domenica 27 ottobre 2013

l’Unità 27.10.13
Il valore dell’equità
Il Pil e il valore dell’uguaglianza
Non c’è risanamento se non si favorisce l’innovazione e si redistribuisce il reddito
di Luca Landò


HO VISTO UN FILM. E CHI SE NE FREGA DIRETE VOI. VERO, SE NON FOSSE CHE IL REGISTA È ROBERT REICH, ex ministro del Lavoro di Clinton e oggi professore di Economia a Berkeley. Si intitola «Inequality for all» (diseguaglianza per tutti) ed è nelle sale americane dal 29 settembre. Avete letto bene: nei cinema di quello strano Paese proiettano una pellicola che parla di economia e di società, di politica insomma. La tecnica è quella di Michael Moore, con l’autore che gira per gli States a mostrare quello che non va dal punto di vista sociale. Cammina per Wall Street, passa sotto i grandi palazzi del potere che conta, quello economico, mostra tabelle e grafici, va nei sobborghi e nelle periferie, entra negli ospedali pubblici e nelle scuole statali, che non sono la stessa cosa delle cliniche private e dei licei più esclusivi.
È un film di denuncia, ma anche di proposta. Perché il messaggio è chiaro: siamo il Paese più ricco del mondo, dice Reich, ma questa ricchezza è nelle mani di pochi, pochissimi. E quel che è peggio, c’è un partito a Washington che fa di tutto perché le cose restino così. Se vogliamo cambiarle dobbiamo rimboccarci le maniche, ora e tutti. Fine del film? Niente affatto, perché le immagini viste in sala (o su un computer, basta scaricarlo) continuano appena esci dal cinema. Sono le code alle mense, sono le fabbriche chiuse, sono i cartelli to rent o for sale davanti a case che nessuno riesce a comprare o affittare.
Non ci vuole molto a capire che quei fotogrammi, cartelli a parte, sono gli stessi che vediamo ogni giorno da noi. E non potrebbe essere altrimenti. Italia e Stati Uniti sono i Paesi industriali con il più alto indice di Gini, un coefficiente che misura il livello di diseguaglianza di un Paese: più alto l’indice, più ampia la differenza tra redditi alti e redditi poveri. In America è intorno al 40, in Italia è più basso, 32, ma è il più alto d’Europa. Dal 2009 a oggi questo indice ha cominciato a crescere, mostrando con i numeri quello che avevamo fiutato col naso: che la crisi ha impoverito la classe media e aumentato la distanza tra chi ha sempre di più e chi ha sempre di meno. Un esito inevitabile? Niente affatto: in Germania lo stesso indicatore è in calo dal 2007.
Il guaio è che le diseguaglianze sociali ed economiche, quando sono così elevate, non sono solo inaccettabili (certo, anche questo) ma sono anche negative dal punto di vista economico. Nel suo ultimo libro Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'Economia, non usa giri di parole: «La disuguaglianza uccide il Pil». Perché quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi, la macchina economica si ferma. Secondo una classifica della Banca mondiale, tra i 50 Paesi con il più alto Pil procapite, i più ricchi sono quelli che hanno anche un maggiore livello di eguaglianza: prima la Norvegia, terza la Danimarca, quarta la Svezia, sesta la Finlandia. E l’Italia? Non pervenuta. Perché è vero, come diceva Berlusconi premier, che «gli italiani sono ricchi, con un rapporto tra ricchezza delle famiglie e Pil di 6 a 1, maggiore che negli altri Paesi europei», ma come per i polli di Trilussa c’è chi ha tutto e chi niente: il 45% di questa grande ricchezza appartiene infatti solo al 10% dei cittadini, mentre il 50% meno ricco ne possiede solo il 10%. Un paradosso, ovviamente, ma non certo l’unico. Lo scrive Nicola Cacace nel suo bel libro «Equità e sviluppo»: siamo il Paese più vecchio del mondo (età media 45 anni) con la disoccupazione giovanile più alta d’Europa (oltre il 30% contro il 20% europeo); siamo il Paese europeo con meno laureati eppure abbiamo il più alto livello di laureati disoccupati o sottoccupati. E siamo un Paese «congelato» perché da tempo la scuola non è più quell’ascensore sociale di cui si è favoleggiato a lungo: oggi solo il 10% dei figli di operai diventa professionista, mentre il 45% dei figli di medici sono medici, di architetti sono architetti, di ingegneri sono ingegneri. Una paralisi sociale, ingiusta moralmente ma pericolosa strategicamente: perché è anche da questa immobilità che nascono le resistenze del Paese a lanciarsi lungo nuove strade e nuovi mestieri.
Che fare? Gli esperti indicano tre strumenti, tre cacciaviti con i quali assemblare un Paese diverso o quanto meno all’altezza dei tempi: arrestare il declino demografico; favorire l’innovazione; redistribuire più equamente il reddito. Sono questi i quadri che premier, ministri e segretari di partito dovrebbero appendere nel proprio studio. Perché è da questi quadri e da queste cornici che dovrebbero discendere le politiche di risanamento economico e sociale, prima ancora che finanziario.
C’è un ultimo punto. Il 75% dell'occupazione dei cinque maggiori Paesi industriali Usa, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna viene dai servizi (turismo, trasporti, istruzione, cultura, ecc.) mentre in Italia si arriva a fatica al 68%. E se cominciassimo proprio da qui? Sette punti in meno corrispondono a due milioni di occupati, calcola Cacace. Non sarebbe il caso di fare, seriamente, quello che gli altri Paesi stanno facendo da tempo e meglio di noi? Certo, bisognerebbe puntare sui giovani aiutandoli a formarsi, prepararsi e magari inventare nuovi mestieri e nuovi servizi.
Già, i giovani. La frase più citata degli ultimi dieci anni recita che senza giovani non c’è futuro: altrove è la linea guida di qualunque piano di sviluppo nazionale, da noi sembra un epitaffio di Spoon River.

La Stampa 27.10.13
Tessere false, pioggia di ricorsi
Civati sul suo blog ospita le denunce. Martedì si riunisce la Commissione
Da Torino a Catania, allarme nel partito che manda ispettori per le situazioni più delicate
di Francesca Schianchi


ROMA Residenti in un comune che risulterebbero iscritti in un altro. Città in cui i tesserati miracolosamente si moltiplicano come i pani e i pesci. Ricorsi che fioccano alle varie Commissioni di garanzia. Il congresso del Pd è ormai in moto, si parte con le assise locali, c’è tempo fino al 6 novembre, anche se in molte province, soprattutto al Nord, si stanno svolgendo in questo weekend. E, qua e là, si accendono fuochi di polemica: allarmi e vere e proprie segnalazioni di possibili irregolarità, tessere gonfiate, tessere bianche, «pacchetti di tessere come fossero schede telefoniche», come denuncia il candidato alla segreteria Pippo Civati. Tanto che, come l’Onu nelle zone a rischio, così pure il Pd nazionale ha mandato i suoi uomini su alcuni territori.
Da qualche parte, come a Torino, la visita dell’osservatore, Giovanni Lunardon, segretario regionale della Liguria, incaricato dalla Commissione congresso, si è conclusa venerdì sera con un comunicato distensivo e la rassicurazione che non ci sono state irregolarità nel tesseramento. Oltre novemila tessere, 9.003 per la precisione, si chiarisce, sono solo «frutto di un materiale errore di invio nella spedizione». Per il resto, 12.347 corrispondono a tesserati «passibili di rinnovo» e 4.337 sono quelle bianche, «quota fisiologica assegnata ai circoli per i nuovi iscritti».
Ma un numero esorbitante di tessere bianche sono state inviate anche a Lecce, dove è stato spedito a «osservare» il deputato veltroniano Roberto Morassut. «Nel 2012 la provincia di Lecce contava circa 4700 tesserati, quest’anno, a marzo, la Direzione nazionale ha inviato 16mila tessere», spiega. Non si sa ancora quante di queste siano state usate, «ma da quanto mi hanno raccontato, pare ci siano centri in cui il numero di iscritti è cresciuto notevolmente. Proporrò alla Commissione congresso di sospendere e rinviare i congressi locali». Quello che succederà a Catania: lì, dove è stato inviato il bersaniano Nico Stumpo, i due candidati segretari provinciali hanno fatto un passo indietro per cercare di svelenire il clima, il congresso è sospeso, si vedrà come andare avanti. E anche in altre città siciliane potrebbero aprirsi problemi, dato che la coordinatrice regionale dell’area Civati ha annunciato ricorso alla Commissione nazionale di garanzia.
Ma anche altrove, dove non sono arrivati osservatori romani, ci sono territori in cui si grida all’anomalia. Sul suo blog, ieri, Civati ha scritto di un suo sostenitore schiaffeggiato, a Napoli, da un esponente del Pdl «che stava facendo tessere per il congresso del Pd». Qualche giorno fa, sullo stesso blog è apparsa una lettera anonima di un giovane democratico di Casoria che parla di «tessere su tessere, pacchetti che appaiono dal nulla e diventano mattoni».
«In alcune situazioni c’è stato un aumento delle tessere non fisiologico, è giusto fare controlli», valuta il renziano Lorenzo Guerini, che fa parte della Commissione congresso. Dalla provincia di Cosenza due membri delle commissioni di garanzia regionale e provinciale parlano di «irregolarità nella fase che precede il congresso», e c’è pure la segnalazione di tessere 2012 di cui non risulterebbe pagato il versamento. Ad Avellino quattro dei cinque candidati denunciano l’iscrizione di esponenti di altri partiti e di residenti in altri comuni.
Tessere che, naturalmente, hanno un costo: 15 euro la quota per così dire «nazionale», a cui ciascuna federazione può aggiungere qualcosa per sostenere le attività locali. «Costerà meno la mia campagna elettorale del tesseramento in qualche provincia...», prevede maliziosamente Civati. Certo, ammettono un po’ tutti sottovoce, nell’anno del congresso è abbastanza normale che ci sia un aumento delle tessere. Nel 2009, anno di elezione a segretario di Bersani, si viaggiava sugli 800mila iscritti, scesi poi nel 2011 a poco più di 600mila, e a 500mila l’anno scorso. Obiettivo del 2013, dichiarato qualche mese fa dando il via al tesseramento, è arrivare a 750mila: certo, però, sarebbe meglio non arrivarci con l’ombra di iscrizioni fittizie solo a fini congressuali. «Non ho niente da dire», taglia corto il responsabile organizzazione Davide Zoggia. Martedì torna a riunirsi la Commissione congresso. Cercherà di fare il possibile per prevenire contestazioni. Ed evitare una pioggia di ricorsi postumi alla Commissione nazionale di garanzia.

il Fatto 27.10.13
Pd, largo ai signori delle tessere, proteste e ricorsi in mezza Italia
Dalla Campania di De Luca alla Sicilia di Genovese, sino alla Puglia dei mille ras
Code nei circoli, veleni e congressi rinviati
E tanti capibastone si scoprono renziani
a cura di: Vincenzo Iurillo, Lucio Musolino, Giuseppe Lo Bianco, Tiziana Colluto, Antonio Massari



Tesseramenti gonfiati, truppe cammellate, valanghe di ricorsi e commissari dal partito centrale, a cercare di riportare un minimo di ordine. I congressi locali del Pd, in corso in tutta Italia, sono il campo di battaglia di capibastone e signori delle tessere
Campania: Bassolino guarda, De Luca domina
Corre alla velocità di 1000 tessere al giorno la campagna di adesione al Pd a Napoli e in provincia. E chissà cosa succederà ai seggi dei congressi di circolo, visto che il regolamento consente il tesseramento last minute, anche un attimo prima del voto. Per ora siamo a 21.000, rispetto ai 17.000 con cui si chiuse il tesseramento precongressuale del 2012. Il meglio, però, deve ancora venire. Sbaglia chi pensa che dietro all’incetta di blocchi di tessere ci siano i big del passato. Antonio Bassolino, tanto per dirne uno, non se ne è minimamente occupato. La sua voglia di rilanciarsi sul palcoscenico politico passa per le autobiografie, le interviste fiume e le comparsate alle iniziative anti De Magistris – martedì 29 è atteso alla presentazione di Pubblico Mistero di Chiocci e Di Meo, libro che fa a pezzi l’ex pm e la sua rivoluzione arancione – ma non prevede il controllo diretto del partito. Bassolino sa bene che se dovesse ridiscendere in campo, sarà il Pd a venire da lui e non il contrario. Alle beghe delle tessere ci pensano l’europarlamentare Andrea Cozzolino, i consiglieri regionali Antonio Marciano, Mario Casillo, Raffaele Topo, il deputato Massimo Paolucci. I numeri spiccano perché la commissione di garanzia ha autorizzato tesseramenti e circoli persino in paesi e luoghi dove non erano mai avvenuti e mai nati. Peccato che in qualche città alcune liste della competizione provinciale tra l’uscente Gino Cimmino e il sindaco di Melito Venanzio Carpentieri siano state annullate perché i candidati all’assemblea dei delegati hanno disconosciuto la firma. Sul suo blog, Giuseppe Civati denuncia: “Marco Sarracino, segretario dei Gd e mio caro amico, che aveva più volte denunciato la crescita esponenziale delle tessere, oggi (ieri, ndr) è stato schiaffeggiato da un consigliere del Pdl che stava facendo tessere per il congresso del Pd. Avevamo chiesto di piantarla e che tutti quanti si dessero una calmata. A Napoli la pessima figura delle primarie di due anni fa non è bastata”. Tensione anche ad Avellino, dove 4 candidati alla segreteria provinciale su 5 cinque denunciano il tesseramento gonfiato, e a Salerno, dove Vincenzo Pedace e Sergio Annunziata minacciano per protesta il ritiro dalla competizione contro il segretario provinciale uscente Nicola Landolfi. Un fedelissimo del vero signore del partito salernitano, il sindaco-viceministro da 176 giorni incompatibile Vincenzo De Luca.
Calabria: a Catanzaro renziano con condanna
Tornano i congressi e in Calabria si rivedono i “signori delle tessere”. Dopo un lungo periodo di commissariamento per il Pd regionale, le segreterie dei circoli sembrano diventate un luogo di pellegrinaggio. Il partito sta moltiplicando gli iscritti. I circoli “fantasma”, dopo anni di inattività, si svegliano dal letargo per appoggiare questo o quel candidato. Gli avversari di ieri sono gli alleati di oggi. Ecco come in Calabria tutti stanno diventando “renziani”. Strane alleanze e “anomali gonfiori” caratterizzano la corsa alla segreteria provinciale. “È tutta una conta di tessere” confessa un consigliere regionale. Nel Cosentino c’è chi lo ha denunciato: “Il tesseramento si sta svolgendo senza verifiche. ”. A Reggio è in corsa Domenico Idone, sindaco di Campo Calabro, Comune per il quale il Viminale ha disposto la commissione d’accesso per verificare infiltrazione mafiose. Situazione complicata è a Catanzaro dove, per il presidente di un circolo, Antonio Tarantino, “si è superato il limite alla decenza e al gattopardismo”. Tarantino aveva fatto ricorso contro la candidatura alla segreteria provinciale del neo-renziano Enzo Bruno, condannato a un anno di carcere per truffa aggravata ai danni della pubblica amministrazione. Prima“bersaniano”, Bruno è un ex consigliere provinciale del Pd, da quasi dieci anni componente “della struttura speciale” del consigliere regionale Piero Amato. In sostanza, quando era consigliere provinciale Bruno avrebbe usufruito dei rimborsi per missioni che, in realtà, erano pernottamenti con la famiglia a Montecatini Terme e a Roma. “Sono una persona per bene - si difende Bruno - Il partito deve difendermi perché è una vicenda che supererò. Non possiamo essere falciati da un’onda giustizialista”. E il partito lo ha difeso: la commissione di garanzia nazionale ha dato il via libera alla sua candidatura. Per Bruno si stanno muovendo i pezzi da novanta del partito calabrese, quelli che Salvatore Scalzo, ex candidato a sindaco di Reggio Calabria, chiama “i capibastone, che considerano le persone come tessere da far valere nei congressi”.
Sicilia: pure Genovese si scopre renziano
A Messina si muovono le truppe di Fracantonio Genovese, pronte a sostenere la candidatura del rottamatore Basilio Ridolfo a segretario del Pd, a Trapani quelle di Nino Papania, in attesa di istruzioni, guardano a Renzi con favore: tra tessere fantasma, congressi annullati (l’ultimo è quello di Catania, cancellato ieri) e iscrizioni sospette nel Pd siciliano vecchi ras e giovani leoni si scoprono renziani e ingrossano le fila dei fedelissimi del sindaco di Firenze, che appena un anno fa contava uno sparuto gruppo di aficionados. Più che un’Opa, come l’ha definita il deputato Concetta Raia, è un assalto al carro del potenziale vincitore, a partire dai boss della formazione professionale, serbatoio di stipendi e consensi, Genovese e Platania, entrambi provenienti dalla Margherita. Muovono migliaia di voti nelle province di Messina e Trapani affamate di lavoro e con loro si sono convertiti alla Leopolda politici navigati come Leoluca Orlando ed Enzo Bianco, ma anche giovani leoni come Fabrizio Ferrandelli, ex delfino di Orlando e il sindaco di Agrigento Marco Zambuto, cresciuto nel movimento giovanile dell’Udc. Stregata da Renzi, Stefania Munafò ha abbandonato il centrodestra per correre in soccorso del rottamatore: consigliere comunale a Palermo, fino a due mesi stava nel partito di Lombardo. E vicino a Lombardo era anche il deputato Pd Giuseppe Laccoto, ex presidente della commissione Sanità, un passato in Forza Italia, oggi renziano di ferro. Intanto le file per il tesseramento fuori dai circoli del Pd sono diventate chilometriche. A Catania, dove avevano mandato come osservatore il bersaniano Nino Stumpo, tutto congelato. I due candidati segretario provinciale Jacopo Torrisi e Mauro Mangano hanno ritirato le candidature. E il coordinatore della Commissione provinciale per il congresso ha sospeso le procedure.
Puglia: consultazioni a rischio a Lecce e Foggia
Più che una realtà vera, le tessere che nel Pd pugliese starebbero lievitando come il pane sembrano un alibi per congelare i congressi. Almeno quelli più controversi, alle due estremità della regione: Lecce e Foggia. Contese aspre, anche a causa delle casacche indossate da parlamentari e assessori regionali. È addosso a quelle dispute avvelenate che sono puntati gli occhi di Roma. Lunedì a Bari arriverà Davide Zoggia, responsabile organizzazione del partito. “Abbiamo richiesto la sua presenza - dice Loredana Legrottaglie, a capo della Commissione regionale di garanzia - per capire cosa fare in queste due province. Al momento, siamo orientati per la prosecuzione delle elezioni dei segretari. Al di là di quello che alcuni candidati denunciano, non stiamo riscontrando anomalie”. Ad oggi, è Cerignola, in Capitanata, l’unico caso sul quale è stata richiesta una verifica formale. A far drizzare le antenne è stato il segretario cittadino, Tommaso Sgarro: “È inaccettabile il mercimonio sui consensi che c’è stato la sera del voto ad opera di alcuni noti veterani del tesseramento coatto”. L’anomalo scontro, in terra foggiana, è tra due renziani, Michele Piemontese e Michelangelo Lombardi, quest’ultimo sostenuto dall’assessore regionale alla Sanità, Elena Gentile. Rischia di essere sospeso, poi, il congresso leccese. Per monitorarlo è stato inviato come osservatore, il parlamentare laziale Roberto Morassut. La denuncia sui tesseramenti gonfiati è di Alfonso Rampino, candidato supportato dai parlamentari Teresa Bella-nova e Salvatore Capone, ma attualmente il più in difficoltà. A sparigliare le carte, a giochi già iniziati, sarà, tuttavia, la disposizione data da Luigi Berlinguer: salta il regolamento solo pugliese, che, al primo turno, prevedeva l’elezione dei segretari provinciali con il voto del 50 per cento uno degli iscritti, invece che dei delegati, come altrove. Una retromarcia che contribuirebbe a vanificare, qualora ci fossero, gli “acquisti” in extremis di pacchetti di tessere.
Basilicata: niente casi ma tanti maggiorenti
È il nuovo uomo forte del Pd lucano, Roberto Speranza, ma non ancora così forte da staccarsi dal “grande vecchio” Filippo Bubbico che, dicono, per lui ha sempre avuto un debole. Alti e bassi tra Roma e Potenza, per il giovane Roberto, classe 1979, a trent’anni già segretario regionale del Pd regionale. Ha dovuto mollare la presa un mese fa: proprio quando la sua carriera politica nazionale lo mostrava più in forma, eletto deputato a marzo e poi capogruppo del Pd alla Camera, scopre di avere fiato corto a casa sua: primarie per le elezioni regionali, lui punta su Piero La Corazza, ma vince Marcello Pittella. Speranza lascia la poltrona di segretario regionale, sulla quale siede adesso il lettiano Vito de Filippo, ex governatore a lungo braccio destro di Bubbico che resta sempre in piedi. Sono questi gli equilibri del Pd lucano, in vista delle primarie nazionali, con Bubbico sempre pronto a fare da ago della bilancia. A 38 anni dalla sua prima battaglia politica - occupava il guardino di via Meda, a Roma, per impedirne la cementificazione - Bubbico è viceministro dell’Interno con medaglia di saggio, appostagli dal presidente Giorgio Napolitano. È un uomo che sa aspettare. Nel 2005 – trent’anni dopo - torna in via Meda, da governatore lucano, accompagnato dal sindaco Veltroni per inaugurarvi un parco. L’unico vero tradimento che si ricordi, fu quello ordito dai bachi da seta che, un giorno, ebbe l’idea di allevare – utilizzando anche fondi europei – senza alcun successo. Erano gli anni in cui l’ex pm Luigi de Magistris lo definiva “il collante tra quella parte della politica, della magistratura e degli imprenditori, che fanno affari in violazione di legge”. Il tempo diede a Bubbico piena soddisfazione: l’ex pm fu trasferito e chi n’ereditò l’inchiesta decise d’archiviare. Mai nessuna condanna, resta un’indagine aperta per la nomina, nel 2005, di un consulente in Regione che, secondo l’accusa, fu illegittima: fascicolo destinato alla prescrizione. Nel novembre 2003 Berlusconi voleva costruire, a Scanzano Jonico, il deposito unico per le scorie nucleari. Bubbico guidò un corteo di 100mila lucani: dimenticò di rivelare che lui di quel deposito aveva saputo in anticipo.

il Fatto 27.10.13
Tutti pazzi per Renzi, prima di farlo fuori
I big accorrono al suo show elettorale ma nei circoli il sindaco rischia di perdere
di Wanda Marra


Certo con tutta questa storia del tesseramento gonfiato, soprattutto al sud, mica è detto che tra gli iscritti vinciamo. Ma quello che conta è l’8 dicembre”. Le voci ufficiali dicono altro, ma qualche renziano della prima ora lo sussurra quasi a mezza bocca. La Leopolda 2013, la kermesse renziana per eccellenza, va avanti trionfale, migliaia di presenze, tra i 100 tavoli del venerdì sera organizzati per discutere “dal basso” e le centinaia di interventi di ieri dal palco. In una formula consolidata ormai da anni, si succedono, 5, massimo 10 minuti a testa, militanti e dirigenti, sconosciuti e celebrità. Quest’anno regna l’ottimismo, la voglia di riscatto. Su tutti Roberto Reggi, che fu il coordinatore delle primarie contro Bersani e che – durissimo negli attacchi – pagò per tutti: “L’anno scorso questo partito che noi amiamo, aveva fatto di tutto per boicottarci, utilizzando anche strumenti al limite. Ora dobbiamo ripartire dai circoli per portare un cambiamento”. Ecco, non ci sono solo le primarie, in questo congresso. Ci sono i voti dei circoli, che finiranno entro i primi giorni di novembre.
E POI C’È la convenzione nazionale, un organismo che si riunisce un’unica volta il 24 novembre, composta da 1000 delegati. Lì si danno le percentuali dei voti tra gli iscritti, e si passa la parola ai gazebo. E se Renzi tra gli iscritti non vincesse?
L’atmosfera che si respira quest’anno nella vecchia stazione industriale non ha nulla a che vedere con quella degli anni precedenti: dal palco, soprattutto i giovanissimi sono battaglieri (da chi attacca frontalmente il governo, a chi ricorda “dobbiamo cambiare questo mondo di merda”), ma in platea sembra che siedano già potenziali vincitori. “Non si può fermare il vento con le mani” era lo slogan del 2012. Vento o no, Matteo allora fu fermato. Adesso invece, nessuno pensa davvero di batterlo. E se ci fosse un modo ben più indolore per neutralizzarlo? Il primo è proprio costruirgli a livello locale un partito che non gli assomiglia. E poi c’è la questione della “processione”. Ieri è arrivato Guglielmo Epifani, ha parlato più di un’ora col padrone di casa, è intervenuto dal palco. Che già si veda in un ruolo chiave nel partito di Matteo? Poi, c’è Dario Franceschini, che arriva stamattina. Preceduto però in questi due giorni dal manipolo dei fedelissimi: Ettore Rosato, Emanuele Fiano, Francesco Saverio Garofani, Pietro Martino. O pezzi più grossi della sua corrente, come Piero Fassino e David Sassoli. Matteo troverà un posto di rilievo anche per loro? Ieri l’ha ripetuto: “Non si sale sul carro, il carro si spinge”. Eppure alla sua candidatura dovranno essere accompagnate delle liste (da presentare il 25 novembre) di persone che poi entreranno nell’Assemblea nazionale, che a sua volta nomina la direzione. Renzi ha più volte fatto capire che pensa a un listone unico, proprio per evitare troppe pressioni. Ma quante se ne potrà risparmiare? In questi giorni alla Leopolda hanno abbondato gli ex dalemiani, Claudio Burlando in testa, ma anche Nicola Latorre e Claudio Velar-di. E Marianna Madia. E poi, gli ex bersaniani, da Stefano Bonaccini, che è addirittura il capo del comitato elettorale a Alessia Morani. E ex veltroniani, come Vinicio Peluffo e Salvatore Vassallo. O prodiani come Sandro Gozi. Ce n’è abbastanza per ridurre la potenza del vento.
L’ASSEMBLEA, oltre a cambiare lo Statuto, ha il potere di sfiduciare il segretario. È in direzione che dovrebbero formalmente essere prese le decisioni. Sono usate come organi di logoramento, la guerra tra correnti ha cotto a puntino più di un segretario. Accadrà così anche a Renzi? Lo stile è un altro. Basta vedere la giornata di ieri: sul palco a presentare, moderare, commentare, leggere tweet, mandare messaggi. Quando è comparso per il suo intervento Giorgio Gori, uno degli ex fedelissimi allontanati, però, si è alzato ed è sparito. Un caso?
A proposito di uomo solo al comando. Le decisioni vere sono sempre state prese da pochi: durante la fase post elettorale dello scorso febbraio facevano tutto Bersani, Letta, Franceschini e Migliavacca. Qualche renziano doc tra i più spericolati commenta: “Gli organismi? Matteo li cancella tutti, cambia lo statuto”. Per ricordare ancora il Mathama Gandhi scelto tra le epigrafi della kermesse: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci”. E poi?

il Fatto 27.10.13
Leopolda senza bandiere del Pd Cuperlo: “Assurdo”


“QUANDO CI SI CANDIDA a guidare il più grande partito della sinistra italiana bisogna avere anche l’orgoglio di rivendicare la bellezza del simbolo di quel partito, perché noi non dobbiamo chiederci quanto quel simbolo ha bisogno di ciascuno di noi, ma dovremmo cominciare a chiederci di nuovo quanto tutti noi assieme abbiamo bisogno di quel simbolo”. Lo ha detto Gianni Cuperlo, ieri a Udine, commentando la scelta di Matteo Renzi non avere simboli del Pd alla Leopolda. L’argomento ha scatenato un botta e risposta tra i due candidati alla segreteria del Pd quando proprio Cuperlo aveva detto: “Ce la immaginiamo la Fiorentina che acquista Messi dal Barcellona, fa la conferenza stampa per presentarlo ai tifosi e alla città e non c’è la foto del giocatore che tiene in mano la maglietta della Fiorentina con scritto Messi? Non potrebbe accadere”.

il Fatto 27.10.13
Firenze, la kermesse costa 100 mila euro
di Wa. Ma.


