati, astenuti. “La nostra generazione ha dimostrato abbondantemente l’inadeguatezza al compito costituente, pensare che possa compierlo ora è un ardimento senza responsabilità” spiegò Tocci in aula. Oggi potrebbe votare contro, assieme ad Amati e a Corradino Mineo, che ha anticipato al Fatto il suo no al ddl. Le indiscrezioni parlano di altri 3 o 4 malpancisti, in bilico tra astensione e voto contrario. Complicato pensare che il fronte dei contrari possa allargarsi. Anche e soprattutto perché si voterà con scrutinio palese. “Ma di appelli e inviti di ripensarci sul 138 ce ne arrivano tanti” ammetteva ieri un senatore dem. Sullo sfondo, un’altra ipotetica via d’uscita: le assenze nel Pdl (91 senatori). La scorsa volta, il ddl passò con “soli” 204 sì (con meno dei 2/3, quindi) proprio per i vuoti nel centrodestra. Mancava uno su quattro, nel partito di Berlusconi, che però proprio in quel giorno aveva fissato un delicato ufficio di presidenza. Oggi di motivi per assentarsi non dovrebbero essercene . Mentre un senatore Pdl riflette: “Se falchi e colombe vogliono farsi i dispetti, difficile che lo facciano a voto palese sulle riforme”. È però evidente come il tema Costituzione non appassioni a destra. E poi, ci sono le fibrillazioni in Scelta Civica (20 senatori, prima della bufera ). Tirate le somme, il quorum dei 2/3 è ampiamente alla portata della maggioranza. Ma qualche intoppo è possibile. Alberto Airola (M5S): “Comunque vada, è evidente che si aggrappano a questa riforma per tirare avanti. Sono i partiti che vanno cambiati, non la Costituzione”. Oggi in aula si inizia con la replica del governo e le dichiarazioni di voto. Poi lo scrutinio. Chiusa la partita in Senato, ultimo passaggio alla Camera a dicembre. Dove l’assalto alla Carta potrebbe diventare legge.

Repubblica 23.10.13
Riforma costituzionale, voce ai cittadini
di Stefano Rodotà


So bene quanto sia difficile, oggi in Italia, una discussione ispirata a criteri di ragione e rispetto. È quel che sta accadendo per il tema della riforma della Costituzione. Ma questo non deve indurre a ritrarsi da una discussione che trova talora toni sgradevoli. Impone, invece, di fare ogni sforzo perché una questione davvero fondamentale possa essere affrontata in modo rispettoso dei dati di realtà e delle diverse posizioni in campo.
Quel che si sta discutendo è l’assetto futuro della Repubblica, l’equilibrio tra i poteri, lo spazio stesso della politica, dunque il rapporto tra istituzioni e società delineato dalla Costituzione, il patto al quale sono consegnate le ragioni del nostro stare insieme. Tuttavia, prima di affrontare questioni così impegnative, è necessario ristabilire alcune minime verità. Nell’affannosa ricerca di argomenti a difesa della strada verso la revisione costituzionale scelta da governo e maggioranza, infatti, si sta operando un vero e proprio stravolgimento della posizione di alcuni critici di questa scelta. Premono le ragioni della propaganda e così si alzano i toni, con una mossa rivelatrice dell’intima debolezza delle proprie ragioni. Spiace che in questa operazione si sia fatto coinvolgere lo stesso presidente del Consiglio, che non perde occasione per additare i critici come quelli che vogliono rendere impossibile la riduzione del numero dei parlamentari, l’uscita dal bicameralismo paritario, la riscrittura dello sciagurato titolo V della Costituzione sui rapporti tra Stato e Regioni.
Ripeto: questa è una assoluta distorsione della realtà. Fin dall’inizio di questa vicenda, di fronte al “cronoprogramma” del governo era stato indicato un cammino diverso, che sottolineava proprio la possibilità di una rapida approvazione di riforme per le quali esisteva già un vasto consenso sociale, appunto quelle ricordate prima. Se governo e Parlamento avessero subito seguito questa indicazione, è ragionevole ritenere che saremmo già a buon punto, vicini ad una dignitosa riscrittura di norme della Costituzione concordemente ritenute bisognose di modifiche. Come si sa, è stata scelta una strada diversa, tortuosa e pericolosa, con variegate investiture di gruppi di “saggi” e con l’abbandono della procedura di revisione indicata dall’articolo 138della Costituzione. I tempi si sono allungati e i contrasti si sono fatti più acuti.
Questo non è un dettaglio, come vorrebbero farlo apparire quelli che, con sufficienza, invitano a guardare al merito delle proposte e a non impigliarsi in questioni meramente procedurali. Quando si tratta di garanzie, la regola sulla procedura è tutto, dà la certezza che un obiettivo così impegnativo, come la revisione costituzionale, non venga piegato a esigenze strumentali, a logiche congiunturali. È proprio quello che sta avvenendo, sì che non è arbitrario ritenere che la strada scelta nasconda un altro proposito – quello di agganciare a riforme condivise anche una forzatura, riguardante il cambiamento della forma di governo.
È caricaturale, e improprio, descrivere la discussione attuale come un conflitto tra conservatori e innovatori. Si stanno confrontando, e non da oggi, due linee di riforma. Di fronte a quella scelta da governo e maggioranza non v’è un arroccamento cieco, un pregiudiziale no a qualsiasi cambiamento. Vi è una proposta diversa, che può essere così riassunta: rispetto della procedura dell’articolo 138, avvio immediato delle tre specifiche riforme già citate, mantenimento della forma di governo parlamentare rivista negli aspetti che appaiono più deboli.
Torniamo, allora, alle questioni più generali. Da alcuni anni si è istituita una relazione perversa traemergenza economica, impotenza politica e cambiamenti della Costituzione. Con una accelerazione violenta, e senza una vera discussione pubblica, nel 2012 è stata approvata una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, prevedendo il pareggio di bilancio. Allora si chiese, invano, ai parlamentari di non approvare quella riforma con la maggioranza dei due terzi, per consentire di promuovere eventualmente un referendum su un cambiamento tanto profondo. La ragione era chiara. Si parla molto di coinvolgimento dei cittadini e si dimentica che quella maggioranza era stata prevista quando la legge elettorale era proporzionale, dando così garanzie in Parlamento che sono state fortemente ridotte dal passaggio al maggioritario. Oggi la stessa richiesta viene rivolta ai senatori che si accingono a votare in seconda lettura la modifica dell’articolo 138. Vi sarà tra loro un gruppo dotato di sensibilità istituzionale che accoglierà questo invito, affidando anche ai cittadini il giudizio sulla sospensione di una procedura di garanzia che altri, in futuro, potrebbero utilizzare invocando qualche diversa urgenza o emergenza? Non basta, infatti, aver previsto un referendum alla fine dell’iter della riforma finale, se rimane un dubbio sulla correttezza del modo in cui quel cammino è cominciato. La discussione sul merito delle proposte assume significato diverso se queste non alterano l’impianto costituzionale e sono già sorrette da consenso sociale, come quelle più volte citate, o se invece implicano un mutamento della forma di governo. Per quest’ultima, nella relazione del Comitato dei “saggi” sono state fatte due operazioni. In via generale, sono state legittimate tre ipotesi tra loro ben diverse. E poi si è indicata tra queste una sorta di mediazione, definita come “forma di governo parlamentare del Primo Ministro”, che in realtà introduce un presidenzialismo mascherato, costituzionalizzando l’indicazione sulla scheda del candidato premier e ridimensionando così il potere di nomina da parte del presidente della Repubblica e quello del Parlamento di dare la fiducia. Ha detto bene Gaetano Azzariti sottolineando che così si realizza «l’indebolimento della forma di governo parlamentare e il definitivo approdo in Costituzione delle pulsioni presidenziali». Una politica debole cerca così una scorciatoia efficientista attraverso un accentramento/ personalizzazione dei poteri e sembra rassegnarsi ad una crisi dei partiti che, incapaci di presentarsi come effettivi rappresentanti dei cittadini, non sono più in grado di cogliere la pienezza del ruolo dell’istituzione in cui sono presenti, il Parlamento, alterando così gli equilibri costituzionali.
Ma l’assunzione della logica dell’emergenza e della pura efficienza svuota lo spazio costituzionale di tutto ciò che si presenta come “incompatibile” con essa. I diritti fondamentali sono respinti sullo sfondo e si perde il loro più profondo significato, in cui si esprime non solo il riconoscimento della persona nella sua integralità, ma un limite alla discrezionalità politica che, soprattutto in tempi di risorse scarse, deve costruire le sue priorità partendo proprio dalla garanzia di quei diritti. Sbagliano quelli che, con una mossa infastidita, dichiarano l’irrilevanza della discussione sulle riforme di fronte ai bisogni reali delle persone. Questi vengono sacrificati proprio perché la politica ha perduto la sua dimensione costituzionale, e fa venir meno garanzie in nome di un’efficienza tutta da dimostrare, come accade per il lavoro. Se non si coglie questo nesso, rischiano d’essere vane anche le iniziative su questioni specifiche, e i lineamenti della Repubblica verranno stravolti assai più di quanto possa accadere con un mutamento della forma di governo.

il Fatto 23.10.13
Le “panzane” di Napolitano
di Fabrizio d’Esposito


Il Fatto riporta le accuse del falchi del Pdl al presidente sul patto tradito di graziare Berlusconi “motu proprio”. Il capo dello Stato perde la testa e insulta il nostro giornale per smentirli. Peccato che non abbia aperto bocca quando altri scrissero le stesse cose o quando B. lo chiamò “i naffidab ile” e minacciò di “rivelare tutte le sue promesse”

UN PATTO CON SILVIO? PER IL COLLE NON C’È “PANZANA ASSURDA”
UNA NOTA DI NAPOLITANO CONTRO “IL FATTO QUOTIDIANO” E I FALCHI DEL PDL CHE LO ACCUSANO DI “TRADIMENTO” MA BERLUSCONI CONTINUA A RICHIEDERE UN SALVACONDOTTO

La resa dei conti sulla decadenza di B. si avvicina e Giorgio Napolitano teme sempre di più il faccia a faccia finale con il Cavaliere, snodo cruciale della legislatura e del-l’implosione imminente del Pdl. Oggetto: il “patto tradito” di cui più volte ha parlato in questi giorni Daniela Santanchè, guida politico-mediatica dei falchi berlusconiani. Ed è per questo che ieri il Quirinale ha stroncato con una nota durissima un articolo del Fatto in cui si dava conto del contenuto di questo “patto tradito” secondo l’ala guerrigliera del Pdl: una grazia motu proprio del Colle per la condanna definitiva del Cavaliere sui diritti tv Mediaset. Indiscrezione, peraltro, riportata anche da Repubblica senza evidenza, però, nel titolo o nei sommari.
DI QUI L’ANATEMA del Colle contro il nostro quotidiano, affinché la Pitonessa Santanchè e gli altri falchi intendano: “Solo il Fatto Quotidiano crede alle ridicole panzane come quella del patto tradito dal presidente Napolitano”. Oggi in un’intervista, la stessa Santanchè, che al Colle viene appellata con fastidio come “la Signora”, replica che la vera panzana è la pacificazione promessa a suo tempo a Berlusconi . Perché, andando alla radice del caos attuale da larghe intese, il problema è questo. Nella primavera scorsa il Cavaliere fu uno dei protagonisti dell’incredibile evoluzione politica dopo gli sfaceli bersaniani: il patto per la rielezione di Napolitano al Quirinale, poi quello per Enrico Letta a Palazzo Chigi con l’appendice, allo stesso tempo, di sbarrare la strada a Renzi premier. Lo rivela lo stesso sindaco di Firenze nel suo ultimo libro, raccontando una telefonata di B.: “Non c’è un veto nostro, caro sindaco. Semplicemente non vogliamo te, preferiamo Amato e Letta”. Oggi i soliti falchi aggiungono altri velenosi dettagli: “Fu Napolitano a chiedere a B. di fermare Renzi”. Vero o falso che sia, è in corso una guerra totale tra il Colle e il Cavaliere versione falco per il “rispetto dei patti di primavera” . Guerra destinata a intensificarsi a mano a mano che si approssimerà la data fatidica della decadenza al Senato. Non a caso, proprio ieri, quando il Colle ha diramato la nota contro il Fatto (e non è la prima), sul Corriere della Sera è uscito un accorato editoriale del costituzionalista Michele Ainis, saggio delle riforme, che ha una frase chiave: “Attorno a Napolitano si sta scavando un vuoto. Magari perché i partiti l’avvertono in uscita, pur avendogli chiesto di rientrare al Quirinale”. Ed è quel vuoto che innervosisce tantissimo Napolitano. Con un timore: cosa succederà quando B. sarà dichiarato decaduto da Palazzo Madama? Dalla corte berlusconiana, che oggi dovrebbe tornare a Roma, forse, dicono: “Abbiamo perso il conto di quante volte, nei mesi scorsi, Gianni Letta è stato ricevuto al Colle. Chissà, forse il presidente teme di essere sbugiardato da Berlusconi”. Santanchè (e Fatto) a parte, è stato infatti proprio il Cavaliere, al-l’inizio di ottobre, a mettere nero su bianco i termini della questione sulla sua condanna. Dalla lettera al settimanale ciellino Tempi di Luigi Amicone: “Enrico Letta e Giorgio Napolitano avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria”. Ecco, dal suo punto di vista, Berlusconi ha chiesto di onorare i patti iniziali delle larghe intese. Adesso, però, le manovre per accantonarlo e ridurlo al ruolo di padre nobile di un centrodestra alfanizzato, perdipiù con Casini, lo rendono cupo, pessimista e volubile. Per cui nessuno è in grado di prevedere, né falchi né colombe, la sua decisione finale. Che sia questo il quadro lo confermano le cronache di questi giorni. Ecco, per esempio, lunedì scorso, come il Corriere della Sera ha dato conto del primo attacco della Santanchè al Colle sul “patto tradito”: “Parole durissime, che certamente nella sostanza, in privato, Berlusconi ripete spesso e che sono il cuore dei suoi sfoghi di questi giorni”. Sono gli stessi sfoghi in cui ripete: “Non posso continuare a stare con i miei carnefici”.
QUESTA È LA GUERRA in corso. Si può far finta di non vederla, isolando i falchi mandati avanti, e nascondersi dietro la liturgia di note e solidarietà di circostanza. Ma prima o poi esploderà.

