mercoledì 30 ottobre 2013

l’Unità 30.10.13
Cuperlo avanti 45 a 29
Renzi: contano i gazebo
D’Alema-Renzi, polemica all’insegna di Virna Lisi


«Non mi pare che al successo mediatico di Renzi corrisponda una straordinaria ricchezza e novità di contenuti. Mi ricorda un po’ quella pubblicità con Virna Lisi, “con quella bocca può dire ciò che vuole”. Salvo poi a dimenticare che in gran parte le cose che ha detto a Firenze sono patrimonio consolidato del Pd». Così Massimo D'Alema definisce non «scontata» la premiership per il sindaco di Firenze, per il quale ritira fuori la vecchia immagine di quella pubblicità di dentifricio, con la bella attrice e un pubblico pronto ad applaudire conformisticamente, anche a prescindere dai contenuti del messaggio.
«Può darsi afferma D’Alema intervistato dal Mattino che possa sorgere un’altra candidatura, che qualcuno cioè voglia sfidarlo proprio com’è successo tra Bersani e lui». In questo caso Renzi «non potrebbe sottrarsi a questa sfida, tanto più che andremo alle elezioni con una coalizione, non certo da soli». Quanto al governo «al di là di quello che dice Renzi, la tenuta dipende da quella parte del Pdl che non vuole far cessare anticipatamente l’esperienza Letta».
Matteo Renzi gli replica parlando al forum del Messaggero: «L’unico personaggio del passato che mi fa venire in mente D’Alema... è D’Alema. Sono molto imbarazzato per Virna Lisi, le ho mandato un mazzo di fiori, perché il paragone con me è umiliante per lei. Che D’Alema non sia propriamente entusiasta della mia candidatura... Me n’ero accorto. Tuttavia, continuo a rispettarlo. L’ultima volta che l’ho sentito è stato quando la Fiorentina ha battuto la Juve, lui da romanista mi ha mandato un messaggino perché era felice. Mi piace ricordarlo così».

su Spinoza.it:
D’Alema: “Renzi come Virna Lisi...”. Andava trombato prima!!!

su Il Vernacoliere:
Leopolda stories. Renzi: "Se vinco io, basta larghe intese! Non faremo mai più un governo col Pd!"

l’Unità 30.10.13
Renzi non ci porta lontano. Ecco perché non m’ha convinto
di Enrico Rossi

Presidente Regione Toscana

ALLA LEOPOLDA OLTRE ALLA MANCANZA DI BANDIERE ORMAI NON È PIÙ UNA NOVITÀ NELLE INIZIATIVE DI RENZI COLPISCE LA SCARSA RAPPRESENTAZIONE DEL DRAMMA CHE VIVE IL PAESE. Sarà stata una scelta dettata dalle logiche della comunicazione, che per un prodotto vincente deve lanciare messaggi ottimistici e modelli di successo. Tuttavia l’effetto politico è evidente, soprattutto per un politico che si candida a dirigere il maggior partito della sinistra italiana. Nel complesso dalla Leopolda non viene un messaggio forte, né per la guida del Pd né per la guida dell’Italia. Prevale una proposta improntata al moderatismo e a un’idea del successo che risolve tutti i problemi, senza scegliere e senza tener conto dei reali interessi sociali ed economici. Renzi stesso si propone come leader vincente per far uscire l’Italia dalla crisi e, al tempo stesso, come segretario del Pd che riscatta le sconfitte della sinistra, alla quale non risparmia una sventagliata di critiche, salvo non toccare mai il tema di fondo: la subordinazione della sinistra alla cultura liberista e al capitalismo finanziario. In questo senso Renzi è conservatore, si presenta in continuità con la vecchia sinistra dei decenni passati e anzi, per certi aspetti, ne accentua il carattere rinunciatario, il riformismo debole e la tendenza a soggiacere agli interessi più forti.
Al di là di un consenso, al momento indubbiamente ampio, questa impostazione non ci porta lontano. Essa non sceglie un campo sociale da rappresentare e non parla certo in modo strutturato ai più poveri, ai giovani, ai disoccupati, ai precari, ai ricercatori, ai pensionati, alle partite Iva e alla piccola impresa; ceti dai quali Renzi denuncia giustamente la lontananza dal Pd senza fare però una proposta concreta per migliorare la loro vita quotidiana e senza riuscire a mettersi, come si dice oggi, in connessione sentimentale con loro. Renzi sembra restare prigioniero delle sue molteplici candidature e pare non trovare la posizione giusta per esprimere i contenuti di cui ci sarebbe bisogno. Insomma la proposta della Leopolda appare troppo astratta e generica per essere un programma di governo e troppo lontana dalle ragioni e dalle passioni della sinistra per essere un manifesto politico del Pd. A me pare, per quanto riguarda il partito, più convincente il profilo ideale, culturale e organizzativo di Cuperlo e più efficace la concretezza e lo stile istituzionale di Letta, il quale non fa sognare gli italiani, ma impedisce che il paese vada a fondo e di questi tempi non è poco. Anche se non basta. Mi chiedo se oltre a tutti questi convegni, a queste belle e tante parole sul futuro non sarebbe meglio se il Pd facesse intanto qualcosa di buono per il presente. Avanzo tre proposte. Due di modifica della finanziaria, una per il lavoro a favore dei disoccupati e dei tanti giovani senza futuro, l’altra rivolta ai redditi più bassi, pensionati e lavoratori dipendenti; la terza a favore della semplificazione per le imprese, perché, come ha detto un’imprenditrice alla Leopolda, ogni tre giorni c’è un adempimento da assolvere a carico delle imprese.
Ma per dare gambe a queste proposte occorre studiare, approfondire e non abbandonarsi certo nelle mani di esperti, lobbisti e ancora meno di qualche guru della comunicazione. Insomma ci vorrebbe un partito, magari anche con le bandiere.

il Fatto 30.10.13
Ecco Matteo, figlio di un loft minore
La sede del comitato per le primarie e l’ombra di Veltroni
“Le tessere gonfiate? conta il voto dei cittadini”
di Wanda Marra


E adesso come lo facciamo Renzi? In sella a un cavallo? Dite di no, meglio su una vespetta?”. Sono le sei della sera e il comitato renziano per le primarie si è appena insediato. La sede prescelta è a via dei Pianellari, a pochi passi da via della Scrofa, in pieno centro di Roma. L’ingresso posteriore dà su un cortile interno, sul quale si affaccia una bottega storica di incisori. Sui ripiani, un busto di Mazzini, uno di Garibaldi. “Questi li abbiamo fatti perché ce li ha chiesti Ciampi”. Ce n’è anche uno più grande di Dante. In onore di Renzi? “No. Magari per lui potremmo fare un leader... socialista magari... ma quale... forse Pertini?”.
C’È UN PO’ di confusione sotto il cielo democratico e non. La sede, 180 metri quadri per 4.000 euro di affitto al mese ricorda da vicino il loft scelto da Veltroni come quartier generale. Un loft in minore, però. Quello era a due passi dal Circo Massimo, ambiziosamente vicino ai simboli dell’Antica Roma, questo è strategicamente a pochi metri da Montecitorio. Tanto quello era ampio, arioso, ambizioso, tanto questo è sobrio e tutto sommato un po’ angusto. Ci sono le stesse travi di legno a vista: ma i soffitti sulla testa di Walter erano decisamente più alti. “Beh, all’epoca con Veltroni c’era tutto il partito”, commenta uno che fu in prima linea.
Ieri Renzi per l’ennesima volta durante il forum alMessaggero si mette in contrapposizione al partito per la cui leadership sta correndo: “Possono gonfiare tutto quello che vogliono, ma il segretario non lo eleggono solo gli iscritti, i tesserati più o meno gonfiati, ma il cittadino che, senza nessun obbligo, va a votare ai gazebo”. Immediata reazione dagli avversari: “Offende gli iscritti”. Lui ha una linea precisa. “Conta solo l’8 dicembre”. Anche perché il voto dei circoli è tutt’altro che scontato. All’entrata del comitato elettorale ci sono già i pannelli con le foto dell’ultima Leopolda: folla oceanica , Renzi al centro del palco, lavagnetta che rimanda la parola “Stupore”. All’inaugurazione arrivano renziani della prima e dell’ultima ora. Francesco Clementi, look professorale, Dario Nardella, indaffarato, Lino Paganelli , circospetto, Maria Elena Boschi, fotografatissima, Marco Agnoletti, incollato al cellulare. Matteo non si fa vedere. È un posto troppo piccolo per contenerlo, spiegano i suoi: per far posto alle telecamere avrebbero dovuto chiudere la strada. Gli onori di casa li fa il capo del comitato, Stefano Bonaccini, segretario dell’Emilia Romagna, bersaniano fino all’altroieri. Prima di stappare una bottiglia di spumante davanti alle (uniche) due bandiere del Pd fa un discorso old style democrat: “Ci siamo stancati delle risse. Facciamo tutti parte della stessa famiglia, semmai vogliamo allargarla . Un conto è non voler aver un padrone, altro è cercare una leadership forte". Poi invita tutti ad impegnarsi e a non dare nulla per scontato. Insieme a lui ci sono i 4 responsabili del comitato. Esempio di manuale Cencelli (in minore): c’è Antonio Funiciello , cresciuto con Veltroni, Matteo Ricci, presidente della provincia di Pesaro, che è stato vicino ai Giovani Turchi, Fausto Recchia, prodiano, Alberto Lo Sacco, fedelissimo di Franceschini. Tutti 40enni, tutti uomini, tutti desiderosi di emergere. Nello spazio all’aperto di fronte agli incisori c’è un piccolo palco, con l’immancabile slogan: “L’Italia cambia verso”. “Servirà per le interviste”, commenta il deputato romano Rughetti. Uno schermo a disposizione, per il giovane Matteo è il minimo sindacale. Cartelli didattici completano il quadro. La riunione si scioglie. In serata i renziani hanno un impegno istituzionale: il capo riunisce alla Camera i parlamentari che hanno firmato la sua candidatura per lavorare alla strategia parlamentare delle prossime settimane. Non solo legge elettorale. “Sì al voto palese, temo i giochini dei 5 Stelle”, ha detto a proposito dei lavori della Giunta per la decadenza. Anche Bonaccini ha da fare: c’è la riunione della Commissione per il congresso.
VOLANO accuse di brogli incrociate. Bianchi, presidente della Fondazione Big Bang, spiega che la Leopolda non verrà computata tra le iniziative per le primarie. E Mecacci, coordinatore del comitato Cuperlo: “Mancavano le bandiere per una questione di contabilità. Il tetto per le primarie è di 200mila euro a testa, rischia di non rientrarci”.

il Fatto 30.10.13
Aspirante segretario. Il sindaco sparaconcetti
La Semplicità cifra del presente: cucina regionale, una telefonata del Papa o della Ferilli, una pagina di Fabio Volo
di Daniela Ranieri


Il 28% degli italiani secondo l’Ocse non capisce quello che legge, un terzo capisce così e così ma non sa che farsene. Si chiama analfabetismo funzionale. Dopo l’intossicazione di politichese da pentapartito e frattaglie, paraculese post-DC, intortese da partito dell’amore, torna la voglia di cose buone. La burocrazia, dispiace per Monti&Fornero, ancora ci attanaglia; le tasse hanno assunto acronimi di 5, 6, 8 lettere; la semplificazione di Calderoli era più che altro antropologica. Voilà Renzi. Renzi è nella politica ciò che Antonio Banderas è nell’industria dei prodotti da forno: un fattore caruccio che omette bilanci aziendali e vertenze sindacali parlando con una gallina (dove noi siamo la gallina). Il popolo della Leopolda, ha detto, “sarà un partito semplice, capace di farsi capire anche da un bambino”. Eminenti personalità della delenda sinistra vanno da Floris a citare Tocqueville: in sala borbottano i nostalgici delle mignotte. Fassina ci mette in guardia dal rischio Renzi, facendogli il favore più grande, giacché la mente semplice del-l’elettore capisce che l’alternativa a Renzi è Fassina. Lui si scalda a bordo campo e vede che c’è tutta una fascia rimasta scoperta, quella dell’emozione: alterna scatti e corsetta, inviti a giocare tipo Ringo Boys, calorose strette di mano da direttore Tecnocasa, affidabile come un istruttore di nuoto, amatissimo dalle mamme.
Nella città che amministra, monta su per il quarto anno una kermesse da predicatore del Tennessee: scenografie tra lo studio di X-Factor e un’aula della scuola Holden, chez Baricco seduto in sala con chioma gorgonica sotto cui frullano un sacco di idee, competenza, creatività. L’eloquio dei relatori è un po’ macchinoso, rispetto allo sparaconcetti-Renzi: fare, sogno, concreto: una pioggerella di parole calmanti, antidotiche, che vanno subito in circolo, come un’intramuscolo.
Nel libro Fuori!, la parola cuore compare 23 volte in 111 pagine, amore 10, famiglia 35, speranza 14, lavoro 45, spesso nell’accezione di mestiere (“faccio un lavoro fantastico”). La lingua accarezza, mai contundente, mai irrigidita nel lessico da apparato; quando è apodittica, è per dire la più incontrovertibile delle banalità: “Il verbo fare non appartiene alla cultura politica di una parte, ma di tutti”. E sia. Si parla di parole, anzi di parole per dire le parole: “diamo un nome al futuro”: una retrocessione, dopo lo Scrivere il futuro di Repubblica.
AL POSTO delle parole d’ordine, cemento dei partiti del dopoguerra, gli hashtag; in luogo della prassi non la teoria, ma la retorica dell’azione, tra il futurismo e Pieraccioni. De Mita si sforzava di parlare italiano, lui si sforza di mantenere il dialetto, sapendo che l’Italia è ancora quella del Musichiere e della Ruota della fortuna, a cui partecipò l’anno della discesa in campo di chi sappiamo. “Basta parlare di Berlusconi. Parliamo degli italiani”, come se B. sedesse al parlamento dell’oblast’ di Kaliningrado.
Anti-casta (“fare il sindaco significa litigare contro uno stilista famoso che ha una pedana davanti al locale che toglie spazio al gioco dei bambini”), lirico (“l’arcobaleno dei loro sogni esige una città, non una vetrina”), Renzi sta sulla tavola da surf nella bonaccia italiana, e aspetta che passi l’onda su cui sono saliti Obama, Pepe Mujica e Bergoglio, visto che esiste solo una grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa, come insegna il genius loci della Leopolda, Jovanotti: quell’onda che viene e che va su cui fosforeggiano spontaneità, bicicletta, pane al pane, e un grano di sagacia toscana.
Ma qual è l’atout di Renzi, cosa lo rende qualcuno in un contesto in cui i suoi coetanei sono nessuno nonostante le iniezioni di quid? L’ironia, quella del rappresentante d’Istituto che proclama l’autogestione mettendo su il VHS di Amici miei? Il corpo, asciugato dalle corse in camper per le primarie, perse in modo molto di sinistra? L’eros, quello del neosposo in viaggio di nozze che usa gli sconti Groupon? Non ha piuttosto diserotizzato la politica con la faccia tosta e post-acneica di chi si impegna più che essere dotato? Sì: la sua rivoluzioncina semplice sovrascrive il corpo politico italiano in doppiopetto e doppiotacco col fisico leale e senza sovrastrutture dello start-upper generoso e non ideologico, quasi un grillino che sappia far di conto; le maniche di camicia di Bersani, troppo studiate per essere semplici, con una mise svelta e post-politica per analfabeti funzionali, come va va.

il Fatto 30.10.13
E in tv arrivano le ragazze di Fonzie-Renzie
Dicono poco, ma nel modo più affascinante possibile
Il capo le benedice e in caso di necessità dispensa consigli
di Carlo Tecce

La mimica facciale fa capire il fuoriclasse televisivo, o almeno un apprendista ben disciplinato e ben preparato. E la mimica facciale di Maria Elena Boschi, la deputata più vicina a Matteo Renzi, la più ambita dai fotografi, era perfetta a Piazzapulita. Ha superato la prova Maurizio Crozza, che imitava il sindaco versione frasi-baci-perugina: nessuna risata e neanche una smorfia, impassibile. E ha reagito con la medesima astuzia al servizio sui tre giorni di Leopolda. Braccia allungate in poltrona, sguardo fisso, trucco leggero, scollatura inesistente, tacco a spillo, e teorica presa di distanza: “Questo non rende bene l'idea”. E poi ha replicato con il vezzo berlusconiano di fare un elenco, di cose reali o irreali non importa, ma funziona per stanare le accuse: “C'erano 100 gruppi per 100 temi; 800 interventi per 800 proposte”. Le mani mulinavano e lo smalto autunnale, un marrone che trasmette decadenza, non dava fastidio. Renzi non l'ha indottrinata, ma non ha negato un paio di consigli. Era l'esordio nel mare ostile di una prima serata. La Boschi non ha sbagliato. E ora va a insidiare la posizione di Simona Bonafé, ex assessore a Scandicci, allevata già con le primarie di dodici mesi fa: la donna contro la donna (bersaniana) Alessandra Moretti.
I COLLABORATORI di Renzi spingevano la Bonafé perché, in assenza di deputati o senatori, era l'unica che avesse un piccola esperienza televisiva in Toscana. Ma andava costruita; e passava ore e ore in albergo a fare la recita. A indossare con disinvoltura il renzismo mediatico, che vuol dire pronunciare parole affascinanti senza dire troppo. A volte, non dice nulla. Un paio di settimane fa, alba di Agorà su Rai3, rispose con una supercazzola a una semplice domanda: “Qual è la politica economica di Renzi?”. A proposito di mimica facciale, negli occhi di Bonafé c'era il terrore. Persino l’istituzionale Giovanni Floris ha infierito. Le chiese: “Berlusconi è un impresentabile o no?”. La Bonafé riuscì a cianciare per quattro minuti su Renata Polverini e larghe intese.
Va segnalata Nadia Ginetti, una tipa tosta, ex sindaco di Corciano, ex guardia penitenziaria. Nerissima: fondotinta, capelli e vestiti. Su Margaret Thatcher la pensa così: “La sinistra segua l'esempio di questa donna rivoluzione”. Comunista, in gioventù, era Lorenza Bonaccorsi, l'anfitrione di Renzi per i salotti romani. Pur di giocare le telecamere, s'è fatta intervistare da un barbiere a Tgcom24. Le renziane in televisione possono cambiare spesso abito: possono essere democratiche, possono essere opposizione, possono essere populiste, possono essere anti-cinquestelle. Ricordano Renzi, Annozero, cinque anni fa: venne con tre completi diversi e tre cravatte diverse, poi preferì restare in maglioncino viola.

