venerdì 1 novembre 2013

l’Unità 1.11.13
Mercato del lavoro a senso unico: non si entra, si esce soltanto
L’Istat certifica: siamo ancora in piena crisi.
La disoccupazione è al 12,5%, quella giovanile al 40,4%, dati record dal 1977
Per i sindacati ci vuole una terapia d’urto. Pressing perché il lavoro sia al centro della legge di Stabilità
Riduciamo l’orario Solo così si può creare nuova occupazione
di Nicola Cacace


DISOCCUPAZIONE RECORD PER TUTTI AL 12,5% E PER I GIOVANI AL 40,4% SONO LE ULTIME MAZZATE CHE L’ISTAT CI COMUNICA. Niente di nuovo sotto i cieli. Con questi bassi tassi di crescita del Pil solo i Paesi industriali che fanno politiche pro labor di modernizzazione terziaria e di redistribuzione del lavoro riescono a mantenere alta la loro occupazione.
35 ore in Francia, Kurtarbeit, contratti di solidarietà e banca delle ore in Germania, part time volontario incentivato in Olanda, flexsecurity in Danimarca e Paesi scandinavi. Oggi siamo all’assurdo che i Paesi europei più in crisi sono quelli con orari di lavoro più lunghi. L’orario annuo di lavoro era (dati Ocse dei lavoratori full timer, relativi al 2010) 1554 in Francia, 1419 in Germania, 1377 in Olanda, 2100 in Grecia e quasi 1800 in Italia. In Italia l’orario annuo è del 23% superiore a quello medio di Francia, Germania ed Olanda, che significa 4 milioni di posti lavoro in meno.
La morale è che, nelle attuali condizioni di bassa crescita, anche dopo aver avviato la ripresa o ripresina, si crea lavoro solo se si fanno politiche di flessibilizzazione e riduzione degli orari annui, altrimenti si ha una ripresa senza occupati come rischia l’Italia se continua nelle politiche di orario anti occupazione. Oggi l’Italia è l’unico Paese europeo dove l’ora di straordinario, grazie alla fiscalizzazione, costa meno dell’ora di lavoro ordinaria. Eppure la storia italiana dell’orario è diversa. Nel secolo tra il 1900 ed il 2000 la produttività oraria è aumentata del 2,8% annuo e la produzione solo del 2,6%. Se gli orari annui non si fossero ridotti da 3000 a 1700 ore e sabato libero, settimana di 40 ore, pause, maternità di 15 settimane, 4-5 settimane di ferie, gli occupati sarebbero diminuiti invece di aumentare da 15 a 21 milioni. Poiché da 20 anni il processo di riduzione dell’orario si è invertito, è successo che il tasso di occupazione –occupati su popolazione in età da lavoro è rimasto sempre molto basso, intorno al 56%, 10 punti meno della media europea. L’uso antioccupazione degli orari si è verificato per carenze culturali di politici, imprenditori e sindacalisti. Anche l’ultimo documento di concertazione di Genova tra Confindustria e sindacati non contiene alcun riferimento al problema degli orari.
I tedeschi, allo scoppio della crisi, sono stati i primi a imboccare la via dei contratti di solidarietà scambiando alla Daimler la dismissione di 2000 lavoratori con una riduzione di orario per 20mila. VW, Opel e altre fabbriche hanno seguito e nel 2009, col Pil negativo del 5%, l’occupazione tedesca non cala. Anche la sinistra italiana ha un ritardo culturale grave sulla questione tempi di lavoro. La sconfitta più recente risale al primo governo Prodi, quando ad affossare la proposta di legge sulle 35 ore fu Bertinotti con la pretesa, sbagliata, di volere una legge prescrittiva e non di orientamento della contrattazione alla francese, come voleva Prodi. In Italia sono maturi i tempi per estendere le negoziazioni dei contratti di solidarietà -rifiutati anche da Marchionne a Pomigliano alla luce del fatto che presentano un costo unitario minore. Se un’azienda di 4 operai deve ridurre il monte ore del 25% ha due vie, o mette in Cig un operaio con un costo pubblico di 1500 euro al mese (1000 di salario e 500 di oneri figurativi) o riduce orario e salario del 25% per tutti. In questo caso, applicando il contratto di solidarietà , lo Stato, che compensa la metà delle perdite salariali da minor orario, spende solo 500 euro, cioè 125 euro per ciascuno dei 4 operai. Questa solidarietà non solo costa meno a parità di risultati produttivi, ma salva anche la dignità degli operai che non restano inattivi, e riduce il mercato del lavoro nero che la Cig alimenta. Fare politiche pro labor significa puntare anzitutto alla modernizzazione dei servizi che oggi nei Paesi industriali pesano il 75% di Pil ed occupazione, contro un misero 68% in Italia; e questo significa almeno 2 milioni di posti lavoro che mancano. E poi fare politiche intelligenti di redistribuzione del lavoro, necessarie sia per ridurre la disoccupazione che per aumentare la qualità delle produzioni e la stessa produttività oraria, che come è noto si riduce quando gli orari si allungano. Tertium non datur.

l’Unità 1.11.13
Aborto, scontro Renzi-Civati


Pippo Civati, intervistato da RepubblicaTv, non sottovaluta la guerra delle tessere (del resto è stato uno dei primi a sollevare il problema) spiegando che così si danneggia l’immagine del Pd, che già di suo non è particolarmente brillante.
Il deputato lombardo però deve incassare una dura (seppur indiretta) replica da Renzi sulla questione del cimitero per i non nati, istituito dal Comune di Firenze, che aveva criticato. Nella sua enews di ieri, Renzi (pur senza mai citarlo) la mette così: «Hanno cercato di fare polemica in queste ore per un’iniziativa del comune di Firenze, doverosa e semplice: la possibilità per i genitori dei bimbi nati morti di seppellire i propri figli anziché, letteralmente, considerarli “rifiuti speciali”. Si è cercato addirittura di trasferire questo dibattito in un’occasione di polemica congressuale. Possiamo fare politica senza strumentalizzare il dolore di una madre, o di un padre, che perde un figlio prima che questi veda la luce? La vergogna, in questo caso, è tutta per qualche professionista dell’ideologia». La replica dello staff di Civati è secca: «È lui che strumentalizza, la nostra è solo un’opinione diversa dalla sua».

La Stampa 1.11.13
Congressi: Pd nel caos
E Renzi ammette “Sono esterrefatto”
Cuperlo scrive alla Commissione: stop alle degenerazioni
di Fe. Ge.


A chi gli chiede cosa ne pensi, Matteo Renzi risponde: «Sono esterrefatto». E a chi ipotizza che ci sia anche la sua mano dietro certi sconcertanti boom nel tesseramento pd, replica a brutto muso: «Ma che vogliono da me? Io qui a Firenze ho tranquillamente votato per la segreteria un sostenitore di Cuperlo, senza fare troppe storie... E visto che ci siamo, ripeto che a me di questa faccenda di piantare delle bandierine qui e lì non importa niente. Motivo per il quale se c’è qualcuno che fa il furbo va individuato e fermato, a qualunque area appartenga».
Matteo Renzi è arrabbiato, dunque. Ma Gianni Cuperlo non lo è da meno, perchè questa faccenda del «tesseramento gonfiato» dei presunti brogli, insomma oltre a gettare pessima luce sul Pd, rischia di esser poi pagata pesantemente da chiunque risulterà vincitore della accesissima sfida: e lo è a tal punto arrabbiato, intendiamo da chiedere a gran voce l’intervento della Commissione nazionale per il Congresso e delle Commissioni regionali affinchè si fermi «ogni degenerazione della vita democratica interna al partito».
C’è un punto, scrive Cuperlo nella lettera inviata alle Commissioni congresso, che dovrebbe veder d’accordo tutti i candidati alla segreteria pd: «Non possiamo accettare la moltiplicazione abnorme del numero degli iscritti a ridosso delle procedure di voto e, talvolta, durante le stesse... La soddisfazione per aver avviato un processo così importante non può farci tacere le distorsioni, le anomalie e le violazioni anche gravi che si stanno verificando in diverse parti d’Italia... Bisogna preservare la lealtà e l’onestà della competizione congressuale, certo. Ma qui c’è in gioco qualcosa di più importante... Qualcosa che ha a che fare con la dignità di migliaia di democratiche e democratici italiani». È così. Ma invocare il rispetto di principi democratici fondamentali e perfino l’onore dei militanti e degli iscritti non basta, di per sè, ad arrestare il deprimente fenomeno. Dopo i casi dei giorni scorsi, infatti, ieri in altre due province c’è stato il patatrac. A Frosinone i tre candidati alla segreteria provinciale si sono sospesi dalla competizione chiedendo l’annullamento del congresso: «Lo svolgimento ha subito gravissime scorrettezze che ne hanno inficiato la validità». E pasticcio simile deve esser accaduto in provincia di Avellino dove in qualche comune (a Teora, per esempio) schede già utilizzate sono state trovate nell’urna prima ancora che fosse aperto il seggio per l’elezione del segretario provinciale pd: e così, anche in Irpinia la richiesta è quella di annullare il Congresso.
E non è che nelle grandi città vada meglio. A Roma, per esempio, Lorenza Bonaccorsi (deputata e coordinatrice della mozione Renzi) denuncia episodi singolari: «I risultati di alcuni circoli, che eufemisticamente vengono chiamati congressi, fanno male al Pd e a Roma. Infatti, nei congressi di Osteria Nuova, Metalmeccanici, Regione Lazio, Policlinico e altri il risultato finale e al 100% per Cosentino e 0 agli altri tre candidati. Percentuali del genere fanno sorridere... Prendere il 100% dei voti in sette circoli diversi è forse la cartina di tornasole di qualcosa che non va».
Alcune cose non vanno, dunque (per continuare con gli eufemismi...). Altre invece vanno: e vanno in maniera perfino sorprendente rispetto a certe previsioni. Si prenda, ad esempio, il sondaggio on-line lanciato da Europa, quotidiano di area democratica, che ha chiesto ai lettori «chi voteresti dei candidati al Congresso Pd?». Pippo Civati batte anzi: doppia tutti: 861 voti contro i 443 di Cuperlo, i 441 di Renzi e i 27 di Pitella. Come a dire che tra brogli, annullamento dei congressi e baruffe varie, nulla è ancora deciso. Almeno per quel che riguarda il responso dei Circoli... [FE.GE.]

il Fatto 1.11.13
Boom delle tessere gonfiate, degenerazione democrat
Congresso Pd: allarme gazebo vuoti l’8 dicembre
di Wanda Marra


FROSINONE, I CANDIDATI CHIEDONO LA SOSPENSIONE DEL CONGRESSO COSENZA, LO SFIDANTE RENZIANO DENUNCIA: “IMPEDITO VOTO AI NUOVI ISCRITTI”

A Frosinone i tre candidati alla segreteria hanno chiesto la sospensione del congresso per anomalie nella gestione del tesseramento e scorrettezze nella convocazione e nelle modalità di svolgimento. A Cosenza, l'ex deputato Franco Laratta, candidato segretario provinciale per l’Area Renzi, ha presentato ricorso perché molti nuovi iscritti non hanno potuto neanche votare. I congressi di circolo sono in corso per eleggere i segretari provinciali. E questi sono solo i casi di ieri, ma la lista si allunga ogni giorno, e già può contare su una casistica imponente. A Caserta il congresso non s’è ancora svolto, ufficialmente per ritardi nelle “procedure” (ma molti esponenti della vecchia guardia lo vogliono bloccare), a Catania, dopo l’arrivo dell’“osservatore” Nico Stumpo, è stato sospeso, ad Avellino sono partiti i ricorsi, così come a Rovigo. Al centro di tutto, il boom sospetto delle tessere, che stanno crescendo esponenzialmente un po’ ovunque in Italia. In maniera quanto meno sospetta. Le denunce in genere partono a livello locale e poi arrivano a Roma, alla Commissione del congresso o a quella di garanzia. A Torino è stato Stefano Esposito a raccontare di aver visto due anziani ricevere i soldi per il tesseramento: da lì è partito il caso delle tessere pagate. Ad Asti la stragrande maggioranza degli iscritti è albanese. Vecchi trucchetti. Nelle primarie napoletane, quelle che finirono commissariate, in fila c’era una stragrande maggioranza di cinesi. A Lecce il boom delle tessere ha fatto mettere sotto osservazione l’intero svolgimento dei congressi di circoli, a Catanzaro si denunciano alternativamente il boom delle tessere e l’impossibilità di iscriversi.
IL MECCANISMO è impazzito. Qualche giorno fa era tutto un pullulare di accuse reciproche. Un bersaniano di chiara fede denunciava: “Al sud Renzi ha fatto iscrivere mafiosi, camorristi, ’ndranghetisti”. E i renziani a loro volta tiravano in ballo l’apparato come vero artefice del tesseramento gonfiato, tentativo di fermare la corsa del sindaco di Firenze, condizionandolo a livello locale. Ormai a mezza bocca ammettono un po’ tutti: “Le operazioni poco trasparenti sono state fatte da entrambe le parti”. Si racconta di perdita del controllo da parte dei due candidati favoriti, Cuperlo e Renzi, di emissari che sul territorio operano per loro e imbarcano chissà chi. Tant’è vero che si prova a gettare acqua sul fuoco. Se è per Nico Stumpo, che sta con Cuperlo, l’accusa è velata: “Si è parlato tanto di brogli, poi loro vogliono portare chiunque a votare per le primarie”. Se è per il renziano Guerini: “Il fenomeno non sarà così imponente. Per esempio a Milano, dove i congressi di circolo si sono conclusi, il tesseramento complessivo è stato inferiore a quello del 2012”. Tutto questo rischia di rivelarsi un boomerang imprevedibile. Anche perché poi che la politica conta poco si capisce dal fatto che nella maggior parte delle città i candidati provinciali sono frutto di accordo tra gli sfidanti a livello nazionale. A Bologna è stato eletto Raffaele Do-nini, ufficialmente cuperliano, ma con il sostegno di molti renziani. A Napoli e Firenze i candidati sono ufficialmente condivisi. I congressi di circolo finiscono il 6 novembre: per adesso il comitato Cuperlo canta vittoria. I segretari ottenuti sarebbero 49 a 25. Ma il dato è confuso. Dopo il 6 comincia il voto dei circoli per il leader nazionale e lì si vedrà davvero quanto contano le logiche di appartenenza. Intanto ieri Cuperlo è corso ai ripari, con una lettera ai garanti: “Non possiamo accettare la moltiplicazione abnorme del numero degli iscritti a ridosso delle procedure di voto. Ci sono, in tutta evidenza, regole da rivedere ma intanto va sanzionata la distorsione di gruppi organizzati che dimostrano scarso o nullo interesse per il confronto interno. Ogni degenerazione della vita democratica interna al partito va fermata”.
Perché poi il tema è anche un altro: quali entusiasmi può evocare un congresso combattuto così? Renzi stesso ha messo le mani avanti: altro che i tre o i 4 milioni del passato, ha fissato l’asticella della partecipazione a 2. Dove si sa che più si scende, più scendono i voti per lui.

il Fatto 1.11.13
Osservatore a Lecce Roberto Morassut
“È tutta una guerra tra cordate per il potere”
di wa. ma.


Siamo dentro un delirio parossistico delle cordate, pezzi di partito che lottano per conquistare spazio”. Così Roberto Morassut racconta quello che sta succedendo nei congressi di circolo, il primo atto delle assise del Pd. Parlamentare democratico, ex segretario del Lazio, membro della Commissione per il congresso, Morassut è stato mandato a Lecce come “osservatore”, dove il balzo in avanti delle tessere è quanto meno sospetto.
Onorevole, com’è andata la missione a Lecce?
Sono andato, ho riunito la commissione provinciale, dalla quale sono emersi dati piuttosto preoccupanti sulle procedure del congresso. In ogni circolo secondo regolamento bisognerebbe istituire un ufficio adesioni, un piccolo gruppo che verifica le iscrizioni e istituisce un'anagrafe. Invece in molti circoli questo non è stato fatto, e non si è tenuta neanche una riunione.
Quali anomalie ci sono state?
C’è stata una crescita della quantità di iscritti. Nella provincia di Lecce ci sono 96 comuni di piccola e media dimensione. Nel 2012 le tessere erano 4700, da marzo a oggi ne sono state distribuite ai segretari di circolo 15mila. Non sappiamo ancora quanti iscritti effettivi ci sono stati. A Lecce come in tante altre parti dell’Italia c’è stata una modalità d’afflusso molto discutibile: nessun dibattito, il seggio aperto alla fine, gente che si iscrive, vota e se ne va.
Il congresso è stato sospeso?
Io l’ho proposto, ma la Commissione nazionale ha deciso di aspettare questa settimana per vedere come va a finire.
Lecce non è un caso isolato.
No, è il sintomo di un andazzo, che ci impone di non girarci dall'altra parte. Le cose stanno andando in una direzione che per il Pd potrebbe essere assai dannosa. È un’infezione che può rischiare di riprodursi.
Ci sono contromisure da prendere?
Dieci giorni fa ho proposto una circolare, che poi è stata approvata, in cui si diceva che se il tesseramento superava del 20% quello dell’anno scorso, il congresso o si ferma o si sospende. Si devono studiare delle sanzioni. Questo schifo deve avere fine.
Chi sono i padroni delle tessere?
Siamo dentro un delirio parossistico delle cordate, neanche delle correnti, che avrebbero dignità politica. Sono pezzi di partito che lottano per ottenere prima spazio, poi postazioni istituzionali e che grazie a questi meccanismi saranno poi in grado di condizionare le preferenze alle comunali, alle regionali e casomai alle nazionali. Per questo, modificando la legge elettorale, sarebbe sbagliato reintrodurre le preferenze.
Dietro ci sono i cuperliani o i renziani?
Non sono Renzi e Cuperlo che orchestrano, ma le componenti ormai lanciate in maniera folle alla conquista del massimo consenso possibile, senza rendersi conto che andando avanti così si arriva solo al crollo. Io continuo a sentire militanti che rischiano di restituire la tessera schifati e veder entrare al loro posto persone che si iscrivono al Pd in cambio di qualcosa.
I congressi sono partecipati?
A me risulta che la politica sia totalmente assente, in alcuni circoli di Roma il dibattito è stato addirittura impedito. Nella maggior parte dei casi non ci sono neanche documenti da discutere. I candidati di circolo fanno un discorsetto e poi si apre il seggio
Dunque, bisogna dar ragione a Renzi, che dice che conta solo l’8 dicembre?
No, attenzione è un virus. Non si risolve solo con le primarie, ma con i padroni del partito, che sono in realtà fuori dal Pd, che rischiano di condizionarne la vita e condizionare anche lo stesso Renzi. Perché tanti circoli storici chiudono? Non hanno soldi per l’affitto, per i volantini, per niente. Ma poi durante i congressi i soldi arrivano. Quando il convento è povero e i frati sono ricchi la situazione è quantomeno malata.

Corriere 1.11.13
Caso tessere, Cuperlo attacca: «È in gioco la nostra dignità»
Accuse tra i candidati. Renzi: non le addebitino a noi
di Ernesto Menicucci


ROMA — Era partito come un fatto locale, episodico, di alcuni «signorotti» che gestiscono pacchetti di voti. Ma, dopo una serie di segnalazioni a macchia di leopardo, il caos sul tesseramento del Pd sale di livello. Ed arriva ad «investire», direttamente, i due principali sfidanti delle primarie dell’8 dicembre: Gianni Cuperlo da una parte, Matteo Renzi dall’altra. Il primo chiede «di mettere un argine: bisogna fermarsi, tutti». Il secondo ribatte: «Le tessere gonfiate? Non ce le addebitassero a noi...». Uno scontro in piena regola, fatto di accuse, veleni, sospetti, che coinvolge i rispettivi «schieramenti» sui territori. Con nuovi episodi: a Frosinone viene annullato il congresso, a Roma ci sono sette seggi «dove Lionello Cosentino prende il 100% dei voti», dice Lorenza Bonaccorsi, renziana.
Cuperlo esce allo scoperto e scrive alla Commissione di garanzia del Pd: «Non possiamo — si legge nella sua lettera — accettare la moltiplicazione abnorme del numero degli iscritti a ridosso del voto. Ci sono regole da rivedere ma va sanzionata la distorsione di gruppi organizzati che dimostrano scarso o nullo interesse per il confronto interno. Ogni degenerazione della vita democratica interna al partito va fermata».
Il rivale di Renzi parla di questa fase, riservata agli iscritti, come «di una straordinaria occasione per affermare la voglia di esserci e di contare dei nostri militanti», di «soddisfazione per un processo così importante», ma insiste: «Non possiamo tacere distorsioni, anomalie, violazioni anche gravi che, in alcune realtà, hanno condotto all’annullamento e al rinvio dei congressi locali. Episodi di assoluta gravità, intollerabili in una comunità, come la nostra, che si propone di unire, rinnovare, rilanciare il Paese. La moralità, il rigore, la serietà sono condizioni irrinunciabili del nostro agire personale e collettivo». Cuperlo chiede alla commissione di «valutare con massima cura ricorsi e denunce che pervengono: bisogna preservare la lealtà e l’onestà della competizione congressuale» anche perché «qui c’è in gioco qualcosa di più importante: la dignità di migliaia di democratiche e democratici italiani».
Ma con chi ce l’ha, Cuperlo? «Ah no, non voglio entrare nel merito, anche se è una situazione che parla da sé... Il problema è un altro: qui ci stiamo giocando la reputazione...». I suoi uomini, però, sono più espliciti: «In molti circoli i dati dei renziani sono schizzati in maniera incredibile...».
Ma anche Renzi, dall’altra parte, si sfoga coi suoi: «Il giochino delle bandierine, su chi vince i congressi locali, mi interessa talmente poco che a Firenze ho fatto votare uno che appoggia Cuperlo... (si tratta di Fabio Incatasciato, sindaco di Fiesole, ndr ). Se poi c’è qualcuno che fa il furbo in giro per l’Italia deve pagare e il partito deve vigilare». Renzi, però, in una giornata in cui interviene su tutto (dalla decadenza di Berlusconi sulla quale «i senatori devono metterci la faccia», alla «vergogna per qualche professionista dell’ideologia», fino alle banche «che non possono vincere sempre: se vogliamo ridurre il contante, bisogna abbassare le commissioni bancarie») non ci sta ad essere chiamato in causa: «Non ci rompessero le scatole a noi. Se ci sono problemi, leggendo i giornali, mi pare siano di più di là...». E aggiunge, il sindaco di Firenze: «Io ero per le primarie aperte anche al livello locale, e per fare i congressi provinciali dopo il nazionale. Non mi hanno detto retta... Che devo fare di più?». Nel suo comitato fanno anche notare «che per gonfiare le tessere serve che ci sia un segretario d’accordo. E noi, l’ultima volta, ne avevamo appena 2 su 108...».

Repubblica 1.11.13
Il Partito democratico
Tessere finte, appello di Cuperlo “Il partito fermi la degenerazione” Renzi: per me contano le primarie
Frosinone, stop al congresso. Caos a Avellino e Cosenza
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Matteo Renzi si dice «esterrefatto». Pippo Civati raccoglie denunce sul suo blog. Gianni Cuperlo scrive ai garanti del partito per chiedere un intervento deciso contro una «degenerazione» che mette a rischio la dignità del Pd. Dopo il giorno dei casi eclatanti, e dei commissari mandati a verificare cosa stia accadendo - da nord a sud - tra liti nei circoli, tesseramenti gonfiati e file di stranieri in cerca di iscrizione, è venuto quello della presa di distanza da parte dei candidati alle primarie dell’8 dicembre. Perché molte di queste illecite battaglie sono fattein loro nome, ma non - ci tengono a dire - per conto loro.
La segreteria di Guglielmo Epifani non vuole prendere posizione: c’è la commissione congresso a lavoro, si stanno verificando i casi più gravi, i problemi vengono considerati fisiologici, vista la fretta con cui si sono dovuti organizzare i congressi dei circoli e la decisione di tenere le iscrizioni aperte fino all’ultimo. E però, è proprioGianni Cuperlo a chiedere un intervento al partito: «Non possiamo accettare la moltiplicazione abnorme del numero degli iscritti a ridosso delle procedure di voto scrive ai garanti - va sanzionata la distorsione di gruppi organizzati che dimostrano scarso o nullo interesse per il confronto interno». Parla di episodi «intollerabili» e «di assoluta gravità». Chiede tolleranza zero su ricorsi e denunce.
Così, mentre arrivano nuove segnalazioni da Frosinone - dove tre dei quattro candidati provinciali hanno chiesto di invalidare il congresso - e da Roma, dove la coordinatrice renziana lamenta strani plebisciti in alcuni circoli a favore del candidato cuperliano Cosentino, Pippo Civati fa un po’ di conti: «Le tessere in circolazione da marzo sono quasi un milione, di queste almeno la metà è inbianco. Sono in contestazione, o sospesi, o rinviati, congressi in federazioni del Piemonte (Asti e Torino), Veneto (Rovigo), Toscana (Livorno e Siena), Lazio, Campania (Caserta, Avellino e Napoli), Basso Molise, Puglia (Foggia e Lecce), Calabria (Cosenza), Sicilia (Catania, Ragusa e Trapani). In alcuni casi si tratta di singoli circoli o città, in altri dell’intera federazione». La corsa alle tessere serve a stabilire gli equilibri dei congressi di circolo (che si terranno dal 7 al 17 novembre): una sorta di prova di forza tra i candidati nazionali sul territorio, ma anche una guerra per stabilire piccoli potentati locali da far pesare al momento giusto. «È una cosa fuori dalla grazia di Dio», dice Matteo Renzi ai suoi. Nonostante qualche caso, come quello di Asti, sia attribuito anchea persone che lo sostengono, il sindaco ricorda di aver «votato e sostenuto a Firenze un segretario provinciale che vota Cuperlo». Non capisce questa «corsa sfrenata », perché «la conta si fa il giorno delle primarie, a noi non deve interessare mettere delle bandierine ». Il senso dei congressi di circolo, per il sindaco, dovrebbe essere quello di cercare il candidato giusto per il territorio. Non ha nulla a che fare con quello che avverrà nei gazebo l’8 dicembre. «Che localmente ci sia gente che vota Renzi, Cuperlo, Civati o Pittella che fa porcate può darsi, ma io non c’entro nulla, sto lontano mille miglia ». Quindi, «la vigilanza sia massima e se qualcuno tenta di inquinare i congressi paghi». Questi giochini - ragionano i suoi - ci sono sempre stati, anche alle primarie nazionali. Per questo è importante che siano in tanti a votare: perché su tre milioni di persone gli imbrogli di bassa lega sono ininfluenti.