QUANTO costa la tre giorni renziana? E soprattutto chi la paga? La domanda trova tradizionalmente risposte fumose. Alberto Bianchi, avvocato e presidente della Fondazione Big Bang, dà quella ufficiale: “Il preventivo è di circa 100mila euro, cui contiamo di far fronte in parte con la raccolta all’entrata, in parte col merchandising, in parte con fondi della Fondazione”. Mentre Bianchi risponde così, Renzi dal palco fornisce un’altra versione: “La Leopolda si finanzia attraverso i contributi dei partecipanti e dei sostenitori e le donazioni avvengono sul sito web matteorenzi.it  ”. Poi, l’invito: “Speriamo di arrivare a 10mila euro”. E gli altri 90mila? Il merchandising consiste in magliette, penne, matite e souvenir di vario genere: difficile pensare a grandi incassi. Sul sito della Fondazione ci sono i nomi di alcuni donatori. Ma per conoscerli tutti, bisognerà aspettare aprile, quando si chiude il bilancio.

il Fatto 27.10.13
Il fondatore Arturo Parisi
“Altro che congressi Queste sono conte”
di Luca De Carolis


Senza il confronto e la scelta sulle cose che contano, quelli che chiamiamo congressi si trasformano in conte”. Arturo Parisi, 72 anni, professore universitario, è uno dei fondatori del Pd. Rivendica la sua uscita dal Parlamento (“12 anni alla Camera mi sono sembrati sufficienti”). Non andrà a votare per il suo circolo e gli organi del partito di Bologna. “Ma da cittadino sostengo il Pd, e voterò per la segreteria nazionale”.
Professore, da mezza Italia arrivano notizie di tesseramenti gonfiati e ricorsi dai congressi Pd. Il partito sta mandando osservatori per mettere ordine. Cosa prova, lei che ha pensato e fondato il partito?
I partiti sono come le case: non basta costruirle. Dopo vanno mantenute pulite, ogni giorno. Alcune patologie sono connaturate alla politica. Bisogna vigilare con costanza.
In casa Pd forse la vigilanza è stata insufficiente.
Mi faccia innanzitutto guardare alle cose positive, al fatto che il partito sta tentando di correggere le situazioni poco chiare, inviando persone sul posto. Vuole fare pulizia. E poi c’è il dato della trasparenza: i panni sporchi il Pd li lava in pubblico, a differenza degli altri partiti. Non si nasconde, insomma. E così dà più lavoro a voi giornalisti...
I congressi vengono rinviati, le truppe cammellate fanno incetta di tessere...
Se dire partiti e politica è dire potere, la competizione e la lotta vanno messe nel conto. Quello che importa è che sia leale e che a contare siano le idee, il che cosa, prima del chi.
Eppure questi sono i congressi: dovrebbero essere un’occasione di confronto politico.
È quello che dovrebbe capitare. Ma ancora siamo lontani. In queste infinite conte le tessere hanno prevalso sui tesserati, sta vincendo la preoccupazione di contare i suoi per garantire il suo. Purtroppo la politica e la scelta tra le risposte in campo restano lontane.
La domanda è: come si ferma tutto questo?
Rispettando innanzitutto le regole che ci siamo-dati. E prima ancora darci solo quelle che pensiamo possano essere rispettate. Il Pd di regole ne ha troppe, e le cambia troppo spesso. Esattamente come capita per tutto il Paese. Ricordo quel che Veltroni mi replicava quando ponevo il problema della legalità interna: “Nessuno ha tante regole come il Pd”. E io che rispondevo: “Appunto”
Passiamo avanti.
Forse l’altro nodo di oggi è l’eccesso di votazioni nel partito. Conti alla mano, ormai ci sono congressi o primarie ogni quattro o cinque mesi. Una sfida per i gruppi di potere, ma allo stesso tempo una febbre permanente, per ognuno una mobilitazione continua per tenere all’esterno le posizioni del gruppo, e la disciplina all’interno.
Si dovrebbe votare di meno?
Non è questo il problema. Il problema è su che cosa.
Ossia?
Se i congressi locali sono congressi locali, legati cioè a temi distinti, sarebbe stato meglio svolgerli in un tempo distinto. Collocati come sono dentro il percorso nazionale dovrebbero essere legati in modo stretto alla competizione per la segreteria nazionale.
E quindi...
E quindi non riuscendo a contare preferiamo limitarci a contarci.
Perché i capibastone sono così resistenti? I giovani non dovrebbero scalzarli?
Innanzitutto dobbiamo riconoscere che un ricambio c’è stato. Che poi questo continui è un’altra cosa. La verità è che resiste meglio e di più chi ha già resistito. E ha resistito di più chi è da più tempo in campo, cioè a dire chi è sceso in campo più presto. È per questo motivo che non bisognerebbe cominciare a fare politica a tempo pieno prima di una certa età. Altrimenti si finisce prigionieri per tutta la vita, si diventa forzatamente professionisti. Si metta nei panni di uno che dovrebbe lasciare dopo tre legislature dopo aver iniziato a 27 anni. È più facile che cambi partito piuttosto che cambiare lavoro. O si trasformi appunto presto in un capobastone.
Non avere una professione alternativa li rende più ricattabili?
Diciamo meno liberi. Dobbiamo scegliere. Se la politica è una roba seria da lasciare ai professionisti della politica, e non “da dilettanti alla Parisi” come pensava legittimamente D’Alema, prima si inizia e meglio è. E allora, viva la rottamazione. Anche se forse su questo D’Alema è meno d’accordo.
Che ne pensa di Renzi?
L’ho votato l’anno scorso, e lo rivoterò ancora. Dirsi renziano, come giustamente dice lo stesso Renzi è un’altra cosa. Tra le alternative sulle quali si è strutturata la competizione è il candidato che più di altri può spingere il processo di cambiamento nella direzione che preferisco.
Moltissimi stanno salendo sul suo carro: come si può difendere?
Utilizzando la politica. Per esempio, lui è per il maggioritario e tutto quello che ne consegue? Come potrebbe avere tra i suoi chi sostiene l’opposto? E non penso al passato. Tutti possono cambiare posizione. Ma devono dirlo e piegare perchè. Se è innegabile che i voti contano, a decidere debbono essere le idee.

il Fatto 27.10.13
Arriva Schifani, Letta è “salvo”
L’ex presidente del Senato pronto a staccare dal gruppo Pdl 15 eletti
Anche Gasparri pensa alla fuga
di Fabrizio d’Esposito


Fino a giovedì sera, alla vigilia del fatidico Venticinque Ottobre del fu Pdl, Renato Schifani si muoveva con fare sornione e passo felpato tra i due clan berlusconiani, falchi e colombe. Accreditato di un solido legame con il corregionale Alfano (i due hanno archiviato l’era azzurra Micciché-Prestigiacomo in Sicilia), l’ex presidente del Senato oggi capogruppo a Palazzo Madama ha scelto solo all’ultimo minuto. E così c’è anche il suo nome tra i cinque disertori governisti dell’ufficio di presidenza di venerdì scorso. L’house organ dei falchi di B., il Giornale di Sallusti, ha subito segnalato con evidenza, in prima pagina, il tradimento: “E alla fine Schifani gettò la maschera”.
Gli “schifaniani”
Il peso di Schifani quando si aprirà la crisi di governo sulla decadenza del Cavaliere, nel-l’ultima metà di novembre, sarà decisivo per mettere in sicurezza il governo Napolitano-Letta. Altri quindici senatori, che fanno riferimento al capogruppo del Pdl, dovrebbero infatti aggiungersi ai già noti 24 (20 del Pdl e 4 di Gal) che hanno firmato l’ultimo documento a favore delle larghe intese. A quel punto, con un gruppo di 40 senatori, la maggioranza supererebbe quota 180. Il piano è partito alcuni giorni fa. In caso di spaccatura irreversibile tra “Silvio” e “Angelino”, Schifani avrebbe valutato persino la tentazione di un gruppo autonomo, distinto dalle due fazioni in lotta tra di loro. Tutto è possibile. In ogni caso l’elenco custodito dall’ex presidente del Senato comprende: Donato Bruno, Simona Vicari, Giuseppe Esposito, Franco Cardiello, Massimo Cassano, Franco Carraro, Bruno Alicata, Antonio D’Alì, Emilio Floris, Cosimo Sibilia, Salvatore Sciascia, Andrea Mandelli.
Scilipoti c’è
Fin qui i nomi sono dodici. Il tredicesimo dovrebbe essere Domenico Scilipoti. Non poteva essere che lui, il tredicesimo. L’immortale icona Responsabile nella scorsa legislatura è stato sondato da un emissario di Schifani e avrebbe dato la sua disponibilità a far parte dei governisti. Battuta dell’emissario al cronista: “Scilipoti si butta sempre con chi governa”. Non solo. A muovere lui, ma anche tanti altri, è la “paura fottuta” che la legislatura possa finire dopo appena un anno. Il gruppo di Schifani dovrebbe quindi raggiungere i quindici con l’innesto di Maurizio Gasparri e del suo fedelissimo Enzo Fasano. L’ex an, già ministro, è stato etichettato come pontiere o ricucitore, ma nella resa dei conti finale dovrebbe scegliere le colombe. Se non altro perché è nella lista nera dei falchi che si apprestano a occupare i posti chiave di Forza Italia.
Ministri divisi
La questione di un posto certo alle prossime elezioni, comunque di un futuro assicurato, non è secondaria nel tormentone scissionista che sta squassando la destra del Condannato. Lo conferma la divisione tra i cinque ministri del Pdl. Alfano, Lupi e De Girolamo si stanno battendo per evitare la spaccatura definitiva. L’ex segretario del Pdl viene descritto come “avvilito”. Al centro di tutto c’è il suo rapporto politico e umano con il Cavaliere. Anche per questo “Angelino”, e con lui Lupi e la De Girolamo, vorrebbero evitare lo strappo. Diverso il discorso per gli altri due ministri del Pdl, Gaetano Quagliariello e Beatrice Lorenzin, ormai in piena orbita Quirinale. Per loro vale quello che si dice per Gasparri, Cicchitto e tanti altri: anche in caso di ricucitura non eviterebbero l’epurazione chiesta dai falchi. Su questo lo stesso Berlusconi si sarebbe espresso con chiarezza: “So chi mi ha tradito”. E dalla corte del Condannato raccontano che si riferisse più a Quagliariello che ad Alfano.
Ghedini, vero falco
In queste ore, non è un gioco di parole, ci sono i falchi delle colombe (Giovanardi e Cicchitto) e gli iperfalchi dei lealisti. Ossia quelli che vogliono la rottura. Il falco berlusconiano più intransigente, secondo il racconto di alcuni ministri, è Niccolò Ghedini. È lui che avrebbe detto al Cavaliere: “Se fai saltare il governo fai saltare anche la decadenza e puoi ricandidarti”. “Palle, tutte palle”, sibilano i ministri. In ogni caso tutto ruota attorno alla decadenza di Berlusconi. Per questo la data dell’8 dicembre, quando si terrà il consiglio nazionale annunciata, rischia di essere superflua se al Senato si voterà a novembre. Quagliariello l’ha detto ieri: “Il nodo è tra chi pensa che il governo debba andare avanti in caso di decadenza e chi no”. Il resto è fuffa, come l’ipotesi della separazione consensuale.

il Fatto 27.10.13
Il giurista Alessandro Pace: “Ma sull’articolo 138 la Cgil cosa fa?”


Caro Direttore, leggo nell’articolo di Salvatore Cannavò pubblicato il giorno 24 sul Fatto che Anpi e Cgil punterebbero a rilanciare il Comitato “Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla”, il che mi fa piacere essendone io il presidente. Sembra però, dall’articolo, che sia la Cgil sia l’Anpi (ma ho dei dubbi a proposito di quest’ultima) sarebbero bensì favorevoli a opporsi alle singole leggi costituzionali (in particolare contro il presidenzialismo), ma non contro il d. d.l. n. 813, col quale, com’è noto, Governo e Parlamento intenderebbero “disapplicare” (una tantum!) la Costituzione per introdurre una diversa procedura di approvazione delle leggi costituzionali per la modifica della Costituzione. Ebbene, se ciò fosse vero, io sarei personalmente contrario a Cgil e ad Anpi sia come studioso, sia come primo firmatario dell’appello lanciato dal Fatto in favore dell’articolo 138.
Danilo Barbi, segretario generale della Cgil ha bensì giustamente sottolineato la difficoltà dei comuni cittadini a comprendere il significato di un referendum contro il solo d. d.l. n. 813, e cioè contro il “metodo” delle riforme. Personalmente io sono invece certo che gli italiani capirebbero bene il problema sottostante, se si spiegasse loro che il d. d.l. n. 813, così com’è scritto, potrebbe consentire la modifica di gran parte del-l’“ordinamento della Repubblica”. E quindi con effetti pregiudizievoli che invece non si avrebbero con una semplice revisione ex art. 138, in forza della quale si potrebbe tranquillamente effettuare la puntuale riforma del bicameralismo, la puntuale riduzione del numero dei parlamentari e addirittura la stessa riforma della forma di governo (purché non se ne riducano i “contropoteri”!).
Non opporsi al d. d.l. n. 813 significherebbe, oltre tutto, far pervenire ai cittadini italiani e alle forze politiche un messaggio assai pericoloso, e cioè che l’articolo 138 non è più l’unico percorso consentito per le revisioni costituzionali - ma che il Parlamento, ponendosi al di sopra della stessa Costituzione - può prefigurare percorsi alternativi per la riforma della Costituzione.
Alessandro Pace

il Fatto 27.10.13
Laura Puppato
Costituzione, dietrofront della nativa democratica


La nativa democratica - così si definisce - Laura Puppato, senatrice e esponente del Pd, questa volta ha peccato almeno di bassissima coerenza. Ci riferiamo alla Costituzione e alla relativa modifica dell’articolo 138. Puppato ha manifestato contro la riforma, in piazza, insieme al Fatto Quotidiano, ma quando si è trovata in aula ha votato a favore. Ha motivato il suo voto con un lungo documento critico, ma non le è bastato per essere esentata dalle critiche dei suoi stessi supporter sulla pagina Facebook. Il più carino, nel cercare di difenderla, spiega come la politica italiana viva un clima irrespirabile, ai limiti del claustrofobico: “Vista la situazione parole come ‘vigileremo, ampie rassicurazioni, chiediamo...’ suonano un poco svuotate di valore e quasi ingenue”, scrive uno di quelli che nella politica portata avanti da Puppato crede. Nascere democratici non vuol dire votare e sempre come il partito comanda. Almeno, così dovrebbe essere. (e.l.)

l’Unità 27.10.13
Migranti senza Europa
Dall’Europa ancora risposte insufficienti
di Rocco Cangelosi


IL CONSIGLIO EUROPEO DI BRUXELLES HA ESPRESSO «PROFONDA TRISTEZZA» PER LA TRAGEDIA DI LAMPEDUSA, impegnandosi sulla base dei principi della solidarietà e dell’equa ripartizione delle responsabilità a mettere in atto azioni di prevenzione e protezione per evitare la perdita di nuove vite in mare. Tuttavia il problema centrale posto dall’Italia, con il sostegno dei Paesi del sud Europa, mirante ad ottenere la comunitarizzazione delle politiche di asilo e di immigrazione, viene rinviato senza specifici impegni al 2014. Il premier Enrico Letta, nonostante l’innegabile sforzo profuso dalla delegazione italiana, porta a casa una dichiarazione di principio e qualche aereo in più per pattugliare il mediterraneo con Frontex. Ancora una volta la risposta europea è insufficiente ed evasiva e sembra non cogliere il vero nodo politico della questione.
Se diamo un’occhiata a quanto sta avvenendo nei Paesi della sponda sud, ci troviamo di fronte a una situazione sconfortante. Dopo la primavera araba, l’Egitto, sottoposto alla dittatura del generale Sissi, è dilaniato da una sorda guerra civile che vede in primo piano il partito dei Fratelli musulmani, messi fuori legge dai militari al potere. In Tunisia le tensioni tra il partito al potere Ennhada e i partiti di ispirazione laica sono crescenti e non trovano ancora una composizione equilibrata. In Libia il governo, fortemente condizionato dalle fazioni ribelli, stenta a imporsi come autorità legittima e gran parte del Paese, in particolare Bengasi e la Cirenaica, sfuggono al suo controllo. Dopo le minacce di intervento militare franco-americano e le risoluzioni delle Nazioni Unite sulla distruzione delle armi chimiche, in Siria la situazione resta immutata. Bashar Al Assad sembra avere consolidato il suo potere e detta le condizioni sui criteri di partecipazione e sulle modalità di svolgimento della conferenza di Ginevra2, che stenta a decollare, mentre proseguono gli scontri e aumentano le vittime tra la popolazione civile. La somma di queste situazioni nella sponda sud del Mediterraneo, unitamente alle critiche condizioni in cui versa l’Africa sub sahariana, sta determinando un aumento vertiginoso dell’immigrazione clandestina, non solo per motivi di ordine economico e sociale, ma soprattutto di carattere politico legate alle più flagranti violazioni dei diritti umani fondamentali.
Se negli anni passati la maggior parte dei flussi migratori era costituita da persone in cerca di lavoro che potevano essere definiti come clandestini, adesso siamo in presenza di rifugiati che chiedono soprattutto protezione e asilo politico. Questo aspetto diventa il punto cruciale del problema degli sbarchi clandestini e postula risposte che l’Europa non sembra in grado o che non abbia intenzione di dare. Il fenomeno migratorio non può essere ridotto al problema economico della regolamentazione dei flussi attraverso le quote o altri meccanismi di contingentamento, o a operazioni di controllo, per quanto necessarie. Si tratta invece di dare avvio a una politica organica che restituisca al Mediterraneo la sua centralità strategica per la sicurezza dell’Europa.
Assicurare la protezione e l’asilo diventa un aspetto prioritario che richiede uno sforzo titanico da parte dell’Unione e dei suoi stati membri. Non è affatto facile, con i mezzi di cui dispone adesso l’Europa, predisporre politiche organiche di prevenzione ed accoglienza, ne è ipotizzabile risolvere il problema, come è stato proposto attraverso la creazione di centri di raccolta dei richiedenti asilo in Paesi in cui i diritti fondamentali sono calpestati con estrema facilità.
L’Unione deve rilanciare l’idea di una nuova comunità euro mediterranea basata sull’ownwpership e la pari dignità, puntando alla creazione di istituzioni paritarie con un impegno comune per lo sfruttamento delle risorse del Mediterraneo attraverso programmi destinati a preservare l’ambiente, le riserve idriche, sviluppare le infrastrutture e promuovere lo sviluppo di energie alternative. Ma soprattutto un programma volto ad assicurare la mobilità dei giovani e il loro accesso nelle università e nei corsi di formazione professionale dei Paesi dell’Unione.
Il consiglio italiano del movimento europeo ha lanciato subito dopo lo scoppio della primavera araba, un progetto articolato per la creazione di una nuova comunità euro-mediterranea, che ha destato vivo interesse tra le élite politiche emerse dai movimenti di protesta giovanili. Purtroppo l’iniziativa non ha avuto seguito sia per l’involuzione delle rivoluzioni arabe, sia per la mancanza di volontà politica dell’Europa. L’Italia, se vuole dare concretezza al suo semestre di presidenza, deve concentrare gli sforzi sul rilancio della politica mediterranea, ponendo sul tavolo un master plan che dia risposte credibili alle varie sfaccettature dell’emigrazione: dalla politica dei visti e dell’asilo alla cooperazione politica e istituzionale, allo sviluppo economico e sociale, alla mobilità dei giovani. Il graduale disimpegno degli Stati Uniti dall’area mediterranea e medio orientale chiama alle sue responsabilità il continente europeo, che non può continuare a nascondersi dietro dichiarazioni di maniera, ignorando che la sua stessa prosperità e sicurezza viene quotidianamente messa in pericolo da quanto accade nella sponda sud del Mediterraneo.

Repubblica 27.10.13
L’Europa dei migranti
di John Lloyd


L’immigrazione incombe come un nuvolone nero sull’Europa, soprattutto sull’Italia. Lampedusa era famosa tra i turisti per le sue belle spiagge e tra i lettori per il fatto di chiamarsi come l’autore de “Il Gattopardo”. Oggi il nome dell’isola evoca in milioni di persone immagini di bare, dolore, morte. La sua vicinanza all’Africa del nord la destina a ciò, in quanto la sua posizione geografica implica anche il fatto che è vicina alla guerra, alla povertà, alla disperazione.
Che cosa può alleviare questa sofferenza? Nell’immediato niente: disperazione significa che i rischi di un viaggio pieno di pericoli sono considerati inferiori a una misera vita se si resta in Somalia, o in Eritrea, o in Libia. Ma sul lungo periodo, con una mentalità diversa, con modi di intervento diversi, i migranti potrebbero esserci di aiuto in Europa, e potrebbero giovarsi loro stessi del fatto di entrarvi.
Dobbiamo iniziare a pensare in modo diverso, perché l’immigrazione sta diventando il nocciolo del dibattito europeo, e continuerà a crescere di importanza nei prossimi mesi. L’estrema destra sta guadagnando terreno: la vittoria del Front National francese nell’elezione del sindaco della cittadina di Brignolles, nel sud del paese, in precedenza in mano ai comunisti, è stata vista come il segnale di una dissociazione dai partiti di centro, soprattutto da parte della classe operaia.
Ipotizzando che questo fenomeno continui, il nuovo Parlamento europeo, dopo le elezioni del maggio 2014, si ritroverà un intero blocco di partiti – comprendente il Front National, il britannico Ukip, il Partito per la libertà olandese, i Veri Finlandesi, e l’Alternativa tedesca per la Germania – fortemente contrario all’immigrazione o all’Unione europea o all’euro come valuta, o a tutte e tre le cose insieme.
Un modo di pensare del tutto diverso è il tema di un libro di recente pubblicazione. Paul Collier, direttore del Centro per gli studi delle economie africane a Oxford è uno dei più stimati esperti di povertà al mondo. Nel suo nuovo libro,Exodus, Collier indica i presupposti di un nuovo approccio al problema dell’immigrazione, con modalità a un tempo stesso razionali e compassionevoli. “L’esodo di ogni singolo individuo scrive Collier - è un trionfo dello spirito umano”. Coloro che lasciano le loro società di origine, spesso per la prima volta, necessitano di coraggio, di abilità organizzativa, di fede nel sogno del loro futuro. Per quanti avranno successo, la vita quasi sempre migliorerà. Per i poveri delle società di buona parte dell’Africa (ma non soltanto lì) il divario tra il reddito a casa loro e ciò che potrebbe attenderli altrove è immenso.
È per questo motivo che arrivano: per una vita migliore. Dal punto di vista materiale le cose vanno ancora meglio: la maggior parte di loro vuole guadagnare e molti spediscono a casa parte di ciò che guadagnano. Alcuni faranno anche più mestieri, dato che i posti di lavoro che trovano di solito sono scarsamente retribuiti.
Ciò dimostra, prosegue Collier, che gli immigrati daranno vita a un “modesto aumento” nella crescita economica del paese che li ospita. Aumenteranno la concorrenza per i posti di lavoro, e così facendo possono migliorare i salari dei lavoratori già occupati, a eccezione di chi è più in basso nella scala delle retribuzioni. Lo fanno a condizione – e questa è la condizione più importante – che l’immigrazione sia di per sé modesta.
L’immigrazione, riconosciuta dalla maggioranza come adeguatamente controllata e relativamente bassa, può essere assorbita. Ma i fattori cruciali e determinanti – sempre secondo Collier – sono le dimensioni dell’immigrazione e della diaspora all’interno dei paesi che li ospita-no. Quando questi fattori diventano molto grandi, quando gli immigrati restano separati dalla comunità che li ospita – compresi molti che sono loro stessi discendenti di immigrati – i problemi aumentano. Aumenteranno in maniera particolare se gli immigrati non abbracciano i valori di fondo e i comportamenti della loro nuova terra.
Gli immigrati si portano appresso come un bagaglio le loro abitudini, buone e brutte che siano. Chi arriva da paesi poveri e sconvolti dalla guerra spesso ha bassi livelli di fiducia nel prossimo e continua così. Gli immigrati che vengono da società lacerate dalla criminalità spesso hanno un comportamento da delinquenti e rapporti con i criminali. Nella maggior parte dei paesi europei, gli immigrati sono rappresentati nella popolazione carceraria in percentuali sproporzionatamente alte.
Pochi soggetti, radicalizzati dalla propaganda islamista, diventano terroristi: la polizia keniana ha identificato uno dei terroristi di al-Shabab che a settembre hanno preso in ostaggio un intero centro commerciale a Nairobi nella persona di Hassan Abdi Dhuhulow, un cittadino norvegese di origini somale. Una prova come questa aumenta la diffidenza popolare, soprattutto nei confronti dei musulmani.
In Exodus Collier è particolarmente critico nei confronti di chi crede che stiamo entrando in un’epoca di “post-nazionalismo”, e che l’Ue abbia eliminato la necessità di leadership e disciplina nazionale. Egli scrive che le nazioni “sono importanti unità morali”: ciò significa che se intendono restare e integrarsi, gli immigrati in un paese ospite devono assorbire l’etica, sia esplicita sia implicita, della vita quotidiana. Molti nativi locali non seguono per primi le norme comportamentali, naturalmente, ma un immigrato farà bene a seguire gli esempi migliori, non i peggiori.
I paesi sono i loro popoli: i migranti che vengono per restare e diventare residenti a lungo termine o cittadini diventano dunque parte di un paese. Questi paesi sono ricchi allorché le loro politiche sono più o meno stabili, e soprattutto quando tutti i loro cittadini lavorano bene e sodo. Ciò implica avere buone leggi, aziende ben amministrate, e lavoratori desiderosi di lavorare come si deve. Molti datori di lavoro lodano le abitudini lavorative degli immigrati e le mettono a confronto favorevolmente con quelle dei lavoratori locali: gli immigrati che non raggiungono quel livello si espongono a critiche e pregiudizi.
I paesi stabili politicamente sono quelli nei quali la maggior parte della popolazione ha accettato, di buon grado, sia l’ordine morale sia l’ordine legale: ciò significa che l’ordine non deve essere ribadito di continuo, perché è parte della volontà popolare.
Gli immigrati devono diventare parte di tutto ciò: laddove a livello individuale o come gruppo danno segno di disprezzare quell’ordine, o di volerlo rovesciare, diventano attaccabili.
E infine: le nazioni dalle quali arrivano gli immigrati sono state le loro patrie. Di solito partono con riluttanza e dispiacere, ma lo fanno perché nel restarvi non intravedono speranze. Noi che abitiamo in paesi ricchi abbiamo il dovere – nei confronti dei più indigenti al mondo, ma anche di noi stessi – di essere molto più attivi nel fornire aiuto e sostegno per lo sviluppo degli Stati falliti o di quelli in procinto di esserlo. Il dovere nei loro confronti può essere espressione di un sentimento religioso o umano. E tutto sommato è nel nostro stesso interesse, perché così si affronta direttamente il problema del terrorismo, che prospera proprio negli stati falliti e, col passare del tempo, si ridurrà il flusso dei disperati che inizieranno a intravedere qualche speranza dove si trovano, a casa loro.
Traduzione di Anna Bissanti

l’Unità 27.10.13
Quell’insulto alle vittime della strage
Mambro e Fioravanti: no al risarcimento
«Per la strage non pagheremo un solo soldo»
Ai due terroristi, condannati per la bomba alla stazione di Bologna, erano stati chiesti danni per un miliardo di euro
«Risarcimento prescritto. In una vita intera non riusciremmo ad averli»
di Franca Stella