il Fatto 23.10.13
Il giurista Franco Cordero:
“Neapolitanus Rex ha instaurato una specie di monarchia”
“Addio riforme, la monarchia di Giorgio può finire”
intervista di Silvia Truzzi


L’ultimo lavoro di Franco Cordero s’intitola Morbo italico: il diagnosta – professore emerito di Procedura penale alla Sapienza e commentatore di Repubblica – non sembra ottimista. “Il berlusconismo”, nota sulla soglia dell’intervista, “è organicamente entrato nel corpo italiano”.
Testuale dal libro: “L’anno scorso Neapolitanus Rex era inviolabile nei colloqui riservati: adesso nemmeno i parlamentari possono nominarlo, salvo che cantino laudi; sotto Giacomo II Stuart non esistevano censure così ferree. Quali siano i suoi poteri e come li eserciti, è questione politica, liberamente discutibile. Ha una falsa idea del
Parlamento chi pretende banchi muti o plaudenti”.
Vediamo l’etimologia: “Parlamento” significa luogo in cui rappresentanti del paese discutono de re publica in spirito laico; non vigono interdetti. L’augusta persona è attore nel teatro politico: rieletto (primo nella storia italiana), occupa larghi spazi interloquendo spesso; naturale che se ne parli, e il taglio critico riesce più serio dell’ossequio cortigianesco. Salta al-l’occhio la singolarità d’una rielezione combinata da 101 franchi tiratori intriganti notturni. Spira aria monarchica, nel senso d’un re che governa. Nei sette anni del primo mandato non emette sillaba sullo spaventoso conflitto d’interessi nel quale il pirata governava pro domo sua: anzi, coopera ai famigerati lodi d’immunità, vistosamente invalidi; tiene in piedi i resti d’un regime fallimentare; predica e impone l’ibrido berlusconoide (“meno male che Giorgio c’è”, cantava l’interessato).
E le riforme costituzionali?
Le saluta l’Olonese, al cui triplo stomaco non basta mai la misura del potere: è taumaturgo ma aveva le mani legate; appena gliele sciolgano, saranno mirabilia. Presiede l’officina un suddito d’Arcore, ministro ad hoc, e non era tiepido nel culto del Caimano .
Riforme capitali sotto un governo che nessuno immaginava, in un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Cominciano mettendo disinvoltamente le mani nell’art. 138, dov’è stabilito in qual modo siano operabili revisioni costituzionali.
Dicono di seguire la procedura corretta.
Affiora un limite definibile “sordità logica”. La questione è se l’art. 138 sia emendabile. Supponiamo che, seguendo quell’iter, le Camere lo riscrivano: nella nuova formula basti una maggioranza qualunque; o non siano più necessari i due voti con l’intervallo d’almeno tre mesi; o cada il requisito del referendum. Il prodotto sarebbe invalido. Finché duri l’attuale ordinamento, la Carta è modificabile solo nel modo stabilito dai costituenti: norme diversamente formate non appartengono al sistema 1° gennaio 1948; spetta alla Corte liquidarle. Se poi la discontinuità prende piede, perché il coup de main risulta effettivo, s’instaura un nuovo ordinamento: non è detto che le rivoluzioni espugnino Bastiglie o Palazzi d’Inverno; talvolta avvengono senza rumore, sornione. In ultima analisi, le regole dipendono dal fatto che i chiamati ad applicarle ubbidiscano o no.
Che funzione ha l’articolo 138?
Quale meccanismo genetico, sta sopra le norme passibili d’una revisione. Anche in sede giuridica vigono i livelli identificati da Bertrand Russell (teoria delle classi) e confondendoli alleviamo paradossi. Epimenide ne scova uno 26 o 27 secoli fa: “tutti i cretesi mentono”, enunciato universale affermativo (l’opposto è che almeno uno dei predetti sia credibile, almeno una volta) ; è vero o falso quando l’affermi un cretese? Vero, se falso, falso perché vero: frasi simili non hanno senso; l’acquistano appena dalla classe “cretesi” togliamo l’enunciante. Sul piano pratico, il paradosso del cretese bugiardo sviluppa disordini. Inteso nel senso debole (e sarebbe gesto eversivo), l’art. 138 diventa grimaldello micidiale. L’Olonese arrembante aspirava al potere assoluto: in quali forme, lo indicano tanti episodi, incluse serate d’Arcore, né muta natura in vista degli ottant’anni; e nel governo presieduto dal Pd Letta junior, nipote del plenipotenziario Pdl, manovra l’alambicco costituente, cavandone capolavori, un devoto berlusconiano della specie ornitologica “quaglia-colomba”. Navighiamo sul Narrenschiff, allegra nave dei folli, ricorrente nella pittura quattro-cinquecentesca.
La Corte d’assise di Palermo ha accolto la richiesta del pubblico ministero d’ascoltare il Capo dello Stato nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Se ne discuteva l’anno scorso ed era prevedibile che in qualche modo riemergesse l’asserita inviolabilità del Totem, qualunque sia il contesto. In materia esiste una sentenza suicida della Consulta, dissecata nel Morbo italico. Eventi simili sprigionano dei riflessi: s’allinea subito ad regem la loquace Guardasigilli; scattano i quirinalisti; niente esclude un secondo sciagurato conflitto, sebbene il tema siano cose dette dal-l’allora consigliere su fatti remoti, estranee alle funzioni del Presidente. Dunque, nihil obstat e speriamo che stavolta nessuno opponga l’inesistente prerogativa.
I piani d'amnistia e indulto contemplano B.?
No, esclamano fonti virtuose, e guai a chi lo pensa; ma nei circuiti dell’eufemismo regna Monsieur Tartuffe: gli applausi dicono come i forzaitalioti intendano l’idea d’una clementia principis.
Ancora da Morbo italico: “Giochi notturni hanno riportato Napolitano sul Colle dopo sette anni, pesanti nella bilancia politica; e nessuno s’aspetta un autocritico passo abdicativo: rimane lassù fino all'anno 2020, in età da patriarca, ma prima d’allora sarà bancarotta, se non interviene qualche santo”. E poi: “Se vogliamo che qualcosa cambi in meglio e organicamente, questo governo deve andarsene. Impossibile finché dal Quirinale vegli GN”.
Tutti a casa?
L’ideale sarebbe un salto retrogrado ad aprile, quando Montecitorio votava in seduta comune, e mantenere la parola data a Romano Prodi, ma la freccia del tempo non vola indietro. Resta nel possibile che il rieletto d’allora attui la minaccia d’andarsene, offeso dalle mancate riforme (quas Deus avertat, se è permesso lo scongiuro latino).

il Fatto 23.10.13
Lettere dal Quirinale La terza in pochi mesi


È LA SECONDA VOLTA in pochi mesi che il capo dello Stato detta una nota che ha per oggetto Il Fatto Quotidiano. Oggi sono le “panza n e ”, nel giugno scorso era “il ridicolo falso” (contenuto a dire del Colle nella domanda di un’intervista a Barbara Spinelli) “di un termine posto dal Presidente della Repubblica alla durata dell’attuale governo”.
La stessa tigna smentitoria non è stata adoperata con la medesima misura con i giornali che, in queste settimane, raccontavano di visite al Colle degli ambasciatori più improbabili, da Gianni Letta ad Angelino Alfano, carichi di richieste per conto del condannato di Arcore. Ad agosto, poi, il giorno era l’8, arrivò al nostro giornale un’altra lettera di smentita, a firma Giorgio Napolitano: “Nell'articolo dal titolo ‘Napolitano ordina al Pdl: Fate i bravi fino a ottobre’ pubblicato da il Fatto, già infondato nel titolo, sono state attribuite a mia moglie Clio affermazioni che non corrispondono al vero. Si tratta di vergognose e grossolane panzane, inventate di sana pianta da chi vuole soltanto creare confusione e pescare nel torbido. La prego di considerare questa una lettera non a titolo personale, bensì scritta a nome mio e di mia moglie”. La parola “panzana”, al Quirinale, va per la maggiore.

il Fatto 23.10.13
Cuneo fiscale
La bugia di Letta: i 14 euro in busta paga annunciati dal suo governo
di Salvatore Cannavò


IL CUNEO DA 14 EURO? LETTA SMENTITO DAL SUO GOVERNO
IL PREMIER SI LAMENTA IN TV PER LA “CIFRA FASULLA” CHE PERÒ È SCRITTA NELLA RELAZIONE TECNICA. BUGIE ANCHE A EPIFANI SUGLI ESODATI. SACCOMANNI SALVA GLI AMICI DI BANKITALIA

Enrico Letta era andato da Lilli Gruber a Otto e mezzo per togliersi “un sassolino dalla scarpa”. Ne è uscito con un masso. Le sue parole ora lo inchiodano smentendo la sua proverbiale prudenza. “Questa storia dei 14 euro è una cosa che mi ha dato noia” ha detto il presidente del Consiglio, “non so chi l’ha inventata, è una cifra fasulla, un’operazione mediatica per farci solo del male”. Peccato che la cifra fasulla a proposito della riduzione del cuneo fiscale, con l’incremento delle detrazioni per i lavoratori dipendenti, l’abbia fornita lui stesso. Anzi, l’ha scritta, nero su bianco, sulla Relazione tecnica della legge di Stabilità. Ognuno può leggere e verificare. Come abbiamo fatto noi, dotati di penna e calcolatrice.
ALL’ARTICOLO 6, “Misure fiscali per il lavoro e le imprese”, infatti, vengono indicate le detrazioni “rimodulate” rispetto alla legislazione vigente. Se per i redditi fino a 8 mila euro e per quelli superiori ai 55 mila, non cambia nulla, per i redditi tra gli 8 e 15 mila e tra 15 e 55 mila c’è il ritocco in questione. La detrazione massima viene innalzata da 1.338 euro a 1.520. Si tratta di un incremento di 182 euro l’anno. Dividendo la cifra per le tredici mensilità di cui si compone una normale busta paga, vengono fuori è esattamente 14 euro. Senza trucchi né inganni. La “cifra fasulla”, quindi, è scritta, in forma abbastanza decifrabile, in una norma ufficiale, depositata al Senato e messa agli atti della discussione parlamentare. Va chiarito, però, che stiamo parlando della detrazione massima ipotizzata dalla legge di Stabilità. Facendo due rapidi calcoli, infatti, scopriamo che, nel caso di un reddito da 25 mila euro lordi annui, il bonus mensile corrisposto dal governo è di 13,65 euro mentre per un reddito di 40 mila euro lordi annui, si scende ancora a 8,75 euro mensili.
Quello che Enrico Letta non sa è che il calcolo sui 14 euro, la “cifra fasulla” che tanto l’ha irritato, è ancora una cifra ben disposta nei confronti del governo. Se si facesse il calcolo del beneficio complessivo della riduzione fiscale prevista, calcolata nella Relazione tecnica in 1.702,8 milioni (un miliardo e settecento, per intendersi) e la si dividesse per gli oltre 17 milioni di lavoratori dipendenti, la cifra mensile media disponibile per ogni lavoratore italiano sarebbe di soli 98 euro annui, cioè 7,6 euro al mese. Si tratterebbe della “media del pollo” ma in termini macroeconomici il dato è quello.
LE “PANZANE” di Letta, quindi - per utilizzare il linguaggio del Quirinale - sono evidenti. Secondo lo Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati, sono anche altre. Carla Cantone, segretario della categoria, oltre a ricordare che gli interventi previdenziali producono una riduzione di 615 euro nel triennio, trasformando così i pensionati “nel bancomat del governo”, ricorda anche la vicende del Fondo per la non autosufficienza. “Letta ha detto che è aumentato, spiega al Fatto, in realtà ha stanziato solo 250 milioni mentre Monti ne stanziò 275”. E siamo alla seconda “panzana”. Poi ce n’è una terza, non raccontata al Paese o al Parlamento ma al “suo” segretario di partito, Guglielmo Epifani. E riguarda gli “esodati”.
Lo riferisce lo stesso Epifani ai lavoratori che hanno presidiato ieri la sede nazionale del Pd per ricordare che, grazie alla legge Fornero, c’è chi è rimasto senza lavoro e senza pensione. Circa 300 mila persone, secondo le stime Inps, di cui solo 130 mila sono stati tutelati dai provvedimenti governativi degli ultimi due anni. Nella legge di Stabilità, ora, se ne “salvano” altri 6.000, molto al di sotto delle necessità. Da qui, la manifestazione di ieri che ha messo in imbarazzo Epifani il quale è stato costretto ad ammettere chei “Letta ci aveva assicurato che ci sarebbe stato un intervento ampio... ”. Che, invece, non c’è stato.
L’ultima panzana riguarda il blocco degli stipendi per il pubblico impiego. Esiste dal 2010, il governo lo prolunga ancora fino al 2017 ma non per il personale della Banca d’Italia. Secondo Radiocor, infatti, nel testo della Stabilità, le misure che intervengono sulla spesa del pubblico impiego, bloccando le procedure contrattuali e negoziali, nonché l’aumento dei trattamenti economici anche accessori, vengono applicate a una nuova platea: non più quella cui si riferiva il decreto legge 78 del 2010, nella quale rientrava la Banca d'Italia, ma al personale delle Pubblica amministrazione, individuato dal relativo elenco Istat, che la esclude. Blocco per tutti ma non per gli amici del ministro Saccomanni.