Repubblica 1.11.30
L’amaca
di Michele Serra


“Se dove prendiamo 50 voti si iscrivono in 150 è chiaro che c’è qualcosa che non va”, dice il responsabile dell’organizzazione del Pd, Davide Zoggia. Effettivamente. Nel Pd, ogni volta che ci si avvicina alle primarie, le tessere girano a mazzi, come carte da poker. Difficile immaginare che a quei pingui pacchetti corrispondano scelte individuali non dico meditate, non dico sofferte, ma almeno somiglianti a una scelta politica importante come l’iscrizione a un partito.
Come è tipico della storia recente della sinistra, si è passati piuttosto repentinamente da un eccesso di solennità (la tessera del Pci te la facevano sudare, prima di averla dovevi appiccicare un bel po’ di manifesti ai muri, e in certe sezioni dovevi allegare anche una piccola biografia per far capire meglio chi eri e da dove venivi); da un eccesso di solennità, dicevo, a un eccesso di svacco. Era sbagliata – perché severa e occhiuta – la solennità, è umiliante lo svacco, che trasforma le tessere di un partito in fiches per giocarsi posti e posticini di comando. Si presume che almeno alcuni dei nuovi iscritti siano autorizzati a riflettere sulla celeberrima battuta di Groucho Marx: non mi iscriverei mai a un club che avesse tra i suoi iscritti uno come me.

Repubblica 1.11.13
L’ex Psi La Ganga si schiera per Matteo “Ha carisma, come Bettino Craxi”


ROMA — «Sostengo Renzi perché vuole aderire ai socialisti europei e perché il centrosinistra in questi vent'anni non ha dato grandi prove, bisogna voltare pagina. Renzi ha carisma come ne aveva Craxi». Lo afferma Giusy La Ganga, ex socialista e oggi consigliere comunale a Torino per il Pd. La Ganga durante Tangentopoli ha patteggiato una condanna a un anno e otto mesi per finanziamento illecito ai partiti.

Repubblica 1.11.13
Civati a Repubblica Tv: né Cuperlo né Renzi hanno fatto davvero i conti con quel che è successo con i 101 anti-Prodi
“Io l’unico in campo contro le larghe intese”
intervista di Michela Scacchioli


ROMA — Sul voto palese Pippo Civati non cambia idea. Per il candidato alla segreteria del Pd quella votata in giunta al Senato è «una forzatura tecnica» che consente al Pdl di strepitare. Non cambia idea nemmeno sul governo delle larghe intese: «Un problema politico gigantesco». Intervistato daRepubblica Tv ne ha per gli sfidanti in corsa. Attacca Matteo Renzi, che è tutto proiettato sul futuro e dimentica quel che è accaduto dopo le elezioni. E punzecchia Gianni Cuperlo: «A differenza sua io non ho D’Alema come principale sponsor».
Civati, lei era in aula a Montecitorio mentre fuori i movimenti per il diritto alla casa hanno manifestato in pieno centro a Roma.
«Quello che è successo fuori dal Parlamento è un fatto di estrema gravità perché c’è un problema clamoroso di disagio sociale in questo Paese. Il governo dovrebbe aprire un confronto meno emotivo con i movimenti in lotta per la casa. Purtroppo una delle prime priorità è stata la questione dell’Imu, perché è stato Berlusconi a imporcela. Forse quando si parla di politiche per la casa bisogna andare in una direzione diversa».
Se alle primarie vince Renzi, lei dopo unisce la propria proposta politica a quella di Cuperlo?
«Al massimo sarà Cuperlo a unirsi alla mia. Il motivo per cui siamo lontani non è solo che io non ho D’Alema come principale sponsor, che mi sembra comunque decisivo, ma anche per una certa lettura acritica rispetto a quello che è successo, ad esempio a proposito dei 101… Comunque, andiamo fino in fondo, dopo collaboreremo».
Sulla decadenza da senatore di Berlusconi lei era per il voto segreto.
«Il voto palese dal punto di vista tecnico è una forzatura. Se qualcuno dall’altra parte strepita, qualche argomento ce l’ha. Per me, dal punto di vista sostanziale, Berlusconi è decaduto all’inizio di agosto. È stato condannato per frode fiscale. Punto. Eccepisco dal punto di vista tecnico. Questa è la stagione del decadentismo, come in letteratura. Sono quattro mesi che parliamo della decadenza di Berlusconi.Non se ne può più. Se andiamo avanti così, decadiamo prima noi».
Perché il 2 ottobre non ha votato la fiducia a Letta?
«Se non riusciamo nemmeno a fare la riforma elettorale, che senso hanno le larghe intese? La realtà è che il Pdl non vuole la riforma. Il Pd, invece, potrebbe trovare una mediazione e il congresso potrebbe essere utile anche per questo. Io voterò pure la fiducia al governo, se il mio partito me lo chiede. Ma il problema politico è gigantesco, perché stiamo facendo cose molto lontane da quelle che abbiamo promesso agli elettori. Noi siamo figli di quella notte, la notte dei 101, dopo la quale siamo piombati in un precipizio».
C’è chi le chiede di rivelare i nomi dei 101 che hanno fatto cadere Romano Prodi candidato al Quirinale.
«I nomi dei 101? Gli altri soprassiedono perché il tema è imbarazzante. Solo io ne parlo, nella mozione congressuale. Io non ne ho nessuno dei 101, e se vinco io nel gruppo dirigente non ce ne sarà neanche uno. Farò fare delle perizie calligrafiche, dovranno scrivereProdi».

Repubblica 1.11.13
La nebbia che circonda il Pd
di Guido Crainz


NON può esser sottovalutato il pessimo messaggio che viene dalle pratiche segnalate in alcuni congressi locali del Pd: tessere triplicate, risse, denunce, elezioni fantasma e così via.
Un danno vero per l’immagine stessa di una democrazia, non solo di un partito: di qui l’urgenza di prese di posizione concrete, drastiche ed esemplari da parte di tutti i candidati alla segreteria nazionale. L’urgenza di dissolvere ogni nebbia: senza se e senza ma, e senza accuse reciproche che malamente maschererebbero un problema collettivo. Non è lecita nessuna minimizzazione. Quegli episodi mostrano che siamo ben lontani dal rispondere alla crisi della politica con una vera inversione di tendenza, con un colpo d’ala in zona estrema: questa però doveva provare a fare un Pd giunto dopo il voto di febbraio al punto più basso della sua pur breve e tormentatastoria. In realtà col passar del tempo la speranza è diventata via via sempre più flebile, e dalla sua vita interna sono venuti segnali sempre più sconfortanti. Lo conferma l’andamento stesso delle iscrizioni, dimezzate in un anno, ed era difficile immaginare un rovesciamento così drastico rispetto alle primarie di appena un anno fa: rispetto alla vitalità che avevano messo in luce, alle passioni e alle speranze che avevano riacceso. Mancò certo dopo di esse la capacità di aprirsi realmente alla società, di muovere alla conquista di incerti e delusi: delusi anche dal funzionamento sempre più appannato della nostra democrazia. Mancò la capacità, se non la volontà, di prender atto del frastuono d’allarme che era venuto dal voto in Sicilia, con l’astensione oltre il 50% e il Movimento 5 Stelle primo partito dell’isola. Allarme presto rimosso: è sembrata prender cor-po semmai l’idea nefasta che possa esservi una “democrazia al 50%”: che si possa cioè governare un paese non conquistando nuovi consensi ma perdendone meno del proprio antagonista, e considerando irrilevante il tasso e la qualità della partecipazione. Già tempo fa Ilvo Diamanti segnalava che per una metà degli italiani era possibile anche una democrazia senza i partiti, e da allora questa convinzione si è ulteriormente diffusa. E si è diffusa ancor di più l’idea che non vi possa essere una vera democrazia con questi partiti: un giudizio terribile. Eppure non erano mancati in tempi relativamente recenti segnali di vitalità e di speranza, e si pensi solo alle elezioni amministrative o ai referendum di due anni fa. Sembra purtroppo un’immagine lontana la lunga fila di cittadini in coda a Milano per stringer la mano al neosindaco Pisapia: quei segnali non hanno trovato a livello nazionale una sinistra capace di accoglierli, capace di lasciarsene ispirare. Capace di frenare le derive che investono ormai in modo aperto il rapporto fra cittadini e istituzioni: ma non può esservi oggi nessuna sinistra se non pone al centro la riforma radicale della politica e l’inversione di quella sfiducia che sembra aver superato ogni argine.
Si legga in questa chiave quel che è avvenuto in questi mesi nel Pd, dal non dissolto mistero dei “101” che hanno affondato la candidatura di Romano Prodi al non eccelso livello dei suoi dibattiti, o dei suo scontri, interni: si capirà meglio allora quanto la situazione si sia aggravata. Essaè stata poi ulteriormente, e inevitabilmente, appesantita dallo scenario delle larghe intese e dalla scarsa chiarezza con cui ci si è mossi all’interno di esse: con cedimenti sui contenuti che hanno peggiorato la situazione concreta e offuscato gravemente la direzione di marcia, come è avvenuto sull’Imu; e con l’assenza di priorità capaci di identificare il centrosinistra e il suo progetto di futuro. Un panorama sconsolante, e anche per questo gli episodi di questi giorni, per limitati che possano essere (e non lo sembrano più di tanto), non fanno che ingrossare una valanga di sfiducia già avviata: una valanga che rischia di travolgere qualcosa di molto più importante di un “partito di micronotabili” (sembra difficile oggi dissentire da questa impietosa analisi). Ove le derive non fossero drasticamente e immediatamente frenate rimarrebbero davvero pochi argomenti a chi si oppone all’ipotesi di un “partito personale”: cioè a chi crede ancora ad un’organizzazione politica basata su modalità collettive e continue di progettazione e di azione. E gli stessi contorni di un “partito personale” verrebbero minati alla radice dal molteplice agire di tarli e termiti. Per molti versi dunque quel che è avvenuto in questi giorni sta mettendo preventivamente alla prova la reale idea di partito di ognuno dei candidati alla segreteria del Pd. Di qui l’urgenza di atti concreti, esemplari e drastici: in primo luogo nei confronti dei propri sostenitori che si fossero resi responsabili di quelle inaccettabili pratiche.

Vendola...
Repubblica 1.11.13
Il comunista di mondo
di Gad Lerner


Nichi Vendola definisce l’accusa di concussione mossagli dalla Procura di Taranto per il disastro ambientale dell’Ilva come «la più grande ingiustizia della mia vita». Può darsi. Non sarà facile alla magistratura dimostrare che il presidente pugliese boicottasse l’operato della sua Agenzia per la protezione ambientale, al fine di favorire i padroni dell’acciaieria; tanto più che a negarlo è lo stesso responsabile dell’Arpa, Giorgio Assennato, cioè il presunto concusso. Ma il dramma umano di questo dirigente della sinistra impegnato nell’ardua impresa di far coesistere produzione industriale e bonifica del territorio, ben prima dell’indagine giudiziaria si era già consumato nella sconfitta politica che l’ha preceduta. Vendola ha sbagliato valutazione sulla natura del suo interlocutore: i Riva non erano capitalismo illuminato, bensì imprenditori rapaci e spregiudicati.
Questo dato di fatto emerge inequivocabile dall’inchiesta tarantina, con i suoi 53 indagati: una ragnatela pervasiva tessuta dai fiduciari di questa famiglia bresciana che dall’Ilva ha tratto profitti miliardari e che con pochi spiccioli addomesticava il consenso dei poteri locali. Amministratori, sindacalisti, funzionari, parroci indotti a considerare un male minore la violazione delle norme antinquinamento, e a fare pressione per l’ottenimento di sempre nuove deroghe e autorizzazioni benevole.
Cosa c’entra Vendola con tutto questo? Certo non gli si può addebitare il degrado della classe politica tarantina, guidata per anni dal malavitoso Giancarlo Cito e poi da una giunta di destra che ha portato il Comune alla bancarotta. Ma è stato in quel contesto disastrato che Vendola si è illuso di trovare nella potenza dei Riva, forse nel loro interesse al risanamento degli impianti, una via d’uscita. Così ai tarantini che cominciavano a ribellarsi, dentro e fuori la grande fabbrica, è parso come se la sua necessità di mediare con la grande impresa del Nord, e di garantirle la continuità produttiva, costringesse anche Vendola a tessere relazioni informali col potere aziendale; perfino a dichiararsi infastidito dagli eccessi di severità della magistratura e dell’Agenzia per la protezione ambientale (Arpa). Nessuno insinua che fosse mosso da convenienze illecite. Semmai che sovrastimasse le sue capacità di relazione, mentre a Taranto le condizioni di vita degeneravano fuori controllo. La spasmodica ricerca di un compromesso, ai margini della legge, fra garanzia di continuità produttiva e rispetto delle norme sulle emissioni, concedeva ai Riva una rispettabilità che i tarantini più avvertiti non potevano più riconoscere loro. Questo è l’errore che ha isolato Vendola dai movimenti di protesta cresciuti in città a sostegno dell’azione della magistratura. E siccome in precedenza un errore simile Vendola lo aveva già compiuto assegnando a don Luigi Verzè, senza gara pubblica d’appalto, l’incarico di costruire un nuovo ospedale a Taranto, tale reiterazione sollecita un interrogativo: non avrà pesato nelle sue scelte il bisogno di presentarsi come “comunista di mondo”, capace di intrattenere buoni rapporti con la controparte? So bene che il suo stile di vita è integerrimo, e che in lui la virtù della gentilezza non si è mai tramutata in mondanità salottiera. Ma temo che la reciproca incomprensione fra Vendola e la protesta di Taranto scaturisca proprio da questa esibizione velleitaria di impotenza della sinistra di governo. Non a caso alle elezioni del febbraio scorso nella città dell’Ilva sia la destra che i grillini hanno sorpassato il centrosinistra.
La situazione è precipitata quando la magistratura tarantina ha sequestrato l’area a caldo dell’acciaieria e ha imposto la chiusura delle lavorazioni fuorilegge, rifiutando, in nome dell’obbligo costituzionale della tutela della salute, le sollecitazioni a rinviare e a soprassedere che le giungevano dall’alto. Ricordo il titolo di un giornale di destra, dedicato in quei giorni dell’agosto 2011 alla gip Patrizia Todisco: “La zitella rossa che licenzia 11 mila operai Ilva”. Sempre allora la direzione aziendale incoraggiò le maestranze a manifestare in difesa degli impianti, esasperando la spaccatura interna ai sindacati così come la lacerazione fra lavoratori impauriti e cittadini ormai consapevoli dell’alto tasso di mortalità tumorale. Ma in quel frangente drammatico fu l’intero establishment nazionale a esecrare la Procura di Taranto come un covo di irresponsabili. Solo perché applicava la legge. Tanto che il recente congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati ha denunciato «l’ideologia del mercato quale unica salvezza» con cui si è preteso di calpestare la «effettività dei diritti».
Sono sicuro che Vendola condivide questa amara constatazione dell’Anm. Ma allorquando il dilemma si è posto in tutta la sua drammaticità a Taranto, la sua leadership era già compromessa.

l’Unità 1.11.13
Grillo ai suoi: dobbiamo guardare a destra
Il capo dei 5 Stelle spiega perché il loro posto non è affatto a sinistra
E cita sondaggi su immigrazione e diritti In pieno stile leghista
di Toni Jop


Cronaca e teoria, teoria e cronaca. Gli orizzonti di Grillo se saranno anche del M5S lo vedremo si chiariscono in un dato di cronaca, segno dei tempi. Usciamo da un'era geopolitica in cui la disposizione sul campo di partiti e movimenti era legata ad una massa di saperi vecchi e nuovi, ad una elaborazione collettiva intellettualmente faticosa, ad una o più analisi della realtà. Grillo, con Berlusconi, crea invece sul campo e passo dopo passo i propri orizzonti: con lui non decade banalmente la modellistica (l'idea di una società organizzata in questo o in quel modo), decade il pensiero, decade la proiezione del pensiero, e non è poco, per far posto alla pulsionalità della «pancia», alla soggettività della «pancia del popolo» che il Movimento deve rappresentare, interpretare, anticipare in uno slancio iper-romantico che abbassa il centro di gravità delle cose dal vecchio «cuore» all'intestino, vissuto con passione militante, decisamente anti-illuminista.
LA VIA TELEVISIVA
È la via televisiva della politica, lo si ammetterà senza cedere le armi, e Grillo la rilancia in quell'ampia trascrizione della seduta che un paio di giorni fa ha messo assieme il Megafono e i suoi parlamentari e di cui ha riferito “Il Fatto”. Nel corso di questo meeting, Grillo ha o avrebbe detto «Se andiamo a sinistra siamo rovinati». Non è forse tenero in questa dichiarazione così appesa ad un modesto, doloroso, aggiornamento ragionieristico della rotta da seguire? Quasi un fuori-onda pescato in casa da «Amici», uno di quei laboratori «madre» in cui si confezionano la teoria del percorso e insieme si celebrano i soli «dei» dotati di «pronta cassa»: la Furbizia, l'Opportunità, l'agilità nell'avvertire il profumo dei tempi, l'orientamento delle relazioni di potere, la palestra in cui si allena la divina Immobilità del potere. Grillo ha detto ai suoi che se vanno a sinistra sono rovinati.
Era quello che volevano sentirsi dire, dopo che con uno scatto di reni davvero interessante i senatori Cinque Stelle avevano promosso la mozione contro il reato di clandestinità e lui li aveva fatti a pezzi? Dubitiamo: una pacca sulla spalla e una raccomandazione di questo genere non possono ricucire lo strappo, anzi. Il leader padrone si è giustificato; ha raccontato di un sondaggio di cui nessuno sapeva nulla che avrebbe avvisato: il 75% dei votanti grillini vuole il reato di clandestinità. Perfetto: questo sì che si chiama dare pane al pane e vino al vino. Che senso ha parlare di target di civiltà se la pancia degli elettori spinge in direzione opposta e contraria? Non si rischia nulla, è l'addome che detta la linea, grazie, e la linea è solo quella che ti garantisce di vincere. Corretto, Grillo: ma è indecente protestare se poi ti si accosta a Bossi e a Berlusconi, non c'è tendenziosità in questa sintesi storica che mette assieme i «cadaveri putrefatti» e l'anatomo-patologo che vuole liberarsene prima che sia troppo tardi. Almeno, ora si comprende la stitichezza di Grillo in materia di «ius soli», al quale, pure, nella stessa riunione concede qualche chance opportunamente «palettata», ma dopo lunghi silenzi e anche brusche virate di sapore leghista.
Ed ecco a cosa gli serve dichiararsi né di destra né di sinistra: è, nei suoi calcoli, indispensabile per stare a destra senza giocarsi troppo rapidamente i sostenitori di sinistra; anche se ora sembra disposto a liberarsene perché deve aver intravvisto fantastici giacimenti di destra sui quali vuole mettere le mani. Del resto, non ti puoi inventare un centro miracoloso che non collimi con la astuzie di un gioco politico centrista ben più grande e dotato di te. Grillo è poco, questo il danno; ragiona usando, così come facciamo tutti, con quel poco che abbiamo raccolto tra scuola e strada, ma nessuno di noi dispone del suo potere.
Non si accorge, ad esempio, che quel «poco» urla vendetta anche di fronte ai suoi parlamentari ai quali spiega, ed è pazzesco non si accorga della propria pochezza, che «l'impeachment di Napolitano che ha issato sulle sue picche più alte, ndr è una finzione politica. Non possiamo dire che ha tradito la Costituzione, però....».
Bravo, Grillo, ora anche i suoi sanno di che pasta è fatto il Megafono.

La Stampa 1.11.13
Becchi, filosofo grillino “Silvio moderno, Pd morto”
“Mi ha telefonato perché s’interessa al M5S”
intervista di Andrea Malaguti


ROMA Si è parlato in questi giorni di una insolita telefonata tra Silvio Berlusconi e
Paolo Becchi, docente di filosofia del diritto a Genova e intellettuale di riferimento del M5S, spesso ospitato dal blog di Beppe Grillo.
«Vuole sapere la verità?».
Magari professor Becchi.
Qual è la verità?
«Che Gianroberto Casaleggio è come Adriano Olivetti».
Si fa condizionare dalla tv?
«Si figuri. È proprio così. Solo che Olivetti aveva la fabbrica come luogo per allargare il suo Movimento Comunità e Casaleggio usa la rete per i Cinque Stelle. Cambiano i tempi, ma lo schema è lo stesso».
Gli uomini di Olivetti avrebbero parlato con Berlusconi?
«Anche lei con questa storia? Discutiamo di cose serie».
Berlusconi non le ha telefonato per contattare Grillo e Casaelggio?
«Ma che senso hanno queste domande? Sono cose private, che non hanno niente a che fare con la politica».
Ha senso sapere se il leader del centrodestra si interessa all’esperienza Cinque Stelle?
«Messa in questo modo sì. Diciamo allora che Berlusconi è più moderno del Pd».
Spieghi meglio.
«Ha capito che oggi la battaglia è tra il vecchio e il nuovo. Tra la tv e la rete. Tra la radio e i blog. Tra l’oggi e il domani».
C’è Berlusconi nel domani?
«No. Politicamente è finito. Però ha capito l’aria. Il prossimo scontro elettorale sarà tra il rinnovamento di Grillo e la conservazione del berlusconismo».
EilPd?
«Il Pd è morto. Bersani con noi voleva fare scouting. Ma dai».
Dimentica Renzi.
«Non lo dimentico. Semplicemente dico che è il nulla. Una figurina. Slogan, parole, un bel faccino, ma nessun contenuto. È un prodotto dei giornali e delle tv. Lo zero assoluto».
I contenuti di Grillo invece quali sono?
«Basta guardarsi il blog. Le cinque stelle. E i venti punti del programma».
La politica come giudizio sintetico a priori. Poi arriva il dibattito sul reato di clandestinità e salta il banco.
«Guardi, io sono per la depenalizzazione di un sacco di reati. Ma la gestione parlamentare di questa storia è stata sbagliata. Serviva un confronto più largo. Resta che un Paese civile non può consentire quello che è successo a Lampedusa con le donne e con i bambini».
Giusto. Comunque lo Zero Assoluto è in testa ai sondaggi.
«I sondaggi mi interessano poco. Dicono anche che il M5S è in calo solo perché a Trento e a Bolzano le percentuali sono state basse. Aspettate le elezioni europee e vedrete».
Che cosa vedremo?
«Che porteremo e Bruxelles almeno venti parlamentari Cinque Stelle. I movimenti euroscettici stanno crescendo. Rivolteremo il parlamento europeo come un calzino».
Dicevate così anche del parlamento italiano.
«Alcuni risultati li stiamo ottenendo. Ad esempio il voto palese sulla decadenza di Berlusconi». Un voto contra personam?
«No, un voto per la trasparenza. Berlusconi o un altro non avrebbe fatto differenza. Il Paese deve sapere come si muovono i suoi rappresentati».
Berlusconi vuole il voto anticipato. Voi anche. Ma non eravate contro il porcellum?
«Lo siamo ancora. Ma se quelli non lo cambiano, votare è inevitabile. Mica è un golpe. Si chiama democrazia. Una legge elettorale alla fine esiste».
E se vince ancora il Cavaliere?
«Ce ne faremo una ragione».

il Fatto 1.11.13
Dario Fo: “Il Vaticano proibisce Franca Rame”
di Silvia Truzzi


“Gli hanno detto no grazie, lei qui non è gradito. Dario Fo è stato “allontanato” dall’Auditorium della Conciliazione, dove tra un paio di mesi avrebbe dovuto portare In fuga dal Senato, pièce tratta dal libro di Franca Rame, uscito dopo la scomparsa dell’attrice. Un’opera che racchiude, scrive Fo, “un’esperienza di vita e di azioni spesso contrastate perfino quando si trattava di carceri, di lotta alla droga, di opposizione alla guerra e ai massacri dietro i quali spesso si intravvedono chiaramente interessi giocati nell’affare e nel profitto”. Nel libro, molto profeticamente, la Rame aveva anche previsto le “larghe intese”. A proposito di partiti: se ve lo state domandando, la risposta è sì, l’Auditorium della Conciliazione è lo stesso in cui nel 2010 Gianfranco Fini fu bandito dal Pdl, teatro del famoso “che fai, mi cacci?” rivolto a Silvio Berlusconi. Un altro esilio, dunque in un luogo che porta la pacificazione nel nome. Lo racconta lo stesso premio Nobel, in una lettera aperta: “La Santa Sede – proprietaria della struttura – non ci autorizza a procedere con la rappresentazione del testo di Franca”.
LA COSA STRANA è che sul quel palco Franca Rame aveva presentato il suo celebre monologo su Adamo ed Eva e, insieme al marito, Mistero buffo. Ed è un mistero anche come possa risultare più sgradita la recita di un Premio Nobel del congresso di un partito pieno di inquisiti e condannati.
Scrive Dario Fo: “Abbiamo tutti gridato di gioia per l’apparizione di Papa Francesco. Il fatto è che la sua elezione è qualcosa di davvero straordinario poiché questo Papa è il simbolo eccezionale del rinnovamento della Chiesa. L’evoluzione del rapporto tra il Vaticano e le persone comuni ci giunge non soltanto dal nome del nuovo pontefice, ma dalle sue azioni quotidiane: egli non si limita a un diverso linguaggio ma si muove andando verso la gente, prima ancora che la gente venga verso di lui. Tutti però si rendono conto che in questo contesto il cambiamento è frenato soprattutto dall’interno della Chiesa”. Dal Vaticano, tuttavia, si ricorda che l’Auditorium della Conciliazione, di proprietá della Santa Sede, non è gestito “nè direttamente nè indirettamente da societá che possano essere ricondotte al Vaticano”.
LA MESSA in scena (che debutterà la prossima settimana a Genova e poi farà tappa in molte città italiane) “narra anche delle violenze che i miseri debbono subire ogni giorno e degli sbarchi di clandestini che spesso perdono la propria vita in cerca di una vita degna e civile”. Tutto molto evangelico. “Il direttore del teatro”, ci spiega Dario Fo al telefono, “era costernatissimo. Mi ha detto che era sicuro di riempire la sala e lo penso anch’io, perché abbiamo messo prezzi popolarissimi, 10 euro. In quella cifra è incluso anche uno sconto sul libro, se qualcuno desidera eventualmente comprarlo”. Più che costernato, Fo è incredulo: “Esplicitamente hanno dichiarato ‘Niente palcoscenico per Dario Fo e Franca Rame’. Come può una Chiesa continuare con gli ostruzionismi da guerra fredda che in Italia abbiamo subito nell’ultimo mezzo secolo, ancora con la censura e il divieto? E ciò significa buttare un’ombra lunga e grigia sullo splendore e la gioia che Papa Francesco ci sta regalando”. Chissà se il pontefice interverrà in qualche modo, magari con una delle sue famose telefonate? “Non so se chiamerà, ma so una cosa: lui è sempre informatissimo”, spiega Fo prima di salutare. Di certo c’è che ogni censura trova sempre il proprio antidoto.

