venerdì 25 ottobre 2013

l’Unità Lettere 25.10.13
Un’Italia che vuole cambiare
di Carlo Patrignani


Caro direttore, ho letto più volte il suo editoriale di insediamento «Vent’anni dopo: l’Italia che vuole cambiare» e ho trovato i segni chiari dell’avvio di una nuova era per l’Unità proprio nel novantesimo della sua fondazione ad opera della più fine, raffinata e «signorile» mente del ’900, il laicissimo Antonio Gramsci, le cui opere riservano ancora sorprese nella comprensione del suo pensiero umano nuovo per quei tempi ma forse anche per i nostri. Ci vollero anni prima che la geniale idea dei «consigli di fabbrica» quale organismo di «educazione» degli operai al governo della fabbrica e dello Stato, divenisse realtà: senza nulla togliere ad altri (Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto), mi preme citare un protagonista in particolare: Bruno Trentin, il leader della Fiom che realizzò non solo la Flm, ma volle le 150 ore di «formazione continua» perchè, sosteneva, anche l’operaio doveva esser messo nelle condizioni di saper «suonare il violino». Altra epoca dalla nostra! Furono gli anni delle grandi «riforme di struttura», che cambiarono volto al Paese. La nazionalizzazione dell’energia elettrica, la scuola dell’obbligo, l’ospedalizzazione nazionale, lo Statuto dei Lavoratori con cui la Costituzione varcava i cancelli delle fabbriche, come pretendeva l’ideatore del «Piano del Lavoro», l’autorevole leader della Cgil, Giuseppe Di Vittorio. «Non daremo più soldi ai lavoratori ma un bene più prezioso: la libertà sindacale e la libertà politica», scriveva Riccardo Lombardi, che progettò l’unico tentativo, non andato in porto, di liberare Gramsci durante il trasferimento da San Vittore al Tribunale Speciale, al presidente del Consiglio del primo centro-sinistra, Amintore Fanfani. Che perseguivano, questi «eroi solitari» e laici della sinistra italiana, cui si può affiancare l’inquieto Antonio Giolitti sempre alla ricerca del socialismo possibile? Certamente il benessere materiale - il lavoro, il salario, la casa - cioè il riscatto economico della «povera gente», ma anche il benessere immateriale - la cultura, il tempo libero per se e per gli altri, la qualità della vita - cioè l’emancipazione dall'ignoranza per la crescita personale. Cercarono di coniugare assieme uguaglianza e libertà e non a caso ebbero il coraggio di criticare l'invasione dell'Ungheria del ’56, avendo visto, per tempo e prima di altri, che in quel «socialismo realizzato» nell’Urss, c’era qualcosa che non andava bene! Sì, c’è ancora un’Italia che vuole cambiare, che aspira a qualcosa di più, di nuovo, ad una società migliore e radicalmente diversa: né francescana né opulenta, ma laica e più ricca, perché diversamente ricca.

Repubblica 25.10.13
Carlassarre, giurista del comitato “La via maestra”, spiega perché le riforme vanno fatte senza modificare la procedura prevista dalla Costituzione
“Pericoloso toccare l’articolo 138, l’esecutivo non intervenga”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — «Non è vero quello di cui qualcuno ci accusa. Non è vero che non vogliamo cambiare niente». La costituzionalista Lorenza Carlassarre è una dei firmatari de La via maestra, il documento promosso da coloro che si stanno battendo contro la deroga all’articolo 138 della Carta.
Cos’è che andrebbe cambiato?
«Diciamo da anni che questo bicameralismo paritario non va bene. La trasformazione del Senato in Camera rappresentativa delle autonomie potrebbe essere una soluzione importante, sarebbe un organo di raccordo tra le regioni e lo Stato, una sede in cui la voce dei territori è presente nelle istituzioni centrali».
E poi?
«Ovviamente la riduzione del numero dei parlamentari. E se vogliono il rafforzamento del governo, due cose: il potere di revoca dei ministri da parte del presidente del Consiglio, che è colui che li nomina e - secondo me - potrebbe revocarli già adesso. E il voto di fiducia nella sola Camera».
Tutti punti toccati dai “saggi”.
«E allora mi chiedo: perché non l’hanno fatto subito? Perché, invece di approvare la deroga al 138 (manca solo l’ultimo passaggio alla Camera) non hanno usato questo tempo e questo procedimento per fare queste riforme?»
Cosa sospetta?
«Non comprendo perché non sia stato fatto, così come non comprendo perché non sia stata fatta la legge elettorale. Il 138 è una norma sulla produzione giuridica.Secondo i giuristi più illustri, fa parte della costituzione “materiale”, non si può derogare».
Qual è il pericolo?
«Che altre modifiche della Costituzione possano essere fatte con modalità del tutto diverse dal 138: tempi più brevi, quindi tutto meno pensato. Un unico organo che comprende commissioni della Camera e del Senato. E un’anomala presenza del governo, che può fare emendamenti mentre si riduce la possibilità che li propongano i singoli parlamentari».
Il referendum previsto alla fine del percorso di riforme non è una garanzia sufficiente?
«La politica in questa fase ha abituato i cittadini ad andare avanti per slogan, non per ragionamenti. È molto faticoso riuscire a coinvolgerli tanto da farli andare avotare e da far loro comprendere, in alcuni momenti, la gravità di alcune cose».
Quali?
«La strada pericolosa della personalizzazione della politica, dell’individuazione di un capo, dell’esaltazione di una persona come particolarmente dotata di forza perché eletta direttamente dal popolo. Così si mettono in pericolo le garanzie del costituzionalismo liberale, che nasce per porre limiti e regole al potere, in modo che non venga esercitato arbitrariamente».
Cosa pensa dell’incontro della maggioranza e del governo con Napolitano?
«Che il presidente incalzi la maggioranza perché faccia la legge elettorale, a parte i rilievi su chi ha convocato e chi no, mi sembra importantissimo. È l’unica cosa che avrebbero dovuto fare».

il Fatto 25.10.13
Parlamento in quarantena, il Colle riscrive il Porcellum
Ultimatum ai partiti: legge elettorale prima della sentenza della Consulta
Ma l’accordo non c’è, e Napolitano si prepara ad autorizzare un decreto
di Paola Zanca


Dai, andiamo a prenderci un caffè, almeno per oggi facciamo vedere che usciamo insieme”. Donato Bruno e Doris Lo Moro ci provano, a dipingersi in faccia le larghe intese. Escono dalla commissione Affari Costituzionali del Senato con in mano la bozza di riforma della legge elettorale. Sembrano d’accordo sul proporzionale e sul premio di maggioranza. Poi, a piè di pagina, elencano le “questioni aperte”. Il doppio turno, le preferenze, il quoziente. Praticamente tutto. E alla fine, rinunciano pure al caffè. Meglio rimettersi al lavoro che Giorgio Napolitano ha dato la scadenza. È il 3 dicembre, giorno della sentenza della Consulta sul porcellum. Manca poco più di un mese, quasi impossibile trovare un’intesa.
COSÌ, il presidente della Repubblica ha chiamato al Colle i ministri Gaetano Quagliariello e Dario Franceschini, accompagnati dai democratici Anna Finocchiaro e Luigi Zanda, dal Pdl Renato Schifani e da Gianluca Susta di Scelta Civica, e ha messo il Parlamento in quarantena. Quaranta giorni per evitare il male peggiore: quello di un Capo dello Stato senza il potere di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Già, perché quello che dirà la Consulta è facilmente immaginabile: la porcata firmata da Roberto Calderoli ha profili di incostituzionalità. E senza una legge elettorale valida, il presidente è privato di uno dei suoi poteri principali. Un caso mai accaduto nella storia repubblicana. È quello che ieri, Napolitano ha spiegato ai ministri e ai capigruppo di maggioranza. Mettendoli di fronte ad un bivio: “Dobbiamo evitare una rottura costituzionale mai vista - questo il senso del ragionamento - Ne va della vostra dignità, so che avete delle pregiudiziali, ma dovete fare uno sforzo. Serve un procedimento celere, tenetemi informato”. Il tono è drammatico e dietro il colloquio di un’ora aleggia lo spettro di un intervento senza precedenti: un decreto legge che riscriva la legge elettorale. Un fatto inaudito, che il ministro per i Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini respinge con fermezza, appena sceso dal colle.
MA A PALAZZO CHIGI ragionano in un altro modo. “È vero che la convocazione di Napolitano è inconsueta, ma è altrettanto vero che è inconsueto quello che si può verificare con la bocciatura del Porcellum. Se il presidente fosse privato del suo potere di scioglimento delle Camere, non ci sarebbero i requisiti di necessità e urgenza per un intervento del governo? ”. Così, il colloquio di ieri, assume il significato di una imponente opera di moral suasion a cui seguirà, se le divergenze tra Pd e Pdl continueranno ad essere insormontabili, un intervento straordinario su cui Napolitano dovrà mettere la firma. E la faccia. Per questo lancia l’ultimatum: per dire “Io ho fatto il possibile. Siete voi che ci avete costretto”.
La reazione dell’opposizione è durissima. Tanto che, in serata, il Quirinale ha dovuto annunciare una pronta convocazione delle forze politiche assenti al vertice di ieri. La Lega denuncia “indebite pressioni”. Fratelli d’Italia ricorda a Napolitano il suo “teorico ruolo super partes”. Il M5S grida alla “monarchia” e al “colpo di mano” (il Cinque Stelle Francesco Campanella aggiunge: “Ditegli che fa il presidente della Repubblica, gli straordinari non glieli paghiamo”). E Sel esprime “un certo disagio” per il comportamento del Colle.
Tutti, al Quirinale, mostreranno il massimo impegno per portare a termine la riforma in tempo utile per evitare la “bacchettata” della Consulta. Ma, per farcela, un testo definitivo in commissione dovrebbe essere pronto già la settimana prossima. Ci sarebbe un mese di tempo per approdare in Aula all’approvazione almeno di un ramo del Parlamento. Una tabella di marcia troppo rapida per essere vera.

Repubblica 27.10.13
Prodi e i senatori comprati nel 2008 “La peggior ferita alla democrazia”
Bersani: il Pdl si sganci dal Cavaliere
L’ex premier: non è una questione personale, parlino le istituzioni
di Tommaso Ciriaco


ROMA — La compravendita di senatori ha danneggiato soprattutto lui. Era premier, Romano Prodi. Era il Presidente del Consiglio al quale Silvio Berlusconi, secondo le accuse dei magistrati, scippò la maggioranza a Palazzo Madama. Nelle ore in cui il Cavaliere viene rinviato a giudizio, però, il Professore preferisce non intervenire ufficialmente. A chi ha modo di raggiungerlo telefonicamente in Cina — dove è impegnato in una serie di riunioni anche sull’Africa, legate al suo ruolo di inviato speciale dell’Onu — Prodi ripete soprattutto un concetto: «Non voglio dire nulla perché so che comprare dei parlamentari per alterare la rappresentanza popolare è la cosa peggiore che si possa fare in democrazia».
Ha appreso da poco degli sviluppi dell’inchiesta napoletana: «Ho saputo — assicura Prodi — perché ho ricevuto molte telefonate dall’Italia». L’opinione è che, come detto, si tratti di una ferita democratica: «Ma non voglio essere io a dirlo — sottolinea — perché sono parte in causa. E potrebbe sembrare una questione personale, mentre è esattamente l’opposto: è una questione istituzionale e di democrazia. Attendo che qualcuno lo dica».
Eppure, l’ex premier è convinto che la storia, alla fine, farà giustizia: «Fortunatamente sono all’estero e con qualunque interlocutore parli la questione viene vista in tutta la sua gravità. Anzi, viene considerata più grave di molte altre vicende di questi ultimi vent’anni che hanno fatto più rumore. Viene vista in modo più grave perché, semplicemente, è violazione della democrazia. E qui mi fermo».
Lì si ferma Prodi. Ma la novità è che nel Pd qualcosa inizia a muoversi. E prende forza il partito di chi si indigna. Uno è Pierluigi Bersani. Appoggiato a una colonna del Transatlantico di Montecitorio, l’ex segretario dem ragiona di quei mesi travagliati, spesi al governo come ministro del governo Prodi: «Sorpreso del rinvio a giudizio? Mah, è chiaro che allora, in base a ragionamenti politici, avevamo qualche sospetto. Qualcosa non andava». Si ferma un attimo, Bersani. Poi prosegue: «Ora mi chiederà se è possibile governare ancora con Berlusconi... La anticipo, dunque. La magistratura farà il suo corso, ma è chiaro che così diventa difficile governare con lui. Resta però da capire se il Pdl riuscirà ad affrancarsi dal Cavaliere. E poi, comunque, io ho sempre detto che larghe intese non dannola scossa, ma ci sono solo per affrontare una fase particolare».
Un altro che guarda con incrollabile scetticismo al governo con il Pdl è Pippo Civati: «Le larghe intese non devono diventare una scusa per non vedere la gravità di quello che è successo». E anche Vannino Chiti, ministro di quel-l’esecutivo, ricorda: «In quei giorni non avevamo le prove, ma avevamo la sensazione che si volessero usare tutti i mezzi. E questo è il berlusconismo tradotto in soldoni, per spostare uno o due e farci cadere».
Beppe Fioroni, invece, ha un giudizio più sfumato. Anche lui,allora, sedeva al governo: «Si capiva che c’era un coacervo di forze che lavorava per farci cadere. Internamente con mezzi politici, esternamente con mezzi di altra natura. La magistratura farà il suo corso, ma la colpa del capo non può ricadere sugli otto milioni di elettori del Pdl». Chi invece ce l’hasoprattutto con il Porcellum è il renziano Ernesto Carbone: «È l’ennesima follia di questa legge elettorale. Siamo stati “obbligati” a governare con Berlusconi. Speriamo che si riesca a cambiarla per far sì che questa esperienza sia l’ultima».