l’Unità 23.10.13
L’appuntamento
Anche Epifani alla Leopolda di Renzi


Ci sarà anche Epifani alla quarta edizione della Leopolda renziana in programma a Firenze da venerdì pomeriggio. Una presenza (confermata dai collaboratori del sindaco dopo che un paio di giorni fa ne aveva fatto cenno RepubblicaFirenze) che conferma più di tante parole quanto sia cambiato il clima nel Pd verso Matteo Renzi, e viceversa.
Prima di Epifani infatti a ogni appuntamento alla Leopolda i vertici democratici avevano sempre contrapposto inziative di partito. Fu così nel novembre del 2010: da una parte a Roma l’assemblea nazionale dei segretari di circolo con Bersani. Dall’altra parte a Firenze i neorottamatori Renzi e Civati che allora viaggiavano in coppia. Poi hanno litigato, ma ieri Civati s’è detto pronto a fare il vice di Renzi se mai lo chiamerà.
La concomitanza fra riunione ufficiale del Pd e convegno renziano, s’era riproposta un anno dopo con Renzi contorniato da immensi dinosauri nella vecchia stazione fiorentina, e Bersani circondato dai giovani dirigenti democratici all’assemblea di Napoli dedicata al futuro del Sud. In verità poi l’anno scorso non c’era stata alcuna «contro-programmazione» (come si rallegrò lo stesso Renzi), ma si era nel pieno della battaglia delle primarie e lo scontro era già acceso di suo. La presenza del segretario del Pd comunque per i renziani rappresenta un bel successo e la prova che oramai Renzi non può più essere visto come un corpo estraneo.
Intanto oggi Renzi come sindaco farà gli onori di casa al Capo dello Stato Napolitano e al premier Letta attesi nel pomeriggio a Firenze per l’assemblea nazionale dell’Anci.

il Fatto 23.10.13
Ma anche 2.0 Programmi per primarie Pd
Renzi, 18 pagine di ovvio. Civati: “Io suo vice? Sì”
di Andrea Scanzi


“Dobbiamo”, “serve”, “occorre”: la fiera dei buoni propositi è finalmente sul piatto. Matteo Renzi, Gianni Cuperlo, Giuseppe Civati e Gianni Pittella, i quattro cavalieri del-l’apocalisse di se stessi, hanno presentato le loro mozioni.
Ovviamente Renzi è il più sintetico (18 pagine) e altrettanto ovviamente Civati il più prolisso (70). Cuperlo si ferma a 22 e Pittella a 24. Summe post-brezneviane, praline dell’ovvio, supercazzole maanchiste. È un profluvio di fioretti politichesi quello che inonda il povero elettore del Pd.
LA MOZIONE è la versione aggiornata del pensierino della sera quando si era bambini. Dal “Prometto che mangerò tutta la minestra e non dirò bugie”, sussurrato alla mamma mentre ti rimboccava le coperte, al “vogliamo cambiare verso a questo anno cambiando radicalmente non solo il gruppo dirigente che ha prodotto questa sconfitta, ma anche e soprattutto le idee che non hanno funzionato, le scelte che hanno fallito, i metodi che ci hanno impedito di parlare a tutti”.
Un pensiero (farraginosissimo) che non vuol dire nulla, e infatti l’ha scritto Renzi. Significativi i verbi più ricorrenti: “Dobbiamo”, “serve”. Ovvero qualcosa che rimanda puntualmente a un futuro agognato, più esattamente a “una terra promessa e a un mondo diverso dove crescere i nostri pensieri” (che non è Renzi, ma Eros Ramazzotti). L’eterno accenno al “dovere” e al “servire” caratterizza da sempre la comunicazione della sinistra istituzionale. Giovanilismi a parte, le mozioni di adesso potevano essere scritte venti anni fa.
I quattro cavalieri del pensierino deboluccio tradiscono quella cristallizzazione che rende passatista (più che nostalgica) qualsiasi analisi del gruppo dirigenziale riformista. Una cristallizzazione evidente in Cuperlo, ma percettibile anche in chi come Renzi ha messo al centro della weltanschauung la rottamazione. Il poker di mozioni tradisce un lessico vetusto, unito al-l’ammicco garbato. La sintesi estrema, comunque a tutti i candidati, è la medesima: votami e sarai salvato.
“Rivoluzione della dignità”, “cambiare verso”, “le cose cambiano, cambiandole” (apoteosi del civatismo), “ci meritiamo di più”, “abbiamo bisogno di una lettura sincera della sconfitta”. Ieri era tra la via Emilia e il West, oggi sembra piuttosto tra la frignatina collettiva e il volemosebenismo confuso. Il Pd deve, gli elettori devono. Dunque, insieme, “dobbiamo”. Sì, ma “dobbiamo” cosa? Quello che vi pare.
L’importante è dovere, verbo che rimanda al-l’ottimismo della volontà gramsciana ma pure al pessimismo della ragione. “Dobbiamo da subito costruire il cambiamento. L’orizzonte politico del Pd non sono le larghe intese come strategia, né un neocentrismo esplicito o camuffato”.
QUINDI? Quindi niente. Però come fosse Antani, possibilmente con scappellamento a sinistra (almeno quello). “A cosa serve il Pd? ”, si chiede – in un pericoloso surplus di autoanalisi
– Civati. Dubbioso se rispondere “a nulla” o “a tenere in vita Berlusconi”, il dissidente modello del Pd preferisce ricorrere all’ennesimo equilibrismo dialettico: “Serve se si decide, insieme”. Ah. Poi: “Un partito che non teme il futuro: è “al futuro” ed è al futuro, non al passato, che si affida”.
Chiaro, no? No. Renzi ammette di inseguire i voti dei delusi da Grillo e Pdl, con un impeto tale da dimenticarsi di inseguire nel frattempo i delusi dal Pd. “Si vince recuperando consensi in tutte le direzioni: centrodestra, Grillo, astensioni”. Recuperare tutto per non recuperare nulla. Dire niente ma dirlo bene: la zuppa del casato, o del Renzi. Civati, però, è sicuro e alla Zanzara dice: “Io vice di Renzi, se me lo chiedesse direi di sì”.
Pittella verga pagine vibranti, che però nessuno mai leggerà, si presume neanche lui. E Cuperlo? “Il Pd, dunque, deve cambiare il suo modo di stare tra le donne e gli uomini che sceglie di rappresentare”. Quindi (anzi “dunque”) il Pd non deve essere il Pd.
I quattro ardimentosi sfidanti hanno reso pubbliche le loro preghierine della sera. Sembrano soddisfatti e sereni. Ora, non senza una certa misericordia, gli elettori possono rimboccargli le coperte.

Repubblica 23.10.13
Rischio stangata sulle prime abitazioni con il 2,5 per mille si paga il doppio dell’Imu
Addio detrazioni, la Tasi avrà un extra-costo di 100 euro nell’ipotesi peggiore
di Roberto Pietrini


ROMA — Sarà il match più duro della legge di Stabilità. Si pagava di più con la vecchia Imu, o con la nuova Tasi, la tassa sui servizi indivisibili? La Uil servizio politiche territoriali ha sfornato le sue prime proiezioni complete: nel confronto con l’Imu 2012, la Tasi sarà vincente solo se i Comuni terranno le aliquote inchiodate all’1 per mille. Se invece, come sembrano orientate molte grandi città, le aliquote saliranno al tetto massimo del 2,5 per mille, la mancanza di detrazioni di base e per i figli sarà decisiva, e si rischiano aumenti del 96 per cento.
Le due tasse sono «cugine»: hanno la stessa base imponibile, ovvero la rendita catastale. Ma la somiglianza finisce qui. Le aliquote sono diverse: 4 per mille l’Imu, aumentabile fino al 6 dai Comuni e 1 per mille per la Tasi, aumentabile dai Municipi fino al 2,5 per mille. La Tasi, dunque, costa meno in termini di aliquote, ma non concede la possibilità ai contribuenti di beneficiare delle detrazioni di base di 200 euro e di quelle per i figli. Ovvero, quelloche si guadagna con l’aliquota più bassa si può perdere per la mancanza di detrazioni, visto che la base imponibile è la stessa. Non tutti ritengono tuttavia il ritorno delle detrazioni familiari la soluzione giusta: «Solo legando la Tasi al reddito Isee si potrà avere maggiore equità», dichiara Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil che fa riferimento a single e pensionati.
Il rapporto della Uil servizio politiche territoriali rileva che solo mettendo a raffronto l’Imu 2012 con la Tasi ad aliquota-base, cioè al netto dell’intervento dei Comuni, ci si può aspettare un vantaggio. La simulazione è fattasulla media delle abitazioni A/2 e A/3, la tipologia di appartamenti più diffusa (in queste categorie ci sono 15 milioni di abitazioni) e si considera una famiglia con un figlio a carico. Ebbene se si confronta l’aliquota media effettivadel 2012 dell’Imu, compresa la maggiorazione municipale (ovvero il 4,43 per mille totale) con una Tasi che rimane inchiodata all’1 per mille, il vantaggio per il 2014 è del 21,8 per cento (20 euro in media). Tuttavia se i Comuniporteranno l’aliquota al 2,5 per mille, la famiglia media che pagava 101 euro dovrà pagare quasi il doppio, 198 euro. Il confronto città per città è più variegato: di fatto nei Comuni dove l’Imu era bassa (Milano e Bologna) se si applicherà il tetto massimo del 2,5 per mille si conferma che con la Tasi si pagherà di più; solo dove l’aliquota era alta ci saranno dei vantaggi.
L’altra differenza Imu-Tasi riguardale finalità della tassa: l’Imu è una semplice patrimoniale, la Tasi invece è statutariamente destinata a finanziarie i «servizi indivisibili», cioè anagrafe e illuminazione. Questo aspetto è importante: i «fan» della Tasi fanno notare che la nuova tassa non si deve confrontare con la sola Imu, ma anche con quella piccola parte già destinata a finanziare i servizi indivisibili (30 centesimi al metro quadrato) che era stata«aggiunta» alla tassa sui rifiuti e che per quest’anno dovremo pagare. Dunque si dice: non solo la Tasi è più leggera ma evita anche di pagare il «balzello» sui servizi annesso ai rifiuti.
Un confronto più omogeneo si può fare con il 2013 (senza considerare che l’Imu è stata congelata) ma prendendo l’aliquota media effettiva deliberata dai Comuni (4,63 per mille) e tenendo conto, soprattutto, del peso della parte servizi della Tares. Anche in questo confronto “virtuale”, tuttavia, la nuova Tasi vince solo se l’aliquota resta all’1 per mille, se sale niente da fare.

l’Unità 23.10.13
Sciopero, i sindacati a Letta: «Precipitosi? L’iter è iniziato...»
Camusso e Bonanni difendono la scelta: il premier ci incontri
di Massimo Franchi


ROMA «Non siamo stati precipitosi». Cgil, Cisl e Uil rispondono in coro alle parole di Enrico Letta di lunedì sera. Il presidente del Consiglio aveva definito lo sciopero di quattro ore come «una scelta precipitosa». Vero è che Letta aveva premesso comunque parole comprensive per i sindacati: «Sono liberi di fare il loro lavoro, non mi scandalizzo di questa scelta, ma segnalo che questa legge di stabilità non aumenta le tasse, non intervenendo sulla sanità che non viene tagliata».
Ed è quindi anche sul merito che ieri sono arrivate le risposte dei leader sindacali. «Mi risulta che la legge di stabilità sia stata presentata in Senato e inizia il suo iter: non capisco dove sia la precipitazione» di cui parla il premier, risponde Susanna Camusso da Bologna. «Il presidente Letta sa bene ha aggiunto che noi abbiamo una piattaforma unitaria da lungo tempo e abbiamo sottoscritto con Confindustria alcune priorità. Le nostre proposte sono note, le tradurremo in un volantino che andrà ovunque in Italia in preparazione dello sciopero. Poi ovviamente, se il governo ritiene di fare un incontro, noi siamo sempre disponibili».
Come Giorgio Squinzi, anche il segretario della Cgil ha qualche preoccupazione per la discussione parlamentare sulla legge di stabilità. «Temo afferma che una finanziaria, essendo dispersiva, si presti alla moltiplicazione delle piccole poste, invece di dare quello shock all'economia che è necessario per fare uscire il paese dalla recessione».
Se in Cgil la linea dello sciopero è stata appoggiata in modo compatto, in casa Cisl l’aria è molto diversa. Raffaele Bonanni ha esplicitato il suo «No» ad uno sciopero generale, ma dai territori si contesta anche la scelta del semplice sciopero nazionale da gestire a livello territoriale. È il caso della Lombardia, dove il segretario Gigi Petteni chiede di discutere la decisione. In realtà Petteni
parte con una gaffe, perché parla espressamente di «sciopero generale», cosa che nessuno ha indetto. Il suo ragionamento però va al cuore del comune sentire cislino: «Per noi lo sciopero generale è congelato fino a che non sarà svolta una discussione negli organismi». Una discussione che avverrà il 30 ottobre all’esecutivo nazionale.
La crepa nella solidità della Cisl viene attutita da Bonanni, sfruttando anche la gaffe di Petteni. «Se in Lombardia si decide diversamente ben venga, anche io ho delle perplessità», risponde sul punto Bonanni. E spiega: «Il rapporto con gli altri (Cgil e Uil, ndr) ha delle regole, non potevo sottrarmi. Io ero e sarò contrarissimo allo sciopero generale, ho portato a una posizione unitaria più responsabile. È andata nel migliore dei modi». Venendo quindi alla legge di stabilità, Bonanni ricorda: «Non siamo stati precipitosi: le mobilitazioni sono state fatte anche nel passato e questa volta era «nella coscienza di tutti che bisognava fare qualcosa di più». «Avevamo chiesto al presidente del Consiglio di fare un vero e proprio patto, ma abbiamo discusso alla spicciolata e non si è arrivato a nulla». Più tardi poi Bonanni offre al premier una mano tesa: «Se siamo stati precipitosi ci aiuti lui a uscire da questa situazione: apra un tavolo sulla riduzione della spesa pubblica partendo dai 5 miliardi che si troverebbero facili facili applicando i costi standard agli acquisti e a quel punto ritireremo lo sciopero».
LO SPI E MEDICI
Passando alle categorie più colpite dalla manovra, pensionati e dipendenti pubblici, ieri lo Spi Cgil ha reso nota una proiezione sugli effetti delle nuovo schema di rivalutazioni delle pensioni. I circa 5 milioni di pensionati coinvolti, quelli con pensioni lorde comprese tra i 1.500 e i 3mila euro (sopra a questo limite il blocco della rivalutazione rimane completo) perderanno in media 615 euro nel triennio 2014-2016 (172 euro nel 2014, 217 euro nel 2015 e 226 euro nel 2016).Per la fascia che va da 3 a 4 volte la soglia minima (1.500-2.000 euro, rivalutazione al 90 per cento) la perdita sarà meno consistente, ovvero di 26 euro nel 2014, di 39 euro nel 2015 e di 45 euro nel 2016. Per quella che invece va da 4 a 5 volte la soglia minima (da 2.000 a 2.500 con rivalutazione al 75 per cento) sarà di 78 euro per il 2014, di 116 euro nel 2015 e di 123 euro nel 2016. Da 5 a 6 volte la soglia minima (da 2.500 a 3mila, rivalutazione al 50 per cento), infine, sarà di 182 euro nel 2014, di 309 euro nel 2015 e di 319 euro nel 2016.
Se i dipendenti pubblici si apprestano a decidere sulla proposta di tramutare le quattro ore in otto di sciopero generale dell’intera categoria, sul piede di guerra ci sono i medici. Per la Fp Cgil «i tagli alla sanità ci sono, ben 1,1 miliardi di euro (540 milioni nel 2015, 610 dal 2016), e sono lineari: decurtazione della retribuzione accessoria dei lavoratori della sanità. Ci batteremo con tutti gli strumenti sindacali utili, a partire dallo sciopero di 4 ore proclamato da Cgil, Cisl e Uil, affinchè il Parlamento ponga fine a una stagione di accanimento contro chi è impegnato a offrire servizi di pubblica utilità».