Repubblica 1.11.13
“È la follia dei soliti prelati mentre il Papa cambia tutto loro guardano al passato”
Lo sfogo del premio Nobel: ma così mi fanno un favore
intervista di Anna Bandettini


ROMA — «Non ci si può credere, io e Franca ancora censurati dal Vaticano come cinquant’anni fa, quando i preti chiudevano i teatri pur di non farci andare nelle sale parrocchiali o come quando la Santa Sede fece denuncia allo Stato Italiano per non far mandare in ondaMistero Buffo.È incredibile. Ma qualcuno li fermi, questi prelati, faccia loro ascoltare le parole del Papa che vanno in tutt’altra direzione». Dario Fo è arrabbiato e divertito, stupito e rassegnato: a 87 anni suonati, per il più grande attore e autore italiano, Nobel della letteratura nel ‘97, vedersi chiudere in faccia la porta di un teatro di proprietà del Vaticano è troppo. «Chiaro che il diniego non è di un tirapiedi qualunque — dice — né può essere un cardinale impazzito che si mette a urlare “Basta con questo Fo”. È chiaramente una decisione consapevole».
Di chi, secondo lei?
«Di quale persona fisica non lo so. Il nostro organizzatore Fabrizio Di Giovanni mi ha detto di aver ricevuto una mail dalla Murciano Iniziative che organizza parte dell’attività dell’Auditorium della Conciliazione dove in gennaio avrei dovuto recitare brani del libro di Franca “In fuga dal Senato”. Nella mail si dice che l’amministratore della società di gestione della sala, tale Valerio Toniolo, gli ha riferito che la Santa Sede non ha dato l’autorizzazione a procedere per il nostro spettacolo».
Perché questa censura? Ci sono pagine nel libro di Franca contro la Chiesa?
«Ma no, il libro racconta l’esperienza di Franca senatrice. Non ci sono discorsi legati alla Chiesa, semmai alla politica, al continuo rinvio di leggi importanti per i cittadini, all’indifferenza per l’interesse comune, ai giochini di potere che si consumano nei luoghi dove bisognerebbe governare. Forse questa censura è un regalo che qualcuno in Vaticano ha voluto fare ai politici incavolati per quello che Franca racconta».
Quali politici?
«La destra, sicuramente, dal libro non ne esce bene, ma anche parte della sinistra, come l’allora ministro Livia Turco: liquidò Franca che le chiedeva un intervento per un caso umano disperato».
Secondo lei dunque è l’intreccio tra Santa Sede e politica italiana?
«Questa è la follia, questo è quello che mi stupisce. Che nella Chiesa ancora si consumino queste trame, mentre dall’altra parte c’è un Papa che sfugge alla consueta politica vaticana, un Papa che sta trasformando culturalmente la Chiesa, che ci dice di non prendere per oro colato le parole del rappresentante di Dio in terra, o che denuncia il denaro come lo sterco del diavolo... Evidentemente in Vaticano, con il Papa che va avanti per la sua strada, c’è chi sta perdendo la testa».
Qualcuno dice che in Vaticano non hanno ancora digerito la serata diMistero Buffo di due anni fa, con le sue ironia sulla Chiesa ufficiale: all’Auditorium una seconda volta no, pare che abbiano detto.
«Era stato un tale trionfo che lì per lì volevano farci fare la replica. Se ne sono accorti in ritardo, a quanto pare, così stavolta hanno agito preventivamente: bloccare uno spettacolo due mesi prima, non s’era mai visto. È che si sono spaventati vedendo che le prenotazioni dei biglietti fioccavano. Fate in modo che i contadini non sappiano e non conoscano, dicevano i proprietari terrieri siciliani dell’800...».
Non ha pensato di scrivere al papa?
«No, mi sembrerebbe di speculare. Se ho sollevato il caso è per un problema civile, legato alla democrazia, al rispetto del diritto di parola che è ancora un vulnus pesante in questo paese. E poi secondo me c’è lo zampino di Franca: la censura ci ha dato una gran pubblicità, a Roma già mi hanno offerto un altro teatro. Sarà entrata nottetempo nel sogno di qualche vescovo e lui atterrito ha fatto l’autogol».

Corriere 1.11.13
Le squillo bambine
Noi genitori smarriti di adolescenti misteriosi
di Maria Laura Rodotà


Per reagire con equilibrio alle notizie sulle prostitute adolescenti di Roma Nord, una mamma deve essere cresciuta, come minimo, a Roma Nord. Aver fatto la Prima Comunione col parroco di Mamma Ebe (giuro; comunione precedente all’arresto). Aver frequentato la gloriosa scuola media statale Tor di Quinto, conoscendo un paio di belle ragazze un po’ ripetenti che venivano viste a volte battere sul viale omonimo (anni dopo, il nome dell’istituto è stato cambiato; nel frattempo Tor di Quinto non era più sinonimo romano di prostituzione di strada, però le femmine della mia generazione, nei tornei interscuola, si son sentite dire di tutto). Aver incrociato fanciulle diafane ed eleganti — di zona Giochi delfici — che facevano il liceo dalle suore e potevano uscire solo il pomeriggio e si producevano, in quelle poche ore, in performance leggendarie (così ci veniva raccontato).
Questo per dire che nelle nostre città, tra le persone che conosciamo, casi come quello delle giovani escort ci sono sempre stati. Che non è colpa della disgregazione familiare (alcune delle leggendarie erano rampolle di clan solidissimi). Né degli smartphone e dei social network (succedeva di tutto anche quando c’era un telefono fisso per sei persone). Che non è necessariamente colpa — al netto della genitrice arrestata — dei papà e delle mamme (anche se molti dei nostri figli spenderanno una fortuna raccontando agli psicoterapeuti quanto ci detestano). Che è una nuova versione di una vecchia e brutta storia con altri mezzi (ma gli stessi luoghi-tipo; le due ragazzine davano appuntamento al Bioparco di Villa Borghese a un trentenne con la Smart, secoli fa si appartavano dietro lo Zoo, allora si chiamava così, con trentenni con la Golf, per dire). Che si può tentare di fare del proprio meglio (tutti pensiamo di farlo, anche se poi). Che a volte il possibile non basta (figlie e figli spariscono senza motivo, anche se vanno a studiare matematica, per non farsi tampinare da noi; e l’unico modo per sapere se sono vivi è controllare il loro stato su WhatsApp, vedere se sono online o si sono collegati da poco, e sentirsi degli stalker, ovvio).
Che forse, oggi, il problema è capovolto. Un tempo, un genitore doveva mettere in guardia contro il sesso; ora, forse, non si fa abbastanza per spiegare ai teenager quanto fare sesso possa essere bello, appagante, e pure formativo se lo si desidera veramente; se non è una merce di scambio. La frangia più frivola della popolazione adolescente sembra banalizzarlo parecchio, e in casi estremi sembra usarlo per ottenere borse e scarpe. Neanche prestigio sociale e fidanzati ambiti, proprio borse e scarpe. Succede in Bling Ring di Sofia Coppola, dove solo una delle protagoniste ha una sporadica frequentazione maschile, le altre pensano solo agli oggetti. Succede a Roma, e ora si parla di ragazzine che andavano con «brutti panzoni» per comprare accessori di lusso e andare nei privé dei locali ganzi (quelli che se lo possono permettere senza darsi via, a Milano, sono detti «paganti», ambosessi; e definire così, in base alla capacità di spesa serale, quelli che un tempo sarebbero stati i figli/e della borghesia produttiva non è una buona notizia, neanche questa, per niente).

Corriere 1.11.13
Alitalia, schiaffo di Air France
“La compagnia vale zero”
Quel sogno di comprare un grattacielo a New York
di Sergio Rizzo


La sede faraonica della Magliana, le 600 stanze vuote in un albergo di Malpensa pagate per un anno La chiamavano in gergo «biglietteria speciale». Perché davvero speciali erano i biglietti che emetteva. Intanto il costo: zero. E poi i destinatari: tutti Very important person. E tutti rigorosamente in prima classe. Politici, giornalisti, manager.... Ma anche amici e parenti. Perché a un certo punto il privilegio prese a scendere democraticamente i gradini della scala sociale. Quando nel 2004 Giancarlo Cimoli arrivò all’Alitalia per il suo certo non indimenticabile passaggio al timone della compagnia di bandiera scoprì che la «biglietteria speciale» aveva staccato in sette anni almeno quattromila di quegli specialissimi biglietti. Quattromila.
Capiamoci: l’Alitalia non è affondata per un pugno, anche se bello grosso, di biglietti di favore. Ma per capire come una compagnia per cui nel 1987 il presidente dell’Iri Romano Prodi poteva senza suscitare ilarità immaginare una fusione alla pari con British Airways sia ridotta oggi a malato terminale senza più nemmeno «l’unica clinica disposta ad accoglierlo», per ricordare la frase con cui Tommaso Padoa-Schioppa spiegò l’accordo con Air France poi saltato, e dal quale fuggono perfino coloro che avevano giurato di salvarla, si deve partire da qua. Da come la politica, alleata di gestioni talvolta scandalose e sindacati indifferenti alle angosce del conto economico, anno dopo anno prima contribuì a spolparla. Poi a usarla come randello elettorale.
Negli anni in cui l’Iri aveva seicentomila dipendenti e controllava il 70 per cento della capitalizzazione di borsa non era un andazzo tanto raro. Basterebbe ricordare come il progetto di comprare un grattacielo a New York dove piazzare lussuose sedi delle holding di Stato sfumò soltanto per i contrasti fra i vari boiardi. Chi sarebbe finito al primo piano? E a chi, invece, sarebbe toccato l’attico con vista sull’Empire, il Chrysler e le Torri gemelle?
Ma quanto a grandeur, l’Alitalia non la fregava nessuno. Chiamato a officiare la sepoltura della vecchia compagnia di bandiera che aveva passato il marchio a Roberto Colaninno e ai «capitani coraggiosi che lo affiancavano», il commissario Augusto Fantozzi ebbe un ufficio nella gigantesca sede della Magliana, a venti chilometri da Fiumicino, che sarebbe stata troppo grande anche per la General Motors. L’avevano pagata 250 miliardi di lire (quando i miliardi erano miliardi) dopo aver venduto per 90 il palazzo dell’Eur. Una rimessa secca di 160 miliardi, con in più i costi faraonici di un complesso faraonico. Ma quella era solo una tessera del mosaico. Da lì Fantozzi scoprì che c’erano 60 (sessanta) sedi all’estero. Rimaste aperte per anni, nonostante gli scali coperti dalla compagnia italiana si fossero negli anni miseramente ridotti a una quindicina. Non parliamo di quella londinese di Heathrow, arrivata a stipendiare trecento persone. Ma per esempio di un ufficio in Libia. O in Senegal. O delle due sedi indiane, Mumbai e Delhi. Oppure degli uffici di Hong Kong, dove non arrivavano più da tempo nemmeno i cargo con il tricolore stampato sulla coda ma c’erano ancora 15 dipendenti e un conto da 1200 dollari da pagare ogni giorno all’hotel Hyatt. Del resto, davanti ai conti degli alberghi l’Alitalia non ha mai fatto una piega. Come quando pagò per un anno intero seicento stanze negli hotel intorno a Malpensa destinate agli equipaggi che avrebbero dovuto fare base nello scalo varesino. Rimaste ovviamente vuote. E pagò con leggerezza. La stessa leggerezza con cui volava sugli ostacoli il cavallo montato dall’esperto fantino Giuseppe Bonomi: il manager più amato da Umberto Bossi, che quando era presidente dell’Alitalia gareggiava nei concorsi ippici sponsorizzati dalla compagnia di bandiera.
Non l’unica sponsorizzazione, sia chiaro. Il logo dell’Alitalia era stampato sui pettorali dei concorrenti delle marce podistiche di Ostia, campeggiava negli stadi di pallavolo del varesotto, sul giornalino dell’Eur di Roma… Anche quando la crisi era ormai diventata nera, nerissima. Era allora, anzi, che i geni della comunicazione aziendale riuscivano a dare il meglio di sé. Fu pochi mesi prima del tracollo che venne sventata per miracolo la sponsorizzazione di una mostra di abiti di sposa a Tokyo. Mentre nulla riuscì ad arrestare l’inevitabile doppio restiling della costosissima rivista di bordo Ulisse 2000, famosa per le illustri collaborazioni (non gratuite, immaginiamo) di alcune delle firme giornalistiche più note. Il primo assegnato a una società dell’ex collaboratrice dell’ex gran maestro della massoneria Armando Corona, compensata per il disturbo con 10 mila euro al mese. Il secondo affidato a una ditta di cui era proprietario per metà l’attore Pino Insegno, che partecipò anche uno spettacolo alla Sala Umberto di Roma con tanto di attori e attrici vestiti da piloti e hostess per festeggiare i sessant’anni dell’Alitalia. Ideona poi replicata a New York, stavolta senza Insegno, per i cinquant’anni del primo volo da Roma. Il tutto, giusto poche settimane prima che saltasse la vendita ad Air France, che Silvio Berlusconi rivincesse le elezioni e che i suoi «capitani coraggiosi» scendessero in campo per «salvare» la compagnia di bandiera. Di lì a poco, la società di Insegno per il restiling di Ulisse 2000 si sarebbe trovata nella lista dei creditori della vecchia Alitalia, con 77 mila euro. Fianco a fianco con Peccati di Capri, la pasticceria napoletana che forniva i cioccolatini di benvenuto offerti ai passeggeri dell’Alitalia: 3.852 euro. Fossero almeno serviti ad addolcire la pillola...

il Fatto 1.11.13
La sanità non taglia l’ente inutile
Il governo finanzia l’Ime gestita dai potenti
Che poi girano i soldi al San Rafaele
di Emiliano Liuzzi


Nel bagno di sangue per il settore della sanità perseguito dai governi negli ultimi anni, c’è una fondazione che, invece di decrescere, incassa di più: parliamo dell'Ime, l’istituto mediterraneo di ematologia, diretto dal fu senatore Valentino Martelli, cardiochirurgo, noto per presentarsi in aula con un quadrante dell’orologio che raffigurava il duce e a bordo di una vecchia Rolls Royce, di sua proprietà. Alle elezioni del 2001, nel collegio di Cagliari, ottenne 64.241 voti e una percentuale del 38,9. Stravagante, sì, ma stimato. Non c'è dubbio. Almeno dagli elettori.
L’IME, CHE NELLA spending review di montiana memoria era scomparsa, riappare nella legge di stabilità del governo Letta con tre milioni e mezzo di euro di finanziamenti pubblici. Per la gioia di tutto il mondo cattolico, visto che la stessa fondazione è anche uno dei tre grandi sponsor del San Raffaele. In sostanza i soldi partono dal governo, vengono girati sui conti Ime che poi li trasferisce al San Raffaele. Un gioco delle tre carte al quale siamo abituati. La fondazione Ime, per lo svolgimento delle sue attività di cooperazione sanitaria, ricerca e cura, ha ricevuto finanziamenti dal ministero in abbondanza nel corso degli anni. Il primo venne regolamentato dal decreto del 2003, quindici milioni di euro nel 2003. A seguire ricevette, tra il 2004 e il 2005, diviso in più “rate”, qualcosa come 59 milioni di euro. Tutti soldi pubblici. “Le modalità di erogazione dei fondi concessi sono state sempre collegate al rispetto dei programmi di attività e spesa elaborati periodicamente e sottoposti alla approvazione degli organi della fondazione”, disse in risposta a un'interrogazione l’ex ministro della Sanità, Fazio. Risposta che dice tutto e niente. Sappiamo che la fondazione rappresenta un'eccellenza, certo. Ma come mai abbia ricevuto negli ultimi anni così tanti soldi non è mai stato spiegato. E non è mai stato spiegato come e in quale forma i soldi venivano girati al San Raffaele di Milano.
Nel 2012 il governo era pronto a chiuderlo, perché considerato ente inutile. Poi ci fu un dietrofront: "L’Ime”, annunciò il senatore finiano Mario Baldassarri, all'epoca presidente della commissione Finanze, “non è un ente inutile: la sua chiusura non avrebbe fatto risparmiare un centesimo”.
NESSUNA CHIUSURA, ma il dimezzamento delle erogazioni: da 6 milioni a tre. Buon compromesso. Poi arriva Letta e l'Ime (che è presieduto dall'ex ambasciatore Giancarlo Aragona) guadagna addirittura mezzo milione di euro. Mistero? No, una scelta del governo. Sicuramente oltre a Martelli e Aragona, l'Ime ha un altro personaggio illustre nei suoi organi dirigenti: è il professor Renato Lauro, magnifico rettore dell'università di Tor Vergata, l'uomo che Luigi Bisignani, nel racconto ai pm, chiama zio. La stessa persona che Angelo Balducci, prima di essere arrestato, chiama alla ricerca di un attestato che certifichi la malattia.

Corriere 1.11.13
Seconda dopo l’Australia
La Germania riconosce il terzo sesso, una legge con effetto boomerang
di Adriana Bazzi


La Germania riconosce il terzo genere. Oggi entra in vigore la legge che consentirà ai genitori di non registrare sul certificato di nascita il sesso del proprio figlio quando è «indeterminato». Si potrà lasciare la casella vuota oppure mettere una X, invece di maschio o femmina.
La Germania è il primo Paese europeo ad adottare una norma del genere, la seconda dopo l’Australia.
I bambini che nascono con un problema di ambiguità sessuali non sono tantissimi: il disturbo interessa, a seconda delle statistiche, una persona su ogni 3-5 mila nati. Ed è legato a anomalie dei cromosomi o a difetti genetici: un individuo ha, per esempio, sembianze femminili, ma i suoi cromosomi sessuali sono XY, cioè maschili.
Per molti la nuova legge tedesca è una conquista perché lascia la possibilità a una persona di scegliere il sesso quando diventa adulto (di solito, invece, un individuo tende a scegliere il sesso che gli è stato assegnato alla nascita) ed evita ai genitori di dover decidere, subito dopo la nascita, il sesso del proprio figlio e di ricorrere a interventi chirurgici che, anche se raramente, potrebbero non essere corretti.
In effetti i chirurghi oggi, sia europei che americani (anche se negli Stati Uniti non esiste per ora alcun riconoscimento formale di queste condizioni) tendono a non intervenire immediatamente per assegnare un determinato genere a un bambino con «genitali ambigui», ma aspettano che cresca.
Per alcuni, però, la nuova legge tedesca potrebbe avere un effetto boomerang.
Alcuni genitori, infatti, potrebbero temere lo stigma legato al fatto che il figlio «non ha sesso» e di conseguenza richiedere, con ancora maggiore urgenza, un intervento chirurgico correttivo. Così la legge, invece di evitare a padri e madri decisioni affrettate, finisce per accelerarle.
E poi c’è tutta la questione etica: secondo alcuni attivisti non essere né maschio né femmina significa essere «it» che nella lingua inglese è il pronome riferito alle cose.

La Stampa TuttoScienze 30.10.13
Riscopriamo Pitagora
Il futuro ha bisogno della fantasia esatta
di Stefano Rizzato

qui

La Stampa TuttoScienze 30.10.13
Godel e Dio: la dimostrazione adesso c’è
di Elena Rinaldi

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Repubblica 1.11.13
Galante Garrone e gli ultimi Mohicani
Un convegno a Torino ricorda il giurista e partigiano morto 10 anni fa
di Massimo Novelli


In una lettera a Giorgio La Malfa, che lo aveva invitato a un incontro politico, l’8 maggio del 1989 Alessandro Galante Garrone, il “mite giacobino” (come si definì) della Resistenza, coglieva l’occasione per riaffermare con orgoglio e passione che «qualcosa di quelle idee, di quella fede, di quei propositi», incarnati da Giustizia e Libertà e dal partito d’azione, «è rimasto vivo» e ha dato «qualche frutto alla storia italiana di questi quarantacinque anni». Lo storico e magistrato vercellese, uomo di punta del Comitato di liberazione del Piemonte, protagonista di tante battaglie per un’Italia civile, diceva al figlio del suo amico Ugo La Malfa che «l’essere stato nel partito d’azione, e l’aver partecipato alla Resistenza, mi ha segnato per sempre». Poi, avviandosi a concludere, uno degli «ultimi mohicani» dell’azionismo, come si descriveva con la consueta ironia, non rinunciava a enunciare i problemi «che più mi stanno a cuore».
Ne venne fuori un manifesto politico significativo. Da «vecchio gobettiano, Gielle, e azionista», Galante Garrone indicava intanto a LaMalfa la questione costituzionale, da affrontarsi con «limitate e realistiche riforme della Costituzione che non ne intralcino la struttura fondamentale, la ispirazione e i principi scaturiti dalla lotta antifascista». Proseguiva ribadendo «il saldo ancoraggio all’Europa », la «imperterrita difesa della laicità dello Stato e della libertà religiosa e di coscienza», la «indipendenza della magistratura contro qualsiasi indebita pretesa degli altri poteri». E terminava rammentando la necessità di una «inflessibile battaglia a ogni forma di criminalità organizzata » e una «severa moralizzazione della vita pubblica, non a parole». Scriveva queste cose da quasi ottantenne, qualche mese prima della caduta del Muro di Berlino. Scritte più di vent’anni fa, sono parole di oggi, di attualità evidente.
La lettera a La Malfa è una delle migliaia di documenti, più di 70 mila, che fanno parte dell’archivio del “mite giacobino”, del quale si ricorda con un convegno a Torino, il 14 novembre, il decennale della morte, avvenuta il 30 ottobre del 2003. Riordinato da Riccardo Marchis e dallo staff dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea intitolato a Giorgio Agosti, uno degli amici e dei compagni più cari di Galante Garrone, a fine mese verrà trasferito al Centro studi Piero Gobetti e presto sarà consultabile online. Suddiviso fra le carte di lavoro e la corrispondenza, il fondo rispecchia in modo esemplare le quattro stagioni della vita dello studioso nato a Vercelli nel 1909, lo stesso anno di Norberto Bobbio, di Leone Ginzburg, di Rita Levi Montalcini e di Dante Livio Bianco. Quattro fasi che compendiano il magistrato, l’antifascista e il partigiano, lo storico «per passione civile», come è stato detto,dei radicali italiani e dei giacobini; fino all’opinionista sulle colonne de La Stampa, sul fronte delle battaglie per l’affermazione dei diritti civili e sociali.
Dalle sue carte emerge con forza anche un aspetto poco noto, almeno finora, della personalità e dell’umanità dello studioso di Filippo Buonarroti e di Felice Cavallotti. Nella sezione della corrispondenza, oltre agli scambi epistolari con alcuni dei maggiori intellettuali del Novecento, da Benedetto Croce a Piero Calamandrei, Delio Cantimori, Federico Chabod, Arturo Carlo Jemolo, Adolfo Omodeo, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Leo Valiani, Franco Venturi, a George Lefebvre e ad Albert Soboul, ci sono numerose lettere con persone cosiddette comuni che gli sottoponevano i loro travagli. Sono vicende di figli nati fuori dal matrimonio, di persone disabili, di «legioni di cittadini nascosti e dimenticati». Sandro Galante Garrone rispondeva a tutti, facendo seguire alle parole il suo impegno per risolvere i problemi.

