lunedì 28 ottobre 2013

l’Unità 28.10.13
Il fantasma della Consulta
Ricorso respinto o stop al premio
La Consulta arbitro sul Porcellum
Il 3 dicembre i giudici possono azzerare il «bonus» di seggi: si tornerebbe a un proporzionale puro. Ma c’è anche l’ipotesi rinvio
di Andrea Carugati


E se fosse la Corte costituzionale a «riscrivere» la legge elettorale, supplendo l’inerzia del Parlamento? La domanda si sta trasformando in un rovello, un incubo per i bipolaristi, in particolare Matteo Renzi, che si troverebbe a guidare il Pd con una legge molto simile a quella della prima Repubblica.
Proporzionale puro, maggioranze che si formano in Parlamento dopo il voto, larghe intese senza una fine e arrivederci a tutti quelli che vorrebbero un governo la sera stessa delle elezioni.
Si dirà, ma non è il Parlamento ad avere la competenza esclusiva sulle leggi elettorali? Certo, ma nell’estenuante braccio di ferro tra un Pd che vuole il doppio turno in senso bipolare e un Pdl (più il M5S) che frena ogni riforma, stavolta la Consulta potrebbe svolgere un ruolo indiretto di «legislatore», abrogando il premio di maggioranza e lasciando per gli altri aspetti inalterato il Porcellum: resterebbero i parlamentari «nominati», e anche le soglie di sbarramento. Perché? Molti giuristi ritengono che le liste bloccate (che pure sono oggetto del ricorso alla Consulta) non possano essere tacciate di incostituzionalità, essendo presenti in altre democrazie europee. Tornerebbe però il proporzionale: tanti voti tanti seggi, come accadeva prima del 1993.
Tra i giuristi e gli esperti in queste settimane ci si interroga nervosamente. «Sarebbe una forzatura», spiegano alcuni. «Un grave errore, la Corte si assumerebbe una responsabilità politica enorme», ragiona il professor Roberto D’Alimonte, che sabato alla Leopolda di Renzi ha osato sfidare il senso comune e ha detto che, rispetto a una palude proporzionale, «è meglio tornare al voto col Porcellum».
L’abrogazione del premio di maggioranza, in realtà, è solo una delle strade che la Corte potrebbe imboccare, e non è la più probabile. I giudici guidati dal professor Gaetano Silvestri, che si riuniranno il 3 dicembre nel palazzo che guarda il Quirinale, potrebbero anche decidere di respingere il ricorso presentato dalla Cassazione nella primavera scorsa. Dal punto di vista giuridico, ci sarebbero alcuni estremi per farlo. La vicenda parte infatti nel 2009 a Milano. Un gruppo di cittadini guidati dall’avvocato Aldo Bozzi aveva citato in giudizio la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno contestando la legge elettorale del 2005 sui punti chiave del premio di maggioranza e delle liste bloccate. Secondo i ricorrenti, infatti, la legge attuale non consentirebbe agli elettori di esprimere il loro voto in modo libero e diretto. Quel ricorso era stato respinto sia dal tribunale meneghino che dalla Corte d’Appello, perché ritenuto manifestamente infondato. Ma nel maggio scorso la Cassazione ha ribaltato il verdetto, stabilendo che le questioni poste da Bozzi e gli altri sono «rilevanti» e ha chiamato in causa per via incidentale la Corte costituzionale.
Ora la questione è questa. Visto che i cittadini non possono ricorrere direttamente alla Consulta, c’è da valutare un punto: si tratta di un ricorso diretto «mascherato» oppure no? A favore di questa ipotesi c’è il fatto che i cittadini nel loro ricorso in giudizio facevano direttamente riferimento a profili di incostituzionalità del Porcellum. Ma la Cassazione, a maggio, ha ritenuto che, al contrario, l’azione non sia stata intrapresa all’unico scopo di interpellare la Corte costituzionale su una questione astratta. Ma che l’obiettivo fosse ottenere la rimozione dei pregiudizi al pieno esercizio del diritto di voto.
Nel mezzo delle ipotesi «estreme» abolire il premio di maggioranza o rigettare il ricorso ce ne sono almeno altre due. La Corte potrebbe comunque mandare un solenne monito al Parlamento sulle criticità di un premio di maggioranza senza soglia, invitando il Parlamento a porre rimedio e addirittura indicando il range per una soglia adeguata del premio. Oppure potrebbe rinviare la decisione nel merito. Una ragione per prendere tempoe così concedere altri mesi preziosi al Parlamento è arrivata all’inizio di ottobre, quando il Tar della Lombardia, che stava esaminando un ricorso sulla costituzionalità delle legge elettorale regionale approvata nel 2012, ha rimesso a sua volta la questione alla Consulta. Gli elementi del ricorso riguardano ancora una volta il premio di maggioranza e il sistema di elezione dei consiglieri. A questo punto, la Consulta potrebbe decidere di esaminare i due dossier contemporaneamente, consapevole che una pronuncia sul solo Porcellum avrebbe comunque effetti anche sulla legge lombarda.
Una via d’uscita diplomatica per evitare un intervento dalla portata politica enorme. Una legge amputata del premio, ma con i parlamentari nominati, infatti, piacerebbe molto a Grillo e anche a Berlusconi, i padri padroni che vogliono continuare a scegliere onorevoli a prova di fedeltà. Per un Pd di nuovo a vocazione maggioritaria invece sarebbe piombo sulle ali. Per questo nell’entourage di Renzi il 3 dicembre preoccupa assai più delle primarie dell’8. Perché è vero che il Parlamento potrebbe comunque intervenire subito dopo la sentenza. «Ma una legge riscritta dalla Consulta chi la cambierebbe più?».

l’Unità 28.10.13
Pochi alle urne in Trentino
di Virginia Lori


Giornata di voto, ieri, con dati di affluenza di segno quasi opposto per le Province autonome di Trento e Bolzano, dove si eleggono i rispettivi consigli provinciali, la cui riunione congiunta costituirà pure il rinnovando consiglio regionale, per il quale, nella Regione autonoma, non è prevista elezione di primo grado, né elezione diretta del presidente.
In Alto Adige, alle 17, si registrava un’affluenza al 56,6 %, con 210.976 votanti arrivati ai seggi e un incremento dello 0,9% rispetto alle elezioni del 2008. In Trentino invece l’affluenza si fermava al 38,89%, con un deciso calo rispetto al 2008, quando alla stessa ora si era registrato un 46,23%.
Eppure la sfida, di cui oggi si sapranno i risultati, non era di poco conto. Con questa tornata di amministrative infatti si chiude un’era segnata dal «Kaiser» presidente per 25 anni della Provincia di Bolzano, Luis Durnwalder, e dal «principe» (per 14 anni) della Provincia di Trento, Lorenzo Dellai. Per la Provincia autonoma di Trento, la vera sfida è tra il candidato della coalizione di centrosinistra autonomista uscente, Ugo Rossi, 50 anni, attuale assessore alla Salute, e l'imprenditore Diego Mosna, 65 anni, presidente della squadra di pallavolo trentina, sostenuto da sei liste civiche.
Per la Provincia autonoma di Bolzano vige la vecchia normativa, che non prevede elezione diretta del presidente ma la rinvia in secondo grado, una volta eletti i consiglieri provinciali, tra i quali, a scrutinio segreto, verrà designato il presidente. Per il centrodestra corre la coalizione composta da Forza Italia, Lega Nord, Team Autonomie con la capolista Elena Artioli. Il Südtiroler Volkspartei, la forza politica che raccoglie solitamente la metà circa dei voti totali con picchi assoluti nelle vallate alpine e lontano dal capoluogo, presenta Arno Kompatscher. Il Pd ha capolista Christian Tommasini.

l’Unità 28.10.13
Il voto davvero libero è un voto palese
di Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Non credo che il voto segreto di un parlamentare sia garanzia di libertà di coscienza. Piuttosto, è spesso una manifestazione di irresponsabilità, come qualsiasi dichiarazione anonima. Chiediamo il voto palese sulla decadenza di Berlusconi, perché il giudizio di ogni parlamentare sia libero, ma riconoscibile dagli elettori.
MASSIMO MARNETTO

Mai come in questa occasione il voto segreto servirebbe solo a determinare o ad alimentare degli equivoci. A nascondere la mano dopo aver tirato il sasso o, magari, a dimostrare a chi di dovere, con la foto del telefonino, che ci si è comportati nel modo concordato con lui. Mai come nel caso in cui ci si esprime con un sì o con un no sulla sorte di un uomo potente, ricco e vendicativo necessaria è soprattutto la chiarezza della posizione che si esprime, il coraggio di esporsi di fronte a lui ed all'opinione pubblica. Avvinti come l'edera al sogno di salvarlo, decisi a dimostrarsi comunque e fino in fondo servi fedeli del re che li ha portati in Parlamento, continueranno ovviamente, i suoi, a esporsi solo con la richiesta di poter votare in segreto: come lui ha richiesto. Fedeli all'idea di non esporsi mai più di tanto per avere sempre le mani libere, comunque si mettano le cose «dopo», si schiereranno con loro probabilmente anche altri di cui si dice oggi che sono «centristi» o «cerchiobottisti»: in ossequio ad una «neutralità» che nasconde la paura. Rendendo sempre più difficile, se ci riusciranno, quella fiducia nella politica caduta oggi così in basso. Anche o soprattutto per colpa di atteggiamenti come questi.

il Fatto 28.10.13
La Leopolda
Renzi leader Pd per raderlo al suolo
di Wanda Marra


C’è scritto “stupore” sulla lavagnetta del palco della Leopolda 2013, mentre Matteo Renzi tiene il suo intervento di chiusura. In effetti lo spettacolo che offre la vecchia stazione industriale dalla quale il sindaco di Firenze sferrò il suo attacco all’establishment del Nazareno per la prima volta nel 2010 ha qualcosa di stupefacente. Tantissima gente, seduta, in piedi, intorno ai tavoli. “Sedicimila presenze – dirà dopo l’organizzatrice Maria Elena Boschi – ma il clima non è cambiato”.
Ma nonostante la cornice sia la stessa (interventi uno dopo l’altro, spezzoni di video, colonna sonora assordante e il Sindaco sul palco a fare da dee-jay, moderatore, presentatore, commentatore) l’energia da rotta-matrice si è fatta conquistatrice. E lo stupore forse è soprattutto il suo: il giovane Matteo voleva fare il premier, si ritrova a correre da super favorito per la segreteria di un partito contro cui ha lottato fino all’altroieri. Un partito che vuole radere al suolo da dentro e rifondare dalla testa ai piedi. Neanche per la chiusura ci sono i simboli del Pd: “L’ importante non è che ci siano le bandiere sul palco, ma le croci sulle schede elettorali”, dice, trovando il primo slogan nel suo intervento. Parla a mezzogiorno. Non senza aver accolto gli arrivi: “Benvenuti Franceschini e Migliore, benvenuto Nencini”. Se Epifani è salito sul palco, Franceschini non lo fa. Andando via commenta: “Qui mi sento a casa”. Per l’intervento programmatico, Renzi torna in piedi, jeans e camicia bianca. Fissa 4 punti e dice “Ci rivedremo tra un anno qui alla Leopolda, per vedere cosa si è fatto”. Il suo “contratto con gli italiani”. E dunque. Le riforme costituzionali. Fine del bicameralismo perfetto, via le province (“Non è un dramma se qualche politico va a lavorare”, boato in sala). Torna sulla legge elettorale: “Tra Porcellum e Porcellinum io so che quello dei sindaci è un modello che funziona". Parla di lavoro: "La sinistra che non cambia si chiama destra".
E allora, “essere di sinistra è creare un posto di lavoro in più. Chi fa l’imprenditore fa l’eroe perché crea posti di lavoro". Non risparmia i sindacati: “Vogliamo che abbiano una legge sulla rappresentanza”. Stefano Fassina lo attacca nel suo blog sull’Huffington Post: “Le proposte che fai in materia finanziaria hanno rilevanza zero”. Come emblema della riforma della giustizia “ineludibile” cita il caso di “Silvio” (non Berlusconi, Scaglia): fondatore di Fastweb, ingiustamente detenuto per un anno e poi prosciolto. Critica l’Europa: “La nomina della Ashton è stato un disastro”. Verso le conclusioni torna alle battute: “Mi devono attribuire per forza un guru: guruGori o guruGutgeld”. Fa un elogio della semplicità, e se la prende con chi ha detto che non capisce quali libri legga (D’Alema, ndr). Una politica senza intellettuali. Dichiara: “Dobbiamo prendere i voti di Grillo”. Finale poetico: “Per trovare la strada dobbiamo farci guidare dal bambino che è in noi”. Entusiasmo alle stelle, fedelissimi galvanizzati.
Un programma da premier, ma nessun attacco frontale al governo. “Non vogliamo tornare alle elezioni”. Ragionano i suoi che Renzi ha chiaro che se il Pdl si spacca Letta dura fino al 2015. E Franceschini va a Sky a ribadire che le larghe intese non sono per sempre, ma che “il governo dura, spazzati i sospetti”. D’altra parte l’ex Rottamatore ha bisogno di tempo per riformare da capo un partito, pronto altrimenti a farlo a pezzi. Neanche il tempo di chiudere la Leopolda che parte una riunione dei Comitati. Le tessere gonfiate sono già un caso. Una circolare del Nazareno ha stabilito che sopra il 10-25% di nuove tessere bisogna fare un controllo. “Limiti alla partecipazione”, dal palco denuncia il renziano Magorno. Ma in realtà agli uomini del sindaco di Firenze la misura va bene. Gli imbrogli, si dice, ci sono da entrambe le parti. Dagli oppositori di Renzi sono in arrivo accuse pesanti: iscrizioni da parte dei renziani di gente legata alla criminalità. Si promettono prove ed elenchi. “Non vogliamo essere accusati di compravendita – dice il coordinatore delle primarie di Matteo, Bonaccini – va bene la trasparenza”. Il clima si riscalda. È il congresso del Pd, bellezza.