l’Unità 23.10.13
Ustica
Fu guerra nei cieli, ora il governo faccia la sua parte
«È dai militari che si debbono avere le prime risposte: sono loro a dover spiegare perché molte prove furono fatte sparire e non arrivarono ai giudici»
di Daria Bonfietti


Bologna. Piovono sentenze definitive, della Cassazione, che ribadiscono che il Dc9 Itavia che trasportava 81 innocenti cittadini italiani da Bologna a Palermo il 27 giugno 1980 fu abbattuto da un missile, che quelle vite non furono difese e che poi fu usato ogni mezzo per coprire la verità.
La verità è dunque sempre più sotto i nostri occhi e ci deve finalmente imporre comportamenti conseguenti, per la memoria delle povere vittime, ma soprattutto per la nostra dignità nazionale.
Infatti, come ci indicò già nel 1999 il giudice Priore, un aereo civile italiano è stato abbattuto in un episodio di guerra aerea, in tempo di pace, sui nostri cieli e «nessuno ci ha dato la minima spiegazione». Un grande oltraggio all’Italia!!
Bisogna dunque sia a livello nazionale, sia a livello internazionale avere la forza e il coraggio civile di chiedere spiegazioni.
Il governo deve agire responsabilmente senza tentennamenti e intanto aprire il confronto coi propri apparati. Oggi arriva a conclusione la vicenda Itavia, del povero Aldo Davanzali, la compagnia fu fatta fallire perché si diceva che l’aereo era caduto per un cedimento strutturale. La grande sostenitrice di questa tesi, ricordiamolo era l’Aeronautica Militare. Come poi sostenne la bomba a bordo, in un tragico gioco a nascondere.
Ma nel primo periodo, quello decisivo per l’Itavia, si sosteneva il cedimento, la tragica ovvietà che gli aerei cadono, la tesi più semplice per scongiurare ogni indagine.
E allora è proprio dai militari che si debbono avere le prime risposte: perché hanno sostenuto ogni ipotesi pur di non mettere a disposizione del governo e della magistratura tutte le informazioni esistenti, mentre tante intanto venivano fatte sparire. Bisogna essere chiari: la sentenza di oggi è una sentenza che chiama direttamente in causa il comportamento dell’aeronautica militare.
Poi si debbono affrontare i rapporti con stati amici ed alleati: ricordiamoci che nella notte stessa della tragedia l’ambasciata americana mette in piedi una commissione straordinaria su un incidente apparentemente soltanto italiano, che non coinvolge nessun cittadino statunitense. C’è qualcosa di strano o al contrario di molto chiaro: era ben evidente che qualcosa di tremendo era successo nel cielo. Ma dei documenti che furono esaminati in fretta e furia nella notte nessuno ha avuto conoscenza. Come parecchie sono ancora le richieste dei nostri magistrati che non hanno avuto risposte esaurienti. Un capitolo speciale riguarda la Francia che fino a pochi mesi or sono rifiutava ogni collaborazione affermando che la sua base più al sud, quella di Solenzara in Corsica, chiudeva i battenti d’estate molto presto, alle 17, come una comune rivendita alimentare. C’è poi il problema Libia: Gheddafi ha sempre sostenuto di esser stato il vero bersaglio di quella notte, ma poi non ha dato particolari informazioni. Non stanno facendo meglio i nuovi governanti. Ma al di
là di queste considerazioni deve essere chiaro che quello che è capitato quella notte è un terribile episodio di «disputa internazionale» che vede coinvolti gli Stati che non sono propensi a svelare tutte le loro trame. Con questa consapevolezza deve muoversi il nostro governo, cercando ogni mezzo, proprio in contesto internazionale, con una determinata pressione diplomatica. Le istituzione europee, la Nato debbono essere i primi interlocutori per avere collaborazione e risposte, poi tutte le informazione americane debbono essere reperite. E non sto a ricordare che Cossiga prima della morte puntò il dito contro la Francia. La procura di Roma sta indagando e tutto, proprio tutto deve essere fatto perché abbia ogni informazione.
Rimane poi il tema dei risarcimenti: vorrei fare un appello perché le «perdite» dello Stato non fossero messe sulle spalle dei cittadini, ma di quegli appartenenti agli apparati dello Stato che hanno clamorosamente operato per nascondere e stravolgere la verità.

l’Unità 23.10.13
Massimo Livi Bacci
«Tre regole per dire basta alle traversate di morte»
Per lo studioso italiano di demografia l’immigrazione clandestina si può vincere costituendo «presidi» nei Paesi di transito del Mediterraneo
intervista di Umberto De Giovannangeli


L’emergenza migranti, le politiche da attuare in sede europea, quale cooperazione attivare con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo.
L’Unità ne parla con il più autorevole studioso italiano di demografia e flussi migratori: Massimo Livi Bacci, professore di Demografia presso la facoltà di Scienze politiche «Cesare Alfieri» dell’Università di Firenze.
Professor Livi Bacci, l’Italia intende dare battaglia sui temi dell’immigrazione al Consiglio europeo che inizia domani a Bruxelles. Da quale situazione si parte?
«L’Europa mentre ha politiche che riguardano il controllo dei confini, le regole per l’integrazione, la mobilità al proprio interno, non ha una vera e propria politica comune di governo delle migrazioni, riguardanti gli ingressi legali nel Continente europeo. Questa è una prerogativa che il Trattato di Lisbona riserva ai singoli Stati. Non esiste nessun coordinamento delle politiche migratorie dei 28 Stati dell’Unione europea. Se si pone a mente il fatto che le popolazioni europee stanno rapidamente invecchiando, e che grandi Paesi, come la Germania, l’Italia, la Spagna, esprimeranno, passata la crisi economica, ulteriore e intensa domanda di immigrazione, è auspicabile che le politiche dei singoli Paesi su questa materia, possano essere coordinate tra di loro».
L’attenzione è concentrata soprattutto, e a ragione, su ciò che avviene nel Mediterraneo e nei Paesi della sponda Sud. Cosa rimarcare in proposito e quali politiche andrebbero, a suo avviso, attivate da parte dell’Europa?
«Ci sono tre grandi aspetti. Il primo, è come far sì che i migranti irregolari, composti in buona parte da richiedenti asilo, non debbano essere costretti alle rischiosissime, e spesso mortali, traversate mediterranee per poter presentare domanda di protezione. Una possibile via di soluzione potrebbe essere quella di costituire dei presidi nei Paesi di transito della riva Sud del Mediterraneo, particolarmente in Libia, dove possano essere presentate domande di asilo, con le dovute garanzie di sicurezza per chi le presenta. Tali presidi potrebbero essere costituiti sotto l’”ombrello” delle istituzioni internazionali e dell’Ue stessa. Un secondo, importantissimo punto, è che l’Europa abbandoni le attuali regole che impongono a chi presenta domanda di asilo in un determinato Paese di restarvi, anche se ha familiari o conoscenti in altri paesi europei, che potrebbero facilitare la sua integrazione. Infine, un terzo punto a mio avviso cruciale, è quello di stabilire regole più eque delle attuali, rispetto la condivisione degli oneri riguardanti l’asilo, attraverso criteri di redistribuzione delle risorse comunitarie tra i vari Paesi dell’Unione, e di redistribuzione degli stessi richiedenti asilo. In questo contesto, e nell’ottica di quel “global approach to migration” giustamente evocato, ma scarsamente praticato finora dall’Europa, è importante affermare che accordi migratori e cooperazione debbano essere indissolubilmente legati. Occorre poi che l’Italia stimoli l’Ue a procedere alla stipula di accordi di riammissione con i Paesi ad alta densità migratoria. Tali accordi hanno un peso maggiore dei singoli accordi bilaterali».
Resta il fatto, e il limite non solo politico ma direi anche di mentalità, per cui l’emergenza migranti viene considerata ancora, in Europa, essenzialmente come un problema di sicurezza se non di ordine pubblico.
«È un approccio sbagliato, per molti versi anacronistico. L’Europa è un continente che per essere fortemente integrato nell’economia e nella società globale, e per la sua attuale debolezza demografica, non potrà che continuare ad esprimere una robusta domanda di immigrazione. È chiaro che le politiche europee non possono essere di difesa e di chiusura, ma di coraggiosa apertura ben governata e coordinata tra Paesi».
Una politica come quella da lei auspicata, non deve tener conto della trasformazione dei caratteri delle migrazioni? «Certamente sì. Le politiche migratorie riguardano, in tempi “normali”, quei movimenti di popolazioni che si muovono per motivi economici o sociali. Ma situazioni catastrofiche, come quelle determinate dai conflitti o dalle instabilità dei Paesi mediterranei e africani, non possono ricadere nell’ambito delle normali politiche migratorie. Queste situazioni necessitano di azioni straordinarie che non possono ricadere su un solo Paese. Al contempo, va affermato con forza che le politiche di governo dei flussi, come quelle dell’accoglienza e dell’integrazione devono svolgersi nel pieno rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà delle persone, e delle regole di convivenza della società italiana».
L’Italia, per l’appunto. Nel nostro Paese si discute e si polemizza sulla Bossi-Fini. Qual è in proposito la sua valutazione? «Penso che sia maturo il tempo per rivedere l’impianto generale della legge che governa l’immigrazione. Questa è stata concepita negli anno ’90, con la “Turco-Napolitano”, quando l’immigrazione riguardava qualche decina di migliaia di persone all’anno, ed è stata fortemente peggiorata dalla “Bossi-Fini”; una legge, quest’ultima, che è assolutamente inadeguata all’epoca attuale, nella quale i migranti si contano a centinaia di migliaia».