Repubblica 30.10.13
Finti iscritti, denunce e congressi fantasma nel Pd è l’ora dei veleni sulle tessere
Cuperlo: con me la metà dei votanti. Renzi: contano le primarie
di Goffredo De Marchis


ROMA — «State imbrogliando a Lecce». «Voi avete vinto ad Avellino con 4 congressi locali che non sappiamo dove siano stati celebrati. Nel verbale non c’è scritto». Col tono scherzoso di chi condivide almeno la battaglia per la svolta generazionale, la renziana Simona Bonafè e il cuperliano Matteo Orfini si tirano addosso gli stracci dell’anomalo tesseramento democratico. Iscritti quintuplicati in alcuni circoli, congressi provinciali che saltano per scorrettezze acclarate, le solite denunce sulle file di stranieri (albanesi, romeni, peruviani) folgorati sulla via del Pd a poche settimane dalle primarie e anziani reclutati e pagati dalle squadre concorrenti per votare l’uno o l’altro. Ma dove porteranno i veleni degli iscritti? Per Gianni Cuperlo verso una mutazione genetica della sinistra: «La natura e il profilo del nostro partito sono ispirati all’etica. Che non vedo nel rigonfiamento degli iscritti. È una questione di principio. C’è un segretario, mi aspettoun suo intervento».
Se le danno di santa a ragione a Caserta, dove Pina Picierno, fan di Renzi, franceschiniana, vuole fare saltare «il congresso sapendo di perderlo», spiega Orfini. A Lecce fanno tutto da soli i cuperliani: hanno tre candidati alla segreteria provinciale, litigano tra di loro e faranno pace solo in extremis. Forse. A Catania il congresso è annullato: gli sfidanti hanno fatta a gara a chi “conquistava” più iscritti. Una corsa a perdifiato verso il baratro. Alla fine è stato decretato il no contest.Imbrogliavano tutt’e due? La commissione per il congresso si è riunita ieri pomeriggio a Roma e ha ammesso la valanga di denunce. Verificheranno e prenderanno provvedimenti. Intanto Nico Stumpo, il custode bersaniano delle regole, ha attaccato: «Renzi deve smetterla di insultare il partito». Perché il dito del caso “falsi iscritti” è puntato soprattutto verso il sindaco. Cosa che non lo preoccupa. Tanto che ieri al forum del Messaggero ha detto: «Possono gonfiare quello che vogliono, ma il segretario non sielegge in quel modo lì. Saranno le primarie a decidere, tocca ai cittadini scegliere». Apriti cielo. Renzi è stato identificato come il corpo estraneo, come colui che disprezza il percorso liturgico del congresso. Ma se il rottamatore si disinteressa degli iscritti perché dovrebbe gonfiarli? Perché al suo interno la corrente renziana ha adesso molto apparato, malignano gli avversari. Al Sud, dice Orfini, l’area di Franceschini fa il bello e il cattivo tempo e porta le truppe cammellate nei circoli. Il segretario regionale della Campania Enzo Amemdola, sostenitore di Cuperlo, è durissimo: «Nella mia regione sta succedendo di tutto. Io aspetto e poi vedo chi ha imbrogliato. Dove è Renzi maggioranza certe brutte pratiche ricadranno su di lui, certo non su chi è uscito sconfitto».
La denuncia più circostanziata (tutta da verificare, s’intende) arriva da Stefano Esposito, senatore torinese (Cuperlo). «Mi metto in coda assieme a tanti anziani al mio circolo. Molti dovevano fare la tessera. A un certo punto, sento due signori che sbottano: ma come, devo anche pagare? Escono. Incuriosito, li seguo. Girato l’angolo un tizio, iscritto al partito, dà 15 euro a ciascuno. Loro rientrano, si rimettono in coda, si iscrivono e votano. Domenica il mio circolo ha registrato 111 nuove iscrizioni, un quarto del totale», racconta al Giornale. Morale: ha vinto un renziano, «del resto è renziano anche il nuovo segretario provinciale di Torino». Pippo Civati è stato il primo denunciare le tessere false in Sicilia. Ma ammette: «Qui i pasticci li fanno tutti ». Gianni Pittella che punta sul Sud, tiene d’occhio la situazione in Puglia. Non solo Lecce, anche Nardò (sempre in provincia di Lecce) dove il congresso rischia di essere annullato. E nel Lazio la battaglia è all’ultimo sangue. Ieri al circolo romano del Cotral (l’azienda di trasporto regionale) si sono presentati 300 dipendenti da fuori la Capitale. File di centinaia di metri, sguardi truci. Si è sfiorata la rissa. Litigano a distanza i capi dei comitati Renzi (Stefano Bonaccini) e Cuperlo (Patrizio Mecacci).
Se continua così Epifani sarà davvero costretto a intervenire. Anche perché ci avviciniamo al rush finale. Entro il 6 vanno chiusi i congressi provinciali. Dal 7 al 17 novembre invece gli iscritti andranno a votare sui candidati nazionali Civati, Cuperlo, Pittella, Renzi. Nella guerra dei veleni finiscono in secondo piano i dati reali. Hanno votato (a ieri) 136 mila iscritti. I renziani sono convinti di vincere anche tra i tesserati con il 70 per cento. Ma i cuperliani Cuperlo ribattono, dati alla mano: «Siamo al 50 per cento».

Corriere 30.10.13
Il Pd e lo strano caso di Asti: albanesi due neo iscritti su tre
di Marco Cremonesi


DAL NOSTRO INVIATO ASTI — «Ero incerto. Non sapevo chi scegliere tra Grillo e Renzi... Poi, però, Grillo mi è sembrata soltanto rabbia, una cosa sterile...». Hasan Bulcari ha 53 anni, una moglie ingegnere, un figlio al Politecnico di Torino e vive in Italia dal 1990. Per lavoro, crea insegne luminose per negozi. Per passione, fa l’attore recitando persino in piemontese. Per Giorgio Ferrero, il candidato renziano in testa alla corsa per la segreteria pd di Asti, è l’asso nella manica. Perché c’è poco da fare: il suo sostenitore Hasan è, di fatto, l’arbitro dei congressi del Partito democratico.
Guarda un po’ che succede sotto il cielo color lamiera della città del Moscato: la stragrande maggioranza dei nuovi iscritti al Pd è, come Bulcari, albanese. Una folgorazione collettiva: i democratici albanesi hanno tutti scoperto la fede politica soltanto domenica scorsa.
La sede del Pd di Asti guarda su piazza Statuto, nel cuore della città che siede tra Langa e Monferrato. In un ufficio disadorno, c’è Alfredo Castaldo. Come presidente della commissione provinciale per il congresso, i numeri — e le grane — arrivano sulla sua scrivania. E lui li legge: «Nel 2012, i tesserati pd a Asti erano 165. Nei giorni precedenti al congresso, se ne erano aggiunti un paio di centinaia. Una cosa in fondo abbastanza normale: il congresso, come dire... movimenta». Molto meno prevedibile quello che è accaduto domenica scorsa, in sede congressuale: «Abbiamo fatto 341 nuove tessere in quattro ore. Di queste, 230 sono andate a cittadini extracomunitari». Due iscrizioni al partito su tre. Perlopiù da parte di cittadini albanesi? «Non solo. Anche romeni, alcuni marocchini... Però, sì: perlopiù albanesi». Molti dei quali, ironia delle primarie, al momento buono neppure potranno votare. C’è chi si arrabbia, si capisce. L’antagonista di Ferrero, la segretaria uscente Francesca Ferraris sbotta: «Pongo la questione morale su cose che tutti hanno visto». Quali cose, le racconta un dirigente: «Al congresso c’erano donne con bambini in braccio, imprenditori con i dipendenti, interi condomini...». Il tutto in una provincia che nell’intera sua storia ha espresso solo un consigliere comunale che non fosse certificato Made in Italy. Per la cronaca, un romeno a Villafranca d’Asti. Tra l’altro, la discesa in campo albanese non riguarda soltanto il capoluogo. Come riferisce lospiffero.com, a Rocchetta Tanaro Cesio, i 40 iscritti sono diventati da un giorno all’altro centotrenta. Quasi tutti extracomunitari e quasi tutti «lavoratori di un’impresa edile del paese, la Bibaj».
Il problema esiste. «Anche perché — spiega Castaldo — questo non è un voto per le primarie. È un congresso. Si tratta di iscrizioni al partito». Difficile però che i 341 nuovi democratici si vedranno poi molto: «Appunto. Però nella fase di elezione si vedono eccome...». È normale che un congresso — e dunque un partito — possa essere condizionato da soggetti in qualche modo organizzati che c’entrano poco o nulla con la storia del partito stesso? Bisogna chiederlo a Giorgio Ferrero, 47 anni, imprenditore vinicolo e concorrente alla segreteria astigiana nel nome di Renzi: «Ma guardi che il problema è nel regolamento. È stato deciso che ci si può iscrivere al partito persino a congresso già iniziato? Beh, è evidente che certi fenomeni possano verificarsi. Ma comunque, il punto è questo: non è che si possa parlare di integrazione e poi scandalizzarsi perché c’è chi ti prende in parola».
Di certo, la partita non è chiusa. Spiega Castaldo che «ora le votazioni dovranno essere convalidate e la regola prescrive che gli aumenti degli iscritti sopra il 25% vadano messi sotto osservazione». Il che significa? «Faremo probabilmente una revisione delle liste. Dovremo capire se hanno preso la tessera pregiudicati, se ci sono state forme di organizzazione del voto come l’iscrizione in massa dei dipendenti di una determinata azienda o di un condominio... Ma questo è un organo tecnico. La soluzione politica può essere trovata soltanto dai candidati».
A questo punto bisognerà chiedere a Hasan Bulcari il suo segreto. Come ha fatto a mobilitare gli albanesi d’Asti? «A dire il vero, non sono stato io. Sono stati una decina di amici, gente con cui ci si aiutava nei primi anni in Italia. Certo, io sono attivo nella comunità. Ma il passaparola è stato avviato da loro». E la politica è una passione vera: «Credo Renzi sia la penultima fermata. L’ultima, come ha detto Mario Moncelli, “purtroppo è la rivoluzione”».

«Alle primarie per scegliere il segretario voteranno gratis gli iscritti e pagando due euro tutti gli altri, compresi il Boia di Riga, Renato Brunetta, la Pascale, Briatore e Homer Simpson. È un po’ come se nel vostro condominio l’amministratore potesse essere votato dagli inquilini del palazzo di fronte»
il Fatto 30.10.13
Il Pd lancia la sua piattaforma. Può votare anche il boia di Riga
di Alessandro Robecchi


La tecnologia fa passi da gigante, chi si ferma è perduto, chi non riesce a stare al passo rischia di soccombere. Per questo tutti i maggiori partiti stanno mettendo a punto i loro nuovi Sistemi Operativi. Eccoli nel dettaglio.
Movimento 5 Stelle. Il nuovo Sistema Operativo prevede che un elettore possa dire la sua sulle proposte di legge dei parlamentari. Dire mi piace, non mi piace, proporre modifiche, segnalare errori. Alla fine di questo lungo iter, il parlamentare presenta la proposta di legge come pare a lui. Si chiama democrazia liquida, nel senso che c’è chi se la beve. Si tratta di un sistema chiuso: possono intervenire solo quelli iscritti fino a una certa data, che hanno mandato documento, numero di scarpe, nome della suocera e una foto delle vacanze. La piattaforma è molto intuitiva, nel senso che si intuisce che alla fine si farà quello che piace a Beppe Grillo. La partecipazione è gratuita, a legge approvata, a seconda del proprio contributo, si riceverà una spilletta con la scritta “Casaleggio ha ragione”.
Partito democratico. Nel caso del Pd, invece, il Sistema è apertissimo, open source, cioè aperto ai contributi di tutti. Alle primarie per scegliere il segretario voteranno gratis gli iscritti e pagando due euro tutti gli altri, compresi il Boia di Riga, Renato Brunetta, la Pascale, Briatore e Homer Simpson. È un po’ come se nel vostro condominio l’amministratore potesse essere votato dagli inquilini del palazzo di fronte, che potrebbero decidere di abbattere casa vostra. Principale beneficiario del nuovo sistema operativo Pd sarebbe un egocentrico giovane fiorentino, che ama circondarsi di simboli anni 50 e 60 e fare discorsi economici anni 80. Se installato, il nuovo Sistema Operativo promette di dare 100 euro a ogni utente, proprio come i siti di scommesse che ti regalano qualche spicciolo per farti giocare di più e spellarti con comodo. Il Sistema Operativo entrerà in funzione a pieno regime l’8 dicembre, data in cui comincerà a intaccare il Sistema Operativo del governo Letta.
Popolo delle Libertà. Qui l’aggiornamento del Sistema Operativo è addirittura radicale, a partire dal nome (si chiamerà Forza Italia, un ritorno ai vecchi Commodore). Si abbandonano i collegamenti senza fili e si ripristinano comandi più tradizionali, come il guinzaglio, per periferiche come Angelino Alfano. Il sistema ha qualche problema, per esempio contiene ancora qualche virus, tipo il temibile Formigoni, il Tribunale di Napoli e la legge Severino, in grado di creare conflitti interni e compromettere il funzionamento complessivo della macchina, e che l’antivirus Verdini non è ancora riuscito a debellare. È un Sistema Operativo molto chiuso, che dopo il voto sulla decadenza del microprocessore sarà chiusissimo, oppure dedicato ai servizi sociali. Sul salvaschermo c’è un cagnolino. Tutto è gestito da un piccolo microprocessore e, a partire dall’8/12, da sua figlia che stanno testando in un luogo segreto.
Scelta Civica. Qui c’è molto da lavorare. Il vecchio Sistema Operativo, il Monti 1.0, è andato in crash a causa del conflitto con il Casini 2.1 Paracul Edition. Per ora il sistema è in stand-by e sullo schermo compare la scritta “Attendere prego. Alcune periferiche preferirebbero il Sistema Operativo di Forza Italia, del quale potrebbero persino evitare la decadenza nella speranza di prendere il posto del piccolo microprocessore, se sua figlia si ostina a non farsi installare”.


«l’ex premier, che finora aveva sempre detto che il sindaco era l’unico candidato vincente per Palazzo Chigi, avrebbe cambiato idea da quando ha capito che con Renzi non riuscirà a trattare per se stesso un posto di prestigio in Europa»
Corriere 30.10.13
E per Palazzo Chigi l’ex premier valuta la carta Zingaretti
di Maria Teresa Meli


ROMA — Ormai ci hanno rinunciato. Al massimo sperano di arrivare a quota 30 per cento. Un otto per cento in più di quello che attualmente ha il loro candidato. Insomma, i sostenitori di Gianni Cuperlo si sono rassegnati al fatto che il segretario del partito sarà Matteo Renzi.
Ma non si sono tutti arresi. Non Massimo D’Alema, per esempio. Dicono che l’ex premier punti ora a mettere i bastoni tra le ruote al sindaco di Firenze in un altro modo. Cioè favorendo la candidatura di un altro esponente del Pd alle primarie di coalizione, quelle che serviranno per scegliere il candidato del centrosinistra alla presidenza del Consiglio. A largo del Nazareno sussurrano che il nome del contendente di Renzi d’Alema lo abbia già in mente. Sarebbe il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, che è ben visto anche a sinistra del Partito democratico, per esempio da Sel. I maligni aggiungono anche un’altra cosa: l’ex premier, che finora aveva sempre detto che il sindaco era l’unico candidato vincente per Palazzo Chigi, avrebbe cambiato idea da quando ha capito che con Renzi non riuscirà a trattare per se stesso un posto di prestigio in Europa. Ma si tratta di dicerie che fanno il giro nella sede del Pd da qualche giorno. Comunque, D’Alema non è tipo da riuscire a nascondere per troppo tempo ciò che pensa. E infatti ieri in un’intervista al Mattino si è lasciato andare: «Può darsi che possa sorgere un’altra candidatura, che qualcuno, cioè, voglia sfidarlo proprio com’è successo tra Bersani e lui. Renzi non potrebbe sottrarsi a questa sfida, tanto più che andremo ad elezioni con una coalizione, non certo da soli. Quindi non si può certo escludere che ci possano essere altri candidati a guidare il centrosinistra. La questione, insomma, non mi pare affatto risolta. Di sicuro non dipenderà solo da Renzi ma da una lunga serie di fattori».
Insomma, se al sindaco non si può sbarrare il passo lungo la strada che lo porterà alla segreteria del partito si può tentare di farlo nel cammino che conduce a Palazzo Chigi. E lungo quel cammino si sta posizionando un altro esponente del Pd: Stefano Fassina, il quale ogni giorno attacca Renzi. Di più: lo irride, lo prende in giro. Tanto che da giorni, nel Transatlantico di Montecitorio, gli stessi sostenitori di Cuperlo si domandavano il perché di questo atteggiamento: «È pur vero che il sindaco non gliene perdona una, però Stefano è pesantissimo e non si capisce il perché, visto che tra meno di un mese e mezzo sarà Renzi il suo interlocutore nel Pd, sarà lui a dettare la linea del Partito democratico, a sollecitare il governo, a chiedere all’esecutivo di adeguarsi all’agenda democratica». Effettivamente non si capiva il perché, finché ieri uno degli esponenti di punta dei «giovani turchi» si è dato una risposta: «Forse Stefano punta a fare il candidato premier in contrapposizione a Renzi quando la fase del governo Letta sarà esaurita».
Del resto, il vice ministro dell’Economia è in ottimi rapporti con la Cgil (c’è chi sostiene addirittura che sia stata Susanna Camusso a spingerlo ad alzare la voce e a minacciare le dimissioni sulla legge di Stabilità), e qualche tempo fa persino Nichi Vendola lo corteggiò offrendogli di entrare dentro Sel. Dunque, Zingaretti e Fassina, due possibili competitor di Renzi alle primarie per Palazzo Chigi, che strizzano l’occhio a sinistra. E che perciò potrebbero dare fastidio al sindaco. Peccato però che Sel nel frattempo sia cambiata. Gennaro Migliore, che è stato alla Leopolda, spiega: «Ci sono cose su cui non sono d’accordo con Renzi, ciò detto è chiaro che lui è un candidato vincente, però c’è una sinistra che preferisce perdere piuttosto che cambiare e aprirsi alle differenze».

Repubblica 30.10.13
L’amaca
di Michele Serra


Tutto questo gran parlare della decadenza di B., queste manfrine procedurali, queste schermaglie politiche, questo rimandare alle calende greche, possono anche durare anni; ma non mutano di una virgola la sostanza della questione, così facile che la può capire anche un bambino: può un condannato per reati gravissimi sedere in Parlamento? O è meglio che se ne vada a casa sua?
Ha stra-ragione (non semplicemente ragione: stra-ragione) il segretario dell'associazione magistrati Carbone quando dice che l'incandidabilità dei condannati è «un principio di etica, e il fatto che ci sia voluta una legge per ribadirlo indica la debolezza della politica». La legge Severino, in un paese sano di mente, neanche dovrebbe esistere: normatizza un principio elementare, che dovrebbe essere scontato prima di tutto per i politici. Girala o rigirala come ti pare, la Severino dice che in Parlamento non devono sedere dei criminali. Punto. E chi la tira tanto in lungo cerca di aggirare non tanto la Severino, quando l'ovvio principio etico che quella legge interpreta, nella penosa necessità di sancire ciò che ogni politico, per sua dignità, avrebbe dovuto sapere già da sé solo, senza alcun bisogno che un pezzo di carta glielo rammenti.

il Fatto 30.10.13
Il soccorso rosso a B.
il Pd deve reagire
di Mario Segni


Seguo con sconcerto i tentativi di evitare che si applichi la legge dopo la sentenza della Cassazione su Berlusconi. Prima la nota di Napolitano di ferragosto. Poi la proposta di amnistia. Infine il lodo Violante, cioè la richiesta di esame preventivo della Corte Costituzionale. Quest’ultimo è il tentativo più insidioso, anche se da un punto di vista giuridico appare il più sconclusionato. Come si può pensare che una forma di indegnità alla carica parlamentare agisca solo per i fatti compiuti dopo una certa data, e non valga per ciò che è stato commesso prima? Non mi sembra serio che un partito eccepisca sulla costituzionalità di una legge che ha votato pochi mesi prima. La verità è che in questi tentativi e chiarissima la volontà di usare uno strumento giuridico per scopi politici. Il Pd ha il compito di resistere alle sirene di Violante e di interrompere una lunga catena di illegalità rispetto alla quale tante volte è stato, almeno, poco reattivo.