Repubblica 28.10.13
Il Sindaco e il Cavaliere, due destini incrociati
di Ilvo Diamanti


NON è un caso che Berlusconi abbia sciolto il Pdl e rilanciato Forza Italia in coincidenza con la Leopolda. La convention organizzata da Matteo Renzi a Firenze. E non è un caso che la ri-nascita di Fi sia stata prevista nello stesso giorno delle primarie del Pd. L’8 dicembre. Berlusconi, in questo modo, intende, ovviamente, “trainare” la propria ri-discesa in campo. Utilizzando un evento di successo, in grado di mobilitare milioni di persone.
E l’attenzione dei media, com’è avvenuto un anno fa. Quando, all’indomani delle primarie, i sondaggi attribuirono al Pd stime di voto mai raggiunte, in passato. Ma neppure in seguito, visto il modesto risultato ottenuto alle elezioni di febbraio. (A conferma che le primarie non sostituiscono le campagne elettorali.) A Berlusconi interessa associare le primarie del Pd e il rinascimento di FI. Ma anche le due leadership. Renzi e, appunto, se stesso. In un momento in cui la stella di Renzi è ancora luminosa. Quella di Berlusconi molto fioca, se non proprio spenta. Renzi, d’altronde, non ha parlato di Berlusconi perché intende guardare al futuro. Mentre Berlusconi ha rilanciato, consapevolmente, il passato. Perché tale è FI. Un soggetto politico fondato giusto 20 anni fa. D’altronde, la fine del Pdl sancisce ciò che, di fatto, era già avvenuto. La scomparsa di An. Il partito post-fascista che aveva rotto con la tradizione fascista, appunto. Guidato da Gianfranco Fini, era divenuto un partito democratico della Destra europea. An, alle elezioni del 2006, aveva ottenuto 4 milioni e 700mila voti, oltre il 12%. FI: 9 milioni e quasi il 24% dei voti validi. Due anni dopo, alle elezioni del 2008, FI e An si erano riuniti dietro alle bandiere del Popolo della Libertà, “inventato” nel novembre 2007, da Berlusconi. Per rispondere (non a caso) alla fusione dei Ds e della Margherita nel Pd, guidato da Walter Veltroni. Il Pdl, in quell’occasione, riuscì a intercettare l’elettorato dei due partiti, oltre 13 milioni e mezzo. E ne rafforzò il peso percentuale: 37,4%. Un percorso concluso, alle ultime elezioni, 8 mesi fa. Nelle quali il Pdl ha perso 6 milioni e 300mila voti e oltre 15 punti percentuali. In altri termini: quasi 2 milioni e oltre 2 punti meno di FI da sola, nel 2006.
Berlusconi, dunque, ha semplicemente preso atto che An è scomparsa, insieme alsuo leader, Gianfranco Fini. E ha tentato un “ritorno al futuro”. Allo spirito dei padri fondatori. Cioè, lui stesso. Dietro a questa scelta, c’è, ovviamente, il proposito di “eliminare”, insieme al Pdl, anche i traditori. Ma c’è anche l’intenzione, o almeno la speranza, di saltare sul “carro” di Renzi. Anch’egli, come altri dirigenti del Pd, divenuti, all’improvviso, tutti quanti e tutti insieme, “renziani”. Berlusconi, “renziano” anche lui. Per rientrare in gioco, contro il più “berlusconiano” dei leader del centrosinistra — secondo molti osservatori, non solo critici. A Matteo Renzi, d’altronde, questo inseguimento al contrario, rispetto al passato (quando tutti imitavano Berlusconi), non dovrebbe dispiaceretroppo. Anzitutto, perché Berlusconi non è certo finito, come dimostra la sua reazione di questi giorni. Ma è, sicuramente, più “vecchio”. In senso anagrafico e non solo.
Poi, perché, comunque, il rafforzamento di Berlusconi significa l’indebolimento di Enrico Letta e del governo di larghe intese. Il vero fortilizio dove agiscono gli oppositori di Berlusconi. Alfano e i ministri: del Pdl, non di FI. Il ritorno di FI, di conseguenza, significherebbe abbandonare al loro destino i ministri del Pdl. Ma anche il governo e il premier, Letta. La cui posizione appare in crescente contrasto con quella di Renzi. Perché, da un lato, Letta è l’unico leader, in Italia, che, per livello di popolarità e di consenso personale, possa competere con Renzi. E, anzi, nelle ultime settimane, sembra averlo superato. D’altra parte, comunque, il tempo gioca a sfavore di Renzi. La lunga durata, alla guida di un partito complesso, come il Pd, rischia di logorarlo. O, almeno, di appannarne lo smalto. «Mai più larghe intese », risuonato più volte ieri alla Leopolda, echeggia dunque come: «Mai più Letta».
Da ciò l’impressione che a Renzi, in fondo, il confronto con Berlusconi non dispiaccia. Perché evoca un modello di democrazia che gli piace e lo favorisce. Fondato sulla “personalizzazione”. Un processo in atto in tutte le democrazie occidentali. Anche se in Italia è stata condizionata dalla costruzione di “partiti personali”. Cioè, di partiti “privati”, dipendenti dalle risorse — economiche, comunicative e organizzative — di una persona. Per prima e prima di tutti, Forza Italia. Appunto. Il Centrosinistra ha, invece, respinto la “personalizzazione”, interpretando il ruolo del “partito impersonale”. Senza personalità e senza persone in grado di “rappresentarlo”. Nelle mani di “un’armata — poco gioiosa e molto disorganizzata — di micro-notabili” (come osserva Mauro Calise nell’acuminato saggio, emblematicamente intitolato Fuorigioco e appena pubblicato da Laterza).
Per questo la sfida lanciata da Matteo Renzi alla Leopolda non sembra rivolta tanto agli altri candidati, in vista delle primarie. Con i quali non c’è partita. Ma, soprattutto, al Partito Democratico in quanto tale. Cioè: in quanto “partito”, erede di “partiti” — di massa. Non a caso non ha voluto bandiere di “partito”. E ha dichiarato l’intento di “rottamare le correnti”, per prima la propria. Perché ciò che gli interessa, soprattutto, è scardinare la logica del partito. O meglio, dei partiti da cui provengono il Pd, i suoi consensi e i suoi gruppi dirigenti — centrali e locali. A Renzi interessa andare oltre le tradizioni e la storia — di chi “viene da lontano”. Oltre i post-democristiani e, prima ancora, oltre i post-comunisti. In altri termini: oltre il Pd. Per questo, in fondo, le strade di Berlusconi e di Renzi, per quanto percorse in direzione opposta, sono destinate a incrociarsi. Perché Berlusconi torna a FI per andare oltre il Pdl. Per restaurare il “partito personale”. Mentre Renzi intende vincere le Primarie per rottamare il Pd. Insieme a ogni larga intesa e a ogni Mediatore legittimato dal Presidente. Renzi: vuole fare il Sindaco d’Italia. In nome di una democrazia diretta e personalizzata.
Prepariamoci. Dopo il prossimo 8 dicembre nulla resterà come prima.

Corriere 28.10.13
Manager, ministri e dalemiani I poteri vecchi e nuovi si schierano
In platea Latorre. La sorpresa del deputato Sel Gennaro Migliore
di Fabrizio Roncone


FIRENZE — C’è uno che giura di aver visto Gennaro Migliore.
«Il comunista?».
Sì, il deputato di Sel.
«Nooo... Non ci credo...».
E invece sì, è vero: guarda un po’ laggiù.
«Porc... Ma che ci fa quello qui?» (il fotografo schizza via a cercare un primo piano).
Da tre ore tutti aspettiamo il discorso di Matteo Renzi e sembra che davvero ormai ci siamo. È quasi mezzogiorno tra le mura sbrecciate della vecchia stazione Leopolda, il riverbero di luci gialle da lampade d’acciaio, e lui lì, sul palco, che si tira su i pantaloni stretti come quelli di un cantante rock, stretta pure la camicia, e poi tossisce, fa ciao con la mano, occhietti e complicità con la folla che, sotto, ondeggia.
Gli stanno sistemando il microfono. Ma c’è il filo che non arriva.
Sono quei lunghi momenti che paiono perfetti per far scorrere, un’ultima volta, lo sguardo sui ranghi dei partecipanti a questa convention ormai molto simile a un congresso (non c’è solo Migliore, ma anche Riccardo Nencini, il segretario del Psi. «M’hanno invitato, e sono venuto. Che male c’è?»).
In politica, spesso, succede così: le vittorie si annusano, l’odore del nuovo possibile potere è inconfondibile. L’ultima volta entravano con il bavero alzato, stavolta fanno passerella. Segnalate anche belle rimpatriate. Per dire: si ritrovano i Lothar (teste pelate e furbissime) di Massimo D’Alema che, all’epoca di Palazzo Chigi, era soprannominato «Mandrake». Fabrizio Rondolino ha fatto sapere di aver lasciato Il Giornale per poter scrivere su Europa e raccontare così l’avventura di Renzi. Claudio Velardi, applaude. Nicola La Torre resta appoggiato a una colonna, ragiona di politica — «Renzi è il futuro, non c’è dubbio» — poi vede una porta con su la scritta «Sala apparati» e, per una sorta di riflesso condizionato, prova a entrare: lo fermano spiegandogli che è pericoloso, ci sono i generatori di corrente.
Il potere della politica incontra, si fonde, con quello del denaro. Prima di venire qui Renzi è andato a presentare il libro dello stilista Roberto Cavalli. Poi è comparso anche un altro stilista simpatizzante: Brunello Cucinelli. Flavio Briatore ripete: «Matteo è un asset della politica italiana. E lo voterei, sì, certo». C’è la stima di Andrea Guerra, manager di Luxottica, e di Oscar Farinetti, l’inventore di Eataly, che addirittura, davanti ai cronisti, si preoccupava degli sconfitti: «Sarebbe bello se Matteo chiamasse Cuperlo a fargli da vice». Poi, ad un certo punto, l’altro giorno è arrivato il finanziere Davide Serra: «Sono venuto a Firenze solo per Matteo. Non sarei mai salito su un palco dove c’erano Epifani, Fassino e Franceschini».
Perché c’erano e ci sono stati anche loro. Dario Franceschini persino con truppe al seguito: Giacomelli, Rosato, Martino, Garofani. Laggiù, ecco pure David Sassoli e Pina Picierno. Marianna Madia è andava via da poco ma è rimasta Anna Paola Concia.
«Guardi quanta gente, guardi come aspettano di sentire Matteo...» (la Concia, raggiante).
Anche oggi, però, neppure una bandiera del Pd.
«Ma lasci stare le bandiere...».
Così, però, sembra il partito di Renzi...
«E se fosse? C’è lui, è forte, è nuovo... vogliamo vincerle, le elezioni, o no?».
Ci sono tanti ex ultrà bersaniani. Come il sindaco di Bologna, Virginio Merola, e quello di Bari, Michele Emiliano. È diventata renziana anche Debora Serracchiani. C’è un signore con al collo un passi su cui è scritto: «Domenico staff» (e assomiglia tanto al sottosegretario all’Interno Domenico Manzione). Alessia Rotta, deputata veronese: «L’hanno scorso ero con la Puppato. Ora sono qui».
Prima è andato a parlare sul palco Alessandro Baricco, scrittore e maestro di scrittura, l’unico capace di far scendere un silenzio assoluto in stazione e in sala stampa.
La sala stampa è stata allestita dove un tempo c’erano le biglietterie: un po’ rustica, ma affollata. I tigì italiani e quelli stranieri, le squadre mandate da «Porta a porta», «Ballarò», «Agorà» e «Piazza Pulita».
Come per un congresso, appunto.
«Beh, sì, un congresso... del resto, scusi: lo sapete tutti che Matteo tra un mese sarà il nuovo segretario, no?» (il ministro Dario Franceschini in camicia casual, molto renziano).
Lei, ministro, non avverte ci sia un forte odore di potere?
«Guardi, io avverto un forte odore di cose nuove e, forse per la prima volta, nella vicenda politica di Matteo, concrete».
Può essere più preciso?
«Stavolta io credo sia stato fatto uno scatto in avanti: non ci sono state soltanto chiacchiere interessanti, ma siamo entrati anche nel dettaglio del cosa fare, e come, e perché».
Fa un po’ caldo. La gente spinge.
Il microfono è stato finalmente posizionato. È un microfono stile anni Cinquanta, di quelli che usava Little Tony.
Renzi si posiziona, e attacca.
«La Leopolda, lo sapete, non prevede conclusioni...».

Corriere 28.10.13
Un discorso senza donne ed è polemica in Rete
di Paola Pica


La mamma italiana che cucina bene come piace a Martin Scorsese è una protagonista del nostro blog, la 27esima Ora , figuriamoci se non ci è cara la mamma imperfetta che, proprio come accadrebbe nella web fiction su Corriere.tv , si perde il figlio alla Leopolda. Ma il ragazzino non è mica rimasto solo tra adulti estranei. Il bimbo era in compagnia di un «educatore». Basterebbe quest’ultima parola, recuperata e messa sul palco insieme ad altre cadute in disuso, come lo «stupore», per essere grati, e grate, a Matteo Renzi del futuro che prova a immaginare per il nostro Paese. Però, fatta eccezione per le due mamme, unico modello citato, nell’Italia dipinta dal nuovo leader carismatico, il posto delle donne non si sa qual è. Non è mancata la presenza femminile a fianco
di Renzi. E sappiamo che quest’obiezione non rende merito alle tante e brave militanti che sulle donne hanno lavorato a Firenze in questi giorni. In Rete, dove molto ieri si è discusso di questa «dimenticanza», qualcuna ha sostenuto che questa è la parità. Sarà. Resta un fatto che nella sintesi conclusiva del «capo» la questione femminile è rimasta fuori. Credere di farcela senza le donne, mai citate nemmeno nell’annunciare una cosa importante come il piano per il lavoro, ha dell’incredibile. Un mondo di maschi per bene, giovani, simpatici, tra la bella politica e i compiti con i figli, è già qualcosa. Ma non basterà a farci fare il salto.

Corriere 28.10.13
Quello che manca alla vera svolta
Quel passo in più che il sindaco dovrebbe fare
di Antonio Polito


Nella linea di Renzi sembra persistere una forma di scaltrezza: l’attualità politica impone delle risposte, ma il problema dei problemi è sempre un altro: «Cambiare l’Italia».
Alla sua terza o quarta discesa in campo, Matteo Renzi è un po’ troppo simile a se stesso. Neanche l’ultima Leopolda da giovane candidato gli ha fornito una matura piattaforma da segretario. Eppure tra poco più di un mese, pur non essendo in Parlamento (come Grillo), avrà il compito di guidare un esercito di più di quattrocento parlamentari. Le sue idee dovranno dunque diventare rapidamente proposte di legge, o appassire; dovranno trasformarsi ogni giorno in emendamenti e voti. Veltroni usò il Lingotto per questo rito di passaggio. Renzi non ha ancora avuto il suo Lingotto. In lui sembra far premio la scaltrezza. A quasi nessuna delle scelte che l’attualità politica impone viene data risposta perché: «Il problema è cambiare l’Italia».
Per farlo davvero, è però giunto il momento di scendere nei dettagli. E su un punto ieri Renzi l’ha fatto. La sua idea di riforma elettorale comincia infatti a precisarsi, soprattutto perché sembra accoppiarsi all’idea di un cambiamento costituzionale che lascia a una sola Camera il voto di fiducia e apre al premierato forte. Dovrebbe dunque assomigliare molto alla soluzione che propongono sia Violante sia D’Alimonte (presente alla Leopolda), nota come «doppio turno di coalizione»: ciò che aveva suggerito ieri su questo giornale Angelo Panebianco. È un’idea che ha margini realistici di trattativa politica, a patto che il governo duri e che il processo di riforme vada avanti. Se Renzi gettasse il peso del suo Pd su questa linea, invece che su un’agitazione pre-elettorale, si tratterebbe certamente di una svolta.
Così come una svolta, questa però con molti meno dettagli, è quella cui Renzi ha alluso in materia di giustizia. Non è infatti facile dire alla sinistra che il sistema giudiziario italiano merita una radicale riforma, anche se lo si dice in nome di Silvio Scaglia invece che di Silvio Berlusconi. Però Renzi l’ha detto, e ha ragione. Resta da chiarire come cambiarlo: limitando i casi di carcerazione preventiva? separando le carriere? modificando il Csm?
Sull’economia, e sull’asfissia del nostro Stato sociale, resta invece una nebbia alquanto fitta. Il posizionamento innovatore di Renzi è chiaro, molto meno sono chiare non dico le soluzioni (difficili da trovare per tutti) ma anche le direzioni di marcia. Anzi, si ha l’impressione che dal vuoto finiscano inevitabilmente per affiorare idee bislacche e pericolose come quella esposta dal finanziere Davide Serra alla Leopolda, secondo cui i pensionati con il retributivo - cioè praticamente tutti i pensionati italiani - sono «persone che rubano».
Si giunge qui a uno dei nodi più delicati del renzismo: il giovane leader è troppo solo. Intorno a lui non è cresciuta in questi anni una squadra di cervelli all’altezza delle ambizioni, né uno staff che sappia organizzarle. Renzi è, anche visivamente, un one-man-show: alla Leopolda faceva il regista, il conduttore e il d.j. Nel precedente storico spesso a lui accostato, l’ascesa di Blair a capo del New Labour, non fu affatto così. Come Renzi, Blair possedeva una dote che mancava disperatamente alla sinistra: era in grado di farla finalmente vincere perché giovane, simpatico, diverso. Dio solo sa se il Pd ne ha bisogno. Ma, a differenza di Renzi, Blair aveva Gordon Brown che preparava le politiche economiche da applicare una volta al governo, Peter Mandelson che ne curava la presentazione, David Miliband che sfornava idee nuove, Philip Gould che studiava l’elettorato, Alastair Campbell che ispirava la stampa, Jonathan Powell che avrebbe venduto il pacchetto alle diplomazie di tutto il mondo, e - si parva licet - Bill Clinton che lo spingeva da Washington e gli insegnava tutto ciò che sapeva.
Per quanto capace sia l’animale politico Renzi, e lo è, è difficile che possa far tutto da solo. Inoltre gli spetterà il difficile esercizio di saltare alla guida dell’auto in corsa, mentre cioè il Pd è già al governo, e non potrà dunque nemmeno rimandare le scelte importanti a quando al governo andrà lui. Finora il Pd è stato una storia di insuccesso perché non ha saputo praticare il riformismo con il consenso. Renzi ha finalmente il consenso; avrà anche il riformismo?