Repubblica 27.10.13
“Non si può più stare con Berlusconi con le larghe intese si è perso l’onore”
Parisi: serve un ripensamento radicale ma nessuno dice niente
di Giovanna Casadio


ROMA — «Qui si parla di venduti e comprati come se fosse una cosa da nulla. Questa è una questione molto più che giudiziaria. È una questione che chiama in causa i fondamentali culturali comuni, che rendono possibile la stessa convivenza sociale, la comune idea di persona e della sua libertà». Arturo Parisi, uno dei fondatori dell’Ulivo e del Pd, amico di Prodi e soprattutto ex ministro della Difesa, è indignato. Ma non sorpreso. E denuncia: «Di fronte a un episodio di questa portata mi attendo come minimo, minimo minimo la richiesta di un confronto esigente, un ripensamento profondo su come le larghe intese, prima che larghe, possano essere vere. Non ho sentito invece reazioni adeguate».
Intanto il governo Prodi è caduto per una compravendita di senatori?
«In genere capita che per cercare le cose nascoste si dimentichino quelle palesi. Non c’era bisogno di queste ultime rivelazioni per ricordarci come iniziò l’attacco di De Gregorio. Con la sua elezione a presidente della commissione Difesa, forse la più critica, e al Senato, dove la maggioranza era risicatissima. Una elezione resa possibile dal suo repentino passaggio dalla parte di Berlusconi, mentre in Parlamento era entrato con il centrosinistra e, per di più, dalla porta che sarebbe dovuta essere più stretta, quella di Di Pietro».
Un tradimento, quindi.
«Sì, difficile immaginarne uno maggiore. Ma innanzitutto il tradimento dell’impegno preso con gli elettori. Ho letto che il magistrato ha evocato al riguardo l’articolo 54 della Costituzione, quello che chiede ai cittadini investiti di funzioni pubbliche “il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Onore! Se c’è una cosa che è mancata nel corso di questi anni è proprio l’onore, anche verso se stessi. Come vede, tutto iniziò da lì».
E come continuò?
«Come era iniziato. Guidato dall’idea che ha segnato il modo in cui Berlusconi è stato in politica, e cioè dalla convinzione che ognuno abbia il suo prezzo. È il lascito più pesante che ci portiamo appresso».
Il centrosinistra può governare con il “carnefice” politico di Prodi?
«In effetti la domanda su come si possa condividere una responsabilità al servizio della Repubblica muovendo da posizioni così distanti sul piano dei valori, è ineludibile. Parlo dei valori. Dei comportamenti si interessano i magistrati. E nessuno è al riparo né da colpe né da errori. Ecco perché è necessario un ripensamento radicale. Dietro queste larghe intese esistono profonde divisioni a cominciare da un valore discriminante quale è quello dell’onore in politica».
Lei crede che nelle larghe intese il Pd perda l’anima?
«Se si pensa la profonda contrapposizione dalla quale eravamo partiti, e ancora più al modo in cui ci siamo arrivati, resto convinto che sarebbe stato meglio un governo istituzionale di scopo. Si è deciso per un governo politico e nel tempo si è perso di vista lo scopo: la ricostituzione delle condizioni che consentissero ai cittadini di scegliere e all’Italia di ripartire, cominciando soprattutto dalla modifica della legge elettorale».
Non la vede in vista?
«No. E meno che mai in un mese, prima cioè che la Consulta si pronunci il 3 dicembre. Come si può fare in pochi giorni quello che non si è fatto negli anni».
Una partita già persa?
«Una partita disperante. Pensi come sarebbero andate le cose se l’anno scorso la Consulta avesse accolto la richiesta sottoscritta da 1 milione e 200 mila firme, e avesse ascoltato l'appello dei cento costituzionalisti che l’avevano sostenuto. Siamo invece ancora all’alternativa di allora. Tra la sopravvivenza del Porcellum e il rischio di un Porcellum peggiore, una legge che priva i cittadini della possibilità di decidere del governo del paese senza restituire il diritto di eleggere i propri rappresentanti».
Il nuovo segretario del Pd farà la differenza?
«Già il fatto che su questo Renzi abbia aperto con chiarezza una sfida è un passo aventi».

l’Unità 25.10.13
Tesseramento Pd, in campo gli «osservatori»


Da giorni arrivavano segnalazioni di impennate sospette nei tesseramenti del Partito democratico in alcune province italianeCosì la commissione congresso del Pd ha deciso di vederci chiaro e di mettere in campo una serie di contromisure, a pochi giorni dalla prima tornata dei congressi territorialiPartendo da un dato positivo: il tesseramento si potrebbe avvicinare ai livelli del 2009, quando ci furono tra i 700 e gli 800mila iscritti.
La commissione sta lavorando alla comunicazione interna, per diffondere un codice di comportamento da tenere, per valutare eventuali incrementi sospetti del numero degli iscritti e stroncare tesseramenti «collettivi».
Già da alcune zone sono arrivate indicazioni di anomalie e la commissione ha deciso di verificare la situazione inviando degli osservatori. Così venerdì Roberto Morassut andrà a Lecce, Nico Stumpo a Catania e Giovanni Lunardon a TorinoToccherà a loro verificare in particolare che a ogni tessera corrisponda un versamento individuale della quota di 15 euro.
In alcuni casi, il tasso di incremento dei tesseramenti sarebbe addirittura del 400 percento rispetto all’anno scorso, facendo sorgere sospetti di irregolarità. Rispetto allo scorso anno, è doppio il numero dei tesserati a Lecce (per ora a quota 15mila), casi da verificare anche a Palermo, Caserta, Piacenza.

il Fatto 25.10.13
Le facce pulite del Pd e il voto sull’art. 138
di Tiziana Gubbiotti


Nel panorama desolante rappresentato dai parlamentari del Pd, proni ai voleri di Napolitano e Berlusconi, credevo che fra i senatori si potessero salvare almeno i nomi di tre donne: Rosaria Capacchione, giornalista impegnata sul fronte della lotta alla camorra, Stefania Pezzopane, molto attiva a favore delle opere di ricostruzione dopo il terremoto de L’Aquila, e Laura Puppato, sensibile ai temi dell’ecologia e delle politiche sociali. Scopro che tutte e tre hanno votato a favore dello scardinamento dell’art. 138, un atto che ritengo un autentico schiaffo in faccia nei confronti di chi, come me e altre centinaia di migliaia di persone, aveva firmato e chiesto di non affidare una decisione di tale gravità a un manipolo di nominati o, almeno, di consentire la possibilità di un referendum che coinvolgesse i cittadini in una scelta che riguarda tutti. È inutile illudersi: in Parlamento non si salva proprio nessuno.

l’Unità 25.10.13
Civati: Pd da Prodi a Rodotà «Con me stop larghe intese»
Aperta la campagna a Roma, appello anche a Vendola e Barca
Dice: «Nichi, fratello mio, dove ti abbiamo lasciato?»
«Se vinco cambierò tutti i dirigenti»
di Andrea Carugati


ROMA Il tono è soft, quasi sottovoce, ma i concetti e i progetti sono affiliati, radicaliPippo Civati lancia la sua campagna per le primarie Pd dal teatro Vittoria di Testaccio, nel cuore di Roma, e disegna un Pd totalmente rinnovato ma al tempo stesso rivolto al cuore antico dell’UlivoQuello spirito del 96 che «è stato tradito in questo ventennio».
Per questo Civati si propone di «dare a Prodi, che sarà molto incavolato per la storia della compravendita di senatori, la tessera numero uno del mio Pd», insiste sulla “caccia ai 101”, si rivolge in primo luogo «ai 3 milioni di elettori che abbiamo perso», ai delusi delle larghe intese, al popolo delle piazze di Rodotà. Prodi e Rodotà, dunque, ma anche Fabrizio Barca (molto citato) e Vendola, cui rivolge un appello pubblico: «Nichi fratello mio, dove ti abbiamo lasciato?».
Una candidatura tutta di sinistra, anche se Civati ci scherza sopra: «Io sono rimasto fermo, sono gli altri che sono scivolati a destraVedo molti dei nostri preoccupati do costituzionalizzare la destra, ma noi siamo nati per cambiare la sinistra: questo non è il congresso del Pdl!»Diritti civili, ambiente, sguardo agli esclusi sono tra i punti fermiUna stoccata a Letta: «Lui non sa scegliere tra Alfano e Vendola? Io sì».
Il governo col Pdl è sul banco degli imputatiIl primo applauso arriva quando Andrea Ranieri, il primo della squadra a prendere la parola, spiega che «la politica diventa rissosa negli spazi stretti dove vengono meno le alternative di idee e di valori»Civati è ancora più preciso: «Se vinciamo noi le larghe intese non vanno molto lontano, e cambierebbe tutto il gruppo dirigenteSi è dimesso solo Bersani, e non è una bella cosaOra è difficile vincere con le riserve, bisogna proprio cambiare gioco»
Lo dice senza gridare, «le porte si possono chiudere senza sbatterle, basta accompagnarle...».
Ma non è il tema del ricambio generazionale il piatto forte della sfida di Civati, classe 75 come Renzi. Sul palco accanto alla giovanissima Elly Schlein di OccupyPd c’è un maturo dirigente come Walter Tocci che mette una pietra tombale sulla sua generazione in politica: «Non siamo in grado di cambiare la Costituzione, meglio che ci pensi una nuova generazione...». Tocci s’incarica della pars destruens degli altri candidati, le «passioni finte» dei renziani con un «leader mediatico dietro cui si annidano i vecchi notabili che vendono la merce di prima a prezzi di saldo»E le passioni «tristi» dell’apparato che sostiene Cuperlo e che «ancora non ci ha spiegato la questione dei 101»Il concetto è semplice: «Solo con Pippo può davvero nascere il Pd e cambiare la sua vita interna»Schlein spara a zero sull’«eredità tragica di una classe politica di sinistra che dopo vent’anni non ha fatto autocritica, e ha reso la politica una cosa per pochi».
«Non bisogna piacere a tutti ma a qualcuno e saperlo rappresentare», dice Civati rivolto a Renzi«È vero che bisogna “cambiare verso”, basta che si vada nella direzione giusta è la mia è quella di sinistra. Ormai non usiamo più la parola “uguaglianza”, l’abbiamo sostituita con “equità” perché fa meno impressione...»E ancora: «Non possiamo aspettare l’ultima dichiarazione di Brunetta per sapere dove va il Pd, dobbiamo farci vivi in primo luogo con i nostri elettori, non con quelli del Pdl e di Grillo...».
Le questioni più spinose del governo alle prese con la legge di stabilità restano sullo sfondo (a anche le ricette alter-
native)«Le cose cambiano, cambiandole», recita lo slogan sul palco, e compare pure Crozza che sfotte in un video: «Sembra una canzone di Carmen Consoli»Il candidato ci ride sopra, e spiega la ripetizione: «Per anni abbiamo firmato promesse, impegni e carte d’intenti ma non si è cambiato niente».
In prima fila ci sono i parlamentari che lo sostengono, «pochissimi ma ottimi» li definisce lui: da Felice Casson a Laura Puppato, Corradino Mineo, Vincenzo Vita e poi i giovani Veronica Tentori, Luca Pastorini e Paolo Gandolfi Lucrezia Ricchiuti e l’ex leader di Arcigay Sergio Lo Giudice. Civati usa parole di stima per Renzi e Cuperlo, ma «sono molto più libero di loro». Utilizza molto l’ironia, anche quando si augura di «arrivare secondo, così poi faccio il vice e divento premier». Chiude parlando della figlia che sta per compiere un anno. «Credo che non mi potrà votare mai, perché quando avrà 18 anni la carriera politica del papà sarà già finita e io mi cercherò un lavoro».