ROMA Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, condannati come esecutori materiali della strage alla stazione di Bologna che il 2 agosto 1980, ha provocato 85 morti e 200 feriti, si oppongono alla richiesta di risarcimento da parte dell'Avvocatura dello Stato di circa 1 miliardo di euro. In una lunga memoria difensiva, attraverso i loro legali, Mambro e Fioravanti contestano e impugnano «le avverse pretese, come richieste e quantificate, in quanto non individuate, non specificate e, in ogni caso, prescritte». Loro non sono disposti a tirare fuori manco un euro. Perché, sostengono, i termini per chiedere il risarcimento record è scaduto da anni. E perché, particolare non secondario, quei soldi non li hanno e mai li avranno. Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, condannati per l'attentato del 2 agosto 1980, tramite i loro legali e con una lunga memoria difensiva, spiegano perchè si oppongono alla richiesta avanzata dallo Stato nella causa civile.
Secondo i calcoli fatti dall’avvocatura di Stato, circa 59 milioni sono dovuti come danno patrimoniale, mentre il grosso della cifra, un miliardo, rientra nel danno non patrimoniale. Su quest’ultima parte si concentrano maggiormente le critiche degli avvocati di Mambro e Fioravanti, perché la valutazione arriva «a seguito di una lunga, ma (a nostro avviso) assai confusa divagazione sugli aspetti della personalità dello Stato che si asserisce essere lesi». Peraltro lo Stato chiede al giudice di quantificare in maniera più precisa l'entità del danno, vista «la notevole difficoltà di fornire la prova dell'effettiva misura» dello stesso. E come unico supporto della loro richiesta, incalza la difesa, l’avvocatura allega una comunicazione della presidenza del Consiglio dei ministri in cui si legge che «si reputa equa una pretesa creditoria ammontante a un miliardo di euro».
La difesa di Mambro e Fioravanti si chiede perché l'amministrazione dello Stato «abbia aspettato 18 anni per far valere un diritto economico che si prescrive (al massimo) in dieci». E «ancora e soprattutto quale sia lo scopo concreto, e prima ancora il senso, che si vuole perseguire con una richiesta risarcitoria di un miliardo e 59 milioni nei confronti di due soggetti da 25 anni nelle mani dello Stato, sia nell’essere che nell’avere».
Nella memoria difensiva si fa presente infatti che Mambro e Fioravanti hanno entrambi un reddito che non supera di molto i 16mila euro l’anno, e che non posseggono immobili, né hanno depositi di denaro «che consentano una qualsivoglia solvenza». Quindi, se anche dovessero essere condannati, i due, insieme, «in una vita intera, non riuscirebbero a mettere insieme neanche una millesima parte di quanto preteso». Senza dimenticare che le pretese dello Stato sono «tardivamente avanzate oltre che, quanto al danno non patrimoniale, genericamente individuate e sommariamente quantificate».
Infatti, visto che Mambro e Fioravanti sono stati condannati con sentenza definitiva della Cassazione il 23 novembre del 1995, la prescrizione di dieci anni per il diritto risarcitorio è scaduta il 23 novembre del 2005. A prescindere infatti dalla gravità del reato, ragionano i legali dei due ex terroristi neri, «gli ipotetici debitori non possono soggiacere senza limiti di tempo ala incertezza del se gli ipotetici creditori azioneranno mai il diritto».
«C’è un termine prosegue la memoria a tale stato di incertezza e indeterminatezza, e il termine, per quanto a noi interessa, è trascorso e decorso senza che alcuna azione sia stata» proposta. Inoltre Giusva Fioravanti e Francesca Mambro sono «un uomo e una donna liberi, rispettivamente dal 2009 e dal 2012. Perché aspettare che l'intero percorso espiativo penale fosse concluso per (ri)avviare la ruota giudiziale, questa volta civile?».
Nel merito, poi, si legge che riguardo ai danni non patrimoniali, «è onere del danneggiato fornire al giudice di merito i necessari elementi di prova funzionali a dimostrare, sul piano processuale, tanto l'esistenza quanto l'entità delle conseguenze dannose risarcibili». Ma l'avvocatura di Stato, eccepisce la difesa, «omette non solo di provare, ma anche solo di spiegarci come e in quali termini, in quale modo il 'diritto all'esistenza dello Statò sarebbe stato violato». Non bisogna dimenticare infatti che la strage alla stazione di Bologna viene indicata dagli storici come «l'ultimo atto terroristico riferibile al cosiddetto periodo stragista».
L'integrità dello Stato risultava già minata da prima, sostiene la difesa, visto che nei dieci anni precedenti alla bomba alla stazione di Bologna «si erano verificati numerosi attentati nei quali rimasero uccise complessivamente 50 persone e ferite 358».

l’Unità 27.10.13
Una ferita sempre aperta
Una lunga vicenda giudiziaria. Ecco chi è stato condannato


Attraverso una lunga vicenda politica e giudiziaria, e grazie alla spinta civile dell’Associazione tra i familiari delle vittime, per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 si giunse ad una sentenza definitiva della Corte di Cassazione il 23 novembre 1995. Vennero condannati all’ergastolo, quali esecutori dell’attentato, i neofascisti dei Nar Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che si sono sempre dichiarati innocenti, mentre l’ex capo della P2 Licio Gelli, l’ex agente del Sismi Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte vennero condannati per il depistaggio delle indagini. Fatti e documenti provavano come nell’ambiente del terrorismo di destra si sapesse già da tempo, prima del 2 agosto, del progetto di strage. Era emerso, tra le altre cose, che il 10 luglio 1980, nel carcere di Padova, il detenuto neofascista Luigi Vettore Presilio aveva rilasciato una dichiarazione al giudice istruttore. Si alludeva a un «evento straordinario» previsto per i primi di agosto. Il 9 giugno 2000 la Corte d’Assise di Bologna emise nuove condanne per depistaggio: 9 anni per Massimo Carminati, estremista di destra, e quattro anni e mezzo per Federigo Mannucci Benincasa, ex direttore del Sismi di Firenze, e Ivano Bongiovanni, delinquente comune legato alla destra extraparlamentare. Ultimo imputato per la strage è Luigi Ciavardini, con condanna a 30 anni.

l’Unità 27.10.13
Paolo Bolognesi
«Il loro stupore è comprensibile: si sono sentiti traditi mentre si consideravano servitori dello Stato»
«Non ce li hanno? Li chiedano al loro amico Mokbel»
intervista di Andrea Bonzi


BOLOGNA «Lo stupore di Mambro e Fioravanti è quasi comprensibile. Loro, che si sentono fedeli servitori dello Stato e hanno avuto un trattamento di favore, si vedono recapitare una richiesta da un miliardo di euro da una costola dello Stato stesso. Si saranno domandati cosa avessero fatto per meritare un tale cambiamento di atteggiamento nei loro confronti...». Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione Vittime 2 Agosto e parlamentare del Pd, replica duramente al rifiuto dei due ex appartenenti al Nar di pagare il maxi-risarcimento da un miliardo per la strage alla stazione di Bologna.
Bolognesi, Mambro e Fioravanti hanno fatto scrivere dal loro avvocato che la richiesta di risarcimento è arrivata fuori tempo massimo ed è quindi caduta in prescrizione. E comunque, loro, tutti quei soldi non ce li hanno e non li avranno mai...
«È una scusa che non vale. E poi questi due personaggi hanno amici potenti, come Gennaro Mokbel (l’imprenditore già militante dell’ultradestra che si vantò in alcune intercettazioni di aver “tirato fuori” la Mambro, ndr), ai quali potrebbero rivolgersi per avere gran parte della somma che devono pagare».
Quali agevolazioni avrebbero avuto negli anni i due ex Nar?
«Innanzitutto sono stati riconosciuti colpevoli di aver ucciso 93 persone e hanno già scontato tutta la pena. In quale altro Paese civile sarebbe stato possibile una cosa del genere? Come criminali hanno avuto vantaggi stratosferici dallo Stato».
Quali aspetti della strage di Bologna non sono ancora stati svelati?
«I mandanti sono ancora da individuare. Noi abbiamo consegnato dei memoriali ai giudici (nel 2011 e nel 2012) e, come abbiamo sottolineato durante le celebrazioni dell’ultimo Due Agosto, arrivare ai burattinai ora è possibile. Mi auguro che la magistratura faccia il proprio lavoro fino in fondo, non vorrei trovarmi nel prossimo agosto a ripetere le stesse cose».
Avete chiesto anche l’istituzione del reato di depistaggio, ci sono novità? «Speriamo che anche questo venga istituito presto. Per i giudici che hanno voglia di lavorare penso che sarebbe un bel passo avanti. Ma ancora siamo fermi».
E poi c’è il capitolo dei risarcimenti, non acora totalmente chiuso...
«Noi abbiamo chiesto la piena applicazione della legge 206, è una lotta che dura da dieci anni. Il governo ci ha assicurato che risponderà alle richieste che abbiamo stilato in otto punti. Doveva metterli già nel decreto sicurezza, poi non se n’è fatto nulla. Dovrebbero inserirli nella Legge si Stabilità di prossima approvazione, devo dire che finora c’è poco».
Che cosa chiedete, più in specifico?
«Ci sono aspetti pensionistici e vitalizi: bisogna migliorare il meccanismo perché spesso Inps e Inpdap faticano a erogare quanto spetta a vittime e parenti. Non può essere una via crucis di carte richiedere il rispetto dei propri diritti».

Corriere 27.10.13
Computer e lavagne sponsorizzati
A scuola è partita l’era dei privati
I sindacati criticano Carrozza: ma non sostituiscano lo Stato
di Gianna Fregonara


Alla «Italo Calvino» di Galliate, provincia di Novara, la preside ha trovato una soluzione da rigattiere: per trovare fondi per la sua scuola ha venduto i vecchi banchi, quelli dei nonni con i calamai e tutto l’arredamento inizio Novecento che ha trovato in cantina.
A Monza, l’elementare Buonarroti ha chiesto fondi alle aziende locali per finanziare i laboratori teatrali in cambio di pubblicità online e nella bacheca della scuola. È andata meglio al Mamiani: la preside ha fatto un appello pubblico e sono arrivate, da una nota marca di computer, cinquanta postazioni informatiche complete per i ragazzi dello storico liceo classico romano rimasto senza pc proprio alla vigilia dell’annunciata rivoluzione digitale nella scuola italiana.
Tre esempi che sicuramente piacerebbero al ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza che ha annunciato l’intenzione di promuovere il fund raising nelle scuole pubbliche in crisi di finanziamento statale, puntando anche ad ottenere l’ok dal ministero dell’Economia per defiscalizzare del tutto le donazioni alle scuole (ora è al 19 per cento). Un modello all’americana, come ha spiegato lei stessa in queste settimane: l’idea del ministro è che, non solo le aziende, ma gli ex allievi, chi ha avuto successo grazie anche ai propri studi, si volti indietro a dare un contributo perché anche le nuove generazioni possano avere le sue stesse opportunità.
«A me pare più un modo per eludere il problema vero delle risorse della scuola che non ci sono, non credo che la scuola possa nè debba trasformarsi in un mercato», mette subito le mani avanti Mimmo Pantaleo della Cgil scuola: «Altro sono singoli casi virtuosi di collaborazione che già ci sono».
Il tema dei privati nella scuola pubblica non è nuovo, e se ne è molto discusso in questi ultimi anni, fino ad arrivare nel 2012 al ddl Aprea che addirittura prevedeva l’ingresso di soggetti esterni alla scuola nel consiglio di istituto. E se ne parla ad ogni inizio di anno scolastico quando le scuole chiedono i contributi ai genitori. Secondo uno studio di «Tuttoscuola», di qualche anno fa, ammontano a circa cinquecento milioni, mentre secondo una rilevazione della Flc Cgil di quest’anno siamo intorno ai 335 milioni all’anno: «Va benissimo incentivare il contributo della comunità, migliorare il regime fiscale delle donazioni purché sia aggiuntivo rispetto all’impegno dello Stato», spiega Giovanni Vinciguerra di «Tuttoscuola». Secondo i dati di Eurostat l’Italia investe solo il 4,4 per cento del Pil per l’istruzione mentre la media europea è del 5,2. «E si vede: lo Stato nei Paesi più evoluti spende molti più soldi per le scuole - insiste l’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer -. Va bene chiedere aiuto anche ai privati purché la gestione sia controllata».
Un’idea che in molti hanno già sposato per necessità o convinzione, anche se nel decreto Carrozza sono stati stanziati fondi per wi-fi e scuole dopo anni di tagli. Uno studio sul territorio lodigiano dell’anno scorso, confrontando i dati del Miur sui fondi delle scuole superiori, dimostra che, in epoca in cui servono lavagne multimediali e ebook, non ci sia istituto che non ricorra ai fondi privati. Il Liceo Gandini addirittura ha in bilancio il 60 per cento di soldi che arrivano dai privati e solo il 18 da finanziamenti statali, l’Itis Cesaris di Casalpusterlengo ha il bilancio diviso a metà tra soldi privati e fondi pubblici, che spesso non raggiungono che poche migliaia di euro per ogni istituto.

il Fatto 27.10.13
Ultimi della classe
Stampa e corruzione: non ci resta che piangere
Pessima qualità ella vita e analfabeti: siamo ultimi, o al pari con Paesi del Terzo Mondo, nelle classifiche
di Giampiero Gramaglia


Bruxelles La politica è da buttare, l’economia va male, il lavoro non c’è, la fiducia neppure. Che brutta Italia, proprio “un paese dei cachi”. Vabbeh!, ma vuoi mettere la qualità della vita? Attenzione a non farci illusioni: manco quella abbiamo, se diamo credito a statistiche e classifiche, che saranno pure stilate da qualche noioso e pignolo burocrate nordico o asiatico delle organizzazioni internazionali, ma spesso ci azzeccano. Non ci resta che consolarci con le giornate di sole che – complice la geografia - sono più numerose che altrove. Ma poi scopriamo che la grigia Germania ha molto più fotovoltaico di noi e ci viene la depressione.
Se già vi sentite un po’ giù, non inoltratevi in questo viaggio nelle magagne italiche. Se, invece, amate cullarvi nelle vostre malinconie, questa lettura v’è consigliata: preparatevi a indossare la Maglia Nera, percorrendo un’antologia di dati tutti recenti – e tutti, ahimè, negativi -, senza andare a scartabellare troppo indietro negli archivi.
Trasparenza e Corruzione. L’indice della corruzione di Transparency International ci vede circa a metà del gruppo di 174 Paesi censiti, al 72° posto, sempre in fondo al plotone dell’Ue con Grecia e Bulgaria e con un voto ben lontano dalla sufficienza e lontanissimo dai Paesi leader, Danimarca, Finlandia e una sorprendente, ma costante, Nuova Zelanda. Forse le cose stanno per migliorare, perché, sempre secondo Transparency International, l’Italia è fra i Paesi che meglio applicano la Convenzione dell’Ocse contro la corruzione – ma i risultati, finora, non si vedono.
Fondi e infrazioni. Nell’Unione europea, siamo, con Bulgaria e Romania, Paesi, però, da poco arrivati, quelli con minore capacità di spesa dei fondi a noi destinati: del pacchetto per la coesione, settennale, abbiamo utilizzato, adesso che s’avvicina la fine del periodo, il 31 dicembre, solo il 40% del totale. Ci lamentiamo che dall’Ue arrivano pochi soldi, ma riusciamo a spendere solo due euro su cinque.
Procedure di infrazione. In compenso, ne sprechiamo un sacco a pagare multe per il mancato recepimento delle direttive o per le infrazioni alle stesse: siamo i campioni incontrastati su questo fronte. Eravamo appena scesi sotto quota cento infrazioni, a 99, a fine 2012, ma siamo rapidamente tornati sopra collezionando più nuove procedure di quante non riusciamo a chiuderne di vecchie. Ambiente e rifiuti sono le voci dove siamo messi peggio.
Leggere e fare i conti. Per l’Ocse, gli italiani, con gli spagnoli, sono i cittadini che meno sanno leggere e far di conto – lo studio è stato condotto in 24 Paesi: giapponesi e finlandesi guidano l’elenco (e i cechi sono bravi in aritmetica). Per la serie mal comune mezzo danno, gli americani non ne escono molto meglio di noi.
Abbandono della scuola. Vanno a braccetto con le cifre dell’Ocse quelle di Eurostat: l’Italia non tiene il passo dell’Unione nella battaglia contro l’abbandono scolastico: 17,6% contro una media Ue del 12,8% - l’obiettivo è il 10%. Mentre i giovani in possesso di qualifiche di istruzione superiore sono il 21,7% - media Ue 35,8%, obiettivo 40%.
I ritardi di Internet. Anche per l’accesso a internet, l’Italia è lontana dalla media Ue: il 43% delle famiglie non ha una connessione, contro una media del 32%. Peggio di noi Bulgaria, Romania e Grecia, mentre in Svezia solo il 7% delle famiglie non ha Internet. Gli italiani, complice la carenza, rispetto alla media Ue, della banda larga, sono anche fra i più reticenti a fare acquisti online e ad utilizzare i servizi di e-government: appena il 22% vi ricorre (in Danimarca, l’80%), in parte perché il loro funzionamento è il peggiore nell’Unione – Romania a parte.
Qualità della vita. Un recente rapporto della Commissione europea indica che le città italiane non reggono il confronto con le migliori europee: fra i 79 centri urbani del campione prescelto, ci sono Bologna, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Verona, la migliore, che si piazza 18a, mentre in cima alla classifica stanno Aalborg, in Danimarca, Amburgo, Zurigo e Oslo. Settore per settore, Roma, Napoli e Palermo sono le ultime della classe per i trasporti pubblici e l’efficienza amministrativa, Roma è la peggiore per i servizi scolastici, Palermo la più sporca. L’unica altra metropoli europea che fa loro persistente compagnia sul fondo classifica è Atene.
Libertà di Stampa. Freedom House la misura ogni anno, con un doppio indicatore, numerico da 1 a 100, e qualitativo, stampa libera, semi-libera, non libera: l’Italia con 33 punti, è 73a su 187 Paesi al Mondo, ma è soprattutto l’unico Paese senza libera stampa dell’Europa cosiddetta occidentale, con la Turchia. I criteri della classifica sono discutibili, ma trovarci in testa Finlandia, Svezia e Norvegia non sorprende, così come trovarci in fondo la Corea del Nord, l’Eritrea e vari Paesi dell’ex Urss.

il Fatto 27.10.13
Il Pil dell’infelicità
L’inesorabile sorpasso di Russia ed “emergenti”
di Fabio Scacciavillani


L’anno di grazia 2013 segnerà un evento storico. Secondo i dati aggregati dal Fondo Monetario Internazionale, per la prima volta in oltre due secoli il Pil delle economie emergenti (classificazione peraltro obsoleta) supererà il 50% del Pil mondiale calcolato a parità di potere di acquisto delle valute nazionali. Nel 1990 la quota del Pil mondiale attribuita ai paesi emergenti era meno di un terzo, quindi è lievitata annualmente di circa un punto percentuale per effetto di quel fenomeno che si definisce sinteticamente globalizzazione.
L’INSIEME delle economie ancora, impropriamente, indicate come sviluppate, arretra di fronte all’ondata demografica asiatica (a rinforzo della quale sta montando quella africana). Il McKinsey Global Institute stima che esse hanno creato tra il 1980 ed il 2010 circa 160 milioni di posti di lavoro non agricoli, mentre nei paesi emergenti se ne sono creati 900 milioni. Ma demografia a parte, il sorpasso si alimenta anche anche di capacità tecnologiche in paesi come la Corea del Sud, Taiwan o Israele (per non menzionare la solita Cina) che dominano in settori di punta dall’elettronica di consumo all’informatica. Centri finanziari si solidificano in posti, un tempo esotici, come Singapore, Hong Kong, Shanghai, Dubai, Doha e persino Mauritius.
Questo secolare spostamento del baricentro economico ha travolto l’Italia, che dei paesi maturi è quello in più rapido e, secondo molti, inesorabile declino. Secondo i recentissimi dati del Fmi nel-l’ultimo World Economic Outlook, se si considera il Pil in dollari correnti, il Belpaese già nel 2010 era stato superato dal Brasile e nel 2012 ha ceduto una posizione anche alla Russia. L’aspetto devastante del fenomeno, oltre al-l’ampiezza, è stata la rapidità: nel 2005 Russia, Brasile e India avevano un Pil di entità grosso modo uguale e pari alla metà di quello italiano. Oggi anche l’India che è rimasta indietro negli due ultimi anni ci tallona da vicino.
Certo va ricordato che i dati sul Pil non sono una misura esatta delle dimensioni e del dinamismo di un’economia e tantomeno del benessere in senso lato. Il Pil è una stima approssimativa (per usare un eufemismo) ed esiste un ampio ventaglio di accorgimenti più o meno elaborati per addomesticare i calcoli. Pertanto sulla precisione dei confronti internazionali non scommetterei la pensione (nemmeno una, alquanto aleatoria, dell’Inps), ma l’incrocio tra il declino, soprattutto europeo, e l’esuberanza dei nuovi protagonisti sul palcoscenico mondiale è ineluttabile. L’implicazione grave - al di là dell’appartenenza al G8 o al G20, che sono delle vestigia di riti stantii celebrati su altari di cartapesta - sono gli smottamenti sempre più traumatici, il tenore di vita e le aspettative delle generazioni presenti e future. Infatti chi spera che le fasi successive del declino per un paese dagli arti anchilosati e il cervello congelato siano graduali si illude. Lo sgretolamento si verifica in punti diversi con intensità diversa.
COSÌ IN QUESTA Italia, dove il massimo dell’aspirazione collettiva vagheggia l’impossibile ritorno al boom drogato di debito vissuto negli anni 80 o addirittura aspira al harakiri del ritorno alla lira, il dato macroeconomico astratto si materializza come un tarlo che erode le vite dei singoli. Anche nelle trincee dove si riesce a mantenere un lavoro, ci si troverà comunque a contendersi una torta sempre più esigua con un numero sempre maggiore di aspiranti. Anche i migliori potranno al massimo difendere posizioni acquisite, mentre l’asticella dell’ingresso al mondo del lavoro o alla vita che un tempo si considerava normale sale verso l’alto. Per i fortunati il retrogusto dell’agiatezza si può ancora assaporare intaccando i patrimoni accumulati da padri e nonni. Per gli altri è un tunnel foderato di incertezze.
Non è certo una sorpresa se l’espatrio - sia per gli individui che per le imprese - emerge nitidamente come l’unico scampo. Ma per quanto se ne parli ad libitum, sono trascurabili i numeri di quelli in grado di cavarsela in un altro paese parlando perfettamente una lingua straniera, in un sistema che conoscono poco e senza punti di appoggio. Si tratta di decine, al massimo centinaia di migliaia di persone contro i milioni di disoccupati, cassintegrati, scoraggiati e inoccupabili.
*capo economista del Fondo sovrano dell'Oman

il Fatto 27.10.13
Maglia nera
Il boom dei disoccupati italiani, il peso dei disponibili al lavoro
Fuori dal novero degli 8 Grandi, con un Pil fermo da cinque anni, il Paese arranca in tutte le graduatorie internazionali. E sembra condannato a una lenta agonia


Considerando i disoccupati “classici” e quelli meno tradizionali, ma ugualmente in cerca di impiego, gli inattivi, i senza lavoro in Italia superano i 6 milioni. È quanto emerge dai dati Istat relativi al secondo trimestre 2013. Le persone potenzialmente impiegabili nel processo produttivo, infatti, emergono dalla somma dei 3,07 milioni di disoccupati e dei 2,99 milioni di persone che non cercano ma sono disponibili a lavorare. Tra questi, gli scoraggiati. Un dato più che allarmante e che evidenzia la vera anomalia italiana in cui la forza lavoro impiegata è sceso sotto i 23 milioni (22,5) a fronte di una popolazione di 60 milioni. La proporzione tra coloro che lavorano e quelli che non lavorano è sempre più insostenibile per le entrate fiscali o contributive. Lo squilibrio del paese è facilmente fotografabile da questi numeri. Segno inequivocabile di un declino di cui non si vede il punto di caduta.

Corriere 27.10.13
L’avventura romana del criminale Priebke
risponde Sergio Romano


Il criminale Priebke é morto di vecchiaia a 100 anni e non a 50 per infarto: possibile che nessuno degli «addetti» si sia presa la briga di riflettere un po’ in anticipo su cosa fare alla sua morte? Possibile che dobbiamo sempre passare per un Paese di improvvisatori destinati a sfruttare la congenita furbizia per trovare la soluzione più idonea a bilanciare contenti e scontenti senza una scelta di comportamento chiara e dignitosa? Mi rivolgo a lei perché la sua esperienza internazionale le permette di capire meglio dei nostri connazionali più «statici» che cosa significa dare risposte accettabili a colleghi e amici non italiani.
Pierpaolo Merolla

Caro Merolla,
Devo confessarle che anch’io, se fossi stato ministro degli Interni o prefetto di Roma, non avrei immaginato il putiferio provocato alla morte di Priebke. Credo oggi, riflettendo sulla vicenda, di averne sottovalutato gli aspetti tipicamente romani. L’attentato di via Rasella, nel marzo del 1944, fu una dichiarazione di guerra contro l’occupante tedesco, l’evento che nelle intenzioni degli organizzatori avrebbe dovuto creare il clima favorevole alla nascita di un grande movimento popolare di resistenza. Non ho mai condiviso l’opinione di chi rimprovera a Rosario Bentivegna e ai suoi compagni di non essersi consegnati alle SS. Erano combattenti, avevano una visione rivoluzionaria del futuro italiano, volevano che la Resistenza fosse guerra di popolo e avrebbero commesso un errore strategico se avessero sacrificato se stessi per impedire la rappresaglia. La strage della Fosse Ardeatine, quindi, faceva parte delle prevedibili conseguenze di un piano a cui tutto si poteva rimproverare fuorché la sua lucida razionalità.
Ma il piano fallì. Il lutto popolare non si trasformò in sollevazione e non ebbe l’effetto di moltiplicare le operazioni offensive contro i tedeschi. Da quel momento l’attentato di via Rasella, per molti italiani, smise di essere un atto patriottico, e i morti delle Fosse Ardeatine divennero vittime di una strategia irresponsabilmente azzardata. Questo sentimento è diventato, con il passare del tempo, la bandiera di un neofascismo plebeo e vociferante, tipicamente romano, nato nelle borgate, recitato ogni domenica sugli spalti degli stadi, sempre a caccia di occasioni per menare le mani. E questo neofascismo, a sua volta, ha prodotto le prevedibili reazioni di un antifascismo altrettanto romano. Lo spettacolo a cui abbiamo assistito, nelle scorse settimane, mi è sembrato una specie di «West Side Story», un derby fra le due principali squadre politiche della capitale.
Nei suoi ultimi anni Erich Priebke deve avere assistito a questo spettacolo con un certo compiacimento. L’estradizione dall’Argentina aveva fatto di lui un pubblico criminale di guerra, ma gli aveva procurato il culto di un piccolo popolo di tifosi che lo avevano scelto come «führer» delle loro anacronistiche battaglie. Non basta. A questo teatro dell’assurdo l’Italia ufficiale ha fornito involontariamente il migliore dei palcoscenici. Per compiacere l’antifascismo e l’ideologia della Resistenza lo ha processato sino a quando la sentenza è stata, finalmente, quella desiderata. Ma ha mitigato la condanna negli anni seguenti concedendo a Priebke di passare il resto del suo tempo in una casa romana da cui poteva uscire con una certa libertà fra la generale indifferenza dei suoi vicini e di coloro che, verosimilmente, lo riconoscevano. Ho l’impressione, caro Merolla, che l’Italia gli abbia regalato i migliori anni della sua vita.