Repubblica 28.10.13
Fassina: “Renzi è ambiguo le sue proposte sono propaganda. E la nostra identità è un valore”
Cuperlo: ma il sindaco vuole cambiare il Porcellum?
di Giovanna Casadio


ROMA — «Il primo requisito di Renzi, che si candida a ricostruire il paese, deve essere la serietà... invece fa una operazione culturalmente ambigua». Stefano Fassina, vice ministro all’Economia, non risparmia attacchi al “rottamatore”. Come del resto Gianni Cuperlo, lo sfidante del sindaco di Firenze che Fassina sostiene. Cuperlo accusa Renzi di non volere davvero cambiare la legge elettorale: «Il Porcellum lo cancelliamo o no? Non l’ho capito dal discorso alla Leopolda». E Fassina rincara.
Un “caterpillar cappottato” che fa “proposte pari a zero sulla legge si stabilità” sono le sue bordate contro Renzi. Il disaccordo tra voi è sempre più profondo, Fassina?
«Il primo requisito di una classe dirigente che si candida a ricostruire il paese deve essere la serietà, ripeto. Mi riferisco non solo a Renzi, anche a tutti quelli che, da Brunetta a illustri commentatori, chiedono coraggio sulla legge di stabilità, e poi fanno seguire proposte generiche e inutilizzabili. Adesempio, dovrebbero indicare quali sono le misure coraggiose per tagliare di 20 miliardi all’anno il cuneo fiscale. Quando si propongono come copertura le dismissioni o l’intervento sulla spesa in conto capitale, si deve sapere che sono entrate una tantum, che non possono essere utilizzate per riduzioni permanenti di imposte».
Le giudica sbagliate?
«Dico che il contributo di proposte di Renzi sul taglio del cuneo fiscale sono pari a zero. E non è serio nella situazione drammatica in cui siamo, fare propaganda».
Se Renzi diventa segretario del Pd, lei cambia partito?
«Assolutamente no. Ma mi impegnerei per fare cambiare rotta al Pd di Renzi».
Quella di Renzi è una vittoria annunciata alla guida del Pd?
«I conti li facciamo la sera delle primarie, l’8 dicembre, nonostante l’opportunismo di molti dirigenti. Con Cuperlo combattiamo una battaglia controcorrente, con uno schieramento mediatico straordinariamente sfavorevole e con la consapevolezza che una parte dell’elettorato del Pd è segnata da subalternità culturale al riformismo neo liberista e dalla personalizzazione della politica».
Accusa il sindaco di Firenze di essere un Berlusconi della sinistra?
«Sto dicendo che anche noi risentiamo del ventennio alle nostre
spalle».
Sulla legge elettorale e la difesa del bipolarismo può esserci sintonia?
«Sulla legge elettorale il Pd è per il doppio turno. Dopo di che, per approvare la legge è necessaria una maggioranza possibilmente larga. A Norcia nel seminario della Fondazione “Magna Charta” con Gaetano Quagliariello e Maurizio Sacconi del Pdl, abbiamo discusso della necessità di condividere un quadro di principi senza i quali ricadiamo nel bipolarismo rissoso e inconcludente della Seconda Repubblica. Nel Pd siamo tutti convinti che le larghe intese siano un evento d’emergenza. E tutti puntiamo a un governo alternativo al centrodestra».
Il “basta larghe intese” di Renzi è un avviso di sfatto al governo Letta?
«Spero di no. È l’obiettivo da tutti condiviso per ripristinare un’alternanza tra schieramenti avversari. Comunque la durata del governo non la definiscono né Berlusconi né Renzi ma l’efficacia della sua attività».
Anche lei, come Cuperlo, critica l’assenza di bandiere del Pd alla Leopolda?
«Sì, mi preoccupa, Dobbiamo essere fieri della nostra identità di partito».
Meglio una bandiera in meno e una croce sulla scheda in più?
«Per avere una croce in più ci vuole una identità chiara e forte, non tentare di fare operazioni culturalmente e politicamente ambigue ».
Renzi è per lei ambiguo e poco serio?
«Vedo rischi. Sostengo Cuperlo perché ha una proposta di innovazione radicale e culturalmente autonoma».

La Stampa 28.10.13
Battaglia nei circoli
Ballottaggio a Milano A Roma rissa sfiorata per i tesserati dell’ultimo giorno
di Francesca Schianchi


ROMA A Milano, si va al ballottaggio in Assemblea provinciale, se la giocano il renziano Bussolati e la bersaniana Cavicchioli. A Palermo ha già vinto il candidato del sindaco di Firenze, Carmelo Miceli. A Roma si è espressa la metà dei circa cento circoli capitolini, e per ora è in vantaggio l’aspirante segretario sostenuto da Goffredo Bettini, Lionello Cosentino, ma si va avanti a votare ancora fino al 5 novembre. Si prosegue a votare anche a Torino, dove, per ora, è in testa l’ex senatore Fabrizio Morri, vicinissimo al sindaco Fassino, area Renzi.
La macchina dei congressi del Pd è partita, con quelli locali. E se alle primarie nazionali dell’8 dicembre il vincitore sembra annunciato (nonostante la cautela di Renzi, secondo cui chi dice che il risultato è scontato «vuole allontanare la partecipazione»), sui territori le partite sono molto più combattute. Condite pure, spesso, da polemiche, tensioni e minacce di ricorsi.
Come ieri, al circolo di Trastevere, a Roma, quando la situazione s’è scaldata perché, a pochi minuti dal voto, si è presentato un drappello di persone per tesserarsi. Un tempismo sospetto e poco gradito «agli iscritti reali», come dice il neosegretario del circolo, Alberto Bitonti, che già un paio di giorni fa aveva inviato una lettera aperta su Facebook a Renzi per denunciare «l’infiltrazione anche nel fronte renziano di logiche clientelari che vanno contro tutto ciò in cui crediamo». O come in Calabria: il deputato renziano Ernesto Magorno chiede un incontro al segretario Epifani e paventa il ritiro delle candidature. In alcune località, denuncia Magorno, c’è stato «l’allontanamento dei cittadini ai quali è stato impedito di iscriversi al nostro partito». Il tutto, sembra, a causa di come è stata interpretata una circolare inviata nei giorni scorsi dalla Commissione congresso, capitanata da Davide Zoggia, dove si dice che, in caso di aumenti di tesseramento sospetti, saranno predisposti controlli. Per carità, interviene Zoggia, però «nessuno deve essere respinto e a nessuno deve essere impedito di votare». Ancora, a Torino, dove venerdì è stato inviato un osservatore da Roma che ha certificato la regolarità del tesseramento, l’ex deputato Giorgio Merlo sostiene si stia tenendo un congresso «praticamente uguale a quello della decadente Dc torinese della fine Anni 80 e inizio Anni 90».
Malumori, polemiche, e minacce di ricorsi rischiano di essere ancora numerosi.

La Stampa 28.10.13
La denuncia del senatore Esposito
“Fuori dal seggio davano i soldi per iscriversi al Pd e votare”
di Maurizio Tropeano


Fabrizio Morri, il candidato alla segreteria torinese del Pd e testimonial del patto tra Piero Fassino e Matteo Renzi, potrebbe essere eletto al primo turno. Certo, al conteggio finale mancano ancora i voti di due circoli di Torino (San Salvario e Lingotto) e di Nichelino ma l’ex parlamentare del Pd ad oggi dovrebbe avere in mano il 56 per cento dei delegati e la spinta decisiva potrebbe arrivare dal circolo dell’hinterland dove gioca un ruolo chiave il sindaco, Pino Catizone, renziano della prima ora. Va detto che si tratta di un’assegnazione provvisoria calcolata su poco più di 5500a voti registrati in 59 delle 98 sezioni provinciali. Morri va meglio nei circoli della città e peggio nel resto della provincia e a spingerlo verso il ballottaggio potrebbero essere i delegati che saranno riassegnati con il recupero proporzionale. E poi ci sono i ricorsi. Matteo Franceschini Beghini ne ha presentato uno per contestare il congresso di Barriera di Milano e ne presenterà un’altro per quello di Venaria. Senza dimenticare la denuncia del senatore del Pd, Stefano Esposito, sostenitore di Cuperlo e di Aldo Corgiat: ho visto una persona, credo iscritta al circolo di Santa Rita consegnare i soldi per la tessera a due signori che poi hanno votato.
La denuncia
Esposito affida a Facebook il suo racconto/denuncia della coda per votare. Venti minuti che definisce «davvero istruttivi». Il cuore del racconto è questo: «Due signori, in coda per fare la tessera alla richiesta dei 15 euro necessari per l’iscrizioni sbottano: “ma come devo anche pagare?”. Escono dal circolo e io incuriosito li seguo e vedo che girato l’angolo di Via Giacomo Dina, un signore, credo iscritto al circolo, gli dà i 15 euro, loro rientrano, rimettendosi in coda per iscriversi al Pd». E commenta: «Solo nelle giornata di ieri i nuovi iscritti al Circolo sono stati 111!! In 27 anni di militanza politica non avevo mai assistito a niente di paragonabile».
La replica
Il senatore non fa i nomi dei protagonisti di questa vicenda ma è chiaro se si vanno a vedere i risultati del voto in quel circolo si scopre che Morri ha stravinto. In quel circolo il punto di riferimento è il consigliere regionale Andrea Stara che è stato anche presidente della Circoscrizione. Il suo è un racconto completamente diverso: «Chi ha fatto queste affermazioni se ne dovrà assumere tutta la responsabilità perché le sue affermazioni sono gravi. Io personalmente ho visto un film completamente diverso, certo c’era uan discreta affluenza anche di persone che sono ritornate a partecipare alla vita di partito». E aggiunge: «E’ paradossale che invece di far mettere a verbale quanto accaduto e chiedere l’intervento del garante del partito si scelga di spargere veleno in modo gratuito su un congresso».
Il peso dei nuovi iscritti
Quel che è certo è che le regole dei congressi provinciali hanno portato al boom dei tesseramenti last minute. Un fenomeno preceduto nei giorni scorsi dall’allarme lanciato soprattutto da Aldo Corgiat, sindaco di Settimo: «Una volta tanti iscritti del partito erano dipendenti della Fiat, oggi lavorano per cooperative di servizi o società autostradali». E alle polemiche è
seguito il giallo risolto delle tessere fantasma. In ogni caso ieri in alcuni circoli della città e della provincia si è registrato una richiesta di nuove adesioni che i vecchi militanti non ricordano di aver visto. Da Moncalieri a Settimo passando appunto anche per Santa Rita e Borgo Vittoria. Malcontanti si può arrivare ad almeno 500 nuove adesioni, forse di più. Con boatos che raccontano di pacchetti di tessere custodite dentro uno zainetto, di password cambiate dall’oggi al domani, di extacomunitari in coda con moduli in bianco. Tina Pepe, presidente della commissione elettorale, ha deciso di convocare nei primi giorni della prossima settimana tutti i commissari: «Farà fede quello scritto sui verbali. Abbiamo già ricevuto alcune segnalazioni che dovranno essere verificate».

Corriere 28.10.13
L’ascesa dei piccoli rottamatori. Grazie (anche) ai nuovi iscritti
di Andrea Senesi


MILANO — «Ti rendi conto che hai battuto la Cgil?», gli hanno chiesto l’altra sera a sezioni ormai vuote. Pietro Bussolati ha 31 anni, è un renziano e la prima tessera che s’è messa in tasca è quella del Pd, quattro anni fa. Oggi è a un passo dal diventare segretario provinciale di Milano. È il candidato che ha raccolto più voti (il 33 per cento, con punte da maggioranza assoluta in alcuni circoli milanesi) tra i quattro che si sfidavano. E partiva da sfavorito. Vuoi perché era una sfida «di partito» (votavano solo gli iscritti), vuoi perché i «competitor» (lui li chiama così) erano volti e nomi conosciuti nel partitone milanese. Con Arianna Cavicchioli, per dire, la candidata bersanian-cuperliana, s’erano schierati i sindaci dell’hinterland rosso e, sotto traccia, pure la potentissima Camera del Lavoro. Risultato? Il giovane renziano davanti, Cavicchioli dietro di 300 voti e gli altri a seguire a distanza.
Sabato, a Milano, si sono staccate centinaia di nuove tessere del Pd. Tanto che uno dei candidati sconfitti ha denunciato che tante nuove adesioni sarebbero arrivate a prezzi di saldo (15 euro). Quello delle tessere dell’ultimo minuto è però un caso nazionale. A Roma, al circolo di Trastevere, in trenta hanno chiesto l’iscrizione a pochi minuti dalla chiusura del seggio. Tra tensioni e scambi d’accuse. In Calabria è accaduto il contrario: respinti dalle sezioni gli elettori senza tessera in tasca. A Catania l’elezione provinciale è stata addirittura sospesa per eccesso di polemiche. Roberto Morassut, a nome della commissione congressuale, ha lanciato l’allarme: «In tanti, troppi circoli si verificano situazioni di irregolarità». «Quando c’è un congresso bisogna essere rigorosi nell’applicazione delle regole», il commento di Gianni Cuperlo.
Chi sono i nuovi iscritti al Pd? In gran parte elettori democratici che avevano partecipato alle primarie impegnandosi nei comitati per Renzi. Popolo di centrosinistra che ha poi assistito in silenzio alla «non vittoria» elettorale, ai 101 traditori di Prodi, e via fino alle larghe intese. E che sabato si è messo in fila in una sezione, dove magari non aveva mai messo piede prima, per prendere la tessera e votare. Votare per gli ex rottamatori, in massima parte.
È andata così a Milano e nel resto della Lombardia. A Varese, quelli della «ditta», gli ex bersaniani, sono stati sconfitti da Samuele Astuti. Uno che di Renzi sembra la fotocopia biografica: sindaco anche lui (di Malnate), stessa età (38 anni), stessi trascorsi negli scout cattolici. È lui, dicono, ad aver inventato la battuta che Matteo ripete spesso, quella della sindrome della sinistra italiana che deve smettere d’assomigliare alla nazionale di bob giamaicana: simpatica ma perdente.
Chi è invece Pietro Bussolati? Un trentenne come tanti, a Milano. Liceo scientifico, laurea in Economia a Pavia e master in Bocconi e poi un contratto in Eni. Nel frattempo tanti viaggi, la cooperazione internazionale, una passioncella per il Chiapas e il comandante Marcos. Ieri Bussolati era alla Leopolda: «Ho parlato di Milano come città delle differenze e delle opportunità. E ho ricordato che le innovazioni politiche partono sempre da qui».

La Stampa 28.10.13
Civati e l’obolo di 4 mila euro che i deputati versano al Pd
di Carlo Bertini


I partiti piangono miseria dopo la nuova legge che taglia i fondi, ma sulle somme che trattengono ai loro parlamentari ognuno si regolaamodosuo.Eseil Pdl ha i suoi problemi in casa, il Pd cerca di mettere fieno in cascina più che può, a vari livelli. Uno che non le manda a dire come Pippo Civati si è stufato ad esempio di versare 4 mila euro al mese senza che nessuno dei suoi fan pseudo-grillini sappia che il suo vero guadagno non è di 12 mila euro netti ma di 8 mila. Cifra per nulla simbolica, anzi, da non strombazzare in giro e il candidato del Pd che ha per slogan “civoti” lo sa bene. Nel cortile della Camera racconta come 1500 euro li versa al partito nazionale, altri 2 mila a quello regionale e una quota al suo circolo di Milano; e che così fan tutti, o quasi, i 400 parlamentari Democratici. Insomma, dura la vita del candidato dissidente costretto a sacrificarsi per la “ditta”, ma senza alcun ritorno d’immagine, come quelli che ottengono i suoi amici grillini che si tagliano da soli i lauti emolumenti.