Repubblica 25.10.13
“Cambiare sì, ma verso sinistra per dire addio alle larghe intese”
In campo Civati, l’anti-governo
L’intesa con Vendola è esplicita
di Lavinia Rivara


ROMA — «Ma quando devono finire queste larghe intese? Lo chiedo agli altri candidati, perché al congresso il giudizio deve essere chiaro». Pippo Civati ha scelto su quale terreno sfidare Renzi, Cuperlo e Pittella, suoi rivali nella corsa alla segreteria del Pd. È quello, spinosissimo, della alleanza con il Pdl, della durata del governo Letta. Un terreno su cui Civati si muove liberamente, visto che non neanche votato la fiducia all’esecutivo, cercando di occupare tutto lo spazio a sinistra che i suoi avversari gli lasciano. «Il mio giudizio è noto, io sono contro le larghe intese, per me devono finire una volta approvate la legge elettorale e quella di stabilità». E il sindaco di Firenze? Da oggi a domenica dirà la sua alla Leopolda, ma per ora non si spinge a tanto, non viola quel patto di non belligeranza stretto col premier. Però una stoccata al governo delle larghe intese gliela dà. «Enrico è molto più saggio e più prudente di me — esordisce Renzi a Radio Deejay— Io sono un po’ più radicale e penso che ci vorrebbe una rivoluzioncina in Italia, nel fisco, nella burocrazia, nella giustizia, nella pubblica amministrazione e anche l’establishment finanziario e bancario». Anche Civati vuole una rivoluzione, ma deve avere una direzione precisa. Del resto basta uno sguardo alla platea del teatro Vittoria, la location romana scelta per il lancio della sua campagna, per capire quale pezzo di Pd si muove attorno al deputato di Monza. Molti giovani ma anche molte facce della sinistra vecchia e nuova del partito: da Laura Puppato a Vincenzo Vita, da Felice Casson a Corradino Mineo, da Walter Tocci a Andrea Ranieri. Non c’è Fabrizio Barca, che però ha già spezzato una lancia per l’amico Pippo: «La sua mozione è un atto coraggioso». L’intesa con Vendola è esplicita. «Nichi, fratello mio, dove ti abbiamo lasciato?». Bisogna recuperare «al più presto l’alleanza con Sel e offrire agli elettori uno schieramento di sinistra che vada da Prodi a Rodotà». Solo così, sostiene Civati, si potranno ricondurre all’ovile quei tre milioni di voti persi nelle ultime elezione. Vendola ricambia la mano tesa: nelle mozioni dei candidati pd — dice in una intervista a l’Unità — c’è «una rimozione del presente» (larghe intese, crisi economica). In tutte tranne in quella di Civati.
Ed è sempre partendo da sinistra che il deputato di Monza lancia l’affondo contro il suo ex compagno di rottamazione. «Cambiare verso va bene Matteo, ma bisogna anche intendersi su quale verso. Perché io ho l’impressione che molti stiano scivolando a destra, verso una notte in cui, come dice Hegel, tutte le vacche sono nere. Anzi — ironizza — non si vedono neanche più le vacche». E invece bisogna ricordarsi che il Pd «è nato per cambiare la sinistra». Che vuol dire anche non inseguire il consenso a tutti i costi. E qui l’attacco al sindaco di Firenze è diretto: «Non bisogna avere paura di essere impopolari e si deve parlare anche di carceri e poveri, anche se non è figo o cool. Insomma non bisogna piacere a tutti, ma a qualcuno e saperlo rappresentare».
Se c’è invece un punto di riferimento saldo nel progetto di Civati quello è Romano Prodi. Intanto perché «sarà parecchio incazzato» dopo il rinvio a giudizio di Berlusconi per quella compravendita di senatori condotta contro il suo governo e poi perché «cambiare significa anche scoprire chi sono i 101 parlamentari democratici che lo hanno silurato e denunciarli». Per poi offrire al fondatore dell’Ulivo «la tessera numero uno del Pd del 2014. Ma — scommette il deputato di Monza — sarà dura convincerlo». La rottamazione però Civati non l’ha abbandonata. Non va bene, ad esempio, che dopo la non vittoria del 2013 si sia dimesso solo Bersani. La promessa è che se vincerà lui «cambierà tutto il gruppo dirigente». Però, ammette, è più probabile che lui arrivi secondo, «che è meglio anche perché chi arriva primo diventa segretario e soffre, mentre chi arriva secondo finisce che fa il premier». Un riferimento ironico forse a Letta, o alle ambizioni di Renzi. Che vengono comunque di nuovo stoppate da Gianni Cuperlo: «Matteo vuole fare il segretario del Pd, il candidato premier e il sindaco di una grande città. Ma tutte e tre le cose non si possono fare». Soprattutto però Cuperlo rivolge una supplica a Bruno Vespa, che lo intervista a “Porta a Porta”: «Basta domande su Renzi, se vuole gli do il suo numero di telefono...»

l’Unità 25.10.13
Renzi apre la sua kermesse a Firenze
Alla Leopolda anche Epifani
di Vladimiro Frulletti


Ci sarà anche la sindaca di Lampedusa alla Leopolda di Firenze che oggi pomeriggio apre i battenti per la quarta volta. Ancora non è certo se Giusi Nicolini riuscirà a essere presente di persona alla tre giorni che si concluderà domenica mattina con l’intervento di RenziIn caso contrario manderà un videomessaggio. Sindaci e amministratori locali (il congresso Anci che si sta svolgendo alla Fortezza da Basso chiuderà domani sera) comunque non mancherannoA cominciare dal presidente dell’Anci Piero Fassino. Del resto questa per Renzi dovrà essere la spina dorsale del suo nuovo Pd.
Quasi tutti presenti invece i parlamentari (della prima e dell’ultima ora) che si sono schierati con Renzi, compresi i ministri Franceschini e Del RioSenatori e deputati sono più di 200 (all’inizio della legislatura erano una quarantina) e come ha promesso il sindaco a Fabio Volo su RadioDeejay, saranno messi in mezzo alla genteSono già stati allestiti un’ottantina di tavoli rotondi («niente cibo» scherza il sindaco) e ognuno sarà coordinato da un parlamentare o un amministratore: Expò 2015, giustizia, tasse lavoro, scuola, immigrazione ma anche sovraffollamento delle carceri, alcuni dei temiAlla fine «mezza paginetta di proposta concreta», la richiesta di RenziObiettivo far uscire un insieme di proposte per il Pd che sarà«Diamo un nome al futuro» è lo slogan dell’edizione 2013 che per Renzi dovrebbe servire a lanciare un messaggio di speranza a cui sarà dedicata la giornata di sabato (interventi, non solo di politici ma anche di imprenditori e cittadini che si sono prenotati, da 4 minuti a testa) «Nessun piagnisteo su tutto che va male» assicuraQuanto al presente Renzi non si mostra stupito dall’accusa a Berlusconi di compravendita di senatori e rimarca la propria differenza dal premierPer il sindaco Enrico Letta è più saggio e più prudente di lui («io sono più radicale») che invece sogna «una rivoluzioncina».
CUPERLO DA LETTA
Intanto Letta ieri mattina ha visto Gianni Cuperlo che in serata a Porta a Porta ha ribadito le sue perplessità sulle reali capacità di Renzi di poter fare sindaco, segretario e candidato premier: «vuole fare troppe cose, ma tutte e tre non si possono fare»Col premier il deputato triestino ha discusso di legge di stabilità, situazione politica e ovviamente anche del congresso PdMercoledì il premier aveva parlato, a margine del congresso Anci di Firenze, con Renzi. L’obiettivo di Letta è tenere fuori il governo dalle fibrillazioni congressuali anche perché a renderne traballante
l’equilibrio già ci pensano le divisioni del Pdl. Insomma gli strappi non servonoAnche per questo per la prima volta alla vecchia stazione fiorentina ci sarà anche il segretario del Pd. Presenza che giustifica l’assenza di Sergio Staino come spiega il padre di Bobo che fin qui non s’era mai perso una Leopolda. L’intervento di Guglielmo Epifani è previsto per sabato in mattinata.
Ieri l’ex leader della Cgil era a Stoccolma, a casa dei socialdemocratici svedesi, al convegno organizzato dall’Alleanza dei progressisti, l’organizzazione che riunisce i partiti socialisti e democratici (dalla Spd al Pd, dal partito del lavoro brasiliano ai democratici Usa, dal Labour party inglese al partito del Congresso nazionale indiano) con l’obiettivo di superare l’Internazionale socialistaTema dell’incontro la costruzione di un new deal mondiale che abbia come baricentro la dignità del lavoroEd è su questo che è intervenuto Epifani che oggi sarà prima a Bolzano e poi a Trento a chiudere la campagna elettorale per le elezioni in Trentino Alto AdigeIl segretario del Pd a nome dei progressisti di tutto il mondo ha lanciato (in inglese) un vero e proprio appello per dare a tutti un lavoro dignitosoCondizione indispensabile per garantire a ogni essere umano una vita dignitosa e quindi base per avere in ogni paese misure minime di giustizia sociale«Solo una minoranza di lavoratori è tutelata da un accordo su salari e condizioni di lavoro fa notare dal palco Epifani 170 milioni di bambini di età inferiore a 15 anni lavorano invece di andare a scuola e, in alcune regioni, esistono ancora la schiavitù e il lavoro forzatoLa crisi ha aggravato soprattutto la situazione dei giovani sul mercato del lavoro»Punto di partenza, per Epifani, una azione globale e coordinata di tutti i progressisti verso i propri governi perché, spiega, nessun Paese, immersi come siamo in relazioni così interdipendenti, riuscirà mai a cavarsela da soloInfatti «soltanto un sistema internazionale basato sulla solidarietà e sul rispetto dei diritti degli individui, sancito dalle convenzioni dell’Onu e dell’Organizzazione internazionale del lavoro può fermare tali tendenze» dice Epifani. E forse è un caso, ma come suo primo impegno da (eventuale) segretario del Pd Renzi mette proprio un piano per «il lavoro vero» perché se «oggi un ragazzo entra in un centro per l’impiego esce senza aver trovato lavoroTutto funziona ancora con le raccomandazioni e con gli amici degli amici»Alla Leopolda il via è previsto alle 21 (diretta streaming su Unità.it) da parte dello stesso Renzi, subito dopo l’intervista alla Gruber su La7Poi alle 22 collegamento con Virus su Rai2.

il Fatto 25.10.13
Il nuovo “maanchismo” del Pd: “sì critico” e “rivoluzioncina”
di Andrea Scanzi


È l’ultima frontiera del maanchismo piddino: il “sì critico”. Lo ha sdoganato la senatrice Laura Puppato. Prima è andata alla manifestazione di Roma in difesa della Costituzione, accanto a Rodotà e Zagrebelsky. Poi, con coerenza capezzoniana, due giorni fa ha votato la devastazione dell’articolo 138. Ha detto “sì”, come 100 suoi colleghi (su 107). Però lo ha fatto con struggimento: il “sì critico”, che è poi più che altro un “sì pavido”. Nella sua instancabile opera di autodemolizione, il Pd non ha mai smarrito quel gusto sbarazzino per promettere una cosa e compierne un’altra. Se dice che non farà le larghe intese, le farà (dissociandosi però da se stesso, vittima di un perenne bipolarismo politico). Quando poi si allea con il centrodestra, lo fa “suo malgrado”, esprimendo sbigottimento per “le gravi anomalie” giudiziarie che caratterizzano il suo leader. E di cui il Pd si stupisce ogni volta. Come se, invece di avere per sodale Berlusconi, notoriamente mosso dallo stesso rispetto per le regole che nutriva Tyson per i lobi di Holyfield, avesse Gandhi. Chi non si fida del Pd non pecca in malafede, casomai in realismo spicciolo. Gli stessi dissidenti piddini , categoria ormai iscritta alla Siae con tanto di diritti d’autore (il marchio l’ha depositato Civati, sempre più Mogol dei quasi-ribelli), rispettano codici precisi e orgogliosamente cerchiobottisti. La ribellione deve essere sempre vaga, accennata, disinnescata. Modica e parsimoniosa, ben pettinata e mai granché disturbante. Se partecipassero alla rivoluzione, i dissidenti piddini lo farebbero con l’attrezzatura bellica dei Gormiti e Civati sarebbe il Subcomandante Playmobil. Sei a favore della Costituzione? Facile: basta seguire la Ricetta Puppato.
DA UNA PARTE abbracci la società civile e ammicchi ai costituzionalisti colti, dall’altra rispondi “sissignore” a Frau Anna Finocchiaro. Però, mentre obbedisci, ti mostri un po’ dispiaciuto. Per meglio dire: un po’ “critico”. L’approccio più volte usato da Re Giorgio Napolitano, maestro di tutti loro, che firmava ogni legge ad personam berlusconiana esprimendo perplessità (però intanto le firmava: tutte). Il Pd è assai attento ai dissidenti altrui, ancor più se grillini, forse perché invidioso di una tipologia politica che non ha e dunque non conosce. Anche quando la contrarietà pare massima, il dissidente piddino non vota contro: sarebbe troppo eretico. Meglio astenersi, più ancora abbandonare l’aula. Così l’apparenza è salva (e con essa la figaggine su Twitter). E al contempo si evita l’espulsione, che esiste pure nel Pd ma chissà perché fa meno notizia. Corradino Mineo, uno dei senatori più stimabili del Pd, era contrario alla distruzione della Costituzione. Non l’ha votata, e da quelle parti non è poco, ma neanche si è opposto: ha disertato il voto. Sempre Mineo, qualche settimana fa, ha scritto su Twitter che “nel decreto sul femminicidio il governo ha messo dentro di tutto”. Dando ragione alle critiche dei 5 Stelle. Quindi ha votato contro? No, a favore. “Turandosi il naso”. Nel Pd è tutto sbiadito e labile. Annacquato. Il loro ribelle preferito non è Che Guevara, ma Ponzio Pilato o magari Don Abbondio. Persino la rivoluzione, per bocca e ovvietà di Matteo Renzi, diventa “rivoluzioncina”, come comicamente sintetizzato ieri a Radio Deejay. Constatata l’impossibilità di essere coraggiosi, sarebbe bello che nel Pd si sforzassero quantomeno di dire “sì” quando è “sì” e “no” quando è “no”. C’è un limite anche al paraculismo. Forse.

il Fatto 25.10.13
Nuovo che avanza
Renzi e D’Alema. Chi è più cattivo?
di Daniela Ranieri