Repubblica 1.11.13
Slavoj Zizek
Il pensatore sloveno torna con un’opera sull’idealista tedesco. E si racconta
“Io, Elvis della filosofia, credo ancora che Hegel ci salverà
intervista di Giulio Azzolini


«Scusi, ho parlato troppo». All’improvviso Slavoj Zizek tace. Aveva rotto il ghiaccio con una storiella sulle sottili differenze che tormentano la sinistra. Il suo inglese prorompe scandito da un’inconfondibile esse blesa, il tono è grave, il volume alto. È appena tornato dalla Corea, ma rimarrà nella sua Lubiana solo qualche giorno. «Ora mi toccano gli Stati Uniti, poi la Bolivia. Adoro viaggiare e tutto ciò che mi serve sta nel mio computer. Per divertirmi inoltre guardo un sacco di film, anche se oggi sono stanchissimo per il trasloco...». I libri ingombrano. «No, è che un mesetto fa mi sono sposato». Il primo matrimonio? «Il quarto. Lei è più giovane di me, fa la giornalista culturale». Bene. «Con le mogli precedenti, però, conservo un ottimo rapporto». Zizek è «misantropo», dice. E pure «un vecchio stalinista», aggiunge scherzando a metà. Detesta le filosofie del dialogo, ma chiacchiera con entusiasmo e garbo impeccabile.
Esce in Italia la prima parte di Meno di niente (ed. Ponte alle Grazie), il suo monumentale saggio dedicato a Hegel. «La più grande impresa della mia vita», ha dichiarato. Perché?
«Oddio, in effetti messa così suona abbastanza grottesco. Volevo soltanto dire che ricapitola, in qualche modo, tutto il mio lavoro. Provo a chiarire le mie posizioni filosofiche e ontologiche fondamentali, anche se qui e là non manca qualche barzelletta sporca. Non riesco a sopravvivere senza».
È strano, perché i suoi libri sono talmente divertenti e ricchi di aneddoti da averle assicurato l’epiteto di “Elvis della filosofia”, ma il suo pensiero affonda le radici nei classici: la dialettica di Hegel, la critica dell’economia politica di Marx, le categorie psicoanalitiche di Lacan...
«Assolutamente. Mi fa piacere lo abbia notato. La gente crede che io mi diverta a giocare al postmoderno. Nulla di più falso. Il relativismo storicista postmoderno mi annoia parecchio e, anzi, è il mio nemico numero uno. Oggi tutto è diventato analisi del discorso e quasi nessuno si azzarda più a porre i grandi interrogativi, metafisici se vuole. Tanto che, aimiei occhi, la miglior filosofia del dopoguerra rimane lo strutturalismo di Althusser, Deleuze, Lacan... Non parliamo dell’arte, dove le vere conquiste dell’Europa risalgono a un secolo fa, o più: Mallarmé nella poesia, Stravinskij e Schönberg nella musica, Kandinskij e Malevic nella pittura. E la stessa nostalgia la provo nella musica rock, sono un reazionario dei primi anni Settanta».
Nel 1906 Benedetto Croce distingueva «ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel»; nel 1945 Karl Popper presentava Hegel come il profeta del totalitarismo. Lei, invece, riabilita l’idea di totalità e si chiede come essere hegeliani oggi. Perché?
«Che la nozione filosofica di totalità sia il germe del totalitarismo politico è un’idiozia che ha contagiato anche Lévinas e Adorno. Io penso il contrario. Se si esamina scrupolosamente ciò che Hegel intende per totalità, si capisce che non indica affatto un ordine ideale dove ogni cosa è in pace con se stessa. Osservare un fenomeno nella sua totalità significa, all’opposto, abbracciare nel suo concetto tutte le lacerazioni, i fallimenti, i conflitti. Per cui, essere hegeliani oggi significa includere nell’analisi del capitalismo contemporaneo le crisi, gli orrori, le guerre. Fa tutto parte della stessa totalità».
Eppure Hegel passa ancora per il filosofo della fine della storia, della riconciliazione...
«Riconciliazione non è sinonimo di armonia globale. Ogni lettore attento sa che la riconciliazione hegeliana non annulla la dialetticità del mondo, ma sancisce piuttosto il suo costitutivo antagonismo. Hegel non è un razionalista da quattro soldi, è al contrario il grande filosofo della contingenza. E, paradossalmente, è anche più concreto di Marx, perché, a differenza di quanto fa costui col proletariato, non attribuisce ad alcun soggetto sociale il potere di conoscere la direzione della storia e agire come suo strumento. Hegel lo dice chiaro e tondo: “La nottola di Minerva spicca il volo al tramonto”. E oggi ci troviamo esattamente in questa condizione: radicalmente aperta, impenetrabile alla teleologia, insomma, molto più hegeliana che marxiana».
La storia non ha placato l’antagonismo, d’accordo, ma come interpreta la diffusione dei governi di larga coalizione in Europa?
«È l’esito prevedibile del vecchio bipolarismo. Oggi tutti i grandi partiti, di destra e di sinistra, sono le due facce di un unico centro. E la tragedia è che l’unica opposizione all’ideologia liberaldemocratica è incarnata dai partiti populistici di una destra nazionalista».
Come mai nemmeno una fase di spaventose disuguaglianze procura consenso alla sinistra?
«La sinistra manca di visione globale e, se non bastasse, non ha uno straccio di programma alternativo alla spesa pubblica. La gente protesta ovunque e l’unica risposta è la promessa di un revival neo-keynesiano. Invece, sarebbe proprio questa l’occasione di reinventare una politica di larga scala. Abbiamo disperato bisogno di re-inventare la politica per confrontarci sui nuovi grandi temi che trascendono gli Stati: l’ecologia, la regolazione della finanza, la biogenetica... Ecco perché la sinistra non può che lottare per una diversa integrazione politica europea. Se l’Unione si disgregasse in un manipolo di Stati nazionali, ciascuno di loro sarebbe subito spazzato via dal mercato mondiale».
La miopia, però, non è solo programmatica e istituzionale. Lei un anno fa ha scritto e recitato nel film Guida perversa all’ideologia: ritiene che esista una “questione culturale”?
«L’ideologia dell’edonismo liberale non ha rivali, bilanciata solo leggermente da un ridicolo buddismo new age... E così, tra il “goditela” e lo “scopri te stesso”, uno dei pochi spazi di emancipazione sembra, lo dico da ateo, la Chiesa di Papa Francesco. Ma sa, quando sento ripetere la favola che le ideologie sono scomparse, di solito rispondo: siete matti? Guardate gli Stati Uniti. Sulla riforma sanitaria Obama ha dovuto combattere il cuore dell’ideologia americana, un individualismo sregolato. Lo sa che il sessanta per cento degli elettori repubblicani crede ancora che Obama sia musulmano? Una follia. Per non dire della crisi: sulle sue cause l’imbroglio è continuo».
Nel 1990 si candidò alle presidenziali in Slovenia. Ha chiuso con la politica attiva?
«Sono troppo stanco. Partecipo ancora alla vita pubblica, ma adesso il mio interesse fondamentale è la filosofia. Perciò, tranne le lezioni in giro per il mondo (sempre meno all’università, non le sopporto), passo tutto il giorno a leggere e scrivere. Se pensa che mi pagano pure per farlo, beh, sono molto fortunato».
Che libri legge?
«Forse è il momento di deluderla. A parte le nuove uscite su Hegel, sulla psicoanalisi e un po’ di teoria cinematografica, leggo molti romanzi polizieschi, anche italiani ovviamente. E non solo Camilleri. Mi piace Carofiglio, per esempio».
I suoi gusti cinematografici – Hitchcock su tutti – sono noti. Quelli letterari?
«Sono molto tradizionali. Mi piace il grande modernismo. Per me gli scrittori del Novecento sono tre: Kafka, Beckett e Andrej Platonov. Lo scrittore italiano che amo di più, invece, è Italo Svevo.
La coscienza di Zeno dovrebbe essere obbligatorio a scuola, specie oggi che qualunque idiota apra bocca se la prende contro il fumo ».
Appassionato di fiction, dunque, ma politicamente realista.
«In politica non sono né un idealista né un costruttivista postmoderno. La gente è così stupida che a volte mi prende sul serio per uno stalinista ortodosso. In realtà, odio lo pseudo-radicalismo e sono, semplicemente, un pessimista pragmatico. Credo che il compito di un intellettuale sia cogliere un problema e descriverlo radicalmente, senza offrire soluzioni a buon mercato».
«Seminare dubbi, non raccogliere certezze», diceva Norberto Bobbio.
«Bisogna fare le domande giuste. Spesso discutiamo di problemi reali, ma il modo stesso in cui li formuliamo è mistificato. Oggi più che mai è importante fare le domande giuste».

Il libro Meno di niente Hegel e l’ombra del materialismo dialettico (vol. 1) di Slavoj Zizek (Ponte alle Grazie, trad. di W. Montefusco e C. Salzani pagg. 700, euro 29)

giovedì 31 ottobre 2013

Trovati i corpi di 87 migranti morti di sete nel Sahara
Almeno 48 erano bambini o ragazzi
Sono 80mila le persone che tentano di attraversarlo
BBC News 31.10.13, citato a Radio3 Mondo questa mattina
Rescue workers in Niger say they have found the bodies of 87 people who died of thirst after their vehicles broke down as they tried to cross the Sahara

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l’Unità 31.10.13
«Noi, dimenticati da un mese a Lampedusa»
Tra i sopravvissuti del naufragio: «Non so dov’è sepolta mia moglie»
di Flore Murard-Yovanovitch


Quasi un mese dopo, i sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre sono ancora a Lampedusa. Nel cortile del centro di contrada Imbriacola giacciono su materassi, sotto tetti di plastica, senza accoglienza, malgrado la sfilata di politici italiani ed europei tra pianti e promesse.

Quasi un mese dopo, i sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre scorso sono ancora a Lampedusa, sull’isola che ogni giorno ricorda loro il trauma vissuto, vicini al mare, da cui vorrebbero liberarsi per essere trasferiti al più presto sulla terraferma, lontani dalle onde. Nel cortile del centro di contrada Imbriacola, dove giungono nuovi migranti, i superstiti della tragedia collettiva giacciono su materassi sotto tetti di plastica, senza accoglienza, malgrado la sfilata di politici italiani ed europei tra pianti e promesse. Johannes mi chiede: «Perché siamo ancora qua, un mese dopo la strage? Perché non abbiamo ricevuto nessuna protezione da parte dell’Italia?». Si avvicina anche Petros, ma è solo nome di fantasia: «Vogliamo che sia fatta luce sulla dinamica dell’incidente dice Perché, dopo l’allarme, per due ore non siamo stati soccorsi anche se costeggiati da altri pescherecci?». Quei 108 superstiti rimasti chiedono di essere trasferiti al più presto tutti insieme, perché ormai sono legati da quell’esperienza drammatica, ma le loro richieste all’Ufficio Immigrazione sono rimaste finora senza risposta. Come il fax che avevano mandato alla Prefettura di Agrigento per partecipare ai funerali dei loro parenti, coniugi e fratelli il 21 ottobre scorso. Di fronte alla morte, lo Stato italiano non ha consentito a quegli uomini un ultimo saluto, potersi raccogliere sulle salme, seppellire i propri morti. È questa la vera storia di quei giorni: l’estrema violenza istituzionale che si è compiuta sulla pelle di quei migranti. La grottesca sceneggiata dei funerali di Stato senza bare né parenti, trattenuti sull’isola, o con bare spostate come pacchi all’insaputa dei parenti, o ancora l’oscena idea-beffa, per fortuna poi scartata, di un maxi-schermo in diretta... Dopo la protesta, loro hanno celebrato una cerimonia spontanea sulle rocce della Guitjia.
Gemal ha perso il fratello minore, sorridente nelle foto scattate a Khartoum, prima di affrontare il deserto, che fa scorrere sullo smart phone. Teklom, invece, della giovane moglie non ha nemmeno un ricordo, nulla, e ancora oggi non sa nemmeno in quale cimitero dell’Agrigentino sia stata seppellita. Soltanto se riuscirà a recarsi alla Questura di Agrigento potrà saperlo e cercare una tomba su cui piangere. Ma cosa avverrà agli altri se, come probabile, verranno reclusi nei centri di cosiddetta accoglienza sparsi in Italia?
Quei giovani adulti hanno incubi su quella notte in mare, ultimo dramma che si è aggiunto alle violenze subite in Libia. Molti di loro si svegliano di notte, il loro ciclo sonno-veglia è alterato. Lilian Pizzi psicologa lavora al centro ed è coordinatrice del progetto di Terre des Hommes «Faro3 progetto psicologico e psicosociale per i minori stranieri non accompagnati e le famiglie con bambini». «Permanendo nello stesso luogo della tragedia spiega il dolore si riattualizza e si inasprisce ogni giorno che passa. Sarebbe come vivere un mese nella stanza dove è morto la propria moglie o il proprio fratello, senza poterne uscire. È auspicabile che i sopravvissuti possano lasciare l’isola il prima possibile anche per questo. Nel loro caso la ferita ha una doppia valenza, una individuale e una collettiva. Per i superstiti non avere potuto partecipare ai funerali dei propri cari, rituale universalmente indispensabile, non ha consentito una giusta separazione dalla morte».
Lo stress passato riguarda anche l’incertezza dell’immediato futuro. La loro preoccupazione più grande è quella del prelievo delle impronte digitali, che significherebbe essere bloccati in Italia senza poter raggiungere i parenti nei paesi nord europei, Svezia, Norvegia e Gran Bretagna. Quasi tutti, uomini e donne, anche giovanissimi, sono ex soldati arruolati di forza per periodi illimitati di tempo, e raccontano della militarizzazione eccessiva che colpisce il tessuto della società eritrea, della paura, della mancanza di libertà.
Sognano la Svezia. Ma confessano che per arrivarci saranno costretti a migrare nascosti verso il Nord Europa, rischiare ancora, dopo il Mediterraneo, fuggire ancora e ancora. Nel frattempo, altri barconi arrivano nel porticciolo di pescatori di Lampedusa: eritrei che fuggono ogni giorno il regno del terrore che è diventato l’ex colonia italiana. Secondo l’agenzia per i rifugiati dell’Onu (Unhcr), nel 2012 sono fuggite dall’Eritrea 305.723 persone, e quelli che ogni mese
lasciano il paese sono tra i due e i tremila. Un esilio politico, la fuga di un popolo perseguitato, a cui si aggiunge il rinculo di una storia coloniale ancora tabù. Ma questa sporca coscienza italiana, malcelata da effimero sentimentalismo, non potrà a lungo nascondere che le traversate hanno ragioni e nomi, accordi italo-eritrei, complicità tra Stati, leggi migratorie: tutte cause politiche.

Repubblica 31.10.13
“Noi derubati sulla nave militare” il giallo del furto ai profughi siriani
Dopo il soccorso, spariscono soldi e gioielli. Aperte due inchieste
di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti


AGRIGENTO — Il loro futuro, gelosamente custodito in buste e marsupi stretti al corpo, glielo hanno portato via sulla nave che li ha salvati. Dollari e qualche gioiello di famiglia, quel poco su cui contavano per costruirsi una nuova vita in Europa. E invece, dalla corvetta Chimera della Marina militare italiana, sono scesi a mani vuote o quasi, i sacchetti con il loro piccolo “tesoro” tagliati di netto e svuotati, altri spariti del tutto. Chi, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre, ha messo le mani sulle buste in cui erano stati custoditi gli averi dei 95 profughi soccorsi nel Canale di Sicilia, si è impadronito di contanti e gioielli per più di 100 mila euro. Almeno così sostengono i migranti, quasi tutti siriani, che — appena sbarcati a Porto Empedocle — hanno chiesto di essere subito portati in questura. Una trentina le denunce per furto sottoscritte dai profughi che hanno dato vita a due inchieste, una della Procura di Agrigento, l’altra della Procura militare.
Derubati da chi li ha soccorsi, da chi — come hanno dimostrato nelle tante operazioni di questi giorni — con abnegazione e coraggio si tuffa in mare per salvare donne e bambini? Sembra incredibile ma così sostengono i migranti nei verbali sottoscritti negli uffici della squadra mobile. Denunce piene di particolari che hanno indotto la magistratura ad ordinare una perquisizione a bordo della corvetta che, però, nelfrattempo, aveva lasciato Porto Empedocle per riprendere i suoi compiti di pattugliamento nel Canale di Sicilia nell’ambito dell’operazione “Mare nostrum”. Quando, il giorno successivo, gli investigatori sono saliti a bordo della nave, tornata alla base militare di Augusta, dei soldi e dei gioielli spariti non è stata trovata alcuna traccia.
Ma l’ipotesi di reato resta in piedi e le denunce dei migranti sono ora al vaglio dei pm di Agrigento diretti dal procuratore Renato Di Natale e del procuratore militare di Napoli Lucio Molinari. «Quando ci hanno preso a bordo — ha raccontato uno dei profughi — i militari, dopo averci soccorso e riscaldato, ci hanno perquisito e passato al metal detector. Ci chiedevano di consegnare loro quello che avevamo indosso, ce l’avrebbero restituito appena sbarcati. Per ognuno di noi c’era un sacchetto con un numero. Ma quanmaredo ci hanno fatti scendere dalla nave, il mio sacchetto come molti altri era tagliato ed erano stati portati via quasi tutti i dollari e qualche piccolo oggetto in oro». Dai 3000 ai 5000 dollari a testa, più collane, bracciali, anelli. Tanto i profughi siriani, quasi sempre appartenenti a classi sociali medio-alte, hanno dichiarato di aver avuto portato via.
L’operazione di soccorso al centro delle indagini è quella avvenutala sera del 25 ottobre trenta miglia a sud ovest di Lampedusa. E’ una di quelle serate di emergenza continua. Il barcone dei siriani è alla deriva, a bordo si sbracciano per chiedere aiuto, sono tutti senza salvagente. Sono in 95, 48 uomini, 22 donne, 25 bambini. Il è calmo, tutti vengono presi a bordo della corvetta Chimera, riscaldati e rifocillati. Poi ad ognuno di loro vengono chiesti i dati per l’identificazione e la consegna di soldi e oggetti personali. La nave si dirige verso Porto Empedocle dove nella tarda mattinata di sabato sbarca i migranti. Quasi tutti gli uomini, prima di scendere, reclamano i loro averi. Alcuni dicono di aver avuto indietro i sacchetti tagliati e svuotati, altri di non aver avuto indietro nulla. Non c’è tempo per protestare. I profughi vengono condotti nella tensostruttura mentre la corvetta riprende il mare. Il giorno dopo la perquisizione disposta dalla magistratura dà esito negativo ma dal 25 ottobre per la Chimera quello è stato l’ultimo soccorso nel Canale di Sicilia.

l’Unità 31.10.13
La Leopolda ha rimosso completamente le donne
Forse perché poco cool, la questione femminile è del tutto ignorata da Renzi
Vecchiume da cui tenersi alla larga, come le bandiere di partito
Che delusione se alle donne ci si rivolge solo come a elettrici da sedurre
di Silvia Ballestra


Giovani, carini, molto occupati. Si direbbe un passo avanti: i candidati alla segreteria del maggior partito della sinistra italiana rappresentano il nuovo, anzi il moderno, con la comunicazione come primo pensiero e una confezione raffinata, soprattutto nel caso di Renzi, segretario in pectore.
Il passo indietro, invece, è che sono tutti maschi e questa volta non c’è nemmeno, come nelle primarie dell’anno scorso, una presenza femminile di testimonianza. Si dirà che siamo abituati a questa prevalenza del maschile, e ce ne faremo – sempre a fatica, ovvio – una ragione. Un po’ più grave, invece, che la questione femminile risulti totalmente assente dal dibattito. Parafrasando Renzi, il suo immaginifico linguaggio e i suoi baricchismi che sembrano piacere tanto ai giornali e al pubblico mainstream “né di destra né di sinistra”, potrei dire che lo “stupore” è tutto mio.
Non un cenno, nel discorso finale alla Leopolda, sul nostro vergognoso posizionamento nelle classifiche mondiali della disparità di genere, sui 47 centesimi di media guadagnati da una donna italiana per ogni euro guadagnato da un uomo, sulle pensionate che percepiscono in media il 31 per cento in meno dei pensionati. Ci sarà forse tempo per precisare, per rimediare, per mettere a fuoco, ma, qui e ora, la sensazione, assai sgradevole, è che l’argomento non sia considerato abbastanza glamorous.
Insomma, in tutta quella modernità di parole e simboli, in quel patinato nuovismo, la questione femminile pare vecchia, polverosa, meglio tenersene alla larga come da altro vecchiume poco performante in termini di immagine (simboli di partito, diritti, donne, uff che vecchiume!).
Indicativo per esempio che nell’estetica molto americana delle success stories che Renzi propone a modello, anche quelle tutte molto chic, dal re del cachemire al re del food, donne non se vedano. Un’altra volta: tutti maschi.
Altra sensazione: pare che le donne di contorno al leader, anche loro giovani, carine e molto occupate, facciano da supporto e fureria. E c’è da sperare che saranno loro, con i fatti, a smentire di essere soltanto volti nuovi per i talk-show e poco più.
C’è dunque nell’aria una doppia delusione. La prima, più politica, per un aspirante segretario di un partito grande, popolare, vivo, che aspira a guidare il Paese, che sembra scordarsi di una questione essenziale e primaria come la parità, prima di tutto economica e di diritti, tra i sessi. E la seconda, più culturale, per una generazione emergente, i nati nei Sessanta e nei Settanta, che pare riprodurre, anche se più “modernamente”, tic e difetti del passato. Se il “nuovo”, il “moderno” e il “cool” è l’attenzione per le donne intese come massa elettorale da sedurre, poi, la delusione si moltiplica. Si può perdonare al nuovo che avanza di avere simboli e linguaggi non nuovissimi (la Vespa, Jovanotti, il blairismo, il merito...), ma non di espellere dal suo discorso, perché poco affascinante, un’emergenza vera, quella della condizione femminile, che colloca il Paese, ben più di altre emergenze, ai piani bassi e bassissimi delle classifiche mondiali.

l’Unità 31.10.13
Anche in Veneto irregolarità nelle iscrizioni
di Toni Jop


Da sotto in su: il congresso Pd della provincia di Rovigo rischia di saltare. Leader politici ed eletti ci stanno riflettendo e il motivo che ha spinto verso questa ipotesi è piuttosto grave: troppe irregolarità, troppi giochi sporchi in alcune realtà della zona dove si stanno contando le tessere ma non si finisce mai di contare, perché le tessere crescono in queste ore come funghi dopo un temporale, ma il temporale non c'è stato. Così, come è accaduto e sta accadendo ancora in altre realtà locali tra Sud e Nord, l'apertura delle iscrizioni in vista dei congressi ai quali è legata la futura leadership del più gran partito della sinistra sembra assediata qui e lì da un arrembaggio che va ben oltre l'interesse politico acceso da questa nuova dinamica precongressuale. Il fatto è che con una ventina di persone ben organizzate e cementate da un interesse che ha niente a che fare con il partito, puoi, più o meno, controllare un circolo, promuovere delegati, caldeggiare scelte sia locali che nazionali.
La verità è questa: senza alcun filtro adeguato, questa pagina di storia della sinistra rischia di trasformarsi nel motore implosivo di una grande forza politica che può perdere credibilità, autonomia e identità culturale. Per questo, a Rovigo hanno pensato di sospendere tutto, di fermare la macchina congressuale. «Cuperliani», «renziani», «civatiani», «pittelliani», di fronte agli eventi uniti nella meraviglia nonostante le tensioni tra loro, hanno avuto modo di seguire quel che è successo ad Adria, Porto Viro, Castelmassa e non c'è da stare allegri.
A Porto Viro, ad esempio. Qui, numerosi testimoni hanno notato due persone ferme accanto all'ingresso del circolo dove si votava: consegnavano qualcosa ad alcuni passanti che poi, soldi in mano, entravano per iscriversi. Inquietante. Su dieci congressi locali tenutisi fin qui nella zona, sette denunciano pesanti irregolarità. Il banco sta per saltare? Il segretario uscente del Pd polesano, Diego Crivellari, e il consigliere regionale Graziano Azzalin si muovono. Organizzano in gran fretta stiamo parlando di qualche giorno fa una conferenza stampa per far sapere all'opinione pubblica che così le cose non vanno, che si sta scivolando in una dimensione non voluta, non controllabile.
«Quello che è successo è il sintomo di una malattia grave dice Azzalin al microfono bisogna evitare che questo congresso sancisca la fine del Pd....»; ma il rischio c'era, non è così? «Pensavamo che i fatti accaduti a Trapani, Caserta, Lecce, Catania riguardassero solo altre realtà e invece...». Così, di fronte alle irregolarità piovute a Castelmassa, un iscritto ha stracciato la tessera, ma l'iscritto, Michele Cirella, è anche consigliere comunale.
Ad Adria, hanno scoperto che il numero delle schede è stato superiore al numero dei votanti, il conto economico non in linea con la quantità di schede, alcune bianche, altre con l'importo corretto a mano, nella cassetta dei soldi ecco anche una bella bolletta Enel da pagare. Crivellari e Azzalin avevano chiesto la sospensione del congresso: a loro giudizio ce n'era abbastanza per ritenere falsato l'esito della consultazione. Tra Porto Viro, Adria e Castelmassa, subito dopo l'invito lanciato alla Leopolda da Renzi si sono precipitate ai seggi oltre duecento persone, soldi in mano. Ressa e spintoni, qualcuno è stato rispedito indietro, qualcuno no. Ad Adria, ancora, gli iscritti erano 170 e in pochi minuti sono diventati un centinaio in più, e così sono lievitati anche i voti.
Rosanna Filippin, segretaria regionale del Pd veneto e apertamente schierata con Renzi, misura i fatti: «Si tratta sostiene di tre casi isolati dove la competizione è più accesa», del resto «lo statuto prevede che ci si possa iscrivere prosegue il giorno stesso del voto». Filippin ridimensiona ma non c'è contrasto sostanziale tra la sua visione delle cose e quella di Azzalin e Crivellari. Infatti, ecco che la strada si trova: congresso sospeso e uno tutte le irregolarità manifeste verranno messe all'indice e due, le iscrizioni non corrette, e di conseguenza i voti relativi, verranno annullati.
Commissioni di garanzia al lavoro anche perché si ritiene che la vicenda tocchi, eccome, i principi etici del partito. Oggi commissione regionale convocata per valutare se e come salvare il congresso.

l’Unità 31.10.13
Pd, tensioni sul tesseramento Cuperlo: «No al partito-marmellata»
Ancora scontri nei circoli sul numero dei votanti
Primarie, si farà il confronto tv tra i quattro candidati
Sondaggio di Piepoli sulla fiducia degli elettori di centrosinistra Matteo Renzi al 71 per cento, Gianni Cuperlo al 69
di Simone Collini