La Stampa 27.10.13
Datagate
Così svanisce il mito dell’intelligence americana
di Bill Emmot


«Non farsi prendere». Mi ha risposto così un ex alto funzionario dell’intelligence britannica quando gli ho chiesto quali principi dovrebbero regolare le attività delle agenzie di spionaggio quando mettono sotto controllo i loro alleati.
Questo non significa che la polemica sulla Nsa americana che ascolta le telefonate di Angela Merkel non sia importante. Ma significa che è importante per un motivo diverso dall’idea ingenua che spiarsi tra alleati sia «inaccettabile», come si è sentita in obbligo di dire la Cancelliera. Il motivo per cui sono importanti le rivelazioni sulla Nsa che continuano ad arrivare dal loro ex dipendente, Edward Snowden, che ha ottenuto asilo politico in Russia, hanno a che fare con la competenza.
La prima cosa scioccante per le altre agenzie di spionaggio, come l’MI6 britannico, è che la Nsa si sia fatta scoprire. Ma la seconda cosa sconvolgente è quanto alla Nsa siano stati incapaci di mantenere non solo questo segreto, ma tutta la storia della loro vasta attività di sorveglianza.
Si potrebbe sostenere che questo accade perché gli americani sono arroganti. Pensano di essere in grado di fare una cosa solo perché è tecnicamente possibile farla e credono che nessuno sarà in grado di fermarli. Per questo il cancelliere Merkel aveva detto che «non bisogna fare le cose solo perché si è in grado di farle». Ma accanto a questa verità sull’arroganza americana, una costante della vita occidentale fin dalla Seconda guerra mondiale, si è affermata anche la convinzione che della competenza degli americani più o meno ci si poteva fidare.
La vicenda Snowden ha distrutto questa convinzione. Snowden era un collaboratore informatico di prima nomina. Non era una spia provetta e neppure un genio del computer. Se era a conoscenza lui del programma di sorveglianza della Nsa e aveva accesso a informazioni sulle registrazioni delle conversazioni telefoniche dei leader mondiali, allora lo stesso vale per migliaia o forse decine di migliaia di altri dipendenti.
Questo va contro l’essenza delle operazioni di intelligence: la severa protezione delle informazioni all’interno di piccoli gruppi di persone in base al principio che «hanno bisogno di sapere». Ecco perché i nemici dell’Occidente di Al Qaeda, così come prima di loro i bolscevichi di Lenin, usano strutture a cellule in cui ogni piccolo gruppo non sa e non può sapere che cosa fanno gli altri.
Un tale sistema di protezione delle informazioni è certamente diventato più difficile nell’era digitale. Ogni sistema informatico complesso e la Nsa è probabilmente uno dei più sofisticati al mondo ha bisogno di amministratori per controllare le password, l’accesso e la crittografia, che saranno quindi in grado di venire a sapere una quantità enorme di cose, se solo sono abbastanza interessati a farlo. Eppure è ancora possibile creare barriere, mettere limiti a ciò che ogni amministratore può sapere. La Nsa semplicemente pare non essersi presa questa briga.
Questo è probabilmente l’aspetto più dannoso di tutta la vicenda. Di certo, come conseguenza delle ultime rivelazioni, la Germania e gli altri Paesi europei chiederanno nuovi e più equi diritti nei loro accordi per la condivisione delle informazioni di intelligence con gli Stati Uniti. Hanno modo di farlo adesso ed è ovvio che vogliano sfruttare l’occasione. Ma in questo modo la grande vittima è la reputazione della competenza dell’America e con essa la volontà degli alleati europei di fidarsene e di collaborare in futuro.
Il sentimento, con ogni probabilità è reciproco. L’America non è stata favorevolmente impressionata dalla competenza e dall’efficienza dei leader europei in questi ultimi anni, soprattutto nel trattare la crisi del debito sovrano dal 2010, e dalla loro politica estera verso la Libia, la Siria, l’Egitto, l’Iran e la Russia, tra gli altri. Anche l’Europa ha brontolato e sbuffato per l’indecisione americana in Medio Oriente, soprattutto per la sua incoerenza sulla Siria.
Così la vicenda dell’Nsa amplierà ulteriormente quelle crepe nel rapporto transatlantico. E’ molto più importante delle precedenti rivelazioni di Wikileaks, anche se quelle già avevano mostrato l’incompetenza nella protezione delle informazioni. Il materiale svelato da Wikileaks era imbarazzante, ma non c’era alcuna informazione segreta, nulla di davvero importante. Le rivelazioni di Snowden, invece, arrivano nel cuore della raccolta di informazioni.
Tutti gli alleati occidentali hanno avuto in precedenza incidenti imbarazzanti con l’intelligence, soprattutto durante la guerra fredda. Di solito riguardavano la scoperta di agenti sovietici in posizioni di rilievo. Non è noto a tutti, ad esempio, che la ragione per cui c’è sempre stato un funzionario europeo a capo del Fondo monetario internazionale da quando è stato istituito nel 1944, è che l’artefice del Fondo monetario internazionale, un funzionario americano chiamato Harry Dexter White, che progettò sia il Fondo sia la Banca mondiale con l’economista britannico Lord Keynes, si rivelò essere una spia sovietica. Il presidente Harry Truman scelse di consegnare il Fmi all’Europa, anche se era la più potente delle due nuove istituzioni, per evitare l’imbarazzo di una pubblica rivelazione dell’opera di spionaggio di White.
Incidenti del genere si sono verificati in tutti i nostri Paesi durante la guerra fredda e non c’è dubbio che ci si spiasse tutti a vicenda. Ma la consapevolezza che avevamo un nemico comune ci ha tenuti insieme e la leadership americana è stata ritenuta troppo necessaria per metterla radicalmente in discussione. Oggi il mondo è diverso. Noi europei vogliamo ancora la leadership americana ma vogliamo anche che il nostro leader mostri non solo potere ma anche competenza. Sono aspirazioni che verranno danneggiate dal caso Nsa.

l’Unità 27.10.13
La sinistra vince a Praga ma governare sarà difficile
di Virginia Lori


Terremoto politico nella Repubblica Ceca. Le urne, come si prevedeva, hanno punito i conservatori al governo fino a giugno ma schiacciati da una raffica di scandali per corruzione e infedeltà coniugale. Ma la vittoria dei socialdemocratici (Cssd) nelle elezioni anticipate per la Camera bassa del Parlamento non è completa. Il voto ha portato alla luce due nuovi movimenti di protesta. Il Cssd di Bohuslav Sobotka ha raggiunto il 20,5% (1,6% in meno di tre anni fa) seguiti dal nuovo partito populista Ano del miliardario Andrej Babis, che, alla sua prima partecipazione a una elezione, si è attestato al 18,6%, scavalcando i comunisti del Kscm, che non sono andati oltre il 14,9%, con un regresso del 3,6% rispetto a tre anni fa. I liberali del Top 09 sono al 12% e arretrano di 4,7 punti rispetto al 2010. I grandi sconfitti sono stati i conservatori dell’Ods che a giugno erano al governo e che sono crollati dal 20% al 7,7%. Entrano in Parlamento i demoscristiani della Kdu-Csl (6,8%) e il nuovo gruppo populista «Alba della democrazia diretta» del senatore-imprenditore di origine giapponese Tomio Okamura (6,9%).
L’affluenza è stata del 59,5%, tre punti percentuali in meno del 2010. I risultati del voto non rendono certo facile la formazione di un nuovo governo. I socialdemocratici conquistano 52 deputati (4 meno di oggi) mentre i populisti se ne aggiudicano ben 48. I due partiti insieme sono la metà esatta dei 200 seggi del Parlamento. I comunisti, che difficilmente andranno a far parte di una coalizione di governo, hanno 34 seggi, quantità insufficiente per un appoggio a un esecutivo dei socialdemocratici. Sobotka proverà a formare una maggioranza ma è in una posizione negoziale molto difficile, anche perché il secondo partito socialdemocratico, la Spoz del presidente Milos Zeman, è rimasto fuori dal Parlamento, avendo ottenuto uno striminzito 1,5%, lontano dal 5% necessario.

Repubblica 27.10.13
Praga, cade il tabù: i comunisti verso il governo
Dopo il voto scontata l’alleanza tra socialdemocratici e nostalgici dell’Urss
di Andrea Tarquini


BERLINO — Cade proprio a Praga, città-simbolo dell’oppressione coloniale sovietica nella guerra fredda, il Muro contro la partecipazione d’un partito comunista ex proconsole del Cremlino a un governo democratico. E’ il risultato delle elezioni politiche anticipate svoltesi venerdì e ieri nella Repubblica cèca. I socialdemocratici (Cssd) escono infatti dal voto come primo partito, ma i numeri dicono che soloun’alleanza con i comunisti potranno governare. Sull’altra sponda, il centrodestra, quasi spariscono i partiti della maggioranza conservatrice precedente, cioè la Ods dell’ex premier Petr Necas e i Top 09. E vola invece il nuovo partito populista Anò (significa “sì” in cèco ma la sigla vuol dire alleanza dei cittadini indignati), creato dal “Berlusconi di Praga”, Andrej Babis, secondo cittadino più ricco del paese. Insomma una netta svolta a sinistra nel cuore della Mitteleuropa.
I risultati diffusi ieri sera, relativi al 98 per cento dei seggi, parlano chiaro: la socialdemocrazia guidata da Bohuslav Sobotka ha conquistato il 20,47 per cento dei voti. Seconda forza politica è Anò con il 18,66 per cento, ma Babis ha subito detto che vuole schierarsi all’opposizione. Terzi arrivano i comunisti (Kscm) guidati da Vojtek Filip, con il 14,94 per cento. Risultato ben più che lusinghiero visto che parliamo di quella parte dell’Europa centrale che per mezzo secolo fu sotto il gioco politico e coloniale del Cremlino, e che il Kscm non ha mai rinnegato: il suo ideale è l’Urss, non il socialismo riformato pre-gorbacioviano di Dubcek stroncato dall’invasione sovietica a Praga il 21 agosto 1968. A pezzi il centrodestra: l’ex partito di governo Ods crolla al 7,72 per cento, i suoi alleati di Top 09 all’11,98.
«Il risultato non è quello che ci aspettavamo», ha ammesso deluso il leader socialdemocratico Sobotka. Aggiungendo: «Le trattative saranno difficili». La ricerca di una maggioranza, di un programma e di una formula di governo sarà complessa. E, come se non bastasse, Sobotka ha di fatto quasi contro di lui il più potente dei suoi compagni di partito, l’influente presidente della Repubblica Milos Zeman. Ex comunista riformatore, Zeman è apertamente favorevole a un’alleanza tra il suo partito (che a livello europeo è nei socialisti europei, cioè alleato nell’europarlamento alla Spd, al ps francese, al Pd italiano) e gli ex oppressori.
La Repubblica cèca, 10,5 milioni di abitanti, è tornata ad essere uno dei paesi più industrializzati d’Europa. Prima dell’invasione nazista del 1938, la Cecoslovacchia era per Pil la sesta potenza economica mondiale. Alla fine del mezzo secolo sotto Mosca il paese ancora unito (la scissione pacifica tra cèchi e slovacchi venne dopo) lamentava un Pil inferiore a quello portoghese. L’ultimo governo di centrodestra di Petr Necas è caduto in primavera per un torbido scandalo: Jana Nagyova, la bella bionda capo di gabinetto del premier, usava i servizi segreti per spiare la moglie di lui e ricattare i ministri. Necas ha divorziato e si è dimesso e ieri il centrodestra ha ricevuto il conto della bocciatura da parte degli elettori.

Corriere 27.10.13
Miliardari e post-sovietici
La nuova «casta politica» alla conquista dell’Est
di Maria Serena Natale


«Non sono mai stato un comunista convinto, entrare nel partito era un modo per realizzare desideri professionali e di vita. Non ne sono fiero ma noi iscritti eravamo 1,7 milioni, pochi avevano il coraggio dei dissidenti». Dal comunismo agli affari, dagli affari alla politica. La parabola di Andrej Babis — 736esimo nella classifica Forbes dei più ricchi del mondo e secondo in Repubblica Ceca, espressione di un’aristocrazia rossa definitivamente sdoganata dalle elezioni politiche di ieri — segue una traiettoria comune a molte figure di spicco del panorama politico dell’Est Europa. Personaggi che hanno raccolto le sfide della transizione al libero mercato in contesti spesso privi di regole e dominati dalla legge del più forte, consolidando patrimoni e rapporti personali di fedeltà che hanno poi favorito il grande salto. Una commistione frequente nelle democrazie post-sovietiche, nei sistemi più stabili come nei Paesi della corsa all’oro selvaggia, dove si fa opaco il confine tra difesa di interessi privati e genuino impegno per la cosa pubblica.
In Repubblica Ceca come in Russia, dove la contiguità tra potere politico e oligarchia economico-finanziaria è un elemento strutturale di un sistema che vede magnati regolarmente coinvolti, spesso vittime, di faide e lotte intestine come l’ex patron del colosso petrolifero Yukos Mikhail Khodorkovsky. Si è presentato contro Vladimir Putin alle elezioni presidenziali del 2012, ed è arrivato terzo, Mikhail Prokhorov, 48 anni, una fortuna fondata sui metalli e stimata in 13,2 miliardi di dollari, il settimo uomo più ricco di Russia. Già iscritto alla lega giovanile del Komsomol e al Partito comunista, dopo la fine della Guerra fredda ha scoperto naturali affinità con la patria del capitalismo — oggi è proprietario della squadra di basket americana dei Brooklyn Nets. Dagli affari alla politica anche Yulia Tymoshenko, l’ex premier ucraina oggi in carcere per abuso di potere e al centro di un contenzioso diplomatico tra Kiev e Bruxelles monitorato con attenzione da Mosca. Prima di diventare l’icona della Rivoluzione arancione del 2004, Yulia aveva accumulato un’enorme ricchezza nel settore energetico. Presidente della principale società d’importazione dalla Russia tra 1995 e 1997, era soprannominata «la principessa del gas». Un passato di intrecci e conflitti che ritorna: all’origine della sua condanna c’è l’accordo energetico stipulato con Mosca nel 2009 in qualità di primo ministro.
In Ungheria è il caso dell’ex premier socialdemocratico Ferenc Gyurcsany, ex comunista prestato agli affari e diventato il 50esimo più ricco del Paese: nel 2002 è tornato in politica e nel 2004 ha assunto la guida del governo, fino alle dimissioni per l’ennesimo scandalo. In Georgia è premier dal 2012 il ricchissimo Bidzina Ivanishvili, in 153esima posizione nella classifica Forbes . L’ombra del conflitto d’interessi ha fermato lo sloveno Zoran Jankovic, sindaco imprenditore di Lubiana e quasi-premier nel 2011 quando il suo partito di centro sinistra, oggi al governo, ha vinto le elezioni. Una lotta di veti incrociati in Parlamento ha capovolto il risultato e affidato l’esecutivo a Janez Jansa, un ex comunista.

l’Unità 27.10.13
La sfida di Pechino: rendere cinese il futuro dell’Africa
L’impegno della potenza asiatica per realizzare infrastrutture, finanziare investimenti e alimentare il turismo al centro del convegno con Prodi
di Vincenzo Giardina


Per diventare ricchi bisogna costruire le strade» dice Zhao Shengxuan, vice-presidente della Accademia cinese delle scienze sociali. Parole che possono suonare uno slogan, ma che qui a Pechino sono prese sul serio. Proprio come in Africa.
Gli ultimi 30 anni di storia della Repubblica popolare hanno insegnato a credere alle accelerazioni in apparenza impossibili. Ecco perché di paesi sub-sahariani, sviluppo e lotta alla povertà si discute proprio nella capitale della Cina. L’occasione è una conferenza organizzata da Romano Prodi, nella duplice veste di presidente della Fondazione per la collaborazione tra i popoli e di rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per il Sahel. «L’Africa è un continente carico di aspettative – sottolinea Zhao ma la carenza e l’inadeguatezza delle infrastrutture rischiano di comprometterne lo sviluppo economico e sociale». Ecco allora la ricetta cinese, un paese che i dirigenti di Pechino definiscono «ancora in via di sviluppo», ma deciso a sostenere «un modello di cooperazione non fondato sugli aiuti ma sugli investimenti e il commercio». Secondo la Banca mondiale, nella patria di Mao Zedong 35 anni di «riforme di mercato» hanno permesso a oltre mezzo miliardo di persone di uscire da una condizione di povertà. È anche vero, però, che nella Repubblica popolare il reddito pro capite supera appena i 6 000 dollari l’anno e che circa 128 milioni di cinesi continuano a vivere con meno dell’equivalente di un dollaro e 80 centesimi al giorno.
Di certo, l’influenza della Cina in Africa è sempre più forte. Negli ultimi dieci anni il valore degli scambi è decuplicato, crescendo in media del 28% e raggiungendo nel 2012 quota 198 miliardi di dollari. Si tratta soprattutto di petrolio, di minerali e altre risorse naturali che prendono la via dell’Oriente. Ma c’è anche dell’altro.
Solo tra il 2010 e il 2012 Pechino ha garantito prestiti a tassi agevolati per 11 miliardi e 300 milioni di dollari. Risorse utilizzate per costruire strade, porti, scuole e ospedali, dal Sudan al Mali e da Capo Verde allo Zambia. L’ultima novità è il turismo, frutto dell’espansione del ceto medio nella Repubblica popolare. Oggi sono ben 28 su 54 i paesi africani meta dei vacanzieri cinesi. Impossibile, allora, prescindere da questa relazione speciale se si vogliono comprendere i cambiamenti che il continente sta vivendo. Secondo Prodi, «la Cina è il più importante paese non africano dell’Africa». Se negli ultimi dieci anni il Prodotto interno lordo del continente è cresciuto in media del 4,8%, lo si deve anche alla Repubblica popolare. «Il nuovo volto della crescita africana – sottolinea Prodi è legato alla forza della presenza della Cina, un paese che come gli Stati Uniti non è solo un protagonista, ma ha anche una grande responsabilità politica verso il continente e la sua popolazione in espansione». Una responsabilità, questa, che si misura con l’appoggio all’integrazione economica e politica dell’area sub-sahariana. Secondo Prodi, «i mercati dei singoli Stati africani sono troppo piccoli e la creazione di un mercato unico è precondizione per la crescita». Un’idea, questa, condivisa a Pechino da dirigenti e studiosi africani, europei, americani e cinesi. Secondo Erastus Mwencha, il vice-presidente dell’Unione Africana (UA), «con una base di 300 milioni di consumatori l’Africa costituisce un grande mercato in grado di avviare un processo di sviluppo».
Sempre che, s’intende, in questa direzione spingano anche l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina e gli altri protagonisti della scena mondiale. «Solo in questo modo – dice Mwencha – il continente potrà trasformarsi da regione esportatrice di materie prime a realtà produttiva in grado di creare valore aggiunto e posti di lavoro, permettendo a milioni di persone di uscire da una condizione di povertà». Una battaglia di giustizia sociale, è stato sottolineato a Pechino, che va combattuta con le armi dell’economia e la testa della politica. Alcuni dati aiutano a capire. Secondo il Consorzio per le infrastrutture in Africa, un progetto avviato in occasione del summit del G8 di Gleneagles, la scarsa qualità delle strade, dei porti e delle ferrovie aumenta fino al 40% il costo dei prodotti africani. Stando alla Banca mondiale, le strozzature della rete elettrica, i problemi di approvvigionamento idrico, il ritardo nelle telecomunicazioni mangiano, invece, ogni anno il 2% del Pil e riducono la produttività delle imprese fino al 40%. L’Africa, allora, scommette sui cinesi.
Isaac Olawale, professore dell’università nigeriana di Ibadan che studia la pace e i conflitti, ricorda un proverbio africano: «Una donna riconosce i pregi del marito solo dopo essersi sposata la seconda volta». Poi spiega: «Dopo aver conosciuto i colonizzatori europei, ai cinesi gli africani offrono mazzi di fiori».

Corriere 27.10.13
Le «Terre rare» della Groenlandia mettono in crisi il monopolio cinese
di Guido Santevecchi


Il parlamento della Groenlandia ha deciso di consentire l’estrazione dal suo sottosuolo di sostanze radioattive come l’uranio. Una rivoluzione dopo 25 anni di divieto imposto dalla politica anti-nucleare della Danimarca. Dal 2009 la grande isola artica ha un alto grado di autonomia da Copenaghen e il suo parlamento ha votato di misura (15-14 con due astenuti) per la riforma mineraria. La svolta avrà ripercussioni anche nel settore delle «terre rare»: materiali usati nella produzione di schermi per smartphone, computer, componenti avanzati per l’industria automobilistica, visori notturni e sistemi d’arma. L’uranio infatti si trova spesso mischiato a questi metalli che chiamiamo «terre rare».
Ora il mercato delle «terre rare» è dominato dalla Cina che ne ha il 90 per cento delle riserve mondiali note. Ma in Groenlandia c’è un enorme potenziale e, grazie anche allo scioglimento progressivo dei ghiacci artici, una società australiana assicura di poter ricavare 40 mila tonnellate di «terre rare» l’anno, il 22% del fabbisogno mondiale. Quindi, una scossa geopolitica che toglierà il quasi monopolio a Pechino. La Cina aveva imposto un tetto all’esportazione nel 2005, dopo essersi resa conto che le sue riserve si sarebbero esaurite in 15 anni. Ci vorrà tempo perché nel giacimento groenlandese si avvii la produzione, e Copenaghen ha già sollevato obiezioni. Ma c’è un altro intreccio tra l’isola e la Cina: in questo boom delle miniere, è stato deciso di affidare a una società mineraria di Londra la concessione di un giacimento di ferro da 15 milioni di tonnellate l’anno, situato 150 km a nord-est della capitale Nuuk. Serviranno almeno tremila minatori e gli inglesi vogliono associarsi a un gruppo di Pechino che si porterà dietro i suoi operai e tecnici. E questo sbarco di tremila minatori cinesi cambierà il volto della Groenlandia, che ha circa 57 mila abitanti.
Una partita complicata, cominciata dai groenlandesi per affrancarsi dalla dipendenza economica nei confronti della Danimarca. Ma che apre la porta a un esercito di minatori spediti dalla Cina.

il Fatto 27.10.13
Le 60 donne al volante contro il regime saudita
May e le altre hanno dovuto rinunciare al raduno: “Siamo state minacciate”
Passeggiate in auto individuali postate su YouTube
di Francesca Cicardi


il Cairo May Sauayan ha preso la sua auto ieri mattina e ha guidato per pochi minuti per le strade di Riad. Poi è tornata a casa e ha postato online il video che immortala questo semplice gesto, divenuto il simbolo della lotta per i diritti delle donne in Arabia Saudita: il diritto di poter guidare.
Proibito dalla legge e, soprattutto, dalla tradizione. May e le altre potrebbero essere punite con una salata multa e anche con il carcere, come successo a Manal al-Sharif nel 2011, nonostante ciò loro due e un’altra sessantina di donne si sono messe ieri al volante. Gli organizzatori della campagna “Donne alla guida” hanno ricevuto video e testimonianze delle donne che hanno osato farlo, e assicurano che quello di ieri è stato un successo se confrontato con iniziative precedenti, per il numero di donne al volante e perché nessuna di loro è stata arrestata. Malgrado la sicurezza fosse stata rafforzata negli ultimi giorni e malgrado le minacce dell’ultraconservatore governo saudita, nessuna donna è stata fermata o multata dalla polizia, e nessuna delle guidatrici o delle organizzatrici è finita dietro le sbarre così come in altre occasioni.
LA CAMPAGNA a favore delle donne al volante è iniziata nel 2011, a traino della primavera araba, e le proteste si sono susseguite in strada e online. Le attiviste volevano dare una spinta definitiva al movimento e avevano convocato ieri, 26 ottobre, grandi manifestazioni in diverse città del Paese, ma la pressione ed il controllo delle autorità ha fatto sì che il piano originale venisse cambiato. La protesta collettiva è stata disdetta e, invece di un raduno con carovana di macchine, le attiviste hanno preferito manifestare portando a termine atti isolati e individuali, che passano più inosservati e comportano minori conseguenze legali. Le attiviste hanno denunciato di essere state minacciate e seguite nei giorni scorsi, e il governo avrebbe chiesto alle agenzie per la sicurezza nazionale di prestare grande attenzione a questa “minaccia”. Le manifestanti al volante hanno assicurato che sia nella capitale Riad, che a Jeddah sono stati moltiplicati i checkpoint così come la presenza degli agenti di polizia. Il governo saudita aveva assicurato che non avrebbe permesso nessun raduno o protesta, in forza della legge approvata proprio nel 2011 per evitare qualsiasi possibile rivolta nel regno saudita. Il Ministero del-l’Interno aveva anche minacciato di usare la legge contro la dissidenza online per mettere freno al sostegno e alla popolarità che hanno le donne al volante sui social network, molto utilizzati in Arabia Saudita dove rappresentano l’unico spazio di libertà. Ma ieri la causa delle “donne al volante” (con l’hashtag #Women2drive) è divenuto trending topic su Twitter e i video delle guidatrici intrepide sono stati visti su You Tube in tutto il mondo. Internet ha rotto ancora una volta le barriere imposte dai governi arabi e gli attivisti hanno continuato a fare campagna ininterrottamente, dall’Arabia Saudita e con l’appoggio di organizzazioni internazionali como l’Onu. Inoltre, dei giovani sauditi hanno ottenuto solo ieri decine di migliaia di “like” su You Tube con una parodia del classico di Bob Marley “no woman, no cry”, adattato a “no woman, no drive” (donna, non guidare).
NEGLI ULTIMI due anni sempre più uomini appoggiano e reclamano il diritto delle donne alla guida, anche se i clerici ultraconservatori, spina dorsale del regime saudita e principale ostacolo alle riforme, si oppongono frontalmente: sia per loro sia per le donne, questa è una linea rossa, che mette a dura prova anche il governo, che negli ultimi anni ha cercato di introdurre piccoli cambiamenti e ha permesso l’ingresso delle donne nella politica e persino nella magistratura. Prima della fatidica data del 26 di ottobre, un religioso aveva avvertito le donne che guidare può provocare danni alle ovaie e malformazioni ai figli in futuro, ed un altro si era spinto persino a sostenere che le donne con il desiderio di guidare sono malate.

il Fatto 27.10.13
Putin non gradisce la più bella del Kosovo
Divieto di partecipazione (pro Serbia) a Miss Universo per la 19enne di Pristina
Miss Albania lascia in solidarietà
di Micol Sarfatti


Nella Russia di Putin sembra non esserci più spazio nemmeno per la bellezza. E dire che il presidente Vladimir ha sempre apprezzato le ragazze avvenenti. Di solito preferisce scagliarsi contro i dissidenti, gli omosessuali o gli attivisti. Le eccezioni riguardano solo le donne che osano criticare la sua politica come, ad esempio, le Pussy Riot, le tre punk, processate e spedite nei campi di lavoro per una performance anti presidenziale messa in scena nella chiesa del Salvatore a Mosca nel febbraio 2012. Questa volta però il pugno di ferro del Cremlino ha colpito una fanciulla che con il dissenso ha poco a che fare. Si chiama Mirjeta Shala, ha un volto sensuale e un fisico statuario e il prossimo 9 novembre avrebbe dovuto volare a Mosca per provare ad aggiudicarsi l’ambita corona di Miss Universo, ma il suo sogno si è infranto ancor prima di iniziare. Questa bella 19enne arriva dal Kosovo, Stato la cui indipendenza dalla Serbia, ottenuta cinque anni fa, non è riconosciuta dalla Russia. Putin è stato invitato alla finale del concorso direttamente da Donald Trump, il miliardario americano che da più di vent’anni organizza la kermesse.
MA IL PRESIDENTE è da sempre uno strenuo sostenitore della Serbia, che non ha mai voluto riconoscere la sovranità del Kosovo, e ha supportato le posizioni di Belgrado anche durante il conflitto del 1999. Sarebbe troppo imbarazzante per lui trovarsi costretto ad applaudire una rappresentate di quel Paese, rischiando anche di incrinare i rapporti con uno dei suoi alleati storici. Così Mirjeta, il cui passaporto non è considerato “valido” in Russia, ha dovuto ripiegare fasce e abiti da sogno. La motivazione ufficiale è che “non ci sono le garanzie necessarie di sicurezza”, ma è una spiegazione fumosa. A placare il dispiacere della ragazza non sono bastate queste parole e nemmeno il bel gesto di Miss Albania Fioralba Dizdari, che per solidarietà etnica ha deciso di abbandonare il concorso. Piange ancora e non si dà pace Mirjeta, che dal piccolo villaggio di Vucitrin, vicino a Prstina, sognava di arrivare sul tetto del mondo. I conflitti geopolitici ormai non si fermano più nemmeno davanti alla bellezza. E in questi giorni il Kosovo non è casus belli solo all’ultima edizione di Miss Universo. Il presidente della Serbia, Tomislav Nikolic, ha annunciato che non parteciperà agli incontri trilaterali con Turchia e Bosnia sulla stabilità post-guerra dei Balcani in segno di protesta contro le parole di Recep Tayyip Erdogan. Mercoledì scorso, durante una visita a Pristina il premier turco avrebbe detto “la Turchia è il Kosovo e il Kosovo è la Turchia” . Una dichiarazione di fratellanza definita “scandalosa” da Nikolic, che ha subito preteso scuse e spiegazioni dal governo di Ankara. Per il Kosovo, riconosciuto da 106 dei 193 Paesi dell’Onu, gli strascichi dell’eterno conflitto con la Serbia sembrano davvero non avere mai fine.