Corriere 23.10.13
Guerriglia al centro di accoglienza
L’audio: sparate ad altezza uomo
Auto bloccate e sassaiole. La polizia usa i lacrimogeni
di Felice Cavallaro


MINEO (Catania) — Lo chiamano il «Villaggio della solidarietà», ma non sono bastate le rivolte di giugno per far capire che non si possono stipare per mesi e mesi 4 mila migranti in stanzette dove ne entrano la metà. Così il centro Cara di Mineo, approdo di tanti disperati salvati a Lampedusa, diventa un inferno.
E, com’è accaduto ieri mattina, centinaia di extracomunitari, stanchi di attendere il riconoscimento dello status di rifugiati, spaccano i lucchetti, abbattono le cancellate, corrono per le campagne fra gli ulivi, le vigne, i muretti a secco fino alla statale Catania-Gela. Stavolta con una rabbia che trasforma la protesta in guerriglia. Fino all’incendio di attrezzature elettroniche dello stesso centro mischiate a materassi e suppellettili mentre perfino una ambulanza veniva distrutta, come parte del presidio della Croce Rossa.
Per un’intera giornata volano pietre contro gli automobilisti di passaggio, contro camion e autobus di linea. Mentre in un’area di servizio impiegati e clienti in coda per fare benzina si barricano negli uffici abbassando le saracinesche, terrorizzati. Con centinaia di agenti di polizia impegnati in una caccia ai rivoltosi. Caccia ripresa dalle telecamere che hanno inquadrato i poliziotti armati di fucili spara candelotti spianati contro nugoli di ragazzi di colore impegnati a brandire spranghe, a tirare pietre ovunque. Sequenze drammatiche puntellate dall’affannata voce fuori campo di un suggeritore rivolto agli agenti: «Sparate ad altezza d’uomo».
Segno devastante di una tensione che rischia ormai di provocare scontri dall’esito drammatico. Anche se ieri sera il bilancio ufficiale si è limitato a dieci contusi fra i poliziotti. Con tanti ospiti del Cara che si sono adoperati per sedare i migranti più turbolenti, decisi a scatenare l’inferno per dire no ai tempi lunghi per il riconoscimento di rifugiato politico e per chiedere di mettere all’opera delle commissioni governative sufficienti ed efficienti, visto che da settimane si esaminano 6 casi al giorno. Almeno questa è la voce rimbalzata attraverso i volontari che cercano di frenare anche una crescente insofferenza a Mineo e dintorni.
È il caso del camionista uscito dal bar dell’area di servizio dove si era rifugiato per un’ora, imbestialito: «Noi questi disperati li stiamo sfamando e loro si rivoltano contro. Al mio paese c’è gente che muore di fame. E loro mangiano a nostre spese...». Una rabbia che fa sussultare anche il titolare della pompa di benzina, Lorenzo Silva: «Ci siamo rintanati in ufficio, mentre loro rompevano tutto...». Anche i finestrini di un autobus di linea carico di passeggeri. Con l’autista che aveva preferito fermarsi per scansare pietre e massi lanciati sull’asfalto, ma subito dopo in fuga, impegnato in una gimcana fra uomini e mille ostacoli.
I lacrimogeni, sparati anche rasoterra, hanno finito per creare dei muri di nebbia, l’arretramento dei migranti, evitando scontri diretti, come constata e protesta il responsabile del Centro Cara, Sebastiano Maccarone: «Questi pazzi attaccano le strade, ormai. Sento Letta parlare di emergenza a Lampedusa, ma di Mineo non si occupa più nessuno e l’emergenza è qui».
È la stessa collera che si avverte nelle parole del sindaco di Mineo, Anna Aloisi, decisa a lanciare un appello al governo: «Non portateci più nessuno qui, finché Viminale e prefetture non saranno in condizione di garantire il rapido espletamento di tutte le pratiche». Poi l’invito ad avviare «immediatamente» i risarcimenti per i cittadini che hanno subito danni negli scontri: «Ci vuole anche il sostegno della Regione Siciliana, di fatto latitante...». Attacchi incrociati, mentre si spera che comunque nessuno spari ad altezza d’uomo.

Repubblica 23.10.13
Il retroscena
La Ue: stop ai respingimenti e regia comune per i soccorsi ma l’Italia blocca il piano
Polemica su Frontex. Il Viminale: no a cessioni di sovranità
di Andrea Bonanni


BRUXELLES — Pretendere solidarietà dall’Europa, ma rifiutarne l’autorità. È questa la linea che il ministero degli Interni italiano ha deciso di adottare sulla questione delle operazioni di ricerca e soccorso dei profughi condotte da Frontex, l’agenzia europea per la sorveglianza delle frontiere. Il 10 ottobre scorso, una settimana dopo la tragedia di Lampedusa, l’Italia ha sottoscritto con Grecia, Malta, Cipro, Francia e Spagna, una posizione comune che blocca l’adozione di un regolamento comunitario per definire i criteri di intervento delle unità marittime impegnate nelle operazioni di pattugliamento congiunto del Mediterraneo. La principale motivazione addotta per respingere la proposta della Commissione è che l’Europa non ha titolo per intromettersi in questo tipo di regolamentazioni in quanto, scrive l’Italia, «le operazioni marittime di ricerca, soccorso e sbarco sono di competenza degli Stati membri».
Eppure era stato proprio il ministro Alfano, già poche ore dopo la tragedia di Lampedusa, a puntare il dito contro l’Europa e a chiederne un maggior coinvolgimento nelle operazioni di soccorso. «L’Unione europea si renda conto che non è un dramma solo italiano. L’Europa non può chiudere gli occhi, prenda in mano questa situazione. Queste donne, uomini, bambini, non vengono per fare una vacanza, ma sognano libertà, democrazia e benessere». Parole poco congrue con la posizione che i funzionari del ministrohanno adottato una settimana dopo a Bruxelles, sostenendo la piena sovranità nazionale sulle operazioni di salvataggio.
Il regolamento proposto dalla Commissione nasce dalla necessità di garantire meglio i diritti dei migranti che vengono soccorsi in mare. In base ad una decisione del vertice europeo dell’ottobre 2009 (premier Berlusconi, ministro dell’Interno Maroni) la Commissione era stata unanimemente invitata dai capi di governo a «stabilire chiare procedure operative comuni per le missioni marittime con particolare riguardo alla protezione dei bisognosi».
L’obiettivo del regolamento, spiega il testo del provvedimento, è «di superare le diverse interpretazioni della legge marittima internazionale adottate dagli statimembri e le loro pratiche discordanti per assicurare l’efficienza delle operazioni». Infatti, spiega ancora il documento «in questo quadro di incertezza legale la partecipazione degli Stati membri alle operazioni marittime era scarsa in navi, mezzi e risorse umane. E questo danneggiava l’efficacia delle operazioni e comprometteva gli sforzi di solidarietà europea».
La proposta della Commissione, che ora è all’esame del Parlamento europeo ma rimane bloccata dal veto dei sei Paesi, stabilisce una serie di criteri su come e quando intervenire e dove sbarcare i naufraghi, ma soprattutto fissa una serie di paletti a garanzia dei diritti umani dei profughi soccorsi in mare. In particolare vieta esplicitamente il respingimento, cioè proibisce di riportare le persone soccorse nel Paese di provenienza qualora corrano il rischio di vedervi violati i loro diritti. E cita esplicitamente un caso di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per aver ricondotto dei naufraghi in Libia.
L’obiezione mossa dall’Italia e dagli altri firmatari non contesta queste disposizioni, peraltro derivate dal diritto internazionale e marittimo e dalla Convenzione sui diritti dell’uomo. Tuttavia la critica alla proposta di Bruxelles è molto dura «Gli articoli 9 e 10, che si riferiscono alla ricerca, soccorso e sbarco sollevano molte serie preoccupazioni per come sono formulati. La regolamentazione delle operazioni di ricerca, soccorso e sbarco in uno strumento legislativo dell’Unione europea è inaccettabile per ragioni legali e pratiche», è scritto nel documento sottoscritto dal governo italiano. Le argomentazioni apportate sono di due tipi. Il primo è la questione di principio, secondo cui l’Europa non deve occuparsi della questione, che è di pertinenza esclusiva degli stati membri contrariamente a quanto sostiene pubblicamente il ministro Alfano. Il secondo è di ordine pratico: «Stabilire questi dettagli nella legislazione eliminerebbe completamente la flessibilità » nella gestione delle operazionistesse.

il Fatto 23.10.13
Onorevoli?
Decadenza fa rima con trasparenza
di Bruno Tinti


Dev’essere proprio vero che siamo la patria del diritto. Giù, giù, dal primo dei giureconsulti fornitori della real casa con super pagati pareri pro veritate fino all’ultimo politicante che ripete luoghi comuni elaborati dai ghost writer per i più diversi talk show. L’irretroattività... l’incostituzionalità… le prerogative... Ma la legge Severino... la condanna... i precedenti... Si ma l’articolo... la Cedu... Adesso siamo in balia degli esperti del voto segreto, del regolamento del Senato, del vincolo di mandato. Non osi il Presidente Grasso, proclama un ispirato Gasparri, è pronta la denuncia, la sanzione, la prigione. Cioè la reazione alla congiura da parte della stessa magistratura che l’ha ordita. I boia di B. tramutati nel 7° cavalleria. È significativo che i carnefici del diritto vi ricorrano quando gli serve; un riconoscimento confortante anche se imposto dalla necessità.
E NON C’È da lamentarsi se gli altri, i nemici di ieri e collaborazionisti di oggi, si dichiarano uniti in una procedura legale – la modifica del regolamento del Senato – che, se approvata dalla maggioranza, è certamente legittima. Ma resta uno sconcerto di fondo, una sfiducia in questa gente, tutta, che è alla base della dissoluzione della politica italiana. Restano domande senza risposta. Perché solo ora ci si accorge che il voto segreto è un’iniquità? Quando tanti masnadieri camuffati da parlamentari sono stati sottratti ad arresto, intercettazioni, perquisizioni con maggioranze frutto di accordi “indicibili” e per questo celati con la segretezza del voto. Non è difficile da capire: perché solo ora una forza politica rozza, disinformata, estremista, sostanzialmente inidonea a governare il Paese, tuttavia estranea alla rete di connivenze e interessi incrociati che cementa la politica, ha posto il problema. E perché la cosiddetta sinistra deve scegliere tra la rottura del patto scellerato con i suoi simili e la sicura scomparsa, se mai dovesse rendere evidente la complicità con i finti avversari.
Perché nessuno pone con forza la domanda più ingenua, quella che ha una sola possibile risposta? A cosa serve il segreto? È ovvio, a nascondere. A cos’altro? E cosa volete nascondere, voi che lo difendete, anzi lo pretendete? È ovvio, l’identità di quelli che sperate vi salveranno. In verità non c’è niente di male a ritenere che B. non debba decadere. Perché non si dovrebbe dirlo con forza ma anche con serenità, convinti della propria ragione? È ovvio, perché il voto salvifico è di nuovo frutto di “indicibili” accordi; non lo fosse, non ci sarebbe ragione di celarlo nel segreto. Ho meditato, sofferto, deciso: non credo sia giusto che B. sia espulso dal Senato. Questa è la mia decisione di uomo libero. Cosa di più nobile, di più degno di un Padre della Repubblica? Perché nascondere un comportamento onorevole?
MA PERCHÉ in questo modo si violano le direttive del Partito. Vero. E allora? Tutti voi, giuristi di complemento, quante volte ci avete ricordato che i parlamentari agiscono “senza vincolo di mandato”, che sono liberi di autodeterminarsi, che rispondono alla loro coscienza? I transfughi, tra cui almeno uno ha confessato di essere stato cospicuamente remunerato per il tradimento, hanno difeso la scelta rivendicando la loro libertà. E, se fosse vero, andrebbero apprezzati.
E ora si vuole sostenere che questa libertà deve essere esercitata in segreto? Che nessuno deve conoscere le ragioni della decisione? L’illogicità della pretesa è evidente. Il parlamentare esercita il suo ufficio in rappresentanza di chi lo ha eletto; che, a sua volta, lo ha eletto condividendone le tesi e i programmi, confidando nelle promesse urlate nella campagna elettorale. E adesso questo stesso parlamentare fa una scelta clandestina, di cui il suo elettorato non sa, non saprà, non deve sapere mai nulla. Sicché, quando si ripresenterà per nuove elezioni, solleciterà il voto nascondendola. È così ovvio che l’agire senza vincolo di mandato e la segretezza del voto sono incompatibili! Ma – che strano – i padri coscritti (tranne i nuovi arrivati) non ci pensano, non lo sostengono, non lo urlano. Prendono tempo; sono già passati quasi 3 mesi dalla condanna, dalla necessità di pronunciarsi sulla decadenza. Attendono nelle loro trincee solo apparentemente contrapposte che B. sia estromesso dalla magistratura, senza che siano loro a sporcarsi le mani. E ormai, invero, manca poco, solo la Cassazione. Poi l’interdizione regalerà due anni di tranquilli accordi “indicibili”.
Perché, infine, non ricordare la cosa più ovvia? Onorevoli colleghi, qualcuno avrebbe potuto – dovuto – dire, non nascondiamoci dietro un dito. Noi non siamo la moglie di Cesare, non siamo insospettabili. Veramente è il contrario. Negli ultimi mesi abbiamo dato prova di faide interne e di favoreggiamenti incomprensibili, tutto coperto dalla segretezza del voto. Quelle vergogne che sembravano proprie della destra venduta al suo leader e che si accresceva con acquisizioni tanto impudiche quanto arroganti, ci stanno inquinando. Non è questo il momento di discutere sulle prerogative del parlamentare. È invece il momento della trasparenza. Il voto deve essere palese perché siamo sospettati delle stesse ignominie. Se vogliamo avere un futuro dobbiamo guadagnarcelo ora.