D’Alema teme Renzi perché Renzi è più cattivo di lui. Da 25 anni il piccolo grande Massimo ossessiona l’Italia. Ne seguiamo baffi, allusioni, opere e omissioni con pervicace interesse misto a speranza, come i prigionieri aspettano dal carceriere una parola, anche di disprezzo, che li liberi dalla coazione.
Finché aveva incarichi istituzionali o ruoli politici rilevanti, D’Alema è stato il carnefice perfetto per l’animo profondamente masochista dell’elettore di sinistra: critico e organico, occulto e conciliante, non bello e sexy, individualista e gerarchico, “diciamo” e “francamente”. Anche oggi che si è scelto il ruolo del diplomatico blasé che frequenta solo l’estero e si lascia incoronare presidente onorario del Roma Club Montecitorio (al posto di Andreotti), della coscienza interna-non-interna (“ormai sono un simpatizzante del Pd”), del cattivo che serve alla trama (come i nazisti in Indiana Jones), resta influente e opaco, e quello che dice sta sempre due passi indietro rispetto a quello che realmente intende.
LUI È L’INVENTORE di un particolare tipo di understatement, che si potrebbe chiamare italiano: non, come quello britannico, basato sull’abbassare i toni di una verità che ironicamente velata risalta ancora di più, ma nel-l’alzarli spostando il discorso in un’altra dimensione, su un registro sarcastico ed esoterico in cui la verità si autonega.
Quando, ad esempio, confessa a Marco Damilano (in Chi ha sbagliato più forte, Laterza) “La sinistra è un male, solo l’esistenza della destra rende la sinistra tollerabile”, dice la verità? E che genere di verità, nuda e cruda o ironica? Esprime una sua opinione in quanto lupus in fabula, o quella dell’italiano medio che lui percepisce con disprezzo, ma non incarna per superiorità antropologica? Per rispondere bisognerebbe prima chiarire se D’Alema è di sinistra, come è cretese chi accusò i cretesi di essere bugiardi. La verità asserita rimbalza da un registro all’altro, si sfilaccia, si svigorisce, fino a diventare una specie di diluizione, di ritrovato omeopatico della verità.
Di sé ha dato – e noi ci siamo presi – l’immagine del politico cinico, sottile tessitore di trame occulte e buongustaio di crostate a sigla di patti più o meno dicibili.
Ma oggi registriamo una crepa, un’aporia in questa rappresentazione: sul boccascena della sinistra ai ferri corti ha fatto il suo ingresso una figura inedita, con cui D’Alema non era pronto a interagire, abituato a essere deus ex machina di un potere da dividere per continuare a imperare, silurare, centounare.
Matteo Renzi è il suo vero nemico, e non per la sciocca trovata della rottamazione (D’Alema sa che ci vuole ben altro per mandarlo ai giardinetti), ma perché ha capito che Renzi è uguale a lui, anzi peggio di lui, ovvero è il suo antagonista più pericoloso.
Anche Berlusconi, che di D’Alema è il deuteragonista, è impaurito da Renzi, ma per motivi che hanno a che fare col consenso, con l’amore della gente che si traduce in potere. Renzi d’altra parte ha studiato alla sua scuola di comunicazione: meno politica, più emozione.
MA IL FREDDO stratega D’Alema rivela con umorismo sbilenco la piaga che Renzi gli ha aperto in mezzo al petto: “Se si vota nel 2015 fare un congresso nel 2013 per scegliere un segretario e un candidato premier è demenziale. E se nel frattempo arriva Nembo Kid, che facciamo? Lo escludiamo dalle primarie? ”. “Renzi? È solo un visitor”.
L’effigie sapientemente costruita da Renzi e dal suo staff del politico alla mano, candido, appassionato e impulsivo anche a scapito del realismo partitico, preoccupa D’Alema proprio in quanto costruzione, che gli elettori dem, sfiniti e delusi dai giochi di potere, accolgono con refrigerio.
Invece, la realtà psichica e pubblica delle loro figure si fonda sull’esatto speculare di quel che appare: Renzi è un politico freddo, astuto e cinico alla D’Alema, il quale è invece un uomo emotivo, collerico e a buon bisogno vendicativo (come rivela la sua meta-frase “Io faccio politica, non ho tempo di odiare”), che si rifugia nell’umorismo traditore di disagio, avendo perso il sarcasmo come affermazione del suo narcisismo, più fondato di quello dei suoi nemici storici, figuriamoci di quello dei suoi presunti alleati. Da chi dovrebbe sentirsi assediato: da Vendola, che ha già battuto con il distacco con cui Torquemada piega un eretico? Da Civati, che è il corrispettivo politico della matricola che denuncia il nonnismo? Da Fassina, che è il vice di se stesso?
È UNA GUERRA a quattro: nel-l’agone della sinistra sfasciata il vero D’Alema risentito e passionale lotta contro il vero Renzi gelido e distaccato, anche se noi ne vediamo solo i simulacri – il D’Alema sprezzante e velenoso e il Renzi emozionato e capace di slanci. Ultimo grande Papa laico intelligente di potere, presentandosi vinto, D’Alema manda al massacro Cuperlo, il suo padre Georg, bello e democratico. Ma soffre, perché vorrebbe dirci la verità, squarciare il velo e palesarsi come il Mago di Oz: da qui la sua dissonanza cognitiva: perdere con un finto buono, o ammettere che c’è in giro qualcuno più cattivo di lui.

l’Unità 25.10.13
Viaggio tra i «musi neri» colpevoli di clandestinità
di Luigi Manconi Federica Resta


«LA PRIGIONE DEGLI STRANIERI»: COSÌ CATERINA MAZZA DEFINISCE – NEL SUO LIBRO EDITO DA EDIESSE E COSÌ INTITOLATO i centri d’identificazione ed espulsioneRinunciando alla mistificazione lessicale che aveva indotto a qualificarli come di «permanenza temporanea» o di «permanenza temporanea e assistenza», il legislatore, quattro anni fa, ha così rinominato le strutture dove i migranti irregolari sono reclusi, oggi fino a diciotto mesi, in attesa di espulsioneTanto urgente da dover essere prevista con decretazione d’urgenza, tale modifica nominalistica non è stata però accompagnata né allora né in seguito da alcuna misura che mutasse la realtà di queste strutture, spesso ignorata anche in ragione della sostanziale inaccessibilità delle stesse, cui possono essere ammessi solo soggetti istituzionali o del privato sociale coinvolti in specifici progetti di assistenza e la stampa, sulla base, tuttavia, di specifica autorizzazione prefettiziaLa realtà effettiva dei centri mette a nudo carenze, illegittimità, persino i rischi cui di fatto sono esposti per struttura e modalità di gestione della vita in comune gli stranieri che vi sono trattenuti. E che vivono uno stato di vera e propria alienazione; di scissione, cioé, tra il proprio corpo, la propria fisicità e la propria esistenza materiale da una parte e la possibilità di riflessione dall’altraIn particolare, tutte le contraddizioni insite nella stessa disciplina di una forma di detenzione qualificata come amministrativa (e per questo priva persino delle garanzie del processo e della sanzione penali) solo perché applicata a chi nessun reato ha commesso né di nulla è imputato, salvo di essere nato altrove.
Pur non essendo meno afflittiva della sanzione penale (tanto più dopo la sua estensione fino a diciotto mesi), quella del trattenimento in questi non-luoghi destinati a non-persone è forse la misura che, più e meglio di ogni altra, rappresenta lo spirito delle politiche dell’immigrazione più recenti: la marginalizzazione, l’esclusione dalla sfera della cittadinanza e la soggezione a un sotto-sistema giuridico speciale, derogatorio delle garanzie e dei principi fondativi dello Stato di diritto. Costituito, da noi, dal reato e dall’aggravante (poi dichiarata incostituzionale) di clandestinità; da una costellazione di delitti (dall’agevolazione della permanenza illegale al reato di cessione d’immobile all’irregolare) volti a fare «terra bruciata» attorno allo straniero; dalla progressiva moltiplicazione dei casi di espulsione dall’incriminazione persino del disperato atto autolesionistico di chi arriva a bruciarsi i polpastrelli per non farsi identificare e dalla negazione al migrante irregolare di diritti fondamentali quali la possibilità di contrarre matrimonio.
Nasce così, in Italia come altrove, il «reato da muso nero», patologia e pathos, ad un tempo, dell’integrazione democratica che ha disconosciuto la necessarietà dell’interdipendenza umanaE quando la ricchezza della diversità si volge in minaccia, le comunità si definiscono non attraverso valori e progetti comuni, ma mediante ciò di cui hanno paura. Si identifica l’insicurezza, la devianza, l’oscura fonte della paura con il volto dell’estraneo, con lo sguardo dell’altro su noi stessi, che genera angoscia perché ci costringe ad interrogarci sulla nostra identitàE se questa non ha radici su cui fondarsi, non può che costruirsi contro l’alterità; l’appartenenza collettiva a un «noi» presuppone l’esclusione di tutti gli «altri», almeno finché la paura schiaccia la speranza e la fiducia in una convivenza non solo possibile, non solo necessaria, ma anche capace di arricchire sia «noi» che «loro».
Interrogarci sulle nostre contraddizioni, sulle nostre paure, sui limiti che ci impediscono di vedere nella differenza non un’insidia ma un’occasione straordinaria di crescita, può allora rappresentare un primo, timido, passo, per ripensare i nostri modelli di convivenza, la nostra idea di cittadinanza e di comunità politica; persino la nostra stessa identità.

l’Unità 25.10.13
Il femminicidio non è solo un fenomeno da punire
La violenza sulle donne si annida nella crisi avanzatissima dell’identità maschile
di Emma Fattorini


TANTE LE POLEMICHE CHE HANNO ACCOMPAGNATO IL DECRETO GOVERNATIVO SULLA VIOLENZA ALLE DONNE. MOLTE GIUSTE, MOLTE INGENEROSE. Quella più ripetuta è di essere stato affastellato insieme ad altri provvedimenti del tutto difformi. Ciò ha ferito tante donne e le tante legislatrici che si sono impegnate anima e corpo affinché la discussione sulla Convenzione di Istanbul avesse nelle commissioni e in aula un livello culturale, morale e politico, molto altoChe non credo sia andato persoUn lavoro che non si è tradotto pienamente nel decreto che però contiene cose buone nel metodo e nel merito: la rapidità e l’efficacia, la non verbosità massimalista, la genericità dei buoni sentimenti sempre corretti e benaltristi. Sì perchè tutte noi sappiamo che i problemi sono ben altri, che gli stereotipi, che la cultura e via elencando, ma intanto con questo decreto le donne portano a casa un pacchetto concreto: le corsie preferenziali nei processi, le modalità protette da garantire ai minori, la possibilità di rintracciare le entrate e le uscite dello stalker dal carcere, il permesso di soggiorno alle migranti.
Su due questioni il testo è davvero migliorato nel
corso della discussione: la prima riguarda la copertura finanziaria, che certamente è ancora insufficiente, ma che riaggiusta lo squilibrio iniziale tra le tre p.: punizione, prevenzione, e protezioneLa seconda riguarda invece un tema che il movimento delle donne ha discusso ed elaborato da tempo, dividendosi con argomentazioni serie e ponderateMi riferisco alla procedibilità d’ufficio (che si discusse in passato a proposito della legge sulla violenza sessuale) o, nel caso del decreto, all’irrevocabilità della querela.
Su questo c’è stato un dibattito molto acceso e pour cause. Personalmente diffido di ogni forma di procedibilità d’ufficio, perché toglie libertà alla donna, non risulta più efficace nella punizione, non funziona come deterrente, impaurisce ed espone la donna, qualora non si senta forte o semplicemente cambi idea, fosse anche per complicità con il suo torturatoreLe zone d’ombra tra amore e violenza, tra complicità e ribellione sono spesso imperscrutabili, e non possono mai trovare una soluzione legislativa davvero soddisfacente tra libertà e pena.
E, però il compromesso che si è raggiunto è equilibrato, e sufficientemente accettabile, perché prevede l’irrevocabilità solo per casi e reati gravissimi e diventa, invece per gli altri, revocabile, almeno in sede processuale. Questo lo ritengo particolarmente importante perché credo che la libertà e l’autonomia delle scelte femminili siano un «patrimonio» irrinunciabile.
C’è poi un aspetto che dovremmo ritenere non meno importante, quello dei minori: l’87% dei maltrattamenti avviene sotto gli occhi dei bambini e dei ragazzi. Spesso i giudici li affidano ai nonni paterni perché non crescano nell’astio verso quel genitore che si è macchiato del più efferato dei delitti e che rischia di renderli definitivamente e assolutamente orfani nel senso più orribile. E per questo si avvia una lungimirante politica, ancorché indiretta, di recupero dei maltrattanti.
Infine, per tornare alle ragioni profonde: se il fenomeno della violenza femminile non si può risolvere in termini punitivi, non ritengo neppure sia una «semplice» questione culturale, alimentata dai così detti e famigerati stereotipi che una mentalità più aggiornata e progressista supererebbe risolvendo così la questione. Purtroppo questa non è una cosa che si impara a scuola, con migliori programmi o indicazioni di comportamento più corretti. Con corsi di formazione o sensibilizzazione.
La violenza alle donne si annida nella crisi ormai avanzatissima dell’ identità maschile e della difficoltà femminile a relazionarsi con essaLa donna è una vittima che, paradossalmente, è tale perché è diventata troppo forte. E così la causa profonda, più che sull’ educazione, risiede nella fragilità delle relazioni tra i sessi, nella solitudine che li accompagna ed in quella che è diventata una vera e propria trasformazione antropologicaDi questo bisogna essere consapevoliSe non vogliamo fare chiacchere e lamentele dimostrative.