1.128.722 incarichi pagati dallo Stato
il Fatto 28.10.13
Un milione di posti di lavoro
di Salvatore Cannavò


Un milione di persone. Nemmeno Max Weber, quando scriveva La politica e la scienza come professioni pensava ci si potesse spingere a tanto. Il grande sociologo tedesco scriveva infatti nel 1919: “Si vive ‘per’ la politica oppure ‘di’ politica”. Chi vive ‘per’ la politica costruisce in senso interiore tutta la propria esistenza intorno ad essa” […] Mentre della politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una fonte durevole di guadagno”.
Secondo uno studio della Uil, invece, coloro che cercano “di trarre dalla politica una fonte durevole di guadagno” sono più di un milione: 1.128.722. Un “paese nel paese” ma non nella forma poetica in cui Pier Paolo Pasolini definiva il Pci. Piuttosto “un mondo a sé”, come lo descrive il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy che ha curato la ricerca. La cifra viene ricavata sommando voci tra loro diverse ma tutte legate alla politica: gli eletti e gli incarichi di Parlamento e governo (1.067) quelli nelle Regioni (1.356), nelle Province (3.853) o nei Comuni (137.660). L’incidenza delle cariche elettive sul numero totale non è molto alta, il 12%.
La forza del sottobosco
I numeri si fanno più forti man mano che ci si addentra nel sottobosco: i Cda delle aziende pubbliche ammontano, infatti, a 24.432 persone; si sale a 44.165 per i Collegi dei revisori e i Collegi sindacali delle aziende pubbliche; 38.120 sono quelli che lavorano a “supporto politico” nelle varie assemblee elettive. I numeri fondamentali della ricerca sono riscontrabili nelle due ultime voci, quelle decisive: 390.120 di “Apparato politico” e 487.949 per “Incarichi e consulenze di aziende pubbliche”. “Quest’ultimo dato si basa su numeri certi e verificati” assicura Loy, mentre quello relativo agli “apparati” costituisce una “stima della stessa Uil ma una stima attendibile”. Nella nota metodologica, infatti, il sindacato spiega che i numeri derivano da banche dati ufficiali e da quello “che ruota intorno ai partiti” (comitati elettorali, segreterie partiti, collegi elettorali,
“portaborse”, ecc. ”. Loy la spiega così: “Ventimila voti di preferenza non sono il risultato solo di un voto ideologico ma espressione di relazioni concrete”. E, in tempi in cui l’ideologia è fortemente in crisi, “si affermano gli interessi e la spinta ad aumentare il proprio tenore di vita, l’affermazione di un sistema economico”.
La politica si fa industria, quindi. E il dato è riscontrabile nei numeri. Si pensi al costo dei CdA dei quasi settemila enti e società pubbliche: si tratta di 2,65 miliardi mentre per “incarichi e consulenze” la cifra è di oltre 1,5 miliardi di euro.
Stiamo parlando di gente che lavora, ovviamente. Alcuni di loro, come i dipendenti di Rifondazione comunista, sono anche finiti in cassa integrazione oppure, come in An, licenziati. “Ma non hanno fatto alcuna selezione pubblica, non hanno seguito nessun merito” commenta Loy, “e vengono pagati con soldi di tutti”. Parliamo di collaborazioni dirette nei vari ministeri, assessorati, consigli elettivi, incarichi elargiti da questo o quel politico di turno. Oltre ai Francesco Belsito, Franco Fiorito, ai diamanti della Lega, alle ricevute di Formigoni o alle consulenze di Alemanno, gli esempi possono essere tutti leciti ma del tutto interiorizzati dalla politica.
I vari ministeri hanno speso, nel 2012, oltre 200 milioni per collaborazioni dirette. Tra i dicasteri più attivi, gli Interni, l’Economia e Finanze, la Difesa e la Giustizia. Del ministero diretto da Alfano ci occupiamo a parte. Il Mef dispensa centinia di incarichi nelle società partecipate. Alla Difesa, il ministro dispone di ben 18 collaboratori quanti ne ha quello della Giustizia. Gli incarichi sono quasi tutti di pertinenza politica. Come proprio addetto stampa, ad esempio, il ministro ha la stessa persona che ha lavorato per Pierferdinando Casini dal 2006 al 2013 e prima, ancora, con l’Udc Vietti, attuale videpresidente del Csm. Una “ricollocazione” avvenuta tutta nei rapporti della politica.
Fedeli al ministro
Nell’Ufficio di gabinetto troviamo l’autrice di un libro, Guerra ai cristiani, troppo presto dimenticato e scritto insieme allo stesso Mauro. Più esemplare è il caso del “Consigliere per gli affari delegati, del Sottosegretario di stato alla Difesa On. dott. Gioacchino Alfano”, Nicola Marcurio. L’interessato ha iniziato la carriera politica nel Comune di Sant’Antonio Abate, dove organizzava le iniziative religiose per il Giubileo. Diviene consigliere comunale nel 2000 e di nuovo nel 2005. Poi va a lavorare presso il Commissariato per l’emergenza di Pompei, da lì alla Protezione civile per il G8 dell’Aquila. Finisce al ministero come consigliere di Gioacchino Alfano il quale, guarda caso, è stato sindaco proprio di Sant’Antonio Abate. L’altro sottosegretario, Roberta Pinotti, Pd, tiene nel proprio staff Pier Fausto Recchia, deputato non rieletto alle ultime elezioni e quindi ricollocato. Tra i collaboratori del ministro della Giustizia, Cancellieri, troviamo Roberto Rao, già deputato, non rieletto, e già portavoce di Casini ma anche Luca Spataro, già segretario Pd di Catania. Se un deputato non viene rieletto gli si trova un nuovo incarico. Come a Osvaldo Napoli, pidiellino molto presente in tv, bocciato lo scorso febbraio e oggi vicepresidente dell’Osservatorio Torino-Lione. Moltiplicando questi casi per l’intero numero delle cariche elettive si può avere un’idea del fenomeno. Alla Regione Lazio, il presidente Zingaretti dispone di un ufficio stampa con ben dieci addetti mentre in Lombardia, i consulenti della Regione sono passati, con la gestione Maroni, da 57 a 93, tutti riscontrabili sul sito ufficiale. Per questa voce l’ente regionale spende 2,6 milioni di euro l’anno. L’esercito della politica vive e si autoalimenta così.

il Fatto 28.10.13
Un tesoretto da 10,4 miliardi


Secondo lo studio della Uil i costi della politica, diretti e indiretti, ammontano a circa 23,9 miliardi di euro. Per il funzionamento degli organi istituzionali si spendono 6,4 miliardi di euro, le consulenze e il funzionamento organi delle società partecipate 4,6 miliardi di euro, per altre spese (auto blu, personale di “fiducia politico” ecc) 5,8 miliardi di euro, per il sistema istituzionale 7,1 miliardi di euro. La somma che equivale al 11,5% del gettito Irpef pari a 772 euro medi annui per contribuente. La Uil quantifica in almeno 7,1 miliardi di euro i risparmi possibili con “una riforma per ammodernare e rendere più efficiente il nostro sistema istituzionale”. Tra le proposte, l’accorpamento “degli oltre 7.400 comuni al di sotto dei 15 mila abitanti”, con un risparmio di circa 3,2 miliardi. Se le Province “si limitassero a spendere risorse soltanto per i compiti attribuiti dalla Legge”, il risparmio sarebbe di 1,2 miliardi. “Con una più ‘sobria’ gestione del funzionamento degli uffici regionali”, si potrebbero risparmiare 1,5 miliardi di euro mentre 1,2 miliardi di euro l’anno potrebbero arrivare da una razionalizzazione del funzionamento dello Stato centrale. Aggiungendo a questi, una riduzione del 30% dei costi di funzionamento delle istituzioni si potrebbe arrivare a 10,4 miliardi di risparmi annui.

Repubblica 28.10.13
Lampedusa, l’archivio di sommersi e salvati “Ecco le nostre storie, non dimenticateci”
Nasce la piattaforma digitale che raccoglie le voci di una tragedia infinita
di Vladimiro Polchi


ROMA — C’è Zerit, biologo marino eritreo di 28 anni, che in mare ha perso suo fratello e c’è Costantino, che con la sua barchetta “Nika” ha salvato 11 disperati e c’è pure Vito, che ne ha tirati su finché la sua barca ha iniziato a ondeggiare e ora i profughi lo chiamano papà. Ci sono i sopravvissuti e i soccorritori, gli africani e gli isolani, uniti dal ricordo di quel nero 3 ottobre, quando quasi quattrocento persone, tra uomini, donne e bambini, sono rimaste inghiottite dalle acque di Lampedusa. E ci sono le loro lettere, il loro pizzini digitali affidati ora alla rete, per dire: «Non provate mai a dimenticarci». Zerit G. scrive al popolo italiano: «Ho 28 anni e non sono un eroe, voglio che conosciate la mia storia e voglio sapere perché non sono stato invitato al funerale di mio fratello». A raccogliere la sua voce è “Sciabica”, parola di origine araba che significa rete da pesca: una rete gettata tra le storie di chi è rimasto sull’isola, ora che i riflettori si stanno spegnendo.
“Sciabica” è una piattaforma digitale, popolata di racconti e foto: un sorta di archivio della memoria, ideato da Fabrica (centro di ricerca sulla comunicazione, fondato nel 1994 e aperto a giovani creativi di tutto il mondo) e affidato a Internet.
«Sono stati gli italiani ad aver costruito la mia città, Elabaned, in Eritrea — scrive Zerit sul suo pizzino — sono il primo migrante della mia famiglia e sono un biologo marino. Volevo passare la vita a parlare coi pesci». Dopo essersi laureato in scienze marine, Zerit decide di raggiungere suo fratello Samuel in Sudan. Con lui prosegue per la Libia e poi da Tripoli fa il grande salto: sfida il mare per raggiungere le coste italiane. Samuel muore tra le acque il 3 ottobre a un’ora di nuoto dalla costa, Zerit tocca la terraferma a Lampedusa. Il suo ultimo dolore? Non aver potuto piangere i funerali del fratello: «Quando ho capito che non potevamo andare ad Agrigento e che ci sarebbero stati degli sconosciuti a gettare un fiore su bare di legno pregiato, mentre i corpi erano rimasti incastrati nel legno marcio del barcone — scrive Zerit sul suo pizzino raccolto da Michela Iaccarino di Fabrica — ho capito che lui stava morendo un’altra volta. Quando l’ora di ricordare la tragedia è arrivata, sono andato verso il mare. E al mare ho chiesto di Samuel, aspettando che almeno la sua anima quel giorno tornasse indietro».
Vito Fiorino ha 64 anni. È nato a Bari ed è cresciuto a Milano. A Lampedusa è venuto la prima volta in vacanza nel 1990. Il 3 ottobre 2013 ha salvato 47 persone: «Se le Nazioni sono davvero Unite come dicono – scrive – devono fare qualcosa adesso. Io ho fatto quello che andava fatto. Lo rifarei in ogni momento, in modo ancora più forte. Ogni giorno i 47 ragazzi mi vengono a trovare. Arrivano dove c’è il bar di mia figlia e mi dicono “ciao, papà”».
Costantino Baratta è nato aTrani nel 1957. Appena si è innamorato di sua moglie, si è innamorato anche della sua isola ed è rimasto a Lampedusa. Il 3 ottobre ha salvato 11 migranti: «Anche quando non ce la faremo più, quando su quest’isola non rimarrà più niente, noi continueremo ad aiutare questa gente. Ma se ci date un’altra medaglia, sarò io il primo a rifiutarla».
Poi c’è don Mussie Zerai, un prete cristiano nato in Eritrea. In Italia ha fondato l’associazione Habeshia e aiuta i profughi che riescono a raggiungere l’Europa. Mussie indirizza il suo pizzino alle autorità italiane: «Smettetela di dare cittadinanza ai morti, cominciate a dare diritti ai vivi». Il suo messaggio su “Sciabica” non morirà: Fabrica è alla ricerca di un’associazione culturale lampedusana a cui affidare il suo incubatore digitale, affinché nessuno possa un giorno dire «non ricordo».

Repubblica 28.10.13
Il papa ha dieci milioni di seguaci su Twitter
A lezione di mass media dai gesuiti
di Stefano Bartezzaghi


OGNI volta che un twittatore totalizza una cifra tonda di seguaci, cento, o mille o diecimila, si inorgoglisce e magari si concede un tweet compiaciuto. Quando a twittare è il Papa (@Pontifex) la cifra tonda è di dieci milioni (distribuiti nei suoi nove account in altrettante lingue).
E PERSINO Francesco ha diffuso un messaggio sulla circostanza. «Cari Follower, ho saputo che siete più di 10 milioni ormai!». Un metatweet, con tanto di punto esclamativo finale.
La notizia non fa che confermare l’inclinazione storica del cattolicesimo, e specialmente del gesuitismo, verso le comunicazioni di massa. Un account Twitter è un pulpito, ma oltre alla comunicazione da uno a molti consente una possibilità almeno teorica di risposta, rilancio, diffusione e anche colloquio diretto e personale. Funzionava già con Ratzinger (l’account era stato aperto per lui, nel dicembre del 2012, ed era arrivato a oltre due milioni e mezzo di follower). Bergoglio ha poi fatto dell’immediatezza colloquiale la cifra del proprio apostolato, a partire dal normalissimo e perciò sconvolgente «Buonasera » con cui si è presentato da San Pietro. La naturalezza con cui Francesco si installa fra le tweet-star italiane, Jovanotti e Beppe Grillo, Valentino Rossi e il Milan, parla di lui e del nostro divismo. Di noi, dice che dove c’è competizione seguiamo combattenti anche sarcastici eunfair, ma fuori dalle tifoserie ci rivolgiamo più volentieri a chi dà segnali semplici e diretti, e sa essere credibile quando dice «noi». Di lui, dice che con la sua catechesi apparentemente bonaria ha rigenerato il messaggio della Chiesa: e senza bisogno di scrivere alcun «wow».

Corriere 28.10.13
Da Praga a Belgrado. La nuova vita dei comunisti dell’Est
Puristi o riformati, non sono mai spariti
di Maria Serena Natale


«Come Cristoforo Colombo, non sanno dove stanno andando, non sanno dove sono, e tutto a spese degli altri». I comunisti secondo Winston Churchill. Dove sono finiti oggi? Con l’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991, l’addio agli schieramenti e la nascita di Stati democratici decisi ad abbracciare l’economia di mercato ed entrare nella famiglia europea, i partiti nei diversi contesti nazionali dell’Est si sono trovati allo stesso bivio: restare fedeli alla purezza del verbo marxista-leninista a costo di veder ridimensionato il proprio ruolo oppure — opzione maggioritaria — avviare un’operazione ideologica di «socialdemocratizzazione» che attenuasse o recidesse i legami con i regimi per guadagnare un posto nei nuovi assetti. Una scelta compiuta in un’epoca di trasformazioni economiche e sociali che con lo stabilizzarsi dell’ordine capitalista hanno riportato in primo piano i grandi temi sociali, spesso sottratti al monopolio della sinistra da formazioni di tendenza populista. Un riassetto che s’inserisce nel generale, doloroso processo di elaborazione del passato tra rese dei conti e nostalgie.
Al primo macro-gruppo appartengono i comunisti che hanno conquistato il terzo posto alle elezioni politiche di sabato scorso in Repubblica Ceca. Un risultato che infrange un tabù e apre uno scenario inedito: per la prima volta dalla fine del regime a Praga una formazione «purista» può ambire a un ruolo di governo, anche se i numeri rendono la prospettiva poco praticabile. Il partito comunista di Boemia e Moravia — erede dei comunisti cecoslovacchi che dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989 si divisero nei due rami di Praga e Bratislava — ha ottenuto il 14,9% dei voti, piazzandosi dietro ai socialdemocratici prima forza e ai populisti del ricco imprenditore Andrej Babis. Insieme, però, socialdemocratici e comunisti dispongono solo di 83 seggi sui 200 della Camera bassa del Parlamento, le consultazioni tra i partiti si annunciano lunghe e complicate.
Il rapporto diretto con la matrice sovietica è evidente nei Paesi baltici. In Lettonia il Partito socialista, emanazione dei comunisti banditi al termine della Guerra fredda e forte tra la minoranza russa, s’impone per statuto la difesa degli ideali compromessi dal «colpo di Stato borghese-nazionalista e contro-rivoluzionario» del 1991, l’anno della dichiarazione d’indipendenza dall’Urss.
Possibile anello di congiunzione tra le due famiglie, la tedesca Linke, che riunisce gli eredi del Partito socialista unificato della Ddr e i fuorusciti della Spd (il Partito socialdemocratico che al congresso di Bad Godesberg del 1959 si svincolò dal marxismo): ideologicamente fedele alle origini e connotata come formazione di estrema sinistra, alle elezioni federali dello scorso settembre ha ottenuto l’8,6% dei consensi, 64 seggi su 630, terza forza al Bundestag.
Inclusi invece a pieno titolo nelle vicende istituzionali i post-comunisti bulgari confluiti nel Partito socialista oggi guidato da Sergei Stanishev, primo ministro dal 2005 al 2009. In Serbia l’attuale premier è Ivica Dacic, leader del Partito socialista fondato nel 1990 da Slobodan Milosevic sui resti del ramo serbo della Lega dei comunisti, unica formazione legale in Jugoslavia tra 1945 e 1990.
L’ex comunista Aleksandr Kwasniewski è diventato presidente nella Polonia che ha ispirato la transizione al principio della «linea tracciata sul passato» evocata nel 1989 da Tadeusz Mazowiecki — processo d’inclusione e riconciliazione minacciato negli anni da provvedimenti come le leggi di lustracja sull’esclusione degli ex comunisti dalla vita politica. Ministro dello Sport con il regime negli anni 80 e fondatore nel ’91 dell’Alleanza della sinistra democratica oggi all’opposizione, Kwasniewski è rimasto in carica fino al 2005. Alle elezioni del ’95 aveva sconfitto Lech Walesa, l’eroe della lotta al comunismo.