ROMA Mentre in molte parti d’Italia rimane alta la tensione sul tesseramento, con congressi sospesi per le troppe iscrizioni sospette e la Commissione nazionale che è tornata a riunirsi per sbrogliare i casi più complicati, nel fronte pro-Renzi si contestano i dati forniti martedì dal comitato Cuperlo, secondo i quali oltre la metà dei segretari locali eletti in questi giorni sostiene nella sfida nazionale il deputato triestino. Bisognerà aspettare il 6 novembre per conoscere le cifre definitive, ma intanto c’è un altro dato che ora arriva a sorpresa. Si tratta di un sondaggio realizzato lunedì dall’Istituto Piepoli per la Stampa sull’affidabilità di diverse personalità del centrosinistra. Dall’indagine emerge che Letta gode della fiducia del 73% degli elettori, seguito da Renzi con il 71%, che però stacca di soli due punti Cuperlo, a quota 69% (poi c’è Epifani con il 65%). Percentuali che, unite al pronunciamento degli iscritti nei congressi di circolo e di federazione, spingono gli schieramenti a rivedere le previsioni finora fatte sul risultato delle primarie dell’8 dicembre.
Cuperlo è convinto che il tempo giochi a suo favore e guarda positivamente all’ipotesi che si faccia un confronto televisivo tra tutti e quattro i candidati alla segreteria del Pd (oltre a Renzi, hanno già comunicato il loro consenso anche Pittella e Civati): si sono dette disponibili ad ospitarlo sia la Rai che Mediaset, La7 e Sky, ma alla fine dovrebbe spuntarla una delle tre reti pubbliche (quanto al giorno, dovrebbe essere uno compreso tra la convenzione nazionale del Pd del 24 novembre, che sancirà chi è il vincitore tra gli iscritti al partito, e venerdì 6 dicembre).
A questo punto la sfida sembra polarizzarsi sempre più tra Renzi e Cuperlo, il quale ieri ha ribadito che il Pd deve dire «chi siamo e per chi siamo», lanciando una stoccata all’avversario: «Chi vuole fare della politica e del Pd una marmellata strana non mi convince». Un esplicito riferimento al sindaco di Firenze, che martedì aveva espresso un apprezzamento della riforma Fornero sulle pensioni, suscitando i malumori di un bel pezzo di Pd (per Damiano le dichiarazioni di Renzi sulla normativa che regola il mondo del lavoro «fanno venire la pelle d’oca»), del segretario nazionale Spi-Cgil Carla Cantone, che oggi sarà con Cuperlo a Bologna, e le dure critiche della Cgil di Firenze, che però ha attaccato il sindaco soprattutto per le parole sul rapporto tra il Pd e il sindacato: «Dire che la Cgil mette bocca sulle vicende del Pd e addirittura ne guiderebbe le scelte è una dichiarazione offensiva nei confronti dello stesso partito alla guida del quale si è candidato», ha detto il segretario della Cgil di Firenze Mauro Fuso.
E ora c’è un’altra uscita di Renzi guardata con sospetto tra i democratici (affidata al nuovo libro di Bruno Vespa) riguardante la necessità di una riforma della giustizia «che disciplini la responsabilità civile dei magistrati nel rispetto degli standard europei». Un’uscita a cui si a aggiunge una considerazione sul fatto che il voto in primavera è da escludere se ora verranno approvate le riforme necessarie: «Con i sondaggi che girano, l’ambizione personale suggerirebbe di votare prima possibile. Ma c’è una cosa più importante delle ambizioni personali. Se davvero la classe politica vuole provare a fare le riforme, la mia credibilità si gioca nel darle una mano in questo senso. Se poi vedessimo che si chiacchiera soltanto, ne trarremmo le conseguenze». Più tranchant Civati: «Con una nuova legge elettorale, che prevedo arrivi prima di Natale, penso si possa votare fin dalla primavera del 2014».
SCAMBIO DI ACCUSE SUL TERRITORIO
A livello nazionale la sfida si gioca anche su questo terreno (Cuperlo insiste sul fatto che il governo di larghe intese è «una parentesi» ma si domanda: «Se fra quattro mesi andassimo a votare con questa legge elettorale crediamo che milioni di persone starebbero meglio?») ma adesso la partita da seguire è quella che si sta svolgendo nei circoli e nelle federazioni. E il clima che si respira in diverse realtà non è dei migliori. In Calabria il renziano Ernesto Magorno ha denunciato irregolarità nei congressi locali puntando il dito su quanto avvenuto a San Sosti (in provincia di Cosenza) dove «è stato impedito a molti giovani di iscriversi, in un pesante clima di tensione che ha portato all’annullamento dell’assemblea». Sempre in provincia di Cosenza, una cinquantina di esponenti dei Giovani democratici, tra segretari di circolo e dirigenti, ha scritto una lettera aperta a Renzi per denunciare con nomi e cognomi sindaci renziani di piccoli comuni che stanno pagando pacchetti di tessere imbarcando anche «facinorosi elettori del centrodestra» (uno di questi sindaci, ha risposto stigmatizzando la «deriva “radical-fascistella”»). La Commissione nazionale ha rilevato anomalie nei congressi leccesi e si è ipotizzato lo slittamento del congresso provinciale di oltre due mesi. E a Roma ci sono stati congressi sospesi perché il boom di tesseramenti non garantiva la necessaria trasparenza. Come a Cinecittà, dove il congresso è stato bloccato e rinviato al 5 novembre. O al circolo Cotral di San Paolo, dove la garante congressuale ha ritirato le schede e chiuso le urne perché arrivavano persone anche in pullman chiedendo di iscriversi e votare (si sono giustificate dicendo che abitano in provincia e hanno organizzato la trasferta tutti insieme per risparmiare).

Corriere 31.10.13
Sberle, ricorsi, denunce: il caos dei congressi pd Tensioni da Torino a Catania
I segretari locali vicini a Cuperlo avanti sui renziani 49 a 25
di Ernesto Menicucci


ROMA — Ci sono i circoli in cui è finita a sberle, quelli in cui sono arrivate frotte di «militanti» coi pullman, altri nei quali i parenti di esponenti politici non vengono fatti iscrivere. Cronache dai congressi locali del Pd, che rimbalzano un po’ da tutta Italia.
Il primo, a denunciare possibili problemi, era stato Pippo Civati — uno dei quattro in corsa per la segreteria — che si riferiva al caso Sicilia. Poi, mano a mano, sono arrivate diverse segnalazioni: tessere gonfiate, irregolarità, veri e propri litigi, ricorsi e denunce. Una «bufera» che investe anche la Capitale, dove si affrontano Lionello Cosentino, Tommaso Giuntella, Tobia Zevi e Lucia Zabatta. In un circolo di Roma nord due esponenti locali sono stati portati in ospedale, dopo una discussione molto accesa. A Monte Mario, alla suocera dell’eurodeputato Roberto Gualtieri è stato impedito di votare: «Ci dispiace, il tesseramento è chiuso», la risposta. Nelle aziende pubbliche ci sono «movimenti» sospetti: al Cotral (società regionale dei trasporti) è arrivato un pullman con 60 persone sopra, tutte di fuori Roma, e la segretaria che doveva registrare il voto se n’è andata. Mentre all’Acea (la multiutility, quotata in Borsa, di acqua e luce) la garante ha interrotto le operazioni di voto. A Cosenza, i Giovani democratici scrivono a Renzi, denunciando «la compravendita delle tessere».
Ma episodi più o meno analoghi si registrano su e giù per la Penisola: in Puglia, a Milano, a Napoli e dintorni, nel Nord. Con i soliti «avvistamenti» di file di stranieri, o di anziani, reclutati dai Democratici.
Civati, un po’ sconsolato, assiste: «Adesso, a posteriori, se ne accorgono tutti. Purtroppo questa è una forma mentis, difficile da scalfire». Lui, l’outsider tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo, lo dice chiaramente: «Con i miei sono stato chiaro: se becco uno che fa queste cose, lo prendo a calci nel sedere... E poi, a che serve?». Le tessere, in realtà, portano a un risultato: la vittoria nei congressi provinciali. E qualcuno, nelle segreterie dei principali sfidanti, fa già i conti: per Cuperlo sono 49 (tra questi c’è anche Crisafulli, «disconosciuto» dal candidato segretario), per Renzi 25. Sempre Civati: «Mi sembra poco elegante questo calcolo. Ma come, non avevamo detto apposta di separare i congressi locali da quello nazionale?». Il clima è questo, un po’ ovunque: a Catania e Taranto le votazioni sono sospese, in Puglia e Campania ci sono verifiche in corso, anche a Torino ci sono state denunce. Paolo Gentiloni, renziano, vecchio lupo di mare, ne ha viste molte: «Non assolvo, anzi. Per me tolleranza zero. Ma questa deriva non è di oggi, anche se tenere il tesseramento aperto fino all’ultimo è stato un errore. Così si generano mostriciattoli : specie nel Sud, infatti, prevalgono i notabilati locali». Non è la prima volta, non sarà l’ultima: capitò anche con le primarie per il sindaco di Roma, quando vinse Marino, con le foto dei rom in fila ai gazebo. E i due principali sfidanti? Secondo Cuperlo «la metà dei votanti è con me». Per Renzi «deciderà il voto nei gazebo l’8 dicembre: sceglieranno i cittadini». Nicola Zingaretti si chiama fuori da future corse a premier: «Da anni mi candidano a tutto, ma io faccio le mie scelte da solo, spesso contro i capicorrente del Pd. Faccio il presidente della Regione Lazio, la mia attività politica e tutto il mio tempo sono concentrati su questo impegno. Quando lo avrò portato a termine valuterò. In autonomia e senza padrini politici». Massimo D’Alema ripete di «non sostenere alcun candidato premier del centrosinistra, anche perché le elezioni politiche non ci sono. Ed è probabile e auspicabile che non vi siano per un periodo prolungato, dato che siamo tutti interessati alla stabilità del governo guidato da Enrico Letta, che deve completare la sua missione realizzando gli obiettivi di riforme che si è dato. Quando verrà il momento chi vorrà candidarsi lo farà e ognuno valuterà le candidature in campo. In questo momento l’unica candidatura che sostengo è quella di Cuperlo alla segreteria del Pd». Renzi intanto pensa alla sua «rivoluzioncina»: «Terminata l’era berlusconiana — dice il sindaco di Firenze — è l’ora di una radicale riforma della giustizia che disciplini la responsabilità civile dei magistrati». Altra carne sul fuoco, nella corsa alla segreteria.

Corriere 31.10.13
«Sono preoccupato, sta avvenendo in troppe zone d’Italia»
L’«inviato» Morassut: «C’è da vergognarsi Così rischiamo di uccidere il partito»
intervista di Alessandro Capponi


ROMA — «Sono preoccupato, sta avvenendo in troppe zone d’Italia».
L’assalto dei signori delle tessere?
«Io userei altre definizioni, perché ciò che accade sembra un’orgia per il potere, un delirio di competizione tra cordate interne per conquistare circoli e federazioni, mettere le mani su pezzi di organizzazioni territoriali».
Eh, la lotta tra correnti.
«Correnti? Magari, ci sarebbe almeno la discussione politica. No, qui siamo di fronte a cordate che spesso, nei momenti delle nomine, per gli incarichi istituzionali o i cda nelle aziende, si saldano. Ma il punto è che le organizzazioni politiche si costruiscono in decenni e si distruggono in poco tempo. I partiti della Prima Repubblica sono morti così, con le sezioni chiuse tutto l’anno e aperte solo durante i congressi, con la fila di persone a tesserarsi. E ciò che per altri partiti può essere normale per noi può risultare fatale. Chi fa queste cose rischia di uccidere il Pd».
Sull’orlo dei cinquant’anni, il parlamentare pd Roberto Morassut non ha smesso di stupirsi: già segretario regionale (Lazio), assessore a Roma e, proprio per questa storia del tesseramento, inviato come «osservatore» a Lecce. La tessera del partito, allora Pci, da quando aveva 17 anni. Faccia da ragazzino, modi garbati, concetti che spesso non fanno sconti.
Morassut, scusi: ma chi organizza le truppe cammellate?
«Mah, a parole sono tutti contro le correnti, fanno gli appelli. Chiunque sia a orchestrare questa schifezza deve essere messo nelle condizioni di vergognarsi. Il tema, purtroppo, riguarda tutti: sosterrò Renzi e stimo Cuperlo, non voglio qui favorire l’uno o l’altro».
Nel circolo romano di Trastevere il Pd ha tesserato un clochard.
«Dobbiamo far cadere il velo dell’ipocrisia, i fenomeni anomali sono diffusi. Io so per esperienza quanto sia difficile convincere anche un solo cittadino a iscriversi...».
Soluzioni?
«L’iscrizione a 20 euro permette di costruire dei pacchetti, allora io dico: leghiamo la cifra d’adesione al reddito. E il Pd decida di uscire dai cda: a tal riguardo va cambiato l’articolo 2221 del codice civile, non devono essere i sindaci a scegliere i cda delle aziende. E poi, visto che tutti vogliono superare il Porcellum, diciamo anche che le preferenze, in alcune zone del Paese, sono in mano a organizzazioni criminali. Vanno reintrodotti i collegi uninominali, e si proceda con le primarie».
Come commenteranno questa intervista i suoi colleghi del Pd?
«Mi diranno che produco un danno d’immagine al partito. Ma chi mi critica non sa rispondere a una domanda: come può esserci la corsa al tesseramento nel momento di massimo distacco dalla politica?».

Repubblica 31.10.13
Il Partito democratico
Tessere triplicate a Treviso soldi a Torino e rissa a Roma bufera sul voto nei circoli Pd
Cuperlo: spirale da fermare. Gentiloni: Renzi porrà rimedio
di Tommaso Ciriaco


TESSERAMENTI gonfiati, equilibri decisi da pattuglie di stranieri appena iscritti al partito, congressi azzerati. La battaglia per la conquista del Pd è anche questo, uno scontro all’ultimo sangue macchiato — in alcuni casi — dal sospetto di congressi locali taroccati. Una sfida che si arricchisce, ora dopo ora, di nuovi casi imbarazzanti. I candidati, per adesso, preferiscono maneggiare con cura il tema.
Gianni Cuperlo, ad esempio: «Polemiche tra candidati? Assolutamente da evitare. Anzi, fermiamo questo processo o danneggiamo il partito e perdiamo credibilità. Sono pronto a prendere pubblicamente posizione. Insieme agli altri candidati? Non ho nessun problema a farlo». Eppure, il veleno circola copioso nelle vene dem. Un renziano come Ernesto Carbone non usa giri di parole: «Cuperlo rivendica 49 segretari provinciali, sicuramente è con lui Crisafulli. Una cosa è certa, le nostre sono liste “decrisafullizzate”». Da Torino a Bari, passando per Roma e Rovigo, ecco una panoramica del caos tesseramento. Per dirla con Paolo Gentiloni, «questi episodi sono il segno di una degenerazione, alla quale spero che la segreteria di Renzi porrà rimedio».
ROMA — Copre tutta la Penisola, il pasticcio del tesseramento Pd. Finti iscritti, denunce e congressi fantasma accompagnano la sfida per la conquista della segreteria. Un evento democratico, uno sforzo imponente. Ma con alcuni incidenti di percorso.
TORINO E LE TESSERE PAGATE
Uno dei primi casi al centro delle polemiche. Sollevato dal parlamentare Stefano Esposito, che ha raccontato di aver visto due anziani ricevere i soldi per il tesseramento. E ora Esposito rincara la dose: «L’atteggiamento di chi dice di evitare polemiche sui congressi assomiglia a quei sindaci siciliani che di fronte alle prime denunce contro il pizzo dicevano che così si gettava discredito sui loro paesi ». Le polemiche riguardano soprattutto i massicci pacchetti di tessere nelle mani di alcune famiglie, in particolare di quella di un ex esponente del Psi subalpino.
ASTI E GLI ALBANESI
Altro caso limite è quello di Asti. La stragrande maggioranza dei nuovi iscritti al partito è albanese. Centinaia di nuove tessere in poche ore, due su tre andate a cittadini extracomunitari. Un boom che alimenta sospetti. Ora il caso è nelle mani della commissione che vigila sul regolare andamento del congresso.
LO SCONTO A MILANO
Tutto regolare per la commissione di garanzia, ma nel Pd milanese la tensione è alle stelle. Per il segretario provinciale in due circoli si è registrata un’affluenza record: i renziani, accusano gli amici di Cuperlo, hanno fatto decine di tessere nuove con lo sconto, 15 euro invece di 30. Altri problemi a Pantigliate (Milano Sud), dove il circolo ha negato la tessera al sindaco dem Lidia Rozzoni. È dovuto intervenire il segretario uscente per fornirle la sospirata tessera.
ROVIGO NEL CAOS
Tessere gonfiate, iscrizioni pilotate, violenti scambi d'accuse. È bufera sul Pd veneto, costretto a sospendere il congresso provinciale di Rovigo e alcuni di quelli previsti nel Polesine. Renziani e bersaniani, in lotta per la segreteria, si accusano a vicenda di ogni sorta di scorrettezze: da gruppi di stranieri tesserati per alterare gli equilibri a iscritti raddoppiati da un giorno all'altro. Polemiche anche a Treviso: in alcune sezioni si segnala l'impennata di iscritti, fino al200% in più.
BOOM A FIRENZE
A Grosseto una raffica di ricorsi per iscrizioni contestate mette a repentaglio il regolare svolgimento del congresso. Problemianche a Viareggio. Secondo le prime stime, i conti del partito toscano dovrebbero registrare alla fine un aumento di iscritti del 15 per cento. Del 30% a Firenze, con ottocento nuovi iscritti.
RISSA A ROMA
Caotica anche la situazione nella Capitale. Rissa nel circolo di Vigne Nuove, dove due dirigenti - Claudio Ricozzi e Riccardo Corbucci - sono finiti all’ospedale. Sospeso il congresso del circolo Cotral, mentre quello di Cinecittà è slittato di alcuni giorni. A causa, pare, di un tesseramento gonfiato che ha fatto lievitare gli iscritti di 150 unità. È alta la tensione tra Tommaso Giuntella e Lionello Cosentino, entrambi vicini a Gianni Cuperlo. Il candidato alla segreteria li ha convocati per cercare di abbassare i toni.
RICORSI A NAPOLI
Il segretario uscente Gino Cimmino, al 33% dei consensi, ha presentato ricorsi a Vico Equense e nei quartieri napoletani di Vomero e Soccavo. A Portici molti votanti sono stati rinviati a casa, con contestazioni sulla loro iscrizione. Contestazioni sui verbali anche a Giugliano, dove fra l’altro erano state chieste oltre 800 nuove tessere. Al Vomero, poi, mancava addirittura l'anagrafe degli iscritti. A Casoria invece il congresso è stato addirittura cancellato.
LE TESSERE DI AVELLINO
Pioggia di ricorsi ad Avellino, dovuti soprattutto alla crescita abnorme degli iscritti: si contano 1.900 nuove tessere. Matteo Orfini ha segnalato ben quattro situazioni di votanti fantasma. La più clamorosa ad Avellino città, con una truppa di 600 voti arrivati l'ultimo giorno.
INTIMIDAZIONI A SALERNO
Due dei candidati alla segreteria provinciale, Vincenzo Pedace e Sergio Annunziata, hanno segnalato nei congressi cittadini episodi di intimidazione e di tessere acquistate in blocco e distribuite davanti ai seggi a cittadini ignari chiamati a votare.
CASERTA, LITE SULLA DATA
Si litiga ancora sulla data. I sostenitori del renziano Peppe Roseto, fra cui Pina Picierno, non riconoscono il comitato dei garanti e hanno chiesto che il voto non si tenga prima del 9 novembre. L'altro fronte, che comprende giovani e cuperliani, ha denunciato il tentativo dilatorio degli avversari, ottenendo dalla direzione regionale l'indizione del congresso per domenica prossima.
RESET CATANIA
Congresso annullato nel capoluogo etneo. Gli sfidanti hanno fatto a gara per conquistare più iscritti. Ora tocca alla commissione verificare denunce e ricorsi.
IL MIRACOLO DI PARMA
Boom di iscritti a Pellegrino Parmense. Tre iscritti al Pd nel 2012, cinquanta quest’anno. Tutti compatti per sostenere uno dei tre candidati alla segreteria provinciale, Alessandro Cardinali. Risultato: 50-0. Una autentica “macchina da guerra”.
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Riccardo Corbucci (a sinistra) ha chiesto come mai al circolo di Vigne Nuove gli iscritti erano passati da zero a 19. È nata una lite con un altro militante, Claudio Ricozzi (a destra). Corbucci è caduto a terra: cinque giorni di prognosi. “Mi scandalizza quel che è accaduto” dice
SulVenerdì un reportage su Crocetta, governatore che “disturba” la Sicilia

La Stampa 31.10.13
Civati ai rivali: “Nuova legge elettorale e poi voto a primavera”
di Francesca Schianchi


ROMA La provocazione arriva dagli schermi del Tg de La7: subito una nuova legge elettorale e voto in primavera. Pippo Civati, il quarto sulla scheda tra i candidati alla segreteria del Pd, considerato quello più a sinistra («sono gli altri che si sono spostati a destra...», scherza lui), non ha mai fatto mistero di non approvare il governo delle larghe intese, così come ha sempre predicato la necessità di dargli un tempo. Ieri sera al Tg di Mentana lo ha quantificato chiaramente: la primavera dell’anno prossimo. «Con una nuova legge elettorale, che prevedo arrivi prima di Natale, penso che si possa votare fin dalla primavera del 2014». E sferza gli altri concorrenti alle primarie, i suoi competitor, che «mi sembrano tergiversare molto sull’argomento: sono tutti contrari alle larghe intese, ma nessuno dà una scadenza e si parla del 2015-2016 che, in queste condizioni, mi sembra davvero troppo ambizioso».
Anche gli altri non sono teneri con le larghe intese: da Matteo Renzi, che domenica scorsa nel discorso conclusivo della sua kermesse alla Leopolda ha chiesto «mai più inciuci, mai più larghe intese, mai più giochini sulle spalle degli italiani» incaricando se stesso e i suoi sostenitori di essere «custodi dell’alternanza», a Gianni Cuperlo, per cui le larghe intese «sono una parentesi, non un disegno politico». Ma, li rimprovera Civati, non dicono allora quando questi “giochini”, questa «parentesi» debba finire. Come fa lui, e come fa un altro candidato, Gianni Pittella, che sul punto la pensa esattamente allo stesso modo: già in occasione della fiducia del 2 ottobre, lamentò che «le larghe intese con Berlusconi non sono più sopportabili» e propose di fare «la riforma elettorale, la legge di stabilità e si torni in primavera al voto».
Quello che però, appunto, è necessario per rispedire gli italiani alle urne, è una riforma elettorale, perché è parere di tutti, dal segretario Epifani in giù, che non si possa tornare a votare con questa legge elettorale. Tanto invisa che oggi si terrà il «No Porcellum day», manifestazione a favore dell’abolizione della legge porcata. Gli appelli arrivano dal capo dello Stato come dal premier: la prossima tappa è martedì, in Commissione affari costituzionali al Senato, si sondano i vari gruppi sugli aspetti principali di una nuova legge, dalle preferenze al doppio turno. Per cercare di condurla in porto al più presto. Per poi, predica Civati, decidere di andare al voto: «Preferirei un Pd che non aspetta le mosse del Pdl, di Berlusconi e di Alfano ma prende una decisione molto chiara e lineare».

La Stampa 31.10.13
La prima vittoria della rete di Cuperlo
I renziani: «La partita in questa prima fase finirà in pareggio»
Bersani gongola «Non sta andando come credevano loro»
Lo sfidante di Renzi in testa nei congressi provinciali
Ecco a chi si affida
di Carlo Bertini


ROMA Se non è proprio definibile euforia, perché la partita delle primarie si sa come finirà, la sensazione che
pervade i maggiorenti pro-Cuperlo è quella di chi vede la luce di un pareggio strappato alla prima in classifica. Sì perché a detta di entrambe le tifoserie, pure quella renziana lo ammette, la partita dei congressi provinciali che si celebra in questi giorni «finirà fifty fifty», cioé cinquanta a cinquanta. Tutti convengono, fatte sempre le doverose premesse: che molti segretari di federazione sono sostenuti da «larghe intese» locali, dove il renziano magari è votato dai cuperliani o viceversa; che i casi in cui si andrà al ballottaggio sono tanti e ancora il pallottoliere è incompleto.
Per ora i dati sbandierati dal comitato di Cuperlo riportano i risultati di 76 congressi su 100, con 48 candidati vincenti che fanno capo a Cuperlo e 28 a Renzi, calcolati anche quando le coalizioni sono bipartisan quindi unitarie. E un sorriso compiaciuto sboccia sul volto di Pierluigi Bersani alla buvette della Camera, «non sta andando come credevano loro, su questi qui finirà pari, forse qualcosina in più per i nostri...», dice. Lo sa pure lui che «molte sono coalizioni unitarie che rispondono a dinamiche territoriali. Ma anche il voto tra gli iscritti non andrà male...», è la sua previsione.
I cuperliani, se pur elettrizzati, si fanno però poche illusioni sull’esito della guerra di trincea. «Siamo avanti di poco noi nelle province è vero, dunque l’argine tiene, ma perderemo tra gli iscritti e saremo travolti l’8 dicembre», ragiona uno dei più disincantati big insieme ai suoi sodali. I quali non concordano, ma sanno la potenza di fuoco che stanno mettendo gli uomini di Renzi in questa partita, concentrando gli sforzi specie sul voto tra gli iscritti che si celebrerà tra il 7 e il 17 novembre.
L’altra sera all’assemblea dei 160 parlamentari che lo sostengono, il rottamatore in due precisi passaggi ha fatto capire che le liste collegate alla sua candidatura, quelle votate l’8 dicembre che esprimeranno gli organi dirigenti, saranno stilate solo dopo il 17 novembre: quando tutti i deputati, doc e new entry, avranno dimostrato quanti voti degli iscritti riescono a drenare casa per casa col loro impegno.
Dall’altra parte, quella dello sfidante, c’è una rete capillare che vede all’opera non solo i dalemian-bersaniani uniti nella lotta, ma anche bindiani di peso e quei lettiani che hanno scelto di sostenere Cuperlo, come sta facendo in Emilia la parlamentare Paola De Micheli. Un altro lettiano come Francesco Boccia si vanta di aver vinto con il suo candidato renziano 8 comuni su 10 di Barletta, perché sa che sul terreno pugliese sono schierati con Cuperlo il segretario regionale Blasi, Mario Loizzo, storico segretario della Cgil pugliese e deputati con un loro seguito come Dario Ginefra o Michele Bordo. In Sardegna, dove si voterà più avanti, sono anche gli uomini di Franco Marini a dare le carte, come Salvatore Ladu nel nuorese, ma anche il sottosegretario alla sanità Paolo Fadda e uno dei capi della campagna di Cuperlo, Tore Corona. Vicinissimo a Nico Stumpo, l’ex responsabile organizzazione e ora crocevia delle notizie che arrivano dai territori. Compresa la sua Calabria, dove può contare sull’aiuto di Gigi Meduri, bindiano e parlamentare per diverse legislature, o di Mario Oliverio, presidente della provincia di Cosenza. In Toscana ci sono l’ex segretario regionale, Andrea Manciulli, l’attuale, Ivan Ferrucci e il presidente della regione, Enrico Rossi, sul sito «ilsignorrossi.it» dove tro-
neggia «Perché Renzi non m’ha convinto». In Veneto giocano Zanonato e Zoggia nell’area di Venezia, la bindiana Miotto in quel di Padova; in Sicilia uomini come Cracolici, Capodicasa, Crisafulli; in Molise e Campania i segretari regionali dalemiani Leva e Amendola, a Napoli l’ex bassoliniano Andrea Cozzolino.

