giovedì 24 ottobre 2013

il Fatto 24.10.13
Pd, l’altro golpe dei 101
di Antonio Padellaro


A pagina 4 troverete l’elenco dei 101 - numero maledetto - senatori del Pd che hanno votato (e dei 6 che non hanno votato) la modifica dell’articolo 138 della Costituzione, approvando il grimaldello che consentirà il rapido stravolgimento della Carta fondamentale dei nostri diritti e dei nostri doveri. Lo hanno fatto malgrado i pressanti appelli di giuristi, movimenti e semplici cittadini che non chiedevano la luna, ma un semplice atto di decenza democratica: dicessero pure sì, se proprio erano costretti, alla norma-grimaldello; ma senza la maggioranza dei 2/3, in modo da consentire il referendum sul disegno di legge come previsto dalla Costituzione. Ieri, però, nell’aula di Palazzo Madama, quei 101 senatori del partito che si definisce democratico hanno (al fianco del Pdl berlusconiano) volutamente calpestato il principio scolpito nel primo articolo della Costituzione: che cioè la sovranità appartiene al popolo. Per soli 5 voti, perciò, niente consultazione popolare, ma una miserevole operazione di palazzo di cui i 101 non dovranno rendere conto agli elettori, bensì ai padrini politici che li hanno nominati grazie alla legge Porcata. A dicembre, quando toccherà alla Camera il voto definitivo al grimaldello, si dovrà in tutti i modi possibili garantire la consultazione popolare. Il Fatto metterà in campo le 450mila firme raccolte quest’estate. Forse non basterà, ma non daremo tregua ai responsabili di questo squallido golpe.

il Fatto 24.10.13
I soliti 101 del Pd Solo 5 ribelli su 106


I CONTRARI Su 107 senatori dem (108 con il presidente Pietro Grasso, che però non vota) 101 hanno votato a favore al ddl costituzionale. Solo cinque non hanno detto sì. Felice Casson si è astenuto. Quattro non hanno partecipato al voto, pur essendo in aula: Silvana Amati e Walter Tocci (astenuti, l’11 luglio scorso) poi Renato Turano e Corradino Mineo, che ha spiegato in aula il suo sostanziale no. Assente Marco Filippi (in missione).
I FAVOREVOLI Donatella Albano; Ignazio Angioni; Bruno Astorre; Maria Teresa Bertuzzi; Amedeo Bianco; Daniele Gaetano Borioli; Claudio Broglia; Filippo Bubbico; Massimo Caleo; Laura Cantini; Rosaria Capacchione; Valeria Cardinali; Vannino Chiti; Monica Cirinnà; Roberto G. G. Cociancich; Stefano Collina; Paolo Corsini; Giuseppe Cucca; Vincenzo Cuomo; Erica D’Adda; Emilia Grazia De Biasi; Mauro Del Barba; Isabella De Monte; Rosa Maria Di Giorgi; Nerina Dirindin; Stefano Esposito; Camilla Fabbri; Emma Fattorini; Nicoletta Favero; Valeria Fedeli; Elena Ferrara; Rosanna Filippin; Anna Finocchiaro; Elena Fissore; Federico Fornaro; Maria Grazia Gatti; Rita Ghedini ; Francesco Giacobbe; Nadia Ginetti; Miguel Gotor; Manuela Granaiola; Maria Cecilia Guerra; Paolo Guerrieri Paleotti; Josefa Idem; Nicola Latorre; Stefano Lepri; ; Bachisio Lai; Sergio Lo Giudice; Doris Lo Moro; Carlo Lucherini; Giuseppe Lumia; Patrizia Manassero; Luigi Manconi; Andrea Marcucci; Salvatore Margiotta; Mauro Maria Marino; Claudio Martini; Donella Mattesini; Giuseppina Maturani; Claudio Micheloni; Maurizio Migliavacca; Marco Minniti; Franco Mirabelli; Mario Morgoni; Claudio Moscardelli; Massimo Mucchetti; Pamela Orrù; Venera Padua; Giorgio Pagliari; Annamaria Parente; Carlo Pegorer; Stefania Pezzopane; Leana Pignedoli; Roberta Pinotti; Luciano Pizzetti; Francesca Puglisi; Laura Puppato; Raffaele Ranucci; Lucrezia Ricchiuti: Gianluca Rossi; Francesco Russo; Roberto Ruta; Angelica Saggese; Gian Carlo Sangalli; Giorgio Santini; Francesco Scalia; Annalisa Silvestro; Pasquale Sollo; Lodovico Sonego; Maria Spilabotte; Ugo Sposetti; Salvatore Tomaselli; Giorgio Tonini ; Mario Tronti; Stefano Vaccari; Daniela Valentini; Vito Vattuone; Francesco Verducci; Luigi Zanda; Magda Zanoni; Sergio Zavoli.

il Fatto 24.10.13
Senato. Pd e Lega evitano il crollo della maggioranza e impediscono il referendum dei cittadini
Costituzione, devastato l’art. 138 Il governo si salva per cinque voti
A Palazzo Madama i berlusconiani tentano di far saltare il quorum. Obiettivo: colpire Quagliariello e dare un segnale al premier e al Colle
Ma i Dem e il Carroccio garantiscono i due terzi. Il ddl approvato con 218 sì. Ora manca l’ultimo via libera della Camera
di Luca De Carolis


Ce l’hanno fatta per cinque voti. Cinque sì che valgono il quorum dei 2/3 e impediscono il referendum contro l’assalto alla Carta. Perché nel giorno dell’insurrezione a sorpresa dei falchi Pdl, a blindare lo “strappo” dell’articolo 138 hanno provveduto il Pd, eterno schiavo delle larghe intese, e la Lega Nord, alleato di complemento del governo che dice di combattere. Con 218 sì, 58 contrari e 12 astenuti, ieri il Senato ha approvato in seconda lettura il ddl costituzionale 813-b, che deroga all’articolo 138 e affida a un comitato di 42 parlamentari il compito (potere) di riscrivere metà della Carta. Raggiunto e superato il quorum dei 214 voti che valgono i 2/3: la quota anti-referendum, nonché la soglia che tiene in sicurezza il governo. Sotto attacco, in una mattinata lunghissima. I falchi del Pdl, guidati per l’occasione da Nitto Palma, hanno provato a far saltare il quorum, ossia il banco, con 11 astenuti e 14 assenti. Primo tra tutti, Silvio Berlusconi. Sarebbe stato l’affondamento delle riforme e un colpo durissimo per Gaetano Quagliariello: ministro per le Riforme costituzionali, colomba “doc” e saggio vicinissimo al Quirinale. E invece il ddl prosegue la sua corsa. Grazie soprattutto al Pd, che ha ignorato l’appello di “Via Maestra” e di tanti cittadini, che chiedevano il referendum. Ignorati, dai Democratici che hanno votato come soldatini, con 5 eccezioni. A opporsi, come sempre, Cinque Stelle e Sel, con tutti i loro 57 no.
Quagliariello suda freddo
In aula si parte con l’intervento di Anna Finocchiaro, relatrice del ddl. Assicura: “Il comitato dei 42 non spodesta il Parlamento, l’articolo 138 viene rafforzato perché alla fine delle riforme sarà possibile il referendum”. Soprattutto, precisa: “I provvedimenti varati dal Comitato saranno autonomi e coerenti, i cittadini potranno abrogarli separatamente”. Finocchiaro parla ai malpancisti del Pd. Ovvero ai 10 senatori firmatari di un documento critico nei confronti delle riforme: Laura Puppato, Stefania Pezzo-pane e “dissidenti” già noti, come Corradino Mineo e Walter Tocci. Scrivono di “elementi di criticità che rendono incerto il percorso delle riforme”. Fuori dell’aula, Puppato spiega: “La senatrice Finocchiaro mi ha dato delle risposte, si potranno votare separatamente cose importanti come la diminuzione dei parlamentari”. Quindi vota a favore? “Sì, la deroga al 138 è compensata dal referendum”. Al microfono, Quagliariello si infervora: “Il bicameralismo perfetto è intollerabile, quanto ci costa la mancanza di stabilità? ”. Loredana De Petris (Sel) risponde: “La priorità è cambiare il Porcellum, altro che la Carta. Indicate la Costituzione come la fonte di tutti i mali e parlate di semipresidenzialismo perché volete ovviare alla vostra debolezza”. Sel regala a Quagliariello i lavori preparatori della Costituente.
Calderoli a gamba tesa
Ma il pacco a sorpresa glielo dona il leghista Roberto Calderoli: “Caro ministro, ho letto la relazione dei saggi sulle riforme e mi sono cascate le braccia e anche qualcos’altro: è un papocchio”. Calderoli fa paragoni: “Io e gli altri 3 saggi lavorammo in una baita a spese nostre, i suoi saggi hanno lavorato in un resort a 5 stelle”. Ma conferma il sì del Carroccio, “perché crediamo comunque nelle riforme”. Chiosa pesante: “Sia chiaro, o si raggiunge il quorum, o ti saluto riforme”. Tradotto: i 2/3 non sono scontati. La maggioranza può contare su un massimo di 239 voti. Ma nel Pdl ci sono diversi assenti. Parla Paola Taverna (M5S): “Volete devastare la Carta che violate già tutti i giorni, questa riforma fa paura”. Tocca ad Augusto Minzolini. Il “direttorissimo” Pdl si era già astenuto l’11 luglio. Annuncia il bis: “Stanno estromettendo in via giudiziaria il leader del Pdl, eppure questa riforma non affronta il tema della giustizia. Il governo delle larghe intese deve riformare il Paese, altrimenti rischia di fare solo danni”. Quagliariello ha il volto tirato. Davanti allo schermo fuori dell’aula, compare un elegante Scilipoti: non si sposterà sino al voto (si asterrà). Parla Mineo: “Questa volta non voterò sì al ddl. Dopo la sentenza definitiva su Berlusconi è in corso un attacco allo stato di diritto, non si possono fare le riforme assieme”. Applausi, rumori, tensione. Il quorum è in bilico. A confermarlo è il falco Nitto Palma, ascoltato in silenzio dall’aula: “Dalla prima approvazione del ddl è accaduto un fatto importante, il messaggio di Napolitano sul malessere della giustizia penale. Il tema non può rimanere fuori dalle riforme”. Poco dopo le 13, si vota. I 7 di Sel sventolano i fazzoletti dell’Anpi. La maggioranza trattiene il fiato. Ma poi sorride: 218 sì e quorum raggiunto. I lavori dovrebbero proseguire, ma Calderoli sospende: “Siete distratti”. Un peone dà una pacca a Minzolini: “Bravo, stavi affossando la legislatura”. Lui nega: “Non era organizzato”. Tweet di Grillo: “La Costituzione non è carta da culo”.

il Fatto 25.10.13
Entro Natale il testo sarà votato alla Camera


ULTIMO ATTO alla Camera, prima di Natale. Dal 10 dicembre in poi, ogni giorno sarà buono per approvare in seconda lettura, e quindi in via definitiva, il ddl costituzionale. Saranno infatti trascorsi tre mesi dal primo voto a Montecitorio, termine obbligatorio prima del secondo voto come prescrive l’attuale articolo 138. Alla Camera la maggioranza ha superiorità schiacciante. Quasi scontato il secondo sì con i 2/3. Sarà quindi legge il testo che dimezza i tempi del 138, riducendo da 90 a 45 giorni l’intervallo tra ciascuna delle due letture alle Camere del futuro ddl costituzionale, e che istituisce un comitato di 42 parlamentari che potrà riscrivere i titoli I, II, III e V della seconda parte della Costituzione (Parlamento, presidente della Repubblica, Governo, Regioni, Province e Comuni).

il Fatto 25.10.13
Comitato “La via maestra”: incontro con Grasso e Boldrini


Sul sito dell’associazione Libertà e Giustizia, il comitato promotore della manifestazione in difesa della Costituzione interviene con un comunicato: “Quattro soli voti hanno permesso l’approvazione al Senato del disegno di legge sulla modifica dell’articolo 138 della Costituzione con quella maggioranza dei due terzi che impedisce ai cittadini di chiedere il referendum. È emerso così, con assoluta chiarezza, che la forzatura costituzionale non raccoglie neppure il pieno consenso della maggioranza che vuole imporla. È un dato politico di cui tutti dovrebbero tener conto e che conferma la necessità di seguire la “via maestra” del rispetto e della attuazione della Costituzione indicata dalle migliaia di persone che hanno partecipato alla manifestazione del 12 ottobre. In seguito all’esito del voto in Senato e come annunciato il 12 ottobre, la “Via maestra” chiede di incontrare al più presto i presidenti del Senato e della Camera”.

il Fatto 25.10.13
Divisioni a sinistra
Il “no” della Cgil: referendum se scatta il presidenzialismo
di Salvatore Cannavò


Nel giorno in cui il Pd blinda la riforma dell’articolo 138 della Costituzione la Cgil decide di dichiarare con nettezza la propria “contrarietà”. In una nota diramata subito dopo il voto del Senato, a firma del segretario confederale Danilo Barbi, il sindacato di Susanna Camusso dichiara il suo “no” al provvedimento “che vuole promuovere un processo di riforma della Costituzione, introducendo un procedimento speciale che ignora quanto disposto dalla stessa Carta per le modifiche costituzionali, derogando alla normale procedura prevista dall'articolo 138 della Costituzione”. Raggiunto dal Fatto, Barbi ribadisce le critiche: “La modifica del 138 è sbagliata soprattutto perché è una deroga e questo concettualmente è grave”. La critica non si spinge, come avevano fatto i promotori della manifestazione del 12 ottobre, fino a richiedere un referendum sulla legge approvata al Senato, cioè sul fatto stesso di modificare l’articolo 138. “Non pensiamo che sarebbe comprensibile una consultazione sul ‘come’ si decide”, precisa Barbi. Ma sul merito, la Cgil si dichiara fin d’ora contraria “senza se e senza ma” a qualsiasi introduzione del semipresidenzialismo nel nostro regime costituzionale. “Non vogliamo passare per conservatori” spiega ancora Barbi, “e quindi proponiamo anche noi riforme compatibili con il 138 come, ad esempio, il monocameralismo”. Ma i “valori fondamentali” della Carta saranno difesi “fino al referendum”. “Nel 2006 abbiamo dimostrato, tra le esitazioni della sinistra politica, che la Cgil è in grado di condurre a vittoria una consultazione referendaria. Siamo determinati a farlo di nuovo”.
L’atteggiamento rispetto al Pd appare più di pungolo e pressione che di contrapposizione senza attacchi diretti. Nonostante ribadisca la volontà di “allargare” un grande movimento di difesa della Costituzione, quindi, la Cgil sembra ancora distante dalle posizioni di chi ha promosso la manifestazione del 12 ottobre.
I CINQUE PROMOTORI di quella giornata, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Lorenza Carlassare e don Luigi Ciotti, sono tornati a riunirsi ieri. Un incontro, il primo dopo la manifestazione di dieci giorni fa, per decidere come andare avanti ma anche per stigmatizzare la decisione del Senato. Sottolineando che la maggioranza dei due terzi, necessaria a evitare il referendum, è stata superata di “quattro soli voti”, i promotori de La via maestra sottolineano come “la forzatura costituzionale non raccoglie neppure il pieno consenso della maggioranza che vuole imporla”. Da qui, la richiesta di rispettare l’articolo 138 e l’indicazione delle “migliaia di persone che hanno partecipato alla manifestazione del 12 ottobre. Nei prossimi giorni verrà presentata anche una riforma organica della Costituzione, nel rispetto della stessa Carta, e si darà vita a quell’incontro con i presidenti di Camera e Senato funzionale alla consegna delle 446 mila firme (a ieri sera) in calce all’appello per la difesa della Costituzione pubblicato dal Fatto.
Se e come l’iniziativa dalla Cgil e quelle del Comitato “12 ottobre” possano o meno incontrarsi è difficile da dire. La differenza di fondo resta proprio l’utilizzo del referendum. Consultazione sul 138 per Rodotà e compagni, disponibilità al referendum ma solo sul contenuto definitivo della riforma per la Cgil che, infatti, annuncia che “vigilerà sui lavori della Commissione parlamentare che sarà istituita”. Una posizione in sintonia con l’Anpi che ieri ha organizzato un sit-in davanti a palazzo Madama e che nel Consiglio nazionale dello scorso fine settimana ha ribadito la giusta decisione di non partecipare al 12 ottobre. Anpi e Cgil puntano a rilanciare il comitato “Salviamo la Costituzione” che promosse il referendum del 2006. Solo che il presidente di quel comitato, Alessandro Pace, è lo stesso che ripete in continuazione quanto sia grave la modifica del 138, invitando a muoversi su questo punto al più presto.