Repubblica 23.10.13
Il finto Termidoro
di Barbara Spinelli


SI FA presto a dire basta, non se ne può più di frugare nelle pieghe di Berlusconi e del suo harem. Oppure ad annunciare, volendo forse crederci: «Il ventennio è chiuso, in modo politico. Alfano ha vinto. Non si ricomincia con la tarantella» (Enrico Letta, 6 ottobre). Si fa presto a dire che altro oggi incombe: c’è la crisi, e non abbiamo più tempo né voglia di camminare con la testa voltata indietro, l’occhio fisso su Sodoma e Gomorra infiamme alle nostre spalle.
Non raccontateci quel che già sappiamo. Il corpo di Berlusconi che mi mostrate:non voglio vederlo!
Non sappiamo nulla invece, né del passato né di Gomorra. E serve la trasparenza sul corpo di Berlusconi, perché il corpo sta lì, dispositivo che ancora muove le cose. Perché ancor più crudamente rivela quel che resta opaco, impreciso: la politica che deperisce, il giudizio sulle menzogne di ieri che ingiudicate proseguono. Dietro le grida dell’harem, ecco i sussurri di chi senza dirlo lo sa: Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia, e sempre è condotta da oligarchie impenetrabili.
La menzogna della politica innanzitutto. Non è vero che il ventennio è stato chiuso «in modo politico »: al momento, sono i giudici ad aver deciso l’interdizione per frode fiscale, non il Parlamento. La politica italiana è tuttora priva di anticorpi. Vive nel torbido, se è vero che in Parlamento si trama per salvare il frodatore: ecco perché ogni paragone fra Larghe Intese e Grande Coalizione tedesca è frode aggiuntiva. Alfano «ha vinto»? Non si sa che vittoria sia. Se non continuasse la tarantella, Monti non avrebbe denunciato l’assoggettamento del governo ai capricci d’un leader dato per vinto.
O la menzogna su quel che è stato il ventennio. Non la provincia che gonfia il petto in Europa, non l’Italietta di Fellini-Amarcord (memorabile l’uomo accusato d’aver detto: «Se Mussolini va avanti così ... io non lo so ...») ma stando a quel che dice Ernesto Galli della Loggia, «la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni (ha riempito) il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti» (Corriere,20 ottobre). Solo chi falsifica la storia può credere che questo sia stato il berlusconismo, e non uno Stato-marionetta che ripete, all’infinito, l’incompiuta liberazione del dopo-Mussolini.
Non c’è bisogno della permanenza in Senato del leader, per la messinscena che secondo Gustavo Zagrebelsky sfascia la politica. Alfano e Quagliariello recitano un finto Termidoro post-rivoluzionario, ma Robespierre è sempre lì. E tra i Grandi Intenditori proseguono le trattative per cambiare la Costituzione, come il capo ha sempre voluto. Non riusciranno magari, ma l’obiettivo non muta anche se oggi lo chiamano governance.
A parole il progetto pare ridursi a 2-3 cose semplici: minor numero di parlamentari; fine del bicameralismo perfetto (le due Camere che fanno la stessa cosa). Ben diverso il proposito, opaco ma palese. In realtà si tratta di riscrivere la Carta, troppo parlamentare per i governi forti di cui c’è bisogno. Se così non fosse non sarebbe nata una solenne Commissione di saggi, voluta dal Quirinale, e i tempi della riforma sarebbero più brevi dei 12-16 mesi previsti. Inoltre avremmo già una nuova legge elettorale, e cesseremmo di considerarla parte della Costituzione da rifare.
Qualcuno si sarà imbattuto forse, tra l’8 luglio e l’8 ottobre, nel questionario online di Palazzo Chigi attorno alla riforma istituzionale. Un questionario che non nascondeva i propri convincimenti: la Carta così com’è blocca l’esecutivo, dà troppi poteri a deputati e senatori. La democrazia parlamentare non garantisce efficienza, né il prezioso bene che è la stabilità. Il costituzionalista Mauro Volpi ha definito «truffaldino» il formulario: «Tutto è giocato sui poteri del Capo del Governo (o di un Presidente potenziato, ndr),necessari a evitare “l’instabilità politica derivante” daun assetto parlamentare. Le parole pesano come pietre». Chi aveva idee contrarie non poteva esprimerle, tanto orientato era il quiz.
Se i saggi guardassero oltre le frontiere, vedrebbero la vera favola del ventennio: non il superamento degli Stati-nazione, ma la panacea di governi che fingono sovranità inesistenti, e l’esaltazione disacre unioniche fanno blocco contro populisti o dissenzienti (le maggioranze parlamentari del 70-80% auspicate da Letta nell’intervista al
New York Timesdel 15 ottobre). Vedrebbero il fondale furioso della crisi europea: l’impossibilità dei cittadini di influenzare i piani di austerità, l’assenza di una comune discussione pubblica, che rafforzi le Costituzioni nazionali estendendo il perimetro di regole e diritti. È il pericolo che ha spinto la Corte costituzionale tedesca a mettere paletti all’Europa federale: nella prima sentenza sul trattato di Maastricht nel ‘93, in quella sul Trattato di Lisbona nel 2009, in quella del 2011 sul Fondo salva-Stati. Lo ha fatto in un’ottica nazionalista, ma sapendo che il rischio oggi è ladiminutiodei Parlamenti, non degli esecutivi.
Il cosiddetto fiscal compact(Trattato di stabilità fiscale) ha messo in luce questi pericoli. Lo spiega bene uno dei principali costituzionalisti europei, Ingolf Pernice, che assieme ad altri giuristi ha elaborato un piano di democratizzazione delle istituzioni comunitarie (A Democratic Solution to the Crisis,Nomos 2012; del gruppo fa parte Giuliano Amato). IlTrattato di stabilità,nella fase di elaborazione, s’è fatto senza i Parlamenti. Solo a cose fatte si chiede la partecipazione cittadina. Il Patto introduce inoltre una serie di sanzioni «automatiche », al posto di procedure concertate tra i responsabili davanti ai loro elettori.
Nella nota introduttiva al testo di Pernice, Amato lo riconosce: ovunque, nell’Unione, i cittadini temono una «perdita, un furto della sovranità ». In effetti nelle costituzioni democratiche è scritto che il cittadino è sovrano, non lo Stato-nazione né l’esecutivo. Al primo va restituita la sovranità perduta, ampliandola in casa e nell’Unione. Defraudati di poteri, i cittadini rigetteranno altrimenti l’Europa e le sueunions sacrées.
La tendenza dei governi italiani (da Berlusconi in poi) è stata di camminare in senso inverso. La scelta di riarmare l’esecutivo più che i cittadini e i Parlamenti è miope oltre che autoritaria. Ignora che la fedele osservanza delle Costituzioni è condizione d’efficienza e non intralcio.
Non è vero che i difensori della Costituzione aspirano allo status quo. Ben venga la loro battaglia, soprattutto se guarderà oltre le democrazie nazionali. Se farà nascere uno spazio pubblico europeo.Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo in Italia, ricorda che non è sufficiente reclamare, alle prossime elezioni europee, il diritto a scegliere il presidente della Commissione. L’elettore dovrà poter scegliere anche «un vero programma di governo per un’altra Europa: per uno spazio politico dove abbiano diritto di cittadinanza visioni radicalmente alternative di politiche economiche e sociali, e posizioni conflittuali sul significato della democrazia europea».
Probabilmente in Italia non avremo la Costituzione rifatta dai saggi. Manca lo spirito costituente. Già all’alba del berlusconismo, Bobbio ammoniva contro i ritocchi della Carta: nel dopoguerra fu possibile, «tra partiti radicalmente diversi, un patto di non aggressione reciproca di fronte al nemico comune. Oggi vedo una grande rissosità, che rende estremamente difficile mettere insieme una nuova assemblea costituente». Oggi sarebbe il cittadino a rimetterci. Non gli resterebbe che l’inerte, mesta protesta diAmarcord: «Se il governo va avanti così ... io non lo so ...».

l’Unità 23.10.13
Grillo, dietro il Vaffa niente
di Michele Di Salvo


«SIETE PRONTI? L’EVENTO A 5 STELLE CHE TUTTI ASPETTAVAMO È ARRIVATO! #OLTREV3DAY». SEMBRA UNO SPOT ANNI OTTANTA, COME QUELLI CHE GRILLO FACEVA PARATISSIMO PER GLI YOGURT, E INVECE CON QUESTO TWEET VIENE RILANCIATO IL NUOVO POST CHE PRESENTA LA «NUOVA» INIZIATIVA DI BEPPE GRILLO. Si tratta del terzo VDay, dopo quello di Bologna del 2007 e quello del 2008 a Torino «per un’informazione libera senza finanziamenti pubblici e senza l’ingerenza dei partiti». Sono passati oltre cinque anni, in cui il «neo» movimento fondato dal comico genovese è entrato nelle Regioni, nei Comuni, in Parlamento. Il nuovo appuntamento, immaginato come lancio in grande stile della campagna per le europee e le amministrative è fissato per il primo dicembre, a Genova.
Questa volta il tema è semplicemente «Oltre», per «andare al governo e liberarci di questi incapaci predatori che hanno spolpato l’Italia negli ultimi vent’anni. Non si salva nessuno, politici, grandi industriali, giornalisti, burocrati, banchieri». Perché secondo Grillo «dopo le elezioni, si sono aperte le cateratte degli ascari dei giornali e delle televisioni. Hanno usato ogni possibile accusa e diffamazione contro i "grillini", come in tempo in guerra, senza scrupoli, con un bombardamento mediatico mai visto prima».
Questo è il tema secondo Grillo. Le richieste della base di maggiore democrazia interna, le richieste di collaborazione per maggioranze differenti, la richiesta di una maggiore trasparenza decisionale e finanziaria, la richiesta di risposte alle molte domande che è ruolo della stampa porre in democrazia a chi ha un ruolo ed un consenso politico, vengono tutte accantonate. Il problema è «la macchina del fango», e non già che un leader politico non risponde ai giornalisti. Il tema sono «gli incapaci predatori» al governo, e non che i 160 parlamentari a Cinque stelle sono quelli che hanno prodotto meno disegni e proposte di legge di ogni altro gruppo parlamentare. I temi per Grillo sono sempre altri, anche quando lo richiami alle molte falsità che ha pubblicato sul suo blog. Anche il quel caso sono «macchina del fango» – e non si capisce bene come mai, visto che sono frasi sue.
In realtà dietro tanta retorica populista e violenta, e talvolta tendenzialmente xenofoba (come nel recente caso della proposta di cancellare il reato di clandestinità, che lo ha portato ad una dura reprimenda verso i suoi stessi senatori), c’è la necessità di coprire il vuoto pneumatico di proposta politica.
Grillo ha attaccato di recente la Rai, rea di pagare un cachet di mercato a Fazio, uomo di punta di trasmissioni seguitissime e in attivo di bilancio. Ha accusato di usare i fondi del canone per questo. Ebbene il presidente della Commissione di Vigilanza e indirizzo della Rai è un fedelissimo di Grillo, Roberto Fico, che però oltre a dire questa bugia demagogica sul canone, non ha invece detto come la Rai è obbligata a spendere quei soldi, né ha presentato alcuna iniziativa, nella sede da lui presieduta ed a questo preposta, per spendere diversamente quei soldi.
Anche la scelta della data è significativa: rilanciare i propri slogan a ridosso delle primarie Pd, cercando di oscurare mediaticamente forse l’unico evento politico che, tra tanti difetti, è vera espressione di una democrazia dal basso che Grillo millanta e non realizza. Si perché mentre sono milioni le persone che votano a queste – imperfette – primarie davvero aperte, sul suo blog lui si rifiuta anche di fare quella piattaforma che aveva promesso e garantito, e nel migliore dei casi nelle sue consultazioni online (quando funzionano) partecipano circa 30mila votanti, dietro a un monitor, e non certo alla luce del sole.
Il tema invece sono «gli altri», quei partiti che con mille difetti hanno un confronto interno, hanno organi elettivi, hanno assemblee vere, e segretari eletti, mentre lui, il nuovo della nuova politica, è il padrone del marchio, che dispensa e concede, ed espelle per raccomandata. Il tema sono «gli altri» che dichiarano chiaramente con chi faranno gruppi in Europa e con quali idee concrete, e non che «rappresentanti di Grillo» si incontrano con rappresentanti di Albadorata e del Fronte Nazionale della LePen, mentre la sua base ne è ignara.
Ecco allora, andiamo davvero oltre, e parliamo di questi temi. E per farlo non serve nessun Vday, basta confrontarsi democraticamente e rispondere alle domande. Ma forse a lui conviene di più parlare di macchina del fango e di complotto.

il Fatto 23.10.13
L’ungherese si pente e se ne va L’italiano si pente e torna vergine
di Alessandro Robecchi


Va bene, io li odio i nazisti dell’Illinois. Però anche quelli italiani (tipo quei tizi di CasaPound che sabato scorso si rifugiavano dietro le sottane della polizia), per non dire di quelli ungheresi (Europa, secolo XXI) non è che siano dei geni. Così fa parecchio ridere la storia di Csanad Szegedi, numero due del partito neonazista ungherese Jobbik. Un tipo deciso e rude, grande oratore, sempre pronto a scagliarsi contro rom ed ebrei. Un tipo che non esitava a usare argomenti di stampo hitleriano, vecchi classici tipo gli ebrei si arricchiscono alle nostre spalle eccetera eccetera, la solita solfa. Il quale Szegedi, un bel giorno, scopre di essere ebreo, ci rimane un po’ di cacca, dà le dimissioni, si pente, chiede scusa e toglie il disturbo. Bellissima storia, un po’ come se Borghezio si svegliasse etiope, il Trota laureato e Berlusconi morigerato. Un pentimento che riconcilia con l’essere umano: forse è vero che anche il più scemo può redimersi.
Qui da noi non si ricordano casi simili, anche se il pentimento è all’ordine del giorno. E soprattutto, chi si pente del suo passato non si fa da parte, ma anzi rilancia e si traveste, complice l’assenza collettiva di memoria. Così ecco Gianfranco Fini, pentito periodico. Andò in visita in Israele e le sue parole su “il fascismo il male assoluto” fecero indignare Storace: orribile pentimento. Ieri sul Corriere, invece, pentimento del pentimento: “Non definii il fascismo male assoluto”. Chapeau. Come per le enciclopedie a fascicoli, aspettiamo gli aggiornamenti. Ma forse è la politica italiana, con i suoi meccanismi avulsi da qualunque valutazione valoriale, che spinge all’amnesia e facilita il pentimento come lavacro: basta cambiare strategia, linea, opinione, ed ecco che il passato scompare.
Èquesto filtro magico che oggi spinge molti a considerare, che so, Quagliariello una specie di liberale antiberlusconiano. Oppure a guardare come se fossero risorse di un domani luminoso e deberlusconizzato gente come Formigoni o Giovanardi. Sarà la matrice cattolica: il pentimento cancella il peccato meglio di un condono tombale, e le roboanti dichiarazioni lealiste di ieri dei dissidenti di oggi vengono cancellate come per magia di fronte alla nuova collocazione. La Santanchè che tuonava contro Silvio che voleva “le donne orizzontali” (questo quand’era storaciana) è la stessa Santanchè che oggi fa da guardia talebana a quello stesso Silvio che sbertucciò nei suoi comizi, ma è un testacoda che pochi ricordano, seppellito da una provvidenziale conversione sulla via di Arcore. Insomma, pentirsi è bene, alle volte, ma non è che il pentimento possa cancellare proprio tutto. Si dirà che solo i cretini non cambiano mai idea, e c’è del vero. Però conviene notare, en passant, che molti cambiano idea solo quando conviene. Per dire: con Silvio vincente, trionfante e solvente in contanti come ai vecchi tempi, le colombe sarebbero diventate colombe? Come vedete è un problema irrisolvibile. A meno che non si prenda esempio proprio da lui, il nazista (ex) ungherese che si è scoperto ebreo. Una regola, un comma, una legge morale: chi si pente un po’ troppo repentinamente e fa inversione a U si prenda rispetto e apprezzamenti, buffetti, strette di mano e pacche sulle spalle, ma abbia la decenza di andarsene. Basterebbe questa piccola regoletta di normale decenza a rinnovare la classe dirigente, ma forse è chiedere troppo e siamo di fronte all’ennesima inguaribile anomalia italiana: rifarsi una verginità è più facile che perderla.