Voto palese sulla decadenza di Berlusconi
La Stampa 31.10.13
Una forzatura che serve a fare chiarezza
di Luigi La Spina


Mai, come in questo caso, la famosa battuta di Flaiano sull’Italia «patria del diritto e del rovescio» si può applicare alla perfezione e mai, come in questo caso, appaiono inutili, tanto sono strumentali, disquisizioni su leggi, regolamenti, procedure, prassi. Allora, è meglio evitare di inoltrarsi nel mare di ipocrisia che, in queste ore, cerca di giustificare o di condannare la decisione del voto palese sulla decadenza da senatore di Berlusconi con più o meno arzigogolate considerazioni giuridiche e affrontare la vera questione, quella dell’opportunità politica.
L’adozione del voto segreto, con il pretesto di salvaguardare la libertà di coscienza del parlamentare, tradisce un’ammissione di viltà da parte di coloro che rappresentano i cittadini alle Camere e oscura quella trasparenza della condotta pubblica che dovrebbe essere la regola prima di una democrazia. La libertà di coscienza non si può affermare senza la responsabilità dei propri atti, perché le due condizioni sono indissolubilmente connesse. Le procedure che prevedono voti segreti, in tutti i campi e non solo in quello politico, dovrebbero essere limitate a casi del tutto particolari, a meno che non si debba vivere in regimi dittatoriali.
Cambiare sistema, però, proprio adesso, proprio nei confronti di un Berlusconi accusato per due decenni di far approvare «leggi ad personam», solo per favorirlo, sia in campo giudiziario sia in quello economico, appare certamente una scelta che si presta alla facile accusa di persecuzione personale, una decisione, appunto, «contra personam».
Si tratta, perciò, di una forzatura indubbiamente intempestiva e con molte controindicazioni polemiche, ma che, negli attuali momenti della discussione pubblica in Italia, si potrebbe giudicare come una forzatura di chiarezza. Perché mira a scacciare l’arrivo di un altro di quei fantasmi che, da anni, si aggirano sulla nostra politica, personaggi tenebrosi che non permettono mai che si sciolgano eterni sospetti sulle più importanti vicende del nostro Paese.
Tarli di complotti inesplicabili si insinuano sui giornali, in tv, nelle reti e nei corridoi parlamentari tra accuse senza prove e difese d’ufficio: chi, ad esempio, ha davvero deciso la caduta del governo Prodi e chi, nella folta compagnia di altri cento voti segreti, ha stroncato l’ascesa dello stesso Prodi al Quirinale? È troppo facile immaginare i fantasmi che avrebbero avvelenato la nostra Italia se, sotto quei catafalchi che proteggono da occhi indiscreti il verdetto dei senatori, fosse spuntato un risultato contrastante con le indicazioni ufficiali dei partiti. Si sarebbe gridato al «patto scellerato» che, pur di garantire la stabilità del governo, alcuni parlamentari del Pd avrebbero stipulato con il centrodestra, salvando Berlusconi dalla decadenza. Un’accusa che avrebbe fatto implodere un partito democratico già abbastanza fibrillante per conto suo. Oppure, un verdetto contro la sua permanenza in Senato più ampio del previsto avrebbe imputato ai «diversamente berlusconiani» l’onta del tradimento, pur di mantenere le poltrone ministeriali.
La stabilità del governo Letta può essere utile, sì, ma non può essere pagata al prezzo del sospetto, di un confuso intrigo di convenienze intrecciate, senza che i parlamentari abbiano il coraggio, meglio l’onestà intellettuale e morale, di prendere una posizione trasparente e responsabile di fronte all’opinione pubblica, sia sul caso Berlusconi, sia sulla permanenza dell’esecutivo. Sarebbe davvero auspicabile che quella libertà di coscienza che deputati e senatori invocano per ricorrere al voto segreto, la manifestassero, invece, nel voto palese, magari dissociandosi dalle indicazioni del loro partito. Così si ricorderebbero e ricorderebbero agli italiani quell’articolo 67 della nostra Carta costituzionale che li libera dal vincolo di mandato, poiché ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione.
I frutti delle «larghe intese» possono essere giudicati positivamente per contribuire all’uscita della Repubblica italiana dalla più grave crisi economica della sua storia, oppure possono essere valutati come insufficienti e iniqui, ma le conseguenze devono essere figlie dei fatti e non dei fantasmi.

La Stampa 31.10.13
Ma il sogno del voto subito unisce i 5 Stelle al Cavaliere
Grillo esulta: “Grazie a noi se si voterà in modo palese”
di Andrea Malaguti


ROMA «Fesserie». Sicura? Boccata di sigaretta fuori dalla finestra di Palazzo Madama. «Ovviamente sì, potete immaginarvi se facciamo accordi con Berlusconi». Paola Taverna, capogruppo del Movimento Cinque Stelle al Senato, si aggiusta una spallina della maglietta blu. «Dai, è ridicolo». Ridicolo. In effetti sembra così. Eppure, nel giorno in cui la Giunta per il regolamento decide che il voto sulla decadenza del Cavaliere sarà palese «è un nostro successo, questo non potete proprio negarlo», in effetti non si può la voce torna a rimbalzare impazzita come la pallina di un flipper: Forza Italia cerca una sponda per far cadere il governo. E la cerca nella galassia più lontana dalla sua. La galassia di Gaia. Grillo e Casaleggio, loro. «Lo sapete come è andata la telefonata al professor Becchi, storicamente vicino al M5S?».
Sono i falchi berlusconiani ad aggiungere dettagli a questa storia che gira ormai da un paio di settimane. «Il Cavaliere ha cercato il contatto in prima persona. È stato lui a chiamare Becchi. Sperava che facesse da tramite col leader Cinque Stelle.
Ha chiesto aiuto invano anche al mondo dello spettacolo». Antonio Ricci? «Lei che dice?». Ma come, quelli hanno organizzato la ghigliottina, ti vogliono vedere precipitare in un buco nero della storia, e tu li vai a cerca-
re? Bizzarro, ma c’è più logica di quello che sembri.
Un obiettivo comune esiste: disarcionare Letta, mettere il presidente Napolitano con le spalle al muro e chiamare il Paese al voto. Non è stato forse questo a giustificare il viaggio nella capitale del Caro Leader genovese? L’idea di abbracciare i suoi parlamentari per evitare pericolose fuoriuscite che potrebbero garantire la permanenza in vita dell’esecutivo? Dunque esiste un incidentale terreno comune? Forse. Di certo la materia va maneggiata con una cautela da orologiai e corredata da una premessa: Grillo, un uomo che si comporta come se nel grande campo della sua vita la pioggia e il vento fossero sempre arrivati al momento giusto, con Berlusconi non vuole avere niente a che fare. Ma il Cavaliere, si sa, non è schizzinoso.
L’avversione nei confronti del fondatore di Forza Italia è uno dei pochi temi su cui il Movimento ha una solida sensibilità comune. Così, quando arriva la notizia sul voto palese, le grida di giubilo si alzano compatte. «Gli elettori hanno diritto di controllare gli eletti, Oggi è stata restituita dignità al Parlamento», dice Nicola Morra. «Due giorni di fiato sul collo in Parlamento sono serviti», twitta con ego maradoniano Beppe Grillo («Il voto è frutto della relazione che ho presentato io in giunta», replica il senatore del Pd Francesco Russo), mentre Paola Taverna chiede in tempo reale un ulteriore passo avanti. «Domanderò ogni ora al presidente Grasso di indire una capogruppo per fissare il giorno del voto in Aula. Ci ha promesso che avrebbe fatto in fretta. Metterò la sveglia anche a mezzanotte per ricordarglielo». Aveva dunque ragione il senatore Schifani a dire: «I Cinque Stelle vorrebbero fucilare Berlusconi, ma non si può»? C’è accanimento? Taverna nega. «La nostra non è una battaglia contro qualcuno, ma a favore della trasparenza a cui i cittadini italiani hanno diritto». Niente di personale, allora. E anche il Cavaliere deve pensarla in questo modo. Se è vero come raccontano i suoi che nel corso della mitologica telefonata al professor Becchi avrebbe cercato di creare un ponte tra il suo complicato passato e un imprevedibile futuro. «La rete diventerà sempre più importante, ma alle prossime elezioni sarà ancora la forza delle televisioni a fare la differenza». Becchi non conferma il contatto. Ma anche lui e Grillo sanno bene che è più facile archiviare Letta che spegnere per sempre le tv.

il Fatto 31.10.13
E B. chiamò Becchi: “Mi faccia incontrare Grillo e Casaleggio”
Vertici M5s tentati dalla svolta a destra, prossimi guai sui diritti civili
di Paola Zanca


Il telefono squilla una mattina di agosto. Paolo Becchi, una cattedra al-l’Università di Genova e una qualifica, guadagnata sul campo, di “ideologo” del Movimento Cinque Stelle, risponde. È un vecchio contatto, finito in cantina da quando ha smesso di collaborare con Libero e si è buttato sul blog di Beppe Grillo. Va dritto al sodo: “Professore, davvero ci sono 20 grillini pronti a votare la fiducia a Letta?”. Dal-l’altro capo del telefono c’è Silvio Berlusconi. Il leader Pdl, all’epoca fresco di condanna in Cassazione, tuona contro il governo e si è messo a fare i conti con il pallottoliere. Rispolvera il vecchio feeling con il professore genovese e tenta manovre di avvicinamento con quelli che, evidentemente, considera i suoi diretti concorrenti. Ci aveva provato già in passato, tentando con il tramite di Antonio Ricci. Nulla di fatto. Ad agosto riprova con Becchi: vuole incontrare Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Niente, nemmeno questa volta. I due lo rimbalzano. E lui, al telefono con “l’ideologo”, si mette a discutere di comunicazione: “Tra la Rete e la tv, le televisioni sono ancora più forti. Però avete ragione voi, il futuro è vostro”. Ci sperano, a Genova e a Milano. E sanno che se vogliono tentare il colpaccio, devono tenersi il più possibile alla larga dal faccione tirato di Silvio.
PER QUESTO si è deciso di evitare ogni fuga di notizia sulla telefonata agostana. Peccato che sia stato l’ex premier, nelle settimane scorse, a raccontare l’episodio durante una cena a palazzo Grazioli, finito poi in un pezzo del Corriere della Sera. Becchi non conferma, si nega al telefono e pare che il fastidio dei leader sia arrivato al punto di chiedere al professore di evitare le ospitate in radio e tv. In compenso, è a lui che hanno affidato la guida del pool di giuristi incaricato di trovare appigli per l’impeachment a Napolitano. Terreno su cui - secondo alcune indiscrezioni - Cinque Stelle e Pdl potrebbero trovare punti di convergenza. La messa in stato d’accusa firmata dal Movimento potrebbe essere una ottima arma per i falchi vogliosi di vendicarsi del trattamento riservato dal Colle a Berlusconi. Boomerang o opportunità? Nelle stanze del M5S non sanno ancora dare una risposta. Di certo, la platea degli elettori di centrodestra che rimarranno orfani dopo la decadenza di Berlusconi è una delle più appetitose per i Cinque Stelle. Lo sa Grillo che sceglie di parlare “alla pancia delle persone” sui temi dell’immigrazione. E lo sa Casaleggio, da tempo innervosito dall’interesse degli eletti per i temi dei diritti civili. Matrimonio gay, aborto, divorzio breve, cambio di sesso, testamento biologico: sono alcuni delle proposte di legge presentate da M5S. Tutte fuori dai 20 punti, tutte destinate a creare scompiglio (basta vedere il caos che ha creato, nel Movimento romano, la visita alla Santa Sede di alcuni parlamentari), tutte ipotesi di rovinosa deriva a sinistra. Mentre i leader affinano strategie per il futuro, al Senato mettono sul tavolo problemi più stringenti. Martedì sera, prima della partenza di Grillo, la senatrice Laura Bignami, accompagnata da una pattuglia di una decina di colleghi, ha scatenato la sua furia contro lo “scandalo” che si sta verificando nelle stanze dei Cinque Stelle. Una mini parentopoli-ilcasogiànotoèquello della senatrice Barbara Lezzi, che avrebbe chiamato a lavorare la figlia del suo compagno - giudicata insostenibile. Le regole del Movimento vietano rapporti di lavoro con mogli, mariti, figli, madri e sorelle. Ma fuori dai legami ufficiali, può succedere di tutto. Grillo ha detto che hanno ragione, che cose del genere non se le possono permettere. La Bignami e gli altri non si fidano: vediamo, dicono, se li caccia.

Corriere 31.10.13
Si può fingere per convincere? Il doppio passo di Beppe Grillo
di Aldo Cazzullo


Ora, che il capo di un partito pratichi la finzione, vellichi gli istinti degli elettori, si lanci in battaglie impossibili da vincere ma utili per far passare un messaggio o incassare un dividendo, non può scandalizzare: l’hanno fatto in molti, lo fanno, lo faranno. Colpisce però che a teorizzare un simile metodo sia il leader che ha fatto della trasparenza la sua parola d’ordine, e si è presentato come l’outsider in grado di smascherare i giochi, le manovre, le trame dei politici di professione. Ma l’episodio ha un significato che va oltre la figura pur rilevante di Grillo.
Lo straordinario successo elettorale del Movimento 5 Stelle è il segnale di un fenomeno non soltanto italiano. Nelle società occidentali si sta facendo strada uno schema che colloca la politica e i media tradizionali in una sfera alta, quella della rappresentazione, della finzione, del politicamente corretto; mentre in basso ci sono la Rete, la vita vera, le cose come stanno, e ovviamente il blog di Beppe Grillo. È uno schema falso; ma il fatto che sia falso non significa che una parte dell’opinione pubblica non ci creda. Ma ora è proprio Grillo a inscenare la rappresentazione, «la finzione politica» come la definisce lui stesso, salvo svelarla dietro le quinte ai suoi parlamentari.
Con l’accusa di populismo l’ex comico ha giocato in campagna elettorale, invitando il pubblico a ripetergli la critica che veniva dai vecchi partiti: «Populista!». Ora dalla recita è passato alla rivendicazione. Ma essere populisti non significa fare gli interessi del popolo. Significa assecondarne le pulsioni, liberare il linguaggio dell’insulto e della minaccia, rinfocolare il falò della rabbia che tutto brucia senza distinguere il capace e l’incapace, l’innocente e il colpevole, il meritevole e il barone. Significa vellicare il gigantesco piagnisteo che trova nelle difficoltà quotidiane varie motivazioni, ma rappresenta la reazione più inutile e a lungo andare controproducente. Significa alimentare il livore, il rancore, la frustrazione che appaiono il tono medio dell’Italia nel punto più basso della sua crisi.
Grillo in questi mesi non ha solo detto parole incendiarie e offensive. Non si prende il 25% dei voti degli italiani suonando solo queste corde. Nel grande comizio di piazza San Giovanni, che alla vigilia delle elezioni misurò il consenso dei 5 Stelle e spostò altri voti da sinistra verso di loro, Grillo usò anche un tono accorato e senza dubbio sincero per raccontare quel lungo giro d’Italia che gli altri leader non avevano fatto, quella via crucis nei disastri e nelle vergogne del Paese, e concluse: «Io non ce la faccio da solo a sopportare tutto questo dolore». Il voto per lui ha messo insieme componenti molto diverse. L’impegno dei militanti che avevano costruito l’inattesa vittoria del referendum sui beni comuni. Lo sfogo dei disillusi dai privilegi e dalla corruzione della casta. L’invettiva di chi ha trovato nel voto a 5 Stelle un modo più efficace per maledire la politica e qualsiasi forma di rappresentanza, di élite, di establishment, di potere costituito. Ora che ha conosciuto le prime battute d’arresto, è a questo elettorato che Grillo torna a rivolgersi: non a caso annuncia un nuovo V-Day.
Sbagliano i politici tradizionali a dare il Movimento 5 Stelle per moribondo. Finché avremo troppi parlamentari, non scelti da noi, troppo pagati, troppo liberi di fare affari con la politica, ci sarà sempre carburante nel motore di Grillo. Ma sbaglia anche lui nel pensare che si possa costruire, se non una forza di cambiamento, almeno un consenso duraturo soffiando sul rogo dell’indignazione, misurandola con un sondaggio online e dicendo sempre e solo quel che molti italiani vogliono sentirsi dire. Il sondaggio che ha suggerito la retromarcia sul reato di immigrazione clandestina sarà anche veritiero, ma è anche la rinuncia alla «rivoluzione della Rete» annunciata dal vero capo dei 5 Stelle, Gianroberto Casaleggio. Qui non sono i cittadini che prendono le decisioni in Rete. È la rivolta rabbiosa e indiscriminata contro tutti, banchieri e migranti, deputati e clandestini, che viene aizzata nei comizi (che Grillo chiama «spettacoli»), registrata via web, e imposta come linea politica in una riunione segreta in cui il capo spiega ai suoi che in realtà si fa per finta.

l’Unità 31.10.13
Ilva, indagato Vendola «Fece pressioni sull’Arpa»
Per il governatore l’accusa è concussione: condizionamenti sui controlli per favorire la famiglia Riva
53 persone coinvolte nell’indagine. C’è anche l’assessore Nicastro
di Salvatore Maria Righi


Un sistema di potere e di relazioni intrecciate dal livello centrale fino a quello locale. Una specie di piovra istituzionale che, da Bari e da Roma fino a Taranto, dagli uffici dei ministeri, dalle commissioni fino alle scrivanie dei funzionari, ha protetto e nascosto le attività inquinanti della più grande acciaieria d’Europa.
Questo, in soldoni, il romanzo criminale che per tutti questi anni, secondo il pool della Procura jonica, ha permesso ad Ilva di produrre milioni di tonnellate di acciaio e fare profitti milionari «senza il minimo rispetto anzi in totale violazione e spregio della normativa vigente». La conclusione delle indagini preliminari con le informazioni di garanzia per i 53 indagati mettono il coperchio alla fase istruttoria dell’inchiesta «Ambiente svenduto», condotta dalla Guardia di Finanza con un poderoso lavoro investigativo con l’ausilio di un’enorme mole di intercettazioni telefoniche e ambientali. Una mole di materiale distribuita in 90 faldoni che mette pesantemente sotto accusa la famiglia Riva, il patron Emilio con i figli Nicola e Fabio (tutt’ora in Inghilterra in attesa di estradizione) che con l’ex direttore Luigi Capogrosso erano a capo di un’associazione a delinquere «che ha commesso delitti contro la pubblica incolumità come disastro ambientale, inquinamento ed avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni e delitti contro la pubblica amministrazione come corruzione, concussione, falsi ed abuso d’ufficio».
SISTEMA CAPILLARE
Undici gli indagati per associazione per delinquere, in particolare, compreso l’ex direttore delle relazioni esterne, Girolamo Archinà, l’avvocato Francesco Perli, legale del gruppo Riva e i cosiddetti «fiduciari», uomini dei Riva dentro lo stabilimento ma poco più fantasmi per gli organigrammi aziendali e l’ufficio del personale. Due i fronti sui quali si sarebbe svolta l’attività di corruzione e di influenza, tramite una rete di relazioni e rapporti a dir poco capillare: l’Aia del 2012 e l’attività dell’Arpa Regionale. Nel primo caso, sotto accusa il presidente della Commissione, Dario Tiscali, come l’avvocato Luigi Pelaggi, capo dipartimento del ministero dell’Ambiente, entrambi nei guai per abuso d’ufficio per le loro relazioni pericolose (e indebite) con Ilva, così come Pierfrancesco Palmisano, funzionario della Regione Puglia nella conferenza dei servizi all’opera nei lavori preparatori dell’Aia. L’altro fronte, che coinvolge il vertice regionale, riguarda l’ipotesi di concussione messa in atto dal governatore Nichi Vendola nei confronti del direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per ammorbidire il suo operato e quindi mettere le briglie ai controlli dell’agenzie regionale su Ilva. Per favoreggiamento nei confronti di Vendola, indagati Assennato, il direttore scientifico Blonda, l’assessore regionale all’Ambiente, Lorenzo Nicastro, e l’ex assessore alle Politiche giovanili, Nicola Fratoianni.
Nella rete di protezione messa in campo per Ilva dalla politica, poi, ci sono anche l’ex presidente della Provincia, Gianni Florido, e il sindaco Ippazio Stefàno. Sui rapporti da chiarire tra Vendola e Assennato, tra l’altro, ci sono due episodi che risalgono al 2010 e riguardano il benzoapirene.
Il primo, nel mese di giugno, quando Arpa fece sapere che il 98% di quello rinvenuto al Tamburi proveniva dalla cokeria dell’Ilva. Reazioni inviperite dell’azienda, alle strette anche per l’Aia sub iudice alla valutazione dell’Arpa, affidate ai modi spicci di Archinà che telefonava a Vendola per lamentarsi di Assennato, colpevole di fare il proprio dovere: «Tranquillo, non mi sono dimenticato di voi», rispondeva il governatore. In un’altra intercettazione, è un dialogo tra Assennato e lo stesso Archinà a provare, secondo i pm, le pressioni di Vendola pro-Ilva: «Girolamo, sono molto incazzato! La dovete smettere di comportarvi così, di andare dal presidente (Vendola, ndr) a dire che siete vittime di una persecuzione dell’Arpa. Vendola questa mattina ha convocato Massimo Blonda e gli ha rimproverato di essere persone senza palle». Nel luglio successivo, dopo uno sforamento di tre nanogrammi nei primi 5 mesi del 2010 (con limite 1), dati raccolti da Arpa ma che Arpa stranamente non ha reso noti (l’ha fatto un articolo del “Redattore sociale”), Fabio Riva, Capogrosso e Archinà hanno incontrato Vendola a Bari.
Nella riunione, nota anche per il «parcheggio» punitivo fuori dalla porta in cui sarebbe stato tenuto Assennato, invece dare seguito alla legge sul benzoapirene ancora senza applicazione dal 1999, la Regione decide di procedere col monitoraggio diagnostico che di fatto congela la situazione: nel mese successivo, il governo Berlusconi firma il decreto legge che «liberalizza» le emissioni di benzoapirene in attesa di una normativa europea.

il Fatto 31.10.13
Vendola indagato: “Pressioni per ammorbidire i controlli”
Ilva: 53 avvisi. Tra cui assessori tecnici e l’”eroe” dell’Agenzia ambiente
di Francesco Casula e Antonio Massari


Indagato per concussione: per i magistrati di Taranto è Nichi Vendola il regista delle pressioni su Giorgio Assennato, l’uomo alla guida dell’Arpa, il nemico giurato dell’Ilva. Per l’accusa è proprio il governatore pugliese che, su richiesta dei Riva, nel 2010 interviene sul direttore generale dell’Arpa - “Mediante minaccia implicita di una mancata riconferma dell’incarico” - perché cambi atteggiamento verso la fabbrica di Taranto. Assennato nel giugno 2010 – dopo aver analizzato i valori di benzo(a)pirene nell’aria – suggerisce “di procedere a una riduzione del ciclo produttivo” dell’Ilva. Si tratta di una decisione durissima. Pochi giorni dopo – è il 22 giugno – durante una riunione , scrive l’accusa, Vendola “esprime disapprovazione, risentimento e insofferenza” verso l’Arpa e dichiara: “Così com’è l’Arpa Puglia può pure andare a casa perché hanno rotto”, aggiungendo “che in nessun caso l'attività produttiva dell’Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni”.
DUE SETTIMANE dopo indice “un’altra riunione informale”, con i Riva, ma Assennato, “che era stato convocato, invece di essere ricevuto, veniva fatto attendere fuori dalla stanza e ammonito da un dirigente, su incarico di Vendola, a non utilizzare i dati tecnici come ‘bombe carta che poi si trasformano in bombe a mano’”. Per il pool di inquirenti, guidato dal procuratore Franco Sebastio, il pressing di Vendola funziona: Assennato si “responsabilizza” e gli industriali non chiedono più la sua testa. Negli stessi mesi il governo Berlusconi, con il primo e meno conosciuto decreto ad aziendam, risolve l’emergenza benzo(a)pirene. Ma il paradosso è che tra i 53 indagati c’è lo stesso Assennato, accusato di favoreggiamento verso Vendo-la, perché lo avrebbe coperto, durante gli interrogatori, smentendo di aver subìto pressioni. Per l’accusa Assennato “dichiarava falsamente di ‘non aver mai avuto nessuna pressione e nessuna intimidazione’ e di ‘non ricordare nulla’ della riunione in cui, sebbene convocato, veniva fatto attendere fuori dalla porta” . “Non ho ricevuto nessuna pressione - dice Assennato al Fatto - La richiesta di riduzione della produzione Ilva fu inoltrata al ministero. Quindi nessuno mi ha mai bloccato”. Indagati per favoreggiamento anche l’assessore all’Ambiente Lorenzo Nicastro (Idv e pm in aspettativa) e l’ex assessore, oggi parlamentare di Sel, Nicola Fratoianni, accusati entrambi di non ricordare, o di negare, episodi delle riunioni del giugno 2010: in questo modo avrebbero aiutato Vendola a “eludere le indagini”. Vendola dovrà difendersi dall’accusa di concussione insieme con Fabio Riva (l’ex vice presidente del Gruppo, sfuggito all’arresto e ora a Londra in attesa di estradizione), Luigi Capogrosso, ex direttore di stabilimento, Girolamo Archinà, ex potentissimo dirigente Ilva e l’avvocato Franco Perli, anello di congiunzione tra l’azienda e i palazzi romani. “Ho il massimo rispetto per i pm: non mi lamento , anche se mi addolora, che sia verificato il mio operato”, commenta Vendola. “So di non aver violato la legge. E so anche di aver provato a capovolgere una storia omertosa, quella della grande industria, senza soggezione verso Riva. Abbiamo imposto la prima legge anti diossina. Spiegherò ai magistrati la mia condotta con la massima serenità”. Negli atti dell’inchiesta “Ambiente svenduto” - condotta dai finanzieri agli ordini del colonnello Salvatore Paiano, del tenente colonnello Giuseppe Micelli e del maggiore Giuseppe Dinoi – si legge che Assennato, dopo le pressioni, “ridimensionerà il proprio approccio, fino a quel momento improntato al più assoluto rigore scientifico” nei confronti dell’azienda.
MA IL TERREMOTO giudiziario con epicentro a Bari è stato avvertito anche a Roma. Nel registro degli indagati, accusati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreto, sono stati iscritti il presidente della commissione Aia che nel 2011 autorizzò l’Ilva, Dario Ticali, il segretario e fidatissimo del ministro Stefania Prestigiacomo, Luigi Pelaggi. Per i magistrati avrebbero consentito all’azienda di ottenere un’autorizzazione “su misura”. L’inchiesta “ambiente svenduto” non è del tutto chiusa. La procura ha infatti stralciato la parte relativa alla gestione dei rifiuti nello stabilimento, su cui continuano a indagare i carabinieri del Noe al comando del maggiore Nicola Candido e lo staff guidato dal custode Barbara Valenzano. Perché al di là dei provvedimenti ad aziendam e della chiusura delle indagini, lo stabilimento Ilva di Taranto, a distanza di oltre un anno dal sequestro degli impianti e dalle maxi perizie del gip Patrizia Todisco, continua a inquinare. Per legge.