Repubblica 24.10.13
Il nuovo “MicroMega” difende la Costituzione


ROMA — “Realizzare la Costituzione!” è questo il richiamo lanciato sulla copertina del nuovo numero diMicroMega, in uscita oggi in edicola e su iPad. Sulla carta del ’48 riflette il direttore Paolo Flores D’Arcais: la Costituzione è un progetto politico avanzato, per rimanere effettiva ha bisogno di essere difesa da chi prova ogni giorno a svuotarla di significato. Corposa la sezione filosofica costruita intorno a 10 lezioni che Martin Heidegger tenne tra il ’33 e il ’34 in qualità di rettore dell’università di Friburgo. I documenti, pubblicati per la prima volta in Italia con presentazione e traduzione di Virgilio Cesarone, sono fondamentali per chiarire il discusso rapporto tra il filosofo tedesco e il nazismo, con il contributo prezioso di Carlo Augusto Viano, Gianni Vattimo e Giovanni Reale. Nello stesso numero viene pubblicato un saggio di Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo sulla figura del giudice imparziale e poi le riflessioni su notizie dal mondo di Marco d’Eramo, Joel Beinin, Annamaria Rivera e molti altri. Conclude infine il numero un lungo saggio di Adam Michnik sulla figura di Václav Havel, una sorta di dialogo a distanza fra i due grandi dissidenti, scritto poche settimane prima della morte del presidente-scrittore e ora finalmente disponibile in italiano.

il Fatto 23.10.13
Re Giorgio recluta corazzieri: “Difendetemi dalle calunnie”
Napolitano accusa quelli che vogliono “destabilizzare il governo” toccando le cariche dello Stato
Riforme avanti tutta: “Non ci fermano”
di Giampiero Calapà


Re Giorgio punta i piedi sulle sue riforme, su quella dell’articolo 138 della Costituzione soprattutto, passa dalle “panzane a cui crede solo il Fatto” alle “invenzioni calunniose che mirano a destabilizzare il governo e a gettare ombre sulle istituzioni più alte”. Tiene a bada il sindaco impertinente Renzi, che vuol essere sempre più “uomo solo al comando” tanto da presentarsi in bicicletta al cospetto del sovrano ed evocare Ginettaccio Bartali; replica di Napolitano: “Grazie caro sindaco, fa niente che da ragazzo tifassi per Coppi”.
LA GIORNATA fiorentina del presidente della Repubblica – in occasione dell’assemblea dell’Anci, l’associazione dei Comuni – comincia proprio ricevendo in Prefettura Matteo la peste. L’ultima volta i due si erano sentiti al telefono, una settimana fa: il tentativo di Renzi era quello di stemperare i toni dopo la presa di posizione contro amnistia e indulto tanto cari al Colle. Napolitano ha apprezzato a metà e durante il faccia a faccia a porte serrate non pronuncia mai quelle due parole, ci penserà dopo durante l’intervento pubblico. Si limita, con malcelata freddezza, a indicare, a ribadire a Renzi, quella che per lui è la strada obbligata: “Letta deve governare fino al 2015, fino al termine del semestre di presidenza italiana in Europa. Mi aspetto che il partito di maggioranza relativa e il suo segretario (intendendo ‘chiunque esso sia’ dopo l’8 dicembre, ndr) sostengano in toto l’azione governativa”. Renzi non ha potuto che annuire e mandar giù tutti i rospi possibili in nome della “cortesia istituzionale”. Cosa di cui, il sindaco, potrà fare a meno questa mattina alle 9,15, ospite di Fabio Volo su Radio Deejay: dai moniti indigesti al pop che gli piace tanto. Napolitano, prima di archiviare in congelatore la pratica Renzi, riserva, però, al “bischero” un’altra implicita tirata d’orecchia monitando davanti ai sindaci: “Di quel messaggio al Parlamento (su amnistia e indulto, ndr) è stata da più parti alimentata una rappresentazione contraffatta, grossolanamente strumentale”. “Da più parti” non c’è nel discorso originale distribuito ai giornalisti, è stato aggiunto successivamente a penna, proprio perché Renzi intendesse.
Le sue riforme poi. Napolitano rompe gli indugi subito sulle modifiche alla Carta, a cominciare da quell’articolo 138 che, così cambiato, renderà vulnerabile la Costituzione: “Non si possono giustificare e subire in proposito posizioni difensive e conservatrici; bisogna rispondere al visibile coagularsi di posizioni di ogni provenienza che confluiscono in un fronte di resistenza conservatrice, ben al di là di osservazioni e controproposte di merito”.
L’ARROCCO di Napolitano non finisce qui. Non a caso, infatti, cita due “saggi costituenti” scelti dal suo premier Enrico Letta: Beniamino Caravita di Toritto e Augusto Barbera, il primo indagato dalla procura di Bari ed entrambi denunciati dalla Guardia di finanza per una brutta storia di concorsi truccati e favoritismi baronali in università. Caravita, peraltro, ha saputo di essere nel registro degli indagati ben prima di esser nominato “saggio” per le riforme.
Il duetto con Renzi (che ha poi chiacchierato 15 minuti anche con Letta, rassicurandolo sulla sua fedeltà), comunque, monopolizza le attenzioni della giornata. Il sindaco, nel suo intervento davanti a Fassino e tutti gli altri colleghi d’Italia, evoca, appunto, il grande campione del ciclismo in un discorso che poteva andar bene anche per la candidatura a segretario del Pd: “È tutto sbagliato, è tutto da rifare, si dice a Firenze citando quel grande campione che era Gino Bartali. Ma il giorno stesso ci tiriamo su le maniche perché sappiamo che facendo così diamo una mano all’Italia, perchè sappiamo che il Paese siamo noi”. Peccato che Re Giorgio preferisca Coppi. Stessa iniziale di Cuperlo.

il Fatto 24.10.13
Azione Civile Antonio Ingroia
“Ora niente rese, difendiamola”
di Tommaso Rodano


Cronaca di una morte annunciata”. Antonio Ingroia è funereo, dopo il voto del Senato che dà il via libera alle riforme costituzionali. “Il condannato a morte è la Costituzione italiana. I celebranti sono quelli che dovrebbero esserne i garanti: il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. L’officiante principale è il Pd”.
Il paradosso è che il ddl del governo poteva saltare per colpa delle defezioni del Pdl. Nel Pd le “obiezioni di coscienza” sono arrivate solo da un pugno di senatori.
È l’ennesima dimostrazione della distanza abissale che separa il paese reale dal palazzo delle istituzioni. Il Pd tradisce una parte consistente dei suoi elettori. Molti di loro sono scesi in piazza per salvare la Costituzione. Ormai potremmo ribattezzarlo Pad: Partito antidemocratico. Non c’è niente di più antidemocratico di stravolgere la legge fondamentale dello Stato con l’arroganza maggioritaria. Mortificano i cittadini, impedendogli di esprimere la propria opinione con il referendum.
I sostenitori della riforma rispondono che chi difende la Costituzione lo fa per “conservatorismo”, per una “battaglia di retroguardia”.
È un’argomentazione risibile. Difendiamo una Costituzione progressista. Di più: rivoluzionaria, se solo fosse attuata in tutti i principi dimenticati. Difenderla, lo ripeto, è un atto rivoluzionario.
Ora tocca ai “saggi”, scelti da un Parlamento di nominati. Cinque di loro, di recente, sono finiti sotto inchiesta… (ride, ndr) Già, saggi. Si fa per dire. C’è un’altra considerazione paradossale: questo Parlamento stravolge la Carta approfittando di una legge incostituzionale, come il porcellum. I Padri costituenti introdussero la norma della maggioranza qualificata per modificare la Costituzione in un’epoca in cui la legge elettorale era proporzionale e i due terzi delle Camere corrispondevano effettivamente al 66 per cento dei voti. Con il porcellum, invece, i due terzi degli eletti (considerato anche l’enorme astensionismo) sono stati votati da una minoranza degli elettori.
Appena due settimane fa, piazza del Popolo era piena di manifestanti contrari alla riforma. E ora? Vi arrendete?
Da oggi inizia una mobilitazione ancora più ampia in vista del voto della Camera. Si parte dal popolo del 12 ottobre e dai quasi 500 mila firmatari dall’appello pubblicato sul Fatto. Coinvolgiamo tutte le forze possibili: sociali, civili, politiche. L’obiettivo di lungo termine è la nascita di un nuovo fronte costituzionale popolare e democratico. E prima del voto che porterà a compimento questo scempio, dobbiamo ancora provare a convincere i deputati democratici ad astenersi.

l’Unità 24.10.13
Alla ricerca del centro perduto
Non è facile capire cosa si propongano
Opporsi al «dirigismo» e allo «statalismo» della sinistra?
Un curioso paradosso: pur essendo moderata l’Italia sul piano politico tende alla polarizzazione
di Michele Ciliberto


C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, direbbe il poeta: un gruppo di homines novi sta cercando di costruire in Italia un partito del centro. Una assoluta novità, da noi, in cui sono impegnati giovani talenti, ancora poco conosciuti, della politica italiana: si chiamano Casini, Lupi, Cesa, Mauro, tutta gente alla quale direbbe un hegeliano di Napoli «fumano i mustacchi».
Non è facile capire cosa si propongano: uno dei più autorevoli, trasferitosi in Italia da Strasburgo per dirigere l’operazione, ha detto che il centro vuole opporsi al «dirigismo» e allo «statalismo» della sinistra, cioè se capisco bene alla «pianificazione» di tipo sovietico, su cui anche da noi ci fu un interessante dibattito, ma negli anni Trenta, specialmente tra i teorici del corporativismo.
Uno che li conosce bene, perché li ha lungamente frequentati, ha detto che quello che si propongono è una «caricatura» della Dc: espressione un po’ pesante alla quale la nostra «civiltà della conversazione» adusa a un lessico sobrio e misurato non è abituata; ma in questo caso efficace e opportuna.
Se si scava negli archivi della Repubblica, si vede infatti che un partito con questo nome è esistito, ma in un contesto del tutto diverso: era diretto da uomini formatisi nelle file dell’antifascismo; aveva forti radici confessionali, pur essendo laico; si opponeva frontalmente al comunismo; agiva in una situazione internazionale divisa in blocchi, nella quale l'Italia era una importante marca di frontiera; aveva forti connotati sociali, come appare dai documenti conservati negli archivi.
Fra i «giovani» che vogliono formare il nuovo partito del centro molti, invece, provengono direttamente dalla destra fascista; il cattolicesimo oggi non svolge più il ruolo politico che ha avuto una volta; il comunismo è finito; la situazione internazionale è cambiata dalle fondamenta; l’Italia non ha più alcun ruolo da svolgere come zona di confine tra oriente e occidente. E, infine, i promotori del nuovo partito di centro non mostrano alcuna particolare sensibilità sociale: se incontrassero uno come La Pira, singolare e stravagante esponente di quel vecchio partito (così risulta dagli archivi) lo tratterebbero come un pazzo, un appestato. Chi è costui, che vuole? Salvare una fabbrica? Il Nuovo Pignone, ma che roba è? Il novecento è finito; la classe operaia non c’è più; spazio ai giovani...
Il nuovo centro non è perciò una caricatura della Dc, è veramente una cosa inedita, originale. Bisognerebbe perciò capire cosa è e se può servire all’Italia, ma va fatta una osservazione preliminare: se si consulta l’archivio, specie i faldoni più recenti, si vede che qualche tentativo dello stesso tipo è stato già fatto, e senza grandi risultati: quando formazioni del centro si sono presentate alle elezioni, sono andate, certo, oltre percentuali da «prefisso telefonico», ma non hanno mai raggiunto le due cifre: 4, 5, 6 per cento. Né il destino cinico e baro si è placato quando dall’Olimpo è sceso direttamente Zeus per generare la «renovatio»: hanno continuato ad ansimare, senza mai riuscire a correre come dovrebbe fare, non dico Mercurio, ma almeno il «padre degli dei»...
Come e perché è accaduto questo fatto, che non consente di pronosticare un esito positivo al novissimo centro al quale lavorano questi juniores? Perché l’Italia è un Paese singolare: è certamente, nelle visceri, moderato per una lunga storia; ma è prontissimo, se viene adeguatamente aizzato e «vincolato», a spostarsi a destra, anche su posizioni «estreme». Come risulta dagli archivi, nell’Italia non è mai esistito un partito moderato di massa. Con una sola, grande, eccezione; ma la Dc fin dal nome evocava la sua matrice confessionale, ed era soprattutto questo predicato l’essere cattolico, in stretto rapporto con la gerarchia che consentiva alle «differenze» sociali, politiche, culturali di conciliarsi in un centro che, proprio per questa sua natura, era disponibile ad aprirsi sia a destra che a sinistra.
Quando però la matrice cattolica e l’interclassismo che ne scaturiva -, per una serie di motivi si sono frantumati, le «differenze» sono prevalse sull’«unità» e il centro si è dissolto, esplodendo in varie direzioni, come è avvenuto negli ultimi venti anni. E che le cose stiano così, sul piano storico, è confermato dal fatto che nel campo «laico» non è mai esistita una «terza forza» di grande peso, nonostante la presenza di figure importanti come La Malfa o Visentini: è sempre rimasta, inesorabilmente, minoritaria. Certo, il Pri è stato un «piccolo partito di massa», come disse una volta un grande dinosauro; ma, appunto, piccolo. Questa è stata la storia e, come direbbe Croce, «non c’è che fare»; la storia è però magistra vitae: in Italia un grande Centro che governi il Paese, oggi, non ha futuro, prospettive. Ne mancano tutte le condizioni. Prima o dopo, se ne convinceranno anche i «giovani» talenti che si stanno buttando in modo impetuoso in questa avventura, nonostante le dure repliche della storia.
Ma il destino del centro nel nostro Paese svela un curioso paradosso su cui meriterebbe riflettere: pur essendo moderata, l’Italia tende, sul piano politico, alla polarizzazione, a meno che non intervengano, come avvenne nel caso della Dc, motivi ultra-politici che spingano verso la «sintesi» dello stesso centro. Ma è una «sintesi» che si spezza quando intervengono, come è accaduto da noi, processi di «secolarizzazione» che travolgono e distruggono gli involucri ideologici: allora prevalgono e si impongono l’esperienza e l’ideologia delle «cento città». Tutti fenomeni che vengono da lontano addirittura dal Medio Evo, dal Rinascimento e che la crisi ha potenziato, generando e inasprendo rotture, frantumazioni. Varrebbe la pena di fare, in profondità, una riflessione sulla «identità» italiana, anche per comprendere il destino della sinistra e come essa, in questa situazione, possa riuscire a costruire visioni generali e condivise, senza cui non può esserci futuro: il nostro Paese, oggi più che mai, è uno strano animale. Una sorta di ircocervo.

