martedì 29 ottobre 2013

l’Unità 29.10.13
Sahara, morti di sete 35 migranti
di Sonia Renzini


L’ultima tragedia della povertà arriva dal Niger. A metà ottobre 35 persone sono morte di sete in pieno deserto del Sahara a causa di un guasto al veicolo in cui viaggiavano mentre cercavano di entrare clandestinamente in Algeria per raggiungere l’Europa e cercare una vita migliore.
Lo ha reso noto Rhissa Feltou, primo cittadino di Agadez, la principale città settentrionale del Paese africano che si trova su una delle rotte più trafficate dai migranti provenienti dall’Africa occidentale.
Il viaggio della speranza era iniziato i primi di ottobre da Arlit, centro per l’estrazione dell’uranio a nord di Agadez: due camion di 60 persone si erano dirette verso Tamanrassett in Algeria. Erano interi nuclei familiari, molte le donne e bambini, secondo quanto riferito da Azaoua Mamane, responsabile dell’organizzazione non governativa Synergie. Qualcuno sperava di riuscire a mantenersi mendi-
cando in Algeria, i più tentavano la via dell’Europa, sfidando il pericolo e la morte. Come hanno fatto in centinaia in questo mese cercando di attraversare il Mediterraneo.
Ma è proprio la morte che hanno trovato mentre camminavano senza acqua nel deserto in cerca di aiuto o di un’oasi, dopo che uno dei due camion è rimasto bloccato al confine a 50 chilometri a nord di Arlit.
UN BUSINESS LUCROSO
I migranti si sono suddivisi in piccoli gruppi nella speranza che così fosse più facile sopravvivere, se alcuni si perdevano, magari altri avrebbero potuto farcela. Sperando che qualcuno sarebbe tornato a prenderli: uno dei due camion è ripartito senza nessuno a bordo per cercare pezzi di ricambio e riparare così il guasto. Questo almeno è quanto viene ipotizzato per spiegare la tragedia. Il camion indietro non è mai tornato.
Non è la prima volta che accade. Nel lucroso business di africani in fuga da condizioni disperate capita di
frequente che i trafficanti abbandonino nel deserto i loro carichi di esseri umani, lasciandoli di fronte a una morte certa. Perché chi rimane in mezzo al deserto senza acqua né viveri muore di sicuro, ma quello che conta per questi uomini senza scrupolo che fanno i soldi sulla disperazione della gente è andarsene più in fretta possibile e mettersi al sicuro. Così è stato anche stavolta. Il camion si è dileguato nel nulla, al suo posto è arrivato invece l’esercito informato di quanto avvenuto da cinque sopravvissuti che dopo giorni e giorni di cammino ce l’hanno fatta a raggiungere Arlit e a dare l’allarme. Ma ormai per i più era troppo tardi, solo in diciannove sono stati ritrovati vivi e portati ad Arlitt. Gli altri sono tutti morti o dispersi. Un poliziotto racconta che sono stati rinvenuti i corpi di due donne e tre adolescenti, avevano tra i nove e gli undici anni. Mentre alcuni testimoni raccontano di avere personalmente visto e contato 35 persone cadaveri per strada, ha detto Abdourahmane Maouli, sindaco di Arlit.

l’Unità 29.10.13
La scuola non indugia: in piazza contro i tagli
di Giulia Pilla


ROMA La legge di Stabilità va cambiata, i sindacati della scuola hanno messo in fila una serie di richieste che vanno dal rinnovo del contratto, al pagamento degli scatti di anzianità dal 2012, un piano di investimenti per la scuola pubblica e un piano pluriennale per la stabilizzazione dei precari. Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Gilda e Snals-Confsal si rivolgono a governo e Parlamento e per farsi ascoltare hanno messo in cantiere una manifestazione a Roma per il 30 novembre. «Questo è solo il primo passo», ha detto il segretario generale della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo, «finora abbiamo avuto risposte insufficienti». Anche Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola, promette rilanci e altre mobilitazioni «perché quando c'è di mezzo la dignità delle persone il sindacato non deve fare nessun passo indietro».
Sotto accusa è la doppia penalizzazione dovuta al blocco e a quello degli scatti di anzianità sul quale il dissenso è netto. «Ancora una volta si è voluto infliggere a chi lavora nella scuola un'intollerabile penalizzazione, che non si spiega né si giustifica con le difficoltà finanziarie del Paese denunciano i sindacati È inaccettabile che si prelevino dalle tasche dei lavoratori ulteriori risorse» anche perché in questo modo si indebolisce ancor di più il potere d'acquisto delle retribuzioni, peraltro già basso, mentre mancano per i lavoratori pubblici misure di alleggerimento delle tasse.
Ma non c’è solo questo: la scuola pubblica ha subito pesantissimi tagli, per i sindacati occorre passare agli investimenti, con un piano pluriennale che arrivi ad allineare la spesa per istruzione e formazione alla media europea. Le risorse si possono trovare dicono e puntano l’indice contro la spesa pubblica improduttiva, tagliando i costi di politica e istituzioni, additano gli sprechi e «la scandalosa evasione fiscale».

La Stampa 29.10.13
“Doc” e “convertiti”. I candidati del Pd all’esame di renzismo
Nei congressi provinciali dibattito acceso sul ruolo delle correnti
di Carlo Bertini


ROMA Risuona nelle orecchie di tutti i fedelissimi del sindaco tornati a casa dalla Leopolda il monito lanciato da Baricco sui «sostenitori dell’ultim’ora», risuona specie tra quelli che tengono la contabilità dei congressi provinciali che si celebrano in queste ore. Certo lo sanno tutti che l’andazzo è quello, non è un mistero che i renziani della cerchia stretta stiano monitorando anche questo aspetto: quanti «convertiti», quanti «nostri della prima ora», quanti «loro sostenuti dai nostri» stanno prendendo il timone del partito nei comuni? E nella prima tornata ancora in fieri, quella che elegge i segretari delle vaste province italiane, sta andando in onda la «grande mescolanza» con una ridda di candidati unitari renziani o cuperliani o civatiani sostenuti da «grandi intese» tutte locali.
Tanto per cominciare, va detto che i segretari in questione sono slegati dalle mozioni dei candidati alla segreteria, quindi in teoria chi vuole si candida senza chiedere il permesso a nessuno. Per questo capita che nella stessa città scendano in campo due candidati considerati renziani,
FEDELI ALLA LINEA
Tra i sostenitori del sindaco più di un malumore per chi sale sul carro all’ultimo
uno «doc» e l’altro magari no, ma forte di un appoggio consolidato su numeri stratificati. Sul piano politico, quello che sta capitando nella capitale è uno spaccato utile a capire, perché fotografa una probabile vittoria di un candidato, Cosentino, forte e sostenuto da un’area larga che va da Bettini ad Areadem di Franceschini e Sassoli, tutti supporter di Renzi. Il quale però riconosce il marchio «doc» solo a Tobia Zevi, giovane nipote di Tullia Zevi, lanciato in pista da Gentiloni, che risulta però in svantaggio, visto che secondo è Tommaso Giuntella: all’inizio vicino alla Bindi, poi coordinatore della campagna delle primarie di Bersani e ora ascrivibile all’area dei «giovani turchi» cuperliani.
Sotto i riflettori c’è la provincia di Firenze, dove vince il sindaco di Fiesole, Incatasciato, cuperliano sostenuto dai renziani; ma anche Torino, dove è in testa un ex Ds strutturato e stagionato, come Fabrizio Morri, già senatore, molto vicino a Piero Fassino, considerato però «un convertito», visto che il suo passato di sinistra non lo ascrive al renzismo duro e puro. Come ovvio, i bollettini di guerra divergono nelle due trincee: quello della war room bersanian-dalemian-cuperliana riporta dati contestati dai renziani, perché molti dei vincenti sono sostenuti da larghe intese locali con maggioranze bulgare. Il caso classico è Bologna, dove Raffaele Donini, assembla l’81% dei voti di una grande coalizione dei 4 candidati nazionali, «ex bersaniano che ora voterà Cuperlo, ma sostenuto pure da noi», come ammettono i renziani.
Gli ex diessini dicono di aver vinto cinque federazioni su otto in Lombardia,4su4inAbruzzo,3su3inMolise e di essere in testa a Reggio Emilia e Modena, a Sarzana, La Spezia e Savona in Liguria, così come a Padova, Treviso e Rovigo in Veneto. I renziani danno un’altra lettura più complessa e realistica, meno trionfalistica. A Milano, è in testa un renziano doc come Bussolati, ma a Brescia vanno al ballottaggio: Bisinella, un lettiano convertito renziano, Orlando, renziano appoggiato dai cuperliani e Vivenzi, renziano della prima ora. A Mantova due renziani «doc». A Bergamo vince Riva, cuperliano con un pezzo di renzismo locale nella sua maggioranza, mentre a Pavia già eletto il «doc» Lasagna, mentre a Como c’è un candidato unitario; a Varese, in testa il renziano Astuti; a Monza, vince Virtuani, ex diessino sostenuto da una coalizione di giovani renziani, cuperliani e civatiani contro i vecchi ex Ds ed ex margherita. Quindi nelle dinamiche locali spunta a macchia di leopardo pure una sfida generazionale. A Napoli, vince il renziano Carpentieri con i cuperliani dentro la sua maggioranza, a Vercelli Maura Forte, a Palermo in vantaggio un «doc» Miceli, a Piacenza in casa Bersani, il renziano Molisano e a Crotone Pantisano. «Ma irregimentare i congressi locali su uno schema nazionale è sbagliato e va contro l’idea di partito non costruito sulle correnti ma sull’autonomia dei territori», fa notare il colonnello di Renzi, Lorenzo Guerini. Che non si lamenta dei risultati conseguiti fin qui, anche se la spunta dei «doc» e dei «convertiti», così come degli «unitari», verrà fatta a bocce ferme, tra una settimana, quando il bilancio sarà sul tavolo di Renzi.

Corriere 29.10.13
Dal dileggio alla santificazione ora sono diventati tutti «renziani»
di Pierluigi Battista


O ra è il trionfo della Leopolda. Ora sono tutti «renziani» della prima ora. Ora che Matteo Renzi può sperare in un plebiscito, ora che è considerato nel Pd il salvatore della Patria e tutta la nomenklatura del partito si produce in grandi e spudorati inchini, ora però si potrebbero ricordare le parole sprezzanti di chi lo voleva espellere dal corpo sano della sinistra non un secolo fa, ma un anno fa, proprio in questo scorcio di autunno. O anche due anni fa, esattamente il 5 novembre del 2011 quando, durante una manifestazione del Pd a piazza San Giovanni, Renzi, reduce dalla Leopolda, venne accolto da fischi, invettive, insulti, spintoni: «vai ad Arcore», «Buffone», «sei un Berlusconi», «giù le mani dal Pd». Senza che neanche un dirigente del partito trasmettesse la sua solidarietà al sindaco di Firenze fatto bersaglio di una manifestazione di così clamorosa intolleranza.
Solo un anno fa, per dire la rapidità con cui in Italia si passa dal dileggio alla santificazione, dalla demonizzazione al culto della personalità. Solo un anno fa la stampa che, per così dire, fiancheggiava con più nettezza la politica dell’allora segretario Pier Luigi Bersani, non riservò un trattamento principesco al giovane sfidante. Sull’Unità , giornale del partito, storico quotidiano «fondato da Antonio Gramsci», un intellettuale come Michele Prospero gratificava in prima pagina Matteo Renzi con questo aggettivo: «fascistoide». «Il termine rottamazione ha un’ascendenza fascistoide», così, senza diplomazia. Sull’Espresso si sprecavano sarcasmi sul candidato Renzi che tanto piaceva alla destra, elencando tutti i nemici, da Gasparri a La Russa, da Dell’Utri addirittura sino a Nicole Minetti, che avevano manifestato una sia pur blanda stima per lui. Arruolato persino Lele Mora, di cui venne immortalato un decisivo giudizio politico sull’infido Renzi: «un gran figo, è sexyssimo». Sulle stesse pagine del settimanale si costruì anche il disegno occulto di un diabolico complotto che Renzi, in combutta con l’arcinemico Berlusconi, avrebbe architettato con perfidia per meglio demolire la sinistra dall’interno. Lo ribattezzarono nientemeno che «Piano B», un «piano di rinascita berlusconiana». Solo un anno fa. E solo un anno fa Renzi sfoggiò una risposta che sarebbe diventata un classico del sarcasmo politico: «oltre a me e a Verdini, c’erano anche Luciano Moggi, Licio Gelli, Jack lo Squartatore e Capitan Uncino». Anche Eugenio Scalfari, su Repubblica , metteva in guardia il Pd, perché dalla vittoria di Renzi sarebbe scaturita una mutazione genetica simile a quella imposta da Craxi al vecchio Psi, senza considerare che il programma di Renzi era solo «carta straccia».
Certo, non tutti in quest’anno sono passati sulle sponde renziane, ma pochissimi hanno continuato a usare contro di lui stilemi di aperta ostilità. È rimasta sulla trincea opposta Anna Finocchiaro, che ha gratificato di uno sprezzante «miserabile» il rottamatore fiorentino. Ha invece radicalmente cambiato idea Dario Franceschini che un anno fa definiva il leader ora apprezzato come una «risorsa» alla pari di un «virus che ci ha indebolito»: «un giovane effervescente» ma «mi pare un po’ pochino». Per Susanna Camusso, Renzi era nientemeno che «un problema per il Paese». Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds, faceva i conti in tasca alla campagna elettorale renziana per le primarie, e sosteneva che le spese ammontavano a due milioni 800 mila euro, ben oltre i 200 mila euro regolamentari. Laura Puppato, competitrice nelle primarie, accusava Renzi di essere teleguidato durante i dibattiti, avendo sempre «sottomano il telefonino». Alessandra Moretti, allora tra i principali esponenti della campagna pro Bersani, sosteneva che Renzi era «un maschilista con una corte di donne attorno a lui».
Le accuse discendevano sempre dal sospetto che Renzi fosse un berlusconiano infiltrato nelle schiere della sinistra. Dopo una cena con magnati della finanza a Milano, Bersani criticò il suo avversario che aveva stretto frequentazioni con Davide Serra, colpevole di avere «base alle Cayman». Per Nichi Vendola il messaggio era esplicito, perché Renzi, con cui pure oggi il leader di Sel afferma che è possibile stringere un’alleanza, era portatore di una «marcata adesione ai modelli culturali che debbono essere rottamati». E ancora Vendola: «il suo è un messaggio berlusconiano». Per Rosy Bindi «la sua visione della democrazia non piace alla maggioranza del Pd». Figlio della «demagogia della destra berlusconiana», si disse. E si disse perché sembrava che la rottura politica di Renzi, con un Pd spedito verso la vittoria elettorale, fosse qualcosa di pericoloso. Un anno, ed è arrivato il contrordine.

Repubblica 29.10.13
Pd, Renzi avanti ma Cuperlo tiene parte la conta in circoli e federazioni
Nuovo allarme sul boom di tessere
di Giovanna Casadio


ROMA — Un sms in piena Leopolda, domenica: «Matteo, abbiamo vinto noi nel circolo di Migliavacca». Maurizio Migliavacca è stato il capo della segreteria di Bersani, un carrarmato in fatto di organizzazione. E a cantare vittoria è un renziano della prima ora, Roberto Reggi. La mappa ha ancora molte caselle vuote, ma arrivano alla spicciolata i risultati su chi vince nelle federazioni del Pd: è il primo test. Renziani in testa nelle grandi città, più che soddisfatti di quello che succede in Sicilia, in Toscana, in Emilia. Ma nel quartiere generale di Gianni Cuperlo, lo sfidante del superfavorito Matteo Renzi, in serata elaborano i primi dati: su 74 segretari provinciali, 45 sono cuperliani. Insomma la partita è aperta.
I dati affluiscono, insieme con le polemiche sulle tessere last minute. Ci sono boom diiscritti quasi dappertutto. Sospetti di tesseramenti gonfiati. Roberto Morassut denuncia: «Questo congresso è una rincorsa delle tessere, non va bene. Non lo dico in difesa dell’uno o dell’altro candidato alle primarie nazionali, ma per lanciare un allarme: il Pd non può essere un partito ridotto a comitato elettorale e a cordate». Ecco un lungo elenco di situazioni anomale: a Lecce, 4.700 iscritti nel 2012 e ora sono stata inviate dal nazionale 16 mila tessere, di cui 12 mila sarebbero già distribuite; a Caserta gli iscritti erano 5 mila e ora 13 mila tessere sono state richieste (bisognerà vedere quante saranno sottoscritte); a Catania è stato bloccato tutto per i ricorsi. Ricorsi anche a Grosseto. Nel suo piccolo, pure Piacenza è in tilt: si è passati da 479 a 800 iscritti in una giornata sola. In pratica domenica ben 384 piacentini hanno scoperto di volere diventare democratici. Il renziano Reggi ha minimizzato; Paola De Micheli, lettiana, schierata con Cuperlo, ha detto invece che va fatta chiarezza e che saranno presentati una sfilza di ricorsi.
E intanto i renziani piazzano alcune bandierine e esultano in Toscana dove passano da 2 a 6 segretari provinciali: a Pistoia, a Siena (Niccolò Guicciardini, ex bersaniano, ha il 78%); Lucca, Empoli, Firenze città, Viareggio (dove però si va al ballottaggio). Patrizio Mecacci, coordinatore della campagna di Cuperlo, non è d’accordo: «Per essere degli inseguitori le cose sono per noi confortanti». CitaBologna, dove ha vinto Raffaele Donini, che ha messo tutti d’accordo dai bersaniani ai renziani. A Genova, segretario è il cuperliano Alessandro Terrile. A Roma al ballottaggio in testa è Lionello Cosentino, vicino a Goffredo Bettini, che sfiderà Tommaso Giuntella, ex coordinatore del comitato Bersani e sostenuto tra gli altri dai “giovani turchi”, mentre a Torino in vantaggio al ballottaggio è Fabrizio Morri, ex senatore, fassiniano di ferro e quindi pro Renzi. A Milano avanti sempre in vista dello spareggio è Pietro Bussolati, renziano.
Poi c’è la Sicilia. Un capitolo a parte. Il “caso Crisafulli” crea tensione. Crisafulli, eletto segretario a Enna, è in quota Cuperlo, benché escluso dalle “liste pulite” alle politiche. A Palermo è diventato segretario, Carmelo Miceli, un renziano, sponsorizzato da Davide Faraone. Miceli è avvocato di parte civile nel processo contro Matteo Messina Denaro, e per Faraone sono insensati i ricorsi che stanno agitando il partito. Ad Agrigento ha vinto Giuseppe Zambuto, candidato unitario come il neo segretario di Caltanissetta, Giuseppe Gallè. A Trapani renziano in testa.
Cambio di mano anche a Napoli, dove Venanzio Carpentieri sindaco di Melito, renziano (ma anche l’area Cuperlo lo ha appoggiato) sta per diventare segretario provinciale al posto di Gino Cimmino, ricandidatosi e sconfitto. C’è dappertutto voglia di cambiamento da un lato, dall’altro molti dirigenti locali sono passati sul carro del superfavorito Renzi. A Monza ha la meglio il candidato di Pippo Civati. A Roma altre tensioni per il tesseramento gonfiatoe pioggia di ricorsi.

Corriere 29.10.13
Contano i voti, non le bandiere del Pd
di Paolo Franchi


G ianni Cuperlo ha voluto manifestare il suo disappunto per l’assenza, alla Leopolda, delle bandiere del Pd: se la Fiorentina acquistasse Messi e, il giorno della presentazione, il campionissimo si facesse ritrarre nella foto di rito senza esibire la maglia, i tifosi reagirebbero male. Visto che Messi a Firenze non arriverà, non sapremo mai se, dal lato calcistico, Cuperlo abbia qualche ragione. Ma, dal lato politico, ha sicuramente torto. Per un motivo semplicissimo: a differenza della Fiorentina, dei partiti di un tempo, e dei partiti europei, tutti più o meno in difficoltà ma tutti comunque vivi, il Pd «tifosi», intesi come militanti che coltivino un forte senso di appartenenza a quella comunità, con la sua storia, i suoi simboli, le sue insegne, le sue sedi, i suoi dirigenti, praticamente non ne ha. Se qualcosa di simile a una «tifoseria» esiste, quel che la tiene insieme è solo la comprensibile voglia, dopo tante sconfitte, spesso subite anche per via di clamorosi autogol, di vincere finalmente, costi quel che costi, uno scudetto, o almeno una Coppa Italia. Importa poco con quale modello di gioco, con quale allenatore, con quale capitano, figurarsi che cosa possono contare i vessilli. In molte sezioni comuniste e socialiste, ma pure socialdemocratiche e repubblicane, c’erano ancora le vecchie e lacere bandiere che ignoti compagni, sotto il fascismo, avevano interrato negli orti e nei giardinetti di casa, in attesa di disseppellirle al ritorno della libertà. Con la massima buona volontà, faticheremmo a immaginare un destino anche solo lontanamente paragonabile per una bandieretta del Partito democratico.
L’obiezione è nota. Basta con le nostalgie novecentesche: è il ventunesimo secolo, bellezza, i partiti possono fungere, al massimo, da comitato elettorale del leader. Proprio come gli appassionati di calcio che, campionato dopo campionato, disertano sempre più gli stadi, destinati nel migliore dei casi a fungere da coreografia per lo spettacolo televisivo, chi intende intervenire in qualche modo alla vita politica lo fa con altri mezzi (in primo luogo la Rete) e, quando si reca a delle assemblee come quella della Leopolda, magari pronunciandovi il suo fervorino breve quanto entusiasta, sa bene di partecipare a un evento mediatico finalizzato all’incoronazione del leader. Nel migliore dei casi a una convention , certo non a un congresso. Non è solo il tradizionale partito del Novecento, quello che per i suoi militanti era chiesa, scuola, casa, famiglia, a essere archiviato (come è giusto, ovviamente, che sia, e come è accaduto, o sta accadendo, sotto ogni cielo), ma il concetto di partito tout court . Nel caso della Leopolda, lo si è quasi teorizzato: chissenefrega delle bandiere, contano i voti, soprattutto quelli degli italiani che per la sinistra, o il centrosinistra, non hanno votato mai.
Si potrebbe obiettare che, a dire il vero, anche in passato i partiti, grandi, medi e piccini non si preoccupavano solo di controllare il proprio elettorato di provenienza, ma contendevano voti agli avversari e pure agli alleati. Ma non è questo il punto. Il punto è che il Pd, inteso come partito (solido, liquido o gassoso, fate voi), non è solo «un amalgama mal riuscito», come già qualche anno fa annotò Massimo D’Alema, ma probabilmente non è mai nato, e sicuramente era defunto ben prima che Matteo Renzi decidesse di ridurne al rango di optional le insegne. E, se è per questo, forse non è mai davvero nato, e di certo oggi non esiste più il suo principale competitor : se le parole della politica italiana avessero ancora un senso, la decisione, senza precedenti al mondo, di considerare «sospeso» il Pdl in attesa della sua transustanziazione in Forza Italia 2.0 sarebbe oggetto delle preoccupate attenzioni di torme di politologi di ogni Paese. «Mai più larghe intese», ha giurato Renzi alla Leopolda, proponendosi (e venendo trionfalmente omaggiato, dentro e fuori l’antica stazione ferroviaria fiorentina) come il campione del bipolarismo vero, finalmente tornato all’ordine del giorno e proprio per questo osteggiato dai nostalgici del proporzionale: un bipolarismo (Beppe Grillo permettendo) dotato di un leader, forse di due se il centrodestra riuscisse a evitare l’implosione, ma, di fatto, senza partiti e anzi senza poli dall’identità politica, culturale e sociale riconoscibile. Anche questa, più ancora del «partito sospeso» di cui sopra, sarebbe una novità straordinaria e degna della massima attenzione degli studiosi, quasi una conferma postuma di quella «originalità del caso italiano» che afflisse le nostre giovinezze. Non fosse altro perché un democratico e un repubblicano negli Stati Uniti, o un laburista e un conservatore in Gran Bretagna, si riconoscono a occhio nudo. E, se è per questo, anche un socialdemocratico e un democristiano in Germania. Nonostante per due volte si siano macchiati del peccato delle larghe intese, e si accingano a peccare ancora.