l’Unità 31.10.13
Roma, i dolori del bilancio Marino: «Non alzo l’Irpef»
Successi e passi falsi: la protesta al Macro e la chiusura di Malagrotta
All’Atac non c’è stata discontinuità ma ora si spera che ad Ama si cambi
di Jolanda Bufalini


ROMA Il colpo d’occhio è impressionante, l’assemblea sindacale convocata da Cgil Cisl e Uil dei dipendenti capitolini, convocata in sordina nella piccola sala del carroccio, ha raccolto tantissime persone nella piazza del Campidoglio. «C’è una aspettativa spiega Natale Di Cola, Cgil che non c’era con Alemanno, il quale ha creato precariato e lasciato in eredità alla nuova giunta molti problemi, dallo scorrimento delle graduatorie alle casse vuote». Ignazio Marino, invece, si è impegnato in campagna elettorale a valorizzare le forze interne, il suo slogan è stato «liberare Roma». Solo che i primi passi o sono incerti o hanno lasciato amaro in bocca, al netto degli articoli ostili che il Messaggero dedica alla nuova amministrazione. La riconferma del management Atac, per esempio. Dopo i guai compiuti dalla precedente giunta con parentopoli e dintorni. Oppure scelte che hanno allarmato le strutture come quella di sottrarre il Macro (il museo dell’arte contemporanea a Roma) alla soprintendenza per inserirlo nella struttura del dipartimento alla cultura. Le 40 persone che ci lavorano si sono riunite in assemblea e hanno scritto al sindaco. Il museo, dicono, è già quello che l’assessore Barca chiede che sia: aperto alla cittadinanza, laboratorio di ricerca con quattro artisti residenti. Non solo, vive anche grazie agli sponsor, da Enel alle banche, conserva le collezioni. Ma il dipartimento della cultura non ha, al suo interno, competenze di conservazione del patrimonio artistico. Al di sopra di tutto, ad agitare gli animi, c’è il grande moloch della macrostruttura del Campidoglio, sulla cui riorganizzazione si sa troppo poco. «Noi dice Natale Di Cola chiediamo di sfoltire il centro, accorpare, e rafforzare i municipi. Ogni ragionamento è monco se non si affronta il tema delle società in house. E poi c’è il personale capitolino, senza di loro la macchina non funziona».
Problemi spinosi e da risolvere, al contrario dell’ipercritica che gli riserva ogni giorno il giornale della Capitale, a cui sembra che il sindaco guardi con serafica tranquillità. È il sindaco del rinnovamento e considera normale che i poteri forti della città, con interessi nell’editoria, nelle costruzioni e nell’energia, diffidino di lui. Il cambio di passo con il consorzio di Metro C, che con Alemanno era abituato al piè di lista senza controlli, è visto positivamente per esempio dal consigliere Athos De Luca. Però la nuova amministrazione inciampa sulle procedure e, ad accordo fatto, è spuntata la necessità di rifare i conti, mandando in fibrillazione i lavoratori da mesi senza stipendio.
Il sindaco, ospite di Max Giusti a Radio 2, si mostra sicuro. «La città cambierà in meglio e i romani a poco a poco se ne accorgeranno». «Come uscire puliti dai compromessi? Molto semplice, non facendoli». E quanto alle turbolenze in consiglio comunale, particolarmente pericolose in fase di approvazione del bilancio (consuntivo 2013), scherza sulla sua professione medica: «Posso addormentarli in consiglio, così approviamo tutto».
In effetti, una cosa molto importante Ignazio Marino l’ha portata a casa: la quadratura del bilancio 2013, che ha ereditato da Alemanno 867 milioni di buco. «Il governo Monti spiega Marino ha tagliato 500 milioni ma la giunta precedente si è comportata come se quei soldi ci fossero ancora». L’appello bipartisan ai parlamentari romani ha funzionato, il grosso del debito è stato consolidato nella «bad company» per la quale i romani pagano già una bella quota di Irpef in più. Ora il sindaco si è impegnato: «Farò tutto ciò che posso, metterò in pratica ogni resistenza per non aumentare ancora l’Irpef». Oggi c’è la riunione di maggiornza e la riunione di giunta (rinviata ieri) che deve trovare il modo di mantenere questo impegno del primo cittadino.
Altri aiuti sono venuti dalla Regione, che ha sbloccato un centinaio di milioni per i trasporti, e dal ministero dell’Ambiente, una quarantina di milioni per la differenziata. Un gruzzolo essenziale perché dopo la chiusura di Malagrotta (promessa mantenuta dal sindaco), per l’azienda dei rifiuti si apre un periodo delicato. Da questo punto di vista le dimissioni del Cda di Ama, in particolare dei tre consiglieri della vecchia maggioranza che hanno fatto decadere l’Ad Benvenuti, è una buona notizia. «Ci vuole discontinuità dice Athos De Luca non per spirito di epurazione ma perché si tratta di manager che hanno decretato il disastro», tanto è vero che fra i manager ci sono destinatari di avvisi di garanzia e che, intanto, va avanti il processo contro l’ex presidente Panzironi. Il precedente di Atac, dove i vecchi manager sono rimasti al loro posto, non è stato felice. Ora con Ama ci si aspetta che il registro cambi.

l’Unità 31.10.13
Ma i movimenti danno ancora risposte alle donne?
di Vanna Palumbo


COSA SI ASPETTANO LE DONNE DAI MOVIMENTI CHE PARLANO IN LORO NOME, AGISCONO IN LORO NOME, E CHE AL COSPETTO DELLE ISTITUZIONI ASSUMONO LA LORO RAPPRESENTANZA? Questo elementare, non retorico interrogativo fine ultimo dell'impegno generoso di migliaia e migliaia di donne che di frequente assommano alla dedizione alla causa, il doppio lavoro intra ed extradomestico fatica a trovare la compiutezza di una risposta. Rimanendo, com'è, soffocato dai rutilanti proclami di ricerca di condivisione, di sorellanza, di buone pratica della relazione, che, nel lessico quasi gergale, caratterizzano i grandi meetings delle donne «organizzate».
Non è stato diverso per l'Assemblea nazionale di Senonoraquando lo scorso fine settimana a Roma e per l'ultimo raduno delle femministe storiche di Paestum. Nelle pieghe dei formulari dei logos di genere, ma sistematicamente riproposta ogni tot interventi dalla concitata discussione, quella domanda che sollecita di interpretare i bisogni delle donne, di tradurli in proposte, di sostenerli con l'impegno di azioni riconoscibili dalle donne stesse, rimane spesso inevasa. Eppure, la trasformazione invocata ha parole precise e può vivere anche nella strana politica dell’oggi, nel modello maschile della discussione pubblica. Non è ancora interdetta! Ma rimane li, sullo sfondo,come potenzialità non sfruttata, vittima dei contorsionismi della ricerca di una leadership riconosciuta e dei bizantinismi di formule organizzative nei quali i caotici dibattiti, carichi di pathos ed emotività, si consumano. In un andirivieni di acquisizioni e ripensamenti che negano gli «stati di avanzamento» che ogni appuntamento, malgrado tutto, finisce comunque per segnare.
Capita infatti che, seppur poco incline a votare, l'Assemblea di Snoq non ha potuto sottrarsi alle sue forche caudine e, cifre alla lavagna, ha sanzionato a maggioranza un leggero assetto di «direzione» affidata al coordinamento dei Comitati territoriali e tematici pariteticamente rappresentati. Le prossime settimane e mesi si incaricheranno di rendere la conquista democratica del gracile impianto di rappresentanza un «fermo immagine» non cancellabile. Snoq discute da troppo tempo soltanto di se stesso. E l'impasse sembrerebbe oggi definitivamente superata dal ricorso alla conta, il cui esito, certificato dalla distanza non banale fra i numeri dei sì e quelli dei no, nessun negazionismo serio dovrebbe più negare. Il coordinamento, già emerso come realtà nuova, corporea, radicata del movimento, si avvia ad essere l'unica sede legittimata ad operare a nome di Snoq (senza aggettivi). E, per questa via, a tornare alla domanda iniziale. Ed alle risposte che, a ben cercare, Snoq ha tentato di depurare fra i tanti temi, seri e soppesati nella loro impellenza, sollevati nella ridda confusa delle voci dalla tribuna.
Ed allora ecco imporsi il lavoro delle donne, quello che c'è e quello che manca. Quello precario, sottopagato, senza diritti. Quello non riconosciuto della cura di anziani, disabili, bambini che consente il lavoro di papà e mamme multitasking. O emergere prepotentemente il tema unificante della Costituzione. La Carta fondamentale nata nel '48, ancora faro di modernità e riattualizzata dalla riclassificazione dei valori fondanti una comunità che la gravosa contingenza globale impone nella percezione comune. A partire dall'uguaglianza! E da quei commi cari alle donne, ma elusi o caduti da tempo nell'oblio di una società ripiegata che arretra perdendo ogni giorno pezzi di democrazia e di civiltà, anche nella relazione fra i sessi. E dove il virilismo pubblico degli ultimi lustri si è imposto in misura inversamente proporzionale alla libertà e dignità delle donne. Col suo corredo di frustrazione rimossa che, per dirla con lo storico Sandro Bellassai, riemerge nella violenza, nel machismo e nella misoginia della vita quotidiana, dal linguaggio, alla retorica dell'iconografia pubblica.
Primo fra tutti la parità sostanziale fra donne e uomini, sono troppi i diritti rimasti mere ispirazioni ideali di una visione ancora attuale. Ma ancora solo visione! Anche il diritto alla salute segna allarme rosso. Può servire allora ispirarci ai mitici e controversi anni '70, evitando l'apologia delle magnifiche sorti e progressive, e progettare una nuova stagione dei diritti su un modello di convivenza più umano di quello che ha originato la peggiore crisi del dopoguerra? Rinnovare il volto del Paese modellandolo su nuovi assi di civiltà fu allora possibile anche per la buona connessione fra cultura diffusa e la politica che se ne sostanziò. Componendo un mosaico invincibile di forze politiche, sociali, sindacali ed associative (erano di sinistra anche i radicali e l'Udi una potenza) ed anteponendo a supposte primazie l'obiettivo di tradurre la visione in responsabilità puntuali verso la nuda vita delle persone. Le donne da sole non possono oggi arrivare a tanto. A complicare l'impresa la presa d'atto che, per dirla con Hannah Arendt «una generazione dopo l'altra manifesta apertamente disprezzo per le idee ed ammirazione per la bestialità concreta». Ma possono provare, se unite, a dar vita ad un nuovo inizio alzando lo sguardo verso l'orizzonte del mondo, e adottando quel metro di misura che fa risaltare la nostra anomalia al cospetto di Dio e delle democrazie europee. Non è abbastanza per Snoq?

l’Unità 31.10.13
Nyt contro Obama: solo uno spettatore?


Un presidente comandante in capo o un presidente spettatore? È la domanda che si pone il New York Times, che in un articolo si occupa delle critiche, nazionali e internazionali al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama sulla riforma sanitaria e lo spionaggio ai danni dei capi di Stato alleati. In entrambi i casi, ricorda il Times, la giustificazione del presidente è stata grosso modo la stessa: «Non lo sapevo». Ovvero, Obama non era stato informato, ha spiegato il dipartimento della Salute, dei problemi al sito dove acquistare le polizze assicurative, emersi già prima del debutto online il primo ottobre. E non era stato informato, secondo la National Security Agency, che il telefono del cancelliere tedesco, Angela Merkel, fosse stato messo sotto controllo. Dal punto di vista pratico, nessun presidente può essere a conoscenza di tutto quello che fa il governo. Ma dal punto di vista politico si legge sul New York Times la sua ri-
sposta pone dei dubbi su quanto abbia sotto controllo la situazione.
Per questo, l’opposizione repubblicana ha accusato Obama di essere un «presidente spettatore». «Mi sembra che a ogni brutta notizia, la scusa sia sempre che il presidente non sapeva» ha detto il deputato Adam Kinzinger. «Ma c’è un punto in cui la scusa del “non lo sapevo” finisce: vogliamo avere la sensazione che il presidente si prenda le responsabilità. Gli americani vogliono sapere se hanno un presidente che ha il controllo ed è in carica» ha aggiunto. Ma il problema su quello che debba sapere un presidente non nasce certo con Obama, ed è un problema con cui si confronta quotidianamente il suo staff, alle prese con decisioni molto difficili. Il problema forse è che, semplicemente, «se hai una buona notizia, la porti alla Casa Bianca, se ne hai una cattiva, la tieni nel dipartimento responsabile» ha detto John Tuck, consigliere alla Casa Bianca durante la presidenza Reagan.

il Fatto 31.10.13
Datagate
Obama “spione”: a chi conviene?
di Furio Colombo


Bisogna prendere posizione, su questa incredibile storia dello spionaggio americano sul mondo, a cominciare dalla ragnatela di ascolti tipo Stasi (ricordate il bel film Le vite degli altri?) che sembra aver preso nella rete tutti i capi di Stato e di governo europei. La storia è effettivamente complicata e disorientante, se pensate a un botta e risposta fra Casa Bianca e New York Times su questo strano affare, in questi giorni. Qualcuno dalla Casa Bianca avrebbe detto, in modo un po’ generico che “tutto ciò che il Presidente autorizza, si fa nell’interesse nazionale”. Un commentatore del quotidiano newyorchese ha risposto secco: “L'interesse nazionale più importante per gli Stati Uniti è la fiducia dei Paesi e dei popoli alleati”. Naturalmente una simile storia non si chiarisce con una battuta, e dunque bisognerà riprendere il filo da capo. All'inizio, nell’affrontare questa vicenda, a tutti sembra che vi sia una sola drammatica domanda: perché Obama, presidente eletto e rieletto per liberare il Paese da personaggi inclini a governare col segreto (George W. Bush) ha preso un’iniziativa allo stesso tempo arrischiata e tanto immorale? Da persona che ha viaggiato a lungo accanto o attraverso le istituzioni americane, propongo che ci sia anche un'altra domanda, altrettanto drammatica, che nessuno ha finora proposto. Ma per ora tengo la seconda domanda di riserva, e tento di rispondere alla prima. Lo farò con i seguenti, discutibili punti, a ciascuno dei quali, però, io do credito.
1) A partire dall’11 settembre 2001, abbiamo imparato la necessità della sicurezza condivisa e sappiamo che soltanto gli Stati Uniti sono in grado di esercitare un (pur imperfetto) monitoraggio mondiale. Per questo abbiamo ceduto agli Stati Uniti il controllo dei nostri viaggi, dei nostri passeggeri, dei nostri voli e di una buona parte della nostra privacy. In questa attività, che gli Stati Uniti esercitano, senza nasconderlo, sul territorio di tutti (e che sembra avere diminuito di molto i rischi americani, ma anche i rischi comuni ) c’è un sopra e un sotto. Il sotto è il mondo quasi invisibile degli spionaggi incrociati (vedere certe buone serie televisive americane piuttosto esplicite e molto ben fatte) dove avvengono, quasi non notati, conflitti e alleanze, misteriosi delitti e fraterne collaborazioni). Il sopra sono gli apparati di governo. Da un lato quasi tutti sono porosi e meno sicuri del sistema americano. Dall’altro, come si è visto dalle reazioni meno insincere dei vari capi di Stato e di governo, nessuno sembra sia stato colto davvero di sorpresa. Possibile che avessero servizi di intelligence e monitoraggio non in grado di scoprire per tempo un’intercettazione così clamorosa ?
2) Prima di gridare allo scandalo e domandarci increduli in che mondo viviamo e con che diritto l’America eccetera, cerchiamo di ricordare il caso Litvinenko, la ex spia sovietica, ucciso a Londra con il terribile avvelenamento da plutonio (immensamente doloroso, agonia di settimane, dunque un’esecuzione esemplare da mostrare a qualcuno). Litvinenko, al momento del delitto, era in servizio presso il MI6 inglese (quello di Bond, per intenderci) ed è stato eliminato a cura di quattro ex colleghi ancora al lavoro per Putin, ma anche informatori del Regno Unito. Tener conto che Litvinenko, al momento della morte, era anche al servizio della Commissione parlamentare d’indagine italiana detta “Mitrokhin” istituita da Berlusconi con il compito di dimostrare che Prodi era stato al soldo dell’Urss. In Italia nessuno ha mai chiesto chiarimenti sulla sordida vicenda, anche se un certo Sgaramella, consulente della Commissione parlamentare d’indagine italiana, risulta coinvolto in molte vicende oscure che riguardano la parte italiana del caso Litvinenko. Tener anche conto che l’Alta Corte di Londra ha interrotto ogni indagine sul doloroso caso spiegando che “per ragioni di Stato” non vi sarebbe stata alcuna sentenza.
3) Qualcuno ha notato che tutti si indignano per le intercettazioni di Angela Merkel, a eccezione di Angela Merkel? Il vero problema è la definizione dell’area e del tipo di segreto. Un buon autore di thriller darebbe più risposte della Casa Bianca e più spiegazioni del settimanale DerSpiegel che ha lanciato la parte tedesca della storia. Ricordiamoci però che c’è segreto e segreto e che intere sovrastrutture e sottostrutture degli Stati comunicano tra loro indipendentemente dai capi, in una fitta rete di scambi che è impossibile riferire a una sola persona. Inoltre, anche se non ce l’avessero detto Schlesinger e Kissinger in ponderosi testi accademici sul potere, vi sono eventi di cui il Capo non deve essere informato per non portarne la responsabilità o trovarsi nella necessità di mentire.
4) È possibile che certe intercettazioni potessero avere luogo mentre l’intercettato ne era parte consapevole?
Non c’è e non ci sarà mai la risposta perché un capo di governo non può ammettere un’eventuale cessione di sovranità, per qualsiasi ragione. Però un buon autore di trame di spionaggio (che sia in servizio alla National Security Agency o alla Twenty Century Fox) sarebbe in grado di rendere plausibile e anzi logica una vicenda del genere. (Esempio: sapere di più di qualcuno che pubblicamente dice altre cose).
5) Credo sia importante notare che questo attacco a Obama, spione del mondo, segue una serie di altre violentissime aggressioni, tutte tese allo scredita-mento personale. Del presidente che ostinatamente rifiuta di impegnare l’America in altre guerre, e si ostina a occuparsi di ospedali, di scuole, di salvataggio di imprese e di posti di lavoro. Vorrei far notare che tutte quelle aggressioni, a cominciare dalla denuncia di avere falsificato il certificato di nascita per fingersi americano, fino al recente tentativo di dichiarare Obama l’uomo che “ha fatto fallire gli Stati Uniti”, negandogli tutti i fondi federali, puntano a colpire non la politica ma la persona del presidente, che deve apparire infido, mentitore e pericoloso. Non vi sembra che ci sia un rapporto fra quest’ultima accusa e tutte le altre contro il primo americano nero che diventa presidente degli Stati Uniti?
A questo punto mi sembra possibile proporre la seconda domanda: chi manda Snowden? Perché Snowden , il cavaliere bianco, compare ai tempi di Obama con decine di migliaia di informazioni segrete che in teoria mettono in pericolo il Paese ma in realtà diffamano il presidente? Se fosse questa la vera domanda?

Repubblica 31.10.13
Afghanistan, l’altra battaglia in un film gli incubi dei reduci
di Paolo G. Brera


ROMA — La missione in Afghanistan che non avevamo mai visto, quella che comunque la pensi sul coinvolgimento militare italiano ti lascia senza fiato: «Come nei videogiochi, in un istante diventa tutto grigio e il mondo si ferma». È così la morte vista da troppo vicino, nel ricordo del caporal-maggiore Monica Contrafatto, che il 24 marzo 2012 nella base avanzata italiana in Gulistan perse una gamba e un amico, il sergente Michele Silvestri. La sua è una delle voci del docufilm Reduci,prodotto «con il supporto dell’Esercito italiano» per raccontare l’Afghanistan dei sopravvissuti: andrà in onda domenica alle 21 in prima assoluta suSky Cinema Cult Hd,anticipata da un estratto di 20 minuti nel Tg Sky24 di sabato.
Un film documentario struggente e intenso, «volutamente apolitico» e «fatto di storie umane». Evita di indulgere sulla retorica ma spiega cos’era la vita “prima” e come diventa “dopo”, quando il sonno non torna e devi dirti che «sei fortunato, a poter correre in sedia a rotelle», perché quello che è successo «lo devi mettere in conto», e lo sapevi già. All’idea «l’Esercito ha aderito subito, pur nei suoi tempi», spiega il produttore Michele Bongiorno, figlio di Mike che «sarebbe orgoglioso di te», come gli ha ricordato, imbarazzandolo, la mamma Daniela intervenuta ieri a sorpresa all’anteprima a Roma. Eppure, «per due volte abbiamo concorso al bando dei Beni Culturali come opera di interesse nazionale, ma ci hanno negato sia il finanziamento che il patrocinio. E nessuna tv generalista ha creduto nel progetto». «Volevo raccontare — spiega il regista, Andrea Bettinetti — come dei giovani si ritrovano, in seguito a una scelta consapevole, a dover rianalizzare la propria vita e rimettere in gioco le convinzioni». I protagonisti sono sei, sopravvissuti a cinque attacchi mortali. Con qualche lacrima, con forza e dignità, sempre con orgoglio. «Mi auguro serva a far capire che non andiamo là per guadagnarci la pagnotta: la mia soddisfazione era il trovare ordigni e disinnescarli in tempo», dice il caporal maggiore Andrea Cammarata, che in un’esplosione il 14 luglio 2009 perse un commilitone. «In Afghanistan non hanno niente, ma i ragazzini ti arricchiscono. Io ci ritornerei subito. A costo di perdere anche l’altra gamba», sorride il soldato Monica Contrafatto.

l’Unità 31.10.13
Israele, 26 palestinesi liberati valgono 1500 case per coloni
di Umberto De Giovannangeli


Ventisei palestinesi valgono 1.500 nuove abitazioni negli insediamenti. È l’equazione israeliana. Israele annuncia 1.500 nuove case per i coloni a Gerusalemme Est, zona che i palestinesi rivendicano come parte del loro futuro Stato. L'annuncio è stato dato dalla portavoce del ministero dell’Interno, Lital Apter. Ha precisato che si tratta di quattro progetti, che includono 1.500 unità abitative nell’insediamento di Ramat Shlomo a Gerusalemme Est e lo sviluppo di un sito archeologico e turistico vicino alla Città vecchia. Secondo alcuni si tratta di una mossa del premier Benjamin Netanyahu per placare le critiche piovute da ogni parte per il rilascio di 26 detenuti palestinesi, avvenuto l’altra notte, parte degli accordi per il riavvio dei colloqui di pace.
RAMALLAH PROTESTA
L’Autorità Nazionale palestinese ha condannato la decisione di Israele di autorizzare la costruzione di tanti nuovi alloggi nella colonia ebraica di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est, definita una politica «distruttiva per il processo di pace». «Siamo preoccupati e allarmati, perché se Israele continuerà con l’espansione degli insediamenti questo potrà uccidere la prospettiva a due Stati, che vorremmo vedere su questa terra», dichiara il primo ministro palestinese Rami Hamdallah. Anche Nabil Abu Rudeina, il portavoce del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), ha condannato la decisione definendola «distruttiva degli sforzi di pace, porterà solo a ulteriori tensioni».
L’annuncio della costruzione di 1.500 unità abitative a Ramat Shlomo, ha oscurato la notizia della liberazione di 26 prigionieri palestinesi. Una replica di quanto avvenne anche lo scorso 13 agosto, quando dopo la liberazione di altri 26 detenuti palestinesi, Israele annunciò la realizzazione di 2.000 nuove case per i coloni, gettando acqua fredda sul fuoco degli entusiasmi. La destra del Likud intanto ha mandato un chiaro messaggio agli Stati Uniti, chiedendo che Washington affronti prima la questione iraniana rispetto al processo di pace con i palestinesi. «Se potessi parlare oggi con il presidente Obama gli direi di cambiare il calendario», sostiene Danny Danon, uno dei falchi del partito di Netanyahu, definendo un «mero desiderio» l’ipotesi che si possa raggiungere un accordo con i palestinese entro maggio del prossimo anno.
COLONIE CRESCONO
L’apertura di nuovi cantieri di insediamenti israeliani in territorio palestinese è aumentata «drasticamente», del 70%, nel primo semestre 2013 rispetto all’anno precedente. A rivelarlo, nei giorni scorsi, prima dell’annuncio di ieri di altre 1500 unità abitative, è il movimento per la pace israeliano, Peace Now, secondo la quale in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono stati avviati i lavori per 1.708 nuove case tra gennaio e giugno 2013, mentre nello stesso periodo dell’anno precedente ne erano state iniziate 995. Attualmente nei territori occupati nel 1967 abitano circa 400.000 coloni di cui circa 200.000 sono coloni urbani insediati a Gerusalemme Est,
per esempio nel quartiere di Gilo. I coloni crescono a un ritmo di circa 1.000 1.500 al mese. Negli ultimi cinque anni i coloni israeliani in Cisgiordania sono aumentati del 20%; 220.000 coloni sono organizzati e raggruppati nell’influente associazione Yesha council molto vicina al Likud. Nel 2012 l’ampliamento delle colonie è stato impressionante: soltanto a dicembre il governo aveva approvato 11.000 nuove unità abitative, quasi quanto nei dieci anni precedenti. Gli insediamenti più importanti sono Modi’in Illit (in Cisgiordania, tra Gerusalemme e Tel Aviv), Maale Adumim (a una decina di chilometri a est di Gerusalemme) e Beitar Illit (a circa dieci chilometri a sud di Gerusalemme): hanno lo status di città e sono abitate da oltre 30.000 persone ognuna, principalmente ebrei ortodossi.