Repubblica 24.10.13
Un corruttore per alleato
di Massimo Giannini


PUOI governare con il tuo carnefice? Puoi considerare «alleato» un leader politico, pregiudicato e spregiudicato, che solo cinque anni fa ha comprato un parlamentare a suon di milioni per far cadere la tua maggioranza? Di fronte al rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, deciso dal Gup di Napoli nell’inchiesta sulla corruzione del senatore De Gregorio, conviene ribaltare la questione, famosa e ormai annosa, della cosiddetta «agibilità politica» del Cavaliere. Conviene guardarla dal punto di vista non delle reazioni del centrodestra, ma delle decisioni del centrosinistra. Un rinvio a giudizio non equivale ovviamente a una sentenza di condanna.
Ma significa che un giudice terzo, diverso dai pubblici ministeri inquirenti, ritiene che siano state raccolte prove sufficienti a giustificare l’avvio di un processo. Nell’inchiesta Berlusconi-Lavitola- De Gregorio le prove, più che sufficienti, paiono schiaccianti. Nella primavera del 2006 l’Unione di Prodi vince per un soffio le elezioni. A Palazzo Madama ha solo 4 voti di maggioranza. Basta una modesta transumanza, e il governo va a casa. Nel luglio successivo il Cavaliere lancia la campagna acquisti. Il senatore De Gregorio già eletto nelle file dell’Idv di Di Pietro viene agganciato da uno dei faccendieri più indecenti ma più efficienti ad Arcore, Valter Lavitola. È lui che comincia a foraggiare De Gregorio: 3 milioni di euro in tutto (ne riceverà solo una parte). Con quel «tesoretto» sul conto corrente, il senatore lancia a sua volta l’«operazione Libertà». La racconta lui stesso nelle carte dell’inchiesta, spiegando che ogni passo è stato concordato con il leader del Pdl. «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». Cioè la caduta del governo Prodi. De Gregorio dichiara agli atti: «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio... ». La missione è: «Procurarsi voti in Parlamento».
Come procurarseli è fin troppo facile. Con il denaro, che per il Cavaliere, dalle toghe sporche alle olgettine ripulite, non è mai stato un problema. De Gregorio tenta prima con un senatore suo amico. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni», risponde il Cavaliere. L’abbocco fallisce: Caforio fa finta di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Ma l’Operazione Libertà è ormai partita, e nulla può fermarla. Le prove generali iniziano il 28 febbraio 2007, quando Prodi si salva al Senato per appena tre voti. «L’evento finale » si produce il 24 gennaio 2008, dopo le dimissioni del Guardasigilli Mastella che ha saputo di una richiesta d’arresto ai danni di sua moglie da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere. Prodi viene sfiduciato al Senato, dove va sotto per 5 voti. A impallinarlo, oltre a Mastella e a Lavitola, ci sono Lamberto Dini, Vito Scalera e Luigi Pallaro, eletto in Argentina e misteriosamente scomparso il giorno del voto.
Sono prove, queste? O solo calunnie? Sono prove, nient’altro che prove. La conferma arriva dallo stesso Lavitola, in una lettera spedita il 13 dicembre 2011 all’ancora premier Berlusconi. Valterino batte cassa per l’Avanti, e ricorda al «socio » tutto quello che ha fatto per lui. «Lei — scrive — subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».
Questo è dunque lo scandalo che emerge dalle carte dell’inchiesta di Napoli. Questo è il «golpe bianco» che si sospetta Berlusconi abbia ordito contro il governo Prodi. Dietro al quale, ancora una volta, si intravede non un blitz episodico. Ma piuttosto il solito e collaudatissimo «sistema corruttivo», che ricorre in tutte le vicende giudiziarie in cui il Cavaliere è stato a vario titolo condannato, coinvolto o prosciolto (grazie alle prescrizioni e alle leggi ad personam). Un «metodo» che ha funzionato per le tangenti alla Gdf e per Mills, per il Lodo Mondadori e per i diritti tv. E se ha dato frutti nell’affare De Gregorio, è lecito pensare che ne abbia generati sia per il primo ribaltone dei due senatori che salvarono il Berlusconi I nel 1994, sia nella campagna acquisti dei «Responsabili» che salvarono il Berlusconi IV nel 2010.
Il processo di Napoli si aggiunge alla lunga sequenza di conti in sospeso che il Cavaliere intrattiene tuttora con la giustizia. Dopo la condanna definitiva per i diritti tv Mediaset, l’interdizione di due anni dai pubblici uffici sui quali dovrà pronunciarsi la Cassazione, il voto dell’aula di Palazzo Madama sulla decadenza, l’appello del processo Ruby per prostituzione minorile e concussione e l’uscita delle motivazioni della condanna di primo grado nello stesso processo (prevista per metà novembre). Basterebbe un’occhiata all’agenda giudiziaria dell’ex premier, per liquidare con un sorriso amaro le pretese di «pacificazione », le parole al vento sui doverosi «atti di clemenza», le pressioni inaccettabili su un fantomatico «motu proprio» del Capo dello Stato, le allusioni insopportabili su un ipotetico indulto ad personam del Parlamento. Non c’è scudo possibile, per un imputato-condannato di questo calibro. Non si tratta di consumare una vendetta ideologica, né di realizzare un’eliminazione politica per via giudiziaria. Più semplicemente: anche volendo (e nessuno che abbia a cuore lo stato di diritto dovrebbe volerlo) non esistono nei codici dell’Occidente «condoni tombali» che cancellino le pendenze penali passate, presenti e soprattutto future.
Il Pdl è squassato da una strana lotta intestina. Eredi rissosi si contendono inutilmente il lascito di un «de cuius» che nonostante tutto resta più vivo che mai. Di fronte alle pessime notizie che arrivano dai tribunali, i «parenti della vittima» celebrano il rito stanco di sempre. «Persecuzione», «caccia all’uomo», «attentato alla democrazia». Parole violentate, abusate, svuotate di senso. Ma lanciate come pietre contro la sinistra «togata» e contro il governo Letta.
Immaginare un futuro radioso per le LargheIntese, a questo punto, è illusorio. I segnali di rottura erano già numerosi, dalla legge di stabilità all’antimafia. Ma ora, com’era facile prevedere, è l’ossessione giudiziaria che domina la scena a Villa San Martino e a Palazzo Grazioli. Il rinvio a giudizio di Napoli segna un possibile punto di svolta. Non tanto giudiziario, quanto politico. Di fronte all’enormità dell’ultima imputazione, si torna alla domanda iniziale. C’è da chiedersi se non tocchi alla sinistra riformista il «dovere» di rompere l’alleanza innaturale con l’uomo che ha ucciso il governo Prodi, comprando quattro traditori per trenta denari. Piuttosto che concedere ancora una volta a una destra irresponsabile il «diritto» di far saltare il tavolo, legando indissolubilmente e colpevolmente i destini della nazione a quelli del suo «Cavaliere dell’Apocalisse».

Repubblica 24.10.13
Se il condannato per frode sovverte lo Stato di diritto
di Franco Cordero


Dal 1 agosto Berlusco Magnus è irrevocabilmente condannato a 4 anni (3 condonati dall’indulto 2006), quale autore d’una magnifica frode fiscale. Giorno e notte i suoi cantano lo stesso salmo, con qualche eco nelle file avversarie, dove s’acquattano ausiliari camaleonti: avviene qualcosa d’orribile; vogliono espellerlo dal Senato in odio a 8 milioni d’elettori devoti; s’era mai visto tanto scempio del verbo democratico? Guardiamo i fatti. L’ordigno diabolico è il d.P.R. 31 dicembre 2012 n. 235 e chi l’aveva delegato al governo Monti? Uno schieramento nel quale i Pdl erano maggioranza bulgara (l. 6 novembre 2012 n. 190). Votavano unanimi, vantandosene: Angelino Alfano ogni tanto gaffeur, li qualificava «partito degli onesti»; mani virtuose ripulivano le stalle del potere. L’art.1 provvede così: non è candidabile né può in qualsivoglia modo assumere ufficio parlamentare chi abbia subito condanne penali definitive in tre casi, nell’ultimo dei quali 19 mesi dopo appare Lui, dai capelli finti ai tacchi. Qualora il condannato sia in carica (art. 3), la sentenza viene «immediatamente » comunicata alla Camera competente affinché deliberi secondo l’art.65 Cost.: «la legge determina i casi d’ineleggibilità»; e ricorrendone uno, dichiara l’effetto sopravvenuto; non può tenersi l’indegno sotto le ali. Alla verifica basta un’occhiata: esiste la condanna; consta una delle situazioni previste dall’art.1; dunque B. è decaduto. Ogni sillaba in più sarebbe superflua.
Affare chiuso se i berluscones, obbligati a pesanti servizi, non coltivassero un eloquio farfallino dove tutto diventa asseribile. L’avevano votato, maledetto decreto: e scoprono d’essersi seduti sulla dinamite; dormivano gli onorevoli avvocati-mastini? «Salvatemi», ordina e i famigli accorrono trafelati. Il da farsi è chiaro: combinare un voto catartico nell’aula, ma sarebbe troppo dire brutalmente: «l’assemblea delibera sovrana; espelle gl’indegni o se li stringe al seno». L’arroganza politicante non paga. Ci vuole un minimo plausibile. Ed ecco l’argomento fine: la pena presuppone una legge anteriore al fatto punito (art.25 Cost.); questa norma, dunque, colpisce solo fatti post 5 gennaio 2013. Bel discorso: i manigoldi restino nei banchi o magari al governo; se ne riparla tra sette anni. Se la favola attecchisse arrivando alla Consulta, Dominus Berlusco guadagnerebbe tempo sfruttabile in passi tra le quinte (vi eccelle Letta senior). Sennonché le questioni d’invalidità costituzionale nascono dal processo (art.1, l cost. 9 febbraio 1948 n. 1) e tale non è l’iter nella Giunta delle immunità. Qualora vada davanti al giudice amministrativo, contro la decadenza dichiarata dall’assemblea, tre parole gli fulminano il cavillo in limine: «questione manifestamente infondata»; non è materia penale. L’incandidabilità del condannato appartiene al diritto elettorale, igiene d’un corpo politico: la condanna costituisce «causa ostativa» all’ufficio parlamentare; lo sarebbe anche una conces-sione amministrativa economicamente rilevante (art.10, c. 1. d. P. R. 30 marzo 1956 n. 361). Il giudicato 1 agosto tace in proposito. Appare una pena (B. interdetto dai pubblici uffici) quando la Corte milanese ne ridetermina la misura in 2 anni (19 ottobre), dopo l’annullamento del relativo capo, ed è decisione ancora impugnabile. Insomma, il d. P. R. 2012/n. 235 non contiene norme penali, meno che mai retroattive.
Nella Giunta partiva soccombente e tale risulta ma deciderà l’assemblea, secondo coscienza, dicono gli eufemisti alludendo al voto segreto; e lì nuota in acque sue, pescatore d’anime: ne bastano 47, sommate all’armento Pdl. D’un colpo gliene arrivano 12 dalla rinascente palude democristiana. Che sotto bandiera Pd ve ne siano d’acquisibili, lo dicono i 101 antiprodiani del 20 aprile. Quel capolavoro d’intrigo in ventiquattr’ore culmina nelle «larghe intese ». Siccome tout se tient,non stupirebbe il voto che gli lavi ogni macchia rinforzando l’esecutivo con un salutare scarto dalle regole. I previdenti volevano concedergli l’immunità. Scorre sul palco l’infinita Opera italiana da due soldi: soperchierie simili calpestano gli artt. 65 e 66 Cost.; ed è fenomeno inaudito che un organo legislativo contraddica se stesso. Va al diavolo l’elementare dialettica costituzionale, come se una Camera restasse in carica oltre i 5 anni, prorogandosi abusivamente: evento eversivo; e intendiamo alla lettera l’aggettivo. Esiste rimedio? Sì, un «conflitto d’attribuzione» sollevato dalla Corte i cui giudicati la Camera alta ignori (art. 134 Cost.). Siamo nel tipico scenario berlusconiano: variabili matte rompono il sistema; e il demiurgo tira il colpo a ricomporselo come gli viene comodo, nel corto circuito d’una «volontà popolare». Solo nelle fiabe esistono norme d’effetto automatico. Il diritto è un importantissimo ma fallibile gioco sociale: «dovere» significa «vigono dei modelli e l’atto difforme sarebbe valutato male»; tutto lì; le ruote girano o no secondo scelte imperfettamente coercibili. Lo vediamo negli Stati cadenti e rivoluzioni. I segni ne indicano una strisciante: l’infedeltà ispira riforme in allegro concerto berlusconoide (vedi l’idea del premier-padrone); se le sono disegnate 35 sapienti e vi metterà mano un «comitato»; procedure disinvolte eludono l’art. 138 Cost. La sindrome risale alla seconda Repubblica. Ventotto anni fa l’affarista supremo corruttore s’era fatto un regno televisivo, futuro impero duopolistico, in spregio a Corte cost. 28 luglio 1976 n. 202. Decreti craxiani 1985 l’autorizzano a continuare, finché la materia sia regolata dalla legge, non oltre 6 mesi. Prorogarli? No, spiega un garrulo sottosegretario: niente vieta regimi transitori sine die; e la clausola dei 6 mesi? Va in fumo. Giuliano Amato (è lui) covava una lunga, versatile, lucrosa carriera, uomo d’ogni stagione, inaffondabile. Neapolitanus Rex l’ha mandato alla Consulta, dal cui scanno custodirà ad unguem le norme. Nella recente storia d’Italia corrono fili d’un rosso equivoco.