Repubblica 29.10.13
Renzi e i democratici: l’immagine non basta
di Marc Lazar


MATTEO Renzi provoca nella sinistra reazioni contrastanti. I suoi adepti sottolineano il talento di comunicatore del sindaco di Firenze.
Tratteggiano la sua originale personalità, l’età e l’attitudine a vincere le prossime elezioni; mentre i suoi avversari, o più semplicemente i dubbiosi, si preoccupano dell’eccesso di personalizzazione e della nebulosità del suo programma, interrogandosi sulle sue capacità di statista.Peraltro, questo tipo di dibattito, lungi dall’essere specificamente italiano, si ripropone ovunque nella sinistra europea al momento di scegliere il proprio leader.
In effetti, in tutti i Paesi dell’Unione europea la democrazia sta vivendo mutazioni analoghe, che poi si declinano in maniera diversa a seconda della storia, delle istituzioni e dei sistemi partitici di ciascuno degli Stati membri. Dovunque si sta affermando quella che Bernard Manin ha definito la “democrazia del pubblico”, caratterizzata dal declino dei partiti (anche se non scompaiono del tutto), dalla disgregazione delle identità e culture politiche tradizionali, dall’aumento della volatilità, dal ruolo crescente dei leader e dall’importanza della televisione, di Internet e delle reti sociali. Altro grande cambiamento: la disaffezione nei confronti delle istituzioni, l’euroscetticismo generalizzato e il rigetto delle élite dirigenti: tutto questo porta a esacerbare i populismi, cavalcati da leader energici e abili. In queste condizioni, la sinistra è confrontata con un problema cruciale: che tipo di leader designare per far fronte a sfide di tale portata?
Una sua parte ritiene indispensabile adattarsi a questa modernizzazione, e accetta una politica di tipo presidenziale, personalizzata e mediatizzata, per non lasciare la piazza ai leader della destra e ai populisti, e soprattutto per vincere il più largamente possibile. Per converso, un’altra parte della sinistra rifiuta di mettersi su questa strada evocando trascorsi storici traumatici — bonapartismo, fascismo, nazismo, stalinismo — e glorificando la cultura collettiva dei partiti. Si richiama al valore dell’uguaglianza, e rivendica un orientamento nettamente radicato a sinistra. Un dilemma è difficile da risolvere, come dimostra l’esperienza di altre realtà che hanno visto emergere due tipi di leader.
In Italia e in Francia, il Pd e il Partito socialista si sono convertiti — anche se con modalità e forme diverse — alle primarie, che mirano a riannodare i legami con settori della società civile, ma comportano al tempo stesso l’accettazione di una politica personalizzata. In entrambi i Paesi, i vincitori delle ultime primarie indette per designare il candidato alla competizione più decisiva hanno omesso di trarre tutte le conseguenze dal loro successo. Dopo aver vinto le primarie del 2011, François Hollande ha adottato un basso profilo, presentandosi come futuro “presidente normale” e cavalcando l’onda della contrarietà a Nicolas Sarkozy. Ma dopo la vittoria risicata nel 2012, la sua concezione del ruolo di capo dello Stato ha indebolito le condizioni dell’esercizio della sua presidenza della Repubblica. Un anno dopo, Pierluigi Bersani ha adottato un atteggiamento analogo, definendosi innanzitutto come un rappresentante della ditta del centrosinistra. Ma quando la vittoria sembrava a portata di mano, ha subito uno scacco fatale. Sia Bersani che Hollande, convinti oltre tutto che il tempo della polarizzazione su un uomo solo – incarnato rispettivamente da Berlusconi e Sarkozy – fosse ormai finito, si sono sforzati di conciliare le due logiche antagoniste della personalizzazione e del partito.
Altri leader sconvolgono deliberatamente le tradizioni e spazzano via i tabù: come Tony Blair, che a 41 anni si è impadronito del Labour accelerando il processo di modernizzazione già avviato dai suoi predecessori: ne ha riformato l’organizzazione, rifondato l’identità e affermato l’autorità, mettendo in campo un suo modo di comunicare e teorizzando, con l’aiuto di Anthony Giddens, la nozione di Terza via. Tre anni dopo ha conquistato il potere, ponendo fine a diciotto anni di sconfitte elettorali laburiste. In Francia, nel 2006 Ségolène Royal ha tentato un’operazione di tipo analogo e si è imposta alle primarie del partito socialista, per candidarsi, nel 2007, alla presidenza della Repubblica. Ma dopo un inizio dirompente, quando i sondaggi nutrivano tutte le sue speranze, è stata sconfitta. Sconfitta, anche a causa delle forti reticenze all’interno stesso del suo schieramento, delle sue continue improvvisazioni, dell’incoerenza delle sue proposte, ma soprattutto grazie al dinamismo del suo avversario, Nicolas Sarkozy. Sia Blair che Royal sono figure di leader innovatori e iconoclasti.
Per Matteo Renzi, che appartiene indubbiamente a quest’ultima categoria, la personalizzazione della politica è un processo irreversibile; e il “popolo della sinistra” è più disponibile ad accettarla nel momento in cui emerge un leader suscettibile di strappare finalmente la vittoria alla destra. Tuttavia – e questa è la lezione della sconfitta di Ségolène Royal – non basta la capacità di vincere, e neppure il semplice desiderio di cambiamento degli elettori, il carisma e le doti di comunicatore. L’immagine certo è fondamentale, ma non garantisce la vittoria. Per vincere, un leader deve convincere – sull’esempio di Blair – il proprio partito, che resta uno strumento indispensabile nelle campagne elettorali. E ciò presuppone, soprattutto per il Pd – questo «partito senza qualità», secondo l’espressione di Mauro Calise – la definizione di un progetto chiaro, e un’identità che il leader – pur cercando di conquistare voti all’esterno – è chiamato a incarnare.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

il Fatto 29.10.13
Caro Matteo Renzi, così non va
di Stefano Feltri


Ormai l’abbiamo capito: Matteo Renzi è giovane, brillante, ambizioso, vincente (anche per mancanza di concorrenza) e dunque piace a tutti, soprattutto ai giornali. Ma non è soltanto un argomento da sondaggio o una fonte di ispirazione per le imitazioni di Maurizio Crozza. Il sindaco di Firenze non deve più solo piacere, deve convincere. Perché, come minimo, è destinato a guidare il Pd, cioè il primo partito italiano. E se non farà troppi errori, ha ottime possibilità di essere il prossimo presidente del Consiglio. Eppure , finora, non è sembrato abbastanza consapevole di ciò che questo comporta. Continua ad affinare slogan e giochi di parole (cambiare verso al Pd per cambiare verso all’Italia per cambiare verso all’Europa) invece che programmi: a un Paese privato di futuro dalla recessione e dall’insipienza delle sue élite offre una speranza effimera, fondata sulla persuasione retorica invece che su idee forti e su una chiara lista di priorità.
Il primo punto del suo programma è dare 100 euro al mese a chi ne guadagna meno di 2.000. Ma come pagare una simile spesa, tra i 10 e i 20 miliardi all’anno? Renzi e i suoi consiglieri assicurano che, una volta arrivati loro a Palazzo Chigi, riusciranno a fare ciò in cui hanno fallito i governi degli ultimi 30 anni: ridurre la spesa pubblica eliminando gli sprechi e tagliando gli incentivi alle imprese. In bocca al lupo. Alla fine si scopre sempre che servono i voti di quelli che vivono di sprechi e che le imprese sussidiate aiutano a pagare le campagne elettorali.
Nel programma per il congresso Renzi celebra pensionati, insegnanti, operai e statali ma alle convention si accompagna al finanziere Davide Serra che licenzierebbe i dipendenti pubblici a migliaia e invita a rimettere in discussione le pensioni di chi non ha pagato abbastanza contributi. Come trovare una sintesi? Ci penso io, assicura il sindaco d’Italia, riuscendo a promettere al contempo troppo e troppo poco. Troppo per essere davvero credibile e troppo poco per farci vedere nelle sue ricette occupazione, imprese, prospettive. Rischia di non offrire abbastanza, insomma, per giustificare l’abbandono del professionismo della sopravvivenza quotidiana di cui Enrico Letta si è dimostrato il massimo interprete.

il Fatto 29.10.13
Leopolda, cento tavoli tra Obama e psichiatri
Nasce il partito-scout
Democrazia partecipata sul modello dei “lupetti”, indiscusso e indiscutibile c’è solo un uomo al comando
di Wanda Marra


Ieri sul palco è salito un bambino che aveva perso i genitori. Sono cambiati i tempi, prima erano i genitori che cercavano i bambini… Ma lui era il figlio di una mia vecchia conoscenza degli scout, che è sempre stata così”. Ecco che nelle ultimissime battute dell’intervento di Matteo Renzi in chiusura della Leopolda 2013 arriva – sia pure en passant – la citazione degli scout. Citazione immancabile, visto che il modo di fare politica dell’ex capo Matteo è intriso di metodologia e filosofia dello scoutismo.
PICCOLO vademecum di base: gli scout si basano sulla condivisione. Si cammina, si gioca, si discute tutti insieme, ma poi il capo è il capo. In un meccanismo gerarchico indiscutibile e indiscusso. E allora, proviamo a leggere così l’esperimento di democrazia partecipata (per dirla alla Fabrizio Barca) di venerdì sera. In platea, al posto delle sedie, sono allestiti cento tavoli. Ciascuno ha il suo, e lo deve riconoscere dal numero. “Scusate, qualcuno ha visto il 94? Io sono riuscita ad arrivare al 68”, si sente chiedere una partecipante dispersa. Un moderatore e un discussant (una sorta di esperto) presentano il tema e poi la parola è lasciata liberamente ai convitati, che si dividono tra quelli invitati a quelli che si presentano di loro sponte. Con domande e proposte.
LA VECCHIA stazione industriale pullula di interventi e di sedie spostate: tutti in cerchio (come dagli scout) ad analizzare un tema. Dal femminicidio, alla legge di stabilità, dalla legge elettorale alle riforme, dagli immancabili social network alla giustizia, all’economia. “Dobbiamo lavorare in rete sul modello di Obama”, diceva serissima una delle moderatrici del tavolo social network, Simona Bonafè. Non senza essere richiamata alla realtà dai partecipanti: “Ma come si fa? Gli iscritti ai circoli del Pd sono in larga maggioranza persone di oltre sessant’anni?”. Ecco il programma: “Dobbiamo fare dei corsi di formazione per gli iscritti”. Rifondazioni democratiche. Poco più in là il tema è di quelli che fanno sorridere molto poco: con la moderazione del parlamentare-avvocato David Ermini si discute di femminicidio, e arrivano sia una psicologa che lavora con gli uomini soggetti di violenza (invitata), che uno psichiatra forense (trovato lì per lì). Non manca l’intervento di chi ha un problema personale enorme e lo pone anche a sproposito: “Mi hanno tolto i miei figli, non è giusto”, si avvicina una donna. Dalla vita vissuta all’architettura istituzionale. Nessuno ci avrebbe mai creduto, ma tra i più affollati c’è il tavolo sulle riforme tenuto dal professore (e pure saggio), Francesco Clementi, che introduce e il deputato Dario Nardella, che modera (e twitta): “@ClementiFparla di poliarchia e monarchia e il tavolo riforme n.56 va in #tilt... Qui sifa sul serio #Leopolda13 @AdessoPartecipo”. Ma no? Oppure: “Il #federalismo varafforzato o cancellato? I dilemmi esistenziali del tavolo #riforme n.56 alla#Leopolda13 @matteorenzi”. Entusiasmo alle stelle: “Quando @ClementiF parla del ‘mantice dei poteri presidenziali’ il tavolo #riforme n.56 si esalta oltre ognilimite dell’umano... #Leopolda13”. Qualche perplessità a un certo punto deve raggiungere anche gli organizzatori. Mentre il lavoro sulle riforme ferve, con domande di tutti i tipi e appunti presi vorticosamente, arriva Marco Agnoletti, portavoce di Renzi, ma sostanzialmente garante di qualsiasi cosa, che chiede al tavolo intero di spostarsi in blocco da un’altra parte. Visi perplessi, nessuno capisce perché. Ma non si ferma il vento con le mani. Ed ecco Nardella che twitta trionfalmente in conclusione: “Tra la magica Roma e #PD non c’è nessuna differenza giuridica, le verità del tavolo #riforme 56 #Leopolda13 @matteorenzi#spingereilcarro”. L’attività dura due ore: dalle 21 alle 23. Poi, i moderato svolgono il loro compito: un report per punti, mandato a Maria Elena Boschi. Base di partenza per un approfondimento successivo, spiega lei. Già si racconta che alla Leopolda dell’anno prossimo i tavoli si rifaranno, con un obiettivo preciso: il programma di governo. Dirigenti avvertiti: il Nazareno sarà raso al suolo e al suo posto ci saranno i tavoli. Il Pd sarà un partito liquido o solido? Un partito scout.

il Fatto 29.10.13
Fidanzato d’Italia. Il pantheon
Gli dei del “nuovo Cabrini”, dagli U2 ai Righeira
di Andrea Scanzi


Qualcuno salvi Matteo Renzi: da se stesso, ma più che altro dalla maledizione del Pantheon dei maestri. Delle guide, dei numi tutelari. Repubblica lo ha definito “fidanzato d’Italia” (come un tempo veniva definito il calciatore Antonio Cabrini) con un articolo di Filippo Ceccarelli. Una gufata di per sé autosufficiente, ma il giornale diretto da Ezio Mauro non si è fermato lì, allestendogli graficamente il consueto Pantheon d’ordinanza. Un’antica abitudine di sinistra, ancor più se giovane o quantomeno giovanilista. Il re dei pantheonisti è stato Walter Veltroni, celebrato sei anni fa a Torino come il condottiero lungamente atteso e poi anzitempo evaporato. I Pantheon di Veltroni erano multitasking e cangianti: ogni volta diversi, ogni volta più grandi. Contenevano tutto e niente, il “forse” e il “ma anche”. Il 27 giugno 2007, dal Lingotto, riuscì a citare in un colpo solo De Gasperi, Ciampi, D’Alema, Bobbio, Gobetti, Primo Levi, Martin Luther King e Olof Palme.
SEI MESI prima, il 20 dicembre 2006, all’interno di una lezione su cosa fosse la politica, mitragliò Chaplin, Kohl, Gorbaciov, Sacco e Vanzetti, Volonté, Redford, i fratelli Kennedy, Foa, Bachelet, Enrico Berlinguer, Zaccagnini, Craxi, Obama, Aung San Suu Kyi, Nelson Mandela, Rigoberta Menchú e Gandhi. Nel 2010, al Corriere della Sera, restrinse il Pantheon ma non l’eterogeneità: Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi, Prodi e soprattutto la nota politologa Agatha Christie. Il Pantheon è polifunzionale. Serve come coperta di Linus e come sublimazione di un’assenza: non avendo programmi e attrattiva, la “sinistra” italiana si affida a chi li aveva. Mescolando più icone possibili, nella speranza che l’elettore venga preso per sfinimento, più inebetito che incantato da un cocktail tanto analcolico quanto mestamente lisergico. Renzi non è meno maanchista di Veltroni, dunque non poteva rimanere insensibile al fascino del Pantheon. Un artificio metaforico che porta una sfiga inaudita; una finzione intellettuale che disinnesca qualsiasi speranza di vittoria elettorale: guai, però, a rinunciarci. Renzi sogna una sinistra così nuova da combaciare definitivamente con la destra, ma non ha ancora capito che quelli di destra non inseguono il feticcio della cultura citazionista: del “far sapere che io so”. Berlusconi ha parlato di Romolo e Remolo, ha dato per viva la famiglia Cervi, ha chiamato Google “Gogol”. Si configura come “capra” di sgarbiana memoria. Eppure se ne frega. E vince le elezioni. Renzi è berlusconiano nell’approccio e nell’ego, oltre che in due ricette politiche su tre, però coltiva ancora la fregola del fighetto di sinistra che deve dimostrare di avere letto Siddharta di Hesse.
PROPRIO come Jovanotti, che puntualmente è uno dei coinquilini del Pantheon renziano. Anche Veltroni ama i musicisti, ma almeno si affida a De André, Gaber e Fossati. Renzi, no: lui ha operato una rottamazione anagrafica a vantaggio dello sdoganamento dei coetanei. Dunque i cantori del quasi-nulla. Dunque Jovanotti. E i Righeira, menzionati nei comizi per ammiccare agli ex yuppies cresciuti con Karina Huff e Vacanze di Natale. Nel confronto per le primarie 2012, su Sky, mentre Bersani esaltava Papa Giovanni XXIII e Vendola Carlo Maria Martini, Renzi sparò Mandela e la blogger tunisina Lina. In un libro si è prefissato di voler andare da De Gasperi agli U2, fermandosi però (giusto per citare Bono Vox) dove le strade non hanno nome. Su Repubblica il Pantheon appariva esondante. Bulimico e confuso. Schizofrenico. Dentro c’era davvero di tutto. Clinton e Blair, i nomi più citati da quelli di destra che vorrebbero passare per sinistra. Mandela e Kennedy. Dante e La Pira. Benigni (non quello del Cioni Mario, si presume). Farinetti, Baricco e Steve Jobs. Bartali, Fosbury e Guardiola, noti filosofi post-contemporanei. Poi Giachetti, Davide Serra e Andrea Guerra. Pensatori deboli, figurine Panini e giganti buttati qua e là per decorare il vuoto. Ogni leader ha i suoi idoli. E ogni Pantheon è una Cassandra.

il Fatto 29.10.13
Il programma col buco intorno
Le promesse di spesa sono molto costose ma le coperture ancora vaghe
Mancano dettagli anche sul lavoro
di Stefano Feltri


Dopo gli slogan, le battute e le ospitate, cosa resta dei tre giorni della Leopolda, la convention di tre giorni di Matteo Renzi? Visto che il sindaco di Firenze è proiettato verso la segreteria del Partito democratico e, un domani non lontano, verso Palazzo Chigi, vale la pena raccontare quale sia il suo programma economico. Non è facile, perché a parole Renzi è più generoso con le immagini evocative che con i numeri. Ma ci sono ormai diverse fonti per capire in che direzione si muove: il discorso conclusivo della Leopolda, la puntata di Otto e mezzo di venerdì, il documento congressuale “Cambiare verso” con cui si candida alla segreteria, l’intervista al Corriere della Sera del 18 ottobre e, soprattutto, i materiali preparati dal deputato Pd Yoram Gutgeld, cervello economico del renzismo che coordina la rete di consulenti che stanno dando il proprio contributo alla elaborazione di una linea economica definita. Tra un paio di settimane il programma di Gutgeld, ex consulente aziendale della McKinsey, diventerà un libro, di cui si parlerà parecchio.
Ecco quindi, per punti, una sintesi della Renzinomics così come la conosciamo per ora. Molti punti sono ancora da definire: il sindaco promette di spiegare bene cosa vuole fare per il lavoro e la disoccupazione entro il primo maggio (data non vicinissima) e non ha mai fornito dettagli su quale parte della spesa pubblica intenda sacrificare per realizzare i suoi costosi obiettivi, primo fra tutti quello di tagliare l’Irpef di 100 euro a chi ne guadagna meno di 2.000 netti al mese.

il Fatto 29.10.13
Firenze, polemica sulla realizzazione del cimitero dei feti


A FIRENZE intanto scoppia la polemica per l’imminente approvazione “del nuovo regolamento dei cimiteri: Palazzo Vecchio prevederà e istituzionalizzerà la sepoltura per i feti abortiti, con tanto di dimensioni e spazi previsti”, denuncia il consigliere dell’opposizione di sinistra Tommaso Grassi. “La sola creazione di un cimitero per i feti regolamentata – spiega Grassi – non è solo un perverso scivolamento verso il macabro: il dolore materno o paterno di compiangere un figlio mancato attiene solo a un’intangibile sfera personale a cui si deve assicurare il rispetto pieno dei propri tempi e modi di elaborazione. Viceversa, l’istituzionalizzazione della sepoltura dei feti con un luogo pubblico è un salto che travalica la dimensione personale: l’equiparazione dei feti a cittadini che sono stati e non ci sono più”.

il Fatto 29.10.13
Il futuro secondo Matteo
risponde  Furio Colombo


CARO COLOMBO, ti eri irritato con il Renzi Rottamatore. Non credi che, dopo la Leopolda III, si possa accettare e sostenere il Renzi innovatore?
Adele

SONO TORNATO da un breve viaggio all'estero, il giorno (domenica) in cui Matteo Renzi, in un “bagno di folla”, ha presentato “il discorso programmatico”, e poiché tutte le reti televisive lo hanno mandato in onda ciascuna una ventina di volte, ho l'impressione di sapere tutto. Ditemi voi se mi sbaglio. Primo, di Berlusconi non parla, perché lui, (Renzi) giustamente, guarda al futuro. Però, non ci avevano insegnato, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, che se non fai i conti col passato non puoi capire e affrontare il futuro? Berlusconi è ancora lì, è dentro tutto, agita tutto, cambia e sommuove tutto. Che gioco è far finta che il problema non esista? Posso ricordare a Renzi che “smetterla di parlare di Berlusconi” era il pressante ammonimento di D'Alema (per esempio a quelli di noi che dirigevano l'Unità)? Alcuni di noi non hanno mai smesso di elencare i reati del giorno (e i giudici, per fortuna, di investigare). Però è stata un'infima minoranza. In questo stesso periodo (vent'anni) tutti (tutti) i media hanno taciuto, tutti (tutti) i titolari di grandi rubriche e programmi hanno taciuto, e anche preso per buone le vanterie del governo che ha liquidato l'Italia. A lui è andata bene (salvo i giudici). E per vent’anni, in un modo o nell’altro, ha governato. Al Pds, Ds, Pd? Secondo, mai più “larghe intese”. Progetto da sottoscrivere subito, anche perché continuiamo a non sapere perché ci sono le più strane “grandi intese” del mondo (la controparte possiede un suo strano e accettato diritto di veto), non c'è stato e non sembra poter esserci alcun risultato, salvo le buone maniere di Enrico Letta. Ma subito dopo il nostro Renzi aggiunge che dobbiamo porre mano, al più presto e insieme, alla riforma della Giustizia. Davvero Renzi pensa che si possano discutere i problemi della giustizia con l'imputato? Per un ragazzo realistico e semplice come Renzi, è una pretesa ovviamente non realistica. Terzo, dice Renzi con una bella frase-slogan: “Una sinistra che non cambia diventa destra”. Guardiamoci intorno. I laburisti di Blair sono cambiati e hanno fatto la guerra. I socialisti di Hollande sono cambiati e danno la caccia agli zingari. Obama invece non è cambiato, tiene duro con la sua riforma sanitaria anche se gli avversari (che lui non esita a indicare come il pericolo per la sopravvivenza del suo Paese) sono senza scrupoli. Propongo un piccolo gioco finale per il sindaco allegro. Proviamo a cambiare slogan: “Una sinistra che non è più sinistra diventa destra”. Non suona meglio?

Corriere 29.10.13
Larghe intese, attacca anche Cuperlo
Legge elettorale, sfuma l’ipotesi di un’intesa prima della Consulta

di M. Gu.

ROMA — Quel che pensa di Matteo Renzi, Gianni Cuperlo lo dice con l’aneddoto dei due registi: «Io apprezzo i film del mio giovane collega, dice il più anziano, ma non riesco a vederli perché c’è sempre lui davanti...». Un modo per dire che il candidato ex ds alle primarie del Pd non ha capito quale modello di partito abbia in mente il sindaco, al quale però riconosce coraggio e popolarità. Il suo limite è di essere troppo «protagonista» e di non cogliere l’occasione del congresso per raccontare la sua idea di Paese. Tre giorni di kermesse alla Leopolda non sono bastati? Per Cuperlo no, il messaggio di Renzi gli sfugge.
La sfida per il Nazareno è iniziata. Renzi è largamente in testa, ma Cuperlo resiste. Il primo dice «mai più larghe intese»? E il secondo assicura, a Repubblica,it, che «il governo Letta è una parentesi». I renziani scalpitano, per loro la battaglia è tra il vecchio e il nuovo, tra la sinistra che fu e quella che sarà. «Le critiche a Matteo vengono dalla parte più conservatrice del partito, quella che pensa di avere il brevetto depositato dei valori della sinistra» attacca Angelo Rughetti. Nel mirino dei «nuovisti» c’è Stefano Fassina, il viceministro che ha inviato a Renzi una missiva sferzante: «Caro Matteo, l’insieme delle tue coraggiose proposte ha una rilevanza finanziaria pari a zero... Il caterpillar è andato fuori strada e si è cappottato». E Beppe Fioroni insinua che Renzi parli con Letta come il medico con il paziente: «La sua malattia è gravissima, ma lei stia tranquillo che guarirà... Mente sapendo di mentire!». Lo scontro politico su chi sarà il successore di Epifani si infiamma, il caso del tesseramento gonfiato e dei «pacchetti» di iscritti rischia di esplodere. E Davide Zoggia lancia un appello a tutte le aree: «I tesseramenti siano singoli e non collettivi, perché è chiaro che se vanno in 100 o 200 c’è qualcosa che non va». Bisogna rispettare le regole, avverte il capo dell’organizzazione: «Non scherziamo, non stiamo giocando con le figurine». Epifani ha ordinato «controlli stringenti» a tappeto e per ora, dicono dal Nazareno, tutto procede in maniera regolare. Tranne qualche (vistosa) eccezione. A Enna è un caso la vittoria di Vladimiro Crisafulli, eletto segretario provinciale nonostante alle politiche fosse stato ritenuto incandidabile. Alla Leopolda il regista Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, ha strappato ovazioni accostando il suo nome a quello di un boss mafioso. E l’ex senatore risponde con le carte bollate: «Lo querelo, ha detto cose false». Crisafulli voterà Cuperlo, il quale però prende distanze: «Io avrei fatto una scelta diversa». Si litiga anche sui numeri dei congressi. «In 45 province su 74 è avanti Cuperlo» fanno di conto al comitato, ma i renziani assicurano che il sindaco è largamente in vantaggio. E oggi, a Roma, apre il «loft» di Renzi. Lui è nella Capitale, ma all’inaugurazione del comitato, in via dei Pianellari, il segretario in pectore non è atteso. Al centro della battaglia per il Nazareno c’è anche la legge elettorale. Dopo l’affondo di Renzi contro il proporzionale, dal Senato arriva lo stop del Pd al cosiddetto «pillolario», la bozza di accordo con il Pdl raggiunta grazie alla mediazione di Anna Finocchiaro. «Il Pd deve ripartire dal doppio turno», ferma i giochi il capogruppo Luigi Zanda e Cuperlo concorda: «Bene, ora facciamo in fretta». Ma i tempi sono strettissimi ed è molto probabile che la sentenza della Consulta sul «porcellum» arrivi prima che i partiti abbiano trovato un’intesa. Ma secondo Cuperlo una via per agganciare il Pdl c’è: il doppio turno di coalizione.

il Fatto 29.10.13
Prof a convegno Riformatorio
Nuova scusa: violano la Carta a causa del Porcellum
di Sif


In tour a Milano – l’occasione è un convegno in Statale – si ritrovano ben quattro membri del dream team di costituzionalisti, i saggi per le riforme. Assente il ministro che nelle ultime settimane si è segnalato per aver chiarito che “se ci sarà un’amnistia deve valere anche per Berlusconi”: il professor Quagliariello, trattenuto a Roma, invia un messaggio all’uditorio. “Le larghe intese sono state l’esito obbligato per un Paese che, nel pieno di una crisi economica senza precedenti, si è trovato a un passo dalla crisi istituzionale”. Ma “questa è una situazione eccezionale” non può durare all'infinito. Perché ciò avvenga cambiare la legge elettorale è certamente necessario ma non sufficiente. C’è bisogno di istituzioni più efficienti, di uno Stato più autorevole, di una giustizia più giusta”. Tocca dunque all’onorevole e saggio Luciano Violante spiegare alcuni dettagli. Tipo la “deroga” all’articolo 138 della Carta - norma sentinella e secondo molti nient’affatto derogabile . “La maggioranza attualmente ha i due terzi dei seggi sia alla Camera che al Senato, quindi basterebbero per far passare modifiche della Costituzione senza il voto popolare. La modifica dell'articolo 138 vuole fare in modo che i cittadini si possano comunque pronunciare tramite referendum”. Capito? È l’uovo di Colombo: invece di cambiare una legge elettorale che a breve verrà marchiata con il bollino blu dell’incostituzionalità dalla Consulta, si mette mano al 138. Un porcellum tira l’altro. Segue una filippica sul Titolo V della Carta (modificato nel 2001, alla fine della legislatura in cui Violante era presidente della Camera) e sulla crisi del principio di legalità, “dovuta all’imprevedibilità delle conseguenze”. E qui bisogna contraddire il saggio, perché tra indulti, indultini e amnistie le conseguenze, a proposito del principio di legalità, sono tutt’altro che imprevedibili.
Dopo Violante, è il turno di Violini, nel senso di Lorenza, costituzionalista milanese, coinvolta nell’inchiesta sui concorsi universitari truccati. Preceduta da una presentazione entusiasta perché la Commissione dei 35 saggi conta un buon numero di donne (o un numero di donne “buone”, considerando che i due membri dimissionari sono Lorenza Carlassare e Nadia Urbinati), la professoressa inizia dichiarando che “è necessario rafforzare la percezione dell’utilità delle riforme”. Senza naturalmente interrogarsi sul perché gli unici cittadini che si sono fatti sentire sono quelli contro questa riforma.
Ma qual è la funzione della commissione? Siccome ai più era forse sfuggito, val la pena riportare la risposta. Sono dei “facilitatori”, parola un po’ naïf – tipo “utilizzatore finale” e agibilità politica – che significa un ruolo di supporto al lavoro di chi dovrà fare le riforme. Insomma, i facilitatori in soccorso dei legislatori. Sulla “missione facilitatrice” si soffermano anche altri due relatori, Nicolò Zanon e Valerio Onida che però ha qualcosa da ridire sulla parola “saggi”: troppa enfasi da parte dei media, colpevoli di un “linguaggio deteriorato”. Dispiaciuto per l’assenza di Quagliariello (“anche per dargli atto di aspetti positivi della sua azione”), Onida ha spiegato che il loro merito è stato avere messo insieme le possibili proposte in modo pacato. Aggettivo che invece non s’addice particolarmente all’unico intervento che strappa più di un lungo applauso. Tra il pubblico c’è un coetaneo del presidente della Repubblica, Sergio Rufoni: “Sono un giovanotto di 88 anni, deportato a 18 nei campi di concentramento”. Parla della Costituzione “violata, calpestata e mai applicata”, degli 8 milioni di affamati che vengono ignorati, degli stipendi d’oro della politica, dell’“indefinibile” che ha “sgovernato” l’Italia, cita Gramsci e Scelba. E due volte avverte: “Compagno Violante ti conosco bene”. Gli sarà venuto in mente quel famoso intervento alla Camera, quando nel 2002 Violante ricordò che al Cavaliere era stato garantito che le tv non sarebbero state toccate, spiegando perché fosse infondata l’accusa di regime da parte dei futuri amici delle larghe intese: “Non abbiamo fatto la legge sul conflitto d’interessi e abbiamo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni”. 