Grillo: «Se andiamo verso una deriva a sinistra siamo rovinati»
il Fatto 30.10.13
A porte chiuse
Le confessioni di Grillo: “Napolitano sotto accusa? solo una finzione politica”
“Siamo populisti. Parliamo alla pancia della gente. Non dobbiamo vergognarci”
Così, lontano dalle telecamere, il fondatore del movimento spiega ai deputati le scelte strategiche per il futuro
di Martina Castigliani


Non dobbiamo vergognarci di essere populisti. L’impeachment ad esempio, è una finzione politica per far capire da che parte stiamo”. Beppe Grillo parla ai suoi in un’aula della Camera. È una conversazione che nessuno conosce, quella che il Fatto ha in esclusiva, tra il leader e i deputati. Lui, il grande capo, in piedi, spalle al muro, la voce pacata e i toni concilianti. Gesticola, ride poco e dà pacche sulle spalle. E parla. “Sono qui per sostenervi”. Non alza mai la voce. Il Grillo a porte chiuse non è nemmeno parente del comico sul palco, quello che urla e lancia parole come spade. C’è da spiegare la scomunica ai senatori Cioffi e Buccarella, colpevoli di aver presentato un emendamento per abolire il reato di immigrazione clandestina. C’è da spiegare chi comanda. Che non è lui, ma il Movimento. Perché forse gli eletti se lo sono dimenticati, ma i voti vengono dal basso e seguono le emozioni: “Con la presentazione dell’emendamento per abolire il reato di immigrazione clandestina, abbiamo perso voti a iosa. Il post del blog, forse un po’ duro, siamo stati costretti a farlo”. Una decisione obbligata per evitare di perdere troppi voti: “Noi parliamo alla pancia della gente. Siamo populisti veri. Non dobbiamo mica vergognarci. Quelli che ci giudicano hanno bisogno di situazioni chiare. Ad esempio prendete l’impeachment di Napolitano. Molti di voi forse non sono d’accordo, lo capisco. Ma è una finzione politica. E basta. Non possiamo dire che ha tradito la Costituzione. Però diamo una direttiva precisa contro una persona che non rappresenta più la totalità degli italiani. Noi siamo la pancia della gente”. Perché il rischio era molto grosso: “Abbiamo raddrizzato la situazione, siamo stati violenti per far capire alla gente. Se andiamo verso una deriva a sinistra siamo rovinati”.
Gli errori, “l’andazzo” e i sondaggi mai visti
Lo ascoltano, affollati come sotto il palco, ma questa volta Grillo parla a volto scoperto e dice di capire. “Questa cosa non deve più accadere. C’è stato un errore di comunicazione. È brutto. Perché l’emendamento è stato un mese lì e non ne sapevamo nulla. Io posso darvi un parere, ma non devo decidere io. Però avreste dovuto avvisare”. Qualcuno risponde: “Dobbiamo prendere decisioni in poco tempo, a volte è difficile”. Ma Grillo dice di sapere già tutto: “Per questo abbiamo presentato l’applicazione per la partecipazione diretta. Così quando c’è qualche proposta che non avevamo nel programma, la mettiamo online e vediamo l’andazzo”. Ai suoi Grillo dice di aver fatto un sondaggio online: il 75% ha votato per mantenere il reato di immigrazione clandestina. Qualcuno scuote la testa: “Non l’abbiamo mai visto”. Ma oltre le giustificazioni il leader ripete come un ritornello che il potere resta alla maggioranza: se il Movimento vuole riformare la Bossi-Fini si voterà su quello. E così sullo Ius soli: “Vorrei che fossimo uniti. Stanno sfruttando il tema per fini elettorali. Siamo tutti convinti che lo ius soli vada bene, ma con certi paletti.
I deputati sono spiazzati. Lo guardano in piedi con le mani sudate per cercare di dire ad alta voce i malumori covati per giorni. Ma Grillo è comprensivo e i dissidenti non osano parlare. Qualcuno trova il coraggio di chiedere più chiarimenti . Giulia Sarti, subito fermata da Roberto Fico e Carla Ruocco. Poi Silvia Chimienti: “A me questa cosa dei voti lascia perplessa. Bastava spiegare alle persone che era una cosa di buon senso”. Qualcuno azzarda: “Non è che per non finire nell'ala di sinistra scivoliamo a destra? Restiamo oggettivi”. Alza la mano Stefano Vignaroli: “Prima non era così. Andavamo sul palco e ci dicevi di parlare delle cose che ci appassionano”. Grillo risponde a tutto: “Io lo so cosa vi ha dato fastidio, la frasetta dell'articolo dove si diceva che con posizioni come quella sull'immigrazione avremmo preso risultati da prefisso telefonico. Lo so, ma dovete capire che il Movimento sono 9 milioni di persone che ci hanno votato”.
I brusii crescono quando si passa alle questioni pratiche. Se per ogni difficoltà bisogna chiedere l’autorizzazione e il parere dall'alto, si perde troppo tempo. “Tanto vale allora astenersi su tutto”, dice Luigi Gallo. Così Girolamo Pisano: “Io chiedo, vale più un ragionamento fatto da 100 persone su base di dati tecnici. O un'opinione di Grillo e Casaleggio?”. E su questo il leader sbotta. Parlano da oltre un'ora e il punto è sempre quello: “L'opinione è del Movimento. Abbiamo 9 milioni di persone che ci hanno dato il voto su un programma. Noi siamo le punte delle persone. Io sono per il dialogo sempre. Non datemi dei super poteri. Non ne ho. Io mi sento in imbarazzo. Ne sapete molto più di me. La prossima settimana viene qui Casaleggio e parlerete con lui. Verrà un giorno o due alla settimana. Si alternerà con me”.
I post, il residence e la penale anti-traditori
Grillo la pazienza la perde sul finale. Gli chiedono di avvisare prima di scrivere un post sul blog contro una persona. Chiedono di ricevere un avviso. “Ma così si crea un canale preferenziale con ognuno. Poi io non vivo più. Ad esempio la settimana scorsa ho chiesto, ci incontriamo in un residence per parlare? Voi l'avete messa ai voti. Così abbiamo fatto una figura di merda. La notizia l'avete creata voi. Bastava non fare nulla. Chi voleva venire veniva”. Si rabbuia un attimo, ma subito torna a incoraggiarli. “Avete fatto un miracolo. Pensate al futuro adesso. È nostro. Questi politici sono finiti. State facendo grandi cose. Adesso io e Casaleggio scenderemo più spesso, perché bisogna alzare delle barriere di protezione. Tutti cercano di salire sul nostro carro. Non possiamo permettere di farci corrodere il lavoro. Per le elezioni locali, faremo firmare una cosa che se cambi il partito paghi una penale”. Ci sono le regionali in Basilicata e le europee nel programma del leader. Nessun accenno al voto anticipato. A porte chiuse la campagna elettorale può aspettare.

«Dopo le lamentele di illustri esponenti del clero italiano, arrivano 220 milioni di euro per il 2014 a favore delle scuole private, prevalentemente cattoliche»
Repubblica 30.10.13
Legge stabilità: blocco degli stipendi ma soldi per le scuole paritarie
di Salvo Intravaia

qui

«“Farò resistenza all’aumento delle tasse”, aveva detto Marino»
il Fatto 30.10.13
Con un trucco il buco di Roma si dimezza
Altri 400 milioni di debito finiscono nella “bad company”
La capitale potrà aumentare l’Irpef, già alta
di M. Pa.


Alla fine i 330 milioni di euro per la Cassa integrazione nel 2013 non ci sono: il governo non è riuscito a trovare la copertura, che nelle bozze circolate nei giorni scorsi era affidata alle solite accise sul tabacco (+0,7 per cento su alcune categorie di prodotti) e ad un aumento dell’imposta di registro cifrata in 140 milioni l’anno. Nel decretino approvato ieri dal Consiglio dei ministri c’è però l’aiuto al comune di Roma chiesto a gran voce in queste settimane dal sindaco Ignazio Marino e dal Partito democratico, la cosiddetta norma “salva-Roma”: la capitale ha infatti un extradeficit di oltre 800 milioni di euro, frutto soprattutto della scelta del governo Monti di ridurre la quota di fondi statali destinata al ripianamento del debito pregresso e ad un bilancio di previsione non proprio pulitissimo nell’anno elettorale 2013. Come si ricorderà, infatti, il debito antecedente all’aprile 2008 fu chiuso – ormai oltre cinque anni fa – in una bad company guidata da un commissario governativo che attualmente risponde al nome di Massimo Varazzani: ieri, sostanzialmente, l’esecutivo Letta ha stabilito che si prende un po’ di debito del comune (115 milioni) e lo si infila nello stock di debito del commissario , un po’ di crediti fanno il percorso inverso, altri soldi finiscono nel debito commissariale senza essere conteggiati nel deficit del comune.
Tanta fantasia, come si vede, ma niente cifre complessive al momento: dalle voci circolate nei giorni scorsi, però, si può stimare il barbatrucco sui conti in circa 400 milioni, cioè la metà del necessario. E il resto? Facile: più tasse. Nel decreto si consente, infatti, al sindaco di aumentare l’addizionale comunale Irpef – che a Roma è già al massimo consentito, lo 0,9 per cento – di altri tre decimi arrivando così all’inviolata vetta dell’1,2 per cento. Non solo. Gli aumenti erano stati consentiti alla capitale solo per pagare le rate mostruose del debito pregresso, ma da oggi non sarà più così: i romani potranno essere tassati assai più degli altri italiani per pagare la spesa corrente o in conto capitale dell’anno in corso. “Farò resistenza all’aumento delle tasse”, aveva detto Marino in mattinata, ora bisogna vedere quanto. Come contentino per il sindaco, in ogni caso, il ministero dell’Ambiente ha stanziato 28,5 milioni in tre anni per intensificare la raccolta differenziata proprio a Roma.
IL RESTO del decreto sono piccoli interventi di vario genere: ci sono 25 milioni per l’Expo 2015, cinque per le imprese che lavorano al Tav e hanno subito danneggiamenti nei cantieri, 35 per la social card; norme sulla dismissioni degli immobili pubblici e sull’attuazione dei piani di rientro dei deficit sanitari; la trasformazione in struttura permanente del Comitato per le privatizzazioni; la partecipazione ad aumenti azionari in banche di sviluppo americane.

Corriere 30.10.13
Il primato di Roma? Di lanciare la supertassa
di Sergio Rizzo


Nella relazione alla legge di Stabilità è scritto, tra l’altro: «Fronteggiare la situazione di squilibrio finanziario del Comune».

Debito record, a Roma la supertassa Addizionale Irpef fino all’1,2%. Marino: resisterò finché posso per evitare il rincaro «Fronteggiare la situazione di squilibrio finanziario del Comune», com’è scritto nella relazione alla legge di Stabilità, è certo una motivazione valida per l’innalzamento dell’addizionale Irpef a Roma dallo 0,9 all’1,2 per cento già prefigurato dalla finanziaria. Valida tecnicamente, s’intende. Il problema è spiegarlo ai cittadini romani. Spiegargli che dal 2014 potrebbero essere costretti a pagare le tasse comunali più alte d’Italia senza per questo avere i servizi migliori d’Italia. Al contrario.
Il trasporto pubblico non è degno della capitale di un Paese sviluppato, figuriamoci di una delle città più importanti del turismo mondiale. Il traffico, infernale: una struttura viaria inadatta alla grande circolazione di mezzi privati sopporta a causa della carenza di cui sopra un numero di auto superiore in rapporto agli abitanti a quello di qualunque altra metropoli del pianeta. Aggiungiamoci la mancanza di parcheggi e il quadro è completo. Si stima che il 20 per cento della superficie urbana sia coperta da auto in sosta o in movimento. Per non parlare del problema dei rifiuti e della pulizia delle strade. E ci fermiamo qui, per carità di patria.
Il sindaco Ignazio Marino, sia chiaro, non ha colpe: è appena arrivato e dire che ha ereditato una situazione complicata è un eufemismo. Ieri ha promesso di «resistere» ad alzare l’addizionale fino ai livelli massimi come gli ha concesso ieri il Consiglio dei ministri, affermando che a Roma si pagano già troppe tasse. Ma non poteva fare un’affermazione diversa. Temiamo che presto si renderà conto della ineluttabilità del giro di vite: evitarlo richiederebbe interventi che per nessun sindaco, soprattutto di centrosinistra, sarebbero politicamente sostenibili.
Governare una città come Roma non è affatto facile. Non lo è mai stato per nessuno. Fatta questa doverosa precisazione, stanno adesso venendo al pettine nodi che nessuno ha mai voluto sciogliere. Un esempio? Il costo di un apparato amministrativo mastodontico nel quale non è impossibile riconoscere vecchie e nuove tracce clientelari. Intorno al Comune di Roma ruota una massa di 62 mila dipendenti, fra personale comunale e delle società municipalizzate o collegate ad esse. E’ il più grande stipendificio del Paese, senza che a questo onere corrisponda, come dicevamo, un livello adeguato dei servizi. Frutto di precise scelte politiche prive di visione perpetuate negli anni, che hanno portato le spese correnti ad assorbire sempre più risorse mentre venivano trascurati gli investimenti necessari al miglioramento della qualità della vita, quali quelli nelle infrastrutture. Quando questi si facevano, i costi erano astronomici e i tempi biblici. Il risultato è che la lunghezza delle linee metropolitane di Roma è oggi inferiore a quelle della città spagnola di Bilbao. Al tempo stesso non è mai stata fatta una seria politica di valorizzazione dell’immenso patrimonio immobiliare di proprietà comunale, mentre il Campidoglio continuava a pagare affitti passivi stratosferici.
Si tratta di scelte che hanno radici lontane, mai estirpate nonostante le alternanze politiche alla guida del Comune. Ma non è accaduto soltanto a Roma: lo schema si è ripetuto un po’ in tutta Italia, prevalentemente al Sud. Finché l’assenza dei vincoli di finanza pubblica lo consentiva, si andava avanti. E perseverando anche dopo, quando pure i conti statali in affanno imponevano il taglio dei trasferimenti. Lo dimostrano senza pericolo di smentita le squallide vicende della parentopoli romana, con centinaia di assunzioni pilotate da politici e sindacalisti nelle aziende pubbliche comunali. Tutto questo, salvo poi mettere i cittadini davanti al fatto compiuto: l’aumento delle imposte o il dissesto.
Proprio quello che tocca agli abitanti della capitale, chiamati a pagare di più non per avere servizi migliori, strade più pulite e trasporti più efficienti, ma per tappare i buchi aperti da politiche scriteriate. E non da domani bensì da ieri, visto che di quel 9 per mille di addizionale Irpef attualmente applicata il 4 viene già incamerato dallo Stato a fronte dei vecchi debiti. Per capirci, quelli che la precedente amministrazione di Gianni Alemanno aveva ereditato ma ha potuto subito trasferire alla gestione commissariale ritrovandosi così nella invidiabile situazione di avere conti immacolati. Senza però riuscire evidentemente a mantenerli tali, se dopo cinque anni c’era un buco di quasi 900 milioni.
E questa è certo una motivazione valida per l’innalzamento dell’addizionale Irpef a Roma dallo 0,9 all’1,2 per cento già prefigurato dalla Finanziaria. Una motivazione valida tecnicamente. Il problema sarà spiegarlo ai cittadini romani. E cioè spiegare loro che dal 2014 potrebbero essere costretti a pagare le tasse comunali più alte d’Italia senza avere in cambio i servizi migliori d’Italia. Il trasporto pubblico, ad esempio, non è degno di una delle città più importanti del turismo mondiale. Il traffico, poi, è infernale: la struttura viaria, inadatta alla grande circolazione di mezzi privati, sopporta un numero di auto superiore in rapporto agli abitanti a quello di qualunque altra metropoli. Se aggiungiamo la mancanza di parcheggi il quadro è completo. Per non parlare del problema dei rifiuti.

«lo psicologo: fategli una carezza, abbracciatelo...»
l’Unità 30.10.13
Ragazzi gay, come curare le ferite
Paura, solitudine, vergogna: i consigli dello psicologo del servizio antidiscriminazione
di Delia Vaccarello


A VOLTE BASTA POCO. COSA FARE PER I TANTI FERITI DA PAROLE IN CUI NON SONO MAI INCLUSI, DA RIFERIMENTI ROZZI CHE NON DANNO LEGITTIMITÀ DI ESISTENZA A CHI È OMOSESSUALE? «Quando parlate di omosessualità e vedete intorno a voi qualcuno che sussulta, abbassa gli occhi, si gira di scatto o fa un gesto qualsiasi di disagio, fategli una carezza, abbracciatelo, è possibile che si sia sentito ferito dalle vostre parole non ponderate, è possibile che anche se non lo dice sia gay. Inaugurate con lui una relazione di vicinanza: sarà un ottimo passo che lo porterà lontano dal senso di estraneità e di disperazione». A dirlo è Claudio Cappotto, psicoterapeuta Agedo Palermo, in forza presso il Servizio antidiscrminazione università Federico II di Napoli. A volte il poco diventa tanto. Se infatti basta poco, perché quel poco, quel gesto di prossimità è così difficile da compiere? Il gesto di vicinanza ha lo scopo di puntellare un ponte di comunicazione reso pericolante da parole cieche. Ed è chiaro che quando provi una disperazione tale da toglierti la vita i gesti di vicinanza sono stati rari come stelle comete.
«Se ti butti dall'undicesimo piano vuoi morire, dal secondo speri ci sia una salvezza. Se lo fai lontano dal tuo quartiere può significare che ti percepisci fuori, che il legame con gli ambienti domestici è saltato». Claudio Cappotto riflette con noi sull’ultima tragedia che ha visto a Roma un giovane togliersi la vita. Insieme cerchiamo risposte per coloro che non sono molto lontani da ciò che ha provato il giovane suicida. Il ventenne (chiamiamolo Simone) si è lanciato nel vuoto come altri due ragazzi gay a Roma nel 2013. Il vuoto appare come l’«ultima parola», la più potente perché scritta con il corpo. Suona così: mi avete fatto vivere nel vuoto, mi tolgo la vita lanciandomi nel vuoto. Eppure «il vuoto» nelle dosi adeguate è un toccasana. Permette alla nostra identità di affiorare, segna i confini di quello spazio necessario a scoprire la distinzione tra sé e gli altri. Ma di «troppo vuoto», come di «troppo pieno» ci si ammala.
Come mai, ad esempio, il giorno dopo la tragedia tutti, apprendendo del coming out, sono caduti dalle nuvole? È segno che il giovane si sentisse «in dovere» di escogitare a furia di gesti, espressioni, comportamenti, strategie di dissimulazione. «Doveva vivere incredibilmente nascosto. Negli anni ho incontrato quasi tutti utenti non dichiarati che omettono talmente tante parti di sé da risultare credibili come eterosessuali». Il motivo? «L’identità omosessuale è imprevista e appare ai genitori non desiderabile, per pochissimi è la stessa identica cosa avere un figlio gay o etero. Solo uno è arrivato a dire: noi genitori che sappiamo dei nostri figli siamo fortunati, ci sono figli che credono di non poter dire chi sono davvero ai familiari. E qualcuno pagherà questo tormento interiore con un prezzo incalcolabile». Simone ha pagato con il prezzo della vita.
«Tutti gli utenti finora mi hanno detto di aver pensato o tentato il suicidio almeno una volta. La dissimulazione, se non sfocia nel suicidio, comunque presenta il conto procurando sofferenze psichiche», aggiunge Cappotto. Ancora, il coming out dei vip, tipo Tiziano Ferro, non aiuta? «C’è uno scollamento tra la rappresentazione collettiva dell’omosessualità e il livello intrafamiliare», cioè se una star dice di sé non vuol dire affatto che fratelli, sorelle, padri, madri accolgano a braccia aperte il parente gay o la figlia lesbica. Che fare? «Ai giovani gay e lesbiche dico di credere nel coraggio e investire in rapporti di fiducia, agli adulti di essere capaci di gesti di vicinanza».

«Il Datagate è al servizio di un dispositivo d’aggressione collaudato da Bush jr e dilatato da Obama
I droni ai tempi di Bush erano 167, oggi 7000»
Repubblica 30.10.13
Gli spifferai magici e i cani di Kant
di Barbara Spinelli