l’Unità 24.10.13
Meno personalismi
il Pd deve aderire al Pse
di Pietro Folena e Franco Lotito


AVEVAMO AUSPICATO, COL NOSTRO LABORATORIO POLITICO PER LA SINISTRA, ED INSIEME AD ALTRI COME VANNINO CHITI, Cesare Damiano, Mimmo Lucà, che questo Congresso del Partito democratico potesse essere aperto, non irregimentato, preceduto da una prima fase che, in modo suggestivo, avevamo chiamato «costituente delle idee». Così non è stato: e non ci riferiamo tanto alla seconda fase del Congresso, quella del confronto fra i candidati alla segreteria nazionale del Pd che, dopo un primo voto nei circoli a novembre si concluderà col voto «popolare» delle primarie l’8 dicembre. Quanto alla prima fase in cui, con lo stesso meccanismo correntizio e subcorrentizio, i candidati segretari nei circoli, e così quelli provinciali, trascineranno, in una sorta di porcellum interno, gli eletti nei direttivi e nelle assemblee provinciali. Chi non dichiara preventivamente la propria fedeltà ad un candidato non ha diritto di cittadinanza, pur essendo iscritto al Pd.
Per questa ragione vorremmo suggerire che dai circoli vengano nei congressi dei prossimi giorni, attraverso ordini del giorno, due idee semplici e chiare, da portare alla nuova Assemblea Nazionale e tali da vincolare il nuovo segretario. La prima è, come primo atto, quella di riscrivere lo statuto del Pd, per farne un partito davvero aperto, «sociale», amico, contro questa proliferazione personalistica; la seconda è quella di chiedere l’adesione, senza se e senza ma, al Partito del socialismo europeo, portandovi tutta l'originalità dell'identità dei democratici italiani.
Si può provare a «costituire» nel Pd queste due semplici e forti idee? Ci daremo da fare in questo senso.

Repubblica 24.10.13
Pd, boom di tessere sospette: “Così si falsano i congressi”
Dalla Sicilia a Torino pioggia di denunce: incrementi del 400% in alcuni circoli e accuse tra i contendenti
di Antonio Fraschilla


PALERMO — Un boom di tessere a dir poco sospetto, con punte d’incremento del 400 per cento rispetto all’anno scorso, e la commissione nazionale per il congresso del Partito democratico invia ispettori da Torino a Catania per verificare «il rispetto delle regole», mentre fioccano i ricorsi che denunciano brogli nel voto dei circoli in vista dell’elezione dei segretari provinciali.
A Lecce le tessere del Pd sono arrivate già a quota 15 mila, doppiando il numero d’iscritti degli anni scorsi: «Ma in alcuni circoli l’incremento ha raggiunto il 400 per cento in più, segno che forse qualcosa non va», dicono dalla commissione nazionale per il congresso, che in Puglia invierà adesso il deputato Roberto Morassut. Altra situazione anomala che farà scattare un controllo da Roma è quella della provincia di Torino: qui gli iscritti degli ultimi anni al Pdnon hanno superato quota 10 mila, ma le tessere chieste dai circoli sono arrivate a 25 mila. Troppe per la commissione nazionale, che in Piemonte manderà come osservatore Giovanni Lunardon.
Tra i casi affrontati ieri in commissione ci sono inoltre quelli di Caserta, sempre per un numero elevato di tessere fatte in queste ore, e Piacenza. Nella città emiliana il problema riguarderebbe la platea dei delegati: «Ai 100 componenti dell’assemblea provinciale da eleggere la direzione ha aggiunto 39 componenti di diritto tra i dirigenti uscenti, falsando così il risultato del voto », dicono dalla commissione nazionale per il congresso, che ieri ha discusso a lungo anche il dossier arrivato dalla Sicilia.
A Catania il voto è stato annullato in tre circoli, dove era in testa il candidato renziano Mauro Mangano. La decisione è stata presa dalla commissione provinciale che ha denunciato «come molte persone si sono presentate accompagnate al voto da soggetti terzi che hanno perfino pagato le tessere». Nel mirino è finito anche l’ex deputato Gianni Villari, che ha ammesso di aver comprato delle tessere ma solo perché le persone interessate avevano affidatoa lui i 15 euro per l’iscrizione. «Vogliono solo danneggiarci, tutti conosciamo come vengono fatte le tessere, noi lo abbiamo denunciato ancor prima dell’indizione dei congressi, guarda caso il voto è stato annullato proprio nei circoli che mi vedevano nettamente in testa»,dice Mangano. Dal canto loro i renziani hanno presentato ricorso segnalando come «alcune tessere siano state distribuite dalla Cgil»: molti dirigenti del sindacato sostengono l’avversario, Jacopo Torrisi, appoggiato anche dal sindaco Enzo Bianco, che a livello nazionale vota Renzi ma nella sua città no. A Catania adesso arriverà da Roma l’ex braccio destro di Bersani, Nico Stumpo. Ma anche a Palermo si registrano numeri di votanti anomali, mentre a Ragusa non vengono riconosciuti due circoli nati in questo 2013, gli unici che non fanno riferimento al segretario uscente, e ricandidato, Giuseppe Calabrese: «Così annullano di fatto il voto in città», dice la civatiana Valentina Spata. L’unica provincia dove tutto è filato liscio e si ha già un vincitore è Enna: qui, manco a dirlo, ha vinto l’ex senatore Vladimiro Crisafulli, che ha ottenuto 2.150 consensi contro i 140 del suo avversario.


l’Unità 24.10.13
Europarlamento: «L’Italia cambi la Bossi-Fini»
Strasburgo favorevole a un approccio comune sul tema immigrazione
Pressing del governo Letta per modificare la bozza del vertice Ue schiacciata solo sul controllo delle frontiere
Il confronto con gli altri Paesi più difficile perché non abbiamo le carte in regola
di Marco Mongiello


BRUXELLES La legge Bossi-Fini del 2002 che criminalizza chi salva gli immigrati deve essere cambiata. Questa volta a chiederlo è l’intero Parlamento europeo con una risoluzione bipartisan approvata ieri a Strasburgo a larga maggioranza, proprio nelle stesse ore in cui a Bruxelles la diplomazia italiana cercava di aggiungere un po’ di sostanza ai paragrafi dedicati all’immigrazione delle bozze di conclusioni del summit Ue di oggi e domani. Calcisticamente parlando si tratta un vero e proprio contropiede per il premier Enrico Letta, che questa mattina si presenterà nella capitale belga con l’obiettivo di far mettere nero su bianco dagli altri 27 capi di Stato e di Governo la necessità di far diventare l’immigrazione un problema europeo. Nella risoluzione dell’Europarlamento non si cita esplicitamente l’Italia, ma chiede di «modificare o rivedere eventuali normative che infliggono sanzioni a chi presta assistenza in mare». Gli europarlamentari riconoscono gli «enormi sforzi» fatti dagli abitanti di Lampedusa e ai leader europei chiedono «di adottare un approccio coordinato, basato sulla solidarietà e sulla responsabilità, coadiuvato da strumenti comuni». Secondo l’eurodeputata Pd Patrizia Toia «se vogliamo che le nostre non siano lacrime di coccodrillo, abbiamo due obblighi: avere una vera ed efficace politica europea per l’immigrazione, che affronti alla radice il problema, e insieme dare alcune risposte subito, perché l’emergenza di tanti immigrati e profughi è già scoppiata».
Quanto al primo punto la risoluzione del Parlamento europeo chiede tra le altre cose di aprire «canali legali per migranti e richiedenti asilo», mentre per le risposte immediate, ha spiegato Toia, «grazie a un emendamento dei Socialisti e Democratici, è stata approvata una proposta concreta per cui si deve dare agli Stati Membri la possibilità di consentire il trasferimento per i richiedenti asilo dal Paese dove sono arrivati ad altri stati membri dove hanno familiari o amici». Ad oggi le regole europee stabiliscono che la richiesta di asilo è valida solo nel Paese in cui viene presentata. I trasferimenti verso gli Stati membri sono un tabù.
Su iniziativa del capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza la questione sarà affrontata anche dai partiti progressisti europei, che oggi saranno chiamati ad approvare una lettera congiunta in cui si chiede tra l’altro che sia «garantito un accesso sicuro alla Ue per coloro che sono in una situazione di bisogno» e che «la legislazione nazionale che criminalizza i migranti e richiedenti asilo e ostacola le azioni volte ad un trattamento dignitoso delle persone in difficoltà deve essere abrogata».
BATTAGLIA DIFFICILE
Ora la questione è in mano ad Enrico Letta che martedì, parlando alla Camera, ha assicurato che a Bruxelles non accetterà «compromessi al ribasso». La battaglia però si annuncia difficile. Prima della tragedia di Lampedusa, lo scorso 3 ottobre, la questione dell’immigrazione non era neanche in agenda al vertice Ue. Solo dietro insistenza italiana nelle bozze di conclusioni del vertice
sono stati aggiunti due paragrafi striminziti, che si limitano a «esprimere profonda tristezza», a lodare il rafforzamento dei controlli e a rimandare il succo delle discussioni a giugno 2014. Troppo poco per l’Italia, che ieri ha mobilitato altri sette Paesi (Spagna, Francia, Malta, Grecia, Cipro, Bulgaria e Croazia) per presentare al summit una bozza di conclusioni molto più sostanziosa. «C’è bisogno di un approccio onnicomprensivo ai flussi migratori che sia basato su protezione, prevenzione, solidarietà pratica e un’equa suddivisione delle responsabilità», si legge nel documento, che continua chiedendo una «concreta cooperazione con i paesi di origine al fine di affrontare le cause dell’aumentato flusso migratorio» e anche «specifiche misure per fermare il flusso illegale». In particolare gli otto Paesi chiedono il rafforzamento delle attività dell’Agenzia Ue per il controllo delle Frontiere, Frontex, la lotta ai trafficanti di esseri umani e che «una più efficace strategia di rimpatrio che sia parte delle relazioni globali fra l’Unione e i Paesi terzi interessati al fenomeno».
Infine, per evitare che dopo le parole di cordoglio la questione venga semplicemente rimandata all’anno prossimo, nel documento si chiede di «dare seguito a questo lavoro e riferire al Consiglio europeo in dicembre». Il rischio è che il braccio di ferro con gli altri Paesi sia reso più difficile dal fatto che l’Italia ha diverse carte non in regola sulla questione immigrazione, tutte eredità dell' era Maroni. Oltre alla Bossi-Fini, c’è il numero di richieste di asilo accolte che, come non ha mancato di ricordare la Germania, è proporzionalmente inferiore a quello di altri Paesi, e c’è il documento che l’Italia ha firmato lo scorso 10 ottobre, su richiesta di Alfano, con Grecia, Malta, Cipro, Francia e Spagna per bloccare l’adozione di regole comuni nei salvataggi. Insomma, potrebbe ribattere oggi qualcuno a Letta, l'Italia vuole più Europa si o no?

l’Unità 24.10.13
Il messaggio Ue: Roma sia più credibile prima di chiedere
di Umberto De Giovannangeli


RIVEDERE LA BOSSI-FINI. DA IERI QUESTO MESSAGGIO VA TRADOTTO IN VENTOTTO LINGUE: quelle dei 28 Paesi dell’Ue. Si scrive «rivedere», si «legge» abolire. È il senso politico della risoluzione approvata ieri dall’Europarlamento. Una indicazione tanto più significativa perché avviene a poche ore dall’apertura del vertice del capi di Stato e di governo dell’Ue; un vertice che, su pressione italiana e sull’onda dell’immane strage di migranti a Lampedusa, ha tra i temi in agenda, quello dell’emergenza-migranti. Nei giorni successivi a quella sconvolgente tragedia, il premier Enrico Letta si era espresso a favore di un superamento della Bossi-Fini. La presa di posizione, condivisa da tutte le più importanti «famiglie» politiche europee, esplicitata ieri a Strasburgo, suona, insieme, come sostegno ma anche come pungolo all’Italia. Fare «pulizia» in casa proprio per avere carte ancor più in regola nell’esigere, a ragione, dall’Europa un impegno più forte e condiviso nel far fronte al fenomeno migratorio che investe in particolare le due sponde del Mediterraneo: è questo il salto di qualità nell’azione politica dell’Italia che oggi s’impone. E sarebbe una prova di forza, oltre che di coerenza, se oggi a Bruxelles, Letta accogliesse quanto raccomandato dalla risoluzione di Strasburgo, annunciando la volontà del governo italiano di rivedere, in tempi rapidi e nella sostanza, la Bossi-Fini. L’Italia si assume le proprie responsabilità e chiede all’Europa di fare altrettanto. Un virtuoso «do ut des». E altrettanto importante, sarebbe l’annuncio della determinazione del nostro Paese ad abolire il reato di immigrazione clandestina e le norme più retrive contenute nel pacchetto-Maroni del
2009 relative ai respingimenti. In questo modo, l’Italia dimostrerebbe ai partner europei, specie a quelli più recalcitranti, come sia possibile unire idealità e concretezza, in una politica a tutto campo a favore dei più deboli, dei più indifesi. C’è bisogno di più Europa nella gestione dei flussi migratori, ma più Europa non significa solo maggiori investimenti in Frontex, l’agenzia europea per la sorveglianza delle frontiere esterne. Significa, come rimarca peraltro la risoluzione di Strasburgo, richiamare all’obbligo giuridico dell’assistenza in mare. Significa, definire una legislatura europea in materia di diritto d’asilo. E tutto questo va fatto oggi, perché già troppo tempo è stato perduto, e con il tempo sono andate perse migliaia di vite umane, in un Mediterraneo diventato un mare di morte, tomba della speranza. Da questo punto di vista, il vertice che si apre oggi a Bruxelles non può limitarsi a istruire dossier, rinviando ad altri tempi, giugno 2014, il momento delle decisioni. Questa politica dei due tempi non sarebbe solo inaccettabile politicamente, ma indegna moralmente. Richiamare l’Europa a impegni inevasi, non vuol dire scaricare su altri responsabilità nostre. L’operazione «Mare Nostrum» avviata dall’Italia a seguito della strage di Lampedusa, è un primo passo, importante ma non sufficiente. I Paesi del Consiglio d’Europa e dell’Ue devono mostrare maggiore solidarietà «all’Italia e gli altri in prima linea sul fronte degli arrivi degli immigrati irregolari»: così recita un passaggio di un rapporto approvato all’unanimità, lo scorso 3 ottobre, dal Consiglio d’Europa. Una nota in un rapporto che boccia la politica migratoria dell’Italia. Nel testo si afferma poi che «a causa di sistemi di intercettazione e di dissuasione inadeguati», l’Italia si è di fatto trasformata in una calamita per l’immigrazione, in particolare per gli immigrati che cercano una vita migliore all’interno dell’area Schengen. E come se non bastasse nel documento si afferma che alcune delle scelte fatte dalle autorità italiane «rischiano di minare la fiducia nell’ordine legale europeo e nella Convenzione di Dublino». Infine, nel testo viene evidenziato che la strada sinora seguita dall’Italia «non ha aiutato a convincere gli altri Paesi membri della Ue a condividere la responsabilità» per i flussi in arrivo sulle coste italiane. È tempo di cambiare «strada». In Italia. In Europa. Cambiare strada, vuol dire, ad esempio, farsi carico da parte italiana, già nel vertice che si apre oggi, di chiedere che l’Europa apra canali di ingresso legale e protetto al territorio dell’Unione per le persone che hanno bisogno di protezione internazionale, perché non è più possibile che le persone in fuga da guerre e persecuzioni non abbiano altra scelta per veder riconosciuti i propri diritti di protezione che quella di affidare la propria vita nelle mani dei trafficanti.