La Stampa 29.10.13
In Trentino Alto Adige i grillini perdono 3 voti su 4
Crollo anche di Pdl e Lega. Pd primo partito a Trento con il 22 per cento
di Francesca Schianchi


ROMA La Svp vince in Alto Adige, ma, per la prima volta, non riesce a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. Va male il centrodestra, così come in Trentino, dove stravince il candidato presidente della coalizione di centrosinistra, il Pd è il primo partito e il Movimento Cinque stelle perde quasi tre voti su quattro rispetto a quelli presi per entrare alla Camera a febbraio. Iniziato lo spoglio ieri alle sette del mattino, a metà pomeriggio è possibile fare un bilancio delle elezioni che si sono tenute domeni-
ca per rinnovare i consigli provinciali di Trentino e Alto Adige, che insieme formeranno il consiglio regionale. Un appuntamento segnato, soprattutto in Trentino, dall’astensione: 62,81% di votanti, cioè il 10,32% in meno rispetto alle provinciali del 2008. Più contenuto il calo nella provincia “cugina”: 2,4%.
A Trento e dintorni si chiude l’era Dellai (eletto deputato con Scelta civica) e viene eletto Ugo Rossi, assessore alla salute e alle politiche sociali, con il 58,12%, sostenuto dalla coalizione di centrosinistra autonomista uscente. Il Pd è il primo partito col 22,07%, seguito da un clamoroso exploit del Patt (Partito autonomista trentino tirolese), che porta a casa il 17,55%, quando cinque anni fa era all’8%. Mentre il M5S, qui al suo primo test delle provinciali, si ferma molto prima del 20,76% con cui bussò a febbraio alla porta di Montecitorio: 5,84% (5,72 il candidato presidente Degasperi). Risultato che, però, Beppe Grillo definisce comunque “straordinario” perché «finalmente abbiamo anche un nostro eletto in Consiglio». Lo avrà anche a Bolzano, «siamo entrati anche in Alto Adige, vi rendete conto?», si compiace.
Dalle parti di Bolzano, finisce la lunghissima presidenza Durnwalder e succederà il compagno di partito Arno Kompatscher (dovranno essere i consiglieri eletti a votare il presidente). Da segnalare il tracollo della rappresentanza italiana: saranno solo cinque i consiglieri, con un solo assessore provinciale di lingua italiana. La Svp vince ma perde la maggioranza assoluta dei seggi: i voti in uscita vanno verso i partiti di destra di lingua tedesca, Die Freiheitlichen e la Suedtiroler Freiheit della pasionaria separatista Eva Klotz. Mentre quasi scompare il centrodestra di lingua italiana: Forza Italia più Lega si fermano al 2,5%. «Un risultato sconfortante, abbiamo pagato le divisioni all’interno del centrodestra», valuta la fedelissima berlusconiana Michaela Biancofiore, coordinatrice regiona-
le di Forza Italia. Che sottolinea di aver ricevuto «almeno cinque preferenze» in ogni sezione, pur non essendo candidata. «Io sto all’Alto Adige come Berlusconi sta all’Italia, ringrazio coloro che hanno espresso la preferenza per me ma non mi posso candidare ogni volta». Non riesce ad approfittare del crollo dei berlusconiani e della Lega il Pd, che con il 6,7% incrementa solo dello 0,7% il risultato del 2008. Un bottino comunque, sia a Trento che a Bolzano, con «un segno positivo – si accontenta il segretario Epifani che conferma il buon governo finora realizzato dalle amministrazioni».

Corriere 29.10.13
L’amazzone sconfitta: mancava il nome Silvio

Biancofiore prima del voto aveva scomodato De Gasperi: questa terra è un laboratorio
di Fabrizio Roncone


La sintesi, certe volte, è tutto.
«Sono nel bel mezzo del casino. Sentiamoci dopo, per favore».
Dopo, però, la situazione addirittura peggiorerà: per il Pdl — precipitato giù nel crepaccio dei dati finali — e soprattutto per lei, Michaela Biancofiore da Bolzano, 44 anni, capelli biondi e lisci, coordinatrice regionale del Trentino Alto Adige e tra le azzurre deputate amazzoni certamente quella preferita dal Cavaliere, che un giorno, ad Arcore, in vena di romanticherie, le regalò persino un magnifico anello di brillanti (vista la tempra di Francesca Pascale, nuova regina di Palazzo Grazioli, prudentemente portato all’anulare della mano destra).
Ad Andalo, venerdì sera, le ultime parole famose della Biancofiore sono state queste: «Il Trentino Alto Adige è un laboratorio che ha dato vita ad Alcide De Gasperi». Scomodato lo statista democristiano, per giustificare quelle bandiere che nel gelo sventolavano con su scritto: «Forza Trentino». Esperimento, fallito, di tramutare Forza Italia in simbolo territoriale.
Quello del vessillo, comunque, non è stato l’unico esperimento di questa tornata elettorale abbastanza memorabile.
Perché a un certo punto, nella scorsa primavera, la Biancofiore volle togliersi il capriccetto (politico) di nominare come commissario provinciale del Pdl altoatesino un ragazzo. Proprio così. Un ragazzo di 19 anni: Alessandro Bertoldi detto Berto, all’epoca ancora indaffarato con gli esami di maturità (frequentava l’istituto «Marie Curie» di Pergine Valsugana) ma anche già sfrontato e determinato a imitare il suo idolo — «Voglio essere il nuovo Silvio», da un’intervista a Marianna Aprile del settimanale Oggi ) — quindi già con la giacca blu di una taglia più grande esattamente come le porta Berlusconi e pure lui, in certe foto, con il sorriso un po’ fisso, senza cerone ma stranamente abbronzato.
Il ragazzo si esibì subito in un paio di uscite ragguardevoli. «I tedeschi sono dei pidocchi ripuliti». «Sono da sempre impegnato per la causa della liberazione di Cuba dal castrismo-comunista» (quest’ultima consegnata agli elettori del Pdl sulla sua pagina Facebook e sul suo strepitoso sito: «Aleberto.wordpress.com»).
La «tata» (copyright Gian Antonio Stella) si accorse allora che da sola non sarebbe riuscita a controllare tanto facilmente il baby commissario: meglio perciò affidarlo alle cure di sua sorella, Antonella Biancofiore, preside delle «Marcelline» e anche improvvisamente tutor, qualcosa di simile, scrisse il quotidiano Aldo Adige , «alla signorina Rottenmeier di Heidi».
Intanto, la campagna elettorale del Pdl andava avanti. Con altri incidenti.
Il primo: Michaela Biancofiore — appena arrivata come sottosegretario al ministero delle Pari Opportunità — si esibisce in un paio di dichiarazioni che il suo pupillo Berto avrà pensato: perché io con il tutor, e lei no?
«I gay sono una casta». «I gay si ghettizzano da soli».
Letta la punisce spostandola al ministero della Pubblica amministrazione, ma l’amazzone rilancia: «Vabbé: comunque anche papa Francesco la pensa come me».
Seguono baruffe varie. Che, però, non distraggono troppo la Biancofiore. Anzi: con la tenacia che le va riconosciuta, batte valli e rifugi, entri in una baita e puoi trovarla che cerca di convincere a votare per il Pdl due pastori. Il guaio è che il Pdl è nelle condizioni che sappiamo, e lì, poi, ha pure cambiato nome.
«In più — la Biancofiore è di parola ed ecco che a sera arriva qualche sua riflessione sulla sconfitta — dobbiamo tener conto di due cose: il logo Berlusconi non si è visto e sappiamo che lui, da solo, vale dieci punti. Poi c’è da dire che molti elettori mi confessavano di non avere più tanta fiducia in un partito, il Pdl, il cui segretario, cioè Alfano, ha accettato che la sottoscritta fosse destituita da sottosegretario in quanto considerata troppo berlusconiana» (perché, nel frattempo, è successo pure questo: quando ministri e sottosegretari del Pdl, qualche settimana fa, si sono dimessi dal governo, Letta ha respinto tutte le lettere tranne una: quella, appunto, della Biancofiore).
Meglio chiudere con una foto. L’ha postata, pochi giorni fa, sul suo profilo Facebook.
C’è lei, la Biancofiore, con un cerbiatto bianco.
«Questa sono io. Un politico diverso. Che ama le persone, gli animali, la vita vera».

Repubblica 29.10.13
La nuova cortina di ferro
Se Putin sogna il ritorno dell’ Urss
di Nicola Lombardozzi


L’Ucraina si avvicina alla Ue. E la Russia alza il filo spinato sul confine. Ma con le altre Repubbliche dell’impero torna la voglia di Urss
La polizia russa ha iniziato a issare duemila chilometri di filo spinato al confine con l’Ucraina.
Il primo passo per un nuovo muro d’Europa: una ritorsione per l’imminente patto di associazione tra Kiev e l’Ue.
Dalla Moldavia all’Armenia, Mosca è decisa a ristabilire la sua area d’influenza sulle ex repubbliche
satelliti e ad arginare l’espansione di Bruxelles. Chi tradisce rischia pesanti ritorsioni commerciali

MOSCA Tatiana Polinina, contadina settantenne, arrivata come ogni mattina con la sua bicicletta dipinta di bianco, ha subito pensato a uno scherzo. Poi si è guardata attorno e si è spaventata: «Non sarà mica scoppiata la guerra?». I ragazzi in tuta mimetica che si stavano dando da fare con martelli e tenaglie si sono fatti una bella risata, le hanno detto gentilmente di tornarsene a casa e hanno ripreso il loro lavoro: stendere una lunga barriera di filo spinato proprio in mezzo ai sentieri di campagna che la signora Tatiana percorre da trent’anni in tutte le stagioni. Proprio da lì, nella regione di Lugansk, in Ucraina meridionale, passa un confine che nessuno ha mai preso sul serio, tra due nazioni da sempre sorelle. Ieri la Russia ha cominciato a tracciarlo fisicamente, imponendo blocchi e check point. Il primo passo per un piccolo, nuovo muro d’Europa che recingerà oltre duemila chilometri di frontiera tra la Russia di Putin e i paesi in qualche modo vicini alla Ue.
Un programma non annunciato né tantomeno spiegato dalle autorità russe anche se le successive dichiarazioni del ministero degli Esteri, Sergej Lavrov, non lasciano spazio a equivoci.
«L’Ucraina ha deciso di firmare il 28 novembre un patto di associazione con l’Unione europea? E allora i nostri rapporti cambieranno anche da un punto di vista tecnico» ha detto Lavrov. Ritorsione? Ne ha tutta l’aria ma serve soprattutto da esempio per gli altri protagonisti di una lunga guerra invisibile tra gli interessi di Mosca decisa a ristabilire la sua area di influenza sul maggior numero possibile di paesi dell’ex Unione Sovietica e quelli dell’Unione europea e della Nato che puntano a conquistare mercati, e magari basi militari, in territori un tempo impensabili. Dalla Moldavia all’Armenia, passando per il ricchissimo Azerbaijan, fino alla tormentata Georgia, è tutto un Risiko senza carri armati fatto di minacce e lusinghe, di tradimenti e di spregiudicati giochi al rialzo che fondono insieme politica ed economia.
Sarà difficile da spiegare alla signora Tatiana che ieri se n’è tornata in lacrime al suo villaggio di Dmitrovniki e ha cominciato a interrogare amici e parenti: «Ma in fondo al sentiero c’è la Russia? Dove sta mia figlia con i miei nipoti, è Russia o Ucraina? Voi lo sapete? E le uova e il latte che vendevo al mercato, adesso dove le vendo?». Le hanno spiegato che i due Paesi restano quasi amici. Che le basterà andare a cercare il varco di frontiera con un giro di 40 chilometri. Non potrà forse portare merci ma il transito è garantito. Almeno fino a quando non saranno approvate le proposte che sempre Lavrov ha lanciato ieri sera «sulla necessità di rendere obbligatorio il passaporto per il passaggio dei cittadini». Tutta presa dal cercare qualcuno che la accompagni in macchina dalla figlia, Tatiana non se ne cura, ma il filo spinato che comincia a scorrere tra Ucraina e Russia crea già i suoi grossi problemi. Problemi personali. Perché la regione di Lugansk è russofona, popolata a lungo dai cosacchi dello zar, e abitata da famiglie che non si sono mai curate di distinguere la loro nazionalità spargendosi sul territorio solo seguendo la pista dei terreni fertili e delle opportunità di lavoro. Ma anche problemi economici perché lo scambio di piccoli commerci tra le popolazioni contadine è già di fatto bloccato. E andrà peggio per i trasporti delle merci industriali a cominciare da quelli della vicina fabbrica di locomotive Luhanskteplovoz, antico orgoglio dell’Urss, che ha quasi tutti clienti russi e che adesso, sempre secondo Lavrov, «dovrà sottostare a tariffe doganali maggiorate per paesi che hanno fatto la scelta di non aderire alle nostre proposte».
Per provare a capirci qualcosa, bisogna tornare alla disgregazione dell’Unione Sovietica nel 1991 e alla nascita di quel guscio vuoto che si chiama Comunità degli Stati Indipendenti tra 11 delle 15 repubbliche di un tempo.
Non riuscendo a mettere d’accordo tutti sulla realizzazione di un mercato comune Putin ha creato un organismo a parte, un’unione doganale con le economie più promettenti. Per il momento insieme alla Russia vi aderiscono la Bielorussia del dittatore Lukashenko e il Kazakhstan dell’ex presidente sovietico Nazarbaev. Per allargare sempre più la rete e per arginare l’espansione della Ue che intanto si è “presa” gli ex Paesi comunisti del Patto di Varsavia e le tre repubbliche sovietiche del Baltico (Estonia, Lituania e Lettonia), Putin ha corteggiato soprattutto l’Ucraina. Paese gemello, che si considera la prima Russia nata a Kiev nell’882 e che è sempre rimasta la più legata alla Russia. È stata una lunga partita. Che sembrava persa nel 2004 dopo la Rivoluzione arancione e la svolta democratica filo occidentale. E che sembrò invece vinta a mani basse nel2-010, con l’economia ucraina messa in crisi dai tagli del gas russo e con la vittoria elettorale dell’attuale presidente Janukovic dichiaratamente amico della Russia e persecutore della nemica comune Yiulia Tymoshenko rinchiusa in carcere senza prove serie.
Ma in guerra, anche se solo commerciale, gli amici possono cambiare idea. Per tre anni Yanukovich ha giocato sul filodel rasoio ascoltando le proposte dell’uno e dell’altro fronte. Poi, in estate ha deciso:l’Ucraina firmerà l’associazione alla Ue, primo passo verso l’adesione. Rifiuta cortesemente l’unione doganale offerta da Mosca e se ne va dall’altra parte del mondo.
La reazione di Mosca ricalca il vecchio stile di una volta. Subito scatta la “Guerra del Cioccolato” che ha bloccato l’ingresso inRussia dei cioccolatini “Rochen”, vanto dell’industria dolciaria ucraina e amatissimi dai russi. Proseguita bloccando alla frontiera tutti i prodotti ucraini per non meglio precisati controlli di qualità che hanno fatto perdere a Kiev due miliardi di dollari in un mese. E la rappresaglia si è estesa anche agli alleati dei “traditori”. La Lituania, rea di aver sponsorizzato l’Ucraina e di ospitare, in quanto presidente di turno Ue, la firma dell’accordo di novembre, sta subendo da tre settimane la “Guerra del Formaggio”, con il blocco di tutti i suoi prodotti caseari destinati alle tavole russe.
Strategie usate a profusione in questi anni. Qualcuno cede come l’Armenia che ai primi sentori di una “Guerra delBrandy”che produce in grandi quantità ha deciso di aderire entro l’anno all’unione doganale di Putin. Altri meno. La Georgia subì la “Guerra dell’Acqua minerale” bandita prima che le sanzioni contro il governo filo americano di Saakashvili portassero al conflitto armato vero eproprio. Adesso che a Tblisi c’èun governo amico di Mosca, l’acqua minerale e il vino georgiano sono tornati nei supermercati e molti lo vedono come segnale di accordi futuri.
E la mappa europea dell’ex Urss continua a cambiare colori. La povera Moldova continua a spingere per l’Europa ma è terrorizzata da una “Guerra del Vino” che la stroncherebbe. Il ricco Azerbaijan sembra invece perduto in nome di un amicizia con la Ue che stranamente nondenuncia le clamorose violazioni dei diritti umani compiute dall’eterno presidente Alijev.
Mosse disinvolte e, a volte un po’ ciniche, che potrebbero ancora cambiare le sorti della partita. Perfino sull’Ucraina il Cremlino ha ancora qualche residua speranza di capovolgere la partita. Potrebbe, dicono, giocarsi la carta del gas, bloccando forniture che metterebbero inginocchio il Paese. Yanukovich però appare spavaldo. Dice chel’Europa potrebbe offrigli il gas a prezzi ugualmente accettabili e si basa, forse, su accordi non conosciuti. Inoltre si prepara a liberare la Tymoshenko per far contenta la Ue e risponde senza batter ciglio alla mossa russa disegnare il confine: «Collaboreremo anche noi. È giusto chiudere le frontiere ». Intanto, nelle campagne intorno a Dmitrovniki, Tatiana Polinina cercaqualcuno che la porti al di là delfilo spinato.

Repubblica 29.10.13
Un’altra cortina di ferro nel Risiko del Cremlino
di Paolo Garimberti


Proviamo a parafrasare lo storico discorso sulla nascita della «cortina di ferro», che Winston Churchill pronunciò a Fulton, nel Missouri, il 5 marzo 1946. E forse riusciremo a descrivere come, e soprattutto con quali maniere, Vladimir Putin sta cercando di realizzare il suo vecchio sogno di ricreare sulle carta geopolitica la vecchia Unione Sovietica. «Dall’Ucraina all’Abkhazia una cortina di ferro sta scendendo attraverso l’ex Urss», direbbe oggi un redivivo Churchill. Quasi tutte le ex repubbliche sovietiche «giacciono in quella che devo chiamare sfera russa (sovietica, nell’originale)) e sono tutte soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza russa (sovietica) ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo di Mosca».
Perfetto. Invece che in verticale («da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico», disse Churchill a Fulton) il filo spinato va grosso modo in orizzontale, tra l’Ucraina meridionale, là dove si parla e si scrive quasi soltanto russo, e l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, le due province russe all’interno del territorio georgiano. Invece che dividere in due l’Europa, stavolta la cortina di ferro separa, tra i leader post-sovietici, quelli che piacciono a Putin, perché gli osservano obbedienza e dimostrano ossequio, da quelli che non gli piacciono.
CL’INDIPENDENZADalla he sono poi quelli che mostrano di preferire l’Unione europea all’Unione economica euroasiatica che il nuovo zar sta mettendo in piedi con il sostegno della Bielorussia e del Kazakhstan, cioè il tiranno Lukashenko e l’autocrate Nazarbaev.
È da tempo che Mosca sta facendo di tutto, usando alternativamente il bastone e la carota, per dissuadere tre ex repubbliche sovietiche — Moldavia, Armenia e soprattutto Ucraina — da firmare un accordo di commercio e cooperazione con l’Unione europea e convincerle invece ad aderire all’Unione euroasiatica. L’Armenia ha finito per cedere e un mese fa ha aderito alla creatura di Putin. La Moldavia per ora regge. Ma la vera partita si gioca con Kiev, per ovvie ragioni di dimensioni, di storia, di interessi economici e di prestigio.
A dire il vero Viktor Yanukovich, il leader ucraino eletto nel 2010, è assai più vicino, e più simile, a Putin di quanto lo fossero i suoi predecessori, portati al potere dalla Rivoluzione Arancione del 2004. L’autoritarismo del presidente ucraino definito “soft” nei primi anni è diventato sempre più “hard” e il suo programma anticorruzione si è concentrato soprattutto sull’opposizione. A cominciare dall’ex premier Yiulia Tymoshenko, che resta in carcere nonostante le richieste della Ue che venga rilasciata e affidata a un paese terzo per ricevere le cure mediche di cui ha urgente necessità.
La reticenza di Yanukovich alle pressioni di Bruxelles pone la Ue di fronte a un dilemma molto serio: gli interessi geopolitici, o se più aggrada la brutale Realpolitik, devono prevalere nei confronti di un Paese che non si uniforma ai valori dell’Unione? L’alternativa, però, è che l’Ucraina, per non finire economicamente strozzata, decida di aderire all’Unione euroasiatica di Putin. Il vecchio Henry Kissinger non avrebbe dubbi: turiamoci il naso e facciamo entrare l’Ucraina in Europa.
Tanto più che in questo Risiko assai complicato c’è in gioco anche un’altra ex repubblica sovietica che ha appena sotterrato un’altra rivoluzione di colorate speranze, quella delle Rose. La vittoria nelle elezioni presidenziali di uno sconosciuto filosofo, Georgij Margvelashvili, è in realtà la fine della linea filo-americana di Mikhail Saakashvili (che lo portò a una sciagurata guerra con la Russia nel 2008) e il successo del primo ministro in carica, l’enigmatico miliardario Bidzina Ivanishvili. Il quale tra Putin e Obama ha, con grande pragmatismo, scelto il primo con questa realistica dichiarazione: «Non si può cambiare la Russia: è meglio lavorare su noi stessi e lavorare con la Russia così come è». Chi aveva detto «se non puoi batterli, unisciti a loro»?
In questo magmatico quadro di relazioni tra ex inquilini dello stesso palazzo riemergono vecchie tensioni e rivalità dell’era sovietica. I russi non hanno mai amato i georgiani, tanto che hanno considerato Stalin solo un male minore rispetto a Hitler, ma non il padre dei popoli che proponeva la propaganda. L’Ucraina ha dominato per decenni le alte gerarchie del Pcus sovietico, creando nel dopo Stalin feroci rivalità tra la “linea dinastica” russa e quella ucraina. Lo stesso Nikita Krusciov si era formato in Ucraina, dove era stato a lungo primo segretario del partito. Nella trojka che lo fece fuori e lo sostituì al potere c’erano due ucraini (Leonid Breznev era di Dniprodzerzhinsk e Nikolaj Podgorny di Karlivka) e un solo russo (Kossighin, che era di Leningrado, oggi San Pietroburgo). E a completare questa saga di vecchi veleni e nuove rivincite c’è il fatto che l’accordo tra l’Ucraina e la Ue dovrebbe essere firmato a Vilnius, la capitale di una delle tre repubbliche baltiche che Mosca soggiogò per decenni e che furono tra le prime a scappare dalle macerie dell’Urss per rifugiarsi nell’Unione europea.
Questi corsi e ricorsi della storia accrescono l’ira funesta di Putin. Che si abbatte implacabile sui dissidenti, siano essi Stati o individui. Sabato è uscita sul Financial Times un’intervista (scritta e ottenuta attraverso i suoi avvocati) all’ex oligarca Mikhail Khodorkovskij per il decimo anniversario del suo arresto. Un documento agghiacciante nella descrizioni delle condizioni di detenzione nel campo di lavori forzati in Karelia, dove attualmente “soggiorna”. Il quotidiano inglese l’ha intitolata “Un giorno nella vita di Khodorkovskij”. Riproponendo il titolo del primo lavoro di Aleksandr Solgenitsyn, che svelò come era la vita nei lager sovietici (Un giorno nella vita di Ivan Denisovic). Ma forse a Putin questo titolo non è dispiaciuto. In fondo dimostra chela resurrezione dell’Urss gli sta riuscendo bene.