APPARENTEMENTE sono tutti molto offesi, i governanti europei, per come Barack Obama – imperturbato, senza farsi scrupoli – li ha fatti spiare da anni. Soprattutto il controllo di un telefonino privato, quello del cancelliere Merkel, crea sconcerto: possibile che la Nsa americana (Agenzia nazionale di sicurezza) giudichi necessario origliare per oltre un decennio quello che dal dopoguerra è l’alleato cruciale nel vecchio continente?
Forse perché non è più cruciale come si pensava, né così fidato? Queste e altre domande hanno agitato il summit europeo dei giorni scorsi, ma oltre l’apparenza non si è andati. In parte per ignavia, in parte per quieto vivere, in parte per ossequiosa furberia, il comunicato dei capi di Stato o di governo riuniti a Bruxelles s’attarda sullo stile della poco cavalleresca intrusione, sulla rozza insensatezza delle liste di indiziati o sospetti. Il modo ancor li offende. Non il perché: quasi non li riguardasse, né in fondo li incuriosisse. Il perché è anzi tra le righe giustificato («la raccolta di intelligence è un elemento essenziale nella lotta contro il terrorismo»). In nessun passaggio del comunicato ci si chiede: ha senso affastellare dati su tutti e su tutto, su fidati e non fidati, su amici e nemici da abbattere — alla rinfusa, sotto la stessa regia — e gabellare questa maniacale compilazione di liste per lotta al terrorismo?
Se così non fosse, se i capi europei esaminassero alle radici le offese che d’un colpo scoprono di subire e il loro rapporto con gli Stati Uniti (ma anche con Londra, non meno implicata nello spionaggio), ben altra sarebbe stata da principio la loro reazione. Da tempo conoscevano gli intrichi dell’Agenzia di sicurezza, sin dal 6 giugno Edward Snowden li aveva rivelati al giornalista Glenn Greenwald; la notizia già era apparsa sul Guardian, sulWashington Post, su Spiegel.Ma lo sdegno aveva colpito il denunciatore, non l’impazzita macchina di spionaggio. Snowden fu catalogato come talpa, spia: anche da giornali che si dicono indipendenti, ma son usi a prender per buone le versioni ufficiali (da allora Greenwald parla di presstitutes, prostitute della stampa). Washington accusò Snowden di tradimento, e i governi europei abbozzarono.
Non li sfiorò l’idea di offrire rifugio in Europa a chi viene chiamato, da secoli, non già spia ma whistleblower (le leggi Usa proteggono i «suonatori di fischietto» dal XVIII e XIX secolo). Whistleblower è chi obbedendo alla propria coscienza denuncia misfatti dell’organo o del sistema che l’impiega. È un disobbediente civile: come Snowden, o Bradley Manning che rivelò a Wikileaks le malefatte americane in Iraq. Se giornalista alla maniera di Greenwald, è cane da guardia; vigila sui soprusi dei potenti. Secondo Kant aiuta a emancipare i cittadini, li rende adulti: cosa possibile solo se nasce uno spazio pubblico non asservito al comando politico, forte dei Lumi, non tenuto all’oscuro. «Hanno ristretto l’influenza della sfera pubblica»: è una delle accuse di Snowden ai governi Usa.
Snowden ha trovato asilo nella Russia di Putin, non in Europa dove è tuttora considerato un paria. Il giudizio non muta neanche dopo lo scandalo dei telefonini intercettati. Rispondendo ai giornalisti, venerdì a Bruxelles, Enrico Letta è stato perentorio. Il whistleblower resta un reietto: «Non penso che (la sua) sia un’attività utile e positiva: crea problemi e non produce gli effetti di “disclosure” che pretende». In realtà Snowden ha scoperchiato le verità della Nsa (perché parlare di «disclosure», quando c’è l’antica parola Lumi?), ma quel far luce e divenire adulti non è utile né positivo. Logicamente questo significa che altro è utile, tra Europa e Usa: il nascosto, la negazione della
parresia ovvero della libera informazione e del libero parlarsi. Quanto all’Unione, significa nutrire l’abitudine alla subalternità del minorenne. Il quieto vivere, talmente meno costoso, ti libera da responsabilità ed è a questo prezzo. Per citare ancora Kant: sapere aude — osa sapere — è sin dai tempi di Orazio impresa troppo incandescente. Meglio definirla non positiva «ai fini della disclosure».
Questo spiega i toni del comunicato di Bruxelles: toni melodrammatici — le «profonde preoccupazioni» dei cittadini europei; l’appello a «più rispetto, più fiducia» — ma privi di proposte pratiche che vadano al di là di poco specificate iniziative e di colloqui bilaterali che Parigi e Berlino avranno con Obama (perché non l’Unione in quanto tale? perché l’Italia non colloquierà?). Rispetto e fiducia sono sentimenti pieni di rumore che non significano nulla, se non producono patti vincolanti e ordini internazionali non più egemonizzati dalla superpotenza. Tanto più essenziale è soffermarsi sul perché del Datagate, e metterlo in relazione con le guerre al terrorismo: con i suoi fallimenti, le sue degenerazioni sotto la presidenza Obama, l’intreccio perverso creatosi fra le informazioni raccolte sugli alleati e quelle che danno vita alle kill list,le uccisioni mirate dei terroristi indiziati. I servizi segreti compilano probabilmente le une e le altre, con l’assenso del potere politico. Questo allarma. Ecco perché la solidarietà dovrebbe andare, se l’Europa è patria del libero confronto di idee, alle persone che smascherano piani antiterrorismo sfuggiti a ogni controllo. Definirle inutili vuol dire approvare una guerra che prosegue in altro modo, non dichiarata ma surrettizia, e considerare proficuo (anche se i modi offendono) quel che maggiormente la caratterizza: le raccolte dati interamente fondate sul sospetto, e l’affidarsi a mezzi tecnologici che «determinano con la forza dell’inerzia il fine prefissato», storcendo il fine stesso e confondendo tattica e strategia (è la tesi del giurista Stephen Holmes, London Review of Boooks, 18 luglio 2013).
Il Datagate riguarda solo marginalmente i governanti origliati urbi et orbi. Militarmente è al servizio di un dispositivo d’aggressione, collaudato da Bush jr e dilatato da Obama. Lo scopo è ridurre a zero le guerre di terra — costose finanziariamente, invise in patria — e colpire da lontano, senza più sporcarsi le mani (i droni ai tempi di Bush erano 167, oggi 7000). L’offensiva dei droni (Pakistan, Yemen, Somalia, Libia, ecc) è senza epiloghi e volutamente «non fa più prigionieri », sciogliendo nell’infamia la questione Guantanamo: i «combattenti illegali» sono liquidati nella notte e nella nebbia. Altro sostanziale vantaggio: la stampa non è mai presente.
Anche se non si chiamano più guerre (ma «operazioni d’emergenza esterna»), la dottrina è sempre quella di Bush jr: l’America è fortezza assediata, militarmente ed economicamente, che non si fida di nessuno e sospetta tutti — avversari reali e potenziali, amici fidati o competitori infidi. È stata denominata dottrina dell’Uno per cento, e fu il vicepresidente Dick Cheney a formularla per primo, nel 2006: «Se esiste un 1 per cento di possibilità che gli scienziati pakistani stiano assistendo Al Qaeda nello sviluppare un’atomica, dobbiamo trattare questa possibilità come una certezza, dal punto di vista della risposta. Qui non è in gioco la nostra analisi, ma la nostra risposta».
Risultato: a dodici anni dall’11 settembre 2001, si affronta il mondo con la stessa ignoranza militante di ieri, lo stesso sprezzo d’ogni analisi.Solo la risposta conta: quale che sia, giusta o sbagliata, purché si presenti come certezza non confutabile. Purché confermi l’America come superpotenza che non conosce limiti, né autorità superiori o pari alla propria. Che declina magari finanziariamente, ma non politicamente e strategicamente.
Che l’Europa creda ancora a questa favola raccontata da un idiota, senza mai discutere con l’alleato il senso e la natura delle guerre, senza mai osare sapere, fa di lei null’altro che «un’ombra che cammina».

Le Monde, 29 ottobre: «Hollande è di sinistra?»
Repubblica 30.10.13
Le due sinistre di Hollande
di Bernardo Valli


PARIGI LA GUERRA delle sinistre non l’ha provocata Leonarda. La zingara quindicenne prelevata dalla polizia il 9 ottobre, durante una gita scolastica, e poi espulsa dalla Francia, ha fatto da detonatore a un conflitto latente, con radici profonde. La guerra si intensifica quando il partito socialista è al potere e si confronta con i problemi concreti : l’economia, la giustizia, l’immigrazione,la sicurezza.
È allora che esplode la crisi di identità. Il caso di Leonarda, per la quale si sono mobilitati liceali e ginnasiali (un affronto: i giovani contro un governo socialista!) ha esacerbato tensioni già esistenti tra la sinistra definita romantica, o angelica, e la sinistra pragmatica, o realista. Ha intensificato il confronto tra le principali anime dell’area progressista, all’interno dello stesso esecutivo.
Il ministro degli Interni, Manuel Valls, si scontra con il ministro della Giustizia, Christiane Taubira, per una riforma del sistema carcerario e del codice penale, da lui giudicata troppo liberale. Le leggi fiscali nascono, agonizzano, muoiono al ritmo delle polemiche tra addetti all’economia. Tutti, o quasi, sempre convinti che la sinistra sia dalle origini l’alleanza delle idee scientifiche di progresso con l’idea filosofica di giustizia; ma tutti, o quasi, convinti che le nozioni di destra e di sinistra non siano più tanto chiare agli elettori da conquistare. Molti sono infatti passati dalla sinistra al Front National. La grande impresa consiste nel tentativo di recuperarli.
L’ulteriore brusco crollo dei consensi registrato in questi giorni dal presidente viene attribuito in generale ai conflitti interni al governo di sinistra, messi in rilievo anche dall’agitata, controversa espulsione di Leonarda. Tre settimane dopo quella vicenda, di cui ancora si discute, François Hollande ha battuto un record nella Quinta repubblica. Nel quadro della democrazia d’opinione, è infatti il presidente più impopolare da quando il capo dello Stato, in seguito alla riforma costituzionale del 1962, è eletto al suffragio universale diretto. Uno dei motivi, non certo il solo, di quest’ultima caduta nei sondaggi sarebbe appunto il comportamento di Hollande nel caso della giovane kossovara. Un atteggiamento giudicato ambiguo, salomonico. Rivelatore dell’incertezza che regna ai diversi livelli del potere, su molti, troppi problemi.
François Hollande ha accettato il ritorno di Leonarda da sola, senza la sua famiglia. Una decisione al tempo stesso molle e autoritaria. Il presidente voleva calmare le angosciate coscienze di sinistra, solidali con Leonarda, e non urtare troppo le anime inquiete di destra, afflitte dall’idea di un ritorno della famiglia di zingari. Ma ha scontentato le une e le altre. Comunque la sua idea è stata rifiutata dalla stessa Leonarda. La ragazza ha infatti respinto con sdegno la proposta presidenziale. Ha risposto: o tutti (padre, madre, fratelli) o nessuno. La replica della zingara è apparsa umiliante per il settimo primo cittadino della Quinta Repubblica, al cui nome viene accostato adesso un arrogante, ingiusto interrogativo: «Hollande è di sinistra?» (Le Monde, 29 ottobre, pagina 11).
È indicativo il fatto che mentre Hollande scende al 29% dei consensi, il suo ministro degli interni, Manuel Valls, raggiunga il 58%. E in un’altra indagine d’opinione, altrettanto indicativa, si riconoscono al ministro molte più probabilità di battere la destra, cioè di vincere le prossime elezioni (2017), che non al presidente in carica, destinato per tradizione ad essere il campione della sinistra anche per un secondo mandato. Hollande ha ancora tre anni e mezzo da trascorrere all’Eliseo e Manuel Valls non si azzarda ad avanzare una candidatura, al contrariorinnova appena può la sua fedeltà a Hollande. Ma non sono certo insignificanti l’impopolarità del presidente esitante e la popolarità del grintoso Valls. La sempre più ampia divaricazione nasconde probabilmente un futuro conflitto, anche se per il momento rivela soltanto la vivacità della guerra tra le sinistre.
Nella sua storia delle sinistre francesi (Les Gauches Françaises, 1762-2012, edit. Champs) Jacques Julliard enumera quattro correnti, o famiglie: liberalismo di sinistra, giacobinismo, collettivismo e libertarismo. Così come la destra si distinguerebbe, secondo René Rémond, in tre famiglie principali: legittimista, orleanista, bonapartista (ossia di tendenza monarchica, liberale, autoritaria). Queste definizioni, di destra o di sinistra, risalgono a particolari episodi della storia nazionale rimasti in vario modo nel subconscio politico dei francesi. Ma col tempo le correnti si sono ramificate. Si sono aggiornate. Ci sono tanti modi, più o meno obsoleti, tramontati o ancora praticabili, di far politica a sinistra, o di pensare a sinistra. Nicolas Truong li elenca: statalismo, collettivismo, colbertismo, sovranismo, gauchismo, gallo-comunismo, socialismo, socialdemocrazia. La lista non si esaurisce qui. Ma basta per dare un’idea dell’ampiezza del confronto, attizzato dal caso della piccola zingara.
Manuel Valls, trionfante nei sondaggi è facilmente classificabile tra i social-liberali. Ma con un accento autoritario, per la sua tenacia e severa attenzione alla sicurezza, legata ai problemi posti dall’immigrazione. Secondo i sostenitori, il ministro degli interni incarna la sinistra modernista e riformista. Per il politologo Zaki Laidi sarebbe il solo in grado di governare a lungo, malgrado il fastidio del gauchismo minoritario da sopportare. Potrebbe assicurare una spinta riformista nel quadro di una Repubblica intransigente. Innovazione e disciplina. Per Valls molte cose vanno cambiate. Compreso il nome del partito. Per lui la parola «socialista» non significa più niente. Gli esempi da tenere in considerazione sono il New Labour di Tony Blair e la Spd dei tempi di Gerhard Schroeder.
Manuel Valls non condanna il ’68. Lo considera un movimento emancipatore, una liberazione dell’individuo accompagnata da un’avanzata dei consumi e della morale. Ma la modernità, aggiunge, ha bisogno di sicurezza. Per questo lui preferisce Georges Clemenceau, del quale tiene un ritratto nel suo ufficio, a Jean Jaurès, nume del socialismo francese. Clemenceau era chiamato la Tigre. A Valls piace. Lo vede «elastico e felino». È stato considerato a torto un nemico della classe operaia ma era in effetti il promotore di una politica di progresso sociale, con il marchio dell’ordine repubblicano.
Nel partito Manuel Valls non ha soltanto amici. Non sono in pochi a condannare le sue posizioni, giudicate non conformi ai principi di sinistra. È accusato di adottare la tattica del Front National per combatterlo, con il rischio di assecondarlo. Alle primarie, vinte da François Hollande, non arrivo’ al 6%. Ma adesso molti sindaci di sinistra se lo contendono per la campagna che si concluderà in primavera con le elezioni municipali. I sondaggi dimostrano che piace agli elettori, anche se non sempre a quelli di sinistra. Per François Hollande il suo ministro degli Interni (il «primo poliziotto di Francia») rappresenta una preziosa popolarità che a lui manca.

Corriere 30.10.13
Veca: cercare la giustizia oltre i confini dello Stato
«La laicità è inscindibile dalla democrazia»
di Antonio Carioti


Per descrivere la situazione attuale del mondo, Salvatore Veca cita il pensatore viennese Otto Neurath: «Diceva che siamo come marinai che navigano su un’imbarcazione malandata e sono costretti a ripararla pezzo per pezzo in mare, durante il tragitto, senza mai potersi rifugiare in un cantiere ospitale per rimetterla a nuovo». Il fatto è, prosegue il filosofo, che si è acuita la condizione da lui indagata in uno dei suoi libri più importanti, Dell’incertezza , edito nel 1997 da Feltrinelli.
«L’uomo — osserva Veca — ha sempre dovuto fronteggiare fattori imponderabili. Ma oggi il portafoglio dei rischi è aumentato a dismisura: pensiamo agli attacchi della speculazione finanziaria, ai mutamenti climatici, agli effetti rivoluzionari delle scoperte scientifiche e delle applicazioni tecnologiche. Tradizionalmente la politica e il diritto hanno funzionato come riduttori dell’incertezza, hanno reso più prevedibili le relazioni tra le persone, in modo da favorire la cooperazione sociale. È la grande lezione di Thomas Hobbes, per cui gli uomini si sottomettono al sovrano per essere liberati dalla paura. Ma oggi questa capacità della politica vacilla: abbiamo tutti l’impressione di essere a bordo di un ottovolante fuori controllo».
Ne risente anche la separazione tra le istituzioni statali e quelle religiose, un principio di cui Veca prende le difese nel libro Un’idea di laicità, in uscita domani (Il Mulino, pp. 98, e 10). «Crescono i tipi di diversità con cui bisogna misurarsi. Si pensi al pluralismo delle fedi determinato dalle migrazioni, alle prospettive inedite aperte dalla scienza in campo bioetico, alle richieste di riconoscimento dei legami omosessuali. Così l’incertezza investe abitudini, condotte, valori un tempo indiscutibili. Ma la soluzione è imparare a convivere nella diversità, senza pretendere di imporre agli altri la nostra idea di vita buona. Perciò il legislatore non deve corroborare una visione etica o religiosa particolare, ma trattare in modo equo l’ampia gamma di credenze oggi esistente, in base a un criterio di pari dignità. È un equilibrio sempre instabile, difficile da definire, ma la democrazia si fonda sulla persistenza delle differenze, non può averne paura e mirare a ridurle. Per questo è inscindibile dalla laicità».
Che dire allora del dissidio fra chi apprezza il ruolo delle religioni nello spazio pubblico, come Jürgen Habermas, e chi invece identifica la democrazia con l’ateismo, come Paolo Flores d’Arcais? «Se per spazio pubblico s’intende l’agorà, un contesto sociale dove si parteggia, si cerca di convertire gli altri, si misurano proposte alternative, Habermas ha ragione. Qui le fedi hanno piena cittadinanza: ciascuno deve essere preso sul serio e non si deve chiedere a nessuno di revocare le proprie lealtà. La libertà democratica del resto nasce quando, dopo la tragedia delle guerre di religione, a ciascuno viene riconosciuto il diritto di adorare Dio come preferisce. Ma ciò comporta appunto la laicità dello Stato, il divieto di usare il potere coercitivo per favorire un singolo credo».
Veca compie domani settant’anni e conclude la carriera universitaria. Ma i temi della sua ricerca sono più che mai attuali: «Ho sempre assegnato un rilievo cruciale al rapporto tra l’autorità politica e i poteri sociali, da quello economico a quello mediatico. E qui tutto è cambiato. Mentre nel Novecento c’era un negoziato permanente tra i diversi poteri nell’ambito degli Stati nazionali, ora la finanza, grazie alla sua dimensione globale, sembra aver preso in mano il bastone del comando. Le possibilità di scelta della politica si restringono, così come la sua capacità di rappresentare i bisogni degli elettori, mentre a dettare l’agenda pubblica sono palazzi opachi, che non rispondono alle popolazioni su cui ricadono gli effetti delle loro decisioni».
Tutto ciò ha un impatto enorme sugli studi cui si è dedicato Veca: «Dalla metà degli anni Settanta ho lavorato per portare in Italia le teorie della giustizia sociale, a partire dalla lezione del filosofo americano John Rawls. All’epoca il concetto di equità si riferiva al paesaggio dello Stato nazione. Ma oggi quel perimetro è saltato, perché tutto si misura su scala globale, fuorché i diritti. Ne deriva un autentico rompicapo: come approssimarsi a un’idea di giustizia che vada oltre le frontiere degli Stati. Un compito che presenta immense difficoltà, come dimostra la crisi dell’Unione europea, ma rimane ineludibile».

«i due protagonisti sono Sergio Rubini e Michele Placido»
Corriere 30.10.13
La tentazione di Bellocchio: il dramma di Cechov in dialetto pugliese


ROMA — Zì Nicola e il Professore. Così si potrebbero ribattezzare Zio Vanja e l’intellettuale Serebrjakov nella trasposizione cinematografica in Puglia della celebre commedia di Anton Cechov, cui Marco Bellocchio sta pensando mentre è in prova con lo spettacolo teatrale.
«La vicenda è ambientata nella campagna russa — spiega —. Immaginando un film, vorrei portarla tra le masserie e gli ulivi della provincia pugliese». Sì, perché i due protagonisti sono Sergio Rubini e Michele Placido: il primo barese e il secondo foggiano, che nei rispettivi ruoli si apprestano a recitare l’opera in palcoscenico. Lo spettacolo, che li vede per la prima volta insieme a teatro, debutta venerdì al Manzoni di Pistoia (dal 3 dicembre al Quirino di Roma).
La storia è quella di un non felice ritorno a casa. L’attempato professor Serebrjakov, accompagnato dalla sua nuova consorte, la giovane Helena (Lidiya Liberman), ritorna nella tenuta di campagna curata con devozione dal cognato Vanja e dalla figlia di primo letto Sonja (Anna Della Rosa). La quiete domestica è scombussolata dall’arrivo di questi cittadini oziosi: Serebrjakov ha deciso di vendere il podere, ereditato dalla prima moglie defunta. Vanja, amareggiato, reagisce male e spara al cognato senza colpirlo.
«L’abulica routine — sottolinea Rubini — viene rotta da chi piomba lì, in campagna, con gli scintillii della città». «Nel film — ipotizza Bellocchio — i due protagonisti potrebbero parlare in dialetto, nella Puglia anni 50». Condivide Rubini: «C’è un’indubbia vicinanza tra la terra russa e quella del meridione italiano. Vanja somiglia a un aristocratico rurale del Tavoliere». E Placido: «Io ho qualche analogia con Srebrjakov: a 67 anni, sono sposato con una donna molto più giovane e bella (l’attrice Federica Vincenti, ndr ) e vengo ogni tanto assalito da smarrimenti: il teatro è una terapia psicoanalitica, lo specchio in cui si riflettono i tuoi limiti umani».
Il rapporto di Bellocchio col teatro è discontinuo: «Ma ne subisco il fascino. Rare le regie che ho firmato, ma ritrovo sempre il piacere del contatto con gli attori, che nel cinema è frammentario. Mentre con la cinepresa mi barrico nella mia esperienza, qui vado senza rete».
La tentazione di contaminare il palcoscenico con il linguaggio filmico è tangibile. Ammette il regista: «Immagino lo spettacolo come un film». Riflette Placido: «Il cinema di Bellocchio è teatrale».
Ma la preoccupazione di Bellocchio è la voce: mentre il cinema riesce a catturare anche un sussurro dell’attore, in teatro la «voce portata» appiattisce tutto. Il regista si fa aiutare dalla tecnologia: «Basterebbe un piccolo microfono, magari nascosto tra i capelli — ragiona —. Oppure dei microfoni direzionali, che captino i toni bassi. Vorrei trovare un modo per esaltare ed espandere la voce degli interpreti, senza che risulti una metallica voce al microfono». Questo Zio Vanja è già un film.
Emilia Costantini

l’Unità 30.10.13
Un mese di teatro su Radio3 a partire dal 31 ottobre


Un mese da protagonista alla radio. Titolo: «Tutto esaurito!» Interprete: il teatro sotto forma di spettacolo in diretta, chicche d’archivio, radiodrammi e monologhi. Il luogo: Radio3, dal 31 ottobre al 30 novembre (di sera). Ne curano l’occhiuto cartellone Antonio Audino e Laura Palmieri (sezione Radiodrammi e infanzia invece affidata a Rodolfo Sacchettini) con omaggi inclusi a Valeria Moriconi e a Mariangela Melato, una puntata per Cocteau a 50 anni dalla scomparsa e una per Camus a 100 dalla nascita. Tutto questo e molto di più da scrutare (e annotarsi in agenda) su www.radio3.rai.it

martedì 29 ottobre 2013

l’Unità 29.10.13
Sahara, morti di sete 35 migranti
di Sonia Renzini


L’ultima tragedia della povertà arriva dal Niger. A metà ottobre 35 persone sono morte di sete in pieno deserto del Sahara a causa di un guasto al veicolo in cui viaggiavano mentre cercavano di entrare clandestinamente in Algeria per raggiungere l’Europa e cercare una vita migliore.
Lo ha reso noto Rhissa Feltou, primo cittadino di Agadez, la principale città settentrionale del Paese africano che si trova su una delle rotte più trafficate dai migranti provenienti dall’Africa occidentale.
Il viaggio della speranza era iniziato i primi di ottobre da Arlit, centro per l’estrazione dell’uranio a nord di Agadez: due camion di 60 persone si erano dirette verso Tamanrassett in Algeria. Erano interi nuclei familiari, molte le donne e bambini, secondo quanto riferito da Azaoua Mamane, responsabile dell’organizzazione non governativa Synergie. Qualcuno sperava di riuscire a mantenersi mendi-
cando in Algeria, i più tentavano la via dell’Europa, sfidando il pericolo e la morte. Come hanno fatto in centinaia in questo mese cercando di attraversare il Mediterraneo.
Ma è proprio la morte che hanno trovato mentre camminavano senza acqua nel deserto in cerca di aiuto o di un’oasi, dopo che uno dei due camion è rimasto bloccato al confine a 50 chilometri a nord di Arlit.
UN BUSINESS LUCROSO
I migranti si sono suddivisi in piccoli gruppi nella speranza che così fosse più facile sopravvivere, se alcuni si perdevano, magari altri avrebbero potuto farcela. Sperando che qualcuno sarebbe tornato a prenderli: uno dei due camion è ripartito senza nessuno a bordo per cercare pezzi di ricambio e riparare così il guasto. Questo almeno è quanto viene ipotizzato per spiegare la tragedia. Il camion indietro non è mai tornato.
Non è la prima volta che accade. Nel lucroso business di africani in fuga da condizioni disperate capita di
frequente che i trafficanti abbandonino nel deserto i loro carichi di esseri umani, lasciandoli di fronte a una morte certa. Perché chi rimane in mezzo al deserto senza acqua né viveri muore di sicuro, ma quello che conta per questi uomini senza scrupolo che fanno i soldi sulla disperazione della gente è andarsene più in fretta possibile e mettersi al sicuro. Così è stato anche stavolta. Il camion si è dileguato nel nulla, al suo posto è arrivato invece l’esercito informato di quanto avvenuto da cinque sopravvissuti che dopo giorni e giorni di cammino ce l’hanno fatta a raggiungere Arlit e a dare l’allarme. Ma ormai per i più era troppo tardi, solo in diciannove sono stati ritrovati vivi e portati ad Arlitt. Gli altri sono tutti morti o dispersi. Un poliziotto racconta che sono stati rinvenuti i corpi di due donne e tre adolescenti, avevano tra i nove e gli undici anni. Mentre alcuni testimoni raccontano di avere personalmente visto e contato 35 persone cadaveri per strada, ha detto Abdourahmane Maouli, sindaco di Arlit.