l’Unità 24.10.13
Lampedusa
In sciopero della fame i superstiti del naufragio: «Vogliamo risposte»


Uno sciopero della fame per ottenere dalle istituzioni italiane risposte concrete sulla loro sorte. A deciderlo sono stati i superstiti dei naufragi di Lampedusa, ancora in attesa sull’isola da quelle tragiche giornate, nel centro di accoglienza.
«Sono frustrati ha spiegato ai microfoni della Radio Vaticana il sacerdote eritreo don Mussie Zerai presidente della ong Habeshia per il fatto che non stanno ricevendo risposte, né l’assistenza dovuta».
Il sacerdote eritreo si trovava a Lampedusa per una preghiera comune con i superstiti in suffragio delle 366 vittime: i profughi, ai quali non era stato consentito di prendere parte alla commemorazione del 21 ottobre ad Agrigento, hanno però organizzato uno sciopero della fame. «Sono stati vittime ricorda don Zerai di un naufragio drammatico e ora si chiedono che fine ha fatto la disponibilità di Roma Capitale, ribadita dal sindaco di Roma, ad accoglierli. Molti di loro non vogliono rimanere in Italia, ma vorrebbero raggiungere i loro familiari nel Nord Europa». L’Italia resta infatti per la maggior parte dei migranti solo una via di passaggio, verso Paesi con una situazione economica più florida della nostra. «Inoltre aggiunge il sacerdote eritreo la situazione umanitaria nel centro di accoglienza resta molto grave e molti di loro non hanno superato il trauma psicologico del naufragio».

Repubblica 24.10.13
Porte aperte. L’Italia si salverà solo con gli stranieri
“Accogliamoli tutti”, il pamphlet di Manconi e Brinis viaggio senza retorica nelle politiche dell’immigrazione
di Gad Lerner


Accogliamoli tutti, gli immigrati. Ma siamo matti? Il titolo del pamphlet di Luigi Manconi e Valentina Brinis a prima vista sembrerebbe un’astuzia dell’editore, escogitato per turbare i benpensanti: Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati (il Saggiatore, pagg. 115, euro 13).
Gli autori stessi, però, ci invitano a non cadere nella trappola. Accogliamoli tutti, con le dovute precauzioni, va preso alla lettera. La loro è tutt’altro che una provocazione estremista: si tratta di governare un flusso epocale, altrimenti lacerante. Tanto meno è un richiamo ai buoni sentimenti. Anzi. Se una precauzione innerva il saggio di Manconi e Brinis, non è certo quella di solleticare l’ostilità dei prevenuti, ma semmai di non figurare predicatori di bontà o, peggio, “buonisti”: l’orrendo neologismo abusato da anni nel dibattito pubblico sull’immigrazione, funestato dalla diffidenza e dal rancore.
Manconi e Brinis enumerano le cifre avvilenti di una demografia che sembra destinare inevitabilmente l’Italia a trasformarsi in «una comunità sfilacciata e depressa, bolsa e senescente, incapace di innovazione e di invenzione».
Fanno impressione, queste cifre: il censimento del 2011 registra circa 15.000 persone che si trovano nella fascia d’età 100-105 anni. Sono più di mezzo milione gli ultranovantenni. Complessivamente, gli italiani con più di 65 anni rasentano i 13 milioni. Invece i nostri vicini di casa, le popolazioni che abitano la sponda Sud del Mediterraneo, sono composte per quasi la metà di giovani al di sotto dei 25 anni. Prescindere da tale contrasto oggettivo sarebbe solo un’ingenua rimozione: qualsiasi modello di società futura implica un governo razionale dei flussi migratori, finalizzato, per quanto ciò sia possibile, a una loro ordinata integrazione.
Nessuna “mielosa retorica” dell’accoglienza, dunque. Anche perché gli immigrati «non mostrano alcuna voglia di correre in nostro soccorso». Gli ostacoli frapposti in Italia all’instaurazione di contratti di lavoro regolari, ai ricongiungimenti familiari e alla continuità dei permessi di soggiorno, perpetuano una condizione servile e ne scoraggiano la stabilizzazione. Li abbiamo incoraggiati a sentirsi estranei. Più realisticamente, si tratta quindi di disinnescare il cortocircuito tra lo stato di marginalità in cui sono ridotti troppi immigrati; e la reazione deviante, irregolare, talora criminale che questa loro marginalità provoca.
La ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, che firma l’introduzione del pamphlet, trae la conseguenza politica di questo ragionamento: «Ai fini della sicurezza, fanno più i diritti della repressione». In altre parole, come scrivono Manconi e Brinis, «un’accoglienza dignitosa riduce significativamente insidie e minacce». Dunque è a fini utilitaristici — per il “nostro” bene — e non sulla base di un impulso di generica solidarietà, che va radicalmente capovolta la politica fin qui seguita in materia di immigrazione. Assumere come prima finalità dell’esecutivo il presidio delle frontiere, il respingimento o l’espulsione de- irregolari, è risultato miope oltre che velleitario. Ormai lo sappiamo. L’Italia, d’intesa con l’Unione Europea, deve pianificare con lungimiranza quegli ingressi che finora si è limitata a subire.
Da sei mesi Manconi è presidente della Commissione diritti umani del Senato, ma gli argomenti proposti sotto la voce Accogliamoli tuttisono di natura empirica, piuttosto che giuridica. Comunque mai ideologici. Qui si esprime il sociologo da vent’anni impegnato nella rilevazione dei comportamenti delle comunità locali costrette a fare i conti con l’immigrazione. Siamo un paese che già oggi non potrebbe fare a meno dei suoi quasi 5 milioni di stranieri residenti, l’8% della popolazione. Basti pensare che vengono dall’estero il 77,3% dei (delle) badanti. Più della metà degli addetti alle pulizie. Più di un quar-to dei lavoratori edili. Quasi un terzo dei braccianti agricoli.
Se dunque possiamo considerare paradossali, retoriche, le domande poste da Manconi e Brinis — ci conviene espellerli? E se andassero via tutti? E se non venissero più? — ben più concreta appare l’incognita che pende sul nostro futuro: è proprio inevitabile che ha pagare il prezzo della faticosa integrazione degli stranieri debbano essere sempre e comunque i più poveri fra gli italiani?
Benché il libro sia disseminato di numerosi esempi di integrazione riuscita nelle comunità locali, avvenuta spontaneamente o più di rado guidata da amministratori capaci, non c’è dubbio che il non governo del flusso migratorio ha alimentato un contrasto fra svantaggiati. Risultato peraltro conveniente ai soliti ben noti attori politici. Né la legge Turco-Napolitano del1998, né tanto meno la Bossi-Fini del 2002 hanno consentito la pianificazione armonica dei flussi d’ingresso, orientandoli nella ricerca di lavoro regolare e di soluzioni abitative razionali. Per questo Accogliamoli tuttisi conclude proponendo non solo l’abrogazione del reato di clandestinità, ma anche l’introduzione del visto d’ingresso per ricerca di occupazione; in luogo dell’irrealistica pretesa della normativa vigente, secondo cui l’incontro fra domanda e offerta di lavoro dovrebbe realizzarsi (chissà come) nei paesi d’origine.
Nessuna faciloneria. Nessuna celebrazione delle virtù del multiculturalismo. Il libro prende in esame anche i nodi più difficili da sciogliere in materia giuridica, come la poligamia e la mutilazione genitale femminile. Fenomeni certo ultraminoritari che necessitano di una gestione coerente con il nostro diritto, ma al tempo stesso finalizzata alla riduzione del danno. Per esempio la Coop ha risolto il problema della macellazione rituale della carne halal dopo un confronto con la Lega italiana antivivisezione: d’intesa con le comunità islamiche, si procede allo stordimento elettrico preventivo dell’animale da macel-lare, garantendo così la “convivenza dei valori”. Con la buona volontà, le mediazioni si trovano. Purché si riconosca che stiamo costruendo un nuovo modello sociale di cui l’immigrazione sarà componente vitale, non marginale.
Lo Stato moderno europeo costruì quattro secoli fa il suo apparato repressivo nella lotta al vagabondaggio e nel contenimento dei pericoli sociali della miseria. Ma la distinzione fondata allora fra i “nostri” poveri da segregare e/o proteggere, mentre i poveri “forestieri” erano semplicemente da cacciare, non regge più le dinamiche della geopolitica e della demografia. Ne consegue, come scrive la Kyenge, che l’immigrazione deve farsi «progetto»; perché senza di essa non c’è ripresa né «risorgimento ».
Accogliamoli tuttiè proposta che sgomenterà una classe politica sprovvista di visione storica, sballottata negli anni scorsi nell’oscillazione fra la pietà e lo spavento delle emozioni popolari. Temo che non sia pronta a discutere queste ragionevoli proposte per salvare gli italiani e gli immigrati. Perfino dopo la tragedia di Lampedusa abbiamo sentito ministri riproporsi portavoce di una funzione di mero contenimento; fingendo di ignorare che, mentre loro facevano la faccia feroce, in Italia si estendevano aree di irregolarità e marginalità. Inutili sentinelle di guardia a un bidone.

IL LIBRO Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati, di Luigi Manconi e Valentina Brinis (Il Saggiatore, pagg. 114, euro 13)

il Fatto 24.10.13
Scontri a Roma: i filmati scagionano i sei arrestati
Il Gip: “Non hanno attaccato le forze dell’ordine, né lanciato bombe-carta”
di Valeria Pacelli


Sono stati i video a scagionare i sei ragazzi finiti agli arresti durante gli scontri dello scorso 19 ottobre a Roma. Gli stessi video con i quali le forze dell’ordine avrebbero dovuto identificare i “violenti” e metterli sotto processo. Alla fine però le cose sono andate nel verso opposto. Le immagini finite in quei nastri infatti dimostrano come i sei, accusati di resistenza a pubblico ufficiale, in realtà non hanno preso parte agli scontri che ci sono stati davanti il ministero dell’Economia. Ieri ci sono stati gli interrogatori di garanzia e il gip Riccardo Amoroso avrebbe dovuto decidere se convalidare o meno gli arresti. Alla fine, tutti sono stati rimessi in libertà. Sentenza questa impugnata, a fine serata, dal pm romano Luca Palamara. Determinanti per la scarcerazione sono stati appunto i video che testimoniano come i ragazzi stavano semplicemente partecipando alla manifestazione. Addirittura un video, finito sul Tg1, mostrava come i fermati di sabato non avessero assolutamente lanciato bombe carta né tanto meno altri oggetti contro la polizia che presidiava i palazzi del potere.
SIGNIFICATIVA è la storia di Annunziata Celeste, 22enne di Napoli, finita in manette mentre attraversava via XX settembre, sede del ministero dell’Economia. A raccontare come è stata arrestata è il padre che ieri, insieme a un centinaio di persone, si trovava davanti al carcere di Regina Coeli. “Mia figlia – spiega Corrado Celeste – era venuta a Roma per manifestare democraticamente e da un filmato che ho potuto visionare, si vede lei che aiuta una sua amica caduta prima di essere arrestata”. “Sono orgoglioso della sua solidarietà verso l’amica caduta – prosegue il padre – perché se fosse scappata forse non l’avrebbero fermata. Lei studia all’università a Napoli ed è una ragazza tranquilla. Siamo in democrazia ed è quindi normale poter partecipare a cortei. Ieri le volevo consegnare un libro di Sciascia, ma purtroppo non è stato possibile: io ho fiducia comunque nella giustizia e nelle regole dello Stato”, conclude. Ed è lo stesso padre che quando ha saputo della scarcerazione della figlia tra le lacrime ha urlato “In Italia c’è una giustizia”. Come Annunziata, un altro ragazzo di 24 anni è stato arrestato. Si chiama Giovanni Sacco ed è anche lui campano, precisamente di Caserta. Giovanni è stato arrestato nel tratto di strada che va da Porta Pia – la piazza dove si è conclusa la manifestazione di sabato e dove sono state montate le tende – a Piazza Fiume. Il ragazzo, difeso dall’avvocato Francesco Romeo, stava camminando insieme ad alcuni amici quando si è infilato un berretto. Questo è bastato per far scattare le manette da parte di alcuni agenti in borghese in quanto il giovane “dava l’impressione di volersi travisare”, come cita il verbale di arresto.
DAVANTI AL GIP Riccardo Amoroso i legali di Giovanni Sacco hanno presentato una sequenza di fermo immagine che hanno convinto il giudice a ritenere che non ci fossero le condizioni per l’arresto. “Il Gip lo ha detto chiaramente – ha commentato l’avvocato Francesco Romeo – il giovane, come tutti gli altri, non doveva e non poteva essere arrestato”. Sono queste due delle storie dei sei finiti in carcere. Si tratta di Massimo Forina, 23 anni, Rafael Campagnolo, 30 anni, Giovanni Sacco, 24 anni, Sara Vertuccio, 24 anni, Annunziata Celeste, 22 e Raffaele Durno, 50enne. Dopo ieri sono ritornati tutti in libertà. E fuori dal carcere di Regina Coeli, dove sono stati trattenuti in questi giorni, ad aspettarli oltre i parenti amici, hanno trovato anche una folla che esprimeva loro solidarietà, “Tutti liberi” urlano e stavolta lo sono davvero.