Repubblica 29.10.13
Archeo horror
Così duemila anni fa nacquero zombie e vampiri
Il libro di Flegonte è un campionario di tutte le creature mostruose messe in scena dalla letteratura moderna
di Marino Niola


La ficata di essere un morto vivente è che non devi più fare jogging. Lo dice uno dei personaggi del film Dylan Dog, dead of night. Ma in realtà anche senza correre, zombies, vampiri e altre creature delle tenebre hanno fatto lo stesso tanta strada. Perché hanno il passo lungo e inesorabile di chi arriva da molto lontano. I
revenantshanno sulle scarpe la polvere dei secoli perché avanzano verso di noi da duemila anni. Come un quarto stato del soprannaturale. Molto prima di essere richiamati in vita dalla letteratura gotica ottocentesca. O dal fantasy e dall’horror contemporanei. E adesso sappiamo anche dove e quando è cominciato il loro viaggio dal termine della notte. A dircelo è Flegonte di Tralle, vissuto nel secondo secolo dopo Cristo, nel suo favoloso
Libro delle meraviglie. Un manoscritto nascosto per più di mille anni nel palazzo imperiale di Costantinopoli e poi misteriosamente approdato all’università di Heidelberg, dove è ancora custodito. La prima edizione a stampa del testo originale greco viene impressa a Basilea nel 1568. E solo adesso esce in italiano in un’edizione curata splendidamente da Tommaso Braccini e Massimo Scorsone per Einaudi (Il libro delle meraviglie e tutti i frammenti, pp. 111, euro 25).
L’autore era il segretario di Adriano, il crepuscolare imperatore-poeta immortalato dal romanzo di Marguerite Yourcenar. Che attribuisce proprio a Flegonte la paternità del primo racconto di paura della storia. In effetti, il Libro delle meraviglie è un’autentica archeologia dell’orrore. Uno zibaldone dell’occulto che contiene in nuce tutti i motivi e i plot che nel corso dei secoli successivi alimenteranno l’immaginario noir. Spettri-cannibali, mostri assetati di sangue, cadaveri animati, teste tagliate che parlano da sole, insomma un impressionante palinsesto del pulp al tempo della Roma imperiale.
La protagonista indiscussa del volume è Filinnio, una ragazza di Anfipoli, in Macedonia, che muore all’indomani del matrimonio, ma dopo un po’ rientra nel suo corpo e torna ogni notte nella casa natale, dove seduce un giovane ospite dei suoi genitori. L’uomo non sospetta neanche lontanamente di aver fatto sesso con un revenant e quando lo viene a sapere si uccide per l’orrore. Mentre il cadavere della ragazza viene bruciato a furor di popolo per impedire che torni ancora dall’aldilà. Vampira e pure mangiatrice d’uomini, la morta innamorata uscita dalla penna di Flegonte è insomma la madre di tutte le femmes fatales dell’immaginario, occidentale e non solo. Sono sue figlie la celeberrima sposa di Corinto di Goethe, nonché Carmilla, la pallida succhia sangue nata dalla fantasia dell’irlandese Sheridan Le Fanu. E la romanticissima Arria Marcella di Théophile Gautier che, morta a Pompei durante l’eruzione del 79 dopo Cristo, resuscita dal suo sonno millenario in pieno Ottocento, giusto per fare innamorare perdutamente un giovane archeologo francese in visita agli scavi. Ma è della famiglia anche la fremente Lucy Westenra di Bram Stoker, aristocratica fanciulla vittoriana che, dopo essere stata addentata e uccisa da Dracula, abbandona nottetempo il sepolcro per saltare addosso al suo sprovveduto fidanzato. E, più vicino a noi, le sexy-trapassate che fanno l’autostop nelle leggende metropolitane. Tutte discendenti della rediviva di Anfipoli.Che un teorico del terrore letterario come Howard P. Lovecraft considerava l’indiscussa patronessa di tutti i non-morti che, per un eccesso di attaccamento alla vita, finiscono per perdere la testa. Ma, a differenza dei vampiri della letteratura e del folklore, le teste tagliate che popolano le storie di Flegonte restano vive e vegete. E per di più hanno un altissimo quoziente di intelligenza. Tant’è vero che parlano molto e sempre a ragion veduta, fanno profezie, danno consi-gli, recitano poesie e cantano. Proprio come quella del mitico Orfeo. Staccata di netto dalle menadi invasate dallo spirito di Dioniso e gettata come una zucca nell’Ebro, discende il fiume fino al mare e fa rotta per l’isola di Lesbo senza mai smettere di cantare per tutto il tempo della traversata. E, per aggiungere meraviglia a meraviglia, la lira dello sposo di Euridice solca le onde seguendo la scia della voce melodiosa del pupillo delle muse. E addirittura ascende con lui al cielo dandovita alla costellazione della Lira.
Crani modulari per corpi interinali. Prototipi di quella poetica dello smembramento somatico che rende le parti più significative del tutto. Nel thriller antico come nella moderna società dello spettacolo. Nell’arte come nella mitologia. Nello splatter come nella pornografia.
In questo senso i personaggi fantastici di Flegonte assomigliano in maniera impressionante a quelli dei tanti protagonisti di fumetti, cartoons, videogiochi e gruppi rock che affollanola mitologia contemporanea. Come Deadpool, il supereroe Marvel la cui capoccia zombie è tutta un’esternazione, una parlantina dissacrante e un po’ saccente. E come il facondissimo Morte, teschio parlante e fluttuante di Planescape Torment, un videogioco di culto degli ultimi anni Novanta che, tra una reincarnazione e una riapparizione, fa sfoggio di una stupefacente affabulazione. E, su tutti, i Talking Heads che sono la vera ciliegina sulla tomba di Flegonte.
IL LIBRO Il libro delle meraviglie e tutti i frammentidi Flegonte di Tralle (Einaudi pagg. 111 euro 25)

lunedì 28 ottobre 2013

l’Unità 28.10.13
Il fantasma della Consulta
Ricorso respinto o stop al premio
La Consulta arbitro sul Porcellum
Il 3 dicembre i giudici possono azzerare il «bonus» di seggi: si tornerebbe a un proporzionale puro. Ma c’è anche l’ipotesi rinvio
di Andrea Carugati


E se fosse la Corte costituzionale a «riscrivere» la legge elettorale, supplendo l’inerzia del Parlamento? La domanda si sta trasformando in un rovello, un incubo per i bipolaristi, in particolare Matteo Renzi, che si troverebbe a guidare il Pd con una legge molto simile a quella della prima Repubblica.
Proporzionale puro, maggioranze che si formano in Parlamento dopo il voto, larghe intese senza una fine e arrivederci a tutti quelli che vorrebbero un governo la sera stessa delle elezioni.
Si dirà, ma non è il Parlamento ad avere la competenza esclusiva sulle leggi elettorali? Certo, ma nell’estenuante braccio di ferro tra un Pd che vuole il doppio turno in senso bipolare e un Pdl (più il M5S) che frena ogni riforma, stavolta la Consulta potrebbe svolgere un ruolo indiretto di «legislatore», abrogando il premio di maggioranza e lasciando per gli altri aspetti inalterato il Porcellum: resterebbero i parlamentari «nominati», e anche le soglie di sbarramento. Perché? Molti giuristi ritengono che le liste bloccate (che pure sono oggetto del ricorso alla Consulta) non possano essere tacciate di incostituzionalità, essendo presenti in altre democrazie europee. Tornerebbe però il proporzionale: tanti voti tanti seggi, come accadeva prima del 1993.
Tra i giuristi e gli esperti in queste settimane ci si interroga nervosamente. «Sarebbe una forzatura», spiegano alcuni. «Un grave errore, la Corte si assumerebbe una responsabilità politica enorme», ragiona il professor Roberto D’Alimonte, che sabato alla Leopolda di Renzi ha osato sfidare il senso comune e ha detto che, rispetto a una palude proporzionale, «è meglio tornare al voto col Porcellum».
L’abrogazione del premio di maggioranza, in realtà, è solo una delle strade che la Corte potrebbe imboccare, e non è la più probabile. I giudici guidati dal professor Gaetano Silvestri, che si riuniranno il 3 dicembre nel palazzo che guarda il Quirinale, potrebbero anche decidere di respingere il ricorso presentato dalla Cassazione nella primavera scorsa. Dal punto di vista giuridico, ci sarebbero alcuni estremi per farlo. La vicenda parte infatti nel 2009 a Milano. Un gruppo di cittadini guidati dall’avvocato Aldo Bozzi aveva citato in giudizio la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno contestando la legge elettorale del 2005 sui punti chiave del premio di maggioranza e delle liste bloccate. Secondo i ricorrenti, infatti, la legge attuale non consentirebbe agli elettori di esprimere il loro voto in modo libero e diretto. Quel ricorso era stato respinto sia dal tribunale meneghino che dalla Corte d’Appello, perché ritenuto manifestamente infondato. Ma nel maggio scorso la Cassazione ha ribaltato il verdetto, stabilendo che le questioni poste da Bozzi e gli altri sono «rilevanti» e ha chiamato in causa per via incidentale la Corte costituzionale.
Ora la questione è questa. Visto che i cittadini non possono ricorrere direttamente alla Consulta, c’è da valutare un punto: si tratta di un ricorso diretto «mascherato» oppure no? A favore di questa ipotesi c’è il fatto che i cittadini nel loro ricorso in giudizio facevano direttamente riferimento a profili di incostituzionalità del Porcellum. Ma la Cassazione, a maggio, ha ritenuto che, al contrario, l’azione non sia stata intrapresa all’unico scopo di interpellare la Corte costituzionale su una questione astratta. Ma che l’obiettivo fosse ottenere la rimozione dei pregiudizi al pieno esercizio del diritto di voto.
Nel mezzo delle ipotesi «estreme» abolire il premio di maggioranza o rigettare il ricorso ce ne sono almeno altre due. La Corte potrebbe comunque mandare un solenne monito al Parlamento sulle criticità di un premio di maggioranza senza soglia, invitando il Parlamento a porre rimedio e addirittura indicando il range per una soglia adeguata del premio. Oppure potrebbe rinviare la decisione nel merito. Una ragione per prendere tempoe così concedere altri mesi preziosi al Parlamento è arrivata all’inizio di ottobre, quando il Tar della Lombardia, che stava esaminando un ricorso sulla costituzionalità delle legge elettorale regionale approvata nel 2012, ha rimesso a sua volta la questione alla Consulta. Gli elementi del ricorso riguardano ancora una volta il premio di maggioranza e il sistema di elezione dei consiglieri. A questo punto, la Consulta potrebbe decidere di esaminare i due dossier contemporaneamente, consapevole che una pronuncia sul solo Porcellum avrebbe comunque effetti anche sulla legge lombarda.
Una via d’uscita diplomatica per evitare un intervento dalla portata politica enorme. Una legge amputata del premio, ma con i parlamentari nominati, infatti, piacerebbe molto a Grillo e anche a Berlusconi, i padri padroni che vogliono continuare a scegliere onorevoli a prova di fedeltà. Per un Pd di nuovo a vocazione maggioritaria invece sarebbe piombo sulle ali. Per questo nell’entourage di Renzi il 3 dicembre preoccupa assai più delle primarie dell’8. Perché è vero che il Parlamento potrebbe comunque intervenire subito dopo la sentenza. «Ma una legge riscritta dalla Consulta chi la cambierebbe più?».

l’Unità 28.10.13
Pochi alle urne in Trentino
di Virginia Lori


Giornata di voto, ieri, con dati di affluenza di segno quasi opposto per le Province autonome di Trento e Bolzano, dove si eleggono i rispettivi consigli provinciali, la cui riunione congiunta costituirà pure il rinnovando consiglio regionale, per il quale, nella Regione autonoma, non è prevista elezione di primo grado, né elezione diretta del presidente.
In Alto Adige, alle 17, si registrava un’affluenza al 56,6 %, con 210.976 votanti arrivati ai seggi e un incremento dello 0,9% rispetto alle elezioni del 2008. In Trentino invece l’affluenza si fermava al 38,89%, con un deciso calo rispetto al 2008, quando alla stessa ora si era registrato un 46,23%.
Eppure la sfida, di cui oggi si sapranno i risultati, non era di poco conto. Con questa tornata di amministrative infatti si chiude un’era segnata dal «Kaiser» presidente per 25 anni della Provincia di Bolzano, Luis Durnwalder, e dal «principe» (per 14 anni) della Provincia di Trento, Lorenzo Dellai. Per la Provincia autonoma di Trento, la vera sfida è tra il candidato della coalizione di centrosinistra autonomista uscente, Ugo Rossi, 50 anni, attuale assessore alla Salute, e l'imprenditore Diego Mosna, 65 anni, presidente della squadra di pallavolo trentina, sostenuto da sei liste civiche.
Per la Provincia autonoma di Bolzano vige la vecchia normativa, che non prevede elezione diretta del presidente ma la rinvia in secondo grado, una volta eletti i consiglieri provinciali, tra i quali, a scrutinio segreto, verrà designato il presidente. Per il centrodestra corre la coalizione composta da Forza Italia, Lega Nord, Team Autonomie con la capolista Elena Artioli. Il Südtiroler Volkspartei, la forza politica che raccoglie solitamente la metà circa dei voti totali con picchi assoluti nelle vallate alpine e lontano dal capoluogo, presenta Arno Kompatscher. Il Pd ha capolista Christian Tommasini.

l’Unità 28.10.13
Il voto davvero libero è un voto palese
di Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Non credo che il voto segreto di un parlamentare sia garanzia di libertà di coscienza. Piuttosto, è spesso una manifestazione di irresponsabilità, come qualsiasi dichiarazione anonima. Chiediamo il voto palese sulla decadenza di Berlusconi, perché il giudizio di ogni parlamentare sia libero, ma riconoscibile dagli elettori.
MASSIMO MARNETTO

Mai come in questa occasione il voto segreto servirebbe solo a determinare o ad alimentare degli equivoci. A nascondere la mano dopo aver tirato il sasso o, magari, a dimostrare a chi di dovere, con la foto del telefonino, che ci si è comportati nel modo concordato con lui. Mai come nel caso in cui ci si esprime con un sì o con un no sulla sorte di un uomo potente, ricco e vendicativo necessaria è soprattutto la chiarezza della posizione che si esprime, il coraggio di esporsi di fronte a lui ed all'opinione pubblica. Avvinti come l'edera al sogno di salvarlo, decisi a dimostrarsi comunque e fino in fondo servi fedeli del re che li ha portati in Parlamento, continueranno ovviamente, i suoi, a esporsi solo con la richiesta di poter votare in segreto: come lui ha richiesto. Fedeli all'idea di non esporsi mai più di tanto per avere sempre le mani libere, comunque si mettano le cose «dopo», si schiereranno con loro probabilmente anche altri di cui si dice oggi che sono «centristi» o «cerchiobottisti»: in ossequio ad una «neutralità» che nasconde la paura. Rendendo sempre più difficile, se ci riusciranno, quella fiducia nella politica caduta oggi così in basso. Anche o soprattutto per colpa di atteggiamenti come questi.

il Fatto 28.10.13
La Leopolda
Renzi leader Pd per raderlo al suolo
di Wanda Marra


C’è scritto “stupore” sulla lavagnetta del palco della Leopolda 2013, mentre Matteo Renzi tiene il suo intervento di chiusura. In effetti lo spettacolo che offre la vecchia stazione industriale dalla quale il sindaco di Firenze sferrò il suo attacco all’establishment del Nazareno per la prima volta nel 2010 ha qualcosa di stupefacente. Tantissima gente, seduta, in piedi, intorno ai tavoli. “Sedicimila presenze – dirà dopo l’organizzatrice Maria Elena Boschi – ma il clima non è cambiato”.
Ma nonostante la cornice sia la stessa (interventi uno dopo l’altro, spezzoni di video, colonna sonora assordante e il Sindaco sul palco a fare da dee-jay, moderatore, presentatore, commentatore) l’energia da rotta-matrice si è fatta conquistatrice. E lo stupore forse è soprattutto il suo: il giovane Matteo voleva fare il premier, si ritrova a correre da super favorito per la segreteria di un partito contro cui ha lottato fino all’altroieri. Un partito che vuole radere al suolo da dentro e rifondare dalla testa ai piedi. Neanche per la chiusura ci sono i simboli del Pd: “L’ importante non è che ci siano le bandiere sul palco, ma le croci sulle schede elettorali”, dice, trovando il primo slogan nel suo intervento. Parla a mezzogiorno. Non senza aver accolto gli arrivi: “Benvenuti Franceschini e Migliore, benvenuto Nencini”. Se Epifani è salito sul palco, Franceschini non lo fa. Andando via commenta: “Qui mi sento a casa”. Per l’intervento programmatico, Renzi torna in piedi, jeans e camicia bianca. Fissa 4 punti e dice “Ci rivedremo tra un anno qui alla Leopolda, per vedere cosa si è fatto”. Il suo “contratto con gli italiani”. E dunque. Le riforme costituzionali. Fine del bicameralismo perfetto, via le province (“Non è un dramma se qualche politico va a lavorare”, boato in sala). Torna sulla legge elettorale: “Tra Porcellum e Porcellinum io so che quello dei sindaci è un modello che funziona". Parla di lavoro: "La sinistra che non cambia si chiama destra".
E allora, “essere di sinistra è creare un posto di lavoro in più. Chi fa l’imprenditore fa l’eroe perché crea posti di lavoro". Non risparmia i sindacati: “Vogliamo che abbiano una legge sulla rappresentanza”. Stefano Fassina lo attacca nel suo blog sull’Huffington Post: “Le proposte che fai in materia finanziaria hanno rilevanza zero”. Come emblema della riforma della giustizia “ineludibile” cita il caso di “Silvio” (non Berlusconi, Scaglia): fondatore di Fastweb, ingiustamente detenuto per un anno e poi prosciolto. Critica l’Europa: “La nomina della Ashton è stato un disastro”. Verso le conclusioni torna alle battute: “Mi devono attribuire per forza un guru: guruGori o guruGutgeld”. Fa un elogio della semplicità, e se la prende con chi ha detto che non capisce quali libri legga (D’Alema, ndr). Una politica senza intellettuali. Dichiara: “Dobbiamo prendere i voti di Grillo”. Finale poetico: “Per trovare la strada dobbiamo farci guidare dal bambino che è in noi”. Entusiasmo alle stelle, fedelissimi galvanizzati.
Un programma da premier, ma nessun attacco frontale al governo. “Non vogliamo tornare alle elezioni”. Ragionano i suoi che Renzi ha chiaro che se il Pdl si spacca Letta dura fino al 2015. E Franceschini va a Sky a ribadire che le larghe intese non sono per sempre, ma che “il governo dura, spazzati i sospetti”. D’altra parte l’ex Rottamatore ha bisogno di tempo per riformare da capo un partito, pronto altrimenti a farlo a pezzi. Neanche il tempo di chiudere la Leopolda che parte una riunione dei Comitati. Le tessere gonfiate sono già un caso. Una circolare del Nazareno ha stabilito che sopra il 10-25% di nuove tessere bisogna fare un controllo. “Limiti alla partecipazione”, dal palco denuncia il renziano Magorno. Ma in realtà agli uomini del sindaco di Firenze la misura va bene. Gli imbrogli, si dice, ci sono da entrambe le parti. Dagli oppositori di Renzi sono in arrivo accuse pesanti: iscrizioni da parte dei renziani di gente legata alla criminalità. Si promettono prove ed elenchi. “Non vogliamo essere accusati di compravendita – dice il coordinatore delle primarie di Matteo, Bonaccini – va bene la trasparenza”. Il clima si riscalda. È il congresso del Pd, bellezza.

Repubblica 28.10.13
Il Sindaco e il Cavaliere, due destini incrociati
di Ilvo Diamanti


NON è un caso che Berlusconi abbia sciolto il Pdl e rilanciato Forza Italia in coincidenza con la Leopolda. La convention organizzata da Matteo Renzi a Firenze. E non è un caso che la ri-nascita di Fi sia stata prevista nello stesso giorno delle primarie del Pd. L’8 dicembre. Berlusconi, in questo modo, intende, ovviamente, “trainare” la propria ri-discesa in campo. Utilizzando un evento di successo, in grado di mobilitare milioni di persone.
E l’attenzione dei media, com’è avvenuto un anno fa. Quando, all’indomani delle primarie, i sondaggi attribuirono al Pd stime di voto mai raggiunte, in passato. Ma neppure in seguito, visto il modesto risultato ottenuto alle elezioni di febbraio. (A conferma che le primarie non sostituiscono le campagne elettorali.) A Berlusconi interessa associare le primarie del Pd e il rinascimento di FI. Ma anche le due leadership. Renzi e, appunto, se stesso. In un momento in cui la stella di Renzi è ancora luminosa. Quella di Berlusconi molto fioca, se non proprio spenta. Renzi, d’altronde, non ha parlato di Berlusconi perché intende guardare al futuro. Mentre Berlusconi ha rilanciato, consapevolmente, il passato. Perché tale è FI. Un soggetto politico fondato giusto 20 anni fa. D’altronde, la fine del Pdl sancisce ciò che, di fatto, era già avvenuto. La scomparsa di An. Il partito post-fascista che aveva rotto con la tradizione fascista, appunto. Guidato da Gianfranco Fini, era divenuto un partito democratico della Destra europea. An, alle elezioni del 2006, aveva ottenuto 4 milioni e 700mila voti, oltre il 12%. FI: 9 milioni e quasi il 24% dei voti validi. Due anni dopo, alle elezioni del 2008, FI e An si erano riuniti dietro alle bandiere del Popolo della Libertà, “inventato” nel novembre 2007, da Berlusconi. Per rispondere (non a caso) alla fusione dei Ds e della Margherita nel Pd, guidato da Walter Veltroni. Il Pdl, in quell’occasione, riuscì a intercettare l’elettorato dei due partiti, oltre 13 milioni e mezzo. E ne rafforzò il peso percentuale: 37,4%. Un percorso concluso, alle ultime elezioni, 8 mesi fa. Nelle quali il Pdl ha perso 6 milioni e 300mila voti e oltre 15 punti percentuali. In altri termini: quasi 2 milioni e oltre 2 punti meno di FI da sola, nel 2006.
Berlusconi, dunque, ha semplicemente preso atto che An è scomparsa, insieme alsuo leader, Gianfranco Fini. E ha tentato un “ritorno al futuro”. Allo spirito dei padri fondatori. Cioè, lui stesso. Dietro a questa scelta, c’è, ovviamente, il proposito di “eliminare”, insieme al Pdl, anche i traditori. Ma c’è anche l’intenzione, o almeno la speranza, di saltare sul “carro” di Renzi. Anch’egli, come altri dirigenti del Pd, divenuti, all’improvviso, tutti quanti e tutti insieme, “renziani”. Berlusconi, “renziano” anche lui. Per rientrare in gioco, contro il più “berlusconiano” dei leader del centrosinistra — secondo molti osservatori, non solo critici. A Matteo Renzi, d’altronde, questo inseguimento al contrario, rispetto al passato (quando tutti imitavano Berlusconi), non dovrebbe dispiaceretroppo. Anzitutto, perché Berlusconi non è certo finito, come dimostra la sua reazione di questi giorni. Ma è, sicuramente, più “vecchio”. In senso anagrafico e non solo.
Poi, perché, comunque, il rafforzamento di Berlusconi significa l’indebolimento di Enrico Letta e del governo di larghe intese. Il vero fortilizio dove agiscono gli oppositori di Berlusconi. Alfano e i ministri: del Pdl, non di FI. Il ritorno di FI, di conseguenza, significherebbe abbandonare al loro destino i ministri del Pdl. Ma anche il governo e il premier, Letta. La cui posizione appare in crescente contrasto con quella di Renzi. Perché, da un lato, Letta è l’unico leader, in Italia, che, per livello di popolarità e di consenso personale, possa competere con Renzi. E, anzi, nelle ultime settimane, sembra averlo superato. D’altra parte, comunque, il tempo gioca a sfavore di Renzi. La lunga durata, alla guida di un partito complesso, come il Pd, rischia di logorarlo. O, almeno, di appannarne lo smalto. «Mai più larghe intese », risuonato più volte ieri alla Leopolda, echeggia dunque come: «Mai più Letta».
Da ciò l’impressione che a Renzi, in fondo, il confronto con Berlusconi non dispiaccia. Perché evoca un modello di democrazia che gli piace e lo favorisce. Fondato sulla “personalizzazione”. Un processo in atto in tutte le democrazie occidentali. Anche se in Italia è stata condizionata dalla costruzione di “partiti personali”. Cioè, di partiti “privati”, dipendenti dalle risorse — economiche, comunicative e organizzative — di una persona. Per prima e prima di tutti, Forza Italia. Appunto. Il Centrosinistra ha, invece, respinto la “personalizzazione”, interpretando il ruolo del “partito impersonale”. Senza personalità e senza persone in grado di “rappresentarlo”. Nelle mani di “un’armata — poco gioiosa e molto disorganizzata — di micro-notabili” (come osserva Mauro Calise nell’acuminato saggio, emblematicamente intitolato Fuorigioco e appena pubblicato da Laterza).
Per questo la sfida lanciata da Matteo Renzi alla Leopolda non sembra rivolta tanto agli altri candidati, in vista delle primarie. Con i quali non c’è partita. Ma, soprattutto, al Partito Democratico in quanto tale. Cioè: in quanto “partito”, erede di “partiti” — di massa. Non a caso non ha voluto bandiere di “partito”. E ha dichiarato l’intento di “rottamare le correnti”, per prima la propria. Perché ciò che gli interessa, soprattutto, è scardinare la logica del partito. O meglio, dei partiti da cui provengono il Pd, i suoi consensi e i suoi gruppi dirigenti — centrali e locali. A Renzi interessa andare oltre le tradizioni e la storia — di chi “viene da lontano”. Oltre i post-democristiani e, prima ancora, oltre i post-comunisti. In altri termini: oltre il Pd. Per questo, in fondo, le strade di Berlusconi e di Renzi, per quanto percorse in direzione opposta, sono destinate a incrociarsi. Perché Berlusconi torna a FI per andare oltre il Pdl. Per restaurare il “partito personale”. Mentre Renzi intende vincere le Primarie per rottamare il Pd. Insieme a ogni larga intesa e a ogni Mediatore legittimato dal Presidente. Renzi: vuole fare il Sindaco d’Italia. In nome di una democrazia diretta e personalizzata.
Prepariamoci. Dopo il prossimo 8 dicembre nulla resterà come prima.