l’Unità 29.10.13
La scuola non indugia: in piazza contro i tagli
di Giulia Pilla


ROMA La legge di Stabilità va cambiata, i sindacati della scuola hanno messo in fila una serie di richieste che vanno dal rinnovo del contratto, al pagamento degli scatti di anzianità dal 2012, un piano di investimenti per la scuola pubblica e un piano pluriennale per la stabilizzazione dei precari. Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Gilda e Snals-Confsal si rivolgono a governo e Parlamento e per farsi ascoltare hanno messo in cantiere una manifestazione a Roma per il 30 novembre. «Questo è solo il primo passo», ha detto il segretario generale della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo, «finora abbiamo avuto risposte insufficienti». Anche Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola, promette rilanci e altre mobilitazioni «perché quando c'è di mezzo la dignità delle persone il sindacato non deve fare nessun passo indietro».
Sotto accusa è la doppia penalizzazione dovuta al blocco e a quello degli scatti di anzianità sul quale il dissenso è netto. «Ancora una volta si è voluto infliggere a chi lavora nella scuola un'intollerabile penalizzazione, che non si spiega né si giustifica con le difficoltà finanziarie del Paese denunciano i sindacati È inaccettabile che si prelevino dalle tasche dei lavoratori ulteriori risorse» anche perché in questo modo si indebolisce ancor di più il potere d'acquisto delle retribuzioni, peraltro già basso, mentre mancano per i lavoratori pubblici misure di alleggerimento delle tasse.
Ma non c’è solo questo: la scuola pubblica ha subito pesantissimi tagli, per i sindacati occorre passare agli investimenti, con un piano pluriennale che arrivi ad allineare la spesa per istruzione e formazione alla media europea. Le risorse si possono trovare dicono e puntano l’indice contro la spesa pubblica improduttiva, tagliando i costi di politica e istituzioni, additano gli sprechi e «la scandalosa evasione fiscale».

La Stampa 29.10.13
“Doc” e “convertiti”. I candidati del Pd all’esame di renzismo
Nei congressi provinciali dibattito acceso sul ruolo delle correnti
di Carlo Bertini


ROMA Risuona nelle orecchie di tutti i fedelissimi del sindaco tornati a casa dalla Leopolda il monito lanciato da Baricco sui «sostenitori dell’ultim’ora», risuona specie tra quelli che tengono la contabilità dei congressi provinciali che si celebrano in queste ore. Certo lo sanno tutti che l’andazzo è quello, non è un mistero che i renziani della cerchia stretta stiano monitorando anche questo aspetto: quanti «convertiti», quanti «nostri della prima ora», quanti «loro sostenuti dai nostri» stanno prendendo il timone del partito nei comuni? E nella prima tornata ancora in fieri, quella che elegge i segretari delle vaste province italiane, sta andando in onda la «grande mescolanza» con una ridda di candidati unitari renziani o cuperliani o civatiani sostenuti da «grandi intese» tutte locali.
Tanto per cominciare, va detto che i segretari in questione sono slegati dalle mozioni dei candidati alla segreteria, quindi in teoria chi vuole si candida senza chiedere il permesso a nessuno. Per questo capita che nella stessa città scendano in campo due candidati considerati renziani,
FEDELI ALLA LINEA
Tra i sostenitori del sindaco più di un malumore per chi sale sul carro all’ultimo
uno «doc» e l’altro magari no, ma forte di un appoggio consolidato su numeri stratificati. Sul piano politico, quello che sta capitando nella capitale è uno spaccato utile a capire, perché fotografa una probabile vittoria di un candidato, Cosentino, forte e sostenuto da un’area larga che va da Bettini ad Areadem di Franceschini e Sassoli, tutti supporter di Renzi. Il quale però riconosce il marchio «doc» solo a Tobia Zevi, giovane nipote di Tullia Zevi, lanciato in pista da Gentiloni, che risulta però in svantaggio, visto che secondo è Tommaso Giuntella: all’inizio vicino alla Bindi, poi coordinatore della campagna delle primarie di Bersani e ora ascrivibile all’area dei «giovani turchi» cuperliani.
Sotto i riflettori c’è la provincia di Firenze, dove vince il sindaco di Fiesole, Incatasciato, cuperliano sostenuto dai renziani; ma anche Torino, dove è in testa un ex Ds strutturato e stagionato, come Fabrizio Morri, già senatore, molto vicino a Piero Fassino, considerato però «un convertito», visto che il suo passato di sinistra non lo ascrive al renzismo duro e puro. Come ovvio, i bollettini di guerra divergono nelle due trincee: quello della war room bersanian-dalemian-cuperliana riporta dati contestati dai renziani, perché molti dei vincenti sono sostenuti da larghe intese locali con maggioranze bulgare. Il caso classico è Bologna, dove Raffaele Donini, assembla l’81% dei voti di una grande coalizione dei 4 candidati nazionali, «ex bersaniano che ora voterà Cuperlo, ma sostenuto pure da noi», come ammettono i renziani.
Gli ex diessini dicono di aver vinto cinque federazioni su otto in Lombardia,4su4inAbruzzo,3su3inMolise e di essere in testa a Reggio Emilia e Modena, a Sarzana, La Spezia e Savona in Liguria, così come a Padova, Treviso e Rovigo in Veneto. I renziani danno un’altra lettura più complessa e realistica, meno trionfalistica. A Milano, è in testa un renziano doc come Bussolati, ma a Brescia vanno al ballottaggio: Bisinella, un lettiano convertito renziano, Orlando, renziano appoggiato dai cuperliani e Vivenzi, renziano della prima ora. A Mantova due renziani «doc». A Bergamo vince Riva, cuperliano con un pezzo di renzismo locale nella sua maggioranza, mentre a Pavia già eletto il «doc» Lasagna, mentre a Como c’è un candidato unitario; a Varese, in testa il renziano Astuti; a Monza, vince Virtuani, ex diessino sostenuto da una coalizione di giovani renziani, cuperliani e civatiani contro i vecchi ex Ds ed ex margherita. Quindi nelle dinamiche locali spunta a macchia di leopardo pure una sfida generazionale. A Napoli, vince il renziano Carpentieri con i cuperliani dentro la sua maggioranza, a Vercelli Maura Forte, a Palermo in vantaggio un «doc» Miceli, a Piacenza in casa Bersani, il renziano Molisano e a Crotone Pantisano. «Ma irregimentare i congressi locali su uno schema nazionale è sbagliato e va contro l’idea di partito non costruito sulle correnti ma sull’autonomia dei territori», fa notare il colonnello di Renzi, Lorenzo Guerini. Che non si lamenta dei risultati conseguiti fin qui, anche se la spunta dei «doc» e dei «convertiti», così come degli «unitari», verrà fatta a bocce ferme, tra una settimana, quando il bilancio sarà sul tavolo di Renzi.

Corriere 29.10.13
Dal dileggio alla santificazione ora sono diventati tutti «renziani»
di Pierluigi Battista


O ra è il trionfo della Leopolda. Ora sono tutti «renziani» della prima ora. Ora che Matteo Renzi può sperare in un plebiscito, ora che è considerato nel Pd il salvatore della Patria e tutta la nomenklatura del partito si produce in grandi e spudorati inchini, ora però si potrebbero ricordare le parole sprezzanti di chi lo voleva espellere dal corpo sano della sinistra non un secolo fa, ma un anno fa, proprio in questo scorcio di autunno. O anche due anni fa, esattamente il 5 novembre del 2011 quando, durante una manifestazione del Pd a piazza San Giovanni, Renzi, reduce dalla Leopolda, venne accolto da fischi, invettive, insulti, spintoni: «vai ad Arcore», «Buffone», «sei un Berlusconi», «giù le mani dal Pd». Senza che neanche un dirigente del partito trasmettesse la sua solidarietà al sindaco di Firenze fatto bersaglio di una manifestazione di così clamorosa intolleranza.
Solo un anno fa, per dire la rapidità con cui in Italia si passa dal dileggio alla santificazione, dalla demonizzazione al culto della personalità. Solo un anno fa la stampa che, per così dire, fiancheggiava con più nettezza la politica dell’allora segretario Pier Luigi Bersani, non riservò un trattamento principesco al giovane sfidante. Sull’Unità , giornale del partito, storico quotidiano «fondato da Antonio Gramsci», un intellettuale come Michele Prospero gratificava in prima pagina Matteo Renzi con questo aggettivo: «fascistoide». «Il termine rottamazione ha un’ascendenza fascistoide», così, senza diplomazia. Sull’Espresso si sprecavano sarcasmi sul candidato Renzi che tanto piaceva alla destra, elencando tutti i nemici, da Gasparri a La Russa, da Dell’Utri addirittura sino a Nicole Minetti, che avevano manifestato una sia pur blanda stima per lui. Arruolato persino Lele Mora, di cui venne immortalato un decisivo giudizio politico sull’infido Renzi: «un gran figo, è sexyssimo». Sulle stesse pagine del settimanale si costruì anche il disegno occulto di un diabolico complotto che Renzi, in combutta con l’arcinemico Berlusconi, avrebbe architettato con perfidia per meglio demolire la sinistra dall’interno. Lo ribattezzarono nientemeno che «Piano B», un «piano di rinascita berlusconiana». Solo un anno fa. E solo un anno fa Renzi sfoggiò una risposta che sarebbe diventata un classico del sarcasmo politico: «oltre a me e a Verdini, c’erano anche Luciano Moggi, Licio Gelli, Jack lo Squartatore e Capitan Uncino». Anche Eugenio Scalfari, su Repubblica , metteva in guardia il Pd, perché dalla vittoria di Renzi sarebbe scaturita una mutazione genetica simile a quella imposta da Craxi al vecchio Psi, senza considerare che il programma di Renzi era solo «carta straccia».
Certo, non tutti in quest’anno sono passati sulle sponde renziane, ma pochissimi hanno continuato a usare contro di lui stilemi di aperta ostilità. È rimasta sulla trincea opposta Anna Finocchiaro, che ha gratificato di uno sprezzante «miserabile» il rottamatore fiorentino. Ha invece radicalmente cambiato idea Dario Franceschini che un anno fa definiva il leader ora apprezzato come una «risorsa» alla pari di un «virus che ci ha indebolito»: «un giovane effervescente» ma «mi pare un po’ pochino». Per Susanna Camusso, Renzi era nientemeno che «un problema per il Paese». Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds, faceva i conti in tasca alla campagna elettorale renziana per le primarie, e sosteneva che le spese ammontavano a due milioni 800 mila euro, ben oltre i 200 mila euro regolamentari. Laura Puppato, competitrice nelle primarie, accusava Renzi di essere teleguidato durante i dibattiti, avendo sempre «sottomano il telefonino». Alessandra Moretti, allora tra i principali esponenti della campagna pro Bersani, sosteneva che Renzi era «un maschilista con una corte di donne attorno a lui».
Le accuse discendevano sempre dal sospetto che Renzi fosse un berlusconiano infiltrato nelle schiere della sinistra. Dopo una cena con magnati della finanza a Milano, Bersani criticò il suo avversario che aveva stretto frequentazioni con Davide Serra, colpevole di avere «base alle Cayman». Per Nichi Vendola il messaggio era esplicito, perché Renzi, con cui pure oggi il leader di Sel afferma che è possibile stringere un’alleanza, era portatore di una «marcata adesione ai modelli culturali che debbono essere rottamati». E ancora Vendola: «il suo è un messaggio berlusconiano». Per Rosy Bindi «la sua visione della democrazia non piace alla maggioranza del Pd». Figlio della «demagogia della destra berlusconiana», si disse. E si disse perché sembrava che la rottura politica di Renzi, con un Pd spedito verso la vittoria elettorale, fosse qualcosa di pericoloso. Un anno, ed è arrivato il contrordine.

Repubblica 29.10.13
Pd, Renzi avanti ma Cuperlo tiene parte la conta in circoli e federazioni
Nuovo allarme sul boom di tessere
di Giovanna Casadio


ROMA — Un sms in piena Leopolda, domenica: «Matteo, abbiamo vinto noi nel circolo di Migliavacca». Maurizio Migliavacca è stato il capo della segreteria di Bersani, un carrarmato in fatto di organizzazione. E a cantare vittoria è un renziano della prima ora, Roberto Reggi. La mappa ha ancora molte caselle vuote, ma arrivano alla spicciolata i risultati su chi vince nelle federazioni del Pd: è il primo test. Renziani in testa nelle grandi città, più che soddisfatti di quello che succede in Sicilia, in Toscana, in Emilia. Ma nel quartiere generale di Gianni Cuperlo, lo sfidante del superfavorito Matteo Renzi, in serata elaborano i primi dati: su 74 segretari provinciali, 45 sono cuperliani. Insomma la partita è aperta.
I dati affluiscono, insieme con le polemiche sulle tessere last minute. Ci sono boom diiscritti quasi dappertutto. Sospetti di tesseramenti gonfiati. Roberto Morassut denuncia: «Questo congresso è una rincorsa delle tessere, non va bene. Non lo dico in difesa dell’uno o dell’altro candidato alle primarie nazionali, ma per lanciare un allarme: il Pd non può essere un partito ridotto a comitato elettorale e a cordate». Ecco un lungo elenco di situazioni anomale: a Lecce, 4.700 iscritti nel 2012 e ora sono stata inviate dal nazionale 16 mila tessere, di cui 12 mila sarebbero già distribuite; a Caserta gli iscritti erano 5 mila e ora 13 mila tessere sono state richieste (bisognerà vedere quante saranno sottoscritte); a Catania è stato bloccato tutto per i ricorsi. Ricorsi anche a Grosseto. Nel suo piccolo, pure Piacenza è in tilt: si è passati da 479 a 800 iscritti in una giornata sola. In pratica domenica ben 384 piacentini hanno scoperto di volere diventare democratici. Il renziano Reggi ha minimizzato; Paola De Micheli, lettiana, schierata con Cuperlo, ha detto invece che va fatta chiarezza e che saranno presentati una sfilza di ricorsi.
E intanto i renziani piazzano alcune bandierine e esultano in Toscana dove passano da 2 a 6 segretari provinciali: a Pistoia, a Siena (Niccolò Guicciardini, ex bersaniano, ha il 78%); Lucca, Empoli, Firenze città, Viareggio (dove però si va al ballottaggio). Patrizio Mecacci, coordinatore della campagna di Cuperlo, non è d’accordo: «Per essere degli inseguitori le cose sono per noi confortanti». CitaBologna, dove ha vinto Raffaele Donini, che ha messo tutti d’accordo dai bersaniani ai renziani. A Genova, segretario è il cuperliano Alessandro Terrile. A Roma al ballottaggio in testa è Lionello Cosentino, vicino a Goffredo Bettini, che sfiderà Tommaso Giuntella, ex coordinatore del comitato Bersani e sostenuto tra gli altri dai “giovani turchi”, mentre a Torino in vantaggio al ballottaggio è Fabrizio Morri, ex senatore, fassiniano di ferro e quindi pro Renzi. A Milano avanti sempre in vista dello spareggio è Pietro Bussolati, renziano.
Poi c’è la Sicilia. Un capitolo a parte. Il “caso Crisafulli” crea tensione. Crisafulli, eletto segretario a Enna, è in quota Cuperlo, benché escluso dalle “liste pulite” alle politiche. A Palermo è diventato segretario, Carmelo Miceli, un renziano, sponsorizzato da Davide Faraone. Miceli è avvocato di parte civile nel processo contro Matteo Messina Denaro, e per Faraone sono insensati i ricorsi che stanno agitando il partito. Ad Agrigento ha vinto Giuseppe Zambuto, candidato unitario come il neo segretario di Caltanissetta, Giuseppe Gallè. A Trapani renziano in testa.
Cambio di mano anche a Napoli, dove Venanzio Carpentieri sindaco di Melito, renziano (ma anche l’area Cuperlo lo ha appoggiato) sta per diventare segretario provinciale al posto di Gino Cimmino, ricandidatosi e sconfitto. C’è dappertutto voglia di cambiamento da un lato, dall’altro molti dirigenti locali sono passati sul carro del superfavorito Renzi. A Monza ha la meglio il candidato di Pippo Civati. A Roma altre tensioni per il tesseramento gonfiatoe pioggia di ricorsi.