Repubblica 25.10.13
Tunisia nel caos, rivolta contro il potere islamista
Laici in piazza per contestare il partito Ennahda: “Tollera gli integralisti”. Scontri e feriti
di Giampaolo Cadalanu


«DÉGAGE, dégage, vattene via»: in Tunisia contro il governo islamista è tornato lo slogan del furore, quello che nel 2011 aveva finito per fare il miracolo, scacciando il tiranno Ben Ali, e che più di recente, con altre parole e in un altro Paese, l’Egitto, ha deposto il presidente islamista Morsi. Stavolta le urla dei manifestanti, scesi in piazza a migliaia alla Kasbah e in avenue Bourghiba a Tunisi, e in decine di altre città, sono rivolte contro Ennahda e i suoi militanti. Il partito islamista moderato al governo ha finalmente acconsentito a farsi da parte sull’onda delle proteste popolari degli ultimi mesi, dopo l’uccisione di storici rappresentanti dell’opposizione laica, e nell’ennesima dimostrazione del fallimento politico dei gruppi islamisti arrivati al governo sull’onda delle rivolte arabe. Dopo i Fratelli musulmani in Egitto, cade un altro baluardo del potere religioso instaurato dopo la storica stagione delle “primavere” mediorientali?
Tuttavia Ennahda non molla le redini del potere. L’anima laica del Paese scende in piazza con lo spirito dei giorni rivoluzionari, accusando il partito al governo di tolleranza verso gli eccessi islamisti proprio nel momento in cui le forze di sicurezza sono all’offensiva contro le formazioni qaediste in Tunisia, e si moltiplicanogli attentati anche contro l’esercito e la polizia.
È rabbia vera, tanto che a Kef, città d’origine di un agente ucciso dai jihadisti, la sede del partito è stata devastata e data alle fiamme, mentre a Beja centinaia di dimostranti hanno assalito la sede di Ennahda ferendo cinque membri del partito. Scontri fra studenti e militanti islamisti sono segnalati ovunque, da Tunisi a Sousse, a Gabès, a Kef.
La polizia nei giorni scorsi aveva condotto un’offensiva contro i miliziani di Ansar el Sharia, nella zona montuosa vicino al confine con l’Algeria, conclusasi con una decina di jihadisti uccisi. Ma in un successivo raid a Sidi Ali Ben Aoun erano morti sei agenti, e unaltro a Menzal Bourghiba, poco lontano dalla capitale. Tunisi ha proclamato tre giorni di lutto nazionale. Tuttavia la tensione fra il popolo e il governo islamista s’èapprofondita a tal punto da suggerire ai rappresentanti del governo legati ad Ennahda di annullare i funerali ufficiali nella capitale: solo cerimonie locali, nelle città di provenienza dei caduti,a Sidi Bouzid, a Kasserine, a Kef. Infatti, le moltitudini accorse alle esequie hanno lanciato slogan e critiche feroci alla classe dirigente. Con l’accumularsi dei lutti, le cerimonie servono come sfogo alla rabbia contro il premier Ali Laaradyeh, contro quello dell’assemblea costituente Mustapha Ben Jaafar, e persino contro Moncef Marzouki, il laico presidente della Repubblica, incolpato di non avere arginato l’espansione islamista.
Ennhadha ora è di fronte a un bivio storico: può lasciare il potere ottenuto con le prime elezioni libere del dopo Ben Ali, o cedere al richiamo fondamentalista e “insabbiare” il processo democratico. Il governo parla di dimissioni dopo la creazione di un’amministrazione provvisoria, in accordo con l’opposizione, e dopo il varo della Costituzione. I prossimi mesi sono fondamentali per capire quale piega prenderà la rivoluzione tunisina. Su Tunisi sono puntati gli occhi sia della comunità internazionale che di altri Paesi arabi, come l’Egitto e la Libia, dove le rivolte non hanno avuto i risultati sperati. Ma anche i jihadisti guardano alla Tunisia: approfittano della vicinanza con la Libia per addestrarsi nelle zone desertiche e rifornirsi di armi, sognando il momento in cui potranno fondare un emirato islamico sulla sponda del Mediterraneo.


Corriere 25.10.13
Fischer e l’opera contro l’Olocausto: in Ungheria segnali di intolleranza
«Il Paese fu colpevole con gli ebrei, ora temo per la minoranza tzigana»
di Giuseppina Manin


MILANO — La mucca rossa troneggia in scena. Costruita in cartapesta, grandezza naturale, è lei l’emblema di una storia di spregevole follia scatenatasi in un paesino dell’Ungheria 130 anni fa. «Una storia vera quanto sconvolgente, i cui echi si fanno sentire ancora oggi», conferma Ivan Fischer, 63 anni, direttore musicale della Budapest Festival Orchestra e compositore di talento.
The Red Heifer (La giovenca rossa) , la sua nuova opera meditata per quasi 30 anni e andata in scena nei giorni scorsi nella capitale ungherese, allude a un’antica cerimonia di purificazione della Torah detta appunto «La giovenca rossa». E così fu chiamato anche il processo che nel 1883 vide arrivare sul banco degli imputati a Tiszaeszlár 15 ebrei accusati di aver ucciso una giovane cristiana di nome Eszter per usare il suo sangue per un rito esoterico.
«Uno dei tanti “blood libel”, quelle calunnie del sangue imbastite nel corso del tempo contro il popolo di Israele, ritenuto responsabile di cerimoniali efferati — spiega il maestro, di origine ebraica —. Quella caccia alle streghe, con tanto di torture e intimidazioni, scatenò allora polemiche a non finire. Dalla parte degli ebrei si schierarono le migliori menti del Paese, tra cui il nostro patriota Lajos Kossuth».
Che difatti compare anche in scena come un fantasma a gridare il suo sdegno contro intolleranza e pregiudizi dilaganti allora e anche oggi...
«Quell’episodio è stato un detonatore politico e sociale, un po’ come successe in Francia con l’Affare Dreyfus. L’ondata di antisemitismo spaccò il nostro Paese e ancora se ne vedono le tracce nella recente rimonta di una destra estrema, gli Jobbik oggi entrati in parlamento. Che hanno eletto a loro martire quella povera ragazza, Eszter, la cui tomba è diventata luogo di pellegrinaggio di fanatici».
Una vicenda del passato che mette in guardia contro le storture del presente.
«Come nel 19esimo secolo, anche oggi l’Ungheria è luogo di scontro tra quelli che vogliono aprirsi all’Europa e quelli che si arroccano in un isolamento anacronistico inventandosi nemici inesistenti e assurdi capri espiatori. Con sprezzo della storia e delle grandi responsabilità che ha avuto il Paese nell’Olocausto. Quando i tedeschi ci invasero nel ’44, molti sono stati infatti gli ungheresi a collaborare per la deportazione di mezzo milione di ebrei. Elie Wiesel disse una volta di profondamente triste perché quella tragedia poteva essere evitata, dato che la guerra era ormai alla fine ed era chiaro che la Germania l’avrebbe persa».
Oltre a essere una sfida alle xenofobie, la sua opera e anche un’esortazione a una presa di coscienza collettiva.
«Di recente il nostro primo ministro ha ufficialmente riconosciuto le responsabilità dell’Ungheria nella Shoah. È stato un gesto di grande importanza. Spero che la gente sempre più si renda conto che qualcosa di terribile è successo. E può succedere ancora. Con gli ebrei ma anche con altre minoranze. Come quella tzigana, molto povera e che incontra molte difficoltà a trovare lavoro. Vorrei che il governo li aiutasse, prendendo nette distanze dalle discriminazioni della destra. Da parte mia, ho reso loro omaggio citando nella mia partitura alcune musiche della tradizione tzigana».
Da ebreo e da uomo di cultura, come si pone rispetto all’attuale politica di Israele?
«Io sono un musicista. La mia opinione vale quella di chiunque altro abbia a cuore una società giusta. Quel che mi sento di dire è che ogni fondamentalismo è pericoloso e ogni essere umano è ugualmente importante. Israele è un Paese come un altro. Dove tutti devono potere vivere in pace, in sicurezza, senza paura. Sogno un mondo dove ognuno rispetti l’altro, anche se ha un’altra religione e un altro colore della pelle».

il Fatto 25.10.13
Milano anni 70
Walter, il ragazzo terrorista
di Corrado Stajano


Pubblichiamo un estratto de “La Stanza dei fantasmi” (Garzanti) di Corrado Stajano

È un pezzo oblungo di legno rosso, liscio e ben rifinito, con due alette simili al timone di una nave diviso in parti uguali che si possono scomporre, aprire e chiudere. Un blocchetto informe che potrebbe essere la prua immaginaria di un gioco infantile. Ma che cosa è veramente quel-l’oggetto (...) Anche i buchi della memoria possono generare mostri, accade poi certe volte che le nebbie si diradino riuscendo a far filtrare qualche lume (...) Si sa, i fatti della vita passata possono riaffiorare alla mente invecchiata e stanca in tanti modi differenti. Morbidamente, come in un sogno, o con l’asprezza di una ferita non rimarginata che si è voluto dimenticare. Come in quest’occasione. Quasi quarant’anni dopo, in un lampo uscito dai cassetti della memoria tutto è riapparso alla mente con amara limpidezza lasciandomi esterrefatto nella giostra di quella labirintica ricerca dall’esito ora così ovvio. Una spina cavata con un bisturi dalla carne. Ma come avevo potuto dimenticare, cancellare, consciamente o meno, quel colpo al cuore? Come dimenticare la figura dolorosa di quella tragedia? Un pomeriggio di prima estate del 1978 un signore sconosciuto suonò alla porta di casa. Di media statura, sui cinquant’anni, i capelli bianchi, un po’ stempiato, disse il suo nome, Guido Alasia. Mi ringraziò, anzitutto. Avevo facilitato la pubblicazione di un libro di Giorgio Manzini, una biografia di suo figlio, Walter Alasia, Indagine su un brigatista rosso. Ero imbarazzato, adesso ricordavo. Non avevo saputo che cosa dire. Il libro era serio, documentato, rispettoso ed era giusto pubblicarlo in quel tempo difficile. Guido Alasia tirò fuori da una borsa un pacchetto di carta di giornale, spuntò da lì il famoso pezzo oblungo di legno rosso su cui mi ero lambiccato. Mi parlò di sé. Da più di trent’anni lavorava come modellista in legno all’Ortofrigor, una vecchia azienda alla periferia di Milano, tra la stazione Turro e la stazione Rovereto della Metropolitana, che costruiva impianti di compressione per il freddo e per il ghiaccio. Una fabbrica a ciclo completo, conosciuta in tutto il mondo, dove erano impegnati, nei vari settori, saldatori, tornitori, lattonieri , calderai, elettricisti, montatori, oltre ai modellisti come lui, un po’ operaio specializzato – caporeparto – e un po’ artigiano. Il suo lavoro consisteva proprio nel disegnare e costruire i modelli in legno delle macchine. Che cos’era l’oggetto che mi aveva portato in dono? Il modello di sostegno del motore di un frigorifero industriale. Pronto per la fusione in un bagno di ghisa. Lo ringraziai. Mi regalava pudicamente il suo lavoro di una vita. Erano anni incandescenti. Aldo Moro era stato assassinato il mese prima, il 9 maggio. Ogni mattina il Giornale Radio delle 8 dava la notizia dei morti ammazzati all’alba. I rituali erano ossessivamente gli stessi. La sparatoria, la fuga, la sagoma di gesso disegnata sui marciapiedi, la rivendicazione del gruppo terrorista telefonata a un giornale, il volantino lasciato in un cestino della carta. La paura. Guido Alasia mi osservava silenzioso. Suo figlio Walter, il ragazzo terrorista, aveva appena compiuto vent’anni quando morì. Restammo in silenzio, sapevamo di esserci capiti. Era un uomo sofferente, di grande dignità.
A Sesto San Giovanni, in via Leopardi, la mattina del 15 dicembre 1976. Dieci poliziotti si appostano agli angoli di un caseggiato popolare che dà sulla strada. Fa freddo, è ancora buio. Altri cinque uomini infilano la scala G, si fermano sul primo pianerottolo, davanti a una porta con targhetta d’ottone, “Alasia”. Due hanno giubbetto e maschera antiproiettile; i tre in cappotto sono Vito Piantone e Sergio Bazzega dell’antiterrorismo, Vittorio Padovani commissario di Sesto. Hanno un mandato di perquisizione per Walter Alasia, ex studente, vent’anni, famiglia operaia. Suonano, un trillo secco, intimano “Polizia aprite”, picchiano col calcio del fucile. Si spalanca la porta, compare un uomo in pigiama, bianco di capelli. È Guido Alasia, il padre di Walter. In fondo al breve corridoio una donna in camicia da notte. È Ada Tibaldi, la madre di Walter. Entra Sergio Bazzega, si dirige verso l’ultima porta a destra, quella di Walter. Lo segue Vittorio Padovani. Walter Alasia è già in piedi accanto al letto del fratello Oscar. Rivoltella in pugno, scosta la porta, allunga il braccio, spara su Sergio Bazzega e su Vittorio Padovani, un intero caricatore. Richiude, ricarica l’arma, indossa calzoni e giubbotto, s’avvicina alla finestra del balcone, alza la tapparella, si butta in cortile, il salto di un metro. Parte una raffica. Colpito alle gambe Walter Alasia cade, resta raggomitolato sulla ghiaia. C’è concitazione in cortile, si sente gridare, alcune finestre si illuminano. Passa qualche minuto, si avvicina la sirena di un’autoambulanza. Esplodono gli ultimi colpi. È un solo proiettile che uccide Walter Alasia.