Corriere 28.10.13
Manager, ministri e dalemiani I poteri vecchi e nuovi si schierano
In platea Latorre. La sorpresa del deputato Sel Gennaro Migliore
di Fabrizio Roncone


FIRENZE — C’è uno che giura di aver visto Gennaro Migliore.
«Il comunista?».
Sì, il deputato di Sel.
«Nooo... Non ci credo...».
E invece sì, è vero: guarda un po’ laggiù.
«Porc... Ma che ci fa quello qui?» (il fotografo schizza via a cercare un primo piano).
Da tre ore tutti aspettiamo il discorso di Matteo Renzi e sembra che davvero ormai ci siamo. È quasi mezzogiorno tra le mura sbrecciate della vecchia stazione Leopolda, il riverbero di luci gialle da lampade d’acciaio, e lui lì, sul palco, che si tira su i pantaloni stretti come quelli di un cantante rock, stretta pure la camicia, e poi tossisce, fa ciao con la mano, occhietti e complicità con la folla che, sotto, ondeggia.
Gli stanno sistemando il microfono. Ma c’è il filo che non arriva.
Sono quei lunghi momenti che paiono perfetti per far scorrere, un’ultima volta, lo sguardo sui ranghi dei partecipanti a questa convention ormai molto simile a un congresso (non c’è solo Migliore, ma anche Riccardo Nencini, il segretario del Psi. «M’hanno invitato, e sono venuto. Che male c’è?»).
In politica, spesso, succede così: le vittorie si annusano, l’odore del nuovo possibile potere è inconfondibile. L’ultima volta entravano con il bavero alzato, stavolta fanno passerella. Segnalate anche belle rimpatriate. Per dire: si ritrovano i Lothar (teste pelate e furbissime) di Massimo D’Alema che, all’epoca di Palazzo Chigi, era soprannominato «Mandrake». Fabrizio Rondolino ha fatto sapere di aver lasciato Il Giornale per poter scrivere su Europa e raccontare così l’avventura di Renzi. Claudio Velardi, applaude. Nicola La Torre resta appoggiato a una colonna, ragiona di politica — «Renzi è il futuro, non c’è dubbio» — poi vede una porta con su la scritta «Sala apparati» e, per una sorta di riflesso condizionato, prova a entrare: lo fermano spiegandogli che è pericoloso, ci sono i generatori di corrente.
Il potere della politica incontra, si fonde, con quello del denaro. Prima di venire qui Renzi è andato a presentare il libro dello stilista Roberto Cavalli. Poi è comparso anche un altro stilista simpatizzante: Brunello Cucinelli. Flavio Briatore ripete: «Matteo è un asset della politica italiana. E lo voterei, sì, certo». C’è la stima di Andrea Guerra, manager di Luxottica, e di Oscar Farinetti, l’inventore di Eataly, che addirittura, davanti ai cronisti, si preoccupava degli sconfitti: «Sarebbe bello se Matteo chiamasse Cuperlo a fargli da vice». Poi, ad un certo punto, l’altro giorno è arrivato il finanziere Davide Serra: «Sono venuto a Firenze solo per Matteo. Non sarei mai salito su un palco dove c’erano Epifani, Fassino e Franceschini».
Perché c’erano e ci sono stati anche loro. Dario Franceschini persino con truppe al seguito: Giacomelli, Rosato, Martino, Garofani. Laggiù, ecco pure David Sassoli e Pina Picierno. Marianna Madia è andava via da poco ma è rimasta Anna Paola Concia.
«Guardi quanta gente, guardi come aspettano di sentire Matteo...» (la Concia, raggiante).
Anche oggi, però, neppure una bandiera del Pd.
«Ma lasci stare le bandiere...».
Così, però, sembra il partito di Renzi...
«E se fosse? C’è lui, è forte, è nuovo... vogliamo vincerle, le elezioni, o no?».
Ci sono tanti ex ultrà bersaniani. Come il sindaco di Bologna, Virginio Merola, e quello di Bari, Michele Emiliano. È diventata renziana anche Debora Serracchiani. C’è un signore con al collo un passi su cui è scritto: «Domenico staff» (e assomiglia tanto al sottosegretario all’Interno Domenico Manzione). Alessia Rotta, deputata veronese: «L’hanno scorso ero con la Puppato. Ora sono qui».
Prima è andato a parlare sul palco Alessandro Baricco, scrittore e maestro di scrittura, l’unico capace di far scendere un silenzio assoluto in stazione e in sala stampa.
La sala stampa è stata allestita dove un tempo c’erano le biglietterie: un po’ rustica, ma affollata. I tigì italiani e quelli stranieri, le squadre mandate da «Porta a porta», «Ballarò», «Agorà» e «Piazza Pulita».
Come per un congresso, appunto.
«Beh, sì, un congresso... del resto, scusi: lo sapete tutti che Matteo tra un mese sarà il nuovo segretario, no?» (il ministro Dario Franceschini in camicia casual, molto renziano).
Lei, ministro, non avverte ci sia un forte odore di potere?
«Guardi, io avverto un forte odore di cose nuove e, forse per la prima volta, nella vicenda politica di Matteo, concrete».
Può essere più preciso?
«Stavolta io credo sia stato fatto uno scatto in avanti: non ci sono state soltanto chiacchiere interessanti, ma siamo entrati anche nel dettaglio del cosa fare, e come, e perché».
Fa un po’ caldo. La gente spinge.
Il microfono è stato finalmente posizionato. È un microfono stile anni Cinquanta, di quelli che usava Little Tony.
Renzi si posiziona, e attacca.
«La Leopolda, lo sapete, non prevede conclusioni...».

Corriere 28.10.13
Un discorso senza donne ed è polemica in Rete
di Paola Pica


La mamma italiana che cucina bene come piace a Martin Scorsese è una protagonista del nostro blog, la 27esima Ora , figuriamoci se non ci è cara la mamma imperfetta che, proprio come accadrebbe nella web fiction su Corriere.tv , si perde il figlio alla Leopolda. Ma il ragazzino non è mica rimasto solo tra adulti estranei. Il bimbo era in compagnia di un «educatore». Basterebbe quest’ultima parola, recuperata e messa sul palco insieme ad altre cadute in disuso, come lo «stupore», per essere grati, e grate, a Matteo Renzi del futuro che prova a immaginare per il nostro Paese. Però, fatta eccezione per le due mamme, unico modello citato, nell’Italia dipinta dal nuovo leader carismatico, il posto delle donne non si sa qual è. Non è mancata la presenza femminile a fianco
di Renzi. E sappiamo che quest’obiezione non rende merito alle tante e brave militanti che sulle donne hanno lavorato a Firenze in questi giorni. In Rete, dove molto ieri si è discusso di questa «dimenticanza», qualcuna ha sostenuto che questa è la parità. Sarà. Resta un fatto che nella sintesi conclusiva del «capo» la questione femminile è rimasta fuori. Credere di farcela senza le donne, mai citate nemmeno nell’annunciare una cosa importante come il piano per il lavoro, ha dell’incredibile. Un mondo di maschi per bene, giovani, simpatici, tra la bella politica e i compiti con i figli, è già qualcosa. Ma non basterà a farci fare il salto.

Corriere 28.10.13
Quello che manca alla vera svolta
Quel passo in più che il sindaco dovrebbe fare
di Antonio Polito


Nella linea di Renzi sembra persistere una forma di scaltrezza: l’attualità politica impone delle risposte, ma il problema dei problemi è sempre un altro: «Cambiare l’Italia».
Alla sua terza o quarta discesa in campo, Matteo Renzi è un po’ troppo simile a se stesso. Neanche l’ultima Leopolda da giovane candidato gli ha fornito una matura piattaforma da segretario. Eppure tra poco più di un mese, pur non essendo in Parlamento (come Grillo), avrà il compito di guidare un esercito di più di quattrocento parlamentari. Le sue idee dovranno dunque diventare rapidamente proposte di legge, o appassire; dovranno trasformarsi ogni giorno in emendamenti e voti. Veltroni usò il Lingotto per questo rito di passaggio. Renzi non ha ancora avuto il suo Lingotto. In lui sembra far premio la scaltrezza. A quasi nessuna delle scelte che l’attualità politica impone viene data risposta perché: «Il problema è cambiare l’Italia».
Per farlo davvero, è però giunto il momento di scendere nei dettagli. E su un punto ieri Renzi l’ha fatto. La sua idea di riforma elettorale comincia infatti a precisarsi, soprattutto perché sembra accoppiarsi all’idea di un cambiamento costituzionale che lascia a una sola Camera il voto di fiducia e apre al premierato forte. Dovrebbe dunque assomigliare molto alla soluzione che propongono sia Violante sia D’Alimonte (presente alla Leopolda), nota come «doppio turno di coalizione»: ciò che aveva suggerito ieri su questo giornale Angelo Panebianco. È un’idea che ha margini realistici di trattativa politica, a patto che il governo duri e che il processo di riforme vada avanti. Se Renzi gettasse il peso del suo Pd su questa linea, invece che su un’agitazione pre-elettorale, si tratterebbe certamente di una svolta.
Così come una svolta, questa però con molti meno dettagli, è quella cui Renzi ha alluso in materia di giustizia. Non è infatti facile dire alla sinistra che il sistema giudiziario italiano merita una radicale riforma, anche se lo si dice in nome di Silvio Scaglia invece che di Silvio Berlusconi. Però Renzi l’ha detto, e ha ragione. Resta da chiarire come cambiarlo: limitando i casi di carcerazione preventiva? separando le carriere? modificando il Csm?
Sull’economia, e sull’asfissia del nostro Stato sociale, resta invece una nebbia alquanto fitta. Il posizionamento innovatore di Renzi è chiaro, molto meno sono chiare non dico le soluzioni (difficili da trovare per tutti) ma anche le direzioni di marcia. Anzi, si ha l’impressione che dal vuoto finiscano inevitabilmente per affiorare idee bislacche e pericolose come quella esposta dal finanziere Davide Serra alla Leopolda, secondo cui i pensionati con il retributivo - cioè praticamente tutti i pensionati italiani - sono «persone che rubano».
Si giunge qui a uno dei nodi più delicati del renzismo: il giovane leader è troppo solo. Intorno a lui non è cresciuta in questi anni una squadra di cervelli all’altezza delle ambizioni, né uno staff che sappia organizzarle. Renzi è, anche visivamente, un one-man-show: alla Leopolda faceva il regista, il conduttore e il d.j. Nel precedente storico spesso a lui accostato, l’ascesa di Blair a capo del New Labour, non fu affatto così. Come Renzi, Blair possedeva una dote che mancava disperatamente alla sinistra: era in grado di farla finalmente vincere perché giovane, simpatico, diverso. Dio solo sa se il Pd ne ha bisogno. Ma, a differenza di Renzi, Blair aveva Gordon Brown che preparava le politiche economiche da applicare una volta al governo, Peter Mandelson che ne curava la presentazione, David Miliband che sfornava idee nuove, Philip Gould che studiava l’elettorato, Alastair Campbell che ispirava la stampa, Jonathan Powell che avrebbe venduto il pacchetto alle diplomazie di tutto il mondo, e - si parva licet - Bill Clinton che lo spingeva da Washington e gli insegnava tutto ciò che sapeva.
Per quanto capace sia l’animale politico Renzi, e lo è, è difficile che possa far tutto da solo. Inoltre gli spetterà il difficile esercizio di saltare alla guida dell’auto in corsa, mentre cioè il Pd è già al governo, e non potrà dunque nemmeno rimandare le scelte importanti a quando al governo andrà lui. Finora il Pd è stato una storia di insuccesso perché non ha saputo praticare il riformismo con il consenso. Renzi ha finalmente il consenso; avrà anche il riformismo?

Repubblica 28.10.13
Fassina: “Renzi è ambiguo le sue proposte sono propaganda. E la nostra identità è un valore”
Cuperlo: ma il sindaco vuole cambiare il Porcellum?
di Giovanna Casadio


ROMA — «Il primo requisito di Renzi, che si candida a ricostruire il paese, deve essere la serietà... invece fa una operazione culturalmente ambigua». Stefano Fassina, vice ministro all’Economia, non risparmia attacchi al “rottamatore”. Come del resto Gianni Cuperlo, lo sfidante del sindaco di Firenze che Fassina sostiene. Cuperlo accusa Renzi di non volere davvero cambiare la legge elettorale: «Il Porcellum lo cancelliamo o no? Non l’ho capito dal discorso alla Leopolda». E Fassina rincara.
Un “caterpillar cappottato” che fa “proposte pari a zero sulla legge si stabilità” sono le sue bordate contro Renzi. Il disaccordo tra voi è sempre più profondo, Fassina?
«Il primo requisito di una classe dirigente che si candida a ricostruire il paese deve essere la serietà, ripeto. Mi riferisco non solo a Renzi, anche a tutti quelli che, da Brunetta a illustri commentatori, chiedono coraggio sulla legge di stabilità, e poi fanno seguire proposte generiche e inutilizzabili. Adesempio, dovrebbero indicare quali sono le misure coraggiose per tagliare di 20 miliardi all’anno il cuneo fiscale. Quando si propongono come copertura le dismissioni o l’intervento sulla spesa in conto capitale, si deve sapere che sono entrate una tantum, che non possono essere utilizzate per riduzioni permanenti di imposte».
Le giudica sbagliate?
«Dico che il contributo di proposte di Renzi sul taglio del cuneo fiscale sono pari a zero. E non è serio nella situazione drammatica in cui siamo, fare propaganda».
Se Renzi diventa segretario del Pd, lei cambia partito?
«Assolutamente no. Ma mi impegnerei per fare cambiare rotta al Pd di Renzi».
Quella di Renzi è una vittoria annunciata alla guida del Pd?
«I conti li facciamo la sera delle primarie, l’8 dicembre, nonostante l’opportunismo di molti dirigenti. Con Cuperlo combattiamo una battaglia controcorrente, con uno schieramento mediatico straordinariamente sfavorevole e con la consapevolezza che una parte dell’elettorato del Pd è segnata da subalternità culturale al riformismo neo liberista e dalla personalizzazione della politica».
Accusa il sindaco di Firenze di essere un Berlusconi della sinistra?
«Sto dicendo che anche noi risentiamo del ventennio alle nostre
spalle».
Sulla legge elettorale e la difesa del bipolarismo può esserci sintonia?
«Sulla legge elettorale il Pd è per il doppio turno. Dopo di che, per approvare la legge è necessaria una maggioranza possibilmente larga. A Norcia nel seminario della Fondazione “Magna Charta” con Gaetano Quagliariello e Maurizio Sacconi del Pdl, abbiamo discusso della necessità di condividere un quadro di principi senza i quali ricadiamo nel bipolarismo rissoso e inconcludente della Seconda Repubblica. Nel Pd siamo tutti convinti che le larghe intese siano un evento d’emergenza. E tutti puntiamo a un governo alternativo al centrodestra».
Il “basta larghe intese” di Renzi è un avviso di sfatto al governo Letta?
«Spero di no. È l’obiettivo da tutti condiviso per ripristinare un’alternanza tra schieramenti avversari. Comunque la durata del governo non la definiscono né Berlusconi né Renzi ma l’efficacia della sua attività».
Anche lei, come Cuperlo, critica l’assenza di bandiere del Pd alla Leopolda?
«Sì, mi preoccupa, Dobbiamo essere fieri della nostra identità di partito».
Meglio una bandiera in meno e una croce sulla scheda in più?
«Per avere una croce in più ci vuole una identità chiara e forte, non tentare di fare operazioni culturalmente e politicamente ambigue ».
Renzi è per lei ambiguo e poco serio?
«Vedo rischi. Sostengo Cuperlo perché ha una proposta di innovazione radicale e culturalmente autonoma».

La Stampa 28.10.13
Battaglia nei circoli
Ballottaggio a Milano A Roma rissa sfiorata per i tesserati dell’ultimo giorno
di Francesca Schianchi


ROMA A Milano, si va al ballottaggio in Assemblea provinciale, se la giocano il renziano Bussolati e la bersaniana Cavicchioli. A Palermo ha già vinto il candidato del sindaco di Firenze, Carmelo Miceli. A Roma si è espressa la metà dei circa cento circoli capitolini, e per ora è in vantaggio l’aspirante segretario sostenuto da Goffredo Bettini, Lionello Cosentino, ma si va avanti a votare ancora fino al 5 novembre. Si prosegue a votare anche a Torino, dove, per ora, è in testa l’ex senatore Fabrizio Morri, vicinissimo al sindaco Fassino, area Renzi.
La macchina dei congressi del Pd è partita, con quelli locali. E se alle primarie nazionali dell’8 dicembre il vincitore sembra annunciato (nonostante la cautela di Renzi, secondo cui chi dice che il risultato è scontato «vuole allontanare la partecipazione»), sui territori le partite sono molto più combattute. Condite pure, spesso, da polemiche, tensioni e minacce di ricorsi.
Come ieri, al circolo di Trastevere, a Roma, quando la situazione s’è scaldata perché, a pochi minuti dal voto, si è presentato un drappello di persone per tesserarsi. Un tempismo sospetto e poco gradito «agli iscritti reali», come dice il neosegretario del circolo, Alberto Bitonti, che già un paio di giorni fa aveva inviato una lettera aperta su Facebook a Renzi per denunciare «l’infiltrazione anche nel fronte renziano di logiche clientelari che vanno contro tutto ciò in cui crediamo». O come in Calabria: il deputato renziano Ernesto Magorno chiede un incontro al segretario Epifani e paventa il ritiro delle candidature. In alcune località, denuncia Magorno, c’è stato «l’allontanamento dei cittadini ai quali è stato impedito di iscriversi al nostro partito». Il tutto, sembra, a causa di come è stata interpretata una circolare inviata nei giorni scorsi dalla Commissione congresso, capitanata da Davide Zoggia, dove si dice che, in caso di aumenti di tesseramento sospetti, saranno predisposti controlli. Per carità, interviene Zoggia, però «nessuno deve essere respinto e a nessuno deve essere impedito di votare». Ancora, a Torino, dove venerdì è stato inviato un osservatore da Roma che ha certificato la regolarità del tesseramento, l’ex deputato Giorgio Merlo sostiene si stia tenendo un congresso «praticamente uguale a quello della decadente Dc torinese della fine Anni 80 e inizio Anni 90».
Malumori, polemiche, e minacce di ricorsi rischiano di essere ancora numerosi.

La Stampa 28.10.13
La denuncia del senatore Esposito
“Fuori dal seggio davano i soldi per iscriversi al Pd e votare”
di Maurizio Tropeano


Fabrizio Morri, il candidato alla segreteria torinese del Pd e testimonial del patto tra Piero Fassino e Matteo Renzi, potrebbe essere eletto al primo turno. Certo, al conteggio finale mancano ancora i voti di due circoli di Torino (San Salvario e Lingotto) e di Nichelino ma l’ex parlamentare del Pd ad oggi dovrebbe avere in mano il 56 per cento dei delegati e la spinta decisiva potrebbe arrivare dal circolo dell’hinterland dove gioca un ruolo chiave il sindaco, Pino Catizone, renziano della prima ora. Va detto che si tratta di un’assegnazione provvisoria calcolata su poco più di 5500a voti registrati in 59 delle 98 sezioni provinciali. Morri va meglio nei circoli della città e peggio nel resto della provincia e a spingerlo verso il ballottaggio potrebbero essere i delegati che saranno riassegnati con il recupero proporzionale. E poi ci sono i ricorsi. Matteo Franceschini Beghini ne ha presentato uno per contestare il congresso di Barriera di Milano e ne presenterà un’altro per quello di Venaria. Senza dimenticare la denuncia del senatore del Pd, Stefano Esposito, sostenitore di Cuperlo e di Aldo Corgiat: ho visto una persona, credo iscritta al circolo di Santa Rita consegnare i soldi per la tessera a due signori che poi hanno votato.
La denuncia
Esposito affida a Facebook il suo racconto/denuncia della coda per votare. Venti minuti che definisce «davvero istruttivi». Il cuore del racconto è questo: «Due signori, in coda per fare la tessera alla richiesta dei 15 euro necessari per l’iscrizioni sbottano: “ma come devo anche pagare?”. Escono dal circolo e io incuriosito li seguo e vedo che girato l’angolo di Via Giacomo Dina, un signore, credo iscritto al circolo, gli dà i 15 euro, loro rientrano, rimettendosi in coda per iscriversi al Pd». E commenta: «Solo nelle giornata di ieri i nuovi iscritti al Circolo sono stati 111!! In 27 anni di militanza politica non avevo mai assistito a niente di paragonabile».
La replica
Il senatore non fa i nomi dei protagonisti di questa vicenda ma è chiaro se si vanno a vedere i risultati del voto in quel circolo si scopre che Morri ha stravinto. In quel circolo il punto di riferimento è il consigliere regionale Andrea Stara che è stato anche presidente della Circoscrizione. Il suo è un racconto completamente diverso: «Chi ha fatto queste affermazioni se ne dovrà assumere tutta la responsabilità perché le sue affermazioni sono gravi. Io personalmente ho visto un film completamente diverso, certo c’era uan discreta affluenza anche di persone che sono ritornate a partecipare alla vita di partito». E aggiunge: «E’ paradossale che invece di far mettere a verbale quanto accaduto e chiedere l’intervento del garante del partito si scelga di spargere veleno in modo gratuito su un congresso».
Il peso dei nuovi iscritti
Quel che è certo è che le regole dei congressi provinciali hanno portato al boom dei tesseramenti last minute. Un fenomeno preceduto nei giorni scorsi dall’allarme lanciato soprattutto da Aldo Corgiat, sindaco di Settimo: «Una volta tanti iscritti del partito erano dipendenti della Fiat, oggi lavorano per cooperative di servizi o società autostradali». E alle polemiche è
seguito il giallo risolto delle tessere fantasma. In ogni caso ieri in alcuni circoli della città e della provincia si è registrato una richiesta di nuove adesioni che i vecchi militanti non ricordano di aver visto. Da Moncalieri a Settimo passando appunto anche per Santa Rita e Borgo Vittoria. Malcontanti si può arrivare ad almeno 500 nuove adesioni, forse di più. Con boatos che raccontano di pacchetti di tessere custodite dentro uno zainetto, di password cambiate dall’oggi al domani, di extacomunitari in coda con moduli in bianco. Tina Pepe, presidente della commissione elettorale, ha deciso di convocare nei primi giorni della prossima settimana tutti i commissari: «Farà fede quello scritto sui verbali. Abbiamo già ricevuto alcune segnalazioni che dovranno essere verificate».

Corriere 28.10.13
L’ascesa dei piccoli rottamatori. Grazie (anche) ai nuovi iscritti
di Andrea Senesi


MILANO — «Ti rendi conto che hai battuto la Cgil?», gli hanno chiesto l’altra sera a sezioni ormai vuote. Pietro Bussolati ha 31 anni, è un renziano e la prima tessera che s’è messa in tasca è quella del Pd, quattro anni fa. Oggi è a un passo dal diventare segretario provinciale di Milano. È il candidato che ha raccolto più voti (il 33 per cento, con punte da maggioranza assoluta in alcuni circoli milanesi) tra i quattro che si sfidavano. E partiva da sfavorito. Vuoi perché era una sfida «di partito» (votavano solo gli iscritti), vuoi perché i «competitor» (lui li chiama così) erano volti e nomi conosciuti nel partitone milanese. Con Arianna Cavicchioli, per dire, la candidata bersanian-cuperliana, s’erano schierati i sindaci dell’hinterland rosso e, sotto traccia, pure la potentissima Camera del Lavoro. Risultato? Il giovane renziano davanti, Cavicchioli dietro di 300 voti e gli altri a seguire a distanza.
Sabato, a Milano, si sono staccate centinaia di nuove tessere del Pd. Tanto che uno dei candidati sconfitti ha denunciato che tante nuove adesioni sarebbero arrivate a prezzi di saldo (15 euro). Quello delle tessere dell’ultimo minuto è però un caso nazionale. A Roma, al circolo di Trastevere, in trenta hanno chiesto l’iscrizione a pochi minuti dalla chiusura del seggio. Tra tensioni e scambi d’accuse. In Calabria è accaduto il contrario: respinti dalle sezioni gli elettori senza tessera in tasca. A Catania l’elezione provinciale è stata addirittura sospesa per eccesso di polemiche. Roberto Morassut, a nome della commissione congressuale, ha lanciato l’allarme: «In tanti, troppi circoli si verificano situazioni di irregolarità». «Quando c’è un congresso bisogna essere rigorosi nell’applicazione delle regole», il commento di Gianni Cuperlo.
Chi sono i nuovi iscritti al Pd? In gran parte elettori democratici che avevano partecipato alle primarie impegnandosi nei comitati per Renzi. Popolo di centrosinistra che ha poi assistito in silenzio alla «non vittoria» elettorale, ai 101 traditori di Prodi, e via fino alle larghe intese. E che sabato si è messo in fila in una sezione, dove magari non aveva mai messo piede prima, per prendere la tessera e votare. Votare per gli ex rottamatori, in massima parte.
È andata così a Milano e nel resto della Lombardia. A Varese, quelli della «ditta», gli ex bersaniani, sono stati sconfitti da Samuele Astuti. Uno che di Renzi sembra la fotocopia biografica: sindaco anche lui (di Malnate), stessa età (38 anni), stessi trascorsi negli scout cattolici. È lui, dicono, ad aver inventato la battuta che Matteo ripete spesso, quella della sindrome della sinistra italiana che deve smettere d’assomigliare alla nazionale di bob giamaicana: simpatica ma perdente.
Chi è invece Pietro Bussolati? Un trentenne come tanti, a Milano. Liceo scientifico, laurea in Economia a Pavia e master in Bocconi e poi un contratto in Eni. Nel frattempo tanti viaggi, la cooperazione internazionale, una passioncella per il Chiapas e il comandante Marcos. Ieri Bussolati era alla Leopolda: «Ho parlato di Milano come città delle differenze e delle opportunità. E ho ricordato che le innovazioni politiche partono sempre da qui».

La Stampa 28.10.13
Civati e l’obolo di 4 mila euro che i deputati versano al Pd
di Carlo Bertini


I partiti piangono miseria dopo la nuova legge che taglia i fondi, ma sulle somme che trattengono ai loro parlamentari ognuno si regolaamodosuo.Eseil Pdl ha i suoi problemi in casa, il Pd cerca di mettere fieno in cascina più che può, a vari livelli. Uno che non le manda a dire come Pippo Civati si è stufato ad esempio di versare 4 mila euro al mese senza che nessuno dei suoi fan pseudo-grillini sappia che il suo vero guadagno non è di 12 mila euro netti ma di 8 mila. Cifra per nulla simbolica, anzi, da non strombazzare in giro e il candidato del Pd che ha per slogan “civoti” lo sa bene. Nel cortile della Camera racconta come 1500 euro li versa al partito nazionale, altri 2 mila a quello regionale e una quota al suo circolo di Milano; e che così fan tutti, o quasi, i 400 parlamentari Democratici. Insomma, dura la vita del candidato dissidente costretto a sacrificarsi per la “ditta”, ma senza alcun ritorno d’immagine, come quelli che ottengono i suoi amici grillini che si tagliano da soli i lauti emolumenti.