Corriere La Lettura 27.10.13
India, la democrazia sghemba che non dobbiamo far fallire
di Danilo Taino

Il meraviglioso dell’India è che sfida la legge di gravità. Vi succedono cose che le teorie non ammettono. John Stuart Mill sarebbe stupefatto nello scoprire che un Paese così radicalmente frammentato per etnie, religioni, comunità, lingue riesce a restare democratico. Una nazione di un miliardo e duecento milioni di persone, con un reddito pro capite di 1.489 dollari l’anno e un terzo di poveri sotto il dollaro al giorno, secondo molti libri non potrebbe rimanere una democrazia per molto tempo: prima o poi, il meccanismo si dovrebbe rompere. E in nessun’altra parte del mondo 160 milioni di musulmani vivono in un sistema democratico da quasi sette decenni. È la faccia gloriosa dell’India, la sua eccezionalità. Non è però un dono delle divinità. L’apertura, la tolleranza, la libertà possono sempre fallire. Ancora oggi. Il problema è che il futuro dell’India è maledettamene importante: per il pianeta tutto, non solo per l’oceano dei monsoni e dei commerci che la circonda.
L’India di oggi è il più grande esperimento democratico dalle rivoluzioni americana e francese. Per dimensioni e possibile influenza globale forse ancora maggiore: è il gigantesco laboratorio nel quale si decide se la democrazia può sopravvivere in un Paese povero, del Terzo Mondo. Ancora di più: se ce la fa l’India a difendere le sue libertà e a togliere dalla povertà i milioni che ancora vivono nella miseria, allora ce la possono fare tutti. E non necessariamente seguendo il modello autoritario cinese che sta facendo proseliti sulle ali del proprio successo economico. L’India ha una rilevanza planetaria e dovrebbe essere nei nostri cuori. Certe volte è orribile: nella violenza, nel disprezzo per le donne, nell’arroganza del potere e dei super-ricchi, nella corruzione. Ma la sua lotta titanica è importante per il futuro mondiale della democrazia e della guerra alla miseria.
Amartya Sen ha spiegato a lungo che la democrazia indiana non è l’importazione di quella occidentale. Le elezioni sì, ma quelle sono la forma. Quando, dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna del 1947, si discusse la Costituzione federale — adottata alla fine del 1949 ed entrata in vigore all’inizio del 1950 — Jawaharlal Nehru insistette sulle tradizioni di dibattito aperto e di tolleranza intrinseche alla storia indiana e sul pluralismo dei codici politici di Ashoka — imperatore del subcontinente oltre due secoli prima di Cristo — e di Akbar, Gran Mogol del Cinquecento. «Quando negli anni Novanta del XVI secolo — scrive Sen — il grande imperatore Moghul, Akbar, con la sua fiducia nel pluralismo e nella funzione costruttiva delle discussioni pubbliche, proclamava in India la necessità della tolleranza e si impegnava a favorire il dialogo tra genti di fede diversa (compresi indù, musulmani, cristiani, parsi, jainisti e persino atei), in Europa c’era ancora una severissima inquisizione. Giordano Bruno fu condannato al rogo per eresia e bruciato a Roma in Campo de’ Fiori nel 1600, proprio mentre Akbar parlava di tolleranza ad Agra».
In India sono nati l’induismo, il buddismo, il jainismo e il sikhismo. Cristiani, ebrei, zoroastriani ci vivono pacificamente da secoli. Il Dalai Lama l’ha scelta come residenza dopo avere lasciato il Tibet. Tra musulmani e indù scoppiano di tanto in tanto conflitti che finiscono in bagni di sangue, ma la convivenza è la norma. Il Paese è in stragrande maggioranza indù ma dall’indipendenza ha eletto tre presidenti musulmani, oggi ha un primo ministro sikh, Manmohan Singh, e la personalità più potente del Paese è una cattolica piemontese, Sonia Gandhi. L’immenso poeta di Calcutta Rabindranath Tagore — il Tolstoj dell’India, premio Nobel per la Letteratura nel 1913 — criticava il nazionalismo («È un falso Dio. È un anestetico») e armonizzava le culture indù, islamica, persiana, britannica. Cercava un luogo «dove la conoscenza è libera; dove il mondo non è stato spezzettato in frammenti da ristretti muri domestici». Apertura, confronto, tolleranza non sono prodotti d’importazione in India. Sono pratica autoctona e antica. Hanno basi formidabili. Fanno essere ottimisti.
Niente, però, è mai scontato. Nuvole monsoniche si addensano sul Paese, sulla sua economia e sulla sua democrazia, da un po’ di tempo. Il governo in carica, guidato dal Partito del Congresso della dinastia Nehru-Gandhi, dal 2009 è praticamente immobile, non fa quasi niente. Gli scandali scoppiano a ripetizione: prima il flop organizzativo dei giochi del Commonwealth, poi le tangenti nella distribuzione delle licenze telefoniche 2G, in seguito miliardi persi dalle casse dello Stato a causa delle regalie in occasione delle concessioni per i diritti di sfruttamento delle miniere di carbone. Un movimento popolare contro la corruzione, guidato dall’attivista Anna Hazare nel 2011, è sato snobbato dal governo. Il risultato è che i sondaggi registrano percentuali preoccupanti di giovani che vorrebbero un uomo forte, anche un dittatore, al potere.
Le riforme di liberalizzazione economica, indispensabili dopo che quelle di inizio anni Novanta hanno svolto il loro compito ma non bastano più, non si vedono, nonostante il premier Singh sia considerato un innovatore. L’esito è una crescita che da quasi il 10 per cento l’anno è crollata a meno del 5. Un livello insufficiente per togliere dalla povertà i milioni di disperati: povertà che si porta dietro violenza quotidiana, abusi sessuali, intolleranze di casta.
Il Partito del Congresso ha dominato sin dall’indipendenza: con Nehru, con la figlia Indira Gandhi, con il figlio di questa Rajiv, oggi con Sonia e con colui che dovrebbe essere il futuro leader, Rahul Gandhi. Dopo i grandi meriti acquisiti nella formazione dello Stato indipendente, però, il partito oggi è inadeguato a guidare un Paese che vorrebbe essere un po’ più ricco: il populismo assistenziale è ancora la sua cifra più significativa. Il nepotismo dinastico del Congresso, poi, è antistorico in una nazione pienamente inserita nell’economia globale, tra le più giovani del mondo, dove l’istruzione non ha raggiunto tutti, ma in ampie fasce della società tocca livelli elevatissimi. Dall’altra parte, il maggiore partito di opposizione, il nazionalista Bharatiya Janata Party, Bjp, ha trovato un leader di grande carisma, ma controverso, da presentare alle elezioni nazionali dell’anno prossimo, Narendra Modi. Modi ha ottenuto successi da ministro-capo dello Stato del Gujarat. Si porta però dietro l’accusa di avere permesso, se non ispirato, le violenze tra indù e musulmani che nel suo Stato provocarono, nel 2002, migliaia di morti.
Non solo. Spesso libri e film vengono censurati: più che altro per compiacere qualche partito locale con radici etniche che vuole accrescere i consensi nella sua comunità su qualche tema caldo. Si impongono limiti alle organizzazioni non governative. Capita che ai giornalisti esteri non venga dato il visto di lavoro, senza spiegazioni. Di frequente, alle Nazioni Unite New Delhi si allinea nelle votazioni ai Paesi più illiberali. Gli stupri sono di recente diventati un tema di mobilitazione pubblica, ma hanno anche fornito la scusa per ciniche richieste di rapide pene di morte, non solo per gli stupratori. La burocrazia è inutilmente pervasiva e il sistema giudiziario spesso suscettibile all’influenza politica, come si è visto nella gestione del caso dei due marò italiani.
Su tutte queste contraddizioni — già non poca cosa — si stende la rivalità, nazionale e spirituale, con Pechino. Un’ossessione, per le classi dirigenti indiane. La Cina cresce molto più in fretta, riesce a realizzare i progetti in un decimo del tempo rispetto all’India, ha una reputazione internazionale più forte, è membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sistema autoritario contro sistema democratico: anche a Delhi qualcuno vorrebbe un po’ meno di chiacchiere e più decisionismo. Probabilmente questo sarà il conflitto tra modelli del secolo. Amartya Sen prevede che vincerà la democrazia. L’India, nota, è stata regolarmente colpita da carestie: fino al 1947, però; dopo, grazie al controllo popolare sul governo, non ne ha più sofferto. Il regime comunista cinese, invece, ha provocato la più grande carestia della storia, tra i 20 e i 30 milioni di morti con il Grande balzo di fine anni Cinquanta. È in questa discussione, su questo crinale indo-cinese che si gioca un pezzo del futuro del mondo. Se l’India vincerà la povertà e conserverà la sua anima democratica, sarà migliore, molto migliore del passato.

Repubblica 27.10.13
“Diritti umani agli animali” la battaglia per cani e gatti degli intellettuali francesi
Appello per cambiare il codice civile: sono esseri sensibili, non cose
Tra i 24 intellettuali che chiedono di riconoscere diritti agli animali domestici ci sono, dall’alto, Edgar Morin, Michel Onfray, Alain Finkielkraut e Boris Cyrulnik
di Anais Ginori


PARIGI PER una volta sono tutti d’accordo. Pensatori di destra e di sinistra, europeisti o nazionalisti, conservatori o progressisti. Insieme, uniti in un’unica battaglia di principio: dare agli animali i diritti che si meritano. Non proprio trattarli come persone, ma quasi.
È QUEL che chiede l’appello bipartisan pubblicato da ventiquattro intellettuali francesi in favore della causa animale. Da Alain Finkielkraut a Edgar Morin, da Michel Onfray a Boris Cyrulnik. Il testo è stato rilanciato dalla Fondazione “30 milions d’amis”, che da tempo lotta per questa rivendicazione “bestiale”, ovvero una modifica del codice civile francese affinché gli animali non siano più definiti semplicemente come “cose”. Lo Stato, scrivono i firmatari, deve finalmente riconoscere che si tratta di «esseri viventi e sensibili».
Dopo la dichiarazione universale dei diritti umani, ora quella di gatti, cani, pesci rossi e maiali? Sembra un controsenso, anche se esistono da tempo studi di bioetica e biodiritto che vanno in questo senso. Molti paesi, dalla Svizzera alla Germania, si sono già mossi per dare agli animali maggiore tutela giuridica. La Francia è in ritardo nonostante abbia il record europeo di animali domestici, oltre 61 milioni. Non stupisce quindi che la nuova battaglia sia particolarmente popolare: la petizione rilanciata dagli intellettuali è stata già firmata da 250mila persone.
Insomma, non c’è solo Brigitte Bardot a fare la paladina animalista. Il problema, spiegano gli intellettuali firmatari, è che in Francia resiste un pensiero fortemente cartesiano sull’argomento. René Descartes sosteneva che gli animali erano “macchine”, privi di qualsiasi emozione e sensibilità. All’appello hanno partecipato anche il monaco buddista, Matthieu Ricard e l’astrofisico Hubert Reeves. Molti dei promotori hanno già scritto e lavorato sul tema. «Il giorno in cui si capirà che un pensiero senza linguaggio esiste presso gli animali, moriremo di vergogna per averli chiusi negli zoo e umiliati» scrive l’etologo e neuropsichiatra Boris Cyrulnik nel libro “Anche gli animali hanno diritti”, scritto con Élisabeth de Fontenay e Peter Singer. De Fontenay ha firmato nel 1993 il saggio “Il silenzio delle Bestie” mentre l’australiano Singer è l’autore del famoso “La liberazione animale”, uscito nel lontano 1975 e ancora oggi punto di riferimento per tanti militanti.
«Anche se gli animali non sono degli esseri umani — ricordano i firmatari — dividono con noi alcuni attributi, come la capacità di risentire piacere e dolore». Questo vale certamente, aggiungono, almeno per tutti i vertebrati. Sul tema, il codice civile è fermo ai tempi di Napoleone. Gli animali sono definiti «beni mobili», paragonati a una sedia, un armadio. Così recita infatti l’articolo 528 scritto nel 1804 secondo cuil’uomo è padrone assoluto di queste “cose”. I promotori dell’appello chiedono che sia inserita una nuova, apposita categoria nel codice civile. Si tratta di un rompicapo per i giuristi. La separazione tra persone e cose discende dall’antico diritto romano. Si era incominciato a parlare di una riforma del codice già durante la presidenza di Nicolas Sarkozy, ma la pressione delle federazioni degli allevatori e dei cacciatori aveva bloccato tutto. Ora la parola spetta a François Hollande, che in campagna elettorale si è dichiarato favorevole a una riforma. Una maggiore tutela giuridica degli animali avrebbe conseguenze non solo sul maltrattamento di animali domestici, ma costringerebbe anche a modificare abitudini nell’agricoltura e la ricerca scientifica.
La Francia, come altri paesi, ha già un reato di “tortura e sevizie sugli animali” inserito nel 1994 nel codice penale. Ma non riconosce un vero e proprio “diritto”. Il primo paese a trasformare lo statuto giuridico degli animali è stata la Svizzera, nel 1992. Dieci anni dopo, il parlamento tedesco ha votato per aggiungere nella Costituzione l’obbligo di rispettare la dignità degli uomini “e degli animali” che sono definiti come “senzienti” all’articolo 13 del Trattato di Lisbona. Anche in Italia se ne discute: la Lega antivivisezione ha annunciato di voler ripresentare un testo bipartisan per inserire il diritto degli animali nella Costituzione. E a chi obietta che ci sono oggi altre priorità più urgenti, gli intellettuali francesi rispondono con una frase Gandhi: «Si può giudicare la grandezza di una nazione dal modo in cui vengono trattati gli animali».

l’Unità 27.10.13
Le mutazioni familiari
Intervista a Paul Ginsborg «Un’altra lente per la Storia»
Lo storico anglo-italiano racconta la sua ultima sfida: una nuova lettura culturale dei grandi eventi nella prima metà del ’900 in Europa
«Esiste per me una catena d’oro che lega una famiglia non familistica, una società aperta e uno Stato sano»
intervista di Rachele Gonnelli


LA STORIA DEL NOVECENTO HA TANTE DECLINAZIONI. C’È LA STORIA DIPLOMATICA, POLITICA, SOCIALE, DI GENERE, QUELLA DELLE DONNE, E COSÌ VIA. MA LA STORIA DELLA FAMIGLIA FINORA È STATA LARGAMENTE TRALASCIATA. Paul Ginsborg per spiegare il perché di questa dimenticanza «non so se si può parlare di dimenticanza o forse di una vera e propria cecità, perché diamo la famiglia per scontata» racconta la risposta avuta da una sociologa spagnola. «Mise le mani a rete sugli occhi e mi disse: vedi, siamo così vicini alla famiglia che non riusciamo a vedere attraverso la grata».
Ginsborg per la verità, a cui piace intervallare grandi affreschi storico-culturali a microstorie (Salviamo l’Italia è del 2010), ha da sempre messo al centro della sua indagine questo attore sociale. E del resto uno dei suoi primi lavori è stato L’Italia del tempo presente, dedicato ai rapporti tra famiglia, Stato e società in Italia negli anni 80 e primi 90 del secolo scorso. Ora si pone un obiettivo più ambizioso «probabilmente il mio più ambizioso», ammette che è mettere la grande Storia novecentesca, della prima metà del secolo, la più travagliata sia per gli individui sia per gli Stati-nazione, sotto la lente delle dinamiche familiari. Il libro uscirà tra circa un mese, sempre per Einaudi, e parlerà non solo dell’Italia principale campo di ricerca dello storico inglese trapiantato in Toscana ma anche di altre quattro nazioni nei momenti più tragici e epocali, di più profonda trasformazione: la Russia dei soviet, la Turchia di Ataturk, la Spagna della guerra civile, la Germania dell’avvento del nazismo. Non si tratta di una ricerca archivistica, ma piuttosto di un vasto lavoro basato su metodologie diverse, da quella comparata al diritto di famiglia, dalla letteratura alla pittura, dai diari alle corrispondenze epistolari. Concentrando l’attenzione anche sulle vicende di alcuni personaggi storici di secondo piano, da Alexandra Kollontaj a Joseph Goebbels, «scelti per quello che hanno scritto sulla famiglia o per storie familiari particolarmente affascinanti».
La famiglia come campo d’indagine. Perchè questa scelta?
«Mi sono dato il compito di rimettere, o meglio di mettere per la prima volta, tutte le tematiche della famiglia in rapporto con la Storia con la esse maiuscola, in modo da far emergere le caratteristiche di fondo delle grandi trasformazioni che hanno interessato gli Stati-nazione nella prima parte del ’900. Credo sia fondamentale riuscire a connettere la famiglia con la società civile e questa allo Stato. È ciò che si può chiamare la “catena d’oro”. Serve una famiglia che non si chiude agli interessi solo della famiglia in sé, in conflitto con le altre, serve poi una società civile che offra possibilità di esprimersi in associazioni e azioni collettive e serve uno Stato sensibile a queste domande sociali, non clientelari, per una redistribuzione della ricchezza, che è il problema principale del nostro tempo. Purtroppo la sinistra ha stentato molto a capire l’importanza di questa connettività, di questa catena d’oro. Il primo convegno sulla famiglia del Pci data 1964, tardissimo. Invece di riflettere sul ruolo e la funzione della famiglia per decenni si è delegato il tema ai democristiani di turno. La famiglia in Italia e in Europa troppo spesso è stata preda del familismo. La sua strategia rischia di fermarsi ai suoi consumi, alle sue vacanze, a priorità ristrette. Invece di connettersi alle associazioni della società civile, di occuparsi almeno in minima parte dei grandi temi brucianti del secondo ’900 come l’ambiente, l’equità e anche le responsabilità verso l’altra sponda del Mediterraneo, come si vede dalle tragedie dei migranti di questi giorni». Anche lei pensa che la famiglia sia l’istituto immanente, unica malta di una società frantumata?
«Dipende dal tempo che si prende in esame. La famiglia in Europa nella prima metà del ’900 era semplice, dominata da problemi di sopravvivenza, dovendo reggere a livelli di violenza statale e non senza precedenti come durante la Prima guerra mondiale, le guerre civili, le carestie. Aveva un livello di connettività più forte e esteso, penso alla famiglia mezzadrile o alla famiglia padana delle lotte bracciantili dei primi del secolo. Oggi è una famiglia long and thin, lunga, dove i figli restano per tanto nella casa dei genitori, e ristretta, dove trionfano strategie famigliari basete troppo spesso sul consumo e sulla passività. A volte penso che la condizione della famiglia italiana oggi sia persino drammatica. Perché c’è un esercito di disoccupati giovani e anche di disoccupati di mezz’età senza mezzi di sussistenza che sono sempre più dipendenti dalle famiglie. Sono impressionanti le cifre della diminuzione del risparmio familiare negli ultimi cinque anni. Significa che si stanno prosciugando la pensione e il tesoretto del nonno, le riserve messe da parte negli ultimi 40-50 anni, per sostenere figli e nipoti. Non so quanto ancora il sistema della famiglia italiana possa resistere. Finite queste risorse i figli e i nipoti potrebbero passare dalla passività alla rabbia. Come nella Germania degli anni ‘29-33 quando di fronte alla pressione di questa massa di disoccupati, quando le famiglie non ce la fecero più, la rabbia fu incanalata verso l’ebreo, il rom, l’omosessuale».
La famiglia è ritenuta responsabile nel male e nel bene di gran parte dei caratteri tipici degli italiani. Ma soprattutto del familismo patriarcale, da cui si dipana non solo l’arretratezza della condizione femminile ma anche il clientelismo e in un ultima istanza la mafia. Anche per lei è questo Giano bifronte?
«Sì, penso sia un’espressione corretta. È un luogo di forti passioni, grandi generosità fra generazioni e grandi egoismi. Con la restrizione del mercato del lavoro e l’approfondirsi della crisi che dura ormai dal 2008 gli elementi criticabili come il familismo e le clientele, che fanno riferimento a obiettivi strettamente a breve termine di una famiglia singola contro le altre, si vanno rafforzando».
Dal Risorgimento al fascismo agli anni Settanta, non è forse che a ogni vero mutamento sociale abbiamo assistito a una scomposizione e ricomposizione della famiglia?
«No. Nel Risorgimento come dice Tancredi nel Gattopardo tutto doveva cambiare per rimanere uguale. È anche vero che molte grandi figure risorgimentali avevano situazioni familiari insoddisfacenti o inesistenti, da Mazzini a D’Azeglio allo stesso Cavour. L’unico con una famiglia diciamo “normale” era Daniele Manin. Si dedicavano alla causa e non alla famiglia, questo è vero. Nel fascismo il quadro interpretativo è però totalmente differente, il regime è subordinato alla Chiesa cattolica che pretende e ottiene con il Concordato l’affermarsi del modello cattolico della famiglia in ogni angolo della penisola. Negli anni 60 e 70 del ’900 è ancora diverso. I giovani meridionali lasciano la casa per trovare impiego nelle grandi fabbriche fordiste del Nord e mutano priorità: dalla famiglia all’amicizia. Ma è una parentesi. Negli anni 80, quelli del postmoderno, tutte le fratture si ricompongono e di nuovo la famiglia torna al primo posto. Perché la trasformazione immaginata non si è realizzata. Il ’68 pur avendoci lasciato tracce bellissime, con le sue aspettative di trasformazione della società e anche dei legami interpersonali, è una sconfitta e una chimera, sia in Europa che negli Usa. E si torna indietro. Anche allora la sinistra, più o meno radicale, non riflette sulla famiglia. A partire dalle teorizzazioni di David Cooper sulla morte della famiglia c’è chi sperimenta nuove forme del vivere insieme, per una nuova connettività: le comuni. Ma sono esperimenti falliti in tutti i Paesi nel giro di 5-10 anni. Non ho simpatia politica e culturale per queste teorizzazioni. Ciò che è rimasto da quella battaglia generazionale è una maggiore libertà sessuale dei figli e un modello di famiglia rinegoziato».
Anche il berlusconismo riguarda la famiglia. Nel senso che la lascia più sola davanti alla tv?
«È complicato. Diciamo che il berlusconismo ha rafforzato il modello che veniva dagli Usa negli anni 80, per rafforzarlo lo ha interpretato potenziando il modello di famiglia basato sul familismo e sul clan. Vorrei dire che la famiglia non è più sola di prima ma ho paura che sia così»

La Stampa 27.10.13
Galante Garrone
L’importanza di capire prima degli altri
L’intellettuale azionista moriva dieci anni fa
Previde la catastrofe della guerra, ma anche che avrebbe segnato la fine del fascismo
di Paolo Borgna


Dieci anni fa, il 30 ottobre 2003, moriva a Torino Alessandro Galante Garrone, storico, giurista, collaboratore della Stampa dal 1955. Il mite giacobino era nato a Vercelli nel 1909. Suo padre, Luigi, egregio latinista e grecista, amico di Augusto Monti, aveva avuto come allievo al liceo Gioberti il prodigioso Piero Gobetti.
ll direttore di La Rivoluzione Liberale è il fil rouge che accomuna i «Maggiori» di Alessandro Galante Garrone, i testimoni dell’Italia civile evocati in un volume per Garzanti non più ristampato. Da Francesco Ruffini, il maggiore tra i maggiori, a Piero Calamandrei, da Luigi Einaudi ad Arturo Carlo Jemolo, da Luigi Salvatorelli
a Gaetano Salvemini, da Ernesto Rossi a Ferruccio Parri.
Ruffini è fra i professori che non giurarono fedeltà al fascismo. Il fascismo inteso come antirisorgimento. Un naturale sentire per Alessandro Garrone (nipote di due medaglie d’oro della Grande Guerra), che lascerà la sua impronta nel movimento Giustizia e Libertà e nel partito gobettiano per antonomasia, il Partito d’Azione.
Fratello di Carlo e di Virginia, sposato con Mitì Peretti Griva, figlia di Riccardo, «spina dorsale» della magistratura piemontese, magistrato egli stesso per trent’anni, quindi docente di Storia all’Università, padre di Giovanna, Alessandro Galante Garrone rivive nella biografia dedicatagli da Paolo Borgna per Laterza, Un Paese migliore.
Guido Quaranta

Dal carteggio con Giorgio Agosti, nel 1939
Galante ad Agosti 5/8/1939
«...Ho una gran voglia di girare per la vecchia Francia... vedere le antiche mura, le cattedrali, il beffo, magari con il sacco sulle spalle. Vecchi sogni che resteranno sogni. Com’è diversa la realtà che mi attende. Io penso, Giorgio, che anche tu, pur viaggiando, vedendo gente, non saprai del tutto liberarti dal senso meschino della nostra sorte individuale, che a volte affiorava durante certe nostre sconsolate conversazioni... se ricordi reagivo verbalmente, cercando di oppormi a certe tue pessimistiche conclusioni... ti sembrerà che forse non ho scelto un buon momento per farti certi discorsi: ma dobbiamo vedere, oltre l’ansia del momento, le linee dell’avvenire...»
Agosti a Galante 2/9/1939
«...Quando mi riesce di strapparmi ai ricordi e a visioni che allontano con orrore, mi pervade una fredda serenità, come un distacco dai destini individuali e dal mio primo. Dopo tanti anni di incertezza siamo oggi alla crisi decisiva. Non credo possibile si torni indietro, da una parte come dall’altra; né credo che a noi sarà possibile restare molto a lungo fuori dal conflitto. E ad onta di tutto, anche in una situazione così profondamente mutata, non ho dubbi sul risultato finale. Che noi, caro Sandro, probabilmente non vedremo: ma questo non importa molto; importa aver creduto in qualcosa, anche nelle ore più scure, l’aver capito, nel disorientamento generale, l’aver sperato, quando anche la speranza era oggetto di derisione...»
Aver capito prima degli altri. Questa è la cosa che più colpisce del gruppo torinese di Giustizia e Libertà di cui faceva parte Galante Garrone. E, probabilmente, è la cosa che non viene loro perdonata. Aver capito la guerra: la «guerra che verrà» di cui parlava Rosselli. E la rovina che la guerra avrebbe portato. Ma, anche, aver capito che la guerra avrebbe segnato la fine del fascismo.
«Sono mesi e mesi che un’oscura fatalità di sangue incombe su questa Europa: i fatti di febbraio in Austria; 30 giugno in Germania; 25 luglio a Vienna; la rivolta in Spagna; ieri l’uccisione di re Alessandro». Così scrive, su una sua agenda, il 9 ottobre ’34, Galante Garrone, legando con un filo rosso l’eccidio degli operai viennesi in sciopero, la notte dei lunghi coltelli, l’assassinio di Dollfuss, la rivolta delle Asturie, il regicidio di Alessandro di Jugoslavia. Gli italiani stanno dando il massimo del consenso al regime. Sandro ha venticinque anni. Da pochi mesi è pretore a Mondovì. Non può leggere giornali stranieri. Eppure, sente il vento di guerra che porterà l’Europa alla rovina.
Il riordino delle carte di Galante Garrone operato dopo la sua morte dall’Istituto storico della Resistenza di Torino ha fatto emergere lettere e appunti che ci confermano questa straordinaria capacità di previsione: aver capito che, con la guerra, sarebbe giunto, per gli antifascisti, il momento dell’azione; essersi preparati; non aver mancato l’appuntamento. Nel 1934 Sandro aveva confidato ad Adolfo Omodeo l’insoddisfazione per la propria forzata inerzia e lo storico napoletano gli aveva scritto, raccomandando pazienza: «Vi sono nella vita lunghi periodi o di letargo o di lenta, quasi fisiologica, maturazione [...] ma ti dico di non disperare [...]. Troppi problemi sono immaturi e acerbi [...] e forse quella che ci pare fiacchezza e ignavia e oblio è [...] maturazione di una più decisa volontà nel momento propizio».
Omodeo, Croce, Einaudi, Ruffini: è la consuetudine con questi maestri del liberalismo a forgiare carattere e cultura di Sandro, di Giorgio Agosti e dei loro amici. Per questo giungono preparati al «momento propizio». Quella preparazione culturale e morale li aveva isolati dalla retorica del regime. Quell’isolamento sarà, nel ’43, la loro forza. Il carteggio tra Galante Garrone ed Agosti ci restituisce in mezzo a tanti biglietti pieni di ironia e sfottò su loro stessi e gli amici lettere struggenti per la capacità di vedere in anticipo il carattere definitivo e totalizzante del conflitto e l’avvicinarsi del «momento della scelta». 1936: a maggio l’Italia ha conquistato l’Etiopia. Ad agosto Mussolini dichiara: «Hanno diritto all’impero i popoli fecondi, quelli che hanno l’orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra». In una lettera di settembre a Sandro, Giorgio scrive della sua «sensazione confusa... dell’avvicinarsi di un conflitto inevitabile»; di una «tragedia... di una civiltà di cultura e di umanità stritolata in un conflitto... di cui non si riesce neppure... ad afferrare il significato».
Tre anni dopo: 5 agosto ’39. Agosti è in vacanza in Belgio. Mancano tre settimane all’inizio della guerra. Sandro gli scrive e confronta la gioventù italiana con quella degli altri Paesi europei. Parla di «certe condizioni ambientali» che hanno reso la loro vita «tormentata ed arida». Ma esorta l’amico a superare «l’ansia del momento» e a intravedere «le linee dell’avvenire». Il 1° settembre Hitler invade la Polonia, dove Agosti aveva studiato e conservato tanti amici. L’indomani Giorgio scrive a Sandro, angosciato: «Il pensiero va continuamente ai poveri amici di lassù, ormai nella tormenta. Ho letto dei primi bombardamenti: ci sarà già qualche nome caro fra le vittime?». Si sente però pervaso da una «fredda serenità». Perché ormai si è alla lotta finale: «Dopo tanti anni di incertezza, siamo oggi alla crisi decisiva». Non sa quale sarà il risultato. Se, alla fine, ne usciranno vivi. Ma questo conta poco: «Importa l’aver creduto in qualche cosa, anche nelle ore più scure, l’aver capito, nel disorientamento generale, l’aver sperato, quando anche la speranza era oggetto di derisione. Importa l’esser stati così vicini, così fraternamente, affettuosamente, vicini in questa nostra gioventù solitaria». Quella «gioventù solitaria», pochi anni dopo, salverà l’onore dell’Italia.