Corriere 25.10.13
Con la prefazione di Giorgio Napolitano
La vera storia dell’Aventino
Giovanni Amendola e la sfida non impossibile al fascismo
di Antonio Carioti


Tra i leader dell’antifascismo, il liberaldemocratico Giovanni Amendola è il più trascurato. Nessun partito dell’Italia repubblicana lo ha collocato come figura eminente nel suo Pantheon, nessuna fondazione porta il suo nome. Pochi gli studi dedicati alla sua opera, quasi introvabili gli scritti. È ben più noto suo figlio Giorgio Amendola (1907-1980) esponente di spicco della «destra» comunista e patrono politico dell’attuale capo dello Stato.
Adesso però proprio Giorgio Napolitano firma la presentazione di una biografia, opera di Alfredo Capone, che rivendica con argomenti ben fondati non solo il valore della testimonianza morale di Giovanni Amendola, ma anche l’importanza della sua battaglia politica e l’acume dei suoi giudizi sulla crisi dello Stato liberale e sulla natura del fascismo. Come scrive Napolitano, è un contributo fondamentale per «confutare e liquidare» la superficiale «rappresentazione stroncatoria» del cosiddetto Aventino, cioè del vano tentativo compiuto da Amendola e da altri capi antifascisti nel 1924, dopo il delitto Matteotti, di determinare la caduta di Benito Mussolini smettendo di partecipare ai lavori parlamentari.
Bisogna peraltro precisare che il libro di Capone, intitolato semplicemente Giovanni Amendola (Salerno, pp. 438, € 24), ha anche il notevole merito di esaminare e approfondire il pensiero filosofico del protagonista, finora pressoché ignorato: in particolare il suo interesse per il problema religioso e per la corrente di rinnovamento cristiano del modernismo. C’è un legame indubbio tra la visione etica, «dove la morale — scrive Capone — viene riconciliata con la vita», e l’impegno politico di questo autodidatta meridionale, nato a Napoli nel 1882, che andò presto affermandosi, nei primi anni del Novecento, come una delle voci più originali della vita pubblica italiana.
Amendola, come molti della sua generazione, non amava l’attitudine compromissoria della leadership di Giovanni Giolitti e sperò che l’intervento nella Prima guerra mondiale «avrebbe seppellito la mediocrità del nostro passato». Proprio l’andamento del conflitto alimentò tuttavia la sua critica alla destra liberale di Antonio Salandra e determinò la sua scelta di schierarsi contro le suggestioni nazionaliste ed espansioniste. Ma la «radicalizzazione» di Amendola, come la definisce Capone, non fece venir meno la sua fede nello Stato risorgimentale come motore del progresso civile, che avrebbe dovuto portare l’Italia tra le grandi democrazie occidentali.
Nel dopoguerra Amendola, a lungo firma del «Corriere della Sera», fu eletto in Parlamento. Convinto anticomunista, attaccò Giolitti per la sua scarsa fermezza verso le agitazioni del «biennio rosso», ma non ne condivise neanche le aperture al fascismo. In polemica con chi ha dipinto un Amendola inizialmente ben disposto verso le camicie nere, Capone chiarisce i termini della questione: mentre Giolitti pensava di porre fine alla violenze portando Mussolini al governo, il futuro capo dell’Aventino poneva il disarmo delle squadre d’azione come condizione pregiudiziale per l’ingresso dei fascisti nell’esecutivo. Non a caso Mussolini, alla vigilia della marcia su Roma, bollò Amendola, allora ministro delle Colonie, come una delle «anime nere» antifasciste annidate al governo.
Un anno dopo l’ascesa al potere del fascismo, nel novembre 1923, Amendola ne tratteggiò con estrema lucidità il carattere di «religione politica», che pretendeva di dettare legge alle coscienze dei cittadini. Fu il primo autore in assoluto a usare l’aggettivo «totalitario», tanto per il movimento mussoliniano quanto per il bolscevismo, e non si tratta soltanto di un primato lessicale. Il suo ultimo scritto politico, datato 10 luglio 1925, contiene intuizioni profonde sulla derivazione giacobina dei totalitarismi novecenteschi, sul loro culto del partito che si fa «Stato-Leviatano».
Nel frattempo c’era stato l’Aventino, la sconfitta cui resta legato il nome di Amendola. Anche qui però Capone offre elementi illuminanti per una valutazione equilibrata. E convoca come testimone a discarico di Amendola, un po’ a sorpresa, il futuro segretario del Pci Palmiro Togliatti, che in due rapporti a Mosca, nell’autunno 1924, illustrava il lavoro non trascurabile compiuto dagli aventiniani per indebolire il consenso e le connivenze di cui godeva il fascismo, in modo da costringerlo alla resa. Decisivo per il fallimento di quella strategia, secondo Capone, fu l’atteggiamento favorevole a Mussolini dei militari e del re, che rese impraticabile la prospettiva di uno scontro aperto. Ma sicuramente pesò più in generale anche l’orientamento di vasta parte della borghesia e dei ceti medi, che vedevano nei fascisti i custodi di un ordine costituito alfine restaurato e temevano che fosse posto nuovamente a rischio.
Comunque Amendola era consapevole che per abbattere il Duce bisognava rischiare la guerra civile e non si poteva farlo senza contare sull’apporto dell’esercito: la possibilità di un’insurrezione proletaria esisteva solo nelle fantasie dell’estrema sinistra. Mussolini a sua volta capì il pericolo rappresentato per lui da Amendola, che anni dopo definì «il solo efficiente nemico della nostra rivoluzione». Difficile quindi pensare, sostiene Capone, che il vile agguato squadrista di cui il leader democratico fu vittima in Toscana, nel luglio 1925, non avesse un avallo dall’alto. Amendola, debilitato dal feroce pestaggio, morì in Francia, a Cannes, il 7 aprile 1926.

«Vi sono casi in cui l’ultimo articolo fascista di una giovane promessa del giornalismo italiano precede soltanto di qualche settimana il suo primo articolo antifascista.
I fascisti di sinistra speravano che Mussolini avrebbe fatto la rivoluzione e divennero comunisti perché erano (...)  delusi dalla lentezza con cui il regime avanzava verso quell’obiettivo. (...)
In molti casi il loro passaggio all’antifascismo fu facilitato dalla politica culturale di Palmiro Togliatti
Il leader del Pc aveva bisogno di intellettuali organici e li assolse dai loro peccati fascisti accogliendoli paternamente nella casa madre del comunismo italiano»
Corriere 25.10.13
A che cosa servono gli intellettuali italiani

risponde Sergio Romano

Perché, quando si parla di intellettuali, si fa riferimento alla sinistra? Per molti, non per tutti per fortuna, è diventato perfino sinonimo: intellettuale uguale persona di sinistra; e più sono a sinistra più gli intellettuali sono di valore. Come se persone con un diverso orientamento politico non fossero all’altezza per le attività di pensiero. Basta essere di sinistra e anche un operatore ecologico, con tutto il rispetto per la categoria, può venir etichettato e vantato come un intellettuale; voglio dire che, sovente, l’etichetta viene appiccicata indipendentemente dal valore del pensiero espresso.
Giuliano Sassa

Caro Sassa,
È davvero così importante che siano di sinistra o di destra? La maggioranza della categoria mi sembra composta da persone che oscillano continuamente fra la provocazione e il conformismo, fra il desiderio di stupire e quello di fornire i propri servizi a un padrone generoso. La generazione cresciuta durante il fascismo rappresenta, a questo proposito, un esempio interessante. I suoi scrittori, artisti e giornalisti, erano stati allevati nei Guf (Gruppi Universitari Fascisti), avevano partecipato al Littoriali della Cultura, inviato quadri e sculture ai premi organizzati dai maggiori esponenti del regime, collaborato con Primato (la rivista di Giuseppe Bottai), partecipato alla realizzazione di film patriottici, chiesto e ricevuto favori e benefici. Molti diventarono antifascisti nella seconda metà del 1942, vale a dire nell’anno in cui le potenze dell’Asse cominciarono a perdere la guerra. Vi sono casi in cui l’ultimo articolo fascista di una giovane promessa del giornalismo italiano precede soltanto di qualche settimana il suo primo articolo antifascista.
Tutti ipocriti e opportunisti? Non sempre. I fascisti di sinistra speravano che Mussolini avrebbe fatto la rivoluzione e divennero comunisti perché erano, secondo una definizione di Giovanni Gentile, «corporativisti impazienti». Credevano nella «corporazione proprietaria», vale a dire in una forma di proprietà pubblica dei mezzi di produzione teorizzata dall’ala più radicale del partito; ed erano delusi dalla lentezza con cui il regime avanzava verso quell’obiettivo. Non fu difficile, per questi giovani «rivoluzionari», trasferire le loro speranze dal fascismo al comunismo. In molti casi, tuttavia, il loro passaggio all’antifascismo fu facilitato dalla politica culturale di Palmiro Togliatti. Il leader del Pc aveva bisogno di intellettuali organici e li assolse dai loro peccati fascisti accogliendoli paternamente nella casa madre del comunismo italiano. Paolo Mieli ha definito questa operazione «una assoluzione impartita al fonte battesimale di un partito politico». Mirella Serri ha scritto su questa vicenda un bel libro intitolato I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948 (Corbaccio, 2005). Da allora sono passati quasi settant’anni , ma alcuni caratteri del trasformismo intellettuale italiano sono sopravvissuti nelle generazioni successive.
Per concludere, caro Sassa, l’Italia ha bisogno di scienziati, filosofi, pittori, scultori, romanzieri, poeti, studiosi ed esperti delle più diverse discipline, non di intellettuali.

Corriere 25.10.13
Esce da Einaudi il libro del fondatore di «Repubblica»
«L’amore, la sfida, il destino» tra ricordi e riflessioni disincantate
Scalfari in gioco nella partita della vita
La base dell’esistenza è il desiderio. Oggi siamo a un passaggio critico verso il futuro
di Armando Torno