1.128.722 incarichi pagati dallo Stato
il Fatto 28.10.13
Un milione di posti di lavoro
di Salvatore Cannavò


Un milione di persone. Nemmeno Max Weber, quando scriveva La politica e la scienza come professioni pensava ci si potesse spingere a tanto. Il grande sociologo tedesco scriveva infatti nel 1919: “Si vive ‘per’ la politica oppure ‘di’ politica”. Chi vive ‘per’ la politica costruisce in senso interiore tutta la propria esistenza intorno ad essa” […] Mentre della politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una fonte durevole di guadagno”.
Secondo uno studio della Uil, invece, coloro che cercano “di trarre dalla politica una fonte durevole di guadagno” sono più di un milione: 1.128.722. Un “paese nel paese” ma non nella forma poetica in cui Pier Paolo Pasolini definiva il Pci. Piuttosto “un mondo a sé”, come lo descrive il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy che ha curato la ricerca. La cifra viene ricavata sommando voci tra loro diverse ma tutte legate alla politica: gli eletti e gli incarichi di Parlamento e governo (1.067) quelli nelle Regioni (1.356), nelle Province (3.853) o nei Comuni (137.660). L’incidenza delle cariche elettive sul numero totale non è molto alta, il 12%.
La forza del sottobosco
I numeri si fanno più forti man mano che ci si addentra nel sottobosco: i Cda delle aziende pubbliche ammontano, infatti, a 24.432 persone; si sale a 44.165 per i Collegi dei revisori e i Collegi sindacali delle aziende pubbliche; 38.120 sono quelli che lavorano a “supporto politico” nelle varie assemblee elettive. I numeri fondamentali della ricerca sono riscontrabili nelle due ultime voci, quelle decisive: 390.120 di “Apparato politico” e 487.949 per “Incarichi e consulenze di aziende pubbliche”. “Quest’ultimo dato si basa su numeri certi e verificati” assicura Loy, mentre quello relativo agli “apparati” costituisce una “stima della stessa Uil ma una stima attendibile”. Nella nota metodologica, infatti, il sindacato spiega che i numeri derivano da banche dati ufficiali e da quello “che ruota intorno ai partiti” (comitati elettorali, segreterie partiti, collegi elettorali,
“portaborse”, ecc. ”. Loy la spiega così: “Ventimila voti di preferenza non sono il risultato solo di un voto ideologico ma espressione di relazioni concrete”. E, in tempi in cui l’ideologia è fortemente in crisi, “si affermano gli interessi e la spinta ad aumentare il proprio tenore di vita, l’affermazione di un sistema economico”.
La politica si fa industria, quindi. E il dato è riscontrabile nei numeri. Si pensi al costo dei CdA dei quasi settemila enti e società pubbliche: si tratta di 2,65 miliardi mentre per “incarichi e consulenze” la cifra è di oltre 1,5 miliardi di euro.
Stiamo parlando di gente che lavora, ovviamente. Alcuni di loro, come i dipendenti di Rifondazione comunista, sono anche finiti in cassa integrazione oppure, come in An, licenziati. “Ma non hanno fatto alcuna selezione pubblica, non hanno seguito nessun merito” commenta Loy, “e vengono pagati con soldi di tutti”. Parliamo di collaborazioni dirette nei vari ministeri, assessorati, consigli elettivi, incarichi elargiti da questo o quel politico di turno. Oltre ai Francesco Belsito, Franco Fiorito, ai diamanti della Lega, alle ricevute di Formigoni o alle consulenze di Alemanno, gli esempi possono essere tutti leciti ma del tutto interiorizzati dalla politica.
I vari ministeri hanno speso, nel 2012, oltre 200 milioni per collaborazioni dirette. Tra i dicasteri più attivi, gli Interni, l’Economia e Finanze, la Difesa e la Giustizia. Del ministero diretto da Alfano ci occupiamo a parte. Il Mef dispensa centinia di incarichi nelle società partecipate. Alla Difesa, il ministro dispone di ben 18 collaboratori quanti ne ha quello della Giustizia. Gli incarichi sono quasi tutti di pertinenza politica. Come proprio addetto stampa, ad esempio, il ministro ha la stessa persona che ha lavorato per Pierferdinando Casini dal 2006 al 2013 e prima, ancora, con l’Udc Vietti, attuale videpresidente del Csm. Una “ricollocazione” avvenuta tutta nei rapporti della politica.
Fedeli al ministro
Nell’Ufficio di gabinetto troviamo l’autrice di un libro, Guerra ai cristiani, troppo presto dimenticato e scritto insieme allo stesso Mauro. Più esemplare è il caso del “Consigliere per gli affari delegati, del Sottosegretario di stato alla Difesa On. dott. Gioacchino Alfano”, Nicola Marcurio. L’interessato ha iniziato la carriera politica nel Comune di Sant’Antonio Abate, dove organizzava le iniziative religiose per il Giubileo. Diviene consigliere comunale nel 2000 e di nuovo nel 2005. Poi va a lavorare presso il Commissariato per l’emergenza di Pompei, da lì alla Protezione civile per il G8 dell’Aquila. Finisce al ministero come consigliere di Gioacchino Alfano il quale, guarda caso, è stato sindaco proprio di Sant’Antonio Abate. L’altro sottosegretario, Roberta Pinotti, Pd, tiene nel proprio staff Pier Fausto Recchia, deputato non rieletto alle ultime elezioni e quindi ricollocato. Tra i collaboratori del ministro della Giustizia, Cancellieri, troviamo Roberto Rao, già deputato, non rieletto, e già portavoce di Casini ma anche Luca Spataro, già segretario Pd di Catania. Se un deputato non viene rieletto gli si trova un nuovo incarico. Come a Osvaldo Napoli, pidiellino molto presente in tv, bocciato lo scorso febbraio e oggi vicepresidente dell’Osservatorio Torino-Lione. Moltiplicando questi casi per l’intero numero delle cariche elettive si può avere un’idea del fenomeno. Alla Regione Lazio, il presidente Zingaretti dispone di un ufficio stampa con ben dieci addetti mentre in Lombardia, i consulenti della Regione sono passati, con la gestione Maroni, da 57 a 93, tutti riscontrabili sul sito ufficiale. Per questa voce l’ente regionale spende 2,6 milioni di euro l’anno. L’esercito della politica vive e si autoalimenta così.

il Fatto 28.10.13
Un tesoretto da 10,4 miliardi


Secondo lo studio della Uil i costi della politica, diretti e indiretti, ammontano a circa 23,9 miliardi di euro. Per il funzionamento degli organi istituzionali si spendono 6,4 miliardi di euro, le consulenze e il funzionamento organi delle società partecipate 4,6 miliardi di euro, per altre spese (auto blu, personale di “fiducia politico” ecc) 5,8 miliardi di euro, per il sistema istituzionale 7,1 miliardi di euro. La somma che equivale al 11,5% del gettito Irpef pari a 772 euro medi annui per contribuente. La Uil quantifica in almeno 7,1 miliardi di euro i risparmi possibili con “una riforma per ammodernare e rendere più efficiente il nostro sistema istituzionale”. Tra le proposte, l’accorpamento “degli oltre 7.400 comuni al di sotto dei 15 mila abitanti”, con un risparmio di circa 3,2 miliardi. Se le Province “si limitassero a spendere risorse soltanto per i compiti attribuiti dalla Legge”, il risparmio sarebbe di 1,2 miliardi. “Con una più ‘sobria’ gestione del funzionamento degli uffici regionali”, si potrebbero risparmiare 1,5 miliardi di euro mentre 1,2 miliardi di euro l’anno potrebbero arrivare da una razionalizzazione del funzionamento dello Stato centrale. Aggiungendo a questi, una riduzione del 30% dei costi di funzionamento delle istituzioni si potrebbe arrivare a 10,4 miliardi di risparmi annui.

Repubblica 28.10.13
Lampedusa, l’archivio di sommersi e salvati “Ecco le nostre storie, non dimenticateci”
Nasce la piattaforma digitale che raccoglie le voci di una tragedia infinita
di Vladimiro Polchi


ROMA — C’è Zerit, biologo marino eritreo di 28 anni, che in mare ha perso suo fratello e c’è Costantino, che con la sua barchetta “Nika” ha salvato 11 disperati e c’è pure Vito, che ne ha tirati su finché la sua barca ha iniziato a ondeggiare e ora i profughi lo chiamano papà. Ci sono i sopravvissuti e i soccorritori, gli africani e gli isolani, uniti dal ricordo di quel nero 3 ottobre, quando quasi quattrocento persone, tra uomini, donne e bambini, sono rimaste inghiottite dalle acque di Lampedusa. E ci sono le loro lettere, il loro pizzini digitali affidati ora alla rete, per dire: «Non provate mai a dimenticarci». Zerit G. scrive al popolo italiano: «Ho 28 anni e non sono un eroe, voglio che conosciate la mia storia e voglio sapere perché non sono stato invitato al funerale di mio fratello». A raccogliere la sua voce è “Sciabica”, parola di origine araba che significa rete da pesca: una rete gettata tra le storie di chi è rimasto sull’isola, ora che i riflettori si stanno spegnendo.
“Sciabica” è una piattaforma digitale, popolata di racconti e foto: un sorta di archivio della memoria, ideato da Fabrica (centro di ricerca sulla comunicazione, fondato nel 1994 e aperto a giovani creativi di tutto il mondo) e affidato a Internet.
«Sono stati gli italiani ad aver costruito la mia città, Elabaned, in Eritrea — scrive Zerit sul suo pizzino — sono il primo migrante della mia famiglia e sono un biologo marino. Volevo passare la vita a parlare coi pesci». Dopo essersi laureato in scienze marine, Zerit decide di raggiungere suo fratello Samuel in Sudan. Con lui prosegue per la Libia e poi da Tripoli fa il grande salto: sfida il mare per raggiungere le coste italiane. Samuel muore tra le acque il 3 ottobre a un’ora di nuoto dalla costa, Zerit tocca la terraferma a Lampedusa. Il suo ultimo dolore? Non aver potuto piangere i funerali del fratello: «Quando ho capito che non potevamo andare ad Agrigento e che ci sarebbero stati degli sconosciuti a gettare un fiore su bare di legno pregiato, mentre i corpi erano rimasti incastrati nel legno marcio del barcone — scrive Zerit sul suo pizzino raccolto da Michela Iaccarino di Fabrica — ho capito che lui stava morendo un’altra volta. Quando l’ora di ricordare la tragedia è arrivata, sono andato verso il mare. E al mare ho chiesto di Samuel, aspettando che almeno la sua anima quel giorno tornasse indietro».
Vito Fiorino ha 64 anni. È nato a Bari ed è cresciuto a Milano. A Lampedusa è venuto la prima volta in vacanza nel 1990. Il 3 ottobre 2013 ha salvato 47 persone: «Se le Nazioni sono davvero Unite come dicono – scrive – devono fare qualcosa adesso. Io ho fatto quello che andava fatto. Lo rifarei in ogni momento, in modo ancora più forte. Ogni giorno i 47 ragazzi mi vengono a trovare. Arrivano dove c’è il bar di mia figlia e mi dicono “ciao, papà”».
Costantino Baratta è nato aTrani nel 1957. Appena si è innamorato di sua moglie, si è innamorato anche della sua isola ed è rimasto a Lampedusa. Il 3 ottobre ha salvato 11 migranti: «Anche quando non ce la faremo più, quando su quest’isola non rimarrà più niente, noi continueremo ad aiutare questa gente. Ma se ci date un’altra medaglia, sarò io il primo a rifiutarla».
Poi c’è don Mussie Zerai, un prete cristiano nato in Eritrea. In Italia ha fondato l’associazione Habeshia e aiuta i profughi che riescono a raggiungere l’Europa. Mussie indirizza il suo pizzino alle autorità italiane: «Smettetela di dare cittadinanza ai morti, cominciate a dare diritti ai vivi». Il suo messaggio su “Sciabica” non morirà: Fabrica è alla ricerca di un’associazione culturale lampedusana a cui affidare il suo incubatore digitale, affinché nessuno possa un giorno dire «non ricordo».

Repubblica 28.10.13
Il papa ha dieci milioni di seguaci su Twitter
A lezione di mass media dai gesuiti
di Stefano Bartezzaghi


OGNI volta che un twittatore totalizza una cifra tonda di seguaci, cento, o mille o diecimila, si inorgoglisce e magari si concede un tweet compiaciuto. Quando a twittare è il Papa (@Pontifex) la cifra tonda è di dieci milioni (distribuiti nei suoi nove account in altrettante lingue).
E PERSINO Francesco ha diffuso un messaggio sulla circostanza. «Cari Follower, ho saputo che siete più di 10 milioni ormai!». Un metatweet, con tanto di punto esclamativo finale.
La notizia non fa che confermare l’inclinazione storica del cattolicesimo, e specialmente del gesuitismo, verso le comunicazioni di massa. Un account Twitter è un pulpito, ma oltre alla comunicazione da uno a molti consente una possibilità almeno teorica di risposta, rilancio, diffusione e anche colloquio diretto e personale. Funzionava già con Ratzinger (l’account era stato aperto per lui, nel dicembre del 2012, ed era arrivato a oltre due milioni e mezzo di follower). Bergoglio ha poi fatto dell’immediatezza colloquiale la cifra del proprio apostolato, a partire dal normalissimo e perciò sconvolgente «Buonasera » con cui si è presentato da San Pietro. La naturalezza con cui Francesco si installa fra le tweet-star italiane, Jovanotti e Beppe Grillo, Valentino Rossi e il Milan, parla di lui e del nostro divismo. Di noi, dice che dove c’è competizione seguiamo combattenti anche sarcastici eunfair, ma fuori dalle tifoserie ci rivolgiamo più volentieri a chi dà segnali semplici e diretti, e sa essere credibile quando dice «noi». Di lui, dice che con la sua catechesi apparentemente bonaria ha rigenerato il messaggio della Chiesa: e senza bisogno di scrivere alcun «wow».

Corriere 28.10.13
Da Praga a Belgrado. La nuova vita dei comunisti dell’Est
Puristi o riformati, non sono mai spariti
di Maria Serena Natale


«Come Cristoforo Colombo, non sanno dove stanno andando, non sanno dove sono, e tutto a spese degli altri». I comunisti secondo Winston Churchill. Dove sono finiti oggi? Con l’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991, l’addio agli schieramenti e la nascita di Stati democratici decisi ad abbracciare l’economia di mercato ed entrare nella famiglia europea, i partiti nei diversi contesti nazionali dell’Est si sono trovati allo stesso bivio: restare fedeli alla purezza del verbo marxista-leninista a costo di veder ridimensionato il proprio ruolo oppure — opzione maggioritaria — avviare un’operazione ideologica di «socialdemocratizzazione» che attenuasse o recidesse i legami con i regimi per guadagnare un posto nei nuovi assetti. Una scelta compiuta in un’epoca di trasformazioni economiche e sociali che con lo stabilizzarsi dell’ordine capitalista hanno riportato in primo piano i grandi temi sociali, spesso sottratti al monopolio della sinistra da formazioni di tendenza populista. Un riassetto che s’inserisce nel generale, doloroso processo di elaborazione del passato tra rese dei conti e nostalgie.
Al primo macro-gruppo appartengono i comunisti che hanno conquistato il terzo posto alle elezioni politiche di sabato scorso in Repubblica Ceca. Un risultato che infrange un tabù e apre uno scenario inedito: per la prima volta dalla fine del regime a Praga una formazione «purista» può ambire a un ruolo di governo, anche se i numeri rendono la prospettiva poco praticabile. Il partito comunista di Boemia e Moravia — erede dei comunisti cecoslovacchi che dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989 si divisero nei due rami di Praga e Bratislava — ha ottenuto il 14,9% dei voti, piazzandosi dietro ai socialdemocratici prima forza e ai populisti del ricco imprenditore Andrej Babis. Insieme, però, socialdemocratici e comunisti dispongono solo di 83 seggi sui 200 della Camera bassa del Parlamento, le consultazioni tra i partiti si annunciano lunghe e complicate.
Il rapporto diretto con la matrice sovietica è evidente nei Paesi baltici. In Lettonia il Partito socialista, emanazione dei comunisti banditi al termine della Guerra fredda e forte tra la minoranza russa, s’impone per statuto la difesa degli ideali compromessi dal «colpo di Stato borghese-nazionalista e contro-rivoluzionario» del 1991, l’anno della dichiarazione d’indipendenza dall’Urss.
Possibile anello di congiunzione tra le due famiglie, la tedesca Linke, che riunisce gli eredi del Partito socialista unificato della Ddr e i fuorusciti della Spd (il Partito socialdemocratico che al congresso di Bad Godesberg del 1959 si svincolò dal marxismo): ideologicamente fedele alle origini e connotata come formazione di estrema sinistra, alle elezioni federali dello scorso settembre ha ottenuto l’8,6% dei consensi, 64 seggi su 630, terza forza al Bundestag.
Inclusi invece a pieno titolo nelle vicende istituzionali i post-comunisti bulgari confluiti nel Partito socialista oggi guidato da Sergei Stanishev, primo ministro dal 2005 al 2009. In Serbia l’attuale premier è Ivica Dacic, leader del Partito socialista fondato nel 1990 da Slobodan Milosevic sui resti del ramo serbo della Lega dei comunisti, unica formazione legale in Jugoslavia tra 1945 e 1990.
L’ex comunista Aleksandr Kwasniewski è diventato presidente nella Polonia che ha ispirato la transizione al principio della «linea tracciata sul passato» evocata nel 1989 da Tadeusz Mazowiecki — processo d’inclusione e riconciliazione minacciato negli anni da provvedimenti come le leggi di lustracja sull’esclusione degli ex comunisti dalla vita politica. Ministro dello Sport con il regime negli anni 80 e fondatore nel ’91 dell’Alleanza della sinistra democratica oggi all’opposizione, Kwasniewski è rimasto in carica fino al 2005. Alle elezioni del ’95 aveva sconfitto Lech Walesa, l’eroe della lotta al comunismo.

Corriere 28.10.13
Filippo Grandi e i bimbi palestinesi:
«Grazie Italia, moltiplicati gli aiuti»
di Paolo Valentino


ROMA — Nel 2103 l’Italia ha portato da 1,5 a oltre 8 milioni di euro l’aiuto all’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Non sono cifre iperboliche — gli Stati Uniti danno oltre 250 milioni di dollari l’anno — ma è «il segnale di un’importante inversione di tendenza nei confronti della cooperazione, tanto più in tempi di crisi e tanto più quando si cerca di affrontare alla radice i problemi che generano gli esodi verso le sponde italiane». Lo dice Filippo Grandi, commissario generale dell’Unrwa, il funzionario italiano più alto in grado nel sistema delle Nazioni Unite. Il suo riferimento è alla presenza di rifugiati palestinesi dalla Siria nelle zattere che sbarcano a Lampedusa. «E’ la prima volta che i profughi palestinesi del 1948 o i loro discendenti cercano rifugio fuori dalla regione. Ed è la prova dell’enormità della tragedia in corso. In Siria, prima dell’inizio della guerra civile, c’erano più di 500 mila rifugiati. Oggi buona parte di questi sono in fuga, nel solo Libano se ne sono riversati già 50 mila, mentre quelli che rimangono sono spesso presi tra due fuochi. Il risultato è che il nostro lavoro è quasi tutto dedicato all’emergenza in condizioni pericolosissime: 8 dei nostri collaboratori palestinesi sono morti e di altri 17 non abbiamo più notizie da mesi».
Grandi ha appena concluso una visita a Roma, dove ha incontrato il ministro degli Esteri Emma Bonino e il suo vice Lapo Pistelli, la presidente della Camera Laura Boldrini e i membri della sotto-commissione parlamentare per i diritti umani. Sono 5 milioni oggi i rifugiati palestinesi cui l’Unrwa assicura servizi sociali di base, come sanità e soprattutto educazione: ogni giorno 500 mila bambini palestinesi frequentano una delle 700 scuole gestite dall’agenzia. «Con gli anni si è creato un servizio pubblico internazionale unico, a sostegno della popolazione dei rifugiati. Purtroppo, le crisi che hanno sconvolto la regione hanno avuto un impatto disastroso sulla situazione dei palestinesi e ogni volta questo costringe l’Unrwa ad agire in emergenza da agenzia umanitaria tradizionale — distribuzione di viveri e medicinali, centri di raccolta — sottraendo energie e risorse al lavoro normale». Tutto ciò riporta alla questione originaria: la soluzione del conflitto arabo-israeliano, in queste settimane tornato in cima all’agenda diplomatica americana. «Da quando sono in Medio Oriente, ho visto parecchi tentativi partire e fermarsi. Ogni volta c’è stato pubblico scetticismo e segreta speranza. Stavolta la speranza mi sembra un po’ meno segreta. Secondo gli americani, ci sono già stati 13 o 14 incontri e trovo importante la segretezza imposta, visto che in passato è stata spesso la fuga di notizie ad affossare i tentativi. Credo ci sia la consapevolezza che questa sia un po’ l’ultima chance: non è pensabile che l’investimento politico, mediatico e morale degli Stati Uniti possa essere ripetuto in futuro se fallisse. Qualsiasi presidente americano ci penserebbe due volte prima di agire. Tutti questi elementi ci inducono a un cauto ottimismo»..

Corriere 28.10.13
Troppi allarmi sul «turismo sociale» minacciano la cittadinanza europea
di Maurizio Ferrara


Vent’anni fa un coraggioso giudice della Corte europea di giustizia, Francis Jacobs, affermò in una sentenza che la cittadinanza dell’Ue conferisce diritti inviolabili di non discriminazione. Quando valica una frontiera nazionale, chiunque possegga il passaporto color porpora può dire civis europeus sum e invocare il rispetto di questi diritti.
La sentenza uscì appena dopo il Trattato di Maastricht (che istituiva, appunto, la cittadinanza Ue). Da allora nell’Unione sono entrati 16 nuovi Paesi e si sono firmati tre nuovi Trattati: Amsterdam, Nizza e Lisbona. Quest’ultimo ribadisce a chiare lettere i diritti di libera circolazione e non discriminazione. Ma la formula civis europeus sum sta rapidamente perdendo la propria efficacia. A essere sotto attacco è soprattutto l’accesso al welfare da parte dei non nazionali provenienti da altri Paesi membri. I governi di Berlino, Londra, Vienna e l’Aia hanno chiesto formalmente a Bruxelles di cambiare le norme vigenti per combattere il cosiddetto «turismo sociale»: gli spostamenti da un Paese all’altro in cerca dei sussidi più generosi. Dietro la richiesta si nasconde un malumore profondo, che riguarda il processo di integrazione in quanto tale. E che spinge a ristabilire i tradizionali confini, a «proteggere i diritti e gli interessi legittimi dei nativi» — come candidamente recita la lettera dei quattro governi. In tempi di crisi, malumori e paure in seno all’opinione pubblica sono comprensibili. Ma se i governi le cavalcano, cosa resterà dell’Europa? Se va bene, solo le fredde regole di «mutua sorveglianza» fiscale, neanche fossimo in una prigione. Se va male, potrebbe non restar nulla, i sogni e gli sforzi di tre generazioni andrebbero irrimediabilmente perduti.
Tutti i dati e le ricerche disponibili indicano che non c’è nessun turismo sociale di massa. Vi è, certo, un discreto numero di cittadini Ue che risiedono in Paesi membri diversi dal proprio: la loro quota è di circa il 2%, con punte sopra il 3% in Irlanda, Belgio, Gran Bretagna, Austria e Germania. La crisi ha accresciuto un po’ i flussi da Sud a Nord e da Est a Ovest. Si tratta però di persone attratte da opportunità di lavoro, anche manuale. Se prendiamo come riferimento la popolazione residente con più di 15 anni, scopriamo che sette migranti Ue su dieci hanno un’occupazione, di contro a 5 o 6 nazionali. Se perde il lavoro, il migrante riceve il sussidio pubblico solo se ha pagato tasse e contributi, esattamente come i nazionali. I governi firmatari della lettera sostengono che l’obiettivo dei cosiddetti «turisti sociali» sono soprattutto le prestazioni di assistenza finanziate dal gettito fiscale, come il reddito minimo. La Commissione europea ha però calcolato che i migranti Ue sono meno del 5% del totale di beneficiari di queste prestazioni. In alcuni casi (quelli che fanno più notizia) ci sono frodi o abusi. Ma si tratta di fenomeni che si possono contrastare con piccoli accorgimenti legislativi e controlli più efficaci. Non vi è sicuramente bisogno di mettere sotto accusa i principi di parità di trattamento e di libera circolazione — i quali peraltro, sempre secondo lo studio della Commissione, fanno bene anche al Pil.
Che dire degli immigrati che provengono dai Paesi extra Ue? I barconi di Lampedusa hanno di nuovo acceso i riflettori su di loro. Dopo il cordoglio e la compassione, sono ricominciate a circolare accuse di «opportunismo sociale» ancor più pesanti rispetto a quelle rivolte ai migranti Ue. Anche nel caso degli extracomunitari e del loro accesso al welfare valgono però le stesse considerazioni relative ai migranti Ue. Un recente studio Ocse stima che nella maggioranza dei Paesi europei (Italia compresa) il saldo fra ciò che gli extracomunitari versano allo Stato e ciò che ricevono in termini di prestazioni e servizi è meno favorevole rispetto a quello dei nazionali. Il contributo dell’immigrazione al Prodotto interno lordo (Pil) è inoltre positivo: nessun «pasto gratis», dunque.
Comprendere questa realtà può essere contro-intuitivo. E capire non significa dover accettare tutti gli effetti che l’immigrazione da Paesi lontani e diversi produce sul piano sociale, culturale e dei costumi. Teniamo però presente che le dinamiche di globalizzazione riservano a noi europei un futuro di «mixité»: una di mescolanza fra popoli e culture che potremo temperare e regolare ma non evitare. Per questo è fondamentale che l’Ue resista oggi ai ripiegamenti nazionalistici che avvengono al proprio interno. La civiltà che ha inventato l’idea di cittadinanza non può fallire nel trasferirla ora dal livello nazionale a quello sovranazionale.
Sull’edificio che ospita il Consiglio dei ministri Ue, a Bruxelles, spicca la scritta latina Consilium. Aggiungere la formula civis europeus sum potrebbe finalmente dare un’anima e una missione simbolica a questa istituzione, che oggi parla solo con i governi e ha smarrito la capacità di comunicare con i sui più importanti interlocutori. I cittadini d’Europa, appunto.