Corriere 29.10.13
Contano i voti, non le bandiere del Pd
di Paolo Franchi


G ianni Cuperlo ha voluto manifestare il suo disappunto per l’assenza, alla Leopolda, delle bandiere del Pd: se la Fiorentina acquistasse Messi e, il giorno della presentazione, il campionissimo si facesse ritrarre nella foto di rito senza esibire la maglia, i tifosi reagirebbero male. Visto che Messi a Firenze non arriverà, non sapremo mai se, dal lato calcistico, Cuperlo abbia qualche ragione. Ma, dal lato politico, ha sicuramente torto. Per un motivo semplicissimo: a differenza della Fiorentina, dei partiti di un tempo, e dei partiti europei, tutti più o meno in difficoltà ma tutti comunque vivi, il Pd «tifosi», intesi come militanti che coltivino un forte senso di appartenenza a quella comunità, con la sua storia, i suoi simboli, le sue insegne, le sue sedi, i suoi dirigenti, praticamente non ne ha. Se qualcosa di simile a una «tifoseria» esiste, quel che la tiene insieme è solo la comprensibile voglia, dopo tante sconfitte, spesso subite anche per via di clamorosi autogol, di vincere finalmente, costi quel che costi, uno scudetto, o almeno una Coppa Italia. Importa poco con quale modello di gioco, con quale allenatore, con quale capitano, figurarsi che cosa possono contare i vessilli. In molte sezioni comuniste e socialiste, ma pure socialdemocratiche e repubblicane, c’erano ancora le vecchie e lacere bandiere che ignoti compagni, sotto il fascismo, avevano interrato negli orti e nei giardinetti di casa, in attesa di disseppellirle al ritorno della libertà. Con la massima buona volontà, faticheremmo a immaginare un destino anche solo lontanamente paragonabile per una bandieretta del Partito democratico.
L’obiezione è nota. Basta con le nostalgie novecentesche: è il ventunesimo secolo, bellezza, i partiti possono fungere, al massimo, da comitato elettorale del leader. Proprio come gli appassionati di calcio che, campionato dopo campionato, disertano sempre più gli stadi, destinati nel migliore dei casi a fungere da coreografia per lo spettacolo televisivo, chi intende intervenire in qualche modo alla vita politica lo fa con altri mezzi (in primo luogo la Rete) e, quando si reca a delle assemblee come quella della Leopolda, magari pronunciandovi il suo fervorino breve quanto entusiasta, sa bene di partecipare a un evento mediatico finalizzato all’incoronazione del leader. Nel migliore dei casi a una convention , certo non a un congresso. Non è solo il tradizionale partito del Novecento, quello che per i suoi militanti era chiesa, scuola, casa, famiglia, a essere archiviato (come è giusto, ovviamente, che sia, e come è accaduto, o sta accadendo, sotto ogni cielo), ma il concetto di partito tout court . Nel caso della Leopolda, lo si è quasi teorizzato: chissenefrega delle bandiere, contano i voti, soprattutto quelli degli italiani che per la sinistra, o il centrosinistra, non hanno votato mai.
Si potrebbe obiettare che, a dire il vero, anche in passato i partiti, grandi, medi e piccini non si preoccupavano solo di controllare il proprio elettorato di provenienza, ma contendevano voti agli avversari e pure agli alleati. Ma non è questo il punto. Il punto è che il Pd, inteso come partito (solido, liquido o gassoso, fate voi), non è solo «un amalgama mal riuscito», come già qualche anno fa annotò Massimo D’Alema, ma probabilmente non è mai nato, e sicuramente era defunto ben prima che Matteo Renzi decidesse di ridurne al rango di optional le insegne. E, se è per questo, forse non è mai davvero nato, e di certo oggi non esiste più il suo principale competitor : se le parole della politica italiana avessero ancora un senso, la decisione, senza precedenti al mondo, di considerare «sospeso» il Pdl in attesa della sua transustanziazione in Forza Italia 2.0 sarebbe oggetto delle preoccupate attenzioni di torme di politologi di ogni Paese. «Mai più larghe intese», ha giurato Renzi alla Leopolda, proponendosi (e venendo trionfalmente omaggiato, dentro e fuori l’antica stazione ferroviaria fiorentina) come il campione del bipolarismo vero, finalmente tornato all’ordine del giorno e proprio per questo osteggiato dai nostalgici del proporzionale: un bipolarismo (Beppe Grillo permettendo) dotato di un leader, forse di due se il centrodestra riuscisse a evitare l’implosione, ma, di fatto, senza partiti e anzi senza poli dall’identità politica, culturale e sociale riconoscibile. Anche questa, più ancora del «partito sospeso» di cui sopra, sarebbe una novità straordinaria e degna della massima attenzione degli studiosi, quasi una conferma postuma di quella «originalità del caso italiano» che afflisse le nostre giovinezze. Non fosse altro perché un democratico e un repubblicano negli Stati Uniti, o un laburista e un conservatore in Gran Bretagna, si riconoscono a occhio nudo. E, se è per questo, anche un socialdemocratico e un democristiano in Germania. Nonostante per due volte si siano macchiati del peccato delle larghe intese, e si accingano a peccare ancora.

Repubblica 29.10.13
Renzi e i democratici: l’immagine non basta
di Marc Lazar


MATTEO Renzi provoca nella sinistra reazioni contrastanti. I suoi adepti sottolineano il talento di comunicatore del sindaco di Firenze.
Tratteggiano la sua originale personalità, l’età e l’attitudine a vincere le prossime elezioni; mentre i suoi avversari, o più semplicemente i dubbiosi, si preoccupano dell’eccesso di personalizzazione e della nebulosità del suo programma, interrogandosi sulle sue capacità di statista.Peraltro, questo tipo di dibattito, lungi dall’essere specificamente italiano, si ripropone ovunque nella sinistra europea al momento di scegliere il proprio leader.
In effetti, in tutti i Paesi dell’Unione europea la democrazia sta vivendo mutazioni analoghe, che poi si declinano in maniera diversa a seconda della storia, delle istituzioni e dei sistemi partitici di ciascuno degli Stati membri. Dovunque si sta affermando quella che Bernard Manin ha definito la “democrazia del pubblico”, caratterizzata dal declino dei partiti (anche se non scompaiono del tutto), dalla disgregazione delle identità e culture politiche tradizionali, dall’aumento della volatilità, dal ruolo crescente dei leader e dall’importanza della televisione, di Internet e delle reti sociali. Altro grande cambiamento: la disaffezione nei confronti delle istituzioni, l’euroscetticismo generalizzato e il rigetto delle élite dirigenti: tutto questo porta a esacerbare i populismi, cavalcati da leader energici e abili. In queste condizioni, la sinistra è confrontata con un problema cruciale: che tipo di leader designare per far fronte a sfide di tale portata?
Una sua parte ritiene indispensabile adattarsi a questa modernizzazione, e accetta una politica di tipo presidenziale, personalizzata e mediatizzata, per non lasciare la piazza ai leader della destra e ai populisti, e soprattutto per vincere il più largamente possibile. Per converso, un’altra parte della sinistra rifiuta di mettersi su questa strada evocando trascorsi storici traumatici — bonapartismo, fascismo, nazismo, stalinismo — e glorificando la cultura collettiva dei partiti. Si richiama al valore dell’uguaglianza, e rivendica un orientamento nettamente radicato a sinistra. Un dilemma è difficile da risolvere, come dimostra l’esperienza di altre realtà che hanno visto emergere due tipi di leader.
In Italia e in Francia, il Pd e il Partito socialista si sono convertiti — anche se con modalità e forme diverse — alle primarie, che mirano a riannodare i legami con settori della società civile, ma comportano al tempo stesso l’accettazione di una politica personalizzata. In entrambi i Paesi, i vincitori delle ultime primarie indette per designare il candidato alla competizione più decisiva hanno omesso di trarre tutte le conseguenze dal loro successo. Dopo aver vinto le primarie del 2011, François Hollande ha adottato un basso profilo, presentandosi come futuro “presidente normale” e cavalcando l’onda della contrarietà a Nicolas Sarkozy. Ma dopo la vittoria risicata nel 2012, la sua concezione del ruolo di capo dello Stato ha indebolito le condizioni dell’esercizio della sua presidenza della Repubblica. Un anno dopo, Pierluigi Bersani ha adottato un atteggiamento analogo, definendosi innanzitutto come un rappresentante della ditta del centrosinistra. Ma quando la vittoria sembrava a portata di mano, ha subito uno scacco fatale. Sia Bersani che Hollande, convinti oltre tutto che il tempo della polarizzazione su un uomo solo – incarnato rispettivamente da Berlusconi e Sarkozy – fosse ormai finito, si sono sforzati di conciliare le due logiche antagoniste della personalizzazione e del partito.
Altri leader sconvolgono deliberatamente le tradizioni e spazzano via i tabù: come Tony Blair, che a 41 anni si è impadronito del Labour accelerando il processo di modernizzazione già avviato dai suoi predecessori: ne ha riformato l’organizzazione, rifondato l’identità e affermato l’autorità, mettendo in campo un suo modo di comunicare e teorizzando, con l’aiuto di Anthony Giddens, la nozione di Terza via. Tre anni dopo ha conquistato il potere, ponendo fine a diciotto anni di sconfitte elettorali laburiste. In Francia, nel 2006 Ségolène Royal ha tentato un’operazione di tipo analogo e si è imposta alle primarie del partito socialista, per candidarsi, nel 2007, alla presidenza della Repubblica. Ma dopo un inizio dirompente, quando i sondaggi nutrivano tutte le sue speranze, è stata sconfitta. Sconfitta, anche a causa delle forti reticenze all’interno stesso del suo schieramento, delle sue continue improvvisazioni, dell’incoerenza delle sue proposte, ma soprattutto grazie al dinamismo del suo avversario, Nicolas Sarkozy. Sia Blair che Royal sono figure di leader innovatori e iconoclasti.
Per Matteo Renzi, che appartiene indubbiamente a quest’ultima categoria, la personalizzazione della politica è un processo irreversibile; e il “popolo della sinistra” è più disponibile ad accettarla nel momento in cui emerge un leader suscettibile di strappare finalmente la vittoria alla destra. Tuttavia – e questa è la lezione della sconfitta di Ségolène Royal – non basta la capacità di vincere, e neppure il semplice desiderio di cambiamento degli elettori, il carisma e le doti di comunicatore. L’immagine certo è fondamentale, ma non garantisce la vittoria. Per vincere, un leader deve convincere – sull’esempio di Blair – il proprio partito, che resta uno strumento indispensabile nelle campagne elettorali. E ciò presuppone, soprattutto per il Pd – questo «partito senza qualità», secondo l’espressione di Mauro Calise – la definizione di un progetto chiaro, e un’identità che il leader – pur cercando di conquistare voti all’esterno – è chiamato a incarnare.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

il Fatto 29.10.13
Caro Matteo Renzi, così non va
di Stefano Feltri


Ormai l’abbiamo capito: Matteo Renzi è giovane, brillante, ambizioso, vincente (anche per mancanza di concorrenza) e dunque piace a tutti, soprattutto ai giornali. Ma non è soltanto un argomento da sondaggio o una fonte di ispirazione per le imitazioni di Maurizio Crozza. Il sindaco di Firenze non deve più solo piacere, deve convincere. Perché, come minimo, è destinato a guidare il Pd, cioè il primo partito italiano. E se non farà troppi errori, ha ottime possibilità di essere il prossimo presidente del Consiglio. Eppure , finora, non è sembrato abbastanza consapevole di ciò che questo comporta. Continua ad affinare slogan e giochi di parole (cambiare verso al Pd per cambiare verso all’Italia per cambiare verso all’Europa) invece che programmi: a un Paese privato di futuro dalla recessione e dall’insipienza delle sue élite offre una speranza effimera, fondata sulla persuasione retorica invece che su idee forti e su una chiara lista di priorità.
Il primo punto del suo programma è dare 100 euro al mese a chi ne guadagna meno di 2.000. Ma come pagare una simile spesa, tra i 10 e i 20 miliardi all’anno? Renzi e i suoi consiglieri assicurano che, una volta arrivati loro a Palazzo Chigi, riusciranno a fare ciò in cui hanno fallito i governi degli ultimi 30 anni: ridurre la spesa pubblica eliminando gli sprechi e tagliando gli incentivi alle imprese. In bocca al lupo. Alla fine si scopre sempre che servono i voti di quelli che vivono di sprechi e che le imprese sussidiate aiutano a pagare le campagne elettorali.
Nel programma per il congresso Renzi celebra pensionati, insegnanti, operai e statali ma alle convention si accompagna al finanziere Davide Serra che licenzierebbe i dipendenti pubblici a migliaia e invita a rimettere in discussione le pensioni di chi non ha pagato abbastanza contributi. Come trovare una sintesi? Ci penso io, assicura il sindaco d’Italia, riuscendo a promettere al contempo troppo e troppo poco. Troppo per essere davvero credibile e troppo poco per farci vedere nelle sue ricette occupazione, imprese, prospettive. Rischia di non offrire abbastanza, insomma, per giustificare l’abbandono del professionismo della sopravvivenza quotidiana di cui Enrico Letta si è dimostrato il massimo interprete.

il Fatto 29.10.13
Leopolda, cento tavoli tra Obama e psichiatri
Nasce il partito-scout
Democrazia partecipata sul modello dei “lupetti”, indiscusso e indiscutibile c’è solo un uomo al comando
di Wanda Marra


Ieri sul palco è salito un bambino che aveva perso i genitori. Sono cambiati i tempi, prima erano i genitori che cercavano i bambini… Ma lui era il figlio di una mia vecchia conoscenza degli scout, che è sempre stata così”. Ecco che nelle ultimissime battute dell’intervento di Matteo Renzi in chiusura della Leopolda 2013 arriva – sia pure en passant – la citazione degli scout. Citazione immancabile, visto che il modo di fare politica dell’ex capo Matteo è intriso di metodologia e filosofia dello scoutismo.
PICCOLO vademecum di base: gli scout si basano sulla condivisione. Si cammina, si gioca, si discute tutti insieme, ma poi il capo è il capo. In un meccanismo gerarchico indiscutibile e indiscusso. E allora, proviamo a leggere così l’esperimento di democrazia partecipata (per dirla alla Fabrizio Barca) di venerdì sera. In platea, al posto delle sedie, sono allestiti cento tavoli. Ciascuno ha il suo, e lo deve riconoscere dal numero. “Scusate, qualcuno ha visto il 94? Io sono riuscita ad arrivare al 68”, si sente chiedere una partecipante dispersa. Un moderatore e un discussant (una sorta di esperto) presentano il tema e poi la parola è lasciata liberamente ai convitati, che si dividono tra quelli invitati a quelli che si presentano di loro sponte. Con domande e proposte.
LA VECCHIA stazione industriale pullula di interventi e di sedie spostate: tutti in cerchio (come dagli scout) ad analizzare un tema. Dal femminicidio, alla legge di stabilità, dalla legge elettorale alle riforme, dagli immancabili social network alla giustizia, all’economia. “Dobbiamo lavorare in rete sul modello di Obama”, diceva serissima una delle moderatrici del tavolo social network, Simona Bonafè. Non senza essere richiamata alla realtà dai partecipanti: “Ma come si fa? Gli iscritti ai circoli del Pd sono in larga maggioranza persone di oltre sessant’anni?”. Ecco il programma: “Dobbiamo fare dei corsi di formazione per gli iscritti”. Rifondazioni democratiche. Poco più in là il tema è di quelli che fanno sorridere molto poco: con la moderazione del parlamentare-avvocato David Ermini si discute di femminicidio, e arrivano sia una psicologa che lavora con gli uomini soggetti di violenza (invitata), che uno psichiatra forense (trovato lì per lì). Non manca l’intervento di chi ha un problema personale enorme e lo pone anche a sproposito: “Mi hanno tolto i miei figli, non è giusto”, si avvicina una donna. Dalla vita vissuta all’architettura istituzionale. Nessuno ci avrebbe mai creduto, ma tra i più affollati c’è il tavolo sulle riforme tenuto dal professore (e pure saggio), Francesco Clementi, che introduce e il deputato Dario Nardella, che modera (e twitta): “@ClementiFparla di poliarchia e monarchia e il tavolo riforme n.56 va in #tilt... Qui sifa sul serio #Leopolda13 @AdessoPartecipo”. Ma no? Oppure: “Il #federalismo varafforzato o cancellato? I dilemmi esistenziali del tavolo #riforme n.56 alla#Leopolda13 @matteorenzi”. Entusiasmo alle stelle: “Quando @ClementiF parla del ‘mantice dei poteri presidenziali’ il tavolo #riforme n.56 si esalta oltre ognilimite dell’umano... #Leopolda13”. Qualche perplessità a un certo punto deve raggiungere anche gli organizzatori. Mentre il lavoro sulle riforme ferve, con domande di tutti i tipi e appunti presi vorticosamente, arriva Marco Agnoletti, portavoce di Renzi, ma sostanzialmente garante di qualsiasi cosa, che chiede al tavolo intero di spostarsi in blocco da un’altra parte. Visi perplessi, nessuno capisce perché. Ma non si ferma il vento con le mani. Ed ecco Nardella che twitta trionfalmente in conclusione: “Tra la magica Roma e #PD non c’è nessuna differenza giuridica, le verità del tavolo #riforme 56 #Leopolda13 @matteorenzi#spingereilcarro”. L’attività dura due ore: dalle 21 alle 23. Poi, i moderato svolgono il loro compito: un report per punti, mandato a Maria Elena Boschi. Base di partenza per un approfondimento successivo, spiega lei. Già si racconta che alla Leopolda dell’anno prossimo i tavoli si rifaranno, con un obiettivo preciso: il programma di governo. Dirigenti avvertiti: il Nazareno sarà raso al suolo e al suo posto ci saranno i tavoli. Il Pd sarà un partito liquido o solido? Un partito scout.

il Fatto 29.10.13
Fidanzato d’Italia. Il pantheon
Gli dei del “nuovo Cabrini”, dagli U2 ai Righeira
di Andrea Scanzi


Qualcuno salvi Matteo Renzi: da se stesso, ma più che altro dalla maledizione del Pantheon dei maestri. Delle guide, dei numi tutelari. Repubblica lo ha definito “fidanzato d’Italia” (come un tempo veniva definito il calciatore Antonio Cabrini) con un articolo di Filippo Ceccarelli. Una gufata di per sé autosufficiente, ma il giornale diretto da Ezio Mauro non si è fermato lì, allestendogli graficamente il consueto Pantheon d’ordinanza. Un’antica abitudine di sinistra, ancor più se giovane o quantomeno giovanilista. Il re dei pantheonisti è stato Walter Veltroni, celebrato sei anni fa a Torino come il condottiero lungamente atteso e poi anzitempo evaporato. I Pantheon di Veltroni erano multitasking e cangianti: ogni volta diversi, ogni volta più grandi. Contenevano tutto e niente, il “forse” e il “ma anche”. Il 27 giugno 2007, dal Lingotto, riuscì a citare in un colpo solo De Gasperi, Ciampi, D’Alema, Bobbio, Gobetti, Primo Levi, Martin Luther King e Olof Palme.
SEI MESI prima, il 20 dicembre 2006, all’interno di una lezione su cosa fosse la politica, mitragliò Chaplin, Kohl, Gorbaciov, Sacco e Vanzetti, Volonté, Redford, i fratelli Kennedy, Foa, Bachelet, Enrico Berlinguer, Zaccagnini, Craxi, Obama, Aung San Suu Kyi, Nelson Mandela, Rigoberta Menchú e Gandhi. Nel 2010, al Corriere della Sera, restrinse il Pantheon ma non l’eterogeneità: Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi, Prodi e soprattutto la nota politologa Agatha Christie. Il Pantheon è polifunzionale. Serve come coperta di Linus e come sublimazione di un’assenza: non avendo programmi e attrattiva, la “sinistra” italiana si affida a chi li aveva. Mescolando più icone possibili, nella speranza che l’elettore venga preso per sfinimento, più inebetito che incantato da un cocktail tanto analcolico quanto mestamente lisergico. Renzi non è meno maanchista di Veltroni, dunque non poteva rimanere insensibile al fascino del Pantheon. Un artificio metaforico che porta una sfiga inaudita; una finzione intellettuale che disinnesca qualsiasi speranza di vittoria elettorale: guai, però, a rinunciarci. Renzi sogna una sinistra così nuova da combaciare definitivamente con la destra, ma non ha ancora capito che quelli di destra non inseguono il feticcio della cultura citazionista: del “far sapere che io so”. Berlusconi ha parlato di Romolo e Remolo, ha dato per viva la famiglia Cervi, ha chiamato Google “Gogol”. Si configura come “capra” di sgarbiana memoria. Eppure se ne frega. E vince le elezioni. Renzi è berlusconiano nell’approccio e nell’ego, oltre che in due ricette politiche su tre, però coltiva ancora la fregola del fighetto di sinistra che deve dimostrare di avere letto Siddharta di Hesse.
PROPRIO come Jovanotti, che puntualmente è uno dei coinquilini del Pantheon renziano. Anche Veltroni ama i musicisti, ma almeno si affida a De André, Gaber e Fossati. Renzi, no: lui ha operato una rottamazione anagrafica a vantaggio dello sdoganamento dei coetanei. Dunque i cantori del quasi-nulla. Dunque Jovanotti. E i Righeira, menzionati nei comizi per ammiccare agli ex yuppies cresciuti con Karina Huff e Vacanze di Natale. Nel confronto per le primarie 2012, su Sky, mentre Bersani esaltava Papa Giovanni XXIII e Vendola Carlo Maria Martini, Renzi sparò Mandela e la blogger tunisina Lina. In un libro si è prefissato di voler andare da De Gasperi agli U2, fermandosi però (giusto per citare Bono Vox) dove le strade non hanno nome. Su Repubblica il Pantheon appariva esondante. Bulimico e confuso. Schizofrenico. Dentro c’era davvero di tutto. Clinton e Blair, i nomi più citati da quelli di destra che vorrebbero passare per sinistra. Mandela e Kennedy. Dante e La Pira. Benigni (non quello del Cioni Mario, si presume). Farinetti, Baricco e Steve Jobs. Bartali, Fosbury e Guardiola, noti filosofi post-contemporanei. Poi Giachetti, Davide Serra e Andrea Guerra. Pensatori deboli, figurine Panini e giganti buttati qua e là per decorare il vuoto. Ogni leader ha i suoi idoli. E ogni Pantheon è una Cassandra.

il Fatto 29.10.13
Il programma col buco intorno
Le promesse di spesa sono molto costose ma le coperture ancora vaghe
Mancano dettagli anche sul lavoro
di Stefano Feltri


Dopo gli slogan, le battute e le ospitate, cosa resta dei tre giorni della Leopolda, la convention di tre giorni di Matteo Renzi? Visto che il sindaco di Firenze è proiettato verso la segreteria del Partito democratico e, un domani non lontano, verso Palazzo Chigi, vale la pena raccontare quale sia il suo programma economico. Non è facile, perché a parole Renzi è più generoso con le immagini evocative che con i numeri. Ma ci sono ormai diverse fonti per capire in che direzione si muove: il discorso conclusivo della Leopolda, la puntata di Otto e mezzo di venerdì, il documento congressuale “Cambiare verso” con cui si candida alla segreteria, l’intervista al Corriere della Sera del 18 ottobre e, soprattutto, i materiali preparati dal deputato Pd Yoram Gutgeld, cervello economico del renzismo che coordina la rete di consulenti che stanno dando il proprio contributo alla elaborazione di una linea economica definita. Tra un paio di settimane il programma di Gutgeld, ex consulente aziendale della McKinsey, diventerà un libro, di cui si parlerà parecchio.
Ecco quindi, per punti, una sintesi della Renzinomics così come la conosciamo per ora. Molti punti sono ancora da definire: il sindaco promette di spiegare bene cosa vuole fare per il lavoro e la disoccupazione entro il primo maggio (data non vicinissima) e non ha mai fornito dettagli su quale parte della spesa pubblica intenda sacrificare per realizzare i suoi costosi obiettivi, primo fra tutti quello di tagliare l’Irpef di 100 euro a chi ne guadagna meno di 2.000 netti al mese.