Si narra che il conte di Saint Germain — riferisce un Lenotre pettegolo nel suo saggio En France jadis — oltre che musicista, pittore, esperto di lingue, alchimista e produttore di cosmetici desiderasse esagerare con la propria età. Un vezzo che sapeva utilizzare alla bisogna, a seconda dell’interlocutore. A tutti confidava di possedere l’elisir di lunga vita e ad alcuni addirittura di aver conosciuto il Padre Eterno. Quando? Durante gli anni della sua gioventù, naturalmente. Qualcuno ci credette. Del resto, egli aveva incantato il mondo oltre che la corte; ebbe il privilegio di trascorrere frammenti di vita con creature speciali quali Mozart, Casanova, Cagliostro e Voltaire, né si perse il piacere di frequentare Madame de Pompadour.
Chissà perché ci è venuto in mente un dettaglio del singolare personaggio settecentesco leggendo il libro di Eugenio Scalfari L’amore, la sfida, il destino che oggi esce da Einaudi. Forse perché in queste pagine — considerate dall’autore conclusive di un ciclo cominciato diciotto anni fa con Incontro con Io — il tempo è evocato con prosa pacata, la medesima che sa scolpire immagini e riflessioni. O forse perché il lettore che si inoltra nei ricordi e nelle confidenze di codesto maestro di giornalismo scopre qualcosa non soggetto a scadenza. A volte è un fatto, altre volte una considerazione, altre ancora un autore. O forse il richiamo all’immaginifico conte è recato dalle innumerevoli finestrelle che il libro apre su temi di primo piano. Ne è un esempio il capitolo «La colpa del figlio dell’uomo», dedicato al «buon Gesù» (così si legge continuamente), ricco di considerazioni che vanno dai testi evangelici ad Agostino alle tendenze politiche di Giuda. Di certo Scalfari non fa, e non si fa, sconti in queste pagine. Ha cercato l’essenzialità e non ha nascosto le piccole ansie che ogni vita trascina con sé. A volte senza accorgersi.
Nel capitolo intitolato con il celebre verso di Wystan Hugh Auden «La verità, vi prego, sull’amore», dopo essersi soffermato brevemente sulla Teogonia di Esiodo e sul racconto biblico della creazione, in una ventina di righe offre una enunciazione che prende le mosse da Michel de Montaigne (il pensatore-guida di Scalfari), passa da Catullo e dai romantici e approda a queste conclusioni: «Io però una mia definizione ce l’ho: l’amore è desiderio. Desiderio d’un corpo. O di un’anima. Desiderio d’un Dio. Desiderio del potere». Ma non tutto il tema, al pari di quello della morte, si esaurisce in una specifica parte, come usano fare talune trattazioni accademiche. In un altro capitolo intitolato «Il Narciso innamorato» (ma si potrebbe anche scegliere, tra i tanti, anche quello dedicato a «La leggenda di Tristano»), l’autore riprende il filo ed elabora i concetti che sono in eterna relazione con il sommo sentimento dell’amore. Nel primo dei due ricordati nota: «Tutti e in qualsiasi fase della nostra esistenza combattiamo per difendere il nostro territorio, ampliarlo, escludere i possibili concorrenti e includervi i possibili sudditi. Amiamo e vogliamo essere amati; a volte doniamo le nostre grazie per averne altrettante di ritorno». E dal capitolo «Quella notte al suono delle zampogne» ecco una frase che si direbbe nata da un processo di distillazione esistenziale: «Eros distribuisce le carte e regola il gioco, la sua presenza dà la misura della vitalità di quella vita».
Talune pagine, dicevamo, sembrano scolpite più che scritte. Non si intenda il verbo in termini aulici ma nel senso più pratico del termine. Scalfari ha utilizzato una prosa che non ricorre alle superfetazioni che popolano molta letteratura contemporanea; gli aggettivi li ha dosati con mestiere e non sono mai spesi a sproposito, i ricordi si consumano in spazi contenuti e le riflessioni nate dalle letture di una vita sono rese con attenta semplicità. C’è un’antica confidenza con la materia che consente tutto questo. Il libro si legge facilmente e sa fissarsi nei ricordi decisamente meglio di talune articolesse che funestano la comunicazione contemporanea. Anche in tal caso, basta un capitolo come quello intitolato «Mio nonno con la barba di Mosè» (e con la corporatura del personaggio de I miserabili Jean Valjean) per dimostrarlo. Appassionato di politica e di letteratura, un carducciano che «adorava» Leopardi, amava festeggiare il 1°maggio con la famiglia che sfilava insieme a lui in corteo (chiuso dal padre dell’autore) cantando l’inno dei lavoratori in versione anarchica. Il gruppo si arrestava in una piazzetta dove si custodiva una Madonna miracolosa e l’apparizione del parroco, lontano parente, faceva interrompere la profana liturgia. Uno scambio di battute e avveniva un «fatto strano»: il corteo cominciava a recitare il Padre Nostro, attaccando dal punto «Rimetti a noi i nostri debiti». Poi, dopo aver salutato il sacerdote, era ripresa la via di casa ricantando l’inno laico.
Vi sono inoltre non poche osservazioni poste qua e là che si direbbero sintesi disincantate. Ne offriamo qualcuna. Nel capitolo dedicato al nonno: «Si parla da almeno cinquant’anni della crisi del romanzo; in Europa il romanzo è praticamente scomparso perché non c’è niente di corale da raccontare e il romanzo è una forma corale di racconto». Nel prologo: «Il trattato non esiste più perché non esiste più il sistema filosofico. Gli ultimi furono scritti da Hegel e da Schopenhauer». In «Edipo al tavolo della partita»: «Viviamo in un passaggio d’epoca e la scomparsa del padre ne è uno dei segnali, forse il più significante». Poi, ben alternata all’amore, c’è la morte. L’eterna signora con le sue mosse inquietanti e la sua presenza imprevedibile. Scalfari la fa entrare in scena già nel prologo, dopo aver parlato della «partita della vita»; o meglio di quella partita che si chiama vita, alla quale consapevoli e inconsapevoli sono costretti a giocare. Seduti al tavolo con noi ci sono degli ospiti fissi, ma non ne manca mai uno, «l’ultimo giocatore, il più odiato, il più temuto, il più rimosso eppure il più presente» che non ha un posto assegnato e «sta in piedi alle nostre spalle». Segue quel che accade e si astiene dal partecipare. Poi chiude il gioco con un gesto «e tutto è finito».
Vi è inoltre una continua riflessione sul tempo. Corre in tutto il libro e si direbbe una gradevole ossessione dell’autore. Un frammento dal capitolo «E Lucifero creò la scimmia pensante» può offrirne un esempio: «Ma il futuro? Da dove viene il futuro, quel flusso inarrestabile che ti tiene in vita e al tempo stesso ti logora e ti distrugge attimo dopo attimo? Forse non è il futuro che ti investe e ti trascina come la rapida d’un fiume. Forse è la tua vita che si proietta in avanti e sei tu che gli muovi incontro appagando nuovi bisogni e nuovi desideri. Se tu restassi inerte, passivo... non ci sarebbe futuro».
Scalfari ha scritto un libro scevro da vincoli e da canoni, permettendosi alcune verità. In esso i ricordi si abbracciano alla riflessioni colte, talune fermezze ai dubbi di cui mai riusciremo a liberarci, l’eco dei classici e della loro lezione alla realtà che ci condiziona. Certo, egli non assomiglia al conte di Saint-Germain, ma come quel nobile che amava imprevisti e paradossi sa cos’è il tempo. Non è cosa da poco. In fondo, sono sempre meno coloro che possono permettersi il lusso di ripetere le parole conservate nell’Elettra di Sofocle: «Il tempo è un dio benigno».

Repubblica 25.10.13
Eugenio Scalfari. Storia di un’anima contesa da eros e Narciso
Racconto autobiografico e riflessione si intrecciano nel nuovo libro del fondatore di “Repubblica”
Un’esperienza di vita dominata dall’amore, per gli altri e per sé, e dalla ricerca di un senso
di Franco Marcoaldi


«Sono io stesso la materia del mio libro» recita il celebre incipit degli Essais di Michel Eyquem, signore di Montaigne, che per primo mette l’Io al centro della scena letteraria e filosofica. Con L’amore, la sfida, il destino (Einaudi), Eugenio Scalfari torna all’antico maestro e modello della sua ricerca interiore – iniziata poco meno di vent’anni fa con
Incontro con Io – chiudendo idealmente il cerchio di quell’itinerario. Le conseguenze legate a una scrittura così intima, personale, sono molteplici, ma due in particolare balzano all’occhio. Se Scalfari parte dalla propria esistenza, è perché gli pare il modo migliore di corrispondere a una precisa convinzione: il pensiero procede spedito soltanto se si appoggia a una esperienza incarnata. E sempre di qui discende anche la seconda, decisiva conseguenza: una volta intrapresa tale strada, perde automaticamente di significato ogni trattazione sistematica della realtà, visto che la vita vissuta, con il suo inevitabile carico di inciampi, è per sua natura labirintica,disordinata, contraddittoria. L’andamento rapsodico e divagante si trasforma così in formidabile atout: dalla riflessione filosofica al frammento di memoria, dalla poesia alla mitologia alla religione, ogni forma espressiva può e deve concorrere alla soluzione del problema affrontato. E qual è il problema di Scalfari? la ricerca di senso, che, se ha contraddistinto l’intera modernità occidentale, non è affatto scontata in un mondo come quello attuale, in cui l’alea della “sensazione”, la soddisfazione provvisoria del desiderio immediato, sembrano aver surclassato la più lenta e metodica “riflessione”. Una riflessione, beninteso, che ha assoluto bisogno di riscaldarsi con le ragioni del cuore, come vide perfettamente Robert Musil negli anni Trenta del secolo scorso: «Noi non abbiamo troppo intelletto e troppa poca anima, ma troppo poco intelletto nelle cose dell’anima».
Seguendo questa ideale stella polare, Scalfari utilizza materiali e personaggi i più diversi: dai giganti della mitologia e della religione (Ulisse come Gesù, Atena come Gea) per arrivare alle figure capitali della sua esistenza (bellissime, in particolare, le pagine dedicate al nonno calabrese, per più di un verso doppio arcaico dell’autore). Ma, ripeto, pur nell’apparente divagazione, tutto finisce per legarsi in una stretta catena di maglie che tessono un disegno esistenziale preciso e riconoscibile.
Al tavolo da gioco cui l’autore ci invita siedono Edipo, Narciso e il Caso, capaci di condizionare in mille modi il mutevole Io, che volente o nolente, in modo più o meno consapevole, punta una dopo l’altra le sue fiches contro un avversario imbattibile: la Morte. Se Madama Morte guida la danza, a distribuire le carte della partita è sempre e immancabilmente Eros (il desiderio, la forza vitale), a cui tiene bordone Narciso, senza la cui robusta presenza il povero Io sarebbe in balia degli eventi e finirebbe per afflosciarsi su se stesso, in preda alla peggiore tristitia. Ma Narciso, a sua volta, deve essere tenuto a bada, pena lo sconfinamento nella pura egolatria; nella più fatua e infantile vanità; in una smodatezza e dismisura che finirebbero per accecarlo, impedendogli di nutrirsi dell’imprescindibile linfa vitale rappresentata dall’altro, che offre e reclama ascolto e attenzione.
È su questo problema che si concentra Scalfari, e se lo fa èperché la questione lo riguarda da vicino: la perlustrazione interiore torna pertanto a occupare la scena. E viene incontro al lettore un singolare “narciso paterno” (così l’autore si autodefinisce), perennemente in debito verso tutti, che «ama gli altri per essere amato»: insomma un uomo desideroso di donare e donarsi a quanti, in cambio, decidano di girare nell’orbita della sua esistenza.
Il quadro psicologico del protagonista sembrerebbe definito. Ma l’anima, ogni anima, è sottoposta a mille, diverse sollecitazioni, e soprattutto è preda costante di Eros, che non sente ragioni, e quando meno te lo aspetti scompiglia ogni piano eretto a salvaguardia di un sé corazzato e inattaccabile. A Eros, spesso e volentieri, piace assumere le fattezze di una donna, e proprio sotto queste spoglie si presenterà nella vita del nostro Narciso paterno, costringendolo a rimettere tutto in discussione: aprendo dolorose ferite, acuendo i sensi di colpa, sconquassando equilibri consolidati, epperò facendo circolare un’energia nuova e incontenibile. Sarà lei, questa donna, l’inviata di Eros, a rivelargli la sua natura più segreta – a lui stesso sconosciuta. Sarà lei, cui il libro è dedicato, la levatrice della nuova scrittura.
Già da tempo al centro dell’opera di Scalfari stava emergendo con crescente nettezza la figura dell’amore: qui, ora, si enuncia a chiare lettere che è proprio Amore l’architrave della sua riflessione. Amore inteso come desiderio, nella sua accezione più ampia: «desiderio di un corpo. O di un’anima. Desiderio di un Dio. Desiderio del potere».
Sì, anche “desiderio di un Dio”. È nota la lunga frequentazione di Scalfari con la dimensione religiosa, osservata e indagata con l’occhio di chi non crede. E proprio di recente questa indagine ha raggiunto il suo climax con lo scambio epistolare e il successivo incontro con papa Francesco, di cui è stato dato ampiamente conto sulle pagine di questo giornale e in un volume che ha raccolto quegli interventi e il dibattito che ne è scaturito (Dialogo tra credenti e non credenti).
Ne L’amore, la sfida, il destino, Scalfari riprende tutte le tematiche più care del suo lungo corpo a corpo con la religione e le porta al calor bianco. Fino all’azzardo di un Gesù pensato e proposto nella sua più profonda umanità, dunque attraversato come tutti dal senso di colpa, dalle passioni e perfino dal narcisismo: «tu, figlio dell’uomo, hai amato smisuratamente gli altri perché amavi smisuratamente te stesso». Il che, naturalmente, non ha impedito che quell’uomo, figlio di Dio, compisse il più grande dei miracoli: l’incarnazione dell’amore universale, a beneficio del vero amore che ciascuno deve nutrire per se stesso.
La “scimmia pensante”, continua Scalfari, ha spasmodico bisogno di un orizzonte di senso che la trascenda. E le architetture mentali offerte dalla religione e dal sacro, altro non sono che strumenti per la trasformazione di quell’animale – con tutto il suo «prepotente, indomabile istinto di sopravvivenza » – in un “artista creatore” che dona significato al suo tra- mondano. Se i conti non tornano e la partita rimane perennemente aperta è perché in ogni individuo albergano le pulsioni più diverse e contrastanti: tenerezza e compassione per l’altro, certo; ma anche impulso a trasgredire; passione bruciante del potere; libido del comando. L’amore così raffigurato, insomma, è una irrefrenabile energia che «si tinge di tutti i colori dell’iride», intonandosi via via alla nostra multiforme natura, a un tempo diabolica e celestiale. Ma prima ancora, direi, è una forza primigenia che crea comunque legame tra gli uomini, e per estensione, con tutto il mondo vivente. Rifuggendo da un’idea di libertà sterile e solipsistica oggi dilagante, è proprio questo legame che gli uomini di buona volontà dovrebbero salvaguardare e potenziare con maggiore convincimento e vigore.
Il grande entomologo Edward O. Wilson, molto scettico verso le promesse ultraterrene, ha scritto a riguardo una cosa molto semplice e molto giusta nel suo saggio La Creazione(Adelphi). Atei e credenti sono e restano divisi in ordine al ruolo giocato dal caso o dalla grazia, dalla selezione naturale o da un intelligente disegno divino, dal prevalere dell’immanenza o della trascendenza. Tutto vero. Ma anche se non siamo d’accordo sul fatto che esista o meno un Creatore, dovremmo se non altro, tutti quanti, avere a cuore il creato.
In una delle pagine più commoventi del suo memoir, Scalfari racconta di una sua casa in campagna nel cui giardino un pino selvatico ormai rinsecchito è stato sommerso da due nuovi rampicanti, uno di rose bianche e l’altro di clematidi, che rifiorendo a ogni primavera fanno in qualche modo “rivivere” anche quel pino. Riscaldato dal sole, abbandonato al flusso delle immagini mentali, l’autore osserva l’intrico vegetale e si sente in bilico tra l’albero e i rampicanti, comunque parte integrante di una catena biologica che sola consente all’individuo di fare tesoro del passato e perciò di immaginare il futuro. In questo laboratorio ideale, nel solco della tradizione di una meditazione filosofica intesa come arte del vivere, Scalfari fa di se stesso la cavia del suo proprio pensiero: si mette a nudo attraverso un costante scavo mentale che arde al fuoco lento di un’esperienza rivissuta sulla pagina scritta. Lo scambio tra esperienza e riflessione è vicendevole: quanto più lunga e ricca è stata la prima, tanto più la seconda risulta feconda e matura, fino a raggiungere il timbro diuna parola sapienziale.
IL LIBRO L’amore, la sfida il destino di Eugenio Scalfari Einaudi pagg. 138 euro 17,50 esce in questi giorni