La Stampa 27.10.13
Nel nome del Padre, del Figlio e della ’ndrangheta
Le relazioni pericolose tra Chiesa e criminalità in Calabria Un libro del magistrato Nicola Gratteri e dello storico Antonio Nicaso
di Giuseppe Salvaggiulo


Negli ultimi anni, la ’ndrangheta ha occupato il centro della scena criminale e mediatica, non solo italiana. Grazie a clamorosi fatti di sangue (delitto Fortugno, strage di Duisburg), a inaudita penetrazione istituzionale (dai tribunali alla Regione Lombardia) e a un modello di business modernamente glocal che combina saldo radicamento territoriale, alte e diffuse professionalità, proiezione transnazionale.
Nella narrazione giudiziaria e pubblicistica, la religiosità ’ndranghetista è un aspetto che, pur ricorrente, galleggia nel limbo del bozzetto folkloristico. Si riducono a routine le cronache della processione della Madonna nel santuario di Polsi, ritrovo dell’onorata società citato per la prima volta in un processo nel 1894. Trascolorano i blitz nei bunker adornati come sagrestie (in quello bucolico del boss Gregorio Bellocco i carabinieri catalogarono un crocifisso, un rosario con grossi grani rossi, una foto di Padre Pio, un’immagine della Madonna del Monte Carmelo e un bassorilievo con l’immagine di Gesù sormontata dalla scritta «Dio proteggi me e questo bunker»). Con un’alzata di spalle, come di fronte a bizzarrie esoteriche proprie di una società arcaica, si liquidano i colpi di pistola indirizzati alle canoniche o certi interventi di presuli di segno opposto.
Un grave errore. Il difetto di analisi pregiudica la comprensione dei fenomeni sociocriminali e ne ostacola, ogni giorno e concretamente, il contrasto. Il rapporto tra ’ndrangheta e Chiesa non è una sovrastruttura intrisa di tradizionalismo, forma degenerata di marketing territoriale. Appartiene a pieno titolo alla struttura criminale e come tale va sviscerato. Lo fanno Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, e Antonio Nicaso, studioso di organizzazioni criminali, nel libro Acqua santissima in uscita martedì da Mondadori.
Cristiani sono i manovali della ’ndrangheta, addirittura «cristianuni» i capibastone. Ostentatamente devoti, battezzati due volte: prima nella comunità cattolica con l’acqua benedetta, poi nel sodalizio criminale con il fuoco, lo spillo infilato in un dito, le gocce di sangue sull’immagine di san Michele Arcangelo.
La singolare cristianità ’ndranghetista ha molteplici declinazioni e rafforza consenso e controllo sociale: la sosta di una processione sotto la casa di un boss, con tutto il paese ad amplificare l’omaggio; la direzione dei comitati civici che organizzano le feste patronali; il monopolio delle estorsioni ad ambulanti, giostrai e e giocolieri durante le celebrazioni; i fuochi di artificio al passaggio del santo. Già nel 1916 i vescovi calabresi denunciavano «una quantità di abusi inqualificabili» che «rendono le processioni non solo profane ma scandalose e ridicole». Ma ancora oggi i sacerdoti che prendono provvedimenti rischiano l’isolamento della comunità e l’abbandono delle gerarchie.
Talvolta le vendette coincidono con le feste religiose, l’infame ammazzato viene simbolicamente privato della gioia di un Natale o di una Pasqua. E anche da morti, i boss strumentalizzano il rapporto con la Chiesa. I funerali devono essere solenni, pubblici, memorabili. Le omelie indulgenti come quella per Michele Bruni, nel Duomo di Cosenza: «Chi può dire cosa è bene e cosa è male nella nostra vita? Noi?».
Questo rapporto viene sviscerato dagli autori scavando negli archivi e nei faldoni giudiziari e mettendo in fila decine di episodi e personaggi, in gran parte sconosciuti o dimenticati. Preti omertosi, conniventi, complici, armati ma anche disarmati, coraggiosi, visionari, stimati, solitari. Preti «non mafiosi, ma galantuomini». Preti che scomunicano pubblicamente gli ’ndranghetisti e altri che scomunicano i pentiti, suggerendo comportamenti più «prudenti».
Fino agli anni 50, i boss garantivano un contributo alla tenuta dell’ordine sociale minacciato dalla secolarizzazione. La Chiesa ricambiava ammantando di indifferenza, se non di negazionismo, gli «effetti collaterali» della loro devozione. Per esempio certificando la buona condotta dei mafiosi con lettere che servivano a evitare il confino. Negli anni 70 comincia la stagione dell’impegno, della denuncia. Oggi il panorama è contraddittorio. Nella piana di Gioia Tauro, a pochi chilometri di distanza, convivono don Pino Demasi, referente di Libera, che nega l’ingresso in Chiesa della salma di un boss, e don Memè Ascone, che testimonia appassionatamente in tribunale in difesa di tre imputati di associazione mafiosa. La tesi di Gratteri e Nicaso è che questa «doppia anima» non sia subita dalla Chiesa-istituzione, ma alimentata con l’equivoco di una cronica e non più tollerabile assenza di chiari e precisi indirizzi pastorali. Norme di comportamento per i sacerdoti, che rafforzi l’opera dei migliori e tolga alibi ai peggiori. «Ma ora la speranza c’è e si chiama Francesco».

Corriere La Lettura 27.10.13
Una volta era tutto mitico, oggi è geniale
La prima a involgarire il linguaggio fu la televisione (che è andata via via peggiorando)
Adesso anche i social networks contribuiscono alla demolizione dell’italiano. Ecco come
di Luca Bottura


«I complimenti costano poco e certe volte non valgono di più». La perla di saggezza arriva da Jovanotti, ai tempi in cui l’anatema di Alberto Arbasino non l’aveva ancora colpito. Nel tempo cioè in cui non aveva compiuto il tipico e triplice percorso che fa dell’italiano celebre una brillante promessa, poi un solito stronzo, e infine lo innalza a venerato maestro. Negli anni, il teorema ha subito una brusca accelerazione — si pensi a Mario Monti un annetto e mezzo fa, e alla curiosa deriva che oggi lo rende meno popolare del cagnolino Empy — e non manca di robuste eccezioni. Come Roberto Saviano, che ha saltato le prime due fasi per diventare ipso facto venerato maestro, salvo poi retrocedere nell’immaginario (quasi) collettivo a solito stronzo. Colpito, alle spalle, da quel professionismo dell’antiretorica, da quel conformismo dell’anticonformismo, che in Italia sono per tanti un mestiere.
In quella verità da canzonetta del giovane Jovanotti si annidavano i batteri di una pandemia che avrebbe devastato e inaridito il lessico negli anni a venire, per colpa quasi esclusiva del combinato disposto tra l’italica pigrizia e l’effetto rullo compressore prima della tv e poi dei social network. Ma se ai tempi dell’omonimo brano di De Gregori (2001), l’aggettivo mitico era appannaggio della brutta tv, del cattivo giornalismo, delle pessime recensioni; l’era di Twitter e di Facebook l’ha dapprima elevato al ruolo di a.e.u. (attributo entusiastico unico), e poi, più recentemente, a quello di q.a.e. (qualità abborracciata equivalente). Perché già s’avanza il «mitico 2.0», e quel che era mitico sempre più spesso in rete diventa «geniale». E chi l’ha scritto un genio. E a volte addirittura un gegno .
A una prima analisi le due carezze verbali parrebbero equipollenti, ma le differenze sono profonde. «Mitico» eterna. Ha una pretesa di immortalità spicciola. Si applica alla storia e alla storiella: per contrappasso, Jovanotti, o De Gregori, sono essi stessi miti(ci), lo sono le loro citazioni, come quelle di Ennio Flaiano, di Oscar Wilde, di Madre Teresa di Calcutta e di Bukowski, di Martin Luther King e Mario Borghezio, di Panariello, Fiorello, Martufello, Quagliariello. La genialità invece fa rima con contemporaneità: è geniale la battuta buona, e anche quella scarsa, ma scritta da un amico, o da una fanciulla con cui desideri giacere. Geniale è il fotomontaggio comico rubato chissà dove. Geniali sono le boutade di Roberta a «Radio Maria» e quelle di Sgarbi a Radio Belva . Geniale è il tizio che riprende una tabella prelevata da un sito che l’aveva composta fotocopiando il motto di spirito di un deputato grillino che l’aveva letto su Spinoza.it che al mercato mio padre comprò. Fate girare.
Geniale, in assoluto, è lo spirito non richiesto che inonda le bacheche e ci spinge a complimentarci con gli umori altrui, nella speranza che qualcuno prima o poi si complimenti con noi. Un fiume di consenso senza valore che conferma l’incapacità tutta tricolore di scindere contenitore e contenuto: siamo, noi, il popolo che confonde il demenziale con la demenza e la satira coi satireggiati. Quando Matt Groening (anche se alcune fonti attribuiscono l’invenzione a Tonino Accolla, compianto doppiatore di Homer. Che a quel punto diventerebbe esso stesso mitico) dotò Homer Simpson di un unico aggettivo — «Mitico!» — valido per le Duff ghiacciate, i quadri di Kandinskij, l’incontro con Cristiano Ronaldo stava sfottendo, tra gli altri, il linguaggio della middle class americana. Ci è piaciuto. L’abbiamo adottato. Abbiamo unito mezzo e messaggio, come tanti McLuhan postmoderni mandati a sbattere contro McDonald’s. Ma non ci bastava ancora: l’abbiamo reso geniale.
So bene che il problema dell’appiattimento linguistico non rientra tra le prime cinquecentomila emergenze italiane e si colloca qualche posizione dopo, diciamo tra il battesimo del figlio di Carmen Russo e la rubrica di Carlo Rossella sul «Foglio» , però è pure vero, anche senza ricorrere al Moretti di Palombella rossa (mitico), che chi parla male pensa male. Clicca male. Condivide male, all’impronta, senza leggere, senza sapere. Forma, sui social, una specie di coscienza collettiva carlona che mira a rafforzare i propri pregiudizi attraverso un plebiscito incidentale e virtuale.
Così «geniale» è oggi una sorta di «carino» anabolizzato. Si porta con tutto, e con niente. È la banalità del bene, anzi del benino, come «mitico» era la banalità del benone. In un solo giorno di tweet, quello in cui queste righe sono state compitate, la mitica Barbara D’Urso si vantava di ospitare il mitico Bobby Solo, decine di mitici appassionati festeggiavano il mitico sequel di Scemo e più scemo , le mitiche fan di Nek ne rilevavano il mito per aver citato un mitico proverbio cinese («Se cadi sette volte, rialzati otto»), il mitico doppiatore Luca Ward pronunciava la frase «Se abbaia è radio Canaja», il mitico Pupo, di passaggio a Erevan, si complimentava col mitico monte Ererat (scritto proprio così), e risultavano altresì mitici Bruno Barbieri di MasterChef , la Polaroid SX70, Mara Maionchi, Rossella Brescia, Red Ronnie, la caponata, Frank Poncherello dei Chips, Massimo Boldi, Rudy Zerbi, la Bauhaus, Tabacci, il Legnano calcio, Giampiero Galeazzi, il taccuino di Pippo Civati, i Loacker (segue).
Contemporaneamente, Nicola Zingaretti della Provincia di Roma ci teneva a definire geniale il nuovo singolo di Vasco, Giuseppe Cruciani sosteneva per interposto tweet la genialità del «Fatto Quotidiano», Caterina Balivo riscontrava il genio in una ricetta di patate dolci e paprika, e geniali risultavano pure Peppa Pig, Massimo Boldi secondo estratto, le cotolette vegan, la battuta di Andrea Agnelli sullo scudetto di Jakartone, Cronosisma di Vonnegut e una lista sterminata di amichetti nostri. Specie su Facebook, laddove, però, per fortuna, si affaccia anche l’unico antidoto possibile a questo letargo collettivo dello spirito critico: lo spostamento di senso.
È una crepa, l’aggettivo «geniale» utilizzato sarcasticamente, ma si allarga: i geniali titoli della «Domenica Sportiva» su Roma Capoccia, i geniali 14 euro al mese che dovrebbero rivitalizzare l’Italia, la geniale iniziativa di un libro per analfabeti, la geniale Rosy Bindi che assicura impegno per combattere l’antimafia , la geniale professoressa che invece di far lezione sta un’ora al telefono per un’offerta della Tre. Anche se, in questo caso, già scivoliamo nel campo del «grande». Ma questo è un altro aggettivo e quindi è il caso di parlarne magari un’altra volta. Può uscirne un articolo geniale.

Corriere La Lettura 27.3.13
Una lingua universale che nasce da Cartesio
di Paolo Ciuccarelli


Molti dei nostri recettori e buona parte del nostro cervello sono dedicati alla percezione visiva del mondo e all’elaborazione degli stimoli visuali. La vista è il senso con la «capacità di banda» più larga e il nostro cervello elabora le immagini in modo rapido, anche a livello inconscio. Non c’è dunque da stupirsi se in epoca di Big Data e sistemi complessi l’attenzione per la visualizzazione dei dati e dell’informazione sia forte: quanto più grande e articolato è l’insieme dei dati, tanto più efficace ed economica sarà la sintesi per immagini. È nella nostra natura: il nostro pensiero, per dirla con Rudolf Arnheim, è un «pensiero visuale». Tutti cominciamo a imparare con le immagini, prima di passare ai numeri o alle parole: la graphicacy viene prima della numeracy e della literacy , poi molto spesso la disimpariamo. Il linguaggio visuale è meno soggetto a barriere culturali e formative e non conosce confini di applicazione o di fruizione possibili. Nella nostra esperienza (nel laboratorio di ricerca DensityDesign al Politecnico di Milano) alle esigenze espresse dagli ambiti più tipici dell’amministrazione pubblica, della finanza, delle «scienze dure» nel tempo si sono affiancate quelle inedite e specifiche di chi interpreta le materie umanistiche attraverso i dati, di chi cerca di capire i fenomeni sociali esplorando internet, di chi studia l’evoluzione delle leggi seguendone il percorso. Quanto più i processi di esplorazione, analisi, condivisione, interpretazione, decisione, comunicazione coinvolgono interlocutori meno esperti, tanto più la visualizzazione è utile proprio per il suo carattere di universalità. A patto però di saperne declinare i caratteri fondamentali in base al destinatario, al contesto culturale, all’obiettivo: alla visualizzazione minimalista che codifica direttamente il dato utilizzando pattern visuali tradizionali per obiettivi più analitici — come in Rain patterns di Jane Pong in queste pagine — si affiancano declinazioni più espressive e narrative, in cui il dato puntuale è meno leggibile a favore della visione d’insieme, come nelle visualizzazioni di Posavec e Stefaner. La quantità dei dati e delle informazioni disponibili, la complessità dei problemi da affrontare, i dati sempre più spesso digitali e la diffusione dei dispositivi mobili spingono all’ibridazione dei generi: analisi e narrazione si mescolano in esperienze di fruizione del dato e dell’informazione dinamiche e interattive, che fanno fatica a stare dentro etichette come quella di infografica. Con buona pace di chi pensa sia una moda, smaltita la bolla di entusiasmo legata alla disponibilità (finalmente) di dati aperti e strumenti gratuiti per il loro trattamento, la rappresentazione visuale continuerà il suo percorso evolutivo, che ha le basi più forti nella rivoluzione scientifica di Cartesio e Edmond Halley e le radici più profonde nel modo in cui percepiamo ogni giorno il mondo.

Corriere La Lettura 27.10.13
I robot dotati di coscienza saranno una specie aliena
di Sandro Modeo


All’inizio del Cambriano, tra i 543 e i 538 milioni di anni fa, la vita sulla Terra — o meglio negli oceani — produce un’esplosione di nuove specie: un ventaglio di freaks con morfologie esuberanti (i cinque occhi dell’Opabinia ) e ornamenti o armamenti (a uso predatorio-sessuale) con fantastiche fluorescenze-iridescenze. Secondo Illah Reza Nourbakhsh della Carnegie Mellon (Robot Futures ), staremmo entrando ora in un Cambriano della robotica, destinato a stravolgere — se non a inquinare — il nostro ambiente domestico e sociale.
Tra robot-aspirapolvere e cieli solcati da droni o eli-robot capaci di volare a stormi sincronizzati, lo scenario ricorda il brulichio visivo per le strade di Io robot di Alex Proyas (dal classico di Asimov) o di Minority Report di Spielberg (da Philip Dick), in cui l’ibridazione bio-tech è ormai ordinaria quotidianità. In effetti, a seguire Nourbakhsh (e Michio Kaku nella sua Fisica del futuro ) già il quadro attuale sembra contenere frammenti di futuro. Omettendo avatar o simulacri, cyborg e interazioni uomo-macchina (come le protesi articolari di Pistorius o le coclee e retine artificiali) , la robotica ha già colonizzato diversi settori. Ci sono milioni di robot-vigilanti nell’industria e nei servizi; robot-chirurghi come il formidabile Da Vinci, che opera ad alta precisione; robot-cuochi come quello giapponese della Aisei, che può cucinare un pasto in 1 minuto e 40 secondi; e robot-violinisti come quello della Toyota. Mentre sono allo studio robot modulari «polimorfici» (con pezzi in simil-Lego in grado di assemblarsi in forme di anelli o serpenti) e robot-sociali per i soccorsi dopo un sisma o uno tsunami.
Tutti questi artefatti, però, sono molto lontani dalla sfida vera, quella di arrivare a un robot umanoide dotato di coscienza, emancipato dal comando esterno o da comportamenti pre-programmati. Di riuscire cioè a costruire — lasciando sullo sfondo i replicanti di Blade Runner o il bambino-androide di A.I. — robot antropomorfi più evoluti del pur sofisticato Asimo di Honda, che, nonostante la sua deambulazione promettente (e il suo ricco vocabolario), ha meno intelligenza di un insetto. Per esempio di un comune scarafaggio, dotato di funzioni cognitive (dal riconoscimento degli oggetti all’aggiramento degli ostacoli) problematiche per molti robot.
Il punto, riassume Nourbakhsh, è che gli attuali robot sono ibridi di elementi superumani (una vista più ampia e focalizzata e una superiore capacità di computazione) e altri subumani (la rigidità del movimento e la stessa impasse cognitiva). Possono vedere di notte come i gufi o i pipistrelli, ma non sanno che cosa vedono; e impiegano ore per svolgere operazioni elementari che noi svolgiamo inconsciamente in una frazione di secondo. Più che ad affinamenti di struttura (telai e giunture più flessibili, motori più leggeri, batterie a minor consumo), la progressiva mimesi dovrà così concentrarsi sul rapporto tra cervello e computer, prendendo atto di una distanza, o almeno di una differenza, pressoché irriducibile.
Nonostante l’enorme vantaggio quanto a velocità di informazione (prossima a quella della luce) e densità computazionale (fino a 500 milioni di operazioni al secondo), il computer patisce infatti un gap qualitativo: molto più lento (con impulsi elettrici a 320 km/h), il cervello umano funziona «in parallelo», con una rete di sinapsi in cui ognuno dei cento miliardi di neuroni può interagire con altri diecimila. In più, il computer non contempla la dimensione affettivo-emotiva, necessaria per la discriminazione di valori e, in concerto con la corteccia, per la pianificazione di scelte e decisioni. Al momento, dato che il computer è il «cervello» dei robot, gli artefatti umanoidi non hanno nessuna delle proprietà di una coscienza: né consapevolezza di sé, né cognizione del tempo (passato-presente-futuro), né possibilità di manifestare empatia. Delle emozioni, possono riprodurre solo l’esteriorità mimica, come i cagnolini Aibo della Sony.
In teoria, una scalata al gap è possibile; ma a livello di hardware non è facile, perché la legge di Moore (che prevedeva un raddoppio della potenza dei processori ogni 18 mesi), sembra essersi arrestata; mentre a livello di software le uniche speranze sono legate ad algoritmi che operino imitando il «respiro» della selezione naturale. Quel respiro con cui il cervello o il sistema immunitario non rispondono passivamente agli stimoli dell’ambiente, ma li anticipano, producendo soluzioni adattative poi selezionate (e memorizzate) in base alla loro efficacia, come succede proprio allo scarafaggio quando impara a evitare un ostacolo.
Tra i pochi artefatti «selezionistici», risaltano i vari Darwin (come il Darwin X) messi a punto dall’immunologo-neurobiologo Gerald Edelman, capaci di interagire con ambienti e oggetti in base a schemi di percezione-memoria-apprendimento che imitano quelli del cervello. Del resto lo stesso Edelman, che pure crede nel possibile sviluppo, un giorno lontano, di una «coscienza» robotica, ci ricorda come si tratterebbe in ogni caso di una coscienza «altra», perché l’integrazione di informazione a livello di bit e silicio produrrebbe una «visione del mondo» diversa da quella prodotta da neuroni e sinapsi. In quel momento, sarà come trovarsi a comunicare con una specie aliena; ma avendo avuto il tempo, essendone stati gli artefici, di prepararsi alla sua emersione.

Repubblica 27.10.13
Sopravvissuti. Tiziano Sclavi
Come Dylan Dog, il personaggio a fumetti che ha inventato e che ora sta per abbandonare, non tocca un goccio d’alcol da anni
Ma a differenza della sua creatura lui si è anche sottoposto a elettroshock, non esce mai di casa, colleziona computer e ha una originalissima opinione di sé:
“Non valgo un granché, prima o poi scopriranno che sono un impostore”
di Luca Valtorta