il Fatto 29.10.13
Firenze, polemica sulla realizzazione del cimitero dei feti


A FIRENZE intanto scoppia la polemica per l’imminente approvazione “del nuovo regolamento dei cimiteri: Palazzo Vecchio prevederà e istituzionalizzerà la sepoltura per i feti abortiti, con tanto di dimensioni e spazi previsti”, denuncia il consigliere dell’opposizione di sinistra Tommaso Grassi. “La sola creazione di un cimitero per i feti regolamentata – spiega Grassi – non è solo un perverso scivolamento verso il macabro: il dolore materno o paterno di compiangere un figlio mancato attiene solo a un’intangibile sfera personale a cui si deve assicurare il rispetto pieno dei propri tempi e modi di elaborazione. Viceversa, l’istituzionalizzazione della sepoltura dei feti con un luogo pubblico è un salto che travalica la dimensione personale: l’equiparazione dei feti a cittadini che sono stati e non ci sono più”.

il Fatto 29.10.13
Il futuro secondo Matteo
risponde  Furio Colombo


CARO COLOMBO, ti eri irritato con il Renzi Rottamatore. Non credi che, dopo la Leopolda III, si possa accettare e sostenere il Renzi innovatore?
Adele

SONO TORNATO da un breve viaggio all'estero, il giorno (domenica) in cui Matteo Renzi, in un “bagno di folla”, ha presentato “il discorso programmatico”, e poiché tutte le reti televisive lo hanno mandato in onda ciascuna una ventina di volte, ho l'impressione di sapere tutto. Ditemi voi se mi sbaglio. Primo, di Berlusconi non parla, perché lui, (Renzi) giustamente, guarda al futuro. Però, non ci avevano insegnato, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, che se non fai i conti col passato non puoi capire e affrontare il futuro? Berlusconi è ancora lì, è dentro tutto, agita tutto, cambia e sommuove tutto. Che gioco è far finta che il problema non esista? Posso ricordare a Renzi che “smetterla di parlare di Berlusconi” era il pressante ammonimento di D'Alema (per esempio a quelli di noi che dirigevano l'Unità)? Alcuni di noi non hanno mai smesso di elencare i reati del giorno (e i giudici, per fortuna, di investigare). Però è stata un'infima minoranza. In questo stesso periodo (vent'anni) tutti (tutti) i media hanno taciuto, tutti (tutti) i titolari di grandi rubriche e programmi hanno taciuto, e anche preso per buone le vanterie del governo che ha liquidato l'Italia. A lui è andata bene (salvo i giudici). E per vent’anni, in un modo o nell’altro, ha governato. Al Pds, Ds, Pd? Secondo, mai più “larghe intese”. Progetto da sottoscrivere subito, anche perché continuiamo a non sapere perché ci sono le più strane “grandi intese” del mondo (la controparte possiede un suo strano e accettato diritto di veto), non c'è stato e non sembra poter esserci alcun risultato, salvo le buone maniere di Enrico Letta. Ma subito dopo il nostro Renzi aggiunge che dobbiamo porre mano, al più presto e insieme, alla riforma della Giustizia. Davvero Renzi pensa che si possano discutere i problemi della giustizia con l'imputato? Per un ragazzo realistico e semplice come Renzi, è una pretesa ovviamente non realistica. Terzo, dice Renzi con una bella frase-slogan: “Una sinistra che non cambia diventa destra”. Guardiamoci intorno. I laburisti di Blair sono cambiati e hanno fatto la guerra. I socialisti di Hollande sono cambiati e danno la caccia agli zingari. Obama invece non è cambiato, tiene duro con la sua riforma sanitaria anche se gli avversari (che lui non esita a indicare come il pericolo per la sopravvivenza del suo Paese) sono senza scrupoli. Propongo un piccolo gioco finale per il sindaco allegro. Proviamo a cambiare slogan: “Una sinistra che non è più sinistra diventa destra”. Non suona meglio?

Corriere 29.10.13
Larghe intese, attacca anche Cuperlo
Legge elettorale, sfuma l’ipotesi di un’intesa prima della Consulta

di M. Gu.

ROMA — Quel che pensa di Matteo Renzi, Gianni Cuperlo lo dice con l’aneddoto dei due registi: «Io apprezzo i film del mio giovane collega, dice il più anziano, ma non riesco a vederli perché c’è sempre lui davanti...». Un modo per dire che il candidato ex ds alle primarie del Pd non ha capito quale modello di partito abbia in mente il sindaco, al quale però riconosce coraggio e popolarità. Il suo limite è di essere troppo «protagonista» e di non cogliere l’occasione del congresso per raccontare la sua idea di Paese. Tre giorni di kermesse alla Leopolda non sono bastati? Per Cuperlo no, il messaggio di Renzi gli sfugge.
La sfida per il Nazareno è iniziata. Renzi è largamente in testa, ma Cuperlo resiste. Il primo dice «mai più larghe intese»? E il secondo assicura, a Repubblica,it, che «il governo Letta è una parentesi». I renziani scalpitano, per loro la battaglia è tra il vecchio e il nuovo, tra la sinistra che fu e quella che sarà. «Le critiche a Matteo vengono dalla parte più conservatrice del partito, quella che pensa di avere il brevetto depositato dei valori della sinistra» attacca Angelo Rughetti. Nel mirino dei «nuovisti» c’è Stefano Fassina, il viceministro che ha inviato a Renzi una missiva sferzante: «Caro Matteo, l’insieme delle tue coraggiose proposte ha una rilevanza finanziaria pari a zero... Il caterpillar è andato fuori strada e si è cappottato». E Beppe Fioroni insinua che Renzi parli con Letta come il medico con il paziente: «La sua malattia è gravissima, ma lei stia tranquillo che guarirà... Mente sapendo di mentire!». Lo scontro politico su chi sarà il successore di Epifani si infiamma, il caso del tesseramento gonfiato e dei «pacchetti» di iscritti rischia di esplodere. E Davide Zoggia lancia un appello a tutte le aree: «I tesseramenti siano singoli e non collettivi, perché è chiaro che se vanno in 100 o 200 c’è qualcosa che non va». Bisogna rispettare le regole, avverte il capo dell’organizzazione: «Non scherziamo, non stiamo giocando con le figurine». Epifani ha ordinato «controlli stringenti» a tappeto e per ora, dicono dal Nazareno, tutto procede in maniera regolare. Tranne qualche (vistosa) eccezione. A Enna è un caso la vittoria di Vladimiro Crisafulli, eletto segretario provinciale nonostante alle politiche fosse stato ritenuto incandidabile. Alla Leopolda il regista Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, ha strappato ovazioni accostando il suo nome a quello di un boss mafioso. E l’ex senatore risponde con le carte bollate: «Lo querelo, ha detto cose false». Crisafulli voterà Cuperlo, il quale però prende distanze: «Io avrei fatto una scelta diversa». Si litiga anche sui numeri dei congressi. «In 45 province su 74 è avanti Cuperlo» fanno di conto al comitato, ma i renziani assicurano che il sindaco è largamente in vantaggio. E oggi, a Roma, apre il «loft» di Renzi. Lui è nella Capitale, ma all’inaugurazione del comitato, in via dei Pianellari, il segretario in pectore non è atteso. Al centro della battaglia per il Nazareno c’è anche la legge elettorale. Dopo l’affondo di Renzi contro il proporzionale, dal Senato arriva lo stop del Pd al cosiddetto «pillolario», la bozza di accordo con il Pdl raggiunta grazie alla mediazione di Anna Finocchiaro. «Il Pd deve ripartire dal doppio turno», ferma i giochi il capogruppo Luigi Zanda e Cuperlo concorda: «Bene, ora facciamo in fretta». Ma i tempi sono strettissimi ed è molto probabile che la sentenza della Consulta sul «porcellum» arrivi prima che i partiti abbiano trovato un’intesa. Ma secondo Cuperlo una via per agganciare il Pdl c’è: il doppio turno di coalizione.

il Fatto 29.10.13
Prof a convegno Riformatorio
Nuova scusa: violano la Carta a causa del Porcellum
di Sif


In tour a Milano – l’occasione è un convegno in Statale – si ritrovano ben quattro membri del dream team di costituzionalisti, i saggi per le riforme. Assente il ministro che nelle ultime settimane si è segnalato per aver chiarito che “se ci sarà un’amnistia deve valere anche per Berlusconi”: il professor Quagliariello, trattenuto a Roma, invia un messaggio all’uditorio. “Le larghe intese sono state l’esito obbligato per un Paese che, nel pieno di una crisi economica senza precedenti, si è trovato a un passo dalla crisi istituzionale”. Ma “questa è una situazione eccezionale” non può durare all'infinito. Perché ciò avvenga cambiare la legge elettorale è certamente necessario ma non sufficiente. C’è bisogno di istituzioni più efficienti, di uno Stato più autorevole, di una giustizia più giusta”. Tocca dunque all’onorevole e saggio Luciano Violante spiegare alcuni dettagli. Tipo la “deroga” all’articolo 138 della Carta - norma sentinella e secondo molti nient’affatto derogabile . “La maggioranza attualmente ha i due terzi dei seggi sia alla Camera che al Senato, quindi basterebbero per far passare modifiche della Costituzione senza il voto popolare. La modifica dell'articolo 138 vuole fare in modo che i cittadini si possano comunque pronunciare tramite referendum”. Capito? È l’uovo di Colombo: invece di cambiare una legge elettorale che a breve verrà marchiata con il bollino blu dell’incostituzionalità dalla Consulta, si mette mano al 138. Un porcellum tira l’altro. Segue una filippica sul Titolo V della Carta (modificato nel 2001, alla fine della legislatura in cui Violante era presidente della Camera) e sulla crisi del principio di legalità, “dovuta all’imprevedibilità delle conseguenze”. E qui bisogna contraddire il saggio, perché tra indulti, indultini e amnistie le conseguenze, a proposito del principio di legalità, sono tutt’altro che imprevedibili.
Dopo Violante, è il turno di Violini, nel senso di Lorenza, costituzionalista milanese, coinvolta nell’inchiesta sui concorsi universitari truccati. Preceduta da una presentazione entusiasta perché la Commissione dei 35 saggi conta un buon numero di donne (o un numero di donne “buone”, considerando che i due membri dimissionari sono Lorenza Carlassare e Nadia Urbinati), la professoressa inizia dichiarando che “è necessario rafforzare la percezione dell’utilità delle riforme”. Senza naturalmente interrogarsi sul perché gli unici cittadini che si sono fatti sentire sono quelli contro questa riforma.
Ma qual è la funzione della commissione? Siccome ai più era forse sfuggito, val la pena riportare la risposta. Sono dei “facilitatori”, parola un po’ naïf – tipo “utilizzatore finale” e agibilità politica – che significa un ruolo di supporto al lavoro di chi dovrà fare le riforme. Insomma, i facilitatori in soccorso dei legislatori. Sulla “missione facilitatrice” si soffermano anche altri due relatori, Nicolò Zanon e Valerio Onida che però ha qualcosa da ridire sulla parola “saggi”: troppa enfasi da parte dei media, colpevoli di un “linguaggio deteriorato”. Dispiaciuto per l’assenza di Quagliariello (“anche per dargli atto di aspetti positivi della sua azione”), Onida ha spiegato che il loro merito è stato avere messo insieme le possibili proposte in modo pacato. Aggettivo che invece non s’addice particolarmente all’unico intervento che strappa più di un lungo applauso. Tra il pubblico c’è un coetaneo del presidente della Repubblica, Sergio Rufoni: “Sono un giovanotto di 88 anni, deportato a 18 nei campi di concentramento”. Parla della Costituzione “violata, calpestata e mai applicata”, degli 8 milioni di affamati che vengono ignorati, degli stipendi d’oro della politica, dell’“indefinibile” che ha “sgovernato” l’Italia, cita Gramsci e Scelba. E due volte avverte: “Compagno Violante ti conosco bene”. Gli sarà venuto in mente quel famoso intervento alla Camera, quando nel 2002 Violante ricordò che al Cavaliere era stato garantito che le tv non sarebbero state toccate, spiegando perché fosse infondata l’accusa di regime da parte dei futuri amici delle larghe intese: “Non abbiamo fatto la legge sul conflitto d’interessi e abbiamo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni”. 

La Stampa 29.10.13
In Trentino Alto Adige i grillini perdono 3 voti su 4
Crollo anche di Pdl e Lega. Pd primo partito a Trento con il 22 per cento
di Francesca Schianchi


ROMA La Svp vince in Alto Adige, ma, per la prima volta, non riesce a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. Va male il centrodestra, così come in Trentino, dove stravince il candidato presidente della coalizione di centrosinistra, il Pd è il primo partito e il Movimento Cinque stelle perde quasi tre voti su quattro rispetto a quelli presi per entrare alla Camera a febbraio. Iniziato lo spoglio ieri alle sette del mattino, a metà pomeriggio è possibile fare un bilancio delle elezioni che si sono tenute domeni-
ca per rinnovare i consigli provinciali di Trentino e Alto Adige, che insieme formeranno il consiglio regionale. Un appuntamento segnato, soprattutto in Trentino, dall’astensione: 62,81% di votanti, cioè il 10,32% in meno rispetto alle provinciali del 2008. Più contenuto il calo nella provincia “cugina”: 2,4%.
A Trento e dintorni si chiude l’era Dellai (eletto deputato con Scelta civica) e viene eletto Ugo Rossi, assessore alla salute e alle politiche sociali, con il 58,12%, sostenuto dalla coalizione di centrosinistra autonomista uscente. Il Pd è il primo partito col 22,07%, seguito da un clamoroso exploit del Patt (Partito autonomista trentino tirolese), che porta a casa il 17,55%, quando cinque anni fa era all’8%. Mentre il M5S, qui al suo primo test delle provinciali, si ferma molto prima del 20,76% con cui bussò a febbraio alla porta di Montecitorio: 5,84% (5,72 il candidato presidente Degasperi). Risultato che, però, Beppe Grillo definisce comunque “straordinario” perché «finalmente abbiamo anche un nostro eletto in Consiglio». Lo avrà anche a Bolzano, «siamo entrati anche in Alto Adige, vi rendete conto?», si compiace.
Dalle parti di Bolzano, finisce la lunghissima presidenza Durnwalder e succederà il compagno di partito Arno Kompatscher (dovranno essere i consiglieri eletti a votare il presidente). Da segnalare il tracollo della rappresentanza italiana: saranno solo cinque i consiglieri, con un solo assessore provinciale di lingua italiana. La Svp vince ma perde la maggioranza assoluta dei seggi: i voti in uscita vanno verso i partiti di destra di lingua tedesca, Die Freiheitlichen e la Suedtiroler Freiheit della pasionaria separatista Eva Klotz. Mentre quasi scompare il centrodestra di lingua italiana: Forza Italia più Lega si fermano al 2,5%. «Un risultato sconfortante, abbiamo pagato le divisioni all’interno del centrodestra», valuta la fedelissima berlusconiana Michaela Biancofiore, coordinatrice regiona-
le di Forza Italia. Che sottolinea di aver ricevuto «almeno cinque preferenze» in ogni sezione, pur non essendo candidata. «Io sto all’Alto Adige come Berlusconi sta all’Italia, ringrazio coloro che hanno espresso la preferenza per me ma non mi posso candidare ogni volta». Non riesce ad approfittare del crollo dei berlusconiani e della Lega il Pd, che con il 6,7% incrementa solo dello 0,7% il risultato del 2008. Un bottino comunque, sia a Trento che a Bolzano, con «un segno positivo – si accontenta il segretario Epifani che conferma il buon governo finora realizzato dalle amministrazioni».

Corriere 29.10.13
L’amazzone sconfitta: mancava il nome Silvio

Biancofiore prima del voto aveva scomodato De Gasperi: questa terra è un laboratorio
di Fabrizio Roncone


La sintesi, certe volte, è tutto.
«Sono nel bel mezzo del casino. Sentiamoci dopo, per favore».
Dopo, però, la situazione addirittura peggiorerà: per il Pdl — precipitato giù nel crepaccio dei dati finali — e soprattutto per lei, Michaela Biancofiore da Bolzano, 44 anni, capelli biondi e lisci, coordinatrice regionale del Trentino Alto Adige e tra le azzurre deputate amazzoni certamente quella preferita dal Cavaliere, che un giorno, ad Arcore, in vena di romanticherie, le regalò persino un magnifico anello di brillanti (vista la tempra di Francesca Pascale, nuova regina di Palazzo Grazioli, prudentemente portato all’anulare della mano destra).
Ad Andalo, venerdì sera, le ultime parole famose della Biancofiore sono state queste: «Il Trentino Alto Adige è un laboratorio che ha dato vita ad Alcide De Gasperi». Scomodato lo statista democristiano, per giustificare quelle bandiere che nel gelo sventolavano con su scritto: «Forza Trentino». Esperimento, fallito, di tramutare Forza Italia in simbolo territoriale.
Quello del vessillo, comunque, non è stato l’unico esperimento di questa tornata elettorale abbastanza memorabile.
Perché a un certo punto, nella scorsa primavera, la Biancofiore volle togliersi il capriccetto (politico) di nominare come commissario provinciale del Pdl altoatesino un ragazzo. Proprio così. Un ragazzo di 19 anni: Alessandro Bertoldi detto Berto, all’epoca ancora indaffarato con gli esami di maturità (frequentava l’istituto «Marie Curie» di Pergine Valsugana) ma anche già sfrontato e determinato a imitare il suo idolo — «Voglio essere il nuovo Silvio», da un’intervista a Marianna Aprile del settimanale Oggi ) — quindi già con la giacca blu di una taglia più grande esattamente come le porta Berlusconi e pure lui, in certe foto, con il sorriso un po’ fisso, senza cerone ma stranamente abbronzato.
Il ragazzo si esibì subito in un paio di uscite ragguardevoli. «I tedeschi sono dei pidocchi ripuliti». «Sono da sempre impegnato per la causa della liberazione di Cuba dal castrismo-comunista» (quest’ultima consegnata agli elettori del Pdl sulla sua pagina Facebook e sul suo strepitoso sito: «Aleberto.wordpress.com»).
La «tata» (copyright Gian Antonio Stella) si accorse allora che da sola non sarebbe riuscita a controllare tanto facilmente il baby commissario: meglio perciò affidarlo alle cure di sua sorella, Antonella Biancofiore, preside delle «Marcelline» e anche improvvisamente tutor, qualcosa di simile, scrisse il quotidiano Aldo Adige , «alla signorina Rottenmeier di Heidi».
Intanto, la campagna elettorale del Pdl andava avanti. Con altri incidenti.
Il primo: Michaela Biancofiore — appena arrivata come sottosegretario al ministero delle Pari Opportunità — si esibisce in un paio di dichiarazioni che il suo pupillo Berto avrà pensato: perché io con il tutor, e lei no?
«I gay sono una casta». «I gay si ghettizzano da soli».
Letta la punisce spostandola al ministero della Pubblica amministrazione, ma l’amazzone rilancia: «Vabbé: comunque anche papa Francesco la pensa come me».
Seguono baruffe varie. Che, però, non distraggono troppo la Biancofiore. Anzi: con la tenacia che le va riconosciuta, batte valli e rifugi, entri in una baita e puoi trovarla che cerca di convincere a votare per il Pdl due pastori. Il guaio è che il Pdl è nelle condizioni che sappiamo, e lì, poi, ha pure cambiato nome.
«In più — la Biancofiore è di parola ed ecco che a sera arriva qualche sua riflessione sulla sconfitta — dobbiamo tener conto di due cose: il logo Berlusconi non si è visto e sappiamo che lui, da solo, vale dieci punti. Poi c’è da dire che molti elettori mi confessavano di non avere più tanta fiducia in un partito, il Pdl, il cui segretario, cioè Alfano, ha accettato che la sottoscritta fosse destituita da sottosegretario in quanto considerata troppo berlusconiana» (perché, nel frattempo, è successo pure questo: quando ministri e sottosegretari del Pdl, qualche settimana fa, si sono dimessi dal governo, Letta ha respinto tutte le lettere tranne una: quella, appunto, della Biancofiore).
Meglio chiudere con una foto. L’ha postata, pochi giorni fa, sul suo profilo Facebook.
C’è lei, la Biancofiore, con un cerbiatto bianco.
«Questa sono io. Un politico diverso. Che ama le persone, gli animali, la vita vera».