Corriere 28.10.13
Filippo Grandi e i bimbi palestinesi:
«Grazie Italia, moltiplicati gli aiuti»
di Paolo Valentino


ROMA — Nel 2103 l’Italia ha portato da 1,5 a oltre 8 milioni di euro l’aiuto all’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Non sono cifre iperboliche — gli Stati Uniti danno oltre 250 milioni di dollari l’anno — ma è «il segnale di un’importante inversione di tendenza nei confronti della cooperazione, tanto più in tempi di crisi e tanto più quando si cerca di affrontare alla radice i problemi che generano gli esodi verso le sponde italiane». Lo dice Filippo Grandi, commissario generale dell’Unrwa, il funzionario italiano più alto in grado nel sistema delle Nazioni Unite. Il suo riferimento è alla presenza di rifugiati palestinesi dalla Siria nelle zattere che sbarcano a Lampedusa. «E’ la prima volta che i profughi palestinesi del 1948 o i loro discendenti cercano rifugio fuori dalla regione. Ed è la prova dell’enormità della tragedia in corso. In Siria, prima dell’inizio della guerra civile, c’erano più di 500 mila rifugiati. Oggi buona parte di questi sono in fuga, nel solo Libano se ne sono riversati già 50 mila, mentre quelli che rimangono sono spesso presi tra due fuochi. Il risultato è che il nostro lavoro è quasi tutto dedicato all’emergenza in condizioni pericolosissime: 8 dei nostri collaboratori palestinesi sono morti e di altri 17 non abbiamo più notizie da mesi».
Grandi ha appena concluso una visita a Roma, dove ha incontrato il ministro degli Esteri Emma Bonino e il suo vice Lapo Pistelli, la presidente della Camera Laura Boldrini e i membri della sotto-commissione parlamentare per i diritti umani. Sono 5 milioni oggi i rifugiati palestinesi cui l’Unrwa assicura servizi sociali di base, come sanità e soprattutto educazione: ogni giorno 500 mila bambini palestinesi frequentano una delle 700 scuole gestite dall’agenzia. «Con gli anni si è creato un servizio pubblico internazionale unico, a sostegno della popolazione dei rifugiati. Purtroppo, le crisi che hanno sconvolto la regione hanno avuto un impatto disastroso sulla situazione dei palestinesi e ogni volta questo costringe l’Unrwa ad agire in emergenza da agenzia umanitaria tradizionale — distribuzione di viveri e medicinali, centri di raccolta — sottraendo energie e risorse al lavoro normale». Tutto ciò riporta alla questione originaria: la soluzione del conflitto arabo-israeliano, in queste settimane tornato in cima all’agenda diplomatica americana. «Da quando sono in Medio Oriente, ho visto parecchi tentativi partire e fermarsi. Ogni volta c’è stato pubblico scetticismo e segreta speranza. Stavolta la speranza mi sembra un po’ meno segreta. Secondo gli americani, ci sono già stati 13 o 14 incontri e trovo importante la segretezza imposta, visto che in passato è stata spesso la fuga di notizie ad affossare i tentativi. Credo ci sia la consapevolezza che questa sia un po’ l’ultima chance: non è pensabile che l’investimento politico, mediatico e morale degli Stati Uniti possa essere ripetuto in futuro se fallisse. Qualsiasi presidente americano ci penserebbe due volte prima di agire. Tutti questi elementi ci inducono a un cauto ottimismo»..

Corriere 28.10.13
Troppi allarmi sul «turismo sociale» minacciano la cittadinanza europea
di Maurizio Ferrara


Vent’anni fa un coraggioso giudice della Corte europea di giustizia, Francis Jacobs, affermò in una sentenza che la cittadinanza dell’Ue conferisce diritti inviolabili di non discriminazione. Quando valica una frontiera nazionale, chiunque possegga il passaporto color porpora può dire civis europeus sum e invocare il rispetto di questi diritti.
La sentenza uscì appena dopo il Trattato di Maastricht (che istituiva, appunto, la cittadinanza Ue). Da allora nell’Unione sono entrati 16 nuovi Paesi e si sono firmati tre nuovi Trattati: Amsterdam, Nizza e Lisbona. Quest’ultimo ribadisce a chiare lettere i diritti di libera circolazione e non discriminazione. Ma la formula civis europeus sum sta rapidamente perdendo la propria efficacia. A essere sotto attacco è soprattutto l’accesso al welfare da parte dei non nazionali provenienti da altri Paesi membri. I governi di Berlino, Londra, Vienna e l’Aia hanno chiesto formalmente a Bruxelles di cambiare le norme vigenti per combattere il cosiddetto «turismo sociale»: gli spostamenti da un Paese all’altro in cerca dei sussidi più generosi. Dietro la richiesta si nasconde un malumore profondo, che riguarda il processo di integrazione in quanto tale. E che spinge a ristabilire i tradizionali confini, a «proteggere i diritti e gli interessi legittimi dei nativi» — come candidamente recita la lettera dei quattro governi. In tempi di crisi, malumori e paure in seno all’opinione pubblica sono comprensibili. Ma se i governi le cavalcano, cosa resterà dell’Europa? Se va bene, solo le fredde regole di «mutua sorveglianza» fiscale, neanche fossimo in una prigione. Se va male, potrebbe non restar nulla, i sogni e gli sforzi di tre generazioni andrebbero irrimediabilmente perduti.
Tutti i dati e le ricerche disponibili indicano che non c’è nessun turismo sociale di massa. Vi è, certo, un discreto numero di cittadini Ue che risiedono in Paesi membri diversi dal proprio: la loro quota è di circa il 2%, con punte sopra il 3% in Irlanda, Belgio, Gran Bretagna, Austria e Germania. La crisi ha accresciuto un po’ i flussi da Sud a Nord e da Est a Ovest. Si tratta però di persone attratte da opportunità di lavoro, anche manuale. Se prendiamo come riferimento la popolazione residente con più di 15 anni, scopriamo che sette migranti Ue su dieci hanno un’occupazione, di contro a 5 o 6 nazionali. Se perde il lavoro, il migrante riceve il sussidio pubblico solo se ha pagato tasse e contributi, esattamente come i nazionali. I governi firmatari della lettera sostengono che l’obiettivo dei cosiddetti «turisti sociali» sono soprattutto le prestazioni di assistenza finanziate dal gettito fiscale, come il reddito minimo. La Commissione europea ha però calcolato che i migranti Ue sono meno del 5% del totale di beneficiari di queste prestazioni. In alcuni casi (quelli che fanno più notizia) ci sono frodi o abusi. Ma si tratta di fenomeni che si possono contrastare con piccoli accorgimenti legislativi e controlli più efficaci. Non vi è sicuramente bisogno di mettere sotto accusa i principi di parità di trattamento e di libera circolazione — i quali peraltro, sempre secondo lo studio della Commissione, fanno bene anche al Pil.
Che dire degli immigrati che provengono dai Paesi extra Ue? I barconi di Lampedusa hanno di nuovo acceso i riflettori su di loro. Dopo il cordoglio e la compassione, sono ricominciate a circolare accuse di «opportunismo sociale» ancor più pesanti rispetto a quelle rivolte ai migranti Ue. Anche nel caso degli extracomunitari e del loro accesso al welfare valgono però le stesse considerazioni relative ai migranti Ue. Un recente studio Ocse stima che nella maggioranza dei Paesi europei (Italia compresa) il saldo fra ciò che gli extracomunitari versano allo Stato e ciò che ricevono in termini di prestazioni e servizi è meno favorevole rispetto a quello dei nazionali. Il contributo dell’immigrazione al Prodotto interno lordo (Pil) è inoltre positivo: nessun «pasto gratis», dunque.
Comprendere questa realtà può essere contro-intuitivo. E capire non significa dover accettare tutti gli effetti che l’immigrazione da Paesi lontani e diversi produce sul piano sociale, culturale e dei costumi. Teniamo però presente che le dinamiche di globalizzazione riservano a noi europei un futuro di «mixité»: una di mescolanza fra popoli e culture che potremo temperare e regolare ma non evitare. Per questo è fondamentale che l’Ue resista oggi ai ripiegamenti nazionalistici che avvengono al proprio interno. La civiltà che ha inventato l’idea di cittadinanza non può fallire nel trasferirla ora dal livello nazionale a quello sovranazionale.
Sull’edificio che ospita il Consiglio dei ministri Ue, a Bruxelles, spicca la scritta latina Consilium. Aggiungere la formula civis europeus sum potrebbe finalmente dare un’anima e una missione simbolica a questa istituzione, che oggi parla solo con i governi e ha smarrito la capacità di comunicare con i sui più importanti interlocutori. I cittadini d’Europa, appunto.

Repubblica 28.10.13
Mauro Roda amministra lo straordinario archivio da Togliatti a Occhetto: ho bussato a molte porte, ma tutti dicono che è troppo presto
“Ho raccolto foto, lettere e bandiere rosse ma nessuno vuole fare il museo del Pci”
di Michele Smargiassi


BOLOGNA — Rossa, ovviamente. Il museo del Pci, il museo che imbarazza tutti, sta tutto in una rossa chiavetta usb, chiusa come una reliquia in una scatolina che Mauro Roda porta sempre con sé, nella sua borsa da executive democratico. Centinaia di ore di filmati, audio, documenti, foto di oggetti di settant’anni di storia del comunismo italiano pesano un po’, in tasca. «È storia, storia d’Italia, io sono solo un momentaneo custode...» Vorrebbe passare il testimone. Ma chi lo vuole, un museo del Pci?
Roda è il presidente di “Fondazione 2000”, una delle istituzioni che, quando nacque il Pd, custodirono i beni materiali ereditati dal vecchio Pci. E anche i mali materiali: «Ci accusarono di voler mettere in cassaforte il patrimonio per non darlo al nuovo partito, ma c’erano soprattutto debiti da pagare. Vendemmo un bel po’ di immobili». E fu così, svuotando sezioni, che Roda e una cinquantina di suoi omologhi in mezza Italia si trovarono fra le mani un’enorme quantità di oggetti, carte, reliquie. «Solo a Roma, col trasloco di Botteghe Oscure, c’erano 1300 metri di documenti a cui trovare posto. Il Pci era un accanito archivista, lavorava per la Storia...».
L’idea venne da sé. S’avvicinava il 2011, settantesimo della scissione di Livorno. «Facciamo una mostra». Fondazione Gramsci e Cespe misero le mani nelle cantine del comunismo. Frugarono. Tirarono fuori i pezzi migliori. Si fece la mostra:
Avanti Popolo, a suo modo un successo: Roma, Livorno, gran finale a Bologna con 30 mila visitatori... e poi? Poi tutto di nuovo negli scatoloni, da rispedire indietro. Ma a Roda qualcosa gli rodeva dentro. «Ci sono cose straordinarie lì dentro. Non possiamo disperderle e seppellirle di nuovo». E non lo rispedì.
L’ufficetto di Roda, al piano terra della sede del Pd bolognese, è un caos di memorie. Da una cornice, spunta una bandiera rossa di panno pesante ricamata a lettere d’oro: «Centuria italiana Gastone Sozzi», è una bandiera della guerra di Spagna: «Questa è stata sull’Ebro», borbotta Roda con reverenza. Il museo che non c’è sarebbe pieno di cose così, intrise d’un passato imponente. Il torchio che stampava l’Unità clandestina durante il fascismo. Le lettere di Togliatti in inchiostro verde. Il messaggio che don Dossetti scrisse al leader Pci morente a Yalta. Fotografie, a pacchi. Volantini, giornali, poster. Filmati dei congressi, delle parate delle prime feste dell’Unità, vero teatro politico di strada. E cose ancora più curiose. Una bobina di rame è un discorso di Togliatti dei primi anni Cinquanta: il nastro magnetico non era ancora stato inventato, ma la voce del Migliore si poteva registrare così, e il Webster Chicago di metallo nero la sa ancora evocare. «Il Pci era all’avanguardia nell’uso dei nuovi media... «, sorride Roda. Eccome: ecco i dischi di vinile coi discorsi dei leader da amplificare nelle piazze. I fotoromanzi, genere popolare virato in propaganda. Non sarebbe un museo di scartoffie. Ed è già pronto.
Ma nessuno lo vuole. Tutto è chiuso a Bologna, in un luogo segreto. Prima però, lavorando per mesi in una casa del popolo, un gruppo di ex-compagni ha duplicato tutto in formato elettronico. Eccola, la chiavetta del passato del Pci, lampada di Aladino che nessuno osa strofinare per farne uscire il genio della storia. «Ho bussato a molte porte. Molte. Nessuna risposta». Roda non dice dire quali, ma è facile: grandi cooperative, associazioni di sinistra. Niente. Sorrisi, imbarazzi, cortesi dinieghi, «non è ancora il momento...».
L’uomo col museo in tasca insorge: «Ma il Pci è sparito ormai da un quarto di secolo! Quanto tempo deve passare?». Sarebbe un museo un po’ di parte... «Ma di quale parte? Il Pci ha fatto del bene alla democrazia italiana. E comunque è storia. Perfino nei paesi dell’Est, dove le responsabilità erano diverse, hanno fatto musei al passato comunista. Imbarazzo? Dovremmo essere imbarazzati per il degrado della politica, per la catastrofe del neoliberismo... «. Attento, Roda, la prenderanno per un estremista... «Ma per favore», ride, «ho 61 anni, nel Pci ero un amendoliano tranquillo... Ho diretto la Confcoltivatori...». Scuote la testa. «Il Pci non tornerà più. Ma qui c’è il racconto di una politica fatta per passione. Dov’è oggi?», e rimette con delicatezza la chiavetta in tasca.