Repubblica 23.10.13
Libera la super terrorista dell’Eta shock e polemiche in Spagna
Ordine della Corte di Strasburgo: Madrid ha violato la legge
di Paolo G. Brera


COPERTA dalla ikurriña, la bandiera degli indipendentisti baschi, l’irriducibile Inés del Rio si è lasciata ieri alle spalle i 3.828 anni di carcere ai quali era stata condannata. Fuori, libera, abbracciata dai parenti e portata lontano dal penitenziario di La Coruña in un corteo d’auto.
La donna è uno tra i criminali politici più pericolosi della penisola Iberica, come guerrigliera del comando Madrid dell’Eta haucciso 24 persone nella guerra terrorista, ma per il Tribunale europeo dei diritti civili di Strasburgo ora è lei a essere diventata vittima: quando è stata condannata, la giustizia spagnola prevedeva un massimo di permanenza in carcere di 30 anni, che con i benefici nel suo caso sarebbero scesi a 19. Ne ha invece scontati 26.
La sentenza di Strasburgo avrà gli effetti di un “liberi tutti” in Spagna: trascinerà con sé l’inevitabile liberazione di 69 terroristi — quasi tutti dell’Eta — e di una quindicina di assassini e stupratori.
Lunedì i giudici di Strasburgo hanno condannato Madrid a scarcerare Inés immediatamente, e a risarcirla con 30mila euro per aver leso i suoi diritti di detenuta lasciandola troppo a lungo dietro le sbarre. Una sentenza che la corte penale dell’Assemblea nazionale, riunita ieri mattina, non ha potuto che accogliere all’unanimità confermando l’ordine di scarcerazione immediata. La decisione di Strasburgo è tecnicamente ineccepibile, ed era attesa: boccia come contrariaalla convenzione europea dei diritti umani l’applicazione retroattiva della “dottrina Parot”, introdotta nel 2006. È la legge che sottrae i benefici di pena concessi ai detenuti dal totale degli anni teorici delle loro condanne anziché dal massimo di pena previsto dalla legislazione spagnola, che per i casi più gravi arriva a 30 anni. In questo modo, nelle lunghe detenzioni i benefici di pena maturati diventano un puro esercizio teorico e per Strasburgo questo viola i diritti fondamentali dei detenuti. Ma le conseguenze della sentenza sono devastanti, nella Spagna in cui è tutt’altro che chiuso il capitolo nero del terrorismo basco. Da due anni vige la tregua unilaterale dichiarata dal-l’Eta, ma il processo di pace è surgelato e il governo spagnolo rifiuta qualsiasi trattativa.
«Non permetteremo che si ricompensino i terroristi e si umilino le vittime: non faremo marcia indietro nella politica antiterrorista e giudiziaria», si ribella il ministro degli Interni, Jorge Fernandez Diaz. Il sito delPaìspubblica la galleria fotografica degli orrori del terrorismo, con accanto le foto dei condannati ai quali la sentenza può riaprire la porta della cella. Per il governo e la magistratura spagnola l’orientamento è vagliare caso per caso, senza amnistie generalizzate. Ma i legali della Del Rio chiederanno la «immediata » scarcerazione di altri 56 terroristi baschi ai quali è stata applicata retroattivamente la dottrina Parot. E per i ricorsi pendenti a Strasburgo, il precedente fa giurisdizione.

l’Unità 23.10.13
Le orecchie dei potenti
Troppo deboli in tecnologia. Così i potenti ci spiano
di Carlo Galli


Gli Usa spiano l’Italia, la Francia, la Germania. Se è vero, è sgradevole e spiacevole. E dovranno dare all’Italia le spiegazioni civili e diplomatiche che anche noi chiederemo, si spera, con la medesima forza con cui le sta chiedendo la Francia. Da un punto di vista realistico, invece, c’è da sperare che vengano ripagati dalla stessa moneta.
Vale a dire secondo le norme o meglio, l’anarchia che valgono da sempre nelle relazioni fra potenze sovrane, dove conta, in ultima istanza, solo l’interesse nazionale. Nulla di nuovo sotto il sole, quindi. Tuttavia, le cose sono parecchio più complicate. E coinvolgono alcuni fattori di bruciante attualità. Se è vero, infatti, che l’informazione è un bene politicamente prezioso non a caso l’intelligence cerca di procurarsela con tutti i mezzi ciò che conta è comprendere quale politica si procura quale informazione, con quali mezzi, a quali fini. Per gli Usa si tratta di una politica fondata da sempre sull’eccezionalismo, ovvero sulla ferma convinzione che gli Stati Uniti rispondono solo alla propria legge, al proprio popolo, alla propria democrazia. E infatti le intercettazioni delle comunicazioni fra l’Europa e l’America avvengono esclusivamente sulla base delle leggi eccezionali che ne proteggono la sicurezza. Un’asimmetria di insuperabile origine ideologica che impronta con differenze storiche e partitiche, ma senza mai scomparire del tutto i rapporti politici e militari fra gli Usa e il resto del mondo. Il fine politico della sicurezza e della potenza americana fa premio su ogni altra considerazione.
Questo intento politico è reso possibile e ciò è sommamente interessante dallo straordinario sviluppo della tecnica statunitense. Che non è a sua volta casuale, né episodico e neppure frutto spontaneo dell’effervescenza del capitalismo. Anzi, quello sviluppo tecnico è figlio di una politica attenta alla ricerca scientifica, a finanziarla (o a renderne possibile e conveniente il finanziamento privato), a sostenerla, a farne il vero volano dello sviluppo del Paese. È politica la scelta dell’eccellenza scientifica, della ricaduta tecnologica, e della promozione, per questa via, della capacità d’influenza internazionale di un Paese la differenza fra soft power e hard power non è poi tanto rilevante, in fondo. È qui, più ancora che sull’elemento militare in senso stretto, che si gioca la sfida della competizione internazionale. Non si può dimenticare, a questo proposito, che la Germania guglielmina proprio grazie al suo sistema universitario e alle ricadute tecniche della sua scienza acquisì in un paio di decenni lo status di grande potenza, da quel Paese povero che era.
Tuttavia, dietro la brutta vicenda delle intercettazioni della Nsa non c’è l’eccezione americana, ma la normale legge della politica. Anche se si coltiva una visione meno muscolare, più collaborativa, e in definitiva più democratica delle relazioni internazionali, non vi è infatti dubbio che anche oggi (o forse soprattutto oggi, dopo la fine dell’equilibrio della guerra fredda), le dinamiche internazionali si risolvano nel migliore dei casi in un confronto fra sistemi-Paese, cioè fra organizzazioni civili, sociali, scientifiche e produttive, che sono chiamate a gareggiare in efficienza anche se vogliono collaborare pacificamente (nell’efficienza va ricompresa, senza dubbio, anche la qualità democratica della vita interna, ovvero il suo sviluppo umano complessivo, individuale e collettivo).
L’alternativa è quella alla quale sono di fronte gli Stati europei, ancora gelosi della loro sovranità (non importa se gestita decorosamente o in modo fallimentare): di essere cioè in perenne deficit di conoscenza, di ricerca scientifica, di applicazioni tecnologiche, rispetto ai giganti della Terra, che ormai non sono soltanto gli Usa. E di finire, così, fra gli intercettati piuttosto che fra gli intercettatori, fra gli acquirenti di tecnologia altrui (come nel caso degli F35) piuttosto che fra i produttori di innovazioni. Tutto ciò vale per modelli di fierezza sovrana come la Francia, e per esempi di organizzazione sociale come la Germania; a maggior ragione vale per un Paese debole e poco organizzato come il nostro, che non riesce a darsi un sistema politico credibile e un’università funzionante, e che ha visto e vede scomparire pezzi decisivi del proprio sistema produttivo. Si dirà che proprio per gestire questi problemi è stata pensata l’Europa. Il che è del tutto vero. Ma l’Europa non scende dal cielo, come ammoniva Spinelli, e l’invocarne il nome non esonera gli Stati dagli sforzi, anche in collaborazione, per recuperare forza, capacità progettuale, credibilità internazionale. Anche in Europa, del resto, vale la regola che si conta (e si fa valere il proprio interesse) nella misura in cui si è organizzati, efficienti, competitivi. Obiettivi che devono essere un elementare dovere per ogni politica responsabile, anche nel nostro Paese troppo propenso a inventarsi un mondo politico di fantasia e autoreferenziale, e a stupirsi poi delle brusche smentite della storia.

Repubblica 23.10.13
Il sociologo Touraine: “Questo spionaggio faccia scattare una battaglia per difendere i nostri principi”
“Europa reagisci, è in gioco la libertà”
Mi fa paura l’idea che non ci siano più segreti
Gli Stati non rispondono a nessuna moralità, neppure la Francia, che si vanta di essere la culla dei diritti umani
intervista di Anais Ginori


PARIGI— «Europa svegliati dal torpore, reagisci, batti un colpo». È un appello accorato quello di Alain Touraine. Il sociologo francese quasi si scusa: «Mi dispiace ma sono molto arrabbiato». Non gli va giù il silenzio che circonda le ultime rivelazioni sullo spionaggio della Nsa in Francia. «Con la scusa della lotta al terrorismo — osserva — vengono raccolte comunicazioni di milioni di cittadini». Ieri,Le Mondeha pubblicato nuovi documenti dai quali risulta che l’agenzia di intelligence americana ha spiato anche diplomatici e ambasciate. E Parigi insiste sulla necessità di portare il caso al prossimo vertice europeo, in programma giovedì a Bruxelles.
Perché questa gigantesca attività di sorveglianza elettronica non suscita molte reazioni indignate al livello europeo?
«Lo spionaggio illegale da parte di una grande potenza straniera dovrebbe far scattare subito una battaglia politica, morale, in nome di principi e libertà garantiti dalle nostre Costituzioni. Eppure, anche in questa vicenda, abbiamo l’impressione che tutto finisca sepolto da burocrati pagati per non agire».
Forse perché “così fan tutti”, lo spionaggio è reciproco anche tra paesi alleati?
«La Francia e altri governi europei hanno programmi di sorveglianza elettronica che probabilmente violano la privacy. Tuttavia noi lo facciamo su scala minore, forse perché abbiamo mezzi meno potenti».
Il presidente Hollande ha protestato con Washington e ha chiesto che l’Europa approvi nuove regole.
«È una fiera dell’ipocrisia. Mi piacerebbe pensare che succederà ma già so che presto tutto sarà dimenticato senza che sia stato fatto nulla. Gli Stati non rispondono a nessuna “moralità”, neppure la Francia che si vanta di essere la culla dei diritti umani».
Dobbiamo rassegnarci a essere schedati, ascoltati?
«A me fa paura l’idea che non ci siano più segreti: diventiamo tutti potenzialmente ricattabili. Bisognerebbe mobilitare l’opinione pubblica per far pressione sui governi».
Negli Usa il Datagate ha suscitato ancora meno reazioni: la difesa della privacy passa dopo altre priorità nazionali.
«È un segnale allarmante per la democrazia americana. La nostra battaglia però è in Europa. Gli Usa fanno politica con mezzi puliti e sporchi. Noi non riusciamo a fare politica in nessun modo. Siamo deboli, impotenti. E poi non dimentichiamoci una differenza».
Quale?
«Gli americani hanno cittadini che denunciano abusi dall’interno del sistema, come Bradley Manning con WikiLeaks e Edward Snowden ora con il Datagate. Da noi invece il clima soporifero è sia ai vertici dello Stato che dentro alla società. Lo scandalo non è in America ma dentro di noi, nella nostra assenza di reazione».

l’Unità 23.10.13
Investire per risparmiare: l’esempio della salute mentale
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Il benessere di milioni di persone viene messo in pericolo da bilanci strutturati su rigide regole contabili in un’ottica di breve periodo. Per conciliare la crescita con il rigore, bisognerebbe affidarsi a criteri economici e non solo contabili, consentendo investimenti per la funzionalità e la competitività dell’Italia.
Ascanio De Sanctis

«È vero, continua la lettera, che tali investimenti creerebbero nel breve termine un deficit, oltre i limiti consentiti dalla Unione Europea, ma i minori costi o i maggiori benefici che ne conseguirebbero ridurrebbero il deficit degli anni seguenti in misura superiore all’ammontare degli investimenti iniziali. Soddisfacendo le esigenze contabili nel medio-lungo termine. E l’Italia dovrebbe battersi, in vista delle elezioni europee del maggio 2014, per fare accettare tale criterio a livello della Comunità europea». Quella che serve, infatti, è una capacità nuova di investire per produrre e far circolare merci e denaro ma anche e soprattutto una capacità nuova di investire per migliorare la qualità dei servizi. Nel campo della salute mentale, ad esempio, dove le previsioni dell’Oms segnalano oggi il maggiore degli incrementi di spesa sanitaria, occuparsi per tempo, in modo massiccio, delle infanzie infelici e delle manifestazioni precoci del disagio permetterebbe di ridurre notevolmente il rischio delle situazioni, costosissime, di disturbo psichiatrico, di tossicodipendenza e di criminalità non organizzata. Riusciranno i tecnici che se ne stanno rendendo conto a farsi sentire e capire da chi è chiamato a scrivere i bilanci di uno Stato sovrano? Il futuro dei nostri figli e nipoti passa da qui molto più che dai tagli ad una spesa pubblica che va soprattutto riqualificata.