VENEGONO SUPERIORE (Varese) «Sono sempre stato una nullità. Da bambino mia madre mi scambiava per mio fratello, anche se ero figlio unico. A scuola la maestra mi segnava sempre assente, anche quando ero presente. Tutti gli altri ragazzi avevano degli hobby. Il mio hobby è sempre stato respirare». Così scriveva inMemorie dall’invisibile, dicembre 1992. Ora lui ci aspetta nell’ultima casa in fondo al bosco. Per arrivarci bisogna prendere una strada sterrata, il navigatore impazzisce, si gira in tondo per un po’, si ritorna indietro. Finalmente una casa solitaria. Un cancello. Si apre. Come te la immagini la casa dell’uomo che ha inventato Dylan Dog? Il campanello suonerà normalmente o urlerà come quello dell’inquilino di Craven Road? E ci sarà il famoso e temibile «spettro sumero» nel frigorifero? Appena aperta la portiera un abbaiare di cani. Sette pericolosi bassottini ci circondano ma una donna alta e magra, capelli corti, vestita con gusto, ci viene a salvare. È Cristina, la moglie di Tiziano Sclavi. La donna che ha deciso di vivere con lui lontano da tutto e da tutti. Perché Tiziano Sclavi da questa casa non esce mai. Dentro c’è il famoso galeone che “l’indagatore dell’incubo” costruisce dal primo numero della serie, nell’ormai lontano 1986. E la pistola di Dylan, quella che non si porta mai dietro ma che regolarmente gli lancia il suo assistente Groucho, pure. Ma se pensate che Sclavi scriva con la penna d’oca come fa la sua creatura e non possieda neanche un cellulare, vi dovete ricredere: «Sono un fanatico della tecnologia. Ho in casa più di trenta computer, senza contare iPad e smartphone vari». Ci accomodiamo in un salotto ampio e luminoso. Cristina ci offre una bibita rigorosamente analcolica. «Sedetevi pure sul divano», dice, «l’unico problema è che vi ritroverete coperti di peli». Sclavi, molto alto, dai capelli grigi corti e ordinati, indossa una camicia a quadri e un paio di jeans. È un uomo di una gentilezza squisita. Come il suo personaggio non tocca alcol da svariati anni; ha raccontato la sua dipendenza in maniera impietosa inNon è successo niente (Mondadori, 1998). Leggerlo è il modo più efficace per capire il suo mondo ma non solo: attraverso quelle pagine che giocano tra biografia e visione, ti sembra di essere lì con lui, dentro la vita di un uomo geniale e tormentato capace di inventare un personaggio a fumetti tra i più venduti nel mondo (nel periodo d’oro anche un milione di copie al mese) e di finire in un inferno che lo porterà a chiedere di farsi ricoverare per essere sottoposto a elettroshock pur di far cessare una indicibile sofferenza interiore.
Questo è un buon periodo. Anche se continua a non muoversi da casa, tante cose stanno succedendo attorno a lui. A partire da un grande rinnovamento, da lui voluto e che coinvolgerà la sua creatura, Dylan Dog, affidata a uno sceneggiatore giovane, Roberto Recchioni: «È più bravo di me, ha carta bianca». Lo scorso aprile è uscita una bella edizione di un altro personaggio di Sclavi, Roy Mann, per Lizard. È un personaggio che, come lui, di lavoro fa lo sceneggiatore. Sclavi scrive da sempre. «Ho incominciato prima a disegnare (male) e poi quasi subito a scrivere. Il primo, “tra virgolette” romanzo, l’ho scritto in seconda media. Al liceo il professore di italiano, nonostante avessi la media del 7 mi diede 9 sulla pagella. Io gli chiesi come mai e lui disse: “Lascia fare”. Fu il primo a credere in me. Le prime letture sono state il Corriere dei Piccoli, i fumetti Bonelli e Edgar Allan Poe. Di lui mi sono innamorato, l’ho letto tutto quando avevo sette-otto anni. E ho letto anche tutte le fiabe più sanguinose e paurose che si potessero trovare. Ho fatto da solo: i miei genitori non avevano libri e io abitavo in un paesino orribile dell’Oltrepo Pavese, Canneto. Ho vissuto dodici anni in questo posto che ho odiato con tutto me stesso». Sclavi è anche giornalista: «Nel ’76 venni preso dalCorriere dei Ragazzi dove qualche tempo dopo fu assunto anche un giovane di buone speranze che si chiamava Ferruccio De Bortoli. Quest’anno compio trentacinque anni da giornalista professionista: mi aspetto una festa dell’Ordine con fuochi artificiali e medaglietta ricordo. Guadagnavo trecentomila lire al mese contro le seicentomila che prendevo da freelance, ma una volta assunto i miei vedevano che andavo a lavorare e così erano contenti mentre prima, siccome non andavo all’università, secondo loro non facevo niente». Il Corriere dei Ragazzi diretto da Giancarlo Francesconi è stato una palestra di talenti: da lì vengono Mino Milani, Alfredo Castelli; lì pubblicavano Hugo Pratt, Dino Battaglia, Sergio Toppi e Grazia Nidasio («Fu lei, l’autrice diValentina Mela Verde, a introdurmi »), Ferdinando Tacconi, Bonvi, Milo Manara, Giancarlo Alessandrini, Attilio Micheluzzi. A un certo punto chiuse. «Sì, l’azienda invece di investire in raccolte degli autori che pubblicavano sul giornale, come chiedeva Francesconi, decise di trasformarlo in un giornale simile all’Intrepido. Se avessero fatto i volumi avrebbero anticipato le cosiddette graphic novel che oggi vanno tanto di moda. Ma ilCorriere dei Ragazzi allora vendeva 140mila copie e l’Intrepido superava il mezzo milione: una cifra che faceva gola. Però, naturalmente, in questo modo non solo si è perso il pubblico più sofisticato e curioso che era stato quello del Corriere dei Ragazzi ma si è andati verso il disastro».
Di recente, dedicato a Sclavi, è uscito un imponente volume degli Archivi Bonelli (sempre per Rizzoli Lizard) con prefazione del filosofo della scienza Giulio Giorello. Da Zagor aMister No,passando ovviamente per Dylan Dog,ne ripercorre tutta la carriera “bonelliana”. «Era un periodo che la Bonelli s’era lanciata in tante altre cose che si sono rivelate fallimentari, compresa una rivista di enigmistica che mi toccava correggere ePilot,rivista di fumetti di cui ero il direttore ma anche l’unico redattore. A un certo punto Sergio decise di tornare a concentrarsi sulle produzioni e mi chiese di sviluppare un personaggio: così è nato Dylan. Dopo il primo numero il distributore disse a Bonelli che Dylan Dogera “morto in edicola”, una notizia che per pietà mi hanno tenuto nascosta per diverso tempo. Poi, a partire dal numero 12, ha avuto un’impennata e da lì è andato avanti facendo cifre incredibili e coinvolgendo un pubblico trasversale che non era solo quello abituale dei fumetti». Persino Umberto Eco ne ha tessuto le lodi. «Una volta ha dichiarato: “Tengo sul comodino la Bibbia, Omero eDylan Dog”. Questa frase è stata usata in ottocentomila modi e credo che lui sia incazzatissimo. Ma per quanto mi riguarda in realtà non ho una grande opinione di me e del mio lavoro: credo che tutti si sbaglino e prima o poi si accorgeranno che sono un impostore».
Un lato molto poco conosciuto di Sclavi è anche quello di autore di canzoni: da poco è uscito un album con i suoi testi a cura del gruppo Seconda Marea, Gli anni del mare e della rabbia(in allegato con il nostro XL) mentre l’editore Squilibri ha pubblicato Ballate della notte scura,un libro più cd. «A proposito di canzoni e di Eco. L’unica volta in vita mia che ho visto Umberto Eco siamo stati insieme molto a lungoperché da quell’incontro è nato un libro-intervista (Dylan Dog, indocili sentimenti, arcane paure a cura di Alberto Ostini, Euresis, 1998). A un certo punto mi ha detto: perché insisti a pubblicare in Dylan Dog quelle poesie che hanno tutta la metrica sbagliata? E io ho detto: quali poesie? Io non ho mai scritto poesie, per carità. Io la poesia non la capisco. Quelle sono canzoni e hanno la musica, quindi la metrica funziona con la musica. Una musica che avevo in testa. E lui ha risposto: “Allora dovresti allegare una cassetta”. Oggi finalmente ho realizzato quel sogno ».
Il pomeriggio sul divano di casa Sclavi scorre lento. Le chiacchiere vanno da Pasolini, «mai troppo rimpianto », al berlusconismo, «quel po’ di cultura rimasta sopravvive a gomitate», e naturalmente si pensa a Sergio Bonelli. La sua morte, due anni fa, è stata un duro colpo: «Una volta non ci siamo parlati per tre mesi. Ma era un grande amico e io ero sempre a caccia di figure genitoriali: Decio Canzio (il direttore della Bonelli, ndr)era mio papà e siccome il posto di papà era occupato Sergio è diventato mia mamma. Con la morte di questi due grandi uomini è finito un mondo di cui facevo parte e sono morto un po’ anch’io». Arriva sera e i bassottini cominciano ad agitarsi. Hanno fame. Un’ultima domanda, ormai inevitabile: perché vivere lontano da tutto? Perché non uscire mai di casa se non per lo stretto necessario? «Per pigrizia. Per paura del mondo. Perché non guido quasi più. Perché con l’ecommerce mi portano tutto a casa. E soprattutto per i miei cani: quando ne hai sette spostarsi è un problema. E poi la mia casa mi piace, qui ho i miei libri e i miei film, i miei computer, i miei gadget». E poi c’è Facebook, i social network. «I social network mi sono totalmente estranei. Fosse per me fonderei un asocial network».

Repubblica 27.10.13
La cultura in streaming
Non solo musica, tv e film, adesso anche i libri si “noleggiano” online con un abbonamento che li rende disponibili a tempo
Funzionerà?
di Stefano Bartezzaghi


Una pallina da tennis, nuovissima e sgargiante, sta per essere inaugurata nell’interminabile partita che, da quando esiste un’industria e anzi una società culturale, oppone apocalittici e integrati: ilbook streaming. È infatti plausibile che la trovata più recente in termini di digitalizzazione e distribuzione della parola scritta aprirà un ulteriore set fra chi paventa torvo e chi adotta entusiasta. Da sola la parola “streaming” mette abbastanza paura, quando non repelle, alle vigili coscienze dei letterati: già si sentono i primi moniti («cultura in pillole» è il più tipico anatema tabuizzante) e aleggia una variazione della filastrocca di Down by law: «I scream, you scream, we all scream for book streaming».
Lo stream è la corrente, il flusso: diventa una metafora del decorso dell’esperienza. Lo stream of consciousness è stata la prima seria botta che l’avanguardia ha sferrato alla tradizione del romanzo ottocentesco. Con l’annunciato streaming dei libri il flusso non riguarderà più la vicenda del personaggio ma quella del lettore. In attesa dell’onda viene appunto da gridare: aiuto!
A volerlo invece guardare in faccia lo streaming è un formato che dà la possibilità di accedere a file senza però scaricarli sul proprio computer. Finora ha funzionato soprattutto con programmi radio e tv, video (vedi Netflix), oppure con la musica, rivoluzionata dal fenomeno di Spotify. Ma in ognuno di questi casi si tratta di file la cui durata è misurabile in minuti. Vi collegate a un sito, gratis o pagando una quota mensile che in genere si aggira intorno ai dieci euro (dipende dal servizio richiesto), scegliete un film o una canzone e guardate e ascoltate, lì per lì. Anche i testi linguistici hanno un inizio e una fine, ma la loro lunghezza si misura in pagine e non è propriamente temporale. È possibile e sensato metterli in streaming? È quel che crede un gigante dell’editoria americana come Harper Collins, che di recente ha firmato un accordo con la piattaforma Scribd per mettere online e in streaming centinaia di migliaia di titoli dietro un abbonamento di circa 9 dollari al mese.
Ma Scribd, come il concorrente Oyster, del resto, non è la sola a puntare sullo streaming dei libri. Ora ci prova, per esempio, anche Tim Waterstone, fondatore della più grande catena britannica di librerie: ha annunciato un prossimo servizio di libri in streaming, che promette di essere un altro tentativo serio inquesta direzione. Non bisogna però pensare che il testo scorrerà come un film da cui non ci si può distrarre. Il lettore continuerà a decidere il ritmo della sua lettura, esattamente come in un normale ebook: potrà sempre sospendere, mettere un segnalibro, riprendere più tardi. La differenza sostanziale è che con lo streaming il lettore non acquista più il libro, ma si abbona a un sito, accede a una cloud,sceglie e non “scarica”: legge quanto vuole o può, tra la vasta gamma di libri che ha a disposizione per il tempo per cui ha pagato.
In realtà già la proprietà degli ebook è virtuale quanto lo sono inchiostro e pagine dei libri medesimi. L’ebook persiste in veste di file in un archivio, il suo vero lettore non è neppure la persona umana che l’ha comprato ma l’apparecchio che gli consente di aprire il testo su un display. L’uomo legge la lettura della macchina, che decodifica il contenuto del file e lo porge in scrittura alfabetica. A cambiare è innanzitutto l’esperienza sensoriale. Se in un libro cartaceo e tradizionale le pagine sono tutte compresenti, in un ebook dove sono le altre pagine, quelle che non stiamo leggendo? Aprire un ebook non è proprio la stessa cosa che estrarre un parallelepipedo di carta su uno scaffale di legno. L’ormai onnipresente riferimento all’odore dei libri di carta cerca probabilmente di esprimere un senso ancora più ineffabile di spossessamento. Già con l’ebook, appunto: in materia lo streaming non può aggiungere molto, se non il limite di tempo stabilito per letture e riletture.
Chissà quindi se l’ansia di possedere il libro, anziché limitarsi a consultare il testo, sarà avvertita anche all’estero. Come ha notato Tullio De Mauro nella Cultura degli italiani, è in Italia che le case di professori e letterati sono assediate dai libri (di carta), con l’aggravante che nessuna professione intellettuale oggi consente di per sé di permettersi una casa sufficientemente spaziosa per conservare tutti i libri necessari alla professione stessa. È un dramma perfettamente sconosciuto a Parigi o a Oxford o a New York, dove insigni professori, se non particolarmente bibliofili, tengono in casa i due o trecento libri d’affezione e per tutte le altre necessità si servono di comode e rifornite biblioteche pubbliche e universitarie (aperte sempre, o quasi). Lo streaming potrebbe funzionare allora proprio come una biblioteca: si prende in prestito non un libro ma un testo e se ne trae quel che serve o piace in un tempo limitato. Una biblioteca nella nuvola del virtuale potrebbe lasciarci recuperare un po’ di calpestio domestico e lenire la smania per i libri che vorremmo avere sempre a portata di mano.
Mentre Harper Collins mette online decenni di suoi cataloghi editoriali, Waterstone dice che ad andare in streaming saranno per ora racconti o romanzi pubblicati à la Dickens, cioè a puntate. In ogni caso a decidere il successo commerciale e letterario dello streaming dei libri dovrebbero essere due fattori. Sul piano commerciale, c’è il fattore della pirateria. Per i libri non è un problema enorme come per i dischi, ma Internet abitua alla semplicità e magari alla gratuità della fruizione. Con i dischi si è ottenuto un buon rimedio, se non fosse che, come ripete strenuamente Thom Yorke dei Radiohead nella sua crociata contro Spotify, i diritti d’autore vengono limati all’osso e le multinazionali e i grandi gruppi hanno riconquistato il potere perso negli ultimi anni a scapito delle etichette e degli artisti indipendenti. Vedremo se lo streaming coprirà meglio l’editoria libraria dai rischi analoghi.
Sul piano letterario, bisognerà capire se lo streaming farà sorgere o meno forme testuali inedite e possibili solo lì. È quel che succede ogni volta che viene inventato un medium nuovo. A suo tempo la tv non è stata interessante sino a che è rimasta una forma alternativa di distribuzione di cinema e teatro, ripresi e diffusi tali e quali. L’ebook è per ora poco interessante perché pare limitarsi alla digitalizzazione di testi già esistenti su carta (oche non vale la pena stampare). Lo streaming sarà solo un espediente distributivo o aggiungerà qualcosa di propriamente nuovo?
Il fattore commerciale e quello letterario sono come linee tracciate nel campo in cui, plausibilmente, scenderanno apocalittici e integrati. I due schieramenti ricordino infine che, a differenza che nel tennis vero, qui il giudice di sedia sarà abbastanza indifferente all’andamento del gioco, visto che le sue funzioni arbitrali saranno svolte, al solito, dal mercato.

Repubblica 27.10.13
Pullman: “Attenti, lettori così si perdono le emozioni”
Lo scrittore britannico difende l’editoria tradizionale “Piattaforme web e ebook sono dispositivi freddi”
“Con un sistema simile saranno pochissimi gli artisti che riusciranno a vivere davvero grazie al ricavato delle loro opere”
intervista di Antonello Guerrera


«Siamo di fronte a una rivoluzione. E, come già successo all’epoca con Gutenberg, non ne conosciamo ancora le conseguenze. Che potrebbero essere molto negative». Philip Pullman è uno dei più celebri scrittori inglesi. Sessantasette anni e milioni di copie vendute in tutto il mondo – grazie soprattutto alla sua fortunata trilogia fantasyQueste oscure materie (Salani) – dal 31 ottobre sarà in libreria con una riscrittura audace, ovvero Le fiabe dei Grimm per grandi e piccoli(sempre Salani). Ma, soprattutto, Pullman è uno degli autori più critici nei confronti della rivoluzione digitale che sta stravolgendo l’editoria. Presidente della “Società degli autori” britannici, negli anni ha difeso strenuamente i diritti degli scrittori penalizzati dalle logiche di mercato degli ebook. Non solo: Pullman è anche un fiero avvocato delle biblioteche tradizionali, quelle con i libri di carta, apparentemente avviate verso un lento declino.
Signor Pullman, cosa pensa della “cultura in streaming” che presto, dopo i video e la musica, diventerà realtà anche per i libri?
«Sono molto diffidente. Tra un film, un album e un libro ci sono enormi differenze di fruizione, soprattutto per quanto riguarda i tempi. Inoltre, mi pare che ogni sviluppo in questo campo sia fatto apposta per arricchire le piattaforme streaming che diffondono le opere, e non chi le produce. Del resto, non sono stati certo gli artisti a inventarsi Spotify & Co.».
Ma avere centinaia di migliaia di libri a disposizione sul proprio computer, seppur “in affitto” e per qualche euro a settimana, non è una comodità, secondo lei?
«Ci sono dei lati negativi, che rimandano agli ebook stessi, e che il fenomeno streaming accentuerà. I libri elettronici sono meno intuitivi di quelli di carta, saltare da un brano all’altro è più scomodo, senza contare che gli ebook non si possono prestare agli amici. E poi i libri di carta, soprattutto quando sono segnati dal tempo, hanno un’aura diversa che gli ebook, a maggior ragione quelli in streaming, non avranno mai. Di questo passo, non esisteranno più copie preziose di un volume, perché saranno tutte standardizzate. E, peggio, non possederemo più l’“oggetto” in quanto tale, che maneggiare per me è ancora un piacere. Un dispositivo per ebook o una piattaforma per i volumi in streaming, invece, sono strumenti freddi, che non infondono emozioni. Chi si accontenta di tutto questo non è un vero lettore».
Tra ebook e streaming, i libri di carta scompariranno?
«No. A meno che non venga emanato un editto mondiale che imponga una libreria “cloud” a tutti. Ma non accadrà».
Ecco, la “cloud”. Teme che il sapere e la letteratura tutta possano venire in qualche modo appaltati da chi gestirà questa “nuvola” di libri? E, distopicamente parlando, persino modificati, in scia a1984di Orwell?
«Eccome, su questo tema sono molto paranoico. Perché sull’autenticità e sulla bontà dei contenuti in streaming non avremo più alcuna garanzia, se non quella che ci daranno i “guardiani” della “nuvola”. E per me la loro parola, che sia dei governi o delle multinazionali, vale zero. Questo mi fa molto arrabbiare. Pensi soltanto a quello che già fa Amazon quando indicizza e classifica online le parti più sottolineate dai suoi utenti. Con un libro di carta, invece, il lettore ha un rapporto paritario con l’oggetto e quindi totalmente democratico. Al contrario, il comportamento di Amazon mi sembra decisamente antidemocratico».
Lei negli anni ha difeso le biblioteche tradizionali. Una “cloud” di libri così sterminata, a disposizione dei lettori in abbonamento, può rappresentare il colpo finale per queste istituzioni?
«Direi che la minaccia viene soprattutto dalla mania neoliberale che ha distorto il concetto di cultura in Occidente e che bolla i fondi pubblici alle attività culturali come “elitari”, “comunisti” o “sconvenienti” per il contribuente».
Lei ha criticato i miseri proventi che gli scrittori ricevono dai prestiti dei loro ebook organizzati dalle biblioteche convenzionate. Pensa che la cultura dello streaming condanni gli autori meno famosi all’indigenza?
«Sinora, a farne maggiormente le spese, sono stati i musicisti. Secondo Jaron Lanier (saggista e informatico statunitense, inventore del termine “realtà virtuale”,
ndr),queste piattaforme, in campo musicale, hanno causato la “distruzione della classe media”. Così ci sono pochissimi artisti che guadagnano immensamente e moltissimi che, con un sistema simile, non guadagnano un euro».
Lo stesso accadrà anche agli scrittori?
«Le premesse mi sembrano identiche. Ma il processo potrebbe essere più lento».
Però un lato positivo dello streaming a oggi c’è: il crollo della pirateria.
«Ma il vero punto della questione è un altro. E cioè che l’artista, il musicista o lo scrittore riescano a vivere decentemente con le loro opere. In queste condizioni, mi pare sempre più difficile».

Repubblica 27.10.13
Richard Feynman e quel corso di fisica indimenticabile
di Piergiorgio Odifreddi


Cinquant’anni fa, nel 1963, Richard Feynman concludeva un memorabile corso biennale di fisica al California Institute of Technology, la cui trascrizione divenne un vero e proprio bestseller della letteratura scientifica: le famose lezioni La fisica di Feynman (Zanichelli, 2001). Si tratta di una trilogia che copre tutte le parti essenziali della fisica: la meccanica e la gravitazione newtoniane, la termodinamica, l’elettromagnetismo, la relatività einsteiniana e la meccanica quantistica. Chi legga l’intera opera ne uscirà con una preparazione universitaria, perché le lezioni di Feynman costituiscono un vero e proprio libro di testo: niente a che spartire con opere magari di alta divulgazione, ma pur sempre rivolte a un grande pubblico, come quelle di Stephen Hawking o Brian Greene. Anche se il geniale ed eccentrico premio Nobel riesce a disseminare, qua e là, tutta una serie di gustosi aneddoti, illuminanti metafore e folgoranti commenti: soprattutto in alcune lezioni che poi furono isolate dal contesto, per divenire iSei pezzi facilie iSei pezzi meno facili(Adelphi, 2000 e 2004). A cinquant’anni dalla conclusione delle lezioni, il sito Feynmanlectures.caltech.edu ha da poco messo in rete il primo volume dell’opera, completamente riformattato e corretto, e si accinge a farlo anche con gli altri, per rendere il più possibile accessibile questo capolavoro di letteratura scientifica. Ed è confortante sapere che, nonostante le porcherie che infestano la rete, basta digitare il nome di Feynman su Google e YouTube per accedere in un baleno alle sue opere e ai suoi video: una specie di ideale e parziale riscatto di un mezzo che troppo spesso si identifica invece con la pattumiera del Villaggio Globale.

Repubblica 27.10.13
Tutti al cinema con il dottor Freud
di Luciana Sica


Una ciliegia tira l’altra: l’immagine non sarà particolarmente brillante, ma ha ragione Stefano Bolognini a scrivere, nella sua prefazione, che le recensioni dei film a firma dell’analista Rossella Valdré si leggono non solo facilmente ma anche con un certo grado di emotività che l’autrice sa stabilire con il lettore. DaLa pianistaaGomorra, daIl nastro bianco aSomewhere,i testi di volta in volta confezionati e proposti hanno sempre la stessa cifra comune, quella di un’indiscutibile godibilità. Sono pensati e scritti per il web, in particolare per il sito della Società Psicoanalitica Italiana, e ora raccolti in un libro suddiviso in più sezioni – con una qualche forzatura ammessa dalla stessa Valdré, che comunque punta tutte le sue carte sulla contemporaneità. Non a caso è stata tra gli analisti «inviati» a Venezia, e certamente sorprende che gli epigoni di Freud – così diffidente lui, nei confronti del cinema – frequentino in veste di «critici» i grandi festival.
Senz’altro questa passione ora un po’ debordante della psicoanalisi per il grande schermo incontra i favori di un certo pubblico, un successo che pochissimi raggiungono attraverso forme di pensiero più radicali ed eccentriche.
LA LINGUA SOGNATA DELLA REALTÀ di Rossella Valdré Antigone, prefazione di Stefano Bolognini, pagg. 224, euro 24

Repubblica 27.10.13
Il libro: In tempi di luce declinante
I Buddenbrook della Ddr sulla giostra del comunismo
di Susanna Nierenstein


Uno straordinario tuffo nel comunismo reale che si rivela pezzo a pezzo così come è stato nelle vite di chi l’ha abitato, abbagliante e cupo, fatto di visioni e convinzioni ferree quanto di parole vuote e tronfie, e di silenzi, e di cinismo, di coraggi inauditi e vigliaccherie senza fine mai confessate neppure a se stessi, di piccole normalità quotidiane, speranze, mistificazioni, tradimenti, miseria, privilegi, paura, morte. E di poche cose che rimangono in mano. Non c’è bisogno di troppi resoconti storici in questo bell’esordio — che ha vinto il German Book Prize 2011 — del cinquantaseienne Eugen Ruge, anche lui, come il protagonista del romanzo Alexander, fuggito a Berlino Ovest a pochi mesi dalla caduta del Muro, nell’89, per poi fare lo sceneggiatore e il regista. Bastano un’automobile Trabant, l’assassinio di Trotskij, un accenno a Stalin, Gagarin che sfreccia nel cielo, i cetriolini sott’aceto, i muri sbreccati, la notte bianca, il primo Sputnik che fa bip a immergerci Oltrecortina: l’invenzione è la saga, lo scorrere di quattro generazioni in una famiglia della Germania dell’Est, il linguaggio degli uni che diventa incomprensibile ai figli e ancor di più ai nipoti — come nei Buddenbrook — ,la “fede” che traballa sempre più mentre passano, tra un esilio e l’altro, la parola di Mosca, donne che imbracciano il fucile contro i tedeschi e sognano nuove piastrelle per il bagno, donne della nomenklatura che aspirano ad essere loro stesse dirigenti, gulag che ingoiano figli ed è meglio non parlarne, perenni medaglie d’oro a capostipiti - eroi che invece si sospetta non abbiano commesso che errori e delitti, ripensamenti e a volte vergogna sulla militanza svolta — anche questi mai ammessi — camminate nella neve in cerca di un ristorante senza code, litigate su Gorbaciov, passaggi all’Ovest...
In tempi di luce declinante: il titolo dice già molto.
Il romanzo è vibrante, vivo, intelligente, spiritoso, triste, tessuto con arte in un avanti e indietrocronologico, passando e ripassando a volte sulla stessa trama, perfino sugli stessi episodi, a seconda dei punti di vista, accendendo via via nuove luci, nuove prospettive, nuovi smarrimenti. Al primo posto Alexander, detto Sasha, che nel 2001 apre il racconto quando ha appena saputo di avere un linfoma incurabile e decide di abbandonare il padre, Kurt, un celebrato storico del passato regime (come il babbo di Eugen Ruge), ormai solo e demente:Sasha vuol fare un viaggio della memoria, cercare il quid della propria famiglia, trovare risposte alle mezze verità, stare al sole, vuole andare in Messico, dove i suoi nonni, Charlotte e Wilhelm — personaggi quasi mitici, fondatori del partito comunista tedesco negli anni Venti, coinvolti in chissà quali atti gloriosi e giustizie sommarie — hanno vissuto un lungo esilio, non proprio dorato ma quasi. Nel frattempo i figli sono stati in Russia, finiti in un gulag da cui solo uno, Kurt, tornerà. Siamo nel 1952 e un raggiante Wilhelm insieme alla brillante e timorosa Charlotte (li porteranno subito alla Lubjanka o le promesse di reintegrazione erano sincere?) tornano dal Messico in una Berlino Est ancora devastata dalla guerra, ed è sempre qui che nel 1961, a Muro costruito, intorno al tavolo da pranzo si dibatte di democratizzazione e stalinismo:senza Wilhelm però, lui non lo permetterebbe, a lui la divisione forzosa dall’Ovest va assolutamente a genio, lui ce l’ha sempre con i disfattisti. Va molto meno a genio a Alexander, invece: militare nel 1973 a guardia della frontiera, si dispera perché non ascolterà mai i Rolling Stones dal vivo. Sarà capace di andarsene solo nell’89, ironia della sorte, a pochi giorni dalla fine del totalitarismo. Alle spalle ha lasciato una moglie e un ragazzino di dodici anni, che vanno comunque al novantesimo compleanno di Wilhelm, il bisnonno comunista di ferro, un compleanno che vedremo e rivedremo perché riflette tutta la disintegrazione della famiglia e del sistema: per ora il piccolo Markus guarda come fosse «un party di dinosauri » la festa in cui niente funziona mentre si appuntano medaglie e si cantano canzoni nostalgiche sul Partito che non sbaglia mai. Per Markus quegli pterodattili non significano nulla, non gli stanno lasciando nulla: quando pochi anni dopo, nella Germania riunita, andrà via da casa dove sua madre si è risposata con un pastore (un pastore in una famiglia di atei!), non gli resterà che rifugiarsi in sostanze di vari colori.
Difficile raccontare una storia che ruota come una giostra e man mano mostra nuove figure, aspetti, le ambizioni sfrenate della nomenklatura, Berlino Est nel ‘52 senza luce né gas, Kurt nel gulag, Kurt traditore della moglie Irina che pare uscita da un ritratto di Cechov, le infinite discussioni di politica, la devozione ideologica, gli hippy alla deriva tra cui si trova Alexander, ormai alla fine, perso tra persi... Ruge, da buon regista, la scrive con una messa in scena complessa, accattivante, ipnotica. Speriamo che diventi un film.
IN TEMPI DI LUCE DECLINANTE di Eugen Ruge Mondadori traduzione Claudio Groff pagg. 348, euro 21