Corriere 28.10.13
Goodbye Berlinguer. L’illusione della purezza
Con una scrittura felice Francesco Piccolo dà voce ai sentimenti privati e politici di un uomo di sinistra
di Emanuele Trevi


Come tutti i desideri che si rispettino, e nonostante la sua ingannevole umiltà, anche Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) di Francesco Piccolo è una proiezione di se stesso nell’impossibile, una tensione destinata a non trovare mai il suo punto di approdo e una sfida consapevole al principio di realtà. Se valutassimo questa aspirazione secondo il metro del buon senso, tanto varrebbe desiderare di essere migliori o più belli di tutti gli altri. Nel libro di Piccolo, poi, le cose si complicano notevolmente perché il significato di quei «tutti» non è per nulla generico, non se ne sta lì come un semplice bersaglio di cartone sul quale prendere la mira. Al contrario, si potrebbe dire che il vero argomento affrontato da Piccolo sia la ricerca di un significato possibile a questa parola, «Tutti», che campeggia a caratteri cubitali sulla prima pagina dell’«Unità», all’indomani degli immensi funerali di Enrico Berlinguer, celebrati il 13 giugno del 1984.
Quel giorno, il ventenne Piccolo se ne era rimasto a casa sua, a Caserta, chiuso nella stanza dei genitori a guardare i funerali in tv, piangendo e sollevando il pugno chiuso, seduto su una scomoda poltroncina, col timore dell’arrivo imprevisto di un genitore o di un fratello. Nessuno, per sua fortuna, violò la solitudine del momento e lo scrittore regala a noi l’imbarazzante privilegio di sorprenderlo in quell’assurda posizione, spiacevole ed enfatica al tempo stesso, dunque inevitabilmente comica.
Piccolo è diventato nel corso del tempo un maestro di questi rapidi autoritratti, che hanno il merito di rendere credibile il percorso di conoscenza in corso. È vita ed è nello stesso tempo esercizio intellettuale, senza che l’una ostacoli l’altro o viceversa, in una specie di pirandellismo a oltranza, specializzato nel cavare sorprendenti gocce di saggezza dal futile e dall’aleatorio. È un buon metodo, capace di produrre frutti memorabili; ma un bravo scrittore non si può accontentare di questo. Alle soglie dei cinquant’anni, Piccolo ha deciso di allargare decisamente l’orizzonte.
Il desiderio di essere come tutti è un’autobiografia politica o, meglio, la storia di un individuo che percepisce se stesso come appartenente a una comunità. Fatti di natura privata si intrecciano a un lunghissimo segmento della storia civile dell’Italia, quarant’anni suddivisi in due parti, la prima intitolata a Enrico Berlinguer, la seconda a Silvio Berlusconi. Come si sarà intuito dalla scena dei funerali di Berlinguer seguiti in televisione, il protagonista di questa storia è un ragazzo, poi un uomo di sinistra.
Come tanti della sua età e delle sue idee, anche Piccolo può affermare che la sorte, dal punto di vista politico, non gli ha riservato nulla di bello, nemmeno una di quelle stagioni esaltanti che ogni generazione aspira a vivere. Lui però, non scrive per lagnarsi. La mancanza di una cosa è un oggetto altrettanto interessante della cosa stessa. La cosa che manca, ed è sempre mancata, è una duratura vittoria della sinistra, assieme a tutte le possibilità storiche che questa avrebbe comportato.
Ma la sconfitta non è solo la mancanza di vittoria: essa infatti è capace di produrre un intero modo di vedere il mondo e in definitiva un modo di essere. Piccolo descrive un dramma collettivo di proporzioni gigantesche, tale da suggerire anche al suo stile perplesso e suadente certe inusuali punte di solennità o di stizza. Ci racconta una lunga e spaventosa metamorfosi, psicologica ancora prima che ideologica, che ha condotto la sinistra ad albergare in sé un sentimento di «purezza» morale capace di erigere un muro fra sé e l’avversario. E ci fa vedere come questa pretesa di superiorità, che confonde l’etica e la politica come in un gioco delle tre carte, non può che aver trasformato la sinistra in una grande forza conservatrice, custode di valori nobili ma immutabili nel tempo, indiscutibili, impermeabili al cambiamento.
Come tutti hanno potuto vedere con i propri occhi e come Piccolo racconta magistralmente, questa catastrofe intellettuale della superiorità ha trovato l’impulso finale con l’avvento di Berlusconi. Noto con piacere che Piccolo non manca di aggiungere alla lunga lista dei sintomi di questa specie di malattia mentale collettiva anche il verbo «resistere», svuotato di ogni credibilità da un uso davvero dissennato. Flannery O’Connor una volta ha scritto che c’è gente che vive «in un mondo che Dio non ha mai creato». Mi sembra una splendida definizione di questo carcere piranesiano della purezza e della conservazione descritto da Piccolo. Che invece non ce la fa a sentirsi superiore agli altri per un motivo del tutto opinabile e personale, ma proprio per questo decisivo: lui, in questi vent’anni, ha goduto di una vita felice. Nonostante il fatto che gli eventi della politica producano in lui notevoli riflessi interiori e nonostante il fatto che non ci sia giorno che non gli porti delle amarezze da quella parte, non può tacere questa verità. Se avesse avuto una malattia grave, se avesse perso una persona cara, se fosse finito nei guai con la giustizia, la sua felicità sarebbe stata sicuramente diminuita o estinta. Berlusconi invece non ce l’ha fatta.
Ne possiamo dedurre, con la certezza di un corollario matematico, che questa sfera d’esistenza rappresentata dalla lotta politica, che appassiona Piccolo così come ci si può appassionare al calcio o all’arte contemporanea, non possiede i requisiti necessari a determinare la soddisfazione, l’interesse, lo spavento, l’erotismo che le esperienze davvero decisive riescono a suscitare in noi. Per utilizzare la celebre distinzione di Jacques Lacan, non si può negare alla politica un grado, seppur minimo, di realtà, ma di sicuro essa non fa parte del «reale», inteso come ciò che ogni singolo individuo sperimenta come «insostenibile», sia nel dolore sia nella gioia. La più profonda verità morale che si possa cavare dagli ultimi venti anni è che Berlusconi è sostenibilissimo. Di certo, perlomeno, non fa parte del reale quella melassa di opinioni, buoni sentimenti e inani risentimenti prodotta da un ambiente intellettuale talmente separato dal mondo da essersi convinto, in buona fede, di vivere sotto il tallone di una dittatura, sempre dichiarando di voler vivere altrove e mai togliendosi effettivamente dai piedi.
Francamente, mi convince poco la strategia fin dal titolo messa in atto da Piccolo per evadere da questa palude. Sono d’accordo sul fatto che chi la pensa come noi non ha mai nulla di importante da insegnarci, ma non nutro una stima dell’umanità tale da pensare che in quei «tutti» che lo scrittore desidera raggiungere, dall’altra parte dell’inutile barricata, ci sia qualcosa di così prezioso. L’unica cosa davvero trasversale che esiste nelle nostre democrazie è la stupidità. Sarei più incline alla fuga solitaria, al rispondere solo di se stessi, al distacco totale dall’idra morbosa dell’opinione.
Ma non dimentico che quello che ho appena letto non è un saggio, ma un romanzo. La differenza tra un saggio e un romanzo non è nello stile e nel linguaggio, ma nel fatto che nel secondo si indica una strada che può valere solo, fino in fondo, per chi l’ha scritto. Quello che davvero vale per tutti, invece, è l’amore viscerale di Piccolo per il presente, il suo rimanere ben piantato nella vita che gli è toccata, quell’assoluta, purissima incapacità di stare altrove che ci ha raccontato fin dai suoi primi libri. È con un brivido di empatia e complicità che lo ritroviamo ancora qui, che in fondo è l’unico posto dove si possa stare con dignità e con spirito poetico, sempre a caccia dei suoi momenti di felicità.
I menagrami e i moralisti non ci crederanno mai, ma è un’attività che basta da sola a riempire un’esistenza.

Corriere 28.10.13
Così a San Valentino Craxi uccise un amore (oltre alla scala mobile)
I sindacati divisi e il pupazzo di Snoopy
di Francesco Piccolo


Alla fine, dopo aver tentato fino all’ultimo secondo di chiudere un accordo condiviso da tutte le parti, il 14 febbraio del 1984 il governo emanò un decreto legge che metteva in moto il processo di abolizione della scala mobile, tagliandola di quattro punti (percentuali). Come si disse più volte nei mesi successivi, si era trasformata in una questione simbolica (nella pratica, il decreto avrebbe inciso pochissimo sugli stipendi, quindi la soluzione era, come volevano i sindacati, blanda); ma era un cambiamento epocale sia rispetto al rapporto tra il salario e l’inflazione sia (soprattutto) rispetto all’idea di condivisione e collaborazione tra governo e parti sociali. Perché quello di Craxi fu uno strappo — dopo mesi di trattative — dalla cui parte si schierarono due grandi sindacati su tre, e che quindi segnò la fine anche dell’armonia sindacale. All’interno della Cgil ci fu la divisione tra socialisti e comunisti; e tra i comunisti ci furono parecchie tensioni, perché non tutti erano d’accordo. Nella sostanza, anche se il cammino fu tortuoso, la storia della scala mobile si risolse di fatto il giorno in cui il governo di Craxi emanò il decreto.
Quel decreto venne chiamato, ed è ancora oggi chiamato da tutti: il decreto di San Valentino.
Quindi, quando Elena mi disse che anche il giorno di San Valentino si fa politica, non mi stava soltanto rimproverando, ma stava anche facendo una specie di profezia concreta. Su noi due, e sul Paese. Su noi due si concretizzò all’istante, sul decreto qualche anno dopo.
Per questo Elena rifiutò il mio regalo, e fece bene. Certo, non mi amava; ma adesso potevo comprendere senza più ambiguità che non mi amava perché una di sinistra non amava uno così.
Il decreto di Craxi in opposizione alla volontà di Berlinguer fece ingresso nella mia vita per dare il colpo finale anche a quel mio azzardo sotto forma di Snoopy avvolto nella carta rosa. Dimostrava in pratica — quasi si potrebbe dire che quantificava — la grandezza del mio errore, quanto fossi fuori sincrono con il mondo a cui aspiravo, e perfino con l’amore a cui aspiravo.
Nel giorno di San Valentino, in due tempi diversi, si è perfezionato, anche se a mio sfavore (e né qualche anno prima né in quel momento avrei potuto immaginare quanto), il mio rapporto tra la vita privata e la vita pubblica. Perché da quel giorno il rapporto con l’amore sarebbe cambiato per sempre, trascinandosi dietro un incontrollato desiderio di rivalsa, di riscatto, di vendetta — per sintetizzare, avrei vissuto l’amore per il resto della mia vita con un misto di concretezza (avere a che fare soltanto con amori possibili) e di cinismo (non avere nessun timore di provocare sofferenza, perché ero in credito illimitato con la sofferenza); la mia idea di me stesso, in piedi nel buio con un pupazzo di Snoopy in mano, sarebbe diventata l’immagine di un rimprovero continuo: prima a me stesso, e poi a chiunque volesse amarmi.
Ma anche la giustificazione a ogni malefatta sentimentale per il resto della mia vita: ne ho diritto perché ho sofferto in modo inconsolabile quando ho amato la prima volta.
E all’opposto, quattro anni dopo, la mia adesione al Partito comunista eliminò ogni possibile criticità, e cominciò a correre verso la risoluzione delle contraddizioni.
Oltre che per un’idea concreta e del tutto sincera, da parte di Craxi e del suo governo, di tentare di mettere un freno all’inflazione, il destinatario reale di quel decreto era davvero Berlinguer, era la sfida definitiva lanciata al suo avversario.
Berlinguer accolse la sfida.
La scala mobile era il mezzo per la divisione tra due partiti — tra due uomini. Era l’oggetto della disputa, ma era anche il modo di concretizzare una disputa che era nell’aria da tempo, così come Elena aveva usato lo Snoopy per stanare la distanza tra noi due. Quello fu l’ultimo giorno del nostro fidanzamento, quell’altro fu l’ultimo giorno in cui si poté sperare in un dialogo tra le due sinistre.

Corriere 28.10.13
Gli storici prigionieri dei documenti
di Alberto Melloni


Nella società dei «leaks» e dei grandi numeri non s’è affatto ridotto il rischio che ciò che è irrilevante ma segreto diventi più importante di ciò che è noto, anzi. È una concorrenza antica quella fra curiosità e storia. Con la sola differenza che oggi la storia fa più fatica, per colpa di chi la pratica, a documentare il valore dello studio di svolte, processi, radici, che affondano in un presente altro e lontano. Ancor più arduo è l’edizione di fonti: un esercizio screditato dai sistemi di valutazione vigenti senza il quale il giudizio storico diventa opinione fragile, se mai imballata dagli «in qualche modo» e dagli «abbastanza».
Il problema non è italiano. Anche se altrove la produzione di conoscenza ha la solidità di una industria del sapere che da noi s’è svilita da sola. Ne fa fede quello che sta facendo Brill, trecentotrent’anni di attività editoriale alle sue spalle, una delle case editrici più autorevoli e longeve della storia culturale europea, capace di coniugare qualità ed affari, in una feconda concorrenza con Brepols o Peeters nello stesso angolo nordoccidentale del continente. Nessuno dei suoi sobrissimi capi, ch’io sappia, s’è mai lagnato dei destini del libro, dell’incultura delle nuove generazioni: hanno lavorato bene, sono entrati nel digitale senza seguire i fattucchieri della Rete, ed anche in questo settore hanno fatto reputazione e soldi all’antica: guadagnandoseli. Cosa che le accadrà con una nuova impresa editoriale basata su una grande selezione (cinquemila documenti, quarantamila pagine) di alcuni dossier che stanno nei grandi archivi politici, militari e dell’intelligence americana. Da quando nel luglio 1966 il Freedom of information act (Foia) aprì gli archivi federali nella logica di una amministrazione trasparente ai cittadini gli Stati Uniti hanno infatti dato accesso a documenti, in origine delicatissimi. Veniva messa la censura, se era il caso, solo su ciò che riguardava l’identità degli informatori o la sicurezza nazionale, con esiti talora comici (come quel rapporto Cia sul conclave del 1963 nel quale si spiegava che «l’arcivescovo di Palermo [censurato] ci ha detto che...»). Perché il vero filtro invisibile posto su quelle carte era infatti quello della loro sovrabbondanza che poteva disorientare il lettore meno preparato. Una grande macchina politica, militare e spionistica, infatti, analizza e costruisce scenari reali e irreali, realistici e irrealistici per mestiere. Chi sa capire che le politiche vere si vedono, intuisce il valore di ciascuna carta. Chi non ha senso storico crede di aver trovato un golpe o una invasione immaginaria ad ogni faldone.
Chiunque in questi decenni ha potuto leggere, fotocopiare, studiare tutto: a tal punto che nel 2006 l’amministrazione decise di iniziare il ritiro di interi dossier militari e di intelligence , con una operazione che venne denunziata da uno storico militare, Matthew M. Aid, ex militare condannato a un anno di galera e radiato dall’Air Force negli anni Ottanta per aver portato a casa dei documenti riservati. Nella sua ricca attività di pubblicista, però, Aid ha collezionato una selva di documenti che ora Brill mette a disposizione per poche migliaia di sterline nel suo ricco settore delle banche dati.
La serie sulla Guerra fredda copre il periodo 1945-1991 e svela i tentativi di carpire segreti sovietici con aerei spia ed improbabili paracadutisti da infiltrare in Russia. La serie sul Medio Oriente documenta il sistema di raccolta delle informazioni dal 1945 fino alla prima guerra dell’Iraq e alla costruzione della «documentazione» sulle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein del 2003-2006. Il golpe di Gheddafi, la «guerra imposta», il fallito programma nucleare siriano, lo spionaggio in Israele sono documentati attraverso migliaia di carte. Il cui pregio non sta nel vedere ciò che videro solo pochissimi fuori dallo studio ovale: ma nel fornire una selezione e nel dare data certa a questioni rilevanti. Una operazione piccola, ma vitale per non imprigionarsi nel dettaglio.
Se Brill vorrà fare lo stesso per la politica Vaticana degli Stati Uniti, anche coriandoli ora diffusi da Wikileaks troveranno il loro senso. E di un dispaccio da Roma di Brent Hardt, già reso noto da Assange, in cui si spiegava che Bergoglio impersonava «le virtù del pastore saggio», «riluttante agli onori», temuto per la «vena liberal», desideroso di vivere la dimensione della «chiesa locale, piuttosto che una carriera burocratica nelle strutture ecclesiastiche di Roma», capace di «colmare il fossato fra chiese locali e curia romana», rimarrà scolpita la data: 18 aprile 2005.