Corriere 23.10.13
Mutilazioni femminili, le vittime sono 125 milioni
di Paolo Valentino


ROMA — Poco meno di un anno fa, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votava la storica risoluzione che ha messo al bando universalmente le mutilazioni genitali femminili. Per la prima volta, una delle più nefaste pratiche tradizionali veniva equiparata a una forma di violazione dei diritti umani fondamentali di donne e bambine.
La condanna della comunità internazionale è stata un passo importante, offrendo anche uno strumento in più alle attiviste che nei vari Paesi sono impegnate nel lavoro sul campo. «Ma una risoluzione dell’Onu di per sé è un’arma spuntata se non trova effettiva applicazione da parte degli Stati. E i recenti rapporti ci dicono che, nonostante gli sforzi compiuti per eliminarle, le mutilazioni continuano».
Lo ha detto ieri il ministro degli Esteri Emma Bonino, aprendo la Conferenza internazionale organizzata da Unicef e Unfpa (il Fondo dell’Onu che sostiene lo sviluppo dei diritti umani nei Paesi in crisi) e dedicata proprio all’intensificazione e al coordinamento degli impegni politici, legali e finanziari necessari a far cessare concretamente le mutilazioni genitali femminili. All’evento, all’Auditorium Parco della musica, prendono parte i rappresentanti di 17 Stati africani, insieme a quelli delle ong e di alcuni Paesi donatori. A conferma del monito del ministro Bonino, il direttore esecutivo dell’Unfpa, Babatunde Osotimehin, ha ricordato che «125 milioni di donne in 29 Paesi dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente vengono ancora sottoposte a queste pratiche» e c’è dunque «ancora moltissimo da fare».
L’opportunità offerta dalla risoluzione dell’Onu non può quindi essere sprecata: «In varie parti del mondo — ha detto la titolare della Farnesina — stiamo assistendo a una sorta di risveglio al femminile, un ritrovato attivismo che si esprime a macchia di leopardo sui fronti più disparati, dai diritti umani e quelli economici e sociali». È un fenomeno «estremamente positivo, che dobbiamo assecondare e accompagnare». Soprattutto in presenza di battute d’arresto o passi indietro intravisti in alcuni Paesi, come Egitto e Tunisia, come conseguenza delle primavere arabe.
Bonino ha ricordato il contributo dell’Italia, che dal 2008 a oggi ha stanziato 8 miliardi di dollari in favore del programma congiunto Unicef-Unfpa contro le mutilazioni. Ma soprattutto si è impegnata a proseguire su questa strada, anche nell’attuale fase di crisi: «Mantenere gli impegni presi non è facile, anche di fronte all’opinione pubblica italiana, ma spero che la società civile mi sostenga nella decisione di continuare il nostro sostegno, anche finanziario, a questa campagna». Di più, il ministro ha promesso di ampliare il fronte della lotta ad altre cause, come quella contro i matrimoni giovanili e forzati.
La Conferenza romana vuole anche fare da catalizzatore, nella moltiplicazione degli sforzi di educazione e sensibilizzazione da parte dei governi verso le popolazioni che ancora mettono in pratica le mutilazioni genitali femminili. È il cosiddetto «Social Approach», che dal 2012 ha portato alla dichiarazione pubblica di abbandono delle mutilazioni da parte di quasi 10 mila comunità in 15 Paesi. «La conoscenza è uno snodo decisivo — ha spiegato Bonino — un diritto è privo di sostanza se i beneficiari non sono coscienti di poterlo invocare e pretenderne il rispetto».

il Fatto 23.10.13
La vita agra di un traduttore
di Alessandra Benvenuto


Artefici di un incantesimo. Sono loro gli autori, non di ciò che traducono, ma della magia che consente al libro di rinascere mille volte. Attraversando frontiere spaziali e temporali. Etnologi attenti, linguisti puntigliosi e psicoanalisti raffinati, lavorano per il progresso intellettuale della nazione. Sarà per questo che – tra molti professionisti – la scelta è, ogni volta, spinosa e appassionante. In Italia sono circa 1.500: per il 70% donne. Molti, spiega Sandra Bertolini presidente dell’Associazione Italiana Traduttori e Interpreti, affiancano a questo altri mestieri.
PER ACCOGLIERLI, a Roma, è nata due anni fa la Casa delle Traduzioni che ospita insieme a colleghi stranieri, volumi, corsi e dibattiti. Finalmente si comincia poi a mettere il loro nome in copertina (o almeno) in quarta, come fa Feltrinelli per le nuove traduzioni di classici tascabili: “Ma non è certo una scelta di declassamento – precisa l’editor Fabio Di Pietro – solo di cambio di design grafico”.
Studi recenti come quelli del Ceatl (Consiglio europeo delle associazioni dei traduttori letterari) confermano però che l’Italia si attesta, accanto ai paesi dell’Europa del Sud e dell’Est, agli ultimi posti in termini di remunerazione. Tariffa a cartella: da 3 a 11 euro. Nonostante poi la traduzione sia ritenuta opera d’ingegno e attenga al regime del diritto d’autore, accanto al pagamento a cartella o a forfait – salvo rare eccezioni – non è contemplata percentuale sulle vendite. Formula che, da anni, permane in Giappone, Svizzera, Olanda, Francia e Germania. “Il discorso è biforcuto”, avverte Michele Sampaolo, decano del mestiere. Sul mercato esistono situazioni differenziate. Ma che i conti non tornano lo sanno meglio i signori dell’Associazione Italiana Editori. Pochi giorni fa presentavano, a Francoforte, i dati del loro ufficio studi: saldo negativo del settore per 91 milioni di euro. Tra le finalità dell'Aie: non solo tutela del diritto d’autore ma “lo studio di soluzioni idonee a migliorare nella filiera del libro i rapporti con gli altri operatori”. Eppure, interrogati riguardo la condizione del traduttore, non concedono risposte. O, come fa Alessandro Laterza, chiariscono tranchant: “La soluzione non è pagare meno i traduttori, ma tradurre (sempre) meno”. Infatti, calano anche le traduzioni: dal 24% dei titoli pubblicati nel 2003, oggi non si arriva nemmeno al 20.
Ma se i costi non sono più sopportabili è vero anche che sono i titoli stranieri a rendere di più in termini di copie vendute. La tiratura media dei titoli inglesi è tripla rispetto agli italiani. Non a caso la Francia stanzia ogni anno 1 milione e mezzo di euro per tradurre opere straniere. Qui, per nuove iniziative editoriali, la legge di Stabilità sembra prevedere 120 milioni di euro. Ma l’unica risorsa a cui gli editori italiani possono attingere rimane intanto il finanziamento di enti che promuovono la propria letteratura all’estero (Goethe Institute, Centre National du Livre, e il Pro Helvetia). Alla Buchmesse, si sono fatti così sentire anche i traduttori. Sostenuti da Strade, un sindacato giovane ed energico che dopo aver coinvolto la piattaforma degli editori indipendenti presto – promette
– inviterà intorno a un tavolo non solo l’Aie, ma anche i rappresentanti del Mibac.
Nelle relazioni ministeriali sulla performance per il 2012 si legge infatti di obiettivi strategici raggiunti “al cento per cento”. Tra questi vi sarebbero quelli di promozione della lettura di competenza del Centro per il libro e la lettura, presieduto da Gian Arturo Ferrari. Ma è che non si spiega come si coniughi il dato con quello Istat dei 165 volumi pubblicati ogni giorno (negli ultimi 3 anni) in rapporto al numero dei lettori (acquirenti): il 41% della popolazione (contro l’80% dei tedeschi, il 70% dei francesi e il 60% degli spagnoli). Impossibile – sul sito istituzionale – accedere ai dati “risorse” e “trasparenza”.
CERTO È che dei 153 milioni di euro stanziati nel 2012 per il sostegno del libro e dell’editoria, nessuna risorsa risulta investita a favore della traduzione. Solo due le recenti iniziative del Cepell. Il contributo di 30 mila euro per la traduzione parziale in inglese di 50 opere da promuovere al-l’estero. E una banca dati dei traduttori, cui si accede tramite un link attivato sul sito preesistente, costata (nel 2010) ben 56 mila euro. Sulla falsariga di altri paesi, la soluzione sarebbe dunque un Fondo nazionale per le Traduzioni e i Traduttori editoriali. Sulla petizione di Strade, che ne promuove la creazione, Marina Pugliano può già contare più di 2.500 adesioni. Tra i nomi noti, compaiono gli editori Archinto e Bompiani, gli scrittori Magrelli, Magris e Daniel Pennac: medaglia al valore per aver “girato” parte dei suoi diritti d’autore alla traduttrice italiana Yasmina Melaouah.
Intanto domenica si è chiusa, a Urbino, l’undicesima edizione delle Giornate della Traduzione Letteraria, curate da Ilide Carmignani. Occasione d’incontri e idee, tra cui Una Guida pratica per chi non vuole arrendersi. A conferma di quanto sia vero che il mestiere del traduttore è (linfa oltre che) sistema circolatorio delle letterature. E di come – proprio facendo leva sulla forza magica di questo mestiere – ci si debba decidere a utilizzare una tecnica vecchia quanto il mondo. L’apprendimento per imitazione. Osservando i paesi vicini, per cambiare rotta. Senza più piangersi addosso. Evitando di affondare.

il Fatto 23.10.13
Celebrità
Pavese, Bianciardi e gli altri Quelli che ci sono passati
di Antonio Armano


Ma come Busi che ha tradotto per noi Joe Ackerlay, un libro molto arduo, ha un romanzo e non ce lo fa vedere? ” Quello di Aldo Busi, che esordisce con Seminario sulla gioventù (Adelphi) dopo avere tradotto testi per la stessa casa editrice, è il caso recente più noto e le parole sopra citate sono di Roberto Calasso. Ora che tutti scrivono, tradurre (il più misconosciuto e malpagato dei lavori culturali) ha assunto un tratto in più di nobiltà? E arrivare al romanzo dopo avere tradotto quelli altrui costituisce punto di distinzione. L’esercizio, ottimo per tenere la mano calda e l’anima e il corpo insieme, non pone, per uno scrittore, il problema della scarsa visibilità. Può darsi che in un secondo tempo l’attività autoriale prevalga. Pavese s’è fatto le ossa durante il Fascismo con gli americani e ha tradotto Moby Dick per mille lire prima di esordire come narratore. E Ripellino, slavista, è oggi conosciuto per Praga magica, più che per le traduzioni di poeti russi o cechi. Il numero dei poeti che traducono poeti è molto alto: Ungaretti si è cimentato coi lirici greci. Silvio Raffo, autore di numerosi romanzi, tra cui La voce della pietra, che diventerà un film di produzione hollywoodiana, è conosciuto soprattutto come traduttore del Meridiano della Dickinson, che sta per essere ristampato in edizione economica coi disegni di Pericoli.
Volgere versi, spiega Raffo, implica una perizia tecnica e una vocazione per la parola che il poeta ha più del prosatore. E se la poesia è tutto quel che si perde con la traduzione solo un poeta può sfatare l'equazione. Così ci sono poeti che traducono la prosa (Caproni, per esempio) ma viceversa? “Senza i traduttori non conosceremmo gli autori stranieri” nota Raffo. E questo potrebbe spiegare lo scarso riconoscimento: non vogliamo ammettere che l'esperienza delle più alte vette artistiche avviene per interposta persona. Lo scrittore italiano che ha sudato più sangue sulle traduzioni è forse Bianciardi che al “lavoro di sterro” ha dedicato La vita agra. Romanzo dove si sente il debito nei confronti dei Tropici di Miller, tradotti per Feltrinelli.
La prima edizione, per timore della censura, è stata stampata all’estero. Talvolta il traduttore che si trasforma in scrittore può finire in tribunale come Luigi Tenconi, che dopo avere tradotto molti classici francesi, ha pubblicato sotto pseudonimo Le memorie di una cameriera, condannato negli anni 50. Nei processi ai libri i traduttori, considerati dei cottimisti dell’arte, se la cavavano sempre. Faccia fede questo.

Repubblica 23.10.13
Il documento
Gli storici: “No a una legge sul negazionismo”


ROMA — Contro la legge che punisce il negazionismo si pronuncia anche la Sissco, la società che raccoglie gli storici contemporaneisti. In sintesi, il documento esprime una forte contrarietà alla proposta – ora in discussione al Senato – di modificare l’articolo 414 del codice penale per trasformare il negazionismo in reato. Gli storici chiedono che «una materia così delicata vengaaffrontata dal legislatore tutta insieme e in modo globale, non attraverso interventi parziali». E che il Senato «non accolga l’inserimento, già approvato dalla Commissione Giustizia, del comma secondo cui “la pena si applica a chiunque neghi l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio o contro l’umanità”». Tale norma, aggiungono gli studiosi, risulta ambigua e di difficile attuazione.

Repubblica 23.10.13
“Fabriano città creativa”
Il riconoscimento dell’Unesco


ANCONA — Da ieri Fabriano è una “Città creativa dell’Unesco”. Il riconoscimento dell’organizzazione delle Nazioni Unite è stato ufficializzato dopo un lungo processo di candidatura «per la sua grande tradizione cartaria e per la sua creatività artigiana». Lanciato nel 2004, il Network delle Città Creative intende creare una sinergia tra varie città, offrendo agli operatori del settore una piattaforma internazionale «su cui convogliare l’energia creativa ». Nella fattispecie, l’obiettivo è anche quello di rilanciare lo sviluppo economico e sociale della comunità di Fabriano, una cittadina di 30 mila abitanti ricca di storia e tradizioni culturali (ha dato fra l’altro i natali al pittore Gentile da Fabriano), attualmente alle prese con una profonda crisi industriale legate al declino delle industrie elettrodomestiche.