Repubblica 27.10.13
Breve storia della dignità
di Giorgio Vasta


Partiamo da quello che potrebbe apparire un paradosso: «Laddove Giovanni Paolo II riteneva che la dignità richiedesse l’inviolabilità della vita umana, dal concepimento alla cessazione naturale di tutte le funzioni vitali, la famosa organizzazione svizzera Dignitas aiuta a porre fine alla propria esistenza tutti coloro che desiderano “morire con dignità”».
E ancora: se il concetto di dignità è cruciale tanto nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 quanto nella Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania del 1949, nel 2006 il presidente iraniano Ahmadinejad si rivolse ad Angela Merkel sostenendo che «è responsabilità comune di tutte le persone che hanno fede in Dio difendere il valore e la dignità umana».
Insomma, il valore della dignità, il suo essere decisiva nel definire che cos’è un essere umano, sembra una specie di jolly, uno strumento culturale al quale appellarsi per conferire alla propria posizione una veste civile adeguata.
Un saggio come Dignità. Storia e significato del filosofo politico inglese Michael Rosen (Codice Edizioni, traduzione di Francesco Rende) chiarisce come per molti versi la “cosa” dignità sia simile a un’aporia. Come, cioè, sia un termine soggetto a una molteplicità di accezioni e come sia possibile fare luce sulle ragioni di questa variabilità d’uso e di senso.
Rosen compie una ricognizione storica utile a scoprire che nel tempo dignitas è stato un termine usato – anche da Cicerone – per caratterizzare prima il discorso e poi per estensione anche l’oratore; che per Tommaso d’Aquino è degno ciò che ha una giusta collocazione nel Creato; che per Kant la dignità, non avendo nel regno dei fini un prezzo e un equivalente, è l’incommensurabile; che per Schiller la dignità è «tranquillità nella sofferenza». Verificata la natura proteiforme del concetto si fa indispensabile comprendere cosa ne è della dignità nel consesso umano. Come cioè le legislazioni ne hanno descritto struttura ed essenza. Emblematico quanto accadde nel 1991 quando il sindaco di un piccolo comune francese emise un’ordinanza che proibiva una gara di “lancio del nano”. Nel momento in cui Manuel Wackenheim, l’uomo affetto da nanismo, fece ricorso contro il divieto si produsse una disputa legale (e culturale) che durò diversi anni. Per Wackenheim la violazione della dignità non consisteva, come riteneva il sindaco, nel lancio del nano, ma nell’impedire il compiersi di un’azione da lui stesso deliberatamente scelta.
Ancora una volta l’esperienza concreta della dignità risulta ubiqua e sfuggente. Proteggerla, promuoverla, è comunemente (e sensatamente) considerato giusto. Se però, su un piano civile, ridurre o violare la dignità è esecrabile, su un piano narrativo dà forma a un genere come la commedia. Rosen cita George Orwell per il quale l’umorismo è «la dignità che si siede su una puntina da disegno». In questo senso la commedia popolare italiana – dai personaggi di Alberto Sordi al Fantozzi di Paolo Villaggio – si è spesso fondata su figure che sistematicamente e strategicamente perdono la loro dignità.
Ragionando infine sul dovere di trattare degnamente i cadaveri, Rosen sostiene che «mostrare rispetto» è qualcosa che ha un valore intrinseco, indipendentemente dal fatto che il beneficiario ne sia consapevole. Torna in mente quanto si racconta del primo incontro tra Franz Kafka e il pianista Oskar Baum: nonostante quest’ultimo fosse cieco, lo scrittore praghese gli si inchinò davanti. Nell’impercettibile scuotimento d’aria generato da quel gesto meravigliosamente gratuito, consiste l’esperienza della dignità come riconoscimento – sempre e comunque – dell’altro.
DIGNITÀ di Michael Rosen Codice trad. di Francesco Rende pagg. 162 euro 11,90

Repubblica 27.10.13
A lezione di pensiero con Ortega y Gasset
di Francesca Bolino


Inquadrata nell’orizzonte delle preoccupazioni e dei problemi degli anni Trenta, l’opera Qué es filosofìa evidenzia le ragioni per cui l’uomo non può fare a meno della metafisica: «Ho sempre creduto che la chiarezza costituisce la cortesia del filosofo e che inoltre questa nostra disciplina sia di lustro, oggi più che mai, nell’essere aperta e permeabile a tutte le menti, a differenza delle scienze particolari che ogni giorno, col massimo rigore, interpongono, tra il tesoro delle loro scoperte e la curiosità dei profani, il drago terribile della loro terminologia ermetica» scrive Ortega nel 1929. Per l’intellighenzia europea si stava infatti dischiudendo una nuova era dopo l’apogeo del positivismo e il progressivo abbandono di certe concezioni irrazionalistiche della storia. Per Ortega «la conoscenza fisica è meramente simbolica rispetto alla filosofia». Questo celebre corso rappresenta il manifesto della ragione vitale e storica in dialogo con Dilthey e soprattutto Heidegger. Non dimentichiamolo: l’occupazione filosofica è un’attività superflua dell’uomo “nobile” che nondimeno la giudica indispensabile per vivere una vita qualitativamente umana...
CHE COS’È LA FILOSOFIA? di José Ortega y Gasset Mimesis, a cura di Armando Savignano, pagg. 200, euro 16

Repubblica 27.10.13
Parigi
La vendetta di Braque contro il nemico Picasso
di Cesare De Seta


PARIGI Nell’arte e nella vita ci sono destini magicamente incrociati che poi si sciolgono d’improvviso: tale è il caso di Braque e Picasso, entrambi nati nel 1882. Dal 1907 fino al ’14, lavorano gomito a gomito in una ricerca in cui la individuale soggettività è quasi annullata. Braque aveva una grande passione per Toulouse-Lautrec e per le maschere africane e oceaniche, come il suo amico: ma il francese aveva vissuto con entusiasmo la stagione deifauves. Nelle mostre tra il 1906-7 presenta i paesaggi all’Estaque e a La Ciotat, e alcuni nudi. Tra i più belli laDonna nuda: le tinte pure, accostate senza mimetismi, lo portano a sperimentare lo spazio-colore. A queste tele “selvagge”associa la passione per Cézanne, segno di una nuova geometria della forma che diverrà filo rosso della sua ricerca. Il malagueño mostra indifferenza per l’acceso cromatismo dei fauves: s’incontrano al Bateau- Lavoir grazie a Apollinaire. Quando vide Les Demoiselles d’Avignon (1907) Braque disse: «vuol farci mangiare stoppa e petrolio». Ne resta turbato e avvinto, di lì un sodalizio mimetico che si spezza definitivamente quando nel ’14 Georges è chiamato alle armi. Era nata quella strana pittura che Matisse e Louis Vauxcelles, un critico ostile, scrivono esser fatta di “cubi”. La più importante rivoluzione formale della prima metà del Novecento destruttura la prospettiva rinascimentale, facendo saltare il tavolo di quattro secoli di pittura. Ma i due amici sono consapevoli d’essere gli scienziati di una nuova forma nella quale il soggetto rappresentato non scompare mai, ma è visto attraverso una scansione geometrica che ha tagliato di netto con la mimesi: rifiutando i vezzi bohémiens si vestono con la tuta blu degli operai. Nel 1909 alla Galleria Kahnweiler Braque ha la prima personale, con presentazione di Apollinaire: è l’incipit pubblico del cubismo.
L’acquedotto all’Estaque, la serie di alberi e case, il Grand nu, il Castello a la Roche, e una serie di tele con violini, mandolini, chitarre, metronomi, donne, bottiglie e bicchieri.
La mostra Georges Braque, a cura di Beatrice Léal, al Grand Palais di Parigi (fino al 9 gennaio) è un atto di riparazione verso un maestro rimasto a lungo appannato, anche a causa di Apollinaire e Gertrude Stein che lo abbonderanno per il privilegiare il “mostro” spagnolo. La prima sezione è dedicata alla stagione fauve, le due seguenti al cubismo analitico e sintetico fino al ’18 in cui compare il colore come nella Mucicienne. Seguono sezioni tematiche dedicate ai nudi, alle Canéfore, alle nature morte: la morfologia formale muta radicalmente. La biografia intellettuale e artistica di Braque ha una grande coerenza, ma la sua dedizione alla regola e alla sobrietà induce a ritenere che la sua opera – dopo l’esordio nel cuore dell’avanguardia – s’inoltra per una strada in cui l’eleganza del gesto, il gusto cromatico, la suadente «nobile, misurata, ordinata, colta» – scrive con sufficienza Vauxecelles – è profondamente rivista e ripensata dalla mostra che offre oltre duecento tele, incisioni e disegni. In catalogo (Rmn, Paris) Beatrice Léal mette i punti sulle “i” di taluni nodi essenziali circa la nascita del cubismo con i paesaggi a L’Estaque, la comparsa di strumenti musicali nelle nature morte, l’introduzione di numeri lettere parole mozze sulle tele: nei papiers collésa partire dal settembre del 1912 compaiono carte da parato a finto legno o giornali che analogo posto assumono nella parallela ricerca di Picasso. Come scrisse Philippe Dagen nella monumentale biografia di Picasso (Electa, 2009) la sintonia tra i due esploratori è assoluta almeno fino al ’14. Braque fu gravemente ferito in guerra, un trauma che segnò profondamente il suo percorso d’artista. Qualcosa di simile era capitata a Boccioni quando, in licenza dal fronte dipinse l’ultima tela: il ritratto di Busoni, e volse le spalle al futurismo. I collages di Braque affascinarono Reverdy, Breton e i surrealisti, e avranno una durevole tenuta nell’avanguardia del Novecento. Ma non si può certo chiudere gli occhi dinanzi alla cesura che c’è nell’opera di Braque negli anni Venti ed essa è il nodo della lettura critica della sua opera che, dopo la grande tumultuosa rivoluzione cubista, volge ad un altro sentimento della forma. Capitò qualcosa di simile a Kandinskij che, dopo la stagione russa e espressionista a Monaco, quando giunse a Parigi negli anni Trenta inventò un suo elegantissimo alfabeto di segni. Dopo il ’44 per Braque c’è la scoperta dei paesaggi mediterranei e la serie dei nove Ateliers.Una profonda malinconia li pervade, o meglio una malìa che sgorga dalla musica, dalla passione per il pentagramma che coltivò per tutta la vita, facendo anche lo scenografo e fin da quando aveva posto nei suoi quadri cubisti mandolini e violini. A Varengville, in piena guerra, dipinge interni con o senza figure, compaiono teschi e pesci, dal 1944 al ’49 sette tele sono dedicate alBigliardo e altre sono nature morte con audaci inserti cromatici. Poi la serie degli Ateliersfino all’exodus degli Uccelli (1954-62) che si chiude con il trionfo tributato dal Louvre che gli commissiona un plafond. Nel 1963 Braque chiude la sua vita, dopo aver dipinto volatili ad ali spiegate che planano con la leggerezza delle farfalle e una serie di splendidi piccoli paesaggi che rasentano l’astrazione alla Nicolas de Staël. Braque forse s’era dimenticato delle sprezzanti aggettivazioni di Apollinare che gli dà del “bon Braque”, e della Stein che, poco generosamente, scrisse che il cubismo è figlio di Picasso e Gris. Non è certo così.
IN MOSTRA L’oiseau noir et l’oiseau blanc (1960) e, in alto, “Le quotidien”, violino e pipa (1913)

Repubblica 27.10.13
Claudio Pavone
Il grande storico racconta ricordi, personaggi e gli anni del regime
“Non morirò né fascista, né democristiano però vorrei vedere che fine fa questa politica”
intervista di Antonio Gnoli


Claudio Pavone, nato a Roma il 30 novembre 1920, è uno dei maggiori storici italiani. Partigiano, ha dedicato numerosi studi alla resistenza, al fascismo e all’antifascismo

All’età di quasi 93 anni Claudio Pavone si è deciso a scrivere le sue memorie. Mi pare una scelta ineccepibile per un grande storico, con un grande passato davanti agli occhi. Sul tavolo, nello studio dove mi riceve, quaderni di appunti, fogli svolazzanti, un computer spento. Dice che il lavoro procede lentamente. E che è sempre stato lento: nello scrivere, come nel leggere. Si sente anche vagamente perplesso: «Non so bene a chi potrà interessare questo insieme di riflessioni che coinvolgono la mia vita di storico. Passiamo il nostro tempo a confutare gli errori altrui, a censurare certi comportamenti egocentrici e vanitosi e poi, magari, accade che finiamo col fare le stesse cose».
Il suo lavoro è stato accolto come un contributo fondamentale alla storiografia contemporanea. E naturalmente il pensiero va all’importante libro dedicato all’Italia coinvolta nella “guerra civile”.
«Beh, non è che mi sono state risparmiate critiche. Hanno pensato che con quella espressione volessi giustificare i fascisti. In realtà, con “guerra civile” intendevo non tanto equiparare le parti quanto sottolineare le differenze. Debbo a Vittorio Foa il titolo di quel libro, che io avrei chiamato “Le tre guerre”».
Che ricordo ha di Foa?
«Bellissimo. Era stato nello stesso carcere dove io fui trasferito agli inizi del 1944. Vittorio aveva un’intelligenza vivace e tagliente. E un rigore straordinario».
Il suo trasferimento avvenne da dove a dove?
«Fui arrestato, dopo l’otto settembre del 1943, in una situazione che il mio amico Marc Ferro definì in questi termini: ce ne pas héroique, c’est grotesque!».
Cos’era accaduto?
«Ero entrato in contatto con il partito socialista che mi affidò alle mani di quell’uomo straordinario che fu Eugenio Colorni. La mia militanza consisteva soprattutto nel fare propaganda e diffondendo l’Avanti! Ricordo che un giorno, camminando per strada, con una borsa piena di ciclostilati clandestini, mi accorsi che c’era il coprifuoco. Se mi avessero trovato con quei volantini avrei rischiato la fucilazione. Decisi perciò di sbarazzarmene e gettai la cartella all’interno di una macchina. Il caso volle che l’automobile fosse del capo dell’Ovra, Guido Leto, che in quello stesso momento, uscendo da un portone, si accorse del mio gesto».
Una sfortuna pazzesca.
«Sì, mi lanciò dietro i suoi uomini che mi catturarono. Mi portarono al commissariato, per interrogarmi, e il giorno dopo fui trasferito a Regina Coeli. Venni rinchiuso nel sesto braccio, con gli altri detenuti politici».
Chi c’era?
«C’erano alcuni membri del Gran Consiglio, che avevano fatto decadere Mussolini il 25 luglio, e molti di loro furono in seguito fucilati dopo il processo di Verona, e alcuni esponenti dell’antifascismo. La prima faccia che incontrai fu quella di Ruggero Zangrandi, che era stato mio compagno di liceo al Tasso. C’erano anche Manlio Rossi-Doria, che sarebbe diventato mio suocero, Giuseppe Martini, Carlo Muscetta. Tra i socialisti spiccava la figura di Saragat. Provai ad avvicinarlo, ma con me fu di un gelo imbarazzante».
Capì il perché?
«Non lo so, forse non si fidava. Mi trattò malissimo. E poi c’era Leone Ginzburg. La sera, visto che le celle restavano aperte e grazie alla tolleranza di alcune guardie, partecipammo a delle lezioni improvvisate. Ginzburg ne tenne una bellissima su Dostoevskij. Poi, un brutto giorno, vedemmo arrivare nel nostro braccio alcuni tedeschi e sentimmo distintamente pronunciare il nome di Ginzburg. Lo trasferirono al secondo braccio, quello gestito dalle SS. Un detenuto, mentre lo portavano via, intonò l’inno del Piave. E io piansi. Leone fu torturato e massacrato di botte. Morì pochi giorni dopo, erano i primi di febbraio del 1944, in infermeria».
Un altro che sarebbe morto di lì a poco fu Eugenio Colorni.
«Morì l’anno dopo, alla vigilia della liberazione di Roma. Fu ricono-sciuto da alcuni fascisti per la strada e ammazzato a rivoltellate. Fu uno shock terribile. Avevo per un po’ frequentato questo studioso di Leibnitz che mi aveva insegnato la lealtà del fare politica e trasmesso la speranza in un mondo migliore».
Dopo la morte di Ginzburg a lei che accadde?
«Fui trasferito nel carcere di Castelfranco Emilia, non lontano da Modena. Qui, diversamente dalla situazione romana, eravamo chiusi in cella con un’ora d’aria al giorno».
Come visse psicologicamente la nuova situazione?
«Fu assai pesante. Ad alleviare il clima ci pensò Nestore Tursi, un medico, comunista dalla fondazione, che mi fece da maestro».
Ma come passava il suo tempo?
«A parte certi sporadici contatti e certe conversazioni, trascorrevo il mio tempo a leggere. Mi ero portato un libro sul giansenismo in Italia di Jemolo, e un romanzaccio di Bruno Carra. Praticamente li imparai a memoria. Poi, siccome c’era una biblioteca gestita da un cappellano, riuscii a prendere a prestito ilDon Chisciotte.Ma la cosa straordinaria erano i “libri mascherati”».
Sarebbe a dire?
«Libri truccati, dalla veste innocua, che contenevano testi pericolosi. A un certo punto, Nestore mi passò un romanzo in francese. Cominciai a leggerlo, ma vidi che qualcosa non quadrava. In realtà, nelle pagine si nascondeva l’Anti-Dühring di Engels. Fu il primo libro marxista che lessi».
La sua famiglia l’agevolò nelle letture?
«Oddio, non era così determinata. Mio padre era avvocato. Morì relativamente giovane, a 58 anni nel 1943. Era stato direttore dell’ufficio trasporti della Confindustria. Credo che la mia passione per i treni sia dovuta a lui che era un esperto di mobilità. Ad ogni modo, papà era laico e la mamma cattolica. Strinsero il patto di dividersi la mia educazione. Frequentai asilo ed elementari dalle monache inglesi, senza peraltro imparare mai bene la lingua, e gli otto anni di ginnasio e liceo li feci al Tasso. Tra i compagni di scuola c’erano, oltre ad Andreotti, anche i figli di Mussolini, Bruno e Vittorio».
E come fu il rapporto con loro?
«Ma, in fondo, godevano di molte libertà e quei privilegi finirono per agevolarci».
Come fu la sua vita sotto il fascismo?
«Fui per lungo tempo a-fascista. Mio padre, che aveva sei figli, si iscrisse al fascio. In casa imprecava contro il regime, lo sentivo a volte dire: “quel porco di Mussolini!”, fuori invece era tutto un elogio. Cosa vuole: questa è stata la doppiezza degli italiani. E non sono per niente d’accordo con Renzo De Felice, grande storico intendiamoci, che sosteneva che per lungo tempo gli italiani diedero spontaneamente il loro consenso al regime. La verità è che non teneva conto del conformismo italiano: fuori fascista e in casa antifascista».
E lei a-fascista.
«Guardi, prima di finire nelle carceri in quel modo assurdo che le ho raccontato, non credo di aver mai fatto cose particolarmente gloriose. Ero molto fiero, questo sì, dell’esistenza in famiglia di un nonno patriota e di uno zio generale ».
Suo nonno cosa aveva fatto?
«Aveva partecipato ai moti del 1848 e scontò per questo motivo dieci anni di galera sotto i Borboni. Lo rinchiusero nel carcere di Procida. Poi, accadde che Gladstone, ministro inglese, venne in visita a Napoli e restò turbato da ciò che vide. Pronunciò allora la frase: “Il regno di Napoli è un abominio del genere umano”. Fu così che il re scelse alcuni politici rinchiusi in galera, li imbarcò su una nave, con destinazione Sudamerica. C’era anche Luigi Settembrini fra i prigionieri esuli. E suo figlio, per aiutare il padre, si imbarcò come cuoco. In realtà, fu

Repubblica 27.10.13
Teatro. Hedda, tutto il resto è noia
di Rodolfo Giammarco


Con 135 minuti di paranoie e spietatezze, ambientate in un salone ruotante da rivista d’architettura, e rigenerate dall’ibseniano Hedda Gabler di 123 anni fa, il regista Thomas Ostermeier, 45enne direttore della Schaübuhne di Berlino, mette in campo per il Romaeuropa Festival un grande lavoro attuale di prospettive.
Hedda, l’ammirevole Katharina Schüttler, è un’acerba moglieandroide che s’annoia del consorte, dell’idea passata o presente di amanti, una che semina morte frantumando a martellate un pc (un manoscritto per Ibsen), capace d’ammazzarsi come una bestia, lordando di rosso una parete. Il suicidio che in genere alla fine è “di là” qui ci è sbattuto in faccia sul girevole, in quel retrosalone spiabile grazie a un alto specchio inclinato (come quello, a Londra, dell’originario Psychosis di Sarah Kane). Piove sui bei vetri, si cita l’Aids, risuonano i Beach Boys, il cast è duro come un diamante.
Prospettive moleste e dissipatorie d’un vero capolavoro di oggi, risalente a Ibsen.
“Hedda Gabler”. Roma, Teatro Argentina, fino a oggi

Repubblica 27.10.13
Il santo, i demoni e i mostri di Bosch nel labirinto “kafkiano” delle tentazioni
di Melania Mazzocco


Il santo prediletto dai demoni è Antonio. Sant’Atanasio e laLegenda Aureanarrano che, dopo aver fondato eremi e monasteri, Antonio si ritira in preghiera nel deserto. Lì i demoni lo tormentano. Lo malmenano, lo lusingano, lo abusano. Lui non cede. Le percosse che subisce sono reali. Ma i demoni (che gli offrono, come a Faust, tutto: denaro, sesso, potere) sono fantasmi della sua mente, frutto della sua immaginazione. Di più: del suo stesso desiderio. La tentazione è interiore: liberarsi, rinnegare ciò che si è creduto e creato, commettere il Male. Il santo la condivide con ogni essere umano.
Bosch ha dedicato vari quadri alleTentazioni di Antonio. Il suo capolavoro è il trittico di Lisbona. Firmato in caratteri gotici, risale alla piena maturità, quando già le sue «fantasie prodigiose e strane» sono ricercate da principesse e sovrani. Di incerta destinazione (forse era la pala d’altare di una confraternita), fu subito imitato e copiato (se ne conoscono almeno 20 repliche). È uno dei quadri più enigmatici della storia dell’arte. Nella sua interpretazione si sono esercitate menti eccelse. Gli esiti sono stati antitetici. Opera di un moralista cristiano ortodosso, volta alla repressione del vizio; di polemica proto-protestante contro la corruzione della Chiesa; apologia della magia ermetica; manifesto eretico (dei Catari, o degli Adamiti), perfino illustrazione della farmacopea ospedaliera. È stata decifrata come un geroglifico. Ogni immagine letta come un simbolo, la fonte scovata nel folclore, nei tarocchi, nella negromanzia, nell’alchimia, nella kabbalah, nella Bibbia, nel Malleus Maleficarum. Ogni figura, lungi dall’esser frutto di delirio, allucinazione da mandragora o dell’inconscio del pittore, tradurrebbe visivamente le atroci maledizioni del Deuteronomio, dei Profeti e dell’Apocalisse, le usanze grottesche del Carnevale, o le credenze che Bosch condivideva coi contemporanei. L’infinità di dettagli – lettere di una lingua di cui ignoriamo l’alfabeto – fanno delle Tentazioni di Lisbona un labirinto iniziatico in cui è inevitabile smarrirsi. Il messaggio appare però chiaro.
I pannelli esterni formano due sentieri che convergono. In quello di sinistra, Antonio viene rapito in cielo e poi, esanime, trascinato dai fratelli oltre il ponticello che sormonta lo stagno. In quello di destra, Antonio legge mentre una strega e una rana consumano un’orgia e la Lussuria (Lilith) fiorisce nell’utero di un salice. Un rito pagano – officiato per un idolo a forma di rana, in presenza di una sacerdotessa negra e religiosi deformi – si compie anche nel pannello centrale. Forse lo evoca il mago amputato col cappello a cilindro seduto sul proscenio. Ma al centro esatto di questo pannello (e dunque dell’opera) c’è il volto del santo, inginocchiato sul palcoscenico del teatro del mondo. Ci guarda, indicando il Crocifisso, esiliato nella cappellina del rudere. E il Redentore si incarna ai suoi occhi (e ai nostri), e lo rassicura, benedicendo lui – e noi. Il trittico di Lisbona illustra la vittoria della volontà. E però, nellaVita di Antonio, a questa segue un dialogo fra il Santo e Cristo. Dov’eri mentre il Male sconvolgeva il mondo? gli chiede Antonio. Ero vicino a te, e ti guardavo lottare, risponde Gesù.
Così il significato del quadro trascende la tentazione e diventa una meditazione cosmica sul senso della vita di ognuno. L’universo è un incubo, il caos domina i 4 elementi: aria, acqua, terra e fuoco sono infestati dai demoni. Anche le architetture spettrali e fantasmagoriche sembrano alludere a un mondo onirico. È invece reale: nel paesaggio si riconosce la campagna olandese – fattorie, mulini, contadini, soldati. Antonio non è mai tentato, ha scelto di non partecipare, ma il Male si genera lo stesso, ovunque: può essere punito, non vinto. Antonio deve solo ignorare e resistere.
Bosch non era un innovatore né nelle forme né nei contenuti. Vissuto in una cittadina di provincia (Hertengenbosch, da cui il nome d’arte), rimase estraneo alle conquiste plastiche e spaziali dei suoi contemporanei, fedele a uno stile arcaizzante, piatto e bi-dimensionale, quasi grafico. Derivava i suoi “mostri” dalle miniature dei Bestiari medievali, dalla scultura gotica, dai repertori delle visioni dei monaci. Ma, trasponendoli in pittura, dà loro una forza inedita. Contamina con inesauribile inventiva mondo organico e inorganico, vegetale, animale, minerale, artificiale. Le Tentazioni pullulano di cani corazzati, uccelli dal corpo a zampogna o il becco a piffero, brocche e ratti giganti divenuti cavalcature, pesci come macchine da guerra e vascelli volanti, caverne umanoidi, castrati come cariatidi, uomini dal grugno di maiale o la testa di cardo, ridotti a piedi, ventri, orecchie, sederi. Ogni materia è in balia della metamorfosi. Gli umani sono oggetti o bestie, e gli edifici e le bestie umani. Questi mostri ibridi, osceni e perversi, suscitano repulsione, spavento e riso. Ma anche attrazione e pietà.
Ne scelgo tre. Nella palude infernale, alla gogna come la strega senza mammelle nel cesto, c’è un intellettuale con gli occhiali, annidato nel ventre di un’anatra nave che inalbera come vessillo lo scheletro di una razza. È prigioniero, per qualche colpa che ha commesso e che non sa, come il kafkiano Josef K. I suoi occhi intelligenti e le sue labbra invocano un perché: ma non avrà risposta. Non raggiungerà mai il foglio scritto che sventola di là delle sbarre della gabbia. Forse per Bosch era emblema di un sapere deviato. Ma la sua desolazione mi turba ancora. Dal mostro che timona l’anatra sporge uno spino: al ramo è legata una corda che traina una culla. Contiene un feto deforme: un omuncolo. Frutto mostruoso del parto alchemico, o del coito di due maschi (all’epoca, ignoranti e dotti ritenevano che essi potessero generare, e il quadro brulica di forme falliche, orifizi anali e altri indizi della diffusione della sodomia). Il nato contro natura si porta le manine alla testa, disperato. Solo un airone malefico si accorge di lui. Bosch lo abbandona alla processione dei puniti da Dio, insieme a Josef K., come un rifiuto cosmico.
E poi c’è il buffo gobbo che pattina sul ghiaccio, in direzione opposta alla salvezza. Vestito da messaggero, nel becco reca una lettera. Nell’imbuto sulla sua testa sta confitto un ramo secco di salice da cui pende una bacca rossa: lo manda il Male. Qual è l’annuncio? A chi deve consegnarlo? La scritta sulla busta l’ha cancellata il tempo. Sono state proposte letture disparate. La più persuasiva: “bosco”, il nome di Bosch nell’Europa del sud. È una firma. O piuttosto un modo per non dirsi innocente: le  Tentazioni parlano anche di lui.
La migliore interpretazione delle sue opere l’ha data nel 1605 il teologo fra Sigüenza, legato alla corte di Spagna: «tutti gli altri cercano di ritrarre l’uomo come appare all’esterno, mentre lui solo ha avuto l’ardire di dipingerlo qual è dal di dentro».

Hieronymus Bosch: Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio (1501ca), olio su tavola, 131x238 cm Lisbona Museu Nacional de Arte Antiga

Repubblica 27.10.13
Viva Fellini, tutti i ricordi da Scola a Ravasi


NEL ventennale della scomparsa di Federico Fellini (morì il 31 ottobre 1993 a 73 anni) Speciale Tg1(su RaiUno alle 23.40) propone il docufilm di Nevio Casadio Viva Fellinicon testimonianze, aneddoti e riflessioni sulla figura del regista. Il film inizia a Rimini, città natale di Fellini, con l’incontro con i giovani scrittori Lorenza Ghinelli e Marco Missiroli. Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio Pontificio della Cultura, riconosce l’errore commesso dalle autorità ecclesiastiche quando nel 1960 misero al bando La dolce vita. Ettore Scola, che ha appena licenziato un film su Fellini, rievoca l’amico e il cammino per lunghi tratti comune. Lella Ravasi Bellocchio, analista junghiana, esplora l’universo onirico di Fellini condensato nel Libro dei Sogni custodito nel Museo della città di Rimini. Il film termina con le voci di Sergio Zavoli e Tonino Guerra nell’orazione funebre per le esequie di Federico, che si tennero nella piazza Cavour di Rimini.
Federico Fellini scomparso nel 1993 a 73 anni