Repubblica 28.10.13
Quando il matematico sbaglia a fare i conti
di Mario Pirani


Quasi mai perdo tempo a rispondere alle esternazioni antisemite, oggi rese più frequenti grazie all’uso di Internet ed altri mezzi di comunicazione,— specie se si tratta di materiale propagandistico, reperibile fin dalle origini nelle pattumiere del nazifascismo. Contestarle non servirebbe a far balenare il lume della ragione in convincimenti nutriti da secoli di calunnie e di menzogne, ma se mai a dar loro spazio per ripetere lugubri minacce e maledizioni. Talvolta, peraltro, mi sento indotto alla rottura del silenzio se la bestialità antiebraica viene pronunciata da chi non te l’aspetti o per storia o per cultura e, quindi, ci si sente obbligati a far richiamo alla ragione. Una speranza, peraltro, soggetta sovente, all’illusione anche perché, esaminando con attenzione passate biografie ci si accorge che raramente l’antisemita è caduto in un occasionale impulso e già altre volte una mezza frase, una battuta, una citazione hanno rivelato il suo sincero e originale stato d’animo.
È il caso in cui è incorso il matematico Piergiorgio Odifreddi il quale, non sappiamo se stimolato da qualche nascosta “comprensione” per Priebke, ha creduto di dare prova di libero pensiero associandosi, nel blog che abitualmente lo ospita su Repubblica, a un altro lettore nel sostenere «il valore semplicemente propagandistico del processo di Norimberga ai gerarchi nazisti» per poi definire le «camere a gas impossibili per motivi tecnici e logici oltre che storici ». Al che un “Bene! Bravo! Bis” deve essere sfuggito dall’ugola del matematico, che appare poco aduso alla logica e alla matematica. Almeno così pare se subito si precipita ad esprimere la sua concordia con il lettore negazionista al quale assicura: «Su Norimberga confesso di essere molto vicino alle sue posizioni. Il processo è stato un’opera di propaganda. I processati hanno dichiarato con lapalissiana evidenza che, se la guerra fosse andata diversamente, a essere processsati per crimini di guerra sarebbero stati gli alleati. Non entro nello specifico delle camere a gas perché su di esse so soltanto ciò che mi è stato fornito dal ‘ministero della propaganda’ alleato nel dopoguerra. E non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che uniformarmi all’opinione comune. Ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti».
Non leggo altri brani, il cui disgusto va molto al di là dell’abituale casistica antisemita. C’è da aggiungere che appena pervenuto a Repubblica.it la prosa dell’Odifreddi è stata subito espurgata dal portale. Purtuttavia alcune copie sono sfuggite e pervenute ad altri giornali che non hanno mancato di esprimere la loro indignazione. Tra l’altro è stato ripreso un libro postumo di Shlomo Venezia, uno dei pochi sopravvissuti, incaricati nei gulag di disseppellire i corpi, che in una delle pagine più drammatiche di Sonderkommando Auschwitz (Rizzoli 2007), tradotto in 24 lingue, racconta dell’unica volta in cui fu ritrovata all’apertura dei forni una creatura viva. Si trattava di una neonata attaccata al seno della madre defunta. «L’abbiamo presa e portata fuori, ma ormai era condannata: ci pensò una SS, sulla soglia delle celle che la finì con uno sparo in bocca». Forse una gita scolastica ai lager gioverebbe al matematico che si giustifica con l’ignoranza. A meno che non ci risponda con le Maledizioni di Lutero contro i giudei: «Essi sono cani assetati di sangue di tutta la cristianità e assassini di cristiani per volontà accanita e gli piace talmente farlo che sovente sono stati bruciati vivi sotto l’accusa di aver avvelenato le acque e i pozzi, rapito bambini e averli smembrati e fatti a pezzi, con lo scopo di raffreddare la loro rabbia con del sangue cristiano». Un richiamo bibliografico per il cattedratico sprovveduto: Van den Juden und thren Luegen, (1543).

Repubblica 28.10.13
Davanti a Pilato
Perché Gesù fu condannato senza ricevere un  giudizio
Nel suo saggio Agamben rilegge l’incontro tra Cristo e il procuratore come il conflitto tra due mondi destinati a non sfiorarsi
di Gustavo Zagrebelsky


Le narrazioni evangeliche dei detti e dei fatti riferiti a Gesù sono da sempre un fondo inesauribile d’interpretazioni teologiche, politiche e teologico-politiche d’ogni genere. Ciò vale in modo particolare per il processo davanti a Pilato e la morte in croce del Nazareno. Giorgio Agamben, in un suo recente, densissimo piccolo libro dal titoloPilato e Gesù(Nottetempo), compie, intorno a quelle vicende, una ricerca archeologica nel senso ch’egli, nei suoi studi, attribuisce all’arché delle cose. Ciò che vale per l’archeologo che si pone sulle tracce delle civiltà sepolte, ne disseppellisce i reperti, li ripulisce dalla polvere, dalla sabbia e dalle incrostazioni e li riporta in pristino stato, vale anche per l’archeologo che va alla ricerca non di cose, manufatti o singoli avvenimenti, ma del significato primigenio delle cose. Non si tratta del piacere erudito per leantiquitates. È invece ricerca dei significati originari, occultati, travisati, manipolati nel corso del tempo ma, tuttavia, soggiacenti e pronti a riemergere, se e quando qualcuno li riporti alla luce e, così, in vita.
Secondo l’interpretazione ricevuta, Gesù fu sottoposto a un processo promosso dai sinedriti per ragioni di natura religiosa (blasfemìa) che comportavano la messa a morte. Poiché, però, nella provincia romana della Palestina l’autorità locale aveva perduto il potere di vita e di morte e lo jus gladii era passato nelle mani del procuratore di Cesare, essi si rivolsero a Pilato, muovendo un’accusa di sedizione. Pilato, a conclusione d’un processo svoltosi tra dubbi, titubanze e viltà, pressato dalla folla aizzata dai sacerdoti, forse contro la sua stessa volontà lo condannerà alla crocifissione in base alla lex Julia maiestatis. La regolarità delle procedure è stata oggetto di accanite discussioni, secondo il diritto romano del tempo e secondo i precetti vigenti nella Giudea d’allora (la più approfondita discussione in proposito è, a mia conoscenza, quella del giurista israeliano Chaim Cohn, Processo e morte di Gesù, Torino, Einaudi, 2000). Agamben non entra nel merito di questa discussione perché non ne ha bisogno. La sua tesi, fondata su una lettura del Vangelo di Giovanni, è che non si trattò affatto, né poteva trattarsi, di un giudizio, con tanto di atto d’accusa, discussione tra le parti, sentenza di condanna.
La chiave per la comprensione della tesi di Agamben è in Gv3, 17: «Dio non ha mandato il suo figlio nel mondo per giudicarlo, ma per salvarlo». Pilato, a sua volta, è invece in Palestina per giudicare, non per salvare. Tra salvazione e giudizio c’è la distanza che separa due mondi incommensurabili che non possono incontrarsi, almeno fino alla consumazione dei tempi. La salvazione riguarda il regno di Dio, del quale il Cristo si proclama signore: riguarda la “economia della salvezza”, il mondo di lassù; il giudizio riguarda invece il regno degli uomini, del quale signore è il Cesare di Roma e, in nome suo, il procuratore in Palestina, il mondo di quaggiù. Nel faccia a faccia tra Pilato e Gesù, vi sarebbe stato dunque solo contatto esteriore di questi due mondi, ma non una relazione capace di generare un autentico giudizio (giusto o ingiusto: non è questo che interessa). Ogni vero giudizio ha una struttura bilaterale che si compone in unità nella sentenza. Se fosse unilaterale, non vi sarebbe sentenza, ma violenza. «Qui davvero [nel litostrato, pavimento di pietra] … due regni stanno l’uno di fronte all’altro senza riuscire a giungere a compimento. Non è nemmeno chiaro chi giudichi chi, se il giudice legalmente investito dal potere terreno o il giudice per scherno [riferimento al manto di porpora, alla canna come scettro, alla provocazione: “Giudicaci!” messa in bocca ai Giudei] che rappresenta il Regno che non è di questo mondo. È possibile, anzi, che nessuno dei due pronunci veramente un giudizio » (p. 53).
La reciproca estraneità impedisce dunque a Pilato di pronunciare la sentenza. Come potrebbe, in quanto governatore del regno di quaggiù, giudicare il regno di lassù? Il procedimento, infatti, secondo Agamben, si conclude con un fatto materiale: la mera consegna di Gesù –traditio – ai suoi carnefici (Gv 19, 16). D’altra parte, Gesù prende laparola soltanto per affermare l’estraneità del suo regno a quello di Pilato e la comune discendenza dell’uno e dell’altro dalla volontà del Padre. Ma, in quello che avrebbe dovuto essere il suo processo, egli tace completamente. Testimoniare, qui e ora, della verità del Regno che non è qui e ora, significherebbe accettare che ciò che vogliamo salvare ci possa giudicare, che le creature giudichino l’eterno: accettare, cioè, come verità ch’esse non vogliono essere salvate. Poiché nei giudizi terreni non possono esserci parole di salvazione, al Cristo non è dato d’intrecciare le sue parole con le loro. Simmetricamente, però, anche a Pilato è tolta la parola, perché il giudizio non può avere a che fare con la salvezza. Pilato, sotto questo aspetto, evitando di pronunciare la sentenza, si mostra consapevole della natura della questione che pende davanti a lui. «Qui è la croce, qui è la storia », conclude Agamben così, con una piccola frase in cui si compendia un’incomprensione, un’impossibilità d’incontro, plurimillenaria.
Se abbiamo bene compreso,quali che siano le ragioni testuali su cui si basa l’interpretazione di Agamben, un’altra tessera nel processo interpretativo delle vicende del processo e della morte di Gesù viene a collocarsi accanto a numerose altre. Non solo: si tratta d’una visione che va ben al di là di questo. Riguarda in generale il mai risolto rapporto tra i due regni: il reddite Caesari e il reddite Deo di Mt 22, 21. Secondo la vulgata, Gesù è condannato da tutte le potenze della terra, simbolizzate dall’accordo di Pilato, delle autorità del sinedrio e della folla, coalizzati contro l’irruzione, ch’essi rifiutano, del divino nella storia umana. In questa interpretazione c’è conflitto, perché Cesare prevarica su Dio: un mondo (i poteri della terra) entra nell’altro mondo (la misericordia divina) e lo sconfigge con una sentenza di morte. Ma, la strada, tuttavia, è aperta per l’opposta soluzione del conflitto: la sconfitta del mondo da parte della misericordia divina: «Padre, perdona loro…».
Secondo Agamben, il processo e la morte di Gesù sarebbero invece impostati sul presupposto d’un dualismo terra-cielo senza incontro, né gerarchia tra loro. A Pilato, il giudizio; al Cristo, la salvezza: punto e basta. Se vengono a confronto, «finiscono in un comune, indeciso e indecidibile non liquet» (p. 63) perché entrambi hanno le loro autosufficienti che non solo non s’incontrano e non si scontrano, ma hanno anche il medesimo, altissimo, fondamento in Dio: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dall’alto » (Gv 19,11). Il medesimo concetto è sviluppato da San Paolo nel celeberrimo capitolo XIII della lettera ai Romani, il cui senso si compendia nel “nulla potestas nisi a Deo” che ha, come corollario, l’invito, rivolto ai cristiani, a stare sottomessi alle autorità costituite.
Questo dualismo senza interferenze conduce però a un’impasse morale, a un paradosso che può rivelarsi tragico in situazioni estreme, come fu quella d’un fedele cristiano ch’era anche cittadino leale al potere. Ne ricordiamo la vicenda per mostrare quanto le più apparentemente astratte discussioni teologiche possano incidere nella carne viva delle persone. Un uomo di fede evangelica certa – Kurt Gerstein (recentemente menzionato in un libro di Marco Rizzo, Cesare e Dio, Bologna, il Mulino, 2009) – nel momento della presa del potere da parte di Hitler, aveva aderito al nazismo, arruolandosi nelle SS. A fondamento della sua scelta stava il «date a Cesare quel che è di Cesare » e il «nulla potestas nisi a Deo». Nel 1938, però, scoppia la contraddizione. Davvero, egli si chiese, la parola di Dio «si trova nelle stelle», come dice Schiller; davvero la giustizia di cui parlano i potenti della terra è solo una “prostituta di Stato” e davvero, la voce di Dio non ha nulla da dire in proposito, riservandosi per il momento finale della consumazione dei tempi? Tormentato da una coscienza impigliata tra due fedeltà contraddittorie, a Dio e a Hitler, alla fine trovò la via d’uscita togliendosi la vita. Ecco che cosa può significare per un cristiano che prende sul serio la sua fede l’idea che il cielo sta a guardare la terra, nel tempo in cui sulla terra ci tocca di vivere. Se fosse così, il cristiano che s’interroga su che cosa il suo Dio chiede da lui dovrebbe riconoscere che questa sua domanda cade nel vuoto e dovrebbe disperare: il suo Dio non gli fornisce criteri di giustizia, perché sua è soltanto la salvezza e la salvezza sta in cielo, non in terra. Gli verrebbe a mancare ogni punto d’appoggio morale. Cadrebbe nel vuoto il motto degli apostoli, condotti a giustificarsi di fronte al sinedrio: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5, 29).

IL LIBRO Pilato e Gesù di Giorgio Agamben (Nottetempo pagg. 66 euro 6)
A sinistra, Niccolò Frangipane: Gesù davanti a Pilato

Repubblica 28.10.13
La memoria del futuro
Così costruiremo i nostri  ricordi
Per curare disturbi mentali, ma anche per creare conoscenze artificiali finora inedite
di Elena Dusi


Si potranno ricordare cose mai vissute o cancellare dalla mente le esperienze negative. La scienza riscrive il cervello. Come in un film
Stimoli magnetici, piccole scosse elettriche. E farmaci sperimentali.
Si moltiplicano i test che (come in un film di fantascienza) trasferiscono nuove informazioni al cervello.