Repubblica 25.10.13
L’anticipazione. Il brano anticipato è tratto dal capitolo finale
Vedere il mistero dell’essere nel cielo stellato di agosto
di Eugenio Scalfari


Quando guardo il cielo nelle notti di agosto il primo segno che distinguo è il timone ricurvo del Gran Carro, poi la doppia V di Cassiopea e a poca distanza la fulgida stella che indica il Nord ai naviganti. Poca distanza per il mio sguardo ma distanze immense nel cielo stellato. A me piacela parola curvatura applicata all’essere.
All’universo. All’orizzonte. Alle parallele che si congiungono all’infinito. Un profeta scrisse che l’infinito era l’eterno ritorno dell’eguale. Era un profeta fuori tempo, quando visse c’erano già i treni e i profeti con i treni non possono convivere. Alla fine diventò pazzo, ma il problema della curvatura rimase.
Lo risolse un altro personaggio altrettanto bizzarro. Non con le profezie ma con la matematica.Compose due lunghe equazioni pienedi simboli e un’altra assai piú breve ma poco decifrabile. Tutti quelli che se ne intendevano sostenevano che il problema della curvatura dell’essere era stato risolto a patto che venisse coniugato con la gravitazione universale, non semplicemente dall’alto verso il basso ma in tutte le direzioni e in tutte le dimensioni. In realtà si dovrebbe parlare di attrazione e non di gravitazione.
Questa legge funziona anche per le persone, anzi soprattutto per le persone. Sono attratte da altre persone ma anche da oggetti, animali, panorami, natura, progetti. L’orgia esercita attrazione. Il ritiro in un convento di clausura esercita attrazione, il bene e il male, la sudditanza e la trasgressione.
Ora sono vecchio, i miei novant’anni sono a portata di mano e i cento occhieggiano sullo sfondo semmai ci arriverò con mente sana. Io sono di quelli che non hanno mai tentato di escludere la mente dal circuito della loro vita, ma andando avanti nell’esperienza mi sono accorto che la maggior parte delle persone ha messo la mente da parte e vive di emozioni, che poi faticosamente cerca di razionalizzare a fatti già avvenuti e a decisioni già prese.
Questa tendenza è aumentata col progredire delle tecnologie, la mente è stata sempre più accantonata e ad essa è stato riservato un solo compito: la furbizia. Non la conoscenza, non l’elaborazione dei sentimenti e non la sapienza e la saggezza. Niente di tutto questo, ma unicamente la furbizia, inventando i modi per ingannare il prossimo e garantirsi un vantaggio.
La mia vita è stata assai diversa. Non dico che fosse migliore, forse il senso rattrappito prepara uno scenario del tutto nuovo. Forse bisogna distruggere tutto perché si chiude un’epoca e noi che ci viviamo ancora dentro non percepiamo il crollo continuo di ciò che abbiamo ricevuto in eredità e che il tempo ha consunto e sta riducendo in rovine.
Noi comunque progettavamo e questo ci dotava d’un senso duraturo. Se il progetto falliva si tentavano altre strade per realizzarlo o se ne inventava uno diverso.
A me sembra che gli individui d’allora fossero più creativi, più ambiziosi, più testardi e più innamorati di sé. Il successo era importante, la volontà di potenza era più intensa.
Oggi domina la vanità, ma è un’altra cosa, una cosa futile, un trastullo infantile. Infatti la nostra è diventata una società infantile con poche speranze ed è questa la grande contraddizione che sempre ritorna quando il senso si è nascosto da qualche parte e l’ansia e l’affanno aumentano con la sua latitanza. L’animale pensante che noi siamo non può vivere senza che il suo transito terrestre abbia un senso. L’esistenza del divino, anzi del sacro e dei suoi impenetrabili misteri, del fato che governa ogni nostro passo e deresponsabilizza ogni nostra azione; tutta questa immensa architettura mentale, che ha trasformato ogni scimmia pensante in un artista creatore, serve a soddisfare il nostro irruente, prepotente, indomabile istinto di sopravvivenza, soddisfatto soltanto dal senso che gli diamo. Ma, come tutte le architetture, anche questa ha il suo pilastro che ne sostiene i muri portanti, la stabilità delle fondamenta e lo slancio delle torri e delle cupole verso il cielo. Ed è l’amore che sorregge la nostra esistenza in tutte le sue pieghe, alimenta i desideri, scatena il furore delle passioni e la dolce tenerezza degli affetti.
L’amore dispensa con larghezza il senso della vita. Il signore degli dei non è lo Zeus dell’Olimpo né Brahma, né Rama, né Iside, né lo Yahweh del Sinai, né Allah senza nome e senza volto, ma Eros e la sua infinita potenza che coincide con la vita in tutte le sue forme, le sue specie e gli individui che la compongono. Non è un dio e non trascende la vita perché è immanente alla vita. Il senso, di cui abbiamo disperato bisogno e senza il quale non potremmo sopravvivere, è Eros che ce lo dona: uno specchio in cui guardarsi; l’amore per un’anima che ti conforta, un corpo che vuoi possedere, la cupidigia del comando, il fascino della seduzione, la malinconia dell’abbandono. E l’addio alla vita che è l’estremo atto d’amore di Eros quando ti chiude gli occhi e ti abbandona solo dopo il tuo ultimo respiro.

Repubblica 25.10.13
A che servono i filosofi
Quel che possono dire a proposito del mondo
Il Novecento è pieno di ipotesi sulla inutilità di una disciplina che forse è ancora capace di spiegare molte cose
di Maurizio Ferraris


Riprende oggi, con lo “Speciale Nuovo Realismo” la programmazione di Zettel, Filosofia in movimento (Rai Scuola canale 146 del digitale terrestre), prodotto da Rai Educational, direttore Silvia Calandrelli. Il programma, giunto alla terza edizione, è ideato da Gino Roncaglia e progettato e condotto da Maurizio Ferraris – di cui qui riportiamo una parte della conferenza «What is (new in) New Realism» tenuta all’University College di Londra il 21 ottobre – con Mario De Caro. Lo speciale è interamente dedicato a questo movimento filosofico e ai protagonisti del dibattito, da Mario De Caro a Giacomo Marramao, da Paolo Flores D’Arcais ad Arnaldo Colasanti.

Nel 1982 usciva Che cosa fanno oggi i filosofi?(Bompiani), con contributi dei maggiori filosofi italiani. Nell’epoca in cui la televisione-verità muoveva i primi passi con Chi l’ha visto?,l’interrogativo non poteva mancare di impensierire. L’inafferrabilità - e probabilmente la decrepita inutilità - della filosofia erano idee correnti, visto che tra i libri che maggiormente segnarono l’epoca ci furono La condizione postmoderna di Lyotard (la cui tesi centrale era la fine dei “grandi racconti”, ossia della filosofia: illuminismo, idealismo, marxismo) e, per l’Italia, due raccolte di articoli dai titoli eloquenti: laCrisi della ragione eIl pensierodebole.
Era l’esito di un processo di lungo periodo, in cui molto contava il fallimento della richiesta iperbolica di Marx e di Nietzsche, per cui i filosofi avrebbero dovutotrasformare il mondo. Per tutto il Novecento, la “morte della filosofia” è stata un florido genere letterario, da Morte e resurrezione della filosofia(1903) eIl crepuscolo dei filosofidi Papini (1906) all’Ache servono i filosofi?di Revel (1957), aLa fine della filosofia e il compito del pensiero
(1964) di Heidegger sino aFine della filosofia e altri saggidiColletti (1996). I più benevoli la vedevano come una specie di etnologia della civiltà occidentale, un modo per guardare criticamente ai pregiudizi di una tribù che si era inventata la mitologia della ragione universale. I più malevoli, invece, ritenevano che fosse essa stessa quella mitologia, da sostituirsi con scienze più ragionevoli e sobrie. Anzi, con la scienza tout court, visto che l’idea di una filosofia sempre più modica nelle sue pretese e sempre più dipendente dalla scienza risaliva a Kant, che aveva proposto disostituire “l’orgoglioso nome” di “ontologia” con il più modesto progetto di una “critica della ragione”.
Dunque, non si trattava solo di un atteggiamento extrafilosofico. Era il cuore della filosofia che nel Novecento si è concepita come negatività, decostruzione, interpretazione, autosuperamento (e dunque autoreferenzialità), e molto raramente come fonte positiva di conoscenza. Questo valeva tanto per i filosofi amici della scienza, che si consideravano, nella migliore delle ipotesi, degli esegeti del lavoro fatto dagli scienziati. Sia per i filosofi nemici della scienza, che – identificando anche loro la scienza come la misura ultima della verità e della realtà – si trasformavano in professionisti dello scetticismo. Oggi non è più così. Dipende da un rafforzarsi della filosofia o da un indebolirsi della scienza? Non credo. Probabilmente, il motivo è l’accresciuta consapevolezza dei limiti della scienza, impostasi con un processo analogo a quanto è avvenuto in filosofia pressappoco all’epoca di Kant.
Oggi nessun filosofo, per quanto favorevole alla scienza, sarebbe infatti disposto a sostenere che è la soluzione di tutti i problemi e la risposta a tutti gli interrogativi. E neppure nessuno scienziato, tranne paradossalmente quelli che, vittime di una metafisica troppo forte, prendono per buone le descrizioni idealizzate della scienza che i filosofi avevano fabbricato troppi anni fa. Quali siano i limiti di ciò che (troppo genericamente) si chiama “scienza” lo si può del resto capire con un semplice esperimento. Prendete la copia di un giornale e chiedetevi: quante sono le notizie in cui la scienza assolve un qualche ruolo? Quasi nessuna. Si devono aspettare le pagine sulla salute, quelle dello sport (per via del doping), qualche volta la cronaca nera (perizie balistiche), e il meteo, che peraltro convive con l’oroscopo.
Questo ovviamente non significa che la filosofia sia in grado di risolvere i problemi delle prime pagine del giornale. Era la convinzione che cercarono di generare Platone e Aristotele quando si proposero come formatori delle classi dirigenti greche, ma ci sono buone ragioni per essere scettici. Il vero vantaggio è più modesto,ma molto concreto: consiste appunto nel venir meno della convinzione che essere filosofi significhi o appiattirsi completamente sulla scienza (come avveniva nelle diverse varianti del positivismo) o manifestare forme di antiscientismo di diversa radicalità, ma ugualmente insincere, giacché alla fine anche Feyerabend, che sosteneva che nella scienza “anything goes”, “va bene tutto”, avrebbe cercato per sé non un medico qualsiasi ma il medico migliore. La scienza ha dunque trovato dei limiti più precisi, ma questo non ha affatto comportato un trionfo dell’antiscientismo o uno scetticismo generalizzato rispetto alla realtà.
Oggi è infatti più chiaro che nel secolo scorso che non tutto ciò che è vero è scientifico, soprattutto se con “scienza” intendiamo la fisica: siamo perfettamente disposti ad ammettere che le nostre attuali conoscenze fisiche potranno cambiare e che alcune tra esse potranno rivelarsi false, mentre resterà vero sino alla fine dei tempi che Madame Bovary si chiamava “Emma” e che non esiste un colore che non abbia una estensione. Al tempo stesso, sempre se con “scienza” intendiamo la fisica, non è ovvio sostenere che la scienza giochi sistematicamente un ruolo fondativo, e superiore a ogni altra pratica o sapere, nella nostra vita. Le cose cambiano se prendiamo come riferimento una scienza generalmente negletta dai filosofi, e cioè la medicina: se una comunità di tolemaici può avere le stesse leggi di una comunità di copernicani, è molto probabile che una comunità persuasa della nocività del fumo ne tragga delle conseguenze politiche.
Ma anche la comunità che crede ai medici e non agli sciamani potrebbe essere giustamente riluttante a farsi guidare dai medici in ambito etico e ad apprezzare gli sciamani in campo estetico. Tuttavia - e questo è appunto l’elemento di gran lunga più significativo quanto ai nuovi rapporti tra scienza e filosofia - il fatto che sia sempre più evidente che la scienza non è sistematicamente la misura ultima della verità e della realtà non comporta minimamente che si debba dire addio alla realtà, alla verità o alla oggettività, come aveva concluso molta filosofia del secolo scorso con un “anything goes” che ricordava molto il dostoevskijano «Se Dio è morto, tutto è possibile». Significa piuttosto che anche la filosofia, così come la giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito del mondo.