Repubblica 28.10.13
Mauro Roda amministra lo straordinario archivio da Togliatti a Occhetto: ho bussato a molte porte, ma tutti dicono che è troppo presto
“Ho raccolto foto, lettere e bandiere rosse ma nessuno vuole fare il museo del Pci”
di Michele Smargiassi


BOLOGNA — Rossa, ovviamente. Il museo del Pci, il museo che imbarazza tutti, sta tutto in una rossa chiavetta usb, chiusa come una reliquia in una scatolina che Mauro Roda porta sempre con sé, nella sua borsa da executive democratico. Centinaia di ore di filmati, audio, documenti, foto di oggetti di settant’anni di storia del comunismo italiano pesano un po’, in tasca. «È storia, storia d’Italia, io sono solo un momentaneo custode...» Vorrebbe passare il testimone. Ma chi lo vuole, un museo del Pci?
Roda è il presidente di “Fondazione 2000”, una delle istituzioni che, quando nacque il Pd, custodirono i beni materiali ereditati dal vecchio Pci. E anche i mali materiali: «Ci accusarono di voler mettere in cassaforte il patrimonio per non darlo al nuovo partito, ma c’erano soprattutto debiti da pagare. Vendemmo un bel po’ di immobili». E fu così, svuotando sezioni, che Roda e una cinquantina di suoi omologhi in mezza Italia si trovarono fra le mani un’enorme quantità di oggetti, carte, reliquie. «Solo a Roma, col trasloco di Botteghe Oscure, c’erano 1300 metri di documenti a cui trovare posto. Il Pci era un accanito archivista, lavorava per la Storia...».
L’idea venne da sé. S’avvicinava il 2011, settantesimo della scissione di Livorno. «Facciamo una mostra». Fondazione Gramsci e Cespe misero le mani nelle cantine del comunismo. Frugarono. Tirarono fuori i pezzi migliori. Si fece la mostra:
Avanti Popolo, a suo modo un successo: Roma, Livorno, gran finale a Bologna con 30 mila visitatori... e poi? Poi tutto di nuovo negli scatoloni, da rispedire indietro. Ma a Roda qualcosa gli rodeva dentro. «Ci sono cose straordinarie lì dentro. Non possiamo disperderle e seppellirle di nuovo». E non lo rispedì.
L’ufficetto di Roda, al piano terra della sede del Pd bolognese, è un caos di memorie. Da una cornice, spunta una bandiera rossa di panno pesante ricamata a lettere d’oro: «Centuria italiana Gastone Sozzi», è una bandiera della guerra di Spagna: «Questa è stata sull’Ebro», borbotta Roda con reverenza. Il museo che non c’è sarebbe pieno di cose così, intrise d’un passato imponente. Il torchio che stampava l’Unità clandestina durante il fascismo. Le lettere di Togliatti in inchiostro verde. Il messaggio che don Dossetti scrisse al leader Pci morente a Yalta. Fotografie, a pacchi. Volantini, giornali, poster. Filmati dei congressi, delle parate delle prime feste dell’Unità, vero teatro politico di strada. E cose ancora più curiose. Una bobina di rame è un discorso di Togliatti dei primi anni Cinquanta: il nastro magnetico non era ancora stato inventato, ma la voce del Migliore si poteva registrare così, e il Webster Chicago di metallo nero la sa ancora evocare. «Il Pci era all’avanguardia nell’uso dei nuovi media... «, sorride Roda. Eccome: ecco i dischi di vinile coi discorsi dei leader da amplificare nelle piazze. I fotoromanzi, genere popolare virato in propaganda. Non sarebbe un museo di scartoffie. Ed è già pronto.
Ma nessuno lo vuole. Tutto è chiuso a Bologna, in un luogo segreto. Prima però, lavorando per mesi in una casa del popolo, un gruppo di ex-compagni ha duplicato tutto in formato elettronico. Eccola, la chiavetta del passato del Pci, lampada di Aladino che nessuno osa strofinare per farne uscire il genio della storia. «Ho bussato a molte porte. Molte. Nessuna risposta». Roda non dice dire quali, ma è facile: grandi cooperative, associazioni di sinistra. Niente. Sorrisi, imbarazzi, cortesi dinieghi, «non è ancora il momento...».
L’uomo col museo in tasca insorge: «Ma il Pci è sparito ormai da un quarto di secolo! Quanto tempo deve passare?». Sarebbe un museo un po’ di parte... «Ma di quale parte? Il Pci ha fatto del bene alla democrazia italiana. E comunque è storia. Perfino nei paesi dell’Est, dove le responsabilità erano diverse, hanno fatto musei al passato comunista. Imbarazzo? Dovremmo essere imbarazzati per il degrado della politica, per la catastrofe del neoliberismo... «. Attento, Roda, la prenderanno per un estremista... «Ma per favore», ride, «ho 61 anni, nel Pci ero un amendoliano tranquillo... Ho diretto la Confcoltivatori...». Scuote la testa. «Il Pci non tornerà più. Ma qui c’è il racconto di una politica fatta per passione. Dov’è oggi?», e rimette con delicatezza la chiavetta in tasca.

Corriere 28.10.13
Goodbye Berlinguer. L’illusione della purezza
Con una scrittura felice Francesco Piccolo dà voce ai sentimenti privati e politici di un uomo di sinistra
di Emanuele Trevi


Come tutti i desideri che si rispettino, e nonostante la sua ingannevole umiltà, anche Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) di Francesco Piccolo è una proiezione di se stesso nell’impossibile, una tensione destinata a non trovare mai il suo punto di approdo e una sfida consapevole al principio di realtà. Se valutassimo questa aspirazione secondo il metro del buon senso, tanto varrebbe desiderare di essere migliori o più belli di tutti gli altri. Nel libro di Piccolo, poi, le cose si complicano notevolmente perché il significato di quei «tutti» non è per nulla generico, non se ne sta lì come un semplice bersaglio di cartone sul quale prendere la mira. Al contrario, si potrebbe dire che il vero argomento affrontato da Piccolo sia la ricerca di un significato possibile a questa parola, «Tutti», che campeggia a caratteri cubitali sulla prima pagina dell’«Unità», all’indomani degli immensi funerali di Enrico Berlinguer, celebrati il 13 giugno del 1984.
Quel giorno, il ventenne Piccolo se ne era rimasto a casa sua, a Caserta, chiuso nella stanza dei genitori a guardare i funerali in tv, piangendo e sollevando il pugno chiuso, seduto su una scomoda poltroncina, col timore dell’arrivo imprevisto di un genitore o di un fratello. Nessuno, per sua fortuna, violò la solitudine del momento e lo scrittore regala a noi l’imbarazzante privilegio di sorprenderlo in quell’assurda posizione, spiacevole ed enfatica al tempo stesso, dunque inevitabilmente comica.
Piccolo è diventato nel corso del tempo un maestro di questi rapidi autoritratti, che hanno il merito di rendere credibile il percorso di conoscenza in corso. È vita ed è nello stesso tempo esercizio intellettuale, senza che l’una ostacoli l’altro o viceversa, in una specie di pirandellismo a oltranza, specializzato nel cavare sorprendenti gocce di saggezza dal futile e dall’aleatorio. È un buon metodo, capace di produrre frutti memorabili; ma un bravo scrittore non si può accontentare di questo. Alle soglie dei cinquant’anni, Piccolo ha deciso di allargare decisamente l’orizzonte.
Il desiderio di essere come tutti è un’autobiografia politica o, meglio, la storia di un individuo che percepisce se stesso come appartenente a una comunità. Fatti di natura privata si intrecciano a un lunghissimo segmento della storia civile dell’Italia, quarant’anni suddivisi in due parti, la prima intitolata a Enrico Berlinguer, la seconda a Silvio Berlusconi. Come si sarà intuito dalla scena dei funerali di Berlinguer seguiti in televisione, il protagonista di questa storia è un ragazzo, poi un uomo di sinistra.
Come tanti della sua età e delle sue idee, anche Piccolo può affermare che la sorte, dal punto di vista politico, non gli ha riservato nulla di bello, nemmeno una di quelle stagioni esaltanti che ogni generazione aspira a vivere. Lui però, non scrive per lagnarsi. La mancanza di una cosa è un oggetto altrettanto interessante della cosa stessa. La cosa che manca, ed è sempre mancata, è una duratura vittoria della sinistra, assieme a tutte le possibilità storiche che questa avrebbe comportato.
Ma la sconfitta non è solo la mancanza di vittoria: essa infatti è capace di produrre un intero modo di vedere il mondo e in definitiva un modo di essere. Piccolo descrive un dramma collettivo di proporzioni gigantesche, tale da suggerire anche al suo stile perplesso e suadente certe inusuali punte di solennità o di stizza. Ci racconta una lunga e spaventosa metamorfosi, psicologica ancora prima che ideologica, che ha condotto la sinistra ad albergare in sé un sentimento di «purezza» morale capace di erigere un muro fra sé e l’avversario. E ci fa vedere come questa pretesa di superiorità, che confonde l’etica e la politica come in un gioco delle tre carte, non può che aver trasformato la sinistra in una grande forza conservatrice, custode di valori nobili ma immutabili nel tempo, indiscutibili, impermeabili al cambiamento.
Come tutti hanno potuto vedere con i propri occhi e come Piccolo racconta magistralmente, questa catastrofe intellettuale della superiorità ha trovato l’impulso finale con l’avvento di Berlusconi. Noto con piacere che Piccolo non manca di aggiungere alla lunga lista dei sintomi di questa specie di malattia mentale collettiva anche il verbo «resistere», svuotato di ogni credibilità da un uso davvero dissennato. Flannery O’Connor una volta ha scritto che c’è gente che vive «in un mondo che Dio non ha mai creato». Mi sembra una splendida definizione di questo carcere piranesiano della purezza e della conservazione descritto da Piccolo. Che invece non ce la fa a sentirsi superiore agli altri per un motivo del tutto opinabile e personale, ma proprio per questo decisivo: lui, in questi vent’anni, ha goduto di una vita felice. Nonostante il fatto che gli eventi della politica producano in lui notevoli riflessi interiori e nonostante il fatto che non ci sia giorno che non gli porti delle amarezze da quella parte, non può tacere questa verità. Se avesse avuto una malattia grave, se avesse perso una persona cara, se fosse finito nei guai con la giustizia, la sua felicità sarebbe stata sicuramente diminuita o estinta. Berlusconi invece non ce l’ha fatta.
Ne possiamo dedurre, con la certezza di un corollario matematico, che questa sfera d’esistenza rappresentata dalla lotta politica, che appassiona Piccolo così come ci si può appassionare al calcio o all’arte contemporanea, non possiede i requisiti necessari a determinare la soddisfazione, l’interesse, lo spavento, l’erotismo che le esperienze davvero decisive riescono a suscitare in noi. Per utilizzare la celebre distinzione di Jacques Lacan, non si può negare alla politica un grado, seppur minimo, di realtà, ma di sicuro essa non fa parte del «reale», inteso come ciò che ogni singolo individuo sperimenta come «insostenibile», sia nel dolore sia nella gioia. La più profonda verità morale che si possa cavare dagli ultimi venti anni è che Berlusconi è sostenibilissimo. Di certo, perlomeno, non fa parte del reale quella melassa di opinioni, buoni sentimenti e inani risentimenti prodotta da un ambiente intellettuale talmente separato dal mondo da essersi convinto, in buona fede, di vivere sotto il tallone di una dittatura, sempre dichiarando di voler vivere altrove e mai togliendosi effettivamente dai piedi.
Francamente, mi convince poco la strategia fin dal titolo messa in atto da Piccolo per evadere da questa palude. Sono d’accordo sul fatto che chi la pensa come noi non ha mai nulla di importante da insegnarci, ma non nutro una stima dell’umanità tale da pensare che in quei «tutti» che lo scrittore desidera raggiungere, dall’altra parte dell’inutile barricata, ci sia qualcosa di così prezioso. L’unica cosa davvero trasversale che esiste nelle nostre democrazie è la stupidità. Sarei più incline alla fuga solitaria, al rispondere solo di se stessi, al distacco totale dall’idra morbosa dell’opinione.
Ma non dimentico che quello che ho appena letto non è un saggio, ma un romanzo. La differenza tra un saggio e un romanzo non è nello stile e nel linguaggio, ma nel fatto che nel secondo si indica una strada che può valere solo, fino in fondo, per chi l’ha scritto. Quello che davvero vale per tutti, invece, è l’amore viscerale di Piccolo per il presente, il suo rimanere ben piantato nella vita che gli è toccata, quell’assoluta, purissima incapacità di stare altrove che ci ha raccontato fin dai suoi primi libri. È con un brivido di empatia e complicità che lo ritroviamo ancora qui, che in fondo è l’unico posto dove si possa stare con dignità e con spirito poetico, sempre a caccia dei suoi momenti di felicità.
I menagrami e i moralisti non ci crederanno mai, ma è un’attività che basta da sola a riempire un’esistenza.

Corriere 28.10.13
Così a San Valentino Craxi uccise un amore (oltre alla scala mobile)
I sindacati divisi e il pupazzo di Snoopy
di Francesco Piccolo


Alla fine, dopo aver tentato fino all’ultimo secondo di chiudere un accordo condiviso da tutte le parti, il 14 febbraio del 1984 il governo emanò un decreto legge che metteva in moto il processo di abolizione della scala mobile, tagliandola di quattro punti (percentuali). Come si disse più volte nei mesi successivi, si era trasformata in una questione simbolica (nella pratica, il decreto avrebbe inciso pochissimo sugli stipendi, quindi la soluzione era, come volevano i sindacati, blanda); ma era un cambiamento epocale sia rispetto al rapporto tra il salario e l’inflazione sia (soprattutto) rispetto all’idea di condivisione e collaborazione tra governo e parti sociali. Perché quello di Craxi fu uno strappo — dopo mesi di trattative — dalla cui parte si schierarono due grandi sindacati su tre, e che quindi segnò la fine anche dell’armonia sindacale. All’interno della Cgil ci fu la divisione tra socialisti e comunisti; e tra i comunisti ci furono parecchie tensioni, perché non tutti erano d’accordo. Nella sostanza, anche se il cammino fu tortuoso, la storia della scala mobile si risolse di fatto il giorno in cui il governo di Craxi emanò il decreto.
Quel decreto venne chiamato, ed è ancora oggi chiamato da tutti: il decreto di San Valentino.
Quindi, quando Elena mi disse che anche il giorno di San Valentino si fa politica, non mi stava soltanto rimproverando, ma stava anche facendo una specie di profezia concreta. Su noi due, e sul Paese. Su noi due si concretizzò all’istante, sul decreto qualche anno dopo.
Per questo Elena rifiutò il mio regalo, e fece bene. Certo, non mi amava; ma adesso potevo comprendere senza più ambiguità che non mi amava perché una di sinistra non amava uno così.
Il decreto di Craxi in opposizione alla volontà di Berlinguer fece ingresso nella mia vita per dare il colpo finale anche a quel mio azzardo sotto forma di Snoopy avvolto nella carta rosa. Dimostrava in pratica — quasi si potrebbe dire che quantificava — la grandezza del mio errore, quanto fossi fuori sincrono con il mondo a cui aspiravo, e perfino con l’amore a cui aspiravo.
Nel giorno di San Valentino, in due tempi diversi, si è perfezionato, anche se a mio sfavore (e né qualche anno prima né in quel momento avrei potuto immaginare quanto), il mio rapporto tra la vita privata e la vita pubblica. Perché da quel giorno il rapporto con l’amore sarebbe cambiato per sempre, trascinandosi dietro un incontrollato desiderio di rivalsa, di riscatto, di vendetta — per sintetizzare, avrei vissuto l’amore per il resto della mia vita con un misto di concretezza (avere a che fare soltanto con amori possibili) e di cinismo (non avere nessun timore di provocare sofferenza, perché ero in credito illimitato con la sofferenza); la mia idea di me stesso, in piedi nel buio con un pupazzo di Snoopy in mano, sarebbe diventata l’immagine di un rimprovero continuo: prima a me stesso, e poi a chiunque volesse amarmi.
Ma anche la giustificazione a ogni malefatta sentimentale per il resto della mia vita: ne ho diritto perché ho sofferto in modo inconsolabile quando ho amato la prima volta.
E all’opposto, quattro anni dopo, la mia adesione al Partito comunista eliminò ogni possibile criticità, e cominciò a correre verso la risoluzione delle contraddizioni.
Oltre che per un’idea concreta e del tutto sincera, da parte di Craxi e del suo governo, di tentare di mettere un freno all’inflazione, il destinatario reale di quel decreto era davvero Berlinguer, era la sfida definitiva lanciata al suo avversario.
Berlinguer accolse la sfida.
La scala mobile era il mezzo per la divisione tra due partiti — tra due uomini. Era l’oggetto della disputa, ma era anche il modo di concretizzare una disputa che era nell’aria da tempo, così come Elena aveva usato lo Snoopy per stanare la distanza tra noi due. Quello fu l’ultimo giorno del nostro fidanzamento, quell’altro fu l’ultimo giorno in cui si poté sperare in un dialogo tra le due sinistre.

Corriere 28.10.13
Gli storici prigionieri dei documenti
di Alberto Melloni


Nella società dei «leaks» e dei grandi numeri non s’è affatto ridotto il rischio che ciò che è irrilevante ma segreto diventi più importante di ciò che è noto, anzi. È una concorrenza antica quella fra curiosità e storia. Con la sola differenza che oggi la storia fa più fatica, per colpa di chi la pratica, a documentare il valore dello studio di svolte, processi, radici, che affondano in un presente altro e lontano. Ancor più arduo è l’edizione di fonti: un esercizio screditato dai sistemi di valutazione vigenti senza il quale il giudizio storico diventa opinione fragile, se mai imballata dagli «in qualche modo» e dagli «abbastanza».
Il problema non è italiano. Anche se altrove la produzione di conoscenza ha la solidità di una industria del sapere che da noi s’è svilita da sola. Ne fa fede quello che sta facendo Brill, trecentotrent’anni di attività editoriale alle sue spalle, una delle case editrici più autorevoli e longeve della storia culturale europea, capace di coniugare qualità ed affari, in una feconda concorrenza con Brepols o Peeters nello stesso angolo nordoccidentale del continente. Nessuno dei suoi sobrissimi capi, ch’io sappia, s’è mai lagnato dei destini del libro, dell’incultura delle nuove generazioni: hanno lavorato bene, sono entrati nel digitale senza seguire i fattucchieri della Rete, ed anche in questo settore hanno fatto reputazione e soldi all’antica: guadagnandoseli. Cosa che le accadrà con una nuova impresa editoriale basata su una grande selezione (cinquemila documenti, quarantamila pagine) di alcuni dossier che stanno nei grandi archivi politici, militari e dell’intelligence americana. Da quando nel luglio 1966 il Freedom of information act (Foia) aprì gli archivi federali nella logica di una amministrazione trasparente ai cittadini gli Stati Uniti hanno infatti dato accesso a documenti, in origine delicatissimi. Veniva messa la censura, se era il caso, solo su ciò che riguardava l’identità degli informatori o la sicurezza nazionale, con esiti talora comici (come quel rapporto Cia sul conclave del 1963 nel quale si spiegava che «l’arcivescovo di Palermo [censurato] ci ha detto che...»). Perché il vero filtro invisibile posto su quelle carte era infatti quello della loro sovrabbondanza che poteva disorientare il lettore meno preparato. Una grande macchina politica, militare e spionistica, infatti, analizza e costruisce scenari reali e irreali, realistici e irrealistici per mestiere. Chi sa capire che le politiche vere si vedono, intuisce il valore di ciascuna carta. Chi non ha senso storico crede di aver trovato un golpe o una invasione immaginaria ad ogni faldone.
Chiunque in questi decenni ha potuto leggere, fotocopiare, studiare tutto: a tal punto che nel 2006 l’amministrazione decise di iniziare il ritiro di interi dossier militari e di intelligence , con una operazione che venne denunziata da uno storico militare, Matthew M. Aid, ex militare condannato a un anno di galera e radiato dall’Air Force negli anni Ottanta per aver portato a casa dei documenti riservati. Nella sua ricca attività di pubblicista, però, Aid ha collezionato una selva di documenti che ora Brill mette a disposizione per poche migliaia di sterline nel suo ricco settore delle banche dati.
La serie sulla Guerra fredda copre il periodo 1945-1991 e svela i tentativi di carpire segreti sovietici con aerei spia ed improbabili paracadutisti da infiltrare in Russia. La serie sul Medio Oriente documenta il sistema di raccolta delle informazioni dal 1945 fino alla prima guerra dell’Iraq e alla costruzione della «documentazione» sulle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein del 2003-2006. Il golpe di Gheddafi, la «guerra imposta», il fallito programma nucleare siriano, lo spionaggio in Israele sono documentati attraverso migliaia di carte. Il cui pregio non sta nel vedere ciò che videro solo pochissimi fuori dallo studio ovale: ma nel fornire una selezione e nel dare data certa a questioni rilevanti. Una operazione piccola, ma vitale per non imprigionarsi nel dettaglio.
Se Brill vorrà fare lo stesso per la politica Vaticana degli Stati Uniti, anche coriandoli ora diffusi da Wikileaks troveranno il loro senso. E di un dispaccio da Roma di Brent Hardt, già reso noto da Assange, in cui si spiegava che Bergoglio impersonava «le virtù del pastore saggio», «riluttante agli onori», temuto per la «vena liberal», desideroso di vivere la dimensione della «chiesa locale, piuttosto che una carriera burocratica nelle strutture ecclesiastiche di Roma», capace di «colmare il fossato fra chiese locali e curia romana», rimarrà scolpita la data: 18 aprile 2005.

Repubblica 28.10.13
Quando il matematico sbaglia a fare i conti
di Mario Pirani


Quasi mai perdo tempo a rispondere alle esternazioni antisemite, oggi rese più frequenti grazie all’uso di Internet ed altri mezzi di comunicazione,— specie se si tratta di materiale propagandistico, reperibile fin dalle origini nelle pattumiere del nazifascismo. Contestarle non servirebbe a far balenare il lume della ragione in convincimenti nutriti da secoli di calunnie e di menzogne, ma se mai a dar loro spazio per ripetere lugubri minacce e maledizioni. Talvolta, peraltro, mi sento indotto alla rottura del silenzio se la bestialità antiebraica viene pronunciata da chi non te l’aspetti o per storia o per cultura e, quindi, ci si sente obbligati a far richiamo alla ragione. Una speranza, peraltro, soggetta sovente, all’illusione anche perché, esaminando con attenzione passate biografie ci si accorge che raramente l’antisemita è caduto in un occasionale impulso e già altre volte una mezza frase, una battuta, una citazione hanno rivelato il suo sincero e originale stato d’animo.
È il caso in cui è incorso il matematico Piergiorgio Odifreddi il quale, non sappiamo se stimolato da qualche nascosta “comprensione” per Priebke, ha creduto di dare prova di libero pensiero associandosi, nel blog che abitualmente lo ospita su Repubblica, a un altro lettore nel sostenere «il valore semplicemente propagandistico del processo di Norimberga ai gerarchi nazisti» per poi definire le «camere a gas impossibili per motivi tecnici e logici oltre che storici ». Al che un “Bene! Bravo! Bis” deve essere sfuggito dall’ugola del matematico, che appare poco aduso alla logica e alla matematica. Almeno così pare se subito si precipita ad esprimere la sua concordia con il lettore negazionista al quale assicura: «Su Norimberga confesso di essere molto vicino alle sue posizioni. Il processo è stato un’opera di propaganda. I processati hanno dichiarato con lapalissiana evidenza che, se la guerra fosse andata diversamente, a essere processsati per crimini di guerra sarebbero stati gli alleati. Non entro nello specifico delle camere a gas perché su di esse so soltanto ciò che mi è stato fornito dal ‘ministero della propaganda’ alleato nel dopoguerra. E non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che uniformarmi all’opinione comune. Ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti».
Non leggo altri brani, il cui disgusto va molto al di là dell’abituale casistica antisemita. C’è da aggiungere che appena pervenuto a Repubblica.it la prosa dell’Odifreddi è stata subito espurgata dal portale. Purtuttavia alcune copie sono sfuggite e pervenute ad altri giornali che non hanno mancato di esprimere la loro indignazione. Tra l’altro è stato ripreso un libro postumo di Shlomo Venezia, uno dei pochi sopravvissuti, incaricati nei gulag di disseppellire i corpi, che in una delle pagine più drammatiche di Sonderkommando Auschwitz (Rizzoli 2007), tradotto in 24 lingue, racconta dell’unica volta in cui fu ritrovata all’apertura dei forni una creatura viva. Si trattava di una neonata attaccata al seno della madre defunta. «L’abbiamo presa e portata fuori, ma ormai era condannata: ci pensò una SS, sulla soglia delle celle che la finì con uno sparo in bocca». Forse una gita scolastica ai lager gioverebbe al matematico che si giustifica con l’ignoranza. A meno che non ci risponda con le Maledizioni di Lutero contro i giudei: «Essi sono cani assetati di sangue di tutta la cristianità e assassini di cristiani per volontà accanita e gli piace talmente farlo che sovente sono stati bruciati vivi sotto l’accusa di aver avvelenato le acque e i pozzi, rapito bambini e averli smembrati e fatti a pezzi, con lo scopo di raffreddare la loro rabbia con del sangue cristiano». Un richiamo bibliografico per il cattedratico sprovveduto: Van den Juden und thren Luegen, (1543).