Memorie cancellate. Ricordi creati dal nulla. Elettrodi che recapitano corrente agli strati profondi del cervello. Stimoli magnetici capaci di alterare la percezione del bello o del giusto. Gentili scosse da pochi milliampere che danno “la sveglia” ai neuroni. Minuscoli cervelli allo stato embrionale cresciuti in provetta anziché in un grembo materno a partire dalle cellule staminali. E l’astrofisico Stephen Hawking nel frattempo rassicura: «Raggiungeremo l’immortalità. Saremo un giorno in grado di trasferire le informazioni del nostro cervello su un supporto artificiale».
Un’idea simile — l’architettura della mente umana riprodotta nel silicio di un computer — riceverà un miliardo di euro in dieci anni dall’Unione Europea. Non di fantascienza si tratta, ma di un progetto bandiera che coinvolge 90 università e centri di ricerca in 22 paesi del continente. Negli Usa, contemporaneamente,a un’iniziativa analoga il presidente Obama ha promesso 3 miliardi di dollari.
Il santuario della nostra coscienza e personalità ha dunque smesso di essere impenetrabile. L’homo faber ha iniziato a mettere mano alla parte più sacra e protetta di sé. Dopo decenni di risultati non proprio eclatanti da parte della chimica e dei farmaci, i nuovi “artigiani” della materia grigia promettono ora risultati concreti per alcune malattie mentali. Trasmettendo un po’ di inquietudine, mescolata alla giusta speranza.
Sembra la trama di “Total recall”,maèunesperimento reale: studiando dei topolini nel suo laboratorio dell’università della California a Irvine, il professore di Neurobiologia Norman Weinberger è riuscito a inserire dei minuscoli elettrodi nel cervello fino a raggiungere la corteccia uditiva. E lì ha impiantato dei ricordi artificiali: memoria di esperienze (in questo caso uno stimolo sonoro) mai avvenute. La descrizione dell’esperimento è uscita il 29 agosto su Neuroscience.
Weinberger oggi spiega: «Lanostra ricerca dimostra che è possibile inserire nel cervello specifici contenuti di memoria. Questi ricordi sono completamente falsi: non nascono da un’esperienza. Secondo i nostri risultati sarebbe possibile creare finte memorie anche negli esseri umani, ma a questo stadio della ricerca abbiamo solo l’obiettivo di svelare come funziona il meccanismo della fissazione dei ricordi. Non ci poniamo scopi terapeutici».
Sulla stessa strada troviamo le sperimentazioni sull’uomo di un farmaco che i ricordi, al contrario, li cancella. L’obiettivo è aiutare le persone colpite da quello stress da disordine post-traumatico che affligge soprattutto gli ex soldati. La sostanza usata si chiama “Propanolol” e sabota il delicato processo che nel cervello avviene quando un’esperienza è immagazzinata sotto forma di ricordo. Questa sostanza chimica — allo studio da una decina di anni sui veterani o sulle vittime di incidenti che arrivano al Pronto soccorso — parte dal principio che tanto più un’esperienza è carica di significato emotivo (paura in primis, ma anche gioia o ansia), tanto più il ricordo sarà fissato in modo indelebile. Il propanolol attenua la risposta emotiva a un trauma. E quindi smorza la preminenza di un evento doloroso nella gerarchia delle memorie.
Cancellare o scrivere memorie come se il cervello fosse una lavagna è una delle invenzioni che nascono nel cinema prima ancora dei laboratori. In Se mi lasci ti cancello due ex fidanzati si rivolgono a una clinica per eliminare ogni traccia mnemonica della loro relazione. L’effetto, paradossalmente, è dimenticare quel che è successo e tornare a innamorarsi durante un nuovo incontro. InTotal Recall una ditta promette ai suoi clienti la creazione di ricordi partendo da esperienze che si sarebbe tanto desiderato vivere. Il protagonista si fa impiantare nel cervello la memoria della vita da spia che aveva sempre sognato. Ma un problema tecnico provoca una serie di disavventure in cui si non si distingue più fra realtà e ricordi artificiali.
«Alcuni esperimenti manipolano effettivamente il cervello. E quindi manipolano anche la mente», commenta Michele Di Francesco, rettore dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia e uno dei fondatori della giovane Società Italiana di Neuroetica. «La memoria è la base della nostra identità e senza ricordi l’“io narrativo” si svuota. Certo, tecniche come la stimolazione cerebrale profonda promettono di migliorare i sintomi del Parkinson. Ma per le loro potenzialità, questi metodi richiedono cautela». Il rischio è che l’uomo dal “conosci te stesso” prenda una scorciatoia che lo porti al “cambia te stesso”. «Sarebbe il colmo — prosegue Di Francesco — se la nostra specie che ha sempre cambiato il mondo grazie alla sua intelligenza e cultura, ora iniziasse a cambiare anche se stessa. I momenti di crisi spesso aiutano a crescere. Se una situazione ci rende tristi, la reazione migliore è cambiare la situazione, non cancellare la tristezza».
Tra gli strumenti usati per “entrare” nel cervello e modificare i suoi circuiti ci sono la stimolazione elettrica e quella magnetica. La prima viene usata nel Parkinson o in forme estreme di depressione: un elettrodo sottilissimo viene inserito nel cervello in maniera permanente e invia piccole scosse a gruppi precisi di neuroni. Sono 700mila nel mondo le persone sottoposte a questo metodo. L’americana Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) ha deciso una settimana fa di finanziare con 70 milioni di dollari questi stimolatori. E lo scrittore di fantascienza Michael Crichton alla tecnologia ha dedicato “Il terminale uomo”: a un epilettico viene impiantato nel cervello un computer dotato di elettrodi. Ma l’apparecchio invia impulsi errati, e il paziente diventa un criminale.
Nulla di simile è mai avvenuto nella realtà. Ma una piccola corrente all’esterno del cranio (niente a che vedere con l’energia dell’elettroshock) ha dimostrato di poter avere effetti bizzarri. A maggio, in un esperimento dell’università di Vancouver pubblicato su Current Biology, 25 volontari hanno indossato un caschetto con degli elettrodi, ricevendo una scossa da un milliampere. La loro rapidità nel fare i calcoli a mente è migliorata fino a 5 volte. Ma l’effetto è scomparso dopo sei mesi. Come funzioni il “doping” con la corrente non è chiaro, ma a giugno un altro esperimento ha aggiunto mistero al fenomeno. Una serie di scosse da 2 milliampere (10mila volte meno di una presa elettrica, e la sensazione di una leggera puntura nella testa) ha reso i 99 volontari assai più generosi nel dare i voti alla bellezza di alcuni volti mostrati in foto. Alla tecnica si è allora interessata una ditta che produce videogiochi. La Focus hamessoin vendita a 249 dollari una cuffia che somministra piccole scosse. «Rendi le tue sinapsi più veloci, con la stimolazione elettrica transcranica » recita lo slogan di una tecnologia forse fuggita troppo in fretta dai laboratori.
Altro che dibattiti sul Prozac, insomma. Con l’industria farmaceutica che nell’ambito delle malattie mentali non è andata molto avanti rispetto ai principi attivi degli anni Sessanta, il nuovo orientamento sembra essere quello di impugnare “chiavi inglesi e cacciaviti”. L’azienda Usa Medtronic che vende apparecchi per la stimolazione elettrica sostiene di aver soddisfatto più di 100mila pazienti affetti da dolore cronico, epilessia, fame compulsiva e dipendenze più varie. «L’uso di elettrodi dentro al cervello — secondo Todd Sacktor, neurologo della State University of New York — resterà comunque l’ultima spiaggia, perché richiede un intervento chirurgico. Anche se questi strumenti sono utili nella ricerca, secondo me il futuro della terapia sta nell’uso sempre più perfezionato di scanner del cervello, farmaci e psicoterapia».
La transizione dalla chimica dei farmaci alla stimolazione elettrica è ciò che invece auspica Josef Parvizi, direttore del programma di Elettro-fisiologia Cognitiva a Stanford: «Il linguaggio del cervello è una combinazione di chimica ed elettricità. Finora nel provare a curare le malattie del cervello si è preferito l’approccio chimico, attraverso i farmaci. Ma il costo per il resto del corpo è stato alto. Prendiamo l’epilessia. Se assumiamo un chilo di pillole, 900 grammi finiscono in fegato, pancreas, ossa e solo 100 grammi raggiungono l’organo bersaglio, cioè il cervello. Ma 99 grammi andranno ad agire su aree cognitive che con l’epilessia non hanno nulla a che fare, dando vista offuscata, senso di svenimento, spossatezza. Un grammo solo colpirà i neuroni responsabili della malattia. Questo è un approccio brutale, che va superato. Con farmaci più mirati. Ma anche, se necessario, con l’elettricità».

Repubblica 28.10.13
Roberto Mordacci, filosofo ed esperto di neuroetica: “Terapie, non alterazioni”
“Ma il rischio che corriamo è manipolare la personalità”
intervista di E. D.


«Memoria e personalità sono legate a doppio filo». Manipolare i ricordi significa toccare un tasto delicato: non ha dubbi nemmeno Roberto Mordacci, preside di Filosofia all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano ed esperto di neuroetica. «Se si tratta di curare una malattia, nemmeno il moralista più conservatore potrà opporsi. Ma se l’obiettivo di pillole, elettrodi e stimolazioni magnetiche è soltanto potenziare delle facoltà che sono sane, il discorso diventa più sfumato».
Il confine tra salute e malattia è scivoloso: come decidere quando è giusto “mettere le mani” nel cervello?
«Il confine tra salute e malattia è in effetti una convenzione. Che varia a seconda delle epoche e delle società. Il chirurgo francese René Leriche sosteneva che non esistono persone sane, ma soltanto persone con malattie non ancora diagnosticate. Oggi addirittura anche chi sta bene ma ha una predisposizione genetica a una certa malattia viene considerato alla stregua di un non sano».
Quali esempi di manipolazione del cervello sono giustificabili allora?
«L’uso della stimolazione cerebrale profonda nel caso di Parkinson o di disturbi ossessivo-compulsivi. E anche la cancellazione della memoria, se serve a eliminare ricordi traumatici che non permettono di vivere. Tutte queste tecniche in fondo sono nate in un contesto terapeutico, per curare malattie, ed è giusto che continuino a essere sperimentate con questo obiettivo. In condizioni simili sono terapie, non alterazioni della natura umana».
Qual è il confine tra una manipolazione della memoria legittima e una inaccettabile?
«Nel film Se mi lasci ti cancello il protagonista cancella selettivamente tutti i ricordi legati alla sua storia d’amore appena conclusa. Ebbene, alla fine non fa altro che ricadere negli errori iniziali, come se la sua esperienza non gli avesse insegnato nulla».
E questo a noi cosa insegna?
«Che un ricordo ossessivo, in cui un forte trauma viene rivissuto continuamente, può legittimamente essere cancellato, ammesso che i farmaci ci riescano. Una storia d’amore finita male invece no. Il peso emotivo dei ricordi va gestito eanalizzato. Occorre trovarne il senso. Cancellare una memoria in toto vuol dire cancellare un pezzo di storia personale e basta. È qualcosa che il nostro cervello fa abbastanza comunemente, come Freud ci ha insegnato, con il meccanismo della rimozione. Ma alcuni traumi, come lo scottarsi con l’acqua bollente, sono utili per evitare di ricadere negli stessi errori».
Potenziare alcune facoltà, come la forza di volontà, non potrebbe essere utile?
«In effetti la nostra capacità di resistere alle tentazioni o alle provocazioni è limitata. Quando sforziamo a lungo questa facoltà, poi basta uno stimolo molto piccolo per far crollare l’autocontrollo. Ecco perché dopo una giornata di tensioni sul lavoro si torna a casa e ci si arrabbia per un nonnulla con il proprio figlio. Che venga escogitata una neuro-stimolazione capace di migliorare questa facoltà potrebbe non essere un male».
Idea inquietante.
«Il problema è quando la stimolazione viene indotta con scopi esterni all’individuo. In un supermercato uno strumento così sarebbe pericoloso. È vero che il neuro- marketing è una disciplina ormai matura, ma dirigere le persone verso determinati scaffali direttamente con uno stimolo sui neuroni può diventare rischioso: è una vera manipolazione. Per carità, le influenze che subiamo senza esserne coscienti sono tante e pesantissime. Ma l’illusione di essere comunque un po’ gli autori della nostra esistenza è qualcosa cui non vogliamo certo rinunciare».
Per migliorare alcune funzioni del cervello esistono già anche dei farmaci.
«E sembra che vengano usati spesso dagli studenti negli Stati Uniti. Medicinali come ilRitalin o ilProvigil aumentano la soglia dell’attenzione e della concentrazione. Permettono, in molti casi, di preparare un esame nella metà del tempo normale. Ma ci si è accorti che il cervello perde queste informazioni assai rapidamente. Le nozioni infatti sono state immagazzinate e non elaborate. Non sono cioè state organizzate secondo nessi causali. Se invece fosse possibile migliorare la capacità di immagazzinare informazioni senza perdere quella di elaborarle, allora perché dovremmo dire di no a delle tecniche che agiscono direttamente sul cervello?»

Repubblica 28.10.13
Lacan, un marziano a Roma
di Antonio Gnoli


Alcune eventi hanno il sapore della coincidenza, ma sono solo il frutto della casualità. Sessant’anni fa Lacan venne a Roma per una di quelle conferenze che sarebbero diventate celebri (ora negli Altri scritti,editi da poco da Einaudi). Da poco aveva rotto con la tradizionalissima società di psicoanalisi francese, mettendo al centro dell’inconscio la parola e il linguaggio. Cominciava allora ad affacciarsi lo strutturalismo. Ci si potrà domandare che cosa compresero gli astanti di quest’uomo i cui discorsi erano tanto geniali quanto astrusi. In mezzo al balbettio e al disorientamento, le cronache riferirono di una fascinazione montante. Poi, quell’anno, era il 1953, accadde qualcosa di incredibile: un’astronave atterrò su Villa Borghese e dalla scaletta scese un soggetto assai bizzarro. Non portava il cappottino a mezza coscia, né fumava sigari. Era solo un marziano, un marziano a Roma, uscito dal racconto di Ennio Flaiano. Tra i due episodi non c’è relazione. Eppure, a pensarci bene, Jacques aveva tutto dell’alieno, a cominciare dalla lingua. Concluse il suo discorso, puntando il sigaro sui presenti e invitandoli ad aprire bene le orecchie ai “meravigliosi dialoghi da strada”. Lì, ad un angolo, un omino in tuta verdastra prendeva appunti.

Repubblica 28.10.13
Lou Reed
In quelle rughe c’è la storia del mondo
di Michele Serra


LOU Reed era nato a Brooklyn nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, quando il rock’n’roll non era ancora stato partorito dalboogie e dal blues.
La società in cui è cresciuto era, almeno in apparenza, molto più ordinata e regolata di quella in cui Reed ha concluso la sua lunga avventura di uomo e di artista poco dopo avere compiuto i settant’anni, un’età che vede molti suoi colleghi ancora dritti in mezzo a un palcoscenico.
C’è una sua foto da studente che pare quella di un nostro remoto antenato, come tutte o quasi le foto degli anni Cinquanta. È invece, anagraficamente, la foto di un nostro fratello maggiore o padre. Con i capelli corti, gli occhiali, l’aria per bene che avevano i ragazzi prima dello squasso politico-esistenziale degli anni Sessanta. Difficile perfino intuire, in quel viso, il volto segnato e i tratti scavati dell’artista “maledetto”, notturno, pallido e scuro, che ha conquistato la fascia più colta e irrequieta della scena musicale americana e — di riflesso — mondiale.
Tutti i volti invecchiano. Ma nella generazione di Lou Reed impressiona riconoscere in una sola persona, in una sola biografia, un passaggio d’epoca così sconvolgente. Dalla cravatta del college e dal decoro di una famiglia ebraica piccolo borghese (chissà se simile a quelle descritte da Philip Roth o Woody Allen) alla scena underground e al “chiodo” di pelle nera che ha indossato per il resto della sua vita il passo è stato, per chi lo ha fatto, vigoroso e istintivo. Ma a ripensarlo a distanza, quel passo, si capisce che in poche altre epoche il mondo è altrettanto cambiato; e che poche generazioni sono cambiate, cambiando il mondo, come quella che è cresciuta in Occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Degli abusi di sé, delle droghe, dell’oltranzismo esistenziale, della coerenza espressiva (mai nemmeno mezza concessione alla “gradevolezza”) di Lou Reed dicono diffusamente i suoi biografi e i suoi critici, che sono quasi tutti, da sempre, meritatamente entusiasti. Difficile, del resto, non ammirareun artista così poco appagato, febbrile sperimentatore anche quando avrebbe potuto comodamente ripetere il suo canone, in continuo e cangiante sodalizio con star di calibro almeno pari al suo (John Cale e i Velvet Underground, Andy Warhol, David Bowie, Laurie Anderson), fotografo, cantante, chitarrista, compositore, attore, poeta, teatrante, scrittore (con Lorenzo Mattotti che illustra la sua rielaborazione delCorvo di Poe), multimediale da prima che la multimedialità prendesse piede fino da quando collaborava con la Factory di Wharol.
Quanto alla natura “nera” della sua musica (e soprattutto dei suoi testi), al suo mai edificante racconto di piaceri e desideri cercati ossessivamente, di vite estorte all’anonimato della società di massa, non è inutile riflettere su un pregresso che tutte le biografie di Lewis Allan Reed riportano. A causa della sua “bisessualità”, vera o presunta, ancora adolescente venne sottoposto (dalla famiglia?) a un elettroshock che potesse “curarlo”, e rimetterlo in carreggiata... L’episodio, quanto a “noir”, surclassa l’immaginazione delle peggiori spelonche dell’underground. Rimanda a una società trucemente bigotta, maccartista in politica e sessuofoba nei costumi, che prepara con le proprie mani, per naturale reazione, l’esplosione libertaria degli anni successivi, con tutti i suoi eccessi, il mito delle droghe, la dissolutezza, l’abrogazione dei limiti (anche fisici) che porta all’autodistruzione. La nomea “demoniaca” del rock, spesso tradotta in moda o vezzo, insomma in una facile ripetizione, è per paradosso alla luce del sole, perfettamente emersa, rivendicata. Quanto demoniache siano state — o siano ancora — le pratiche repressive, il perbenismo soffocante, il moralismo castrante, è invece materia meno evidente, e la biografia di Lou Reed aiuta a non trascurarla o dimenticarla. Durante il suo ultimo tour europeo Reed era un anziano, gentile intellettuale della East Coast, il cui repertorio di tenebra, di suoni acidi, di voce poco melodica, poco concessiva, aveva ormai l’effetto familiare di tutti i classici. Leggendo la storia della sua vita, la sola pagina davvero devastante è quella che precede il rock.