l’Unità 24.10.13
I pesci piccoli
In cella per reati minori e carcerazione preventiva

Le statistiche sulla detenzione in Italia: il 40% è dentro per imputazioni o condanne legate alla Fini-Giovanardi sulle droghe
di Salvatore Maria Righi


Nei numeri c’è tutto: tre su quattro, tra i 64.758 che sono in gabbia, sono pesci davvero molto piccoli. O addirittura pesciolini finiti non si sa come nella rete, come i minorenni clandestini rinchiusi nel carcere di Catania per istigazione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Il vero problema è chi sia giusto incarcercare, cioè chi debba stare dentro e quale modello vuole darsi questo Paese» sintetizza Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, un osservatorio da cui il pianeta carceri si vede piuttosto bene, in ogni sua piega e fino all’ultima pietra. Un mondo a volte infernale, raramente normale, per la gran parte il disastroso campo di battaglia lasciato a valle dagli effetti della Bossi-Fini e della Fini-Giovanardi, le due leggi che hanno avuto il potere di riempire le celle senza abbassare di una virgola rispettivamente il problema dell’immigrazione e quello della droga. Pesci piccolissimi sono ad esempio i piccoli consumatori e spacciatori che gravitano intorno alla cocaina e agli altri stupefacenti che hanno preso piede negli ultimi anni. Secondo gli ultimi dati in possesso di Antigone, il 39,44% dei detenuti è rinchiuso per un’imputazione o una condanna legata alla legge sulle droghe. Il 35,19% è straniero, uno su tre. E in questo caso, come sottolinea Gonnella, gli effetti della Bossi-Fini sommano quelli indiretti a quelli diretti, perché un extracomunitario che finisce dentro per la vendita abusiva di cd o altri beni, rientra comunque nell’alveo normativo della disciplina contro l’immigrazione clandestina.
L’altra piaga storica delle nostre carceri, l’uso e l’abuso del carcere preventivo, un parcheggio in attesa di giudizio che a volte è diventato esso stesso la pena, è sceso si fa per dire al 37,17% dei detenuti. «Una tendenza che è stata innescata dal decreto legge promosso dalla Cancellieri, per ridurre il più possibile l’impatto della custodia cautelare spiega Gonnella ma il vero punto critico e il problema è il totale ingolfamento del sistema processuale, per via della valanga di processi legati ai reati su droghe e immigrazione, tanto che spesso l’istituto viene usato un po’ a casaccio. Sempre meno legato, o quasi mai, alla ricognizione dei veri motivi che la disciplinano, ossia il pericolo di fuga, quello di reiterazione del reato e dell’inquinamento delle prove».
Il risultato, come ha detto il senatore Luigi Manconi è che il carcere è diventato un enorme incubatrice sociale dove spostare e abbandonare tutte quelle persone, le fasce socialmente più deboli e precarie, di cui lo Stato non riesce più a prendersi cura. La prigione, quindi, come supplente dei servizi sociali e in buona sostanza del welfare che, sottolinea il presidente di Antigone, «non esiste più, dobbiamo prenderne coscienza: una realtà di cui i nostri istituti di pena sono tutt’altro che esenti, in quanto ad effetti e conseguenze». Dentro strutture che in alcuni casi rievocano le pagine di Silvio Pellico o le immagini del Regno Borbonico, coi suoi fasti e le sue decadenze, in celle dove ci si ammala e si soffre ancora per malattie che fuori di lì sono state debellate, come la scabbia, la turbercolosi, le epatiti, si vive una realtà quotidiana in cui la popolazione rinchiusa è più che raddoppiata. 22 anni fa c’erano 31.058 detenuti, oggi sono appunto 64.758, dati aggiornati al 30 settembre. Il 170% di affollamento, 170 detenuti ogni 100 posti letto (140 per il Dipartimento): record della Ue. Molto basso il tasso di alfabetizzazione: il 15,3% della popolazione reclusa è analfabeta, o non ha titolo di studio, o con licenza elementare. A proposito di pesci piccoli e di grandi criminali, il 60,45% dei detenuti reclusi per una condanna deve scontare una pena inferiore ai 3 anni. «Credo che i tre quarti della popolazione carceraria corrispondano all’immagine suggestiva tracciata da Papa Francesco aggiunge Gonnella che con le sue parole svolge un fondamentale ruolo di pedagogia sociale al pari del Presidente della Repubblica, che al di là di come la si pensi, nell’unico messaggio alle Camere del suo mandato ha scelto proprio di occuparsi del tema carceri. Mi auguro anzi che questa forza pedagogica delle cariche istituzionali riesca a orientare le decisioni della classe politica. Il nodo, ancora una volta, è il sistema penitenziario nel suo complesso: adesso pagano solo i poveri. L’equità non vuol dire solo mettere dentro anche i ricchi, perché non si risolvono le cose con la detenzione di uno come Berlusconi che sconterà la giusta pena per i suoi reati, ma soprattutto significa far uscire chi è finito dentro solo per una storia personale poco felice o sfortunata». L’avaria e la deriva di una macchina della giustizia che, secondo Gonnella, è cominciata anche quando qualcuno ha indicato i lavavetri come un simbolo dell’illegalità: «Succedeva nella civilissima Firenze pochi anni fa, e credo che da lì abbiamo cominciato a perdere il senso comune, sostituendo la sicurezza sociale con quella della proprietà e spinti dalla retorica della paura. La dismissione dello stato sociale, l’intolleranza e la xenofobia, sono questi problemi che paga in gran parte chi sta in carcere, ancora prima del sovraffollamento che è un problema europeo, non solo italiano, e che è pura demagogia: non servono nuove carceri, serve capire bene chi deve starci dentro».

l’Unità 24.10.13
Cervelli e non solo, quelle migliaia in fuga dall’Italia
Nel libro e documentario «Vivo altrove» le esperienze di giovani emigrati
di Claudia Cucchiarato


C’è di tutto, non solo cervelli in fuga, di cui si parla fin troppo, e spesso in modo approssimativo. Tra le decine di migliaia di giovani italiani che ogni anno oltrepassano le Alpi per andare a cercare fortuna altrove, in un posto in cui il lavoro sia una speranza concreta, ci sono soprattutto «persone normali». Come Joele, che in Inghilterra, come tanti altri coetanei, cercava un lavoro, anche umile, e la possibilità di imparare meglio una lingua che nelle nostre scuole si continua a studiare poco e male. O come Valentina, una ragazza di Salerno che ho intervistato pochi mesi fa: diplomata in moda all’Accademia delle Belle Arti di Brera, oggi commessa in una catena di panetterie di matrice italiana che nel Regno Unito spopola. «Vendo il pane a Londra perché vendere il pane qui può permettermi di vendere, un giorno, anche qualcos’altro», mi diceva. «Vendere il pane a Roma o a Milano, rimarrebbe vendere il pane e basta, per chissà quanti anni».
Due storie simili, quelle di Joele e di Valentina, se non fosse per il tragico finale della prima, che porta solo ora sotto le luci dei riflettori una realtà quotidiana, taciuta, sopportata con rassegnazione da decine di migliaia di famiglie, ogni anno. La realtà dei giovani che, spinti dalla curiosità ma anche da un sistema italiano marcio in tutti i suoi gangli, mettono in uno zaino le poche cose che posseggono, prendono un volo lowcost e si trasferiscono a Berlino, ad Amsterdam, a New York o in Australia. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2012 sono aumentati del 30 per cento i registrati all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire): quasi 80.000 persone in più in un solo anno. E possiamo supporre che siano almeno il doppio, visto che soprattutto chi si trasferisce in un altro paese Ue non sa nemmeno cosa sia l’Aire. La maggior parte sono giovani, laureati o diplomati, e provenienti dal Nord Italia: Veneto e Lombardia in testa. Ben diversi, come profili, dai migranti che nel secolo scorso partivano con la «valigia di cartone» dalle zone più povere della penisola.
Nuovi espatriati «transnazionali», costantemente connessi con la famiglia o gli amici, postano su Facebook o su Twitter le loro piccole conquiste quotidiane, le speranze e le disillusioni. Già, perché non tutto è facile e non tutto arriva subito, altrove. L’estero non è quasi mai l’Eldorado che ci si immagina. Le difficoltà, le contraddizioni della vita oltre confine sono in agguato, soprattutto per quelli che (e sono la maggioranza) partono senza avere alle spalle un sostegno economico. L’integrazione nelle società straniere è un’altra caratteristica dei nuovi migranti: imparano meglio e più in fretta lingua, usi e costumi della società di accoglienza rispetto ai loro predecessori del XX secolo. Ma non sempre è facile, la discriminazione o la difficoltà a farsi strada come si vorrebbe, particolarmente nei contesti di periferia, sono tra i problemi più citati dalle persone (diverse centinaia) che ho intervistato negli ultimi anni.
Io stessa me ne sono accorta forse tardi: vivo a Barcellona, ho scelto questa città, mi considero fortunata perché mi posso mantenere facendo un lavoro che mi piace, sono circondata da cose che considero belle e usufruisco di servizi pubblici che in Italia non possiamo nemmeno sognare. Eppure, anche qui ci sono migliaia di connazionali che accettano lavori poco appaganti, niente affatto in linea con il curriculum sudato sui banchi dell’università. E la recente «invasione» di italiani inizia, per fortuna molto timidamente, a preoccupare qualcuno, in un paese con il tasso di disoccupazione più alto d’Europa.
Se si confermasse il movente del razzismo, la tragica fine della storia di Joele sarebbe straordinariamente triste e, voglio supporre, isolata, poco rappresentativa di un fenomeno che in fondo ci parla di un’Italia incapace di trattenere il suo patrimonio più prezioso: le persone giovani e curiose che all’estero trovano, con difficoltà, una speranza. Ricorderebbe gli episodi di intolleranza che vivevano gli italiani di New York o di Melbourne fino alla metà del secolo scorso, documenti da Gian Antonio Stella nel libro L’Orda. Quando gli albanesi eravamo noi. Tuttavia, questa storia non ci esime da una riflessione sul tipo di Europa che avremmo voluto e che invece ci siamo ritrovati. Un’Europa in crisi, politica, economica, in cui anche noi italiani possiamo essere, oggi, Orda.

Repubblica 24.10.13
Quell’Aula fantasma in Campidoglio “Noi, consiglieri senza lavoro”
Roma bloccata, Marino sotto accusa
Il sindaco: mancano i soldi, non prendo in giro la gente
di Sebastiano Messina


UNA volta erano accusati di riunirsi troppo, solo per incassare i ricchi gettoni di presenza. Adesso sono in subbuglio perché si riuniscono troppo poco: e bisognava vederli, i consiglieri del Pdl radunati sotto la statua di Marc’Aurelio, intonando l’inno di Mameli attorno alla sagoma di cartone del sindaco Ignazio Marino. Colpevole di aver lasciato il Consiglio comunale — o meglio: l’Assemblea Capitolina, come l’ha ribattezzato la legge per Roma Capitale — senza una sola delibera da approvare. L’ultima volta, s’è riunita per ricordare i settant’anni della deportazione degli ebrei dal ghetto. Poi stop.
“Ma ogni seduta costa settemila euro, e io mica posso convocarne una per la delibera sulla signora Proietti…” spiega allargando le braccia il quarantenne Mirko Coratti, che dell’Assemblea è il presidente. Cosa c’entra la signora Proietti? C’entra, perché nella cartella con la scritta “Proposte di deliberazione” la prima della lista è la numero 67: “Alienazione di un terreno gravato da uso civico ai sensi dell’articolo 8 della legge regionale numero 6 del 27 gennaio 2005 in favore della signora Proietti…”. Seguono la concessione di una servitù di passaggio e la modifica di uno statuto. Con un’avvertenza, però: “Non pronte”. Non si possono né discutere né votare.
Tutto qui? E dove sono le delibere per applicare il programma di Marino? L’opposizione, perfida, ha già fatto il confronto con i primi tre mesi della giunta Alemanno: l’ex sindaco fece approvare 165 delibere alla sua giunta (e 19 dal Consiglio), mentre il suo successore è fermo a quota 76 (e solo 15 sono state votate dall’Assemblea). Così in Campidoglio si è diffuso il sospetto che la macchina da guerra del sindaco-ciclista si sia ingolfata, magari per l’inesperienza dei nuovi assessori o per le tensioni nella maggioranza.
Ma lui, Marino, non vuol sentirne parlare. E da Firenze, dov’èandato per l’assemblea dei sindaci, avverte: “Roma non si governa solo con le delibere. Io ho chiuso la discarica di Malagrotta, ho pedonalizzato i Fori Imperiali, ho eliminato le auto blu per tutti gli assessori: e l’ho fatto con i poteri del sindaco e della giunta, senza dover firmare nessuna delibera. Ma questo non significa che pensiamo di amministrare senza delibere: ci mancherebbe. Le faremo, le delibere. Ma non ora”. E perché non ora? I consiglieri si lamentano di essere lasciati a non fare nulla. “Le stiamo scrivendo, le delibere. Sui lavori pubblici. Sull’urbanistica. Sulla casa. Sulle scuole. Ma se mi mettessi a scrivere raffiche di delibere senza copertura economica prenderei in giro i romani a vantaggio di pochi privilegiati, come ha fatto chi mi ha preceduto, lasciandoci un disavanzo di 867 milioni” Negli uffici del Campidoglio, quelli che si affacciano sul panorama mozzafiato del foro romano, si racconta però di una illuminante conversazione tra il sindaco e un suo strettissimo collaboratore. “Ma perché, domanda il sindaco, quando ti chiedevo una cosa durante la campagna elettorale tu la facevi subito e adesso passa una settimana e ancora non si vede niente?”. “Semplice, gli risponde l’altro, perché se voglio andare a Ostia a piedi ci metto due ore e mezzo, se voglio andarci in bici ci metto un’ora, se voglio andarci con la macchina del Comune ci metto una settimana: un giorno ha le ruote bucate, un altro manca il volante, un altro ancora il motore è grippato, e quando il meccanico ha finito l’autista è in sciopero”. Dietro la metafora della macchina per Ostia ci sono gli inevitabili sospetti su un segretario generale e su un ragioniere generale ereditati dalla giunta Alemanno e i mal di pancia dei consiglieri che continuano a diffidare di un sindaco che s’è scelto gli assessori con i curricula e ora si ritrova in trincea senza avere alle spalle un robusto alter- ego come fu l’esperto Walter Tocci per il primo Rutelli. Restando nella metafora automobilistica, il presidente Coratti giura: non è del Pd che Marino deve guardarsi. “Siamo tutti sulla stessa auto, c’è chi guida e chi assiste il pilota: se si arriva primi si vince insieme, se si va a sbattere ci si fa male tutti”.
Eppure la prova che ci sia uno scontro sotterraneo, e neanche tanto invisibile, è nell’unica delibera che proprio ieri è stata inserita nel fascicolo dell’Assemblea, quella che stabilisce i criteri per le nomine negli enti e nelle aziende comunali, insomma il sottogoverno. La delibera c’è, ma non verrà messa all’ordine del giorno. Perché l’idea di Marino di sfoltire le nomine ed escludere gli ex sindaci, consiglieri e deputati non entusiasma affatto un pezzo della sua maggioranza. “Se la mettiamo in discussione adesso, non passa il bilancio” avverte Coratti. Il quale, ricordando la valanga di 120 mila ordini del giorno ed emendamenti con i quali il Pd impedì ad Alemanno di privatizzare l’Acea, teme che la stessa tecnica venga adottata per bloccare il bilancio preventivo (che poi sarebbe quello del 2013, altra eredità del centrodestra). Marino concorda: “Questione delicata, meglio parlarne dopo”. Ma l’ostruzionismo non lo spaventa affatto: “Quando facevo i trapianti, ero abituato al back-to-back, uno dopo l’altro: io sono abituato a restare in piedi anche 23 ore davanti a un tavolo operatorio. Non so se i miei oppositori sarebbero capaci di fare altrettanto”. A occhio e croce, lo sapremo presto.