Repubblica 28.10.13
Davanti a Pilato
Perché Gesù fu condannato senza ricevere un  giudizio
Nel suo saggio Agamben rilegge l’incontro tra Cristo e il procuratore come il conflitto tra due mondi destinati a non sfiorarsi
di Gustavo Zagrebelsky


Le narrazioni evangeliche dei detti e dei fatti riferiti a Gesù sono da sempre un fondo inesauribile d’interpretazioni teologiche, politiche e teologico-politiche d’ogni genere. Ciò vale in modo particolare per il processo davanti a Pilato e la morte in croce del Nazareno. Giorgio Agamben, in un suo recente, densissimo piccolo libro dal titoloPilato e Gesù(Nottetempo), compie, intorno a quelle vicende, una ricerca archeologica nel senso ch’egli, nei suoi studi, attribuisce all’arché delle cose. Ciò che vale per l’archeologo che si pone sulle tracce delle civiltà sepolte, ne disseppellisce i reperti, li ripulisce dalla polvere, dalla sabbia e dalle incrostazioni e li riporta in pristino stato, vale anche per l’archeologo che va alla ricerca non di cose, manufatti o singoli avvenimenti, ma del significato primigenio delle cose. Non si tratta del piacere erudito per leantiquitates. È invece ricerca dei significati originari, occultati, travisati, manipolati nel corso del tempo ma, tuttavia, soggiacenti e pronti a riemergere, se e quando qualcuno li riporti alla luce e, così, in vita.
Secondo l’interpretazione ricevuta, Gesù fu sottoposto a un processo promosso dai sinedriti per ragioni di natura religiosa (blasfemìa) che comportavano la messa a morte. Poiché, però, nella provincia romana della Palestina l’autorità locale aveva perduto il potere di vita e di morte e lo jus gladii era passato nelle mani del procuratore di Cesare, essi si rivolsero a Pilato, muovendo un’accusa di sedizione. Pilato, a conclusione d’un processo svoltosi tra dubbi, titubanze e viltà, pressato dalla folla aizzata dai sacerdoti, forse contro la sua stessa volontà lo condannerà alla crocifissione in base alla lex Julia maiestatis. La regolarità delle procedure è stata oggetto di accanite discussioni, secondo il diritto romano del tempo e secondo i precetti vigenti nella Giudea d’allora (la più approfondita discussione in proposito è, a mia conoscenza, quella del giurista israeliano Chaim Cohn, Processo e morte di Gesù, Torino, Einaudi, 2000). Agamben non entra nel merito di questa discussione perché non ne ha bisogno. La sua tesi, fondata su una lettura del Vangelo di Giovanni, è che non si trattò affatto, né poteva trattarsi, di un giudizio, con tanto di atto d’accusa, discussione tra le parti, sentenza di condanna.
La chiave per la comprensione della tesi di Agamben è in Gv3, 17: «Dio non ha mandato il suo figlio nel mondo per giudicarlo, ma per salvarlo». Pilato, a sua volta, è invece in Palestina per giudicare, non per salvare. Tra salvazione e giudizio c’è la distanza che separa due mondi incommensurabili che non possono incontrarsi, almeno fino alla consumazione dei tempi. La salvazione riguarda il regno di Dio, del quale il Cristo si proclama signore: riguarda la “economia della salvezza”, il mondo di lassù; il giudizio riguarda invece il regno degli uomini, del quale signore è il Cesare di Roma e, in nome suo, il procuratore in Palestina, il mondo di quaggiù. Nel faccia a faccia tra Pilato e Gesù, vi sarebbe stato dunque solo contatto esteriore di questi due mondi, ma non una relazione capace di generare un autentico giudizio (giusto o ingiusto: non è questo che interessa). Ogni vero giudizio ha una struttura bilaterale che si compone in unità nella sentenza. Se fosse unilaterale, non vi sarebbe sentenza, ma violenza. «Qui davvero [nel litostrato, pavimento di pietra] … due regni stanno l’uno di fronte all’altro senza riuscire a giungere a compimento. Non è nemmeno chiaro chi giudichi chi, se il giudice legalmente investito dal potere terreno o il giudice per scherno [riferimento al manto di porpora, alla canna come scettro, alla provocazione: “Giudicaci!” messa in bocca ai Giudei] che rappresenta il Regno che non è di questo mondo. È possibile, anzi, che nessuno dei due pronunci veramente un giudizio » (p. 53).
La reciproca estraneità impedisce dunque a Pilato di pronunciare la sentenza. Come potrebbe, in quanto governatore del regno di quaggiù, giudicare il regno di lassù? Il procedimento, infatti, secondo Agamben, si conclude con un fatto materiale: la mera consegna di Gesù –traditio – ai suoi carnefici (Gv 19, 16). D’altra parte, Gesù prende laparola soltanto per affermare l’estraneità del suo regno a quello di Pilato e la comune discendenza dell’uno e dell’altro dalla volontà del Padre. Ma, in quello che avrebbe dovuto essere il suo processo, egli tace completamente. Testimoniare, qui e ora, della verità del Regno che non è qui e ora, significherebbe accettare che ciò che vogliamo salvare ci possa giudicare, che le creature giudichino l’eterno: accettare, cioè, come verità ch’esse non vogliono essere salvate. Poiché nei giudizi terreni non possono esserci parole di salvazione, al Cristo non è dato d’intrecciare le sue parole con le loro. Simmetricamente, però, anche a Pilato è tolta la parola, perché il giudizio non può avere a che fare con la salvezza. Pilato, sotto questo aspetto, evitando di pronunciare la sentenza, si mostra consapevole della natura della questione che pende davanti a lui. «Qui è la croce, qui è la storia », conclude Agamben così, con una piccola frase in cui si compendia un’incomprensione, un’impossibilità d’incontro, plurimillenaria.
Se abbiamo bene compreso,quali che siano le ragioni testuali su cui si basa l’interpretazione di Agamben, un’altra tessera nel processo interpretativo delle vicende del processo e della morte di Gesù viene a collocarsi accanto a numerose altre. Non solo: si tratta d’una visione che va ben al di là di questo. Riguarda in generale il mai risolto rapporto tra i due regni: il reddite Caesari e il reddite Deo di Mt 22, 21. Secondo la vulgata, Gesù è condannato da tutte le potenze della terra, simbolizzate dall’accordo di Pilato, delle autorità del sinedrio e della folla, coalizzati contro l’irruzione, ch’essi rifiutano, del divino nella storia umana. In questa interpretazione c’è conflitto, perché Cesare prevarica su Dio: un mondo (i poteri della terra) entra nell’altro mondo (la misericordia divina) e lo sconfigge con una sentenza di morte. Ma, la strada, tuttavia, è aperta per l’opposta soluzione del conflitto: la sconfitta del mondo da parte della misericordia divina: «Padre, perdona loro…».
Secondo Agamben, il processo e la morte di Gesù sarebbero invece impostati sul presupposto d’un dualismo terra-cielo senza incontro, né gerarchia tra loro. A Pilato, il giudizio; al Cristo, la salvezza: punto e basta. Se vengono a confronto, «finiscono in un comune, indeciso e indecidibile non liquet» (p. 63) perché entrambi hanno le loro autosufficienti che non solo non s’incontrano e non si scontrano, ma hanno anche il medesimo, altissimo, fondamento in Dio: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dall’alto » (Gv 19,11). Il medesimo concetto è sviluppato da San Paolo nel celeberrimo capitolo XIII della lettera ai Romani, il cui senso si compendia nel “nulla potestas nisi a Deo” che ha, come corollario, l’invito, rivolto ai cristiani, a stare sottomessi alle autorità costituite.
Questo dualismo senza interferenze conduce però a un’impasse morale, a un paradosso che può rivelarsi tragico in situazioni estreme, come fu quella d’un fedele cristiano ch’era anche cittadino leale al potere. Ne ricordiamo la vicenda per mostrare quanto le più apparentemente astratte discussioni teologiche possano incidere nella carne viva delle persone. Un uomo di fede evangelica certa – Kurt Gerstein (recentemente menzionato in un libro di Marco Rizzo, Cesare e Dio, Bologna, il Mulino, 2009) – nel momento della presa del potere da parte di Hitler, aveva aderito al nazismo, arruolandosi nelle SS. A fondamento della sua scelta stava il «date a Cesare quel che è di Cesare » e il «nulla potestas nisi a Deo». Nel 1938, però, scoppia la contraddizione. Davvero, egli si chiese, la parola di Dio «si trova nelle stelle», come dice Schiller; davvero la giustizia di cui parlano i potenti della terra è solo una “prostituta di Stato” e davvero, la voce di Dio non ha nulla da dire in proposito, riservandosi per il momento finale della consumazione dei tempi? Tormentato da una coscienza impigliata tra due fedeltà contraddittorie, a Dio e a Hitler, alla fine trovò la via d’uscita togliendosi la vita. Ecco che cosa può significare per un cristiano che prende sul serio la sua fede l’idea che il cielo sta a guardare la terra, nel tempo in cui sulla terra ci tocca di vivere. Se fosse così, il cristiano che s’interroga su che cosa il suo Dio chiede da lui dovrebbe riconoscere che questa sua domanda cade nel vuoto e dovrebbe disperare: il suo Dio non gli fornisce criteri di giustizia, perché sua è soltanto la salvezza e la salvezza sta in cielo, non in terra. Gli verrebbe a mancare ogni punto d’appoggio morale. Cadrebbe nel vuoto il motto degli apostoli, condotti a giustificarsi di fronte al sinedrio: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5, 29).

IL LIBRO Pilato e Gesù di Giorgio Agamben (Nottetempo pagg. 66 euro 6)
A sinistra, Niccolò Frangipane: Gesù davanti a Pilato

Repubblica 28.10.13
La memoria del futuro
Così costruiremo i nostri  ricordi
Per curare disturbi mentali, ma anche per creare conoscenze artificiali finora inedite
di Elena Dusi


Si potranno ricordare cose mai vissute o cancellare dalla mente le esperienze negative. La scienza riscrive il cervello. Come in un film
Stimoli magnetici, piccole scosse elettriche. E farmaci sperimentali.
Si moltiplicano i test che (come in un film di fantascienza) trasferiscono nuove informazioni al cervello.

Memorie cancellate. Ricordi creati dal nulla. Elettrodi che recapitano corrente agli strati profondi del cervello. Stimoli magnetici capaci di alterare la percezione del bello o del giusto. Gentili scosse da pochi milliampere che danno “la sveglia” ai neuroni. Minuscoli cervelli allo stato embrionale cresciuti in provetta anziché in un grembo materno a partire dalle cellule staminali. E l’astrofisico Stephen Hawking nel frattempo rassicura: «Raggiungeremo l’immortalità. Saremo un giorno in grado di trasferire le informazioni del nostro cervello su un supporto artificiale».
Un’idea simile — l’architettura della mente umana riprodotta nel silicio di un computer — riceverà un miliardo di euro in dieci anni dall’Unione Europea. Non di fantascienza si tratta, ma di un progetto bandiera che coinvolge 90 università e centri di ricerca in 22 paesi del continente. Negli Usa, contemporaneamente,a un’iniziativa analoga il presidente Obama ha promesso 3 miliardi di dollari.
Il santuario della nostra coscienza e personalità ha dunque smesso di essere impenetrabile. L’homo faber ha iniziato a mettere mano alla parte più sacra e protetta di sé. Dopo decenni di risultati non proprio eclatanti da parte della chimica e dei farmaci, i nuovi “artigiani” della materia grigia promettono ora risultati concreti per alcune malattie mentali. Trasmettendo un po’ di inquietudine, mescolata alla giusta speranza.
Sembra la trama di “Total recall”,maèunesperimento reale: studiando dei topolini nel suo laboratorio dell’università della California a Irvine, il professore di Neurobiologia Norman Weinberger è riuscito a inserire dei minuscoli elettrodi nel cervello fino a raggiungere la corteccia uditiva. E lì ha impiantato dei ricordi artificiali: memoria di esperienze (in questo caso uno stimolo sonoro) mai avvenute. La descrizione dell’esperimento è uscita il 29 agosto su Neuroscience.
Weinberger oggi spiega: «Lanostra ricerca dimostra che è possibile inserire nel cervello specifici contenuti di memoria. Questi ricordi sono completamente falsi: non nascono da un’esperienza. Secondo i nostri risultati sarebbe possibile creare finte memorie anche negli esseri umani, ma a questo stadio della ricerca abbiamo solo l’obiettivo di svelare come funziona il meccanismo della fissazione dei ricordi. Non ci poniamo scopi terapeutici».
Sulla stessa strada troviamo le sperimentazioni sull’uomo di un farmaco che i ricordi, al contrario, li cancella. L’obiettivo è aiutare le persone colpite da quello stress da disordine post-traumatico che affligge soprattutto gli ex soldati. La sostanza usata si chiama “Propanolol” e sabota il delicato processo che nel cervello avviene quando un’esperienza è immagazzinata sotto forma di ricordo. Questa sostanza chimica — allo studio da una decina di anni sui veterani o sulle vittime di incidenti che arrivano al Pronto soccorso — parte dal principio che tanto più un’esperienza è carica di significato emotivo (paura in primis, ma anche gioia o ansia), tanto più il ricordo sarà fissato in modo indelebile. Il propanolol attenua la risposta emotiva a un trauma. E quindi smorza la preminenza di un evento doloroso nella gerarchia delle memorie.
Cancellare o scrivere memorie come se il cervello fosse una lavagna è una delle invenzioni che nascono nel cinema prima ancora dei laboratori. In Se mi lasci ti cancello due ex fidanzati si rivolgono a una clinica per eliminare ogni traccia mnemonica della loro relazione. L’effetto, paradossalmente, è dimenticare quel che è successo e tornare a innamorarsi durante un nuovo incontro. InTotal Recall una ditta promette ai suoi clienti la creazione di ricordi partendo da esperienze che si sarebbe tanto desiderato vivere. Il protagonista si fa impiantare nel cervello la memoria della vita da spia che aveva sempre sognato. Ma un problema tecnico provoca una serie di disavventure in cui si non si distingue più fra realtà e ricordi artificiali.
«Alcuni esperimenti manipolano effettivamente il cervello. E quindi manipolano anche la mente», commenta Michele Di Francesco, rettore dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia e uno dei fondatori della giovane Società Italiana di Neuroetica. «La memoria è la base della nostra identità e senza ricordi l’“io narrativo” si svuota. Certo, tecniche come la stimolazione cerebrale profonda promettono di migliorare i sintomi del Parkinson. Ma per le loro potenzialità, questi metodi richiedono cautela». Il rischio è che l’uomo dal “conosci te stesso” prenda una scorciatoia che lo porti al “cambia te stesso”. «Sarebbe il colmo — prosegue Di Francesco — se la nostra specie che ha sempre cambiato il mondo grazie alla sua intelligenza e cultura, ora iniziasse a cambiare anche se stessa. I momenti di crisi spesso aiutano a crescere. Se una situazione ci rende tristi, la reazione migliore è cambiare la situazione, non cancellare la tristezza».
Tra gli strumenti usati per “entrare” nel cervello e modificare i suoi circuiti ci sono la stimolazione elettrica e quella magnetica. La prima viene usata nel Parkinson o in forme estreme di depressione: un elettrodo sottilissimo viene inserito nel cervello in maniera permanente e invia piccole scosse a gruppi precisi di neuroni. Sono 700mila nel mondo le persone sottoposte a questo metodo. L’americana Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) ha deciso una settimana fa di finanziare con 70 milioni di dollari questi stimolatori. E lo scrittore di fantascienza Michael Crichton alla tecnologia ha dedicato “Il terminale uomo”: a un epilettico viene impiantato nel cervello un computer dotato di elettrodi. Ma l’apparecchio invia impulsi errati, e il paziente diventa un criminale.
Nulla di simile è mai avvenuto nella realtà. Ma una piccola corrente all’esterno del cranio (niente a che vedere con l’energia dell’elettroshock) ha dimostrato di poter avere effetti bizzarri. A maggio, in un esperimento dell’università di Vancouver pubblicato su Current Biology, 25 volontari hanno indossato un caschetto con degli elettrodi, ricevendo una scossa da un milliampere. La loro rapidità nel fare i calcoli a mente è migliorata fino a 5 volte. Ma l’effetto è scomparso dopo sei mesi. Come funzioni il “doping” con la corrente non è chiaro, ma a giugno un altro esperimento ha aggiunto mistero al fenomeno. Una serie di scosse da 2 milliampere (10mila volte meno di una presa elettrica, e la sensazione di una leggera puntura nella testa) ha reso i 99 volontari assai più generosi nel dare i voti alla bellezza di alcuni volti mostrati in foto. Alla tecnica si è allora interessata una ditta che produce videogiochi. La Focus hamessoin vendita a 249 dollari una cuffia che somministra piccole scosse. «Rendi le tue sinapsi più veloci, con la stimolazione elettrica transcranica » recita lo slogan di una tecnologia forse fuggita troppo in fretta dai laboratori.
Altro che dibattiti sul Prozac, insomma. Con l’industria farmaceutica che nell’ambito delle malattie mentali non è andata molto avanti rispetto ai principi attivi degli anni Sessanta, il nuovo orientamento sembra essere quello di impugnare “chiavi inglesi e cacciaviti”. L’azienda Usa Medtronic che vende apparecchi per la stimolazione elettrica sostiene di aver soddisfatto più di 100mila pazienti affetti da dolore cronico, epilessia, fame compulsiva e dipendenze più varie. «L’uso di elettrodi dentro al cervello — secondo Todd Sacktor, neurologo della State University of New York — resterà comunque l’ultima spiaggia, perché richiede un intervento chirurgico. Anche se questi strumenti sono utili nella ricerca, secondo me il futuro della terapia sta nell’uso sempre più perfezionato di scanner del cervello, farmaci e psicoterapia».
La transizione dalla chimica dei farmaci alla stimolazione elettrica è ciò che invece auspica Josef Parvizi, direttore del programma di Elettro-fisiologia Cognitiva a Stanford: «Il linguaggio del cervello è una combinazione di chimica ed elettricità. Finora nel provare a curare le malattie del cervello si è preferito l’approccio chimico, attraverso i farmaci. Ma il costo per il resto del corpo è stato alto. Prendiamo l’epilessia. Se assumiamo un chilo di pillole, 900 grammi finiscono in fegato, pancreas, ossa e solo 100 grammi raggiungono l’organo bersaglio, cioè il cervello. Ma 99 grammi andranno ad agire su aree cognitive che con l’epilessia non hanno nulla a che fare, dando vista offuscata, senso di svenimento, spossatezza. Un grammo solo colpirà i neuroni responsabili della malattia. Questo è un approccio brutale, che va superato. Con farmaci più mirati. Ma anche, se necessario, con l’elettricità».

Repubblica 28.10.13
Roberto Mordacci, filosofo ed esperto di neuroetica: “Terapie, non alterazioni”
“Ma il rischio che corriamo è manipolare la personalità”
intervista di E. D.


«Memoria e personalità sono legate a doppio filo». Manipolare i ricordi significa toccare un tasto delicato: non ha dubbi nemmeno Roberto Mordacci, preside di Filosofia all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano ed esperto di neuroetica. «Se si tratta di curare una malattia, nemmeno il moralista più conservatore potrà opporsi. Ma se l’obiettivo di pillole, elettrodi e stimolazioni magnetiche è soltanto potenziare delle facoltà che sono sane, il discorso diventa più sfumato».
Il confine tra salute e malattia è scivoloso: come decidere quando è giusto “mettere le mani” nel cervello?
«Il confine tra salute e malattia è in effetti una convenzione. Che varia a seconda delle epoche e delle società. Il chirurgo francese René Leriche sosteneva che non esistono persone sane, ma soltanto persone con malattie non ancora diagnosticate. Oggi addirittura anche chi sta bene ma ha una predisposizione genetica a una certa malattia viene considerato alla stregua di un non sano».
Quali esempi di manipolazione del cervello sono giustificabili allora?
«L’uso della stimolazione cerebrale profonda nel caso di Parkinson o di disturbi ossessivo-compulsivi. E anche la cancellazione della memoria, se serve a eliminare ricordi traumatici che non permettono di vivere. Tutte queste tecniche in fondo sono nate in un contesto terapeutico, per curare malattie, ed è giusto che continuino a essere sperimentate con questo obiettivo. In condizioni simili sono terapie, non alterazioni della natura umana».
Qual è il confine tra una manipolazione della memoria legittima e una inaccettabile?
«Nel film Se mi lasci ti cancello il protagonista cancella selettivamente tutti i ricordi legati alla sua storia d’amore appena conclusa. Ebbene, alla fine non fa altro che ricadere negli errori iniziali, come se la sua esperienza non gli avesse insegnato nulla».
E questo a noi cosa insegna?
«Che un ricordo ossessivo, in cui un forte trauma viene rivissuto continuamente, può legittimamente essere cancellato, ammesso che i farmaci ci riescano. Una storia d’amore finita male invece no. Il peso emotivo dei ricordi va gestito eanalizzato. Occorre trovarne il senso. Cancellare una memoria in toto vuol dire cancellare un pezzo di storia personale e basta. È qualcosa che il nostro cervello fa abbastanza comunemente, come Freud ci ha insegnato, con il meccanismo della rimozione. Ma alcuni traumi, come lo scottarsi con l’acqua bollente, sono utili per evitare di ricadere negli stessi errori».
Potenziare alcune facoltà, come la forza di volontà, non potrebbe essere utile?
«In effetti la nostra capacità di resistere alle tentazioni o alle provocazioni è limitata. Quando sforziamo a lungo questa facoltà, poi basta uno stimolo molto piccolo per far crollare l’autocontrollo. Ecco perché dopo una giornata di tensioni sul lavoro si torna a casa e ci si arrabbia per un nonnulla con il proprio figlio. Che venga escogitata una neuro-stimolazione capace di migliorare questa facoltà potrebbe non essere un male».
Idea inquietante.
«Il problema è quando la stimolazione viene indotta con scopi esterni all’individuo. In un supermercato uno strumento così sarebbe pericoloso. È vero che il neuro- marketing è una disciplina ormai matura, ma dirigere le persone verso determinati scaffali direttamente con uno stimolo sui neuroni può diventare rischioso: è una vera manipolazione. Per carità, le influenze che subiamo senza esserne coscienti sono tante e pesantissime. Ma l’illusione di essere comunque un po’ gli autori della nostra esistenza è qualcosa cui non vogliamo certo rinunciare».
Per migliorare alcune funzioni del cervello esistono già anche dei farmaci.
«E sembra che vengano usati spesso dagli studenti negli Stati Uniti. Medicinali come ilRitalin o ilProvigil aumentano la soglia dell’attenzione e della concentrazione. Permettono, in molti casi, di preparare un esame nella metà del tempo normale. Ma ci si è accorti che il cervello perde queste informazioni assai rapidamente. Le nozioni infatti sono state immagazzinate e non elaborate. Non sono cioè state organizzate secondo nessi causali. Se invece fosse possibile migliorare la capacità di immagazzinare informazioni senza perdere quella di elaborarle, allora perché dovremmo dire di no a delle tecniche che agiscono direttamente sul cervello?»

Repubblica 28.10.13
Lacan, un marziano a Roma
di Antonio Gnoli


Alcune eventi hanno il sapore della coincidenza, ma sono solo il frutto della casualità. Sessant’anni fa Lacan venne a Roma per una di quelle conferenze che sarebbero diventate celebri (ora negli Altri scritti,editi da poco da Einaudi). Da poco aveva rotto con la tradizionalissima società di psicoanalisi francese, mettendo al centro dell’inconscio la parola e il linguaggio. Cominciava allora ad affacciarsi lo strutturalismo. Ci si potrà domandare che cosa compresero gli astanti di quest’uomo i cui discorsi erano tanto geniali quanto astrusi. In mezzo al balbettio e al disorientamento, le cronache riferirono di una fascinazione montante. Poi, quell’anno, era il 1953, accadde qualcosa di incredibile: un’astronave atterrò su Villa Borghese e dalla scaletta scese un soggetto assai bizzarro. Non portava il cappottino a mezza coscia, né fumava sigari. Era solo un marziano, un marziano a Roma, uscito dal racconto di Ennio Flaiano. Tra i due episodi non c’è relazione. Eppure, a pensarci bene, Jacques aveva tutto dell’alieno, a cominciare dalla lingua. Concluse il suo discorso, puntando il sigaro sui presenti e invitandoli ad aprire bene le orecchie ai “meravigliosi dialoghi da strada”. Lì, ad un angolo, un omino in tuta verdastra prendeva appunti.

Repubblica 28.10.13
Lou Reed
In quelle rughe c’è la storia del mondo
di Michele Serra


LOU Reed era nato a Brooklyn nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, quando il rock’n’roll non era ancora stato partorito dalboogie e dal blues.
La società in cui è cresciuto era, almeno in apparenza, molto più ordinata e regolata di quella in cui Reed ha concluso la sua lunga avventura di uomo e di artista poco dopo avere compiuto i settant’anni, un’età che vede molti suoi colleghi ancora dritti in mezzo a un palcoscenico.
C’è una sua foto da studente che pare quella di un nostro remoto antenato, come tutte o quasi le foto degli anni Cinquanta. È invece, anagraficamente, la foto di un nostro fratello maggiore o padre. Con i capelli corti, gli occhiali, l’aria per bene che avevano i ragazzi prima dello squasso politico-esistenziale degli anni Sessanta. Difficile perfino intuire, in quel viso, il volto segnato e i tratti scavati dell’artista “maledetto”, notturno, pallido e scuro, che ha conquistato la fascia più colta e irrequieta della scena musicale americana e — di riflesso — mondiale.
Tutti i volti invecchiano. Ma nella generazione di Lou Reed impressiona riconoscere in una sola persona, in una sola biografia, un passaggio d’epoca così sconvolgente. Dalla cravatta del college e dal decoro di una famiglia ebraica piccolo borghese (chissà se simile a quelle descritte da Philip Roth o Woody Allen) alla scena underground e al “chiodo” di pelle nera che ha indossato per il resto della sua vita il passo è stato, per chi lo ha fatto, vigoroso e istintivo. Ma a ripensarlo a distanza, quel passo, si capisce che in poche altre epoche il mondo è altrettanto cambiato; e che poche generazioni sono cambiate, cambiando il mondo, come quella che è cresciuta in Occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Degli abusi di sé, delle droghe, dell’oltranzismo esistenziale, della coerenza espressiva (mai nemmeno mezza concessione alla “gradevolezza”) di Lou Reed dicono diffusamente i suoi biografi e i suoi critici, che sono quasi tutti, da sempre, meritatamente entusiasti. Difficile, del resto, non ammirareun artista così poco appagato, febbrile sperimentatore anche quando avrebbe potuto comodamente ripetere il suo canone, in continuo e cangiante sodalizio con star di calibro almeno pari al suo (John Cale e i Velvet Underground, Andy Warhol, David Bowie, Laurie Anderson), fotografo, cantante, chitarrista, compositore, attore, poeta, teatrante, scrittore (con Lorenzo Mattotti che illustra la sua rielaborazione delCorvo di Poe), multimediale da prima che la multimedialità prendesse piede fino da quando collaborava con la Factory di Wharol.
Quanto alla natura “nera” della sua musica (e soprattutto dei suoi testi), al suo mai edificante racconto di piaceri e desideri cercati ossessivamente, di vite estorte all’anonimato della società di massa, non è inutile riflettere su un pregresso che tutte le biografie di Lewis Allan Reed riportano. A causa della sua “bisessualità”, vera o presunta, ancora adolescente venne sottoposto (dalla famiglia?) a un elettroshock che potesse “curarlo”, e rimetterlo in carreggiata... L’episodio, quanto a “noir”, surclassa l’immaginazione delle peggiori spelonche dell’underground. Rimanda a una società trucemente bigotta, maccartista in politica e sessuofoba nei costumi, che prepara con le proprie mani, per naturale reazione, l’esplosione libertaria degli anni successivi, con tutti i suoi eccessi, il mito delle droghe, la dissolutezza, l’abrogazione dei limiti (anche fisici) che porta all’autodistruzione. La nomea “demoniaca” del rock, spesso tradotta in moda o vezzo, insomma in una facile ripetizione, è per paradosso alla luce del sole, perfettamente emersa, rivendicata. Quanto demoniache siano state — o siano ancora — le pratiche repressive, il perbenismo soffocante, il moralismo castrante, è invece materia meno evidente, e la biografia di Lou Reed aiuta a non trascurarla o dimenticarla. Durante il suo ultimo tour europeo Reed era un anziano, gentile intellettuale della East Coast, il cui repertorio di tenebra, di suoni acidi, di voce poco melodica, poco concessiva, aveva ormai l’effetto familiare di tutti i classici. Leggendo la storia della sua vita, la sola pagina davvero devastante è quella che precede il rock.