Repubblica 29.10.13
La nuova cortina di ferro
Se Putin sogna il ritorno dell’ Urss
di Nicola Lombardozzi


L’Ucraina si avvicina alla Ue. E la Russia alza il filo spinato sul confine. Ma con le altre Repubbliche dell’impero torna la voglia di Urss
La polizia russa ha iniziato a issare duemila chilometri di filo spinato al confine con l’Ucraina.
Il primo passo per un nuovo muro d’Europa: una ritorsione per l’imminente patto di associazione tra Kiev e l’Ue.
Dalla Moldavia all’Armenia, Mosca è decisa a ristabilire la sua area d’influenza sulle ex repubbliche
satelliti e ad arginare l’espansione di Bruxelles. Chi tradisce rischia pesanti ritorsioni commerciali

MOSCA Tatiana Polinina, contadina settantenne, arrivata come ogni mattina con la sua bicicletta dipinta di bianco, ha subito pensato a uno scherzo. Poi si è guardata attorno e si è spaventata: «Non sarà mica scoppiata la guerra?». I ragazzi in tuta mimetica che si stavano dando da fare con martelli e tenaglie si sono fatti una bella risata, le hanno detto gentilmente di tornarsene a casa e hanno ripreso il loro lavoro: stendere una lunga barriera di filo spinato proprio in mezzo ai sentieri di campagna che la signora Tatiana percorre da trent’anni in tutte le stagioni. Proprio da lì, nella regione di Lugansk, in Ucraina meridionale, passa un confine che nessuno ha mai preso sul serio, tra due nazioni da sempre sorelle. Ieri la Russia ha cominciato a tracciarlo fisicamente, imponendo blocchi e check point. Il primo passo per un piccolo, nuovo muro d’Europa che recingerà oltre duemila chilometri di frontiera tra la Russia di Putin e i paesi in qualche modo vicini alla Ue.
Un programma non annunciato né tantomeno spiegato dalle autorità russe anche se le successive dichiarazioni del ministero degli Esteri, Sergej Lavrov, non lasciano spazio a equivoci.
«L’Ucraina ha deciso di firmare il 28 novembre un patto di associazione con l’Unione europea? E allora i nostri rapporti cambieranno anche da un punto di vista tecnico» ha detto Lavrov. Ritorsione? Ne ha tutta l’aria ma serve soprattutto da esempio per gli altri protagonisti di una lunga guerra invisibile tra gli interessi di Mosca decisa a ristabilire la sua area di influenza sul maggior numero possibile di paesi dell’ex Unione Sovietica e quelli dell’Unione europea e della Nato che puntano a conquistare mercati, e magari basi militari, in territori un tempo impensabili. Dalla Moldavia all’Armenia, passando per il ricchissimo Azerbaijan, fino alla tormentata Georgia, è tutto un Risiko senza carri armati fatto di minacce e lusinghe, di tradimenti e di spregiudicati giochi al rialzo che fondono insieme politica ed economia.
Sarà difficile da spiegare alla signora Tatiana che ieri se n’è tornata in lacrime al suo villaggio di Dmitrovniki e ha cominciato a interrogare amici e parenti: «Ma in fondo al sentiero c’è la Russia? Dove sta mia figlia con i miei nipoti, è Russia o Ucraina? Voi lo sapete? E le uova e il latte che vendevo al mercato, adesso dove le vendo?». Le hanno spiegato che i due Paesi restano quasi amici. Che le basterà andare a cercare il varco di frontiera con un giro di 40 chilometri. Non potrà forse portare merci ma il transito è garantito. Almeno fino a quando non saranno approvate le proposte che sempre Lavrov ha lanciato ieri sera «sulla necessità di rendere obbligatorio il passaporto per il passaggio dei cittadini». Tutta presa dal cercare qualcuno che la accompagni in macchina dalla figlia, Tatiana non se ne cura, ma il filo spinato che comincia a scorrere tra Ucraina e Russia crea già i suoi grossi problemi. Problemi personali. Perché la regione di Lugansk è russofona, popolata a lungo dai cosacchi dello zar, e abitata da famiglie che non si sono mai curate di distinguere la loro nazionalità spargendosi sul territorio solo seguendo la pista dei terreni fertili e delle opportunità di lavoro. Ma anche problemi economici perché lo scambio di piccoli commerci tra le popolazioni contadine è già di fatto bloccato. E andrà peggio per i trasporti delle merci industriali a cominciare da quelli della vicina fabbrica di locomotive Luhanskteplovoz, antico orgoglio dell’Urss, che ha quasi tutti clienti russi e che adesso, sempre secondo Lavrov, «dovrà sottostare a tariffe doganali maggiorate per paesi che hanno fatto la scelta di non aderire alle nostre proposte».
Per provare a capirci qualcosa, bisogna tornare alla disgregazione dell’Unione Sovietica nel 1991 e alla nascita di quel guscio vuoto che si chiama Comunità degli Stati Indipendenti tra 11 delle 15 repubbliche di un tempo.
Non riuscendo a mettere d’accordo tutti sulla realizzazione di un mercato comune Putin ha creato un organismo a parte, un’unione doganale con le economie più promettenti. Per il momento insieme alla Russia vi aderiscono la Bielorussia del dittatore Lukashenko e il Kazakhstan dell’ex presidente sovietico Nazarbaev. Per allargare sempre più la rete e per arginare l’espansione della Ue che intanto si è “presa” gli ex Paesi comunisti del Patto di Varsavia e le tre repubbliche sovietiche del Baltico (Estonia, Lituania e Lettonia), Putin ha corteggiato soprattutto l’Ucraina. Paese gemello, che si considera la prima Russia nata a Kiev nell’882 e che è sempre rimasta la più legata alla Russia. È stata una lunga partita. Che sembrava persa nel 2004 dopo la Rivoluzione arancione e la svolta democratica filo occidentale. E che sembrò invece vinta a mani basse nel2-010, con l’economia ucraina messa in crisi dai tagli del gas russo e con la vittoria elettorale dell’attuale presidente Janukovic dichiaratamente amico della Russia e persecutore della nemica comune Yiulia Tymoshenko rinchiusa in carcere senza prove serie.
Ma in guerra, anche se solo commerciale, gli amici possono cambiare idea. Per tre anni Yanukovich ha giocato sul filodel rasoio ascoltando le proposte dell’uno e dell’altro fronte. Poi, in estate ha deciso:l’Ucraina firmerà l’associazione alla Ue, primo passo verso l’adesione. Rifiuta cortesemente l’unione doganale offerta da Mosca e se ne va dall’altra parte del mondo.
La reazione di Mosca ricalca il vecchio stile di una volta. Subito scatta la “Guerra del Cioccolato” che ha bloccato l’ingresso inRussia dei cioccolatini “Rochen”, vanto dell’industria dolciaria ucraina e amatissimi dai russi. Proseguita bloccando alla frontiera tutti i prodotti ucraini per non meglio precisati controlli di qualità che hanno fatto perdere a Kiev due miliardi di dollari in un mese. E la rappresaglia si è estesa anche agli alleati dei “traditori”. La Lituania, rea di aver sponsorizzato l’Ucraina e di ospitare, in quanto presidente di turno Ue, la firma dell’accordo di novembre, sta subendo da tre settimane la “Guerra del Formaggio”, con il blocco di tutti i suoi prodotti caseari destinati alle tavole russe.
Strategie usate a profusione in questi anni. Qualcuno cede come l’Armenia che ai primi sentori di una “Guerra delBrandy”che produce in grandi quantità ha deciso di aderire entro l’anno all’unione doganale di Putin. Altri meno. La Georgia subì la “Guerra dell’Acqua minerale” bandita prima che le sanzioni contro il governo filo americano di Saakashvili portassero al conflitto armato vero eproprio. Adesso che a Tblisi c’èun governo amico di Mosca, l’acqua minerale e il vino georgiano sono tornati nei supermercati e molti lo vedono come segnale di accordi futuri.
E la mappa europea dell’ex Urss continua a cambiare colori. La povera Moldova continua a spingere per l’Europa ma è terrorizzata da una “Guerra del Vino” che la stroncherebbe. Il ricco Azerbaijan sembra invece perduto in nome di un amicizia con la Ue che stranamente nondenuncia le clamorose violazioni dei diritti umani compiute dall’eterno presidente Alijev.
Mosse disinvolte e, a volte un po’ ciniche, che potrebbero ancora cambiare le sorti della partita. Perfino sull’Ucraina il Cremlino ha ancora qualche residua speranza di capovolgere la partita. Potrebbe, dicono, giocarsi la carta del gas, bloccando forniture che metterebbero inginocchio il Paese. Yanukovich però appare spavaldo. Dice chel’Europa potrebbe offrigli il gas a prezzi ugualmente accettabili e si basa, forse, su accordi non conosciuti. Inoltre si prepara a liberare la Tymoshenko per far contenta la Ue e risponde senza batter ciglio alla mossa russa disegnare il confine: «Collaboreremo anche noi. È giusto chiudere le frontiere ». Intanto, nelle campagne intorno a Dmitrovniki, Tatiana Polinina cercaqualcuno che la porti al di là delfilo spinato.

Repubblica 29.10.13
Un’altra cortina di ferro nel Risiko del Cremlino
di Paolo Garimberti


Proviamo a parafrasare lo storico discorso sulla nascita della «cortina di ferro», che Winston Churchill pronunciò a Fulton, nel Missouri, il 5 marzo 1946. E forse riusciremo a descrivere come, e soprattutto con quali maniere, Vladimir Putin sta cercando di realizzare il suo vecchio sogno di ricreare sulle carta geopolitica la vecchia Unione Sovietica. «Dall’Ucraina all’Abkhazia una cortina di ferro sta scendendo attraverso l’ex Urss», direbbe oggi un redivivo Churchill. Quasi tutte le ex repubbliche sovietiche «giacciono in quella che devo chiamare sfera russa (sovietica, nell’originale)) e sono tutte soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza russa (sovietica) ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo di Mosca».
Perfetto. Invece che in verticale («da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico», disse Churchill a Fulton) il filo spinato va grosso modo in orizzontale, tra l’Ucraina meridionale, là dove si parla e si scrive quasi soltanto russo, e l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, le due province russe all’interno del territorio georgiano. Invece che dividere in due l’Europa, stavolta la cortina di ferro separa, tra i leader post-sovietici, quelli che piacciono a Putin, perché gli osservano obbedienza e dimostrano ossequio, da quelli che non gli piacciono.
CL’INDIPENDENZADalla he sono poi quelli che mostrano di preferire l’Unione europea all’Unione economica euroasiatica che il nuovo zar sta mettendo in piedi con il sostegno della Bielorussia e del Kazakhstan, cioè il tiranno Lukashenko e l’autocrate Nazarbaev.
È da tempo che Mosca sta facendo di tutto, usando alternativamente il bastone e la carota, per dissuadere tre ex repubbliche sovietiche — Moldavia, Armenia e soprattutto Ucraina — da firmare un accordo di commercio e cooperazione con l’Unione europea e convincerle invece ad aderire all’Unione euroasiatica. L’Armenia ha finito per cedere e un mese fa ha aderito alla creatura di Putin. La Moldavia per ora regge. Ma la vera partita si gioca con Kiev, per ovvie ragioni di dimensioni, di storia, di interessi economici e di prestigio.
A dire il vero Viktor Yanukovich, il leader ucraino eletto nel 2010, è assai più vicino, e più simile, a Putin di quanto lo fossero i suoi predecessori, portati al potere dalla Rivoluzione Arancione del 2004. L’autoritarismo del presidente ucraino definito “soft” nei primi anni è diventato sempre più “hard” e il suo programma anticorruzione si è concentrato soprattutto sull’opposizione. A cominciare dall’ex premier Yiulia Tymoshenko, che resta in carcere nonostante le richieste della Ue che venga rilasciata e affidata a un paese terzo per ricevere le cure mediche di cui ha urgente necessità.
La reticenza di Yanukovich alle pressioni di Bruxelles pone la Ue di fronte a un dilemma molto serio: gli interessi geopolitici, o se più aggrada la brutale Realpolitik, devono prevalere nei confronti di un Paese che non si uniforma ai valori dell’Unione? L’alternativa, però, è che l’Ucraina, per non finire economicamente strozzata, decida di aderire all’Unione euroasiatica di Putin. Il vecchio Henry Kissinger non avrebbe dubbi: turiamoci il naso e facciamo entrare l’Ucraina in Europa.
Tanto più che in questo Risiko assai complicato c’è in gioco anche un’altra ex repubblica sovietica che ha appena sotterrato un’altra rivoluzione di colorate speranze, quella delle Rose. La vittoria nelle elezioni presidenziali di uno sconosciuto filosofo, Georgij Margvelashvili, è in realtà la fine della linea filo-americana di Mikhail Saakashvili (che lo portò a una sciagurata guerra con la Russia nel 2008) e il successo del primo ministro in carica, l’enigmatico miliardario Bidzina Ivanishvili. Il quale tra Putin e Obama ha, con grande pragmatismo, scelto il primo con questa realistica dichiarazione: «Non si può cambiare la Russia: è meglio lavorare su noi stessi e lavorare con la Russia così come è». Chi aveva detto «se non puoi batterli, unisciti a loro»?
In questo magmatico quadro di relazioni tra ex inquilini dello stesso palazzo riemergono vecchie tensioni e rivalità dell’era sovietica. I russi non hanno mai amato i georgiani, tanto che hanno considerato Stalin solo un male minore rispetto a Hitler, ma non il padre dei popoli che proponeva la propaganda. L’Ucraina ha dominato per decenni le alte gerarchie del Pcus sovietico, creando nel dopo Stalin feroci rivalità tra la “linea dinastica” russa e quella ucraina. Lo stesso Nikita Krusciov si era formato in Ucraina, dove era stato a lungo primo segretario del partito. Nella trojka che lo fece fuori e lo sostituì al potere c’erano due ucraini (Leonid Breznev era di Dniprodzerzhinsk e Nikolaj Podgorny di Karlivka) e un solo russo (Kossighin, che era di Leningrado, oggi San Pietroburgo). E a completare questa saga di vecchi veleni e nuove rivincite c’è il fatto che l’accordo tra l’Ucraina e la Ue dovrebbe essere firmato a Vilnius, la capitale di una delle tre repubbliche baltiche che Mosca soggiogò per decenni e che furono tra le prime a scappare dalle macerie dell’Urss per rifugiarsi nell’Unione europea.
Questi corsi e ricorsi della storia accrescono l’ira funesta di Putin. Che si abbatte implacabile sui dissidenti, siano essi Stati o individui. Sabato è uscita sul Financial Times un’intervista (scritta e ottenuta attraverso i suoi avvocati) all’ex oligarca Mikhail Khodorkovskij per il decimo anniversario del suo arresto. Un documento agghiacciante nella descrizioni delle condizioni di detenzione nel campo di lavori forzati in Karelia, dove attualmente “soggiorna”. Il quotidiano inglese l’ha intitolata “Un giorno nella vita di Khodorkovskij”. Riproponendo il titolo del primo lavoro di Aleksandr Solgenitsyn, che svelò come era la vita nei lager sovietici (Un giorno nella vita di Ivan Denisovic). Ma forse a Putin questo titolo non è dispiaciuto. In fondo dimostra chela resurrezione dell’Urss gli sta riuscendo bene.

Repubblica 29.10.13
Archeo horror
Così duemila anni fa nacquero zombie e vampiri
Il libro di Flegonte è un campionario di tutte le creature mostruose messe in scena dalla letteratura moderna
di Marino Niola


La ficata di essere un morto vivente è che non devi più fare jogging. Lo dice uno dei personaggi del film Dylan Dog, dead of night. Ma in realtà anche senza correre, zombies, vampiri e altre creature delle tenebre hanno fatto lo stesso tanta strada. Perché hanno il passo lungo e inesorabile di chi arriva da molto lontano. I
revenantshanno sulle scarpe la polvere dei secoli perché avanzano verso di noi da duemila anni. Come un quarto stato del soprannaturale. Molto prima di essere richiamati in vita dalla letteratura gotica ottocentesca. O dal fantasy e dall’horror contemporanei. E adesso sappiamo anche dove e quando è cominciato il loro viaggio dal termine della notte. A dircelo è Flegonte di Tralle, vissuto nel secondo secolo dopo Cristo, nel suo favoloso
Libro delle meraviglie. Un manoscritto nascosto per più di mille anni nel palazzo imperiale di Costantinopoli e poi misteriosamente approdato all’università di Heidelberg, dove è ancora custodito. La prima edizione a stampa del testo originale greco viene impressa a Basilea nel 1568. E solo adesso esce in italiano in un’edizione curata splendidamente da Tommaso Braccini e Massimo Scorsone per Einaudi (Il libro delle meraviglie e tutti i frammenti, pp. 111, euro 25).
L’autore era il segretario di Adriano, il crepuscolare imperatore-poeta immortalato dal romanzo di Marguerite Yourcenar. Che attribuisce proprio a Flegonte la paternità del primo racconto di paura della storia. In effetti, il Libro delle meraviglie è un’autentica archeologia dell’orrore. Uno zibaldone dell’occulto che contiene in nuce tutti i motivi e i plot che nel corso dei secoli successivi alimenteranno l’immaginario noir. Spettri-cannibali, mostri assetati di sangue, cadaveri animati, teste tagliate che parlano da sole, insomma un impressionante palinsesto del pulp al tempo della Roma imperiale.
La protagonista indiscussa del volume è Filinnio, una ragazza di Anfipoli, in Macedonia, che muore all’indomani del matrimonio, ma dopo un po’ rientra nel suo corpo e torna ogni notte nella casa natale, dove seduce un giovane ospite dei suoi genitori. L’uomo non sospetta neanche lontanamente di aver fatto sesso con un revenant e quando lo viene a sapere si uccide per l’orrore. Mentre il cadavere della ragazza viene bruciato a furor di popolo per impedire che torni ancora dall’aldilà. Vampira e pure mangiatrice d’uomini, la morta innamorata uscita dalla penna di Flegonte è insomma la madre di tutte le femmes fatales dell’immaginario, occidentale e non solo. Sono sue figlie la celeberrima sposa di Corinto di Goethe, nonché Carmilla, la pallida succhia sangue nata dalla fantasia dell’irlandese Sheridan Le Fanu. E la romanticissima Arria Marcella di Théophile Gautier che, morta a Pompei durante l’eruzione del 79 dopo Cristo, resuscita dal suo sonno millenario in pieno Ottocento, giusto per fare innamorare perdutamente un giovane archeologo francese in visita agli scavi. Ma è della famiglia anche la fremente Lucy Westenra di Bram Stoker, aristocratica fanciulla vittoriana che, dopo essere stata addentata e uccisa da Dracula, abbandona nottetempo il sepolcro per saltare addosso al suo sprovveduto fidanzato. E, più vicino a noi, le sexy-trapassate che fanno l’autostop nelle leggende metropolitane. Tutte discendenti della rediviva di Anfipoli.Che un teorico del terrore letterario come Howard P. Lovecraft considerava l’indiscussa patronessa di tutti i non-morti che, per un eccesso di attaccamento alla vita, finiscono per perdere la testa. Ma, a differenza dei vampiri della letteratura e del folklore, le teste tagliate che popolano le storie di Flegonte restano vive e vegete. E per di più hanno un altissimo quoziente di intelligenza. Tant’è vero che parlano molto e sempre a ragion veduta, fanno profezie, danno consi-gli, recitano poesie e cantano. Proprio come quella del mitico Orfeo. Staccata di netto dalle menadi invasate dallo spirito di Dioniso e gettata come una zucca nell’Ebro, discende il fiume fino al mare e fa rotta per l’isola di Lesbo senza mai smettere di cantare per tutto il tempo della traversata. E, per aggiungere meraviglia a meraviglia, la lira dello sposo di Euridice solca le onde seguendo la scia della voce melodiosa del pupillo delle muse. E addirittura ascende con lui al cielo dandovita alla costellazione della Lira.
Crani modulari per corpi interinali. Prototipi di quella poetica dello smembramento somatico che rende le parti più significative del tutto. Nel thriller antico come nella moderna società dello spettacolo. Nell’arte come nella mitologia. Nello splatter come nella pornografia.
In questo senso i personaggi fantastici di Flegonte assomigliano in maniera impressionante a quelli dei tanti protagonisti di fumetti, cartoons, videogiochi e gruppi rock che affollanola mitologia contemporanea. Come Deadpool, il supereroe Marvel la cui capoccia zombie è tutta un’esternazione, una parlantina dissacrante e un po’ saccente. E come il facondissimo Morte, teschio parlante e fluttuante di Planescape Torment, un videogioco di culto degli ultimi anni Novanta che, tra una reincarnazione e una riapparizione, fa sfoggio di una stupefacente affabulazione. E, su tutti, i Talking Heads che sono la vera ciliegina sulla tomba di Flegonte.
IL LIBRO Il libro delle meraviglie e tutti i frammentidi Flegonte di Tralle (Einaudi pagg. 111 euro 25)