Repubblica 24.10.13
Israele. Febbre d’amore
di Fabio Scuto


Niente infermiere ebree al turno di notte negli ospedali pubblici israeliani, perché fra le corsie si sta aggirando una contagiosa epidemia: l’amore. L’Israel National Service, aderendo alla richiesta di un gruppo ultra-sionista — il Lehava che sostiene la separazione netta con gli arabi e si batte per impedire unioni “miste” fra ebrei e non ebrei — ha deciso che le infermiere volontarie che prestano servizio in ospedale invece che andare sotto le armi non potranno più lavorare dopo le 9 di sera. Questo, “per evitare di facilitare ogni contatto con la popolazione araba”. Il turno di notte sarà effettuato solo da uomini. La decisione è una vittoria della campagna condotta da rabbini estremisti e altri movimenti di estrema destra in Israele, per evitare il contatto di qualsiasi tipo tra ebrei e arabi israeliani, in particolare tra le donne ebree e uomini palestinesi. La mobilitazione contro il servizio notturno delle infermiere è partita l'anno scorso, dopo le notizie emerse su diverse, pericolose, “relazioni intime” sbocciate tra volontarie ebree e medici palestinesi che prestano servizio negli ospedali pubblici israeliani. Il messaggio è chiaro: “Fate la guerra, non fate l’amore”.

Corriere 24.10.13
Le nazioni divise su Scientology: vera religione o setta manipolatrice?
di Marco Ventura


Cos’è la Chiesa di Scientology? Un’associazione a delinquere che sfrutta la libertà religiosa per commettere reati? Oppure una confessione perseguitata per la sua fede?
Il 16 ottobre la Corte di Cassazione francese ha confermato una condanna per truffa del 2009. Alcuni membri di Scientology, incluso il leader in Francia, sono stati condannati a pene detentive sospese. Il Celebrity Centre e la libreria parigina Scientologie Espace dovranno sborsare seicentomila euro di ammenda. La condotta dei condannati non è scusata dal presunto scopo religioso, hanno deciso i giudici francesi. La vendita di «vitamine» nel programma di purificazione e le altre pratiche incriminate sono un reato e basta.
L’indomani, il 17 ottobre, la corte d’appello di Amsterdam ha riconosciuto che le pratiche di Scientology non differiscono da quelle di altre comunità religiose e che dunque le somme incassate dall’organizzazione nello svolgimento delle sue attività sono esenti da tasse.
Può sembrare che i giudici boccino Scientology a Parigi e la promuovano ad Amsterdam semplicemente perché i due casi sono diversi in fatto e in diritto. Invece, le due sentenze si fondano su una differenza profonda.
I giudici bocciano o promuovono Scientology perché diverge il loro approccio al fatto religioso. I giudici francesi sottoscrivono la politica anti-sette dei governi transalpini. Tracciano un netto confine tra propaganda religiosa e «manipolazione mentale»; tra appartenenza confessionale e «soggezione psicologica». Viceversa i giudici olandesi non vedono il confine. Le lezioni di felicità del fondatore Ron Hubbard, per la corte di Amsterdam, «non sono diverse dalle attività religiose di altre istituzioni ecclesiastiche». La Chiesa di Tom Cruise cercherà di portare il caso parigino alla Corte di Strasburgo, che nel 2007 ha implicitamente riconosciuto lo status confessionale di Scientology Mosca. L’appello si concentrerà probabilmente sulle imprudenze procedurali dei magistrati francesi. Ma il dilemma resterà al cuore del caso: è possibile distinguere tra fedeli liberi e fedeli schiavi di una chiesa? 

il Fatto 24.10.13
Si fa presto a dire democrazia
Accecati dalla “tempesta perfetta” abbiamo frainteso la primavera araba
di  Cat. Sof.


È il solito vizio di noi occidentali: riversiamo sugli altri le nostre aspirazioni e frustrazioni. Quando abbiamo capito che al di là del Mare Nostrum c’era un fermento, una volontà di cambiamento, l’abbiamo subito cavalcata, dando per scontata con la rivoluzione è cosa buona e giusta. Un vizietto diffuso specialmente a sinistra. Quindi la Primavera araba è stata una sorta di dogma incontrovertibile. E ancora una volta ci siamo accorti che continuiamo a leggere la storia con gli occhiali distorti dei nostri desideri più che con la reale conoscenza di quelle aree.
Solo pochissimi, in Italia e nelle nostre democrazie occidentali, sanno veramente decifrare cosa succede nei paesi del Nord Africa. Però ci affascinava l’idea che un popolo di giovani, armati di telefonini e twitter (questo ci piaceva da matti, la rivolta via social network), facessero saltare le teste del cattivo di turno, che fosse un Mubarak o un Gheddafi.
In Italia soprattutto, e in particolare nel fronte antiberlusconiano, c’era un’ansia di identificazione: se hanno buttato giù loro lo zio della nipote di Mubarak, ce la faremo anche noi a far fuori il nostro piccolo dittatore. Quello che accoglieva Gheddafi baciandogli l’anello e faceva pubblici complimenti alle amazzoni del leader libico. Poveri illusi. Se ce ne fosse bisogno ricordarlo, ancora una volta i nostri desiderata si sono scontrati con una realtà ben diversa da quella che abbiamo idealizzato.
ERGO, NEL GIORNO dell’anniversario della nuova Libia (nata 2 anni fa subito dopo la cattura e l’uccisione di Gheddafi) vale la pena fare il punto. E lo facciamo da una prospettiva completamente diversa, grazie a un libro acuto e intelligente uscito l’anno scorso in Inghilterra a firma di Pankaj Mishra. Si intitola From the Ruins of Empire: The revolt against the West and the remaking of Asia (Dalle Rovine dell’Impero: la rivolta contro l’Occidente e la ricostruzione del-l’Asia).
In pratica si analizzano i movimenti indipendentisti a cavallo tra Ottocento e Novecento, attraverso una serie di personaggi per lo più ignoti in Occidente, ma che sono fondamentali per la storia, non solo islamica, di quei luoghi. Dalla Cina, all’Asia minore fino a paesi del Nord Africa. Si chiamano Jamal al Afgani o Liang Quinchao, Ali Shariati e Tagore (l’unico un po’ più noto da noi). Sono un po’ i Mazzini e i Garibaldi locali, quelli che hanno teorizzato la nascita di nazioni moderne e l’emancipazione dalle dominazioni coloniali cercando una terza via. I temi trattati sono ancora più che attuali, a oltre 100 anni di distanza: nazionalismo, rapporto tra modernità e tradizione, ruolo dell’Islam, per sintetizzare.
Secondo Pankaj Mishra, le primavere arabe sono solo una continuazione del cammino di questi popoli in cerca di un’identità. Quindi il discorso è molto più complesso delle nostre semplicistiche semplificazioni. È un discorso che parte dalla fine dell’Ottocento e arriva alle rivolte dei nostro giorni. L’islamismo, l’ascesa del fondamentalismo e il ritorno del dispotismo in molte di quelle regioni stupisce solo noi ignari osservatori occidentali, che pensavamo all’instaurare delle democrazie con operazioni chirurgiche di innesto indolore. Facciamo fuori i tiranni e i popoli del Medio Oriente saranno come noi. Non è stato così perché non erano queste le premesse. Pankaj Mishra lo spiega bene e racconta anche come Jamal al-Afgani, teorico della liberazione dal potere occidentale, sia poi diventato uno dei teorici più feroci dell’islamismo radicale. Un Osam bin Laden ante litteram.
Tutto era scritto, bastava studiare un po’. Prendere in mano il proprio destino, per quei popoli, è un cammino lungo e molto più tortuoso di quello che una ipotetica “tempesta perfetta” (come la definì il segretario di Stato Hillary Clinton) potrebbe spianare.
 
LE ROVINE DELL’IMPERO Pankaj Mishra Editore Guanda pag. 450

il Fatto 24.10.13
Croci e delizie: il Belpaese delle grandi mostre (a caso)
di Tomaso Montanari


SOLO IN ITALIA SE NE ORGANIZZANO COSÌ TANTE: ALLESTIMENTI PRESTIGIOSI MA ANCHE PACCOTTIGLIA COMMERCIALE. PICCOLA GUIDA PER ORIENTARSI

Uno dei problemi delle mostre è che se ne parla solo in pagine di giornali comprate a caro prezzo dagli sponsor o dai produttori di quelle mostre. Dunque è difficile avere una guida affidabile: una che ti dia le stellette della qualità (fino a tre), ma anche le crocette dell’abiezione (per farci una croce). Ma visto che questa pagina non l'ha comprata nessuno, ci possiamo provare. Prendiamo due mostre su Canova: quella alle Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo a Milano (e che poi andrà al Metropolitan di New York) presenta sei opere inedite e splendide, ritrovate per caso alla Galleria dell’Accademia a Venezia, ed è un piccolo gioiello. Dunque merita tre stellette. Quella di Assisi, invece, merita tre crocette: perché è una mostra di occasione, senza un vero scopo se non promuovere la candidatura di Perugia e Assisi a capitali europee della Cultura nel 2019. E anche perché a causa sua è andato distrutto un preziosissimo originale di Canova.
Anche Antonello da Messina al Mart di Rovereto merita almeno due crocette. Perché le opere sono meravigliose, ma la mostra sfrutta il nome di un grande maestro del passato per portare il pubblico in un museo d’arte contemporanea, senza creare alcun dialogo tra passato e presente. Senza dire che ha strappato alle loro collezioni siciliane (anche attraverso pressioni politiche) opere che non avrebbero dovuto viaggiare. E il catalogo in forma di intervista al curatore segna un punto di non ritorno nella degenerazione pop-narcisista del genere mostra.
Tre crocette piene per Amore e Pische a Palazzo Te a Mantova: un specie di minestrone di opere il cui nesso è chiaro solo al curatore (o almeno lo si spera), e che nasconde gli affreschi di Giulio Romano con una serie di paraventi da ospedale: davvero pessima.
Tre crocette con speciale menzione di desolazione per la mostra-kolossal Verso Monet, che apre dopodomani alla Gran Guardia di Verona e che ricopre di pubblicità le prime pagine dei giornali. È il sequel sul paesaggio dell’aberrante Raffaello verso Picasso che l’anno scorso infestò la Basilica Palladiana di Vicenza. Stesso taglio a-storico e pseudo-lirico: inconfondibili marchi di fabbrica del mostrificio diretto da Marco Goldin, geniale imprenditore delle mostre-trash. Il comunicato stampa si conclude con una citazione da Monet: “A chi gli chiedeva se dipingesse ancora dal vero, rispondeva che questo non era interessante, perché ‘il risultato è tutto’”. Non si fatica a vedere il transfert di Goldin: a chi gli chiede se queste ammucchiate di capolavori sono ancora mostre, egli risponde che la questione non è interessante: il risultato al botteghino è tutto.
Veniamo in Toscana: due crocette per Andy Warhol a Pisa, che draga collezioni di secondo ordine per farci credere di essere a Manhattan: invano. Una stella per Diafane Passioni. Avori barocchi dalle Corti europee: a parte il titolo da fotoromanzo, la mostra meriterebbe anche di più, ma stringe il cuore vedere la condizione del Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, che la ospita. Tra polvere, cartellini sconnessi e annoso disordine, viene da chiedersi se non sarebbe meglio curare ciò che è stabile, prima di dedicarsi all’effimero.
Tre stelle invece per la raffinata mostra sul Gran Principe Ferdinando de’ Medici, agli Uffizi. Una mostra fondata su una ricerca vera, ma capace di parlare a tutti. Quasi un miracolo, a Firenze.
A Roma c’è una situazione paradossale: il bimillenario di Augusto si celebra alle Scuderie del Quirinale (con una mostra da una crocetta almeno: confusa, allestita male, incapace di comunicare), mentre l’Ara Pacis, il monumento augusteo per eccellenza (ora purtroppo racchiuso nello scatolone di Richard Meier), ospita una mostra che si intitola Gemme dell'Impressionismo (peraltro da una stella: i quadri sono bellissimi): ma è possibile una simile schizofrenia?
La domanda vera, tuttavia, è: perché negli ultimi vent’anni in Italia si sono fatte molte più mostre che in America, in Germania o in Francia? E perché queste mostre sono mediamente molto più pretestuose, brutte, inutili? Certo, fa piacere vedere che a Torino centinaia di persone fanno la fila sotto la pioggia per vedere Renoir alla Galleria d’arte moderna, ma è un fatto che in Italia, più che altrove, le mostre sono spesso diventate un fenomeno prettamente commerciale. La colpa è del-l’onda lunga dell'idea di Alberto Ronchey (ministro per i Beni culturali tra il 1992 e il 1994) di dare in concessione ai privati i cosiddetti servizi aggiuntivi dei musei: librerie, shop, ristoranti, ma anche “l’organizzazione di mostre e manifestazioni culturali, nonché di iniziative promozionali” (così l’articolo 117 del Codice dei Beni culturali). Da allora non c’è concessionario dei “servizi aggiuntivi” dei musei (che si chiami Civita, Electa o Mondomostre) che non organizzi ogni anno dieci-ne di mostre.
E se la privatizzazione non è riuscita a fare avere ai musei italiani un ristorante o una libreria decenti, è però invece perfettamente riuscita a trasformare le esposizioni da occasione di formazione collettiva in una specie di luna park, tunnel degli orrori incluso.
E ormai quella del curatore di mostra è divenuta una professione autonoma: proprio ieri la Fondazione Prada e la Qatar Museum Authority hanno lanciato a Venezia un concorso internazionale per curatore di mostra. I candidati devono presentare un video non superiore a due minuti (!) e una pagina in cui spiegano come e perché vorrebbero fare una mostra. Che sarebbe come bandire un concorso per “scrittori di saggi scientifici”: uno fa una mostra quando ha qualcosa da dire (alla comunità scientifica e al grande pubblico), non lo può fare di professione, “a prescindere”.
Non per caso, un concorso per recensore di mostre non lo bandisce nessuno.

il Fatto 24.10.13
Come combattere il negazionismo
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, l'iniziativa di due senatori Cinque Stelle poi respinta da Grillo e bocciata in aula aveva fatto credere per un momento che l'Italia avrebbe avuto una legge contro il negazionismo. Dopo lo squallido video di Priebke è riesplosa la polemica. Quale è il suo parere?
Nicoletta

“LA VERITÀ STORICA non può essere fissata per legge”, è la risposta della maggior parte degli storici e degli studiosi (la gran parte di essi al di sopra di ogni sospetto) a cui si rivolge questa domanda. Eppure c'è qualcosa che non va. Una delle norme transitorie della Costituzione italiana dichiara illegale ogni tentativo di ricostituire il partito fascista. Se non ci fosse stata quella norma (che dal punto di vista costituzionale è certamente discutibile) siamo sicuri che i vari episodi del neofascismo italiano (a cominciare dal Msi) sarebbero stati contenuti nei limiti di ciò che, comunque, a lungo è stato definito “estraneo all'arco costituzionale” e inammissibile a governare? Va poi considerato il fatto che il negazionismo è in grado di produrre immediate conseguenze storiche e politiche nel prima e nel dopo dell'evento negato. Nel prima, libera i delittuosi regimi che hanno realizzato o accettato la Shoah, dalla responsabilità di un immenso delitto. Ma così facendo ne cambiano radicalmente l'immagine anche umana e culturale e cambiano l'immagine e il senso del conflitto (che diventa contrapposizione di potenze rivali per questioni di territorio e non “liberazione”). Nega inoltre una massa immensa di eventi che spiegano, giustificano o danno un senso alterato a quasi ogni episodio degli anni di egemonia fascista e nazista in Europa. E poi, come mai a nessuno è venuto in mente di negare i gulag e l'universo concentrazionario sovietico, fra i laboriosi storici che si sono occupati di negare la Shoah? Eppure si tratta di persone politicamente schierate a destra. Evidentemente il loro problema non erano i campi, erano gli ebrei. Da vittime ingombrano troppo (lo stesso sentimento che gli antisemiti provano per gli ebrei da vivi). E infatti non si negano gli orrori della guerra e dei regimi dispotici, ma solo lo sterminio degli ebrei che diventa una invenzione degli ebrei, per ottenere il risarcimento che spetta alle vittime. Mentre resta confermato che i russi dissidenti (però non tutti, però non le loro famiglie) venivano davvero mandati a morire. C'è poi la questione delle leggi razziali. Esse, dovunque siano state votate e applicate, non prevedevano alcuna via di scampo e di sopravvivenza, non prevedevano differenza fra adulti e bambini, sani e malati, vecchi e giovani. Erano leggi totali, senza precedenti nella storia moderna e contemporanea. Dovevano per forza produrre risultati totali, cioè non la deportazione come pena (l'orrore dei gulag) ma la deportazione come sterminio (il senso di Auschwitz, mai negato dagli organizzatori, in tempo reale). Una legge contro il negazionismo richiede un lavoro attento e cauto e ben calibrato di buoni giuristi. Ma è sullo stesso piano di valore e urgenza delle leggi contro le discriminazioni di tutti i tipi. Non possiamo ammettere, senza favorire un caos fascista, un “tu sì e tu no” della Storia. Non è in discussione il giudizio su una battaglia, ma una svolta paurosa dell'umanità. Negarla, negando milioni di testimoni (pochissimi vivi e moltissimi morti) è un delitto che va punito. Specialmente mentre fascismo e antisemitismo tornano a farsi vedere dovunque.

Repubblica 24.10.13
Negazionismo. Se una legge vuole punire chi cancella la Shoah
Il caso Priebke riapre la discussione tra coloro che vogliono affidare la materia al diritto penale e chi invece difende la libertà di opinione e si oppone a una “verità di Stato”
di Adriano Prosperi


Col processo e con la condanna di Priebke l’Italia aveva dato una lezione di civiltà giuridica al mondo intero. Non vendetta, solo giustizia: una regolare estradizione dell’assassino delle Ardeatine dall’Argentina, un processo, la sentenza. E dopo la condanna la concessione dei benefici dell’età. Così l’antico capitano delle SS ha potuto muoversi tranquillamente per Roma in mezzo agli eredi delle sue vittime. Ne ha fatto uso per rivendicare un miserabile orgoglio di soldato e per negare l’ingranaggio di morte di cui era stato un piccolo anello. Dietro di lui intanto altri pensavano a come farne un’icona politica dopo il vicino decesso. A favore del disegno c’era la prevedibile benedizione della Chiesa e il consueto facile perdono italico. Ma stavolta dall’alto di quel Vaticano che non aveva visto il rastrellamento degli ebrei del 1943 qualcuno ha visto il disegno e ha inceppato il meccanismo. E subito dopo l’onore dell’Italia civile è stato salvato dal popolo di Albano Laziale. È fallito così il tentativo di una burocrazia cieca e di un manipolo di antisemiti in tonaca di inscenare una celebrazione del morto e del nazismo nei luoghi bagnati dal sangue delle vittime.
Ma da qui le cose hanno preso la strada sbagliata. Dopo la collera immediata e sacrosanta del popolo di Albano è subentrata quella dei poteri statali, dei partiti, dei rappresentanti della comunità ebraica. Ora, l’ira è ottima consigliera quando si deve reagire all’ingiustizia: ma non è con l’inchiostro dell’ira che si possono scrivere le leggi. Una legge è qualcosa che si scrive con attenzione, pensando a quello che ne deriverà. Non si legifera a furor di popolo. Non per questo sono state create costituzioni liberali e rappresentanze elettive. Invece stavolta, a caldo, alla vigilia del 16 ottobre, è stato proposto in Parlamento un emendamento all’art. 414 del codice penale che estende la pena del carcere (da uno a cinque anni), già prevista per i colpevoli di apologia e istigazione di delitti anche a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità.
Ora, di leggi sbagliate ce ne sono tante in Italia: e siccome si ricorre sempre e solo al carcere abbiamo in Italia la vergogna di carceri orrende che scoppiano di abitanti. Ma questa non è solo una legge sbagliata: una norma penale contro un reato di opinione non può entrare nel codice di un paese erede dei principi dell’Illuminiperasmo senza alterarlo in modo sostanziale. Quanto agli effetti di una simile legge basta guardare ai paesi che ne hanno già di simili. È bastata una sentenza austriaca contro David Irving per fare di un sedicente storico che nessuno prendeva sul serio in Inghilterra, un martire della libertà di pensiero. Il suo caso ha fatto scuola. Nella civiltà dello spettacolo ci sono legioni di aspiranti alla “visibilità” pronti a imitarlo. Lo scandalo è la via universale al successo. Una condanna per negazionismo è oggi un buon biglietto d’ingresso sul palcoscenico televisivo della cultura di massa. I più furbi lohanno capito subito: lo mostrano gli echi a caldo del caso Priebke. E dietro l’intellettuale che invoca il suo superiore diritto a dubitare ci sono masse di analfabeti civili stufi di rituali di una memoria subìta.
Non per niente Georges Bensoussan ha scritto che «oggi la Shoah è talmente commemorata da generare insofferenza». Bisogna dunque, secondo lui, che dalla politica della memoria si passi alla politica della storia. Ebbene, proprio questo e non altro è il punto. Oggi con la scomparsa della generazione dei sopravvissuti ai lager sta venendo meno la loro opera di “testes veritatis”: un’o- preziosa, svolta vincendo resistenze profonde, sfidando la distrazione e il rifiuto di un mondo che già all’altezza del 1945 era preso da altre cose e voleva solo voltare pagina. Con altri strumenti si dovrà dunque affrontare la minaccia della dimenticanza e della negazione: due facce della stessa realtà, anche se la menzogna del negazionismo è immensamente più grave perché è la continuazione con altri mezzi della strategia nazifascista.
Non fu per caso se notte e nebbia avvolsero lo sterminio: cancellare le tracce, disperdere le ceneri, furono le strategie di una deliberata amputazione della memoria. Se le potenze dell’Asse avessero vinto, se a Stalingrado i russi non avessero resistito, vivremmo in un mondo che non saprebbe nulla della Shoah. Non è andata così: e oggi nel mondo risollevatosi a fatica dall’abisso c’è una diffusa coscienza di ciò che ci spetta. Sappiamo che la memoria dell’accaduto, la conoscenza e lo studio infaticabile dei fatti sono la sola fragile difesa di una specie umana che non voglia ricadere nell’orrore. E, nonostante l’opinione diffusa, va detto che questo riguarda in particolare gli italiani. L’autoassoluzione che ci siamo generosamente impartiti ha lasciato tutto il peso dell’antisemitismo e della Shoah sulle spalle tedesche. Che cosa fecero o non fecero le autorità politiche e le guide religiose del paese mentre si scivolava sul piano inclinato della caccia all’ebreo e dello sterminio? Qui la ricerca è appena cominciata: non tutti gli archivi sono aperti, ma già, grazie per esempio alle scoperte di Giorgio Fabre e alle più recenti indagini di Lucia Ceci, è possibile rispondere alla domanda di come Mussolini riuscisse a tacitare Pio XI e a tirarsi dietro la Chiesa nell’operazione delle leggi razziali del 1938. Un’operazione con cui l’Italia fascista batté nel tempo la Germania. Quelle leggi ebbero il primo banco di prova nella scuola. Da qui dunque bisogna ripartire, dal luogo dove tutto è cominciato. Una scuola pubblica rinnovata, un sistema di conservazione e trasmissione di memorie e saperi – biblioteche, archivi, formazione di ricercatori e insegnanti – potrebbero essere le armi per far fronte al negazionismo e più ancora alla labilità della memoria dei popoli e degli individui. Ma l’impresa di una campagna di alfabetizzazione civile di un popolo inebetito dal consumo televisivo non è né facile né popolare. Più facile varare un’altra leggeinutile.
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Per quanto odiose siano è sempre sbagliato regolare le opinioni con i codici. L’ira anche sacrosanta si rivela pessima consigliera dei legislatori
Gli italiani si sono troppo generosamente autoassolti per il loro passato nel tentativo di lasciare tutto il peso dell’antisemitismo sulle spalle dei nazisti

Repubblica 24.10.13
Così in Germania si è deciso di varare una norma
Come si difende la democrazia
di Michael Stürmer


Lasciare libero corso alla menzogna può agevolare l’odio razziale, assecondare ideologie violente
Tutto ciò diventa pericoloso quando nascono movimenti politici che si ispirano a queste teorie

In Germania la negazione dell’Olocausto è punibile dal diritto penale, altrove no. Entrambe le soluzioni hanno importanti argomenti dalla loro parte.
La libertà d’opinione è un bene prezioso, e segna la linea di demarcazione tra democrazia e dittatura. La dittatura non può sopportare opinioni devianti e nasconde verità scomode nella “neolingua” di Orwell. La democrazia segue certo il modello del mercato delle opinioni dove alla fine vince la verità e null’altro che la verità. Ma il diktatdella political correctness, per essere onesti e franchi, non le è ignoto. La favola dei nuovi abiti dell’imperatore trova il suo posto da qualche parte tra democrazia e dittatura. La dittatura annuncia che l’imperatore indossa gli abiti più belli, la voce d’un bambino constata che l’imperatore è nudo.
Ma lasciamo da parte favole antiche e nuovi costumi: la libertà d’opinione finisce, ove comincia ildiktat dei fatti. O almeno così dovrebbe essere, e invece non è così. L’ex presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, il quale, ossessionato dall’odio non si limitava a giochi e parole, combinava la minaccia di annientamento nucleare contro lo Stato d’Israele con l’affermazione che non ci fosse mai stato un Olocausto, che tutto fosse stato nul-l’altro che un’invenzione sionista. Il suo successore Rohani, che sembra o è considerato il più civile tra gli ayatollah al potere, ha intanto rinunciato a mobilitare sul tema Israele, per non disturbare i negoziati sui controlli sugli armamenti nucleari e sulla riduzione delle sanzioni.
Non è un nuovo passo nel processo d’approfondimento, eppure il possesso della verità, della semiverità o della menzogna è in ogni momento un’arma nello scontro tra opinioni e poi nell’uso delle armi. Il negazionismo dell’Olocausto, ideologia statale in Iran e in parte del mondo arabo, mobilita i guerrieri della Jihad, aiuta a istituire dittature militari e cementa l’unità ideologica, là dove altrimenti già da tempo guerre civili avrebbero distrutto tutto. La Siria è l’ultimo esempio.
Può la democrazia perseguire penalmente la negazione pubblica del genocidio industriale degli ebrei? E dovrebbe farlo? Il pericolo è che i negazionisti dell’Olocausto parlino con disprezzo del divieto loro imposto, e lo trasformino in presunta prova che una scomoda verità viene nascosta e coperta. Ma allo stesso tempo, comunità o società democratiche non possono permettere che la propaganda assassina circoli liberamente. L’odio razziale come follia individuale, tranne in casi estremi, è pressoche impossibile vietarlo, ma è ben possibile proibirlo come forza che consente di costituire partiti e movimenti politici.
Ciò vale anche se ci proiettiamo verso l’esterno. Per Konrad Adenauer, Padre della Patria, nulla era più importante che il conquistare fiducia. Non soltanto la fiducia dei tedeschi nella democrazia liberale, bensì ancor di più la fiducia dei vicini verso la Germania. A tale scopo non bastarono né il Piano Marshall né la politica di “benessere per tutti” di Ludwig Erhard: ci volle anche da noi un processo di civilizzazione del discorso politico. Certo, Adenauer permise a molti ex “camerati” di restare o tornare attivi nella vita pubblica. Ma alla condizione di chiamare Crimini i Crimini de nostro passato. La libertà d’opinione, nei fatti, è un bene supremo della democrazia. Ma ha i suoi confini là dove lo Stato di diritto e la democrazia sono in pericolo.