Corriere 31.10.13
il Rapporto «383» del Governo cinese per le (sperate) riforme dell’economia
di Guido Santevecchi


Si chiama «Rapporto 383»: è il piano del Centro sviluppo e ricerca del governo cinese con le proposte di riforme economiche che saranno esaminate dai 200 membri del Terzo Plenum del 18esimo Comitato centrale del Partito comunista, convocato tra il 9 e il 12 novembre. La foresta di numeri avvolge una riunione cruciale della cupola del potere in Cina. Il Terzo Plenum (significa che questa sarà la terza sessione dopo quelle di novembre 2012 e marzo 2013 che hanno «eletto» la nuova leadership) è carico di ricorsi storici: nel 1978 fu in un Terzo Plenum che Deng Xiaoping fece emergere le sue idee riformiste; e nel 1993 l’economia di mercato socialista uscì ancora da un Terzo Plenum.
Nell’era di Xi Jinping c’è enorme attesa per una nuova accelerazione di mercato. Aperture politiche si è già capito che non ci saranno: da mesi in Cina è in corso un’ulteriore repressione del dissenso e il nuovo leader non si stanca di rilanciare slogan maoisti, dalla «linea di massa» alla «rettifica». Qualcuno sostiene che il presidente Xi stia giocando la carta della nostalgia maoista in politica anche per vincere le resistenze degli antiriformisti sul terreno dell’economia: una sorta di scambio tra chiusure e aperture.
Ed ecco dunque il «Rapporto 383»: 3 sono le «vaste idee di rinnovamento»; 8 le «aree maggiori su cui intervenire»; 3 le «aree del cambiamento». Dentro questa formula, in concreto, la piena convertibilità dello yuan e un mercato meno sbilanciato a favore delle industrie statali.
Dicono che il documento del think tank governativo abbia molti punti di contatto con uno della Banca mondiale in cui si mette in guardia Pechino dal rischio di finire nella cosiddetta e famigerata «trappola del reddito medio», quella in cui sono caduti molti Paesi in Asia che dopo una grande crescita si sono impantanati sulla soglia del pieno sviluppo.
Le parole del partito suonano ambiziose: «Dobbiamo lasciare che il lavoro, la conoscenza, la tecnologia, il management e il capitale liberino il loro dinamismo». Ma per capire se questo Terzo Plenum manterrà le promesse bisognerà aspettare, forse molti mesi. Anche nel 1978 non fu semplice comprendere che Deng aveva aperto una nuova era.

Corriere 31.10.13
Camus, il lato oscuro della verità
Lo scrittore deve saper svelare anche i dubbi angosciosi del rivoluzionario
Dietro i dubbi l’angoscia (la speranza) del vivere
di Albert Camus


Il testo qui pubblicato è una recensione di «Vino e Pane» di Silone. Inedita in Italia, uscì il 13 maggio 1939 su «Le Soir Républicain» ed è tratta dall’antologia «Il calendario della libertà», edita da Castelvecchi a cura di Alessandro Bresolin

Più i conflitti rivoluzionari saranno dolorosi e più saranno attivi. Il militante convinto troppo in fretta sta al vero rivoluzionario come il bigotto sta al mistico. Perché la grandezza di una fede si misura con i suoi dubbi.

Le edizioni Grasset hanno appena pubblicato un’eccellente traduzione del romanzo di Ignazio Silone, Vino e pane . Si tratta di un’opera che si occupa dei problemi attuali. Ma la miscela di distacco e angoscia con cui vengono affrontati questi problemi permette di salutare, in Vino e pane , una grande opera rivoluzionaria. E per diversi motivi. Innanzitutto, questo romanzo è senza dubbio quello di un antifascista. Il messaggio che porta però va al di là dell’antifascismo. Perché questo rivoluzionario esiliato per anni, dopo essere evaso da un campo di concentramento, se torna in Italia e se scopre sempre dei motivi per odiare il fascismo, vi trova al contempo dei motivi per dubitare. Non certo della propria fede rivoluzionaria, ma del modo in cui si esprimeva. Uno dei passaggi culminanti di questo libro è senz’altro quando Pietro Sacca, il protagonista, a contatto con la vita semplice dei contadini italiani, si chiede se le teorie con cui ha travestito l’amore che provava per quel popolo non l’hanno allontanato da quello stesso popolo. È qui che possiamo valutare quest’opera come rivoluzionaria. Perché un’opera simile non è affatto quella che esalta le vittorie e le conquiste, ma quella che svela i conflitti più angoscianti della Rivoluzione. Più questi conflitti saranno dolorosi e più saranno attivi. Il militante convinto troppo in fretta sta al vero rivoluzionario come il bigotto sta al mistico. Perché la grandezza di una fede si misura con i suoi dubbi. E quello che investe Pietro Sacca nessun militante sincero, proveniente dal popolo e deciso a difenderne la dignità, può ignorarlo. L’angoscia che coglie il rivoluzionario italiano è la stessa che dà al libro di Silone la sua vivacità cupa e la sua amarezza. D’altra parte, non c’è opera rivoluzionaria senza qualità artistica. Questo può sembrare paradossale. Credo però che se l’epoca ci insegna qualcosa a questo riguardo, è che l’arte rivoluzionaria non può fare a meno della grandezza artistica, senza regredire alle forme più umiliate del pensiero. Non c’è via di mezzo tra la bassa propaganda e la creazione esaltante, tra quello che Malraux chiama «la volontà di provare» e un’opera come La Condizione umana . Vino e pane risponde a tale esigenza. Questo libro ribelle è radicato nella più classica delle forme. Una frase breve, una visione del mondo al contempo ingenua e riflessiva, dei dialoghi naturali e secchi, danno allo stile di Silone una vibrazione segreta che traspare finanche nella traduzione. Se la parola poesia ha un senso, è qui che lo ritrova, in questi quadri di un’Italia eterna e rustica, in questi pendii ricoperti di cipressi e in quel cielo senza pari, e nei gesti secolari di questi contadini italiani. Ritrovare la strada di quei gesti e di quella verità, e da una filosofia astratta della rivoluzione ritornare al pane e al vino della semplicità, è l’itinerario di Ignazio Silone e la lezione di questo romanzo. E una delle sue grandezze principali è di incitare anche noi a ritrovare, attraverso gli odi attuali, il volto di un popolo fiero e umano che rimane la nostra unica speranza di pace.

Corriere 31.10.13
La rivolta e l’intransigenza che l’avvicinano a Calvino
di Antonio Debenedetti


Camus è un mito, un amore, un partito preso. Piace senza se e senza ma, piace anche a chi ne ha sentito parlare senza averlo letto. È un contagio: a un secolo dalla nascita e a oltre mezzo secolo dalla morte, è vivo nell’aria morta della letteratura. Le sue frasi trafiggono la ragione come spade di gelida luce. Non possiamo sottrarci a Camus quando scrive: «Il senso dell’assurdo, alla svolta di una qualunque via, può cogliere qualunque uomo». Il suo fascino è in una geniale, apparente contraddizione perché, come ha scritto Montale, al solito ineguagliabilmente lucido, «il suo nichilismo non esclude la speranza, non dispensa l’uomo dal difficile compito di vivere e di morire con dignità». Solo un grande riesce a spiegare un altro grande con tale semplicità.
Albert Camus è dunque lo scrittore francese, l’intellettuale nel senso più pieno del termine, più coccolato, oltre che ammirato, dai lettori italiani. È anche una moda che resiste come raramente resistono le mode, è una bandiera. È l’espressione d’un gauchismo libero e ribelle di cui le nostre generazioni, le generazioni con i capelli bianchi, sentono la nostalgia. E i giovani, quanti fra loro hanno il suo nome sulle labbra? Credo che pensino a lui come a un altro scrittore, stavolta italiano, di statura diversa e meno manifestamente contagiosa. Intendo riferirmi a Italo Calvino. L’autore delle bellissime Lezioni americane come l’autore dello Straniero sono manifestamente quelli, fra i maestri del Novecento, che più piacciono alle nuove generazioni, alle loro impazienze di rottamatori del tempo perduto (quello di Pasolini, gettonatissimo, è un caso diverso). Che senso ha accostare Camus e Calvino? Non hanno niente in comune. O invece sì, qualcosa in comune ce l’hanno? Qualcosa che li riguarda come uomini, figli fino in fondo all’anima del loro tempo? Vediamo. Per entrambi la morte è arrivata prematuramente, a passi di lupo, consegnandoli al rimpianto della storia prima che le ombre dei ripensamenti crudeli, d’un uso e abuso della propria figura pubblica e della propria intelligenza, potesse guastarne l’immagine. Ecco che cosa hanno in comune, un modo di affrontare la vita impegnato e severo, che rispecchia una intransigenza all’occorrenza sfumata di moralismo. L’intransigenza delle generazioni che ereditarono dai padri, dai fratelli maggiori il maquis, la Resistenza, un mondo libero, ma da ricostruire dopo la barbarie nazifascista. Proprio in quella luce Camus e Calvino avrebbero fatto i conti anche con lo stalinismo, con un comunismo che aveva tradito i suoi ideali. I giovani sentono, leggendoli, che dietro le loro pagine c’è una svolta decisiva compiuta dalla letteratura del secolo breve. Un mutamento di prospettiva che li convince.
A quei giovani che vogliano saperne di più intorno all’autore dell’Uomo in rivolta suggeriamo, oltre a quella esaustiva di Olivier Todd edita anni fa da Bompiani, una più recente biografia. Si intitola Albert Camus. Una vita per la verità , l’ha scritta il rumeno Virgil Tanase e l’ha pubblicata adesso l’editore Castelvecchi, che ha anche raccolto alcuni testi di Camus, inediti in Italia, nel volume Il calendario della libertà .
Todd è un testimone diretto, insostituibile: ha raccontato Camus da complice, da amico, da critico letterario e da analista del costume. Ci porta nel suo mondo, che era anche quello di Simone de Beauvoir e di Sartre, cui si deve un insuperato saggio su L’étranger (Che cos’è, si chiedeva Sartre, l’assurdo di Camus? «Niente altro che il rapporto dell’uomo con il mondo»). Nelle pagine di Todd vediamo sfilare davanti a noi, descritti con l’occhio di chi deve bilanciare un eccesso di giustificata partecipazione con i doveri dell’obbiettività, personaggi quali Gide, Malraux, Merleau-Ponty, i Gallimard, eccetera. Tanase, grande estimatore di Camus, fruga viceversa nella vita privata dello scrittore, descrive le sue disavventure professionali con l’imparzialità dello storico. Ricostruisce a tavolino, lavoro assai utile quando venga fatto con scrupolo come qui, la figura pubblica di Camus. Amori, polemiche letterario-politiche, qualche pettegolezzo. Insomma un po’ tutto di questo maestro nemico delle cattedre, morto senza essersi piegato ai compromessi del successo, che ebbe a dire «Io mi rivolto, dunque noi siamo».

Repubblica 31.10.13
Mibac, l’allegro caos di una riforma infinita
di Francesco Erbani


Per carità, non chiamatela riforma. Su questo sono d’accordo in molti al ministero per i Beni culturali e il turismo. Ma solo su questo. Per il resto regna un allegro caos intorno alle proposte elaborate da una commissione incaricata dal ministro Massimo Bray di formulare un diverso assetto del ministero. La commissione, formata in buona parte da consulenti esterni e presieduta da un professore di diritto amministrativo, Marco D’Alberti, chiude i battenti oggi con una riunione plenaria. I paletti entro cui si è mossa sono le prescrizioni fissate dalla spending review che impone un taglio dei posti dirigenziali e che addirittura fissa le quote: 6 fra direttori generali e regionali, 32 fra soprintendenti, direttori di musei o di archivi o di biblioteche....
Il ministro Bray vorrebbe alleggerire il corpo centrale del ministero e rafforzare le strutture periferiche, quelle che svolgono la tutela sul territorio e che negli anni sono state immiserite (e dello stesso parere è il presidente della commissione): personale carente, d’età avanzatissima (in media 55 anni), costretto a carichi burocratici che rendono quasi impraticabile la sorveglianza del patrimonio o la pianificazione paesaggistica. La sperequazione economica è paradossale: un direttore generale o regionale guadagna 170mila euro l’anno, un soprintendente la metà, un funzionario di zona o un direttore di museo (dagli Uffizi alla Galleria Borghese, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), 35mila.
Bray attende i risultati della commissione e poi deciderà. Intorno a lui cresce però il nervosismo. Sono pessimi i suoi rapporti con il segretario generale, Antonia Pasqua Recchia.
Ma neanche con i direttori generali corre buon sangue. A fine settembre, per citare un episodio significativo, su impulso del capo di gabinetto del ministro, Marco Lipari, il segretariato generale emette una circolare (la numero 39) che impone ai dirigenti del ministero di farsi autorizzare i convegni che hanno qualche attinenza con questioni normative.
La circolare genera un maremoto. Molti parlano di censura preventiva in un ministero dove nessuno può esporsi pubblicamente e chi esprime malumori lo fa solo con la garanzia dell’anonimato. Intervengono i sindacati.
Bray è bersagliato da roventi tweet. Torna alla memoria un’altra circolare, firmata sempre dal segretario generale, che disponeva una rotazione ogni tre anni per tutti i direttori di museo e per i funzionari delle soprintendenze.
Quella circolare fu poi ritirata, si disse, per iniziativa del ministro. Che, secondo alcuni, non ne sapeva nulla e che smentì Antonia Pasqua Recchia. Secondo altri, Bray era invece consapevole, ma vista la bufera, impose di tornare indietro. Passano quattro giorni dalla circolare numero 39 e, con la circolare numero 40, anche stavolta si fa parziale retromarcia.
La commissione, intanto, definisce gli ultimi dettagli. Alcuni chiedono di abolire il segretario generale, altri ne difendono il ruolo.
Verranno ridotte le direzioni generali da nove a cinque. Una di queste direzioni generali, però, si trasformerebbe in una specie di monstre: comprenderebbe tutto il patrimonio, dall’archeologia all’arte e all’architettura contemporanee, e anche il paesaggio. Viene eliminata la direzione per la valorizzazione, inventata dall’allora ministro Sandro Bondi per Mario Resca, amico personale di Silvio Berlusconi, che ha poi lasciato l’incarico ad Anna Maria Buzzi, senza che questa struttura abbia prodotto granché. Potrebbe essere istituita una direzione per i musei e gli istituti culturali.
Per le direzioni regionali si è ipotizzata la soppressione, ma forse si andrà ad alcuni accorpamenti e a tutte si attribuiranno compiti di coordinamento e non più la ridda di funzioni — ne hanno calcolate 33 — che ora ingolfano autorizzazioni e vincoli. Tornano a funzionare i comitati tecnico-scientifici, mentre si è ventilata l’eliminazione dei Poli museali (Firenze, Venezia, Roma, Napoli).
Il fermento è altissimo. Si propone di tagliare i direttori generali, ma nel frattempo nella legge “Valore cultura” se ne immagina uno tutto nuovo per Pompei, dotato di poteri simili a quelli di un commissario (lo ha definito così il presidente del Consiglio Enrico Letta aChe tempo che fa),una funzione che a Pompei ha lasciato scie di inchieste giudiziarie. Accanto al direttore-commissario e a un suo vice, si delinea un comitato di gestione al quale partecipano soggetti pubblici e privati, le cui decisioni, «sostituiscono ogni altro adempimento, nulla osta, autorizzazione o atto di assenso ». Il che vuol dire che si può procedere in deroga alle norme vigenti soprattutto per le aree esterne al sito: mano libera, insomma, per iniziative su infrastrutture e interventi turistici. Circolano alcuni nomi per questa direzione generale. E fra questi, oltre a due attuali direttori regionali, anche quello di Antonia Pasqua Recchia se dovesse saltare la poltrona di segretario generale.

Repubblica 31.10.13
Alain Touraine: “Siamo tutti soli come attori in un teatro vuotoLa fine della società
Con il tramonto del capitalismo industriale cadono anche le sue istituzioni: Stato, classe, famiglia
Intervista al sociologo francese
di Fabio Gambaro


PARIGI Da molti anni Alain Touraine si è imposto come uno dei più attenti e fini osservatori del divenire della nostra società. Di libro in libro, con paziente determinazione, il sociologo francese scruta e analizza i caratteri e le trasformazioni di un mondo che, da postindustriale, è ormai diventato «post-sociale ». Un’evoluzione che è al centro anche del suo ultimo denso saggio,La fin des sociétés(Seuil, pag.657, euro 28), summa teorica di mezzo secolo di ricerche e analisi, nella quale spiega come il dominio del capitalismo finanziario abbia ormai rimesso in discussione e reso inservibili tutte le costruzioni sociali del passato. Di fronte a questa vera e propria «fine delle società», dove anche i movimenti sociali sembrano non avere più presa sul reale, per lo studioso, che ha da poco compiuto ottantotto anni, non resta che affidarsi alla resistenza etica, unica capace di ridare un senso al vivere e all’agire collettivo.
«Una società è sempre determinata da un insieme di pratiche ma anche da un sistema di costruzione della realtà», spiega Touraine, tra i cui saggi più recenti figurano La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore) eDopo la crisi(Armando). «In passato, le società si sono pensate e costruite in modo religioso, poi, a partire dal Rinascimento, si sono costruite attraverso il pensiero politico. In seguito, negli ultimi due o tre secoli, la società industriale si è pensata in termini socio-economici, tanto che alla fine società e economia hanno finito per identificarsi».
Negli ultimi decenni cosa è cambiato?
«A partire dagli anni Sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del capitalismo industriale, dato che una parte sempre più importante dei capitali disponibili hanno smesso di avere una funzione economica. Ha prevalso il capitalismo finanziario e speculativo, che sottrae capitali agli investimenti produttivi. Questa trasformazione del capitalismo ha progressivamente svuotato di senso tutte le categorie politico-sociali con cui eravamo abituati a pensare la società contemporanea. Siamo entrati così in un’epoca post-sociale».
Cosa significa?
«La società si forma nel momento in cuile risorse economiche acquistano una forma sociale attraverso le istituzioni. Quando una parte delle risorse non entra più in circolo nella società, le costruzioni sociali si svuotano di contenuto. Oggi tutte le categorie e le istituzioni sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società — Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia — sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All’epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più a niente. Non ci aiutano più a pensare le pratiche sociali contemporanee e a governare il mondo in cui viviamo. In questo modo, il sociale viene meno».
Da qui l’idea della fine delle società?
«Il trionfo della finanza speculativa disarma la politica e l’economia, disarticolando le società così come le abbiamo conosciute e pensate finora. Di fronte a questa situazione, alcuni pensano che la società contemporanea sia capace di trasformarsi da sola. Immaginano una società tecnico-operativa, figlia di un capitalismo tecnologico selvaggio, che non ha più bisogno di sistemi concettuali e di categorie sociali. Ma quando si fa a meno dei sistemi di costruzione della realtà, si lascia spazio alla regressione attraverso le pseudo- religioni e le pseudo-politiche, il comunitarismo e l’ossessione dell’identità,l’edonismo individualista sfrenato che alimenta la psicosi e la violenza su se stessi e sugli altri».
Esiste un’alternativa?
«Visto che le vecchie categorie sono inutilizzabili, occorre trovarne di nuove. In particolare, interessandosi alle categorie del soggetto autocosciente. Nella società della riflessività il soggetto occupa una posizione centrale. In passato, il sociale era fondato sull’idea della relazione all’altro, oggi occorre riconoscere la priorità della relazione a se stessi. Essa è fondamentale, creativa e dà un senso alla realtà. Per questa strada, l’individuo può ridiventare un attore sociale. Non più passando dal sociale, dalla politica o dalla religione, ma passando da se stesso, in quanto soggetto».
Sul piano individuale contano la coscienza e la responsabilità...
«Naturalmente. E quando si parla di soggetto si parla di diritti. La fine delle vecchie categorie ha lasciato il vuoto. Siamo come in un teatro dove il pubblico osserva una scena senza attori. Occorre che ogni singolo spettatore si faccia carico della scena, rivolgendosi a se stesso e egli altri spettatori. E al centro della sua riflessione devono esserci i diritti fondamentali, perché i diritti costituiscono il sociale. Rispetto Stéphane Hessel, ma l’indignazione non basta. Oggi occorre ripartire dai diritti e dalla loro difesa, come già avviene in molte parti del mondo. E come fa anche il nuovo Papa, che sembra adottare volentieri il vocabolario dell’etica. Hannah Arendt ha sottolineato il diritto di avere dei diritti. Io aggiungo che i diritti stanno al di sopra delle leggi».
Attraverso il soggetto è possibile resistere alla fine delle società?
«La questione dei diritti è fondamentale per ripensare la società. La libertà, l’uguaglianza, ma anche il diritto alla dignità, che impedisce che il corpo umano possa essere venduto come una merce. La loro difesa ricrea dei legami sociali. Queste preoccupazioni etiche non sono aspirazioni astratte, dato che sono già presenti nella società civile molto di più di quanto non si possa immaginare».
Promuovendo la resistenza etica alla decomposizione del sociale, non si rischia di contrapporre l’etica alla politica?
«La contrapposizione oggi è necessaria, dato che quella che chiamiamo “politica” è ormai una realtà molto degradata e travisata. Il carattere nobile dell’azione politica può rinascere solo dall’etica. Non da una politica di classe, non da una politica della nazione, non da una politica degli interessi o da una politica del sacro. Utilizzando queste categorie del passato, la politica non sa e non riesce più a parlare alla gente. Diventa afasica».
Come fare allora per reinvestire il sociale e prendere delle decisioni che riguardanotutti?
«L’idea della politica che prende delle decisioni in nome dell’interesse comune non funziona più. Oggi occorre partire da un’esigenza etica che si trasforma in azioni concrete e in istituzioni. Si pensi ai diritti delle donne. La condizione femminile è diventata uno degli elementi determinanti per valutare il grado si sviluppo diuna società. Secondo me, il solo scopo importante e nobile e della politica è quello di favorire la nascita di nuovi attori sociali. E ciò non è possibile senza passare attraverso il soggetto e i suoi diritti. Solo così si ricrea il sociale. «
In questo modo sarà anche possibile restituire vitalità alle nostre democrazie in crisi?
«La democrazia, che oggi appare svuotata di senso, potrà ritrovare un significato solo se sapremo creare dei soggetti democratici. Non c’è democrazia se non ci sono convinzioni democratiche. Le istituzioni da sole, senza gli attori che le animano, non possono funzionare. Per questo occorre trasformare gli individui in soggetti capaci di essere degli attori postsociali. È un compito urgente, perché oggi le convinzioni democratiche mi sembrano sempre meno diffuse».

Repubblica 31.10.13
JFK Viaggio nel labirinto del grande complotto
“La verità? è a Cuba”
Cinquant’anni dopo Dallas esce il libro-inchiesta di Philip Shenon
Che riapre il caso Kennedy
di Vittorio Zucconi


Poco prima della mezzanotte del 23 novembre 1963, sconvolto dalla stanchezza e dall’enormità di ciò che aveva visto e toccato tutto il giorno, il dottor James Humes, capo patologo all’Ospedale della Marina americana, fece il gesto che avrebbe bruciato forse per sempre la speranza di rispondere alla domanda che da mezzo secolo attende una riposta: perché fu ucciso John Fitzgerald Kennedy? Perché, 50 anni dopo, ancora non possiamo dire di conoscere tutta la verità su quei tre colpi di fucile che cambiarono la storia del mondo, su quell’Atto crudele e sconvolgente, come titola il nuovo formidabile libro di Philip Shenon? Il dottor James Humes prese gli appunti, i dati e le minute che aveva scritto e raccolto nelle sette ore di autopsia sul cadavere del presidente, depositato la sera prima nell’obitorio per l’esame autoptico e li gettò nel caminetto acceso della sua casa di Bethesda, lo stesso sobborgo di Washington dove è il Naval Hospital, e li osservò trasformarsi per sempre in cenere. Di quelle lunghe ore di lavoro e di studio sui resti di Jfk rimase il suo referto finale, ma delle osservazioni, del materiale originale tutto scomparve. Che cosa davvero avesse visto il dottor Humes frugando nei resti del presidente, che opinione professionale si fosse fatto, quali delle tante malattie segrete e gravi di Jfk nascoste dalla propaganda di “Camelot” avesse riconosciuto, nulla rimane. Humes, che visse a lungodopo quella notte, non diede mai una spiegazione di quel falò. Ma ora sappiamo che lui, come gli altri tre medici che collaborarono all’autopsia, vissero per mesi, e per anni, nel terrore di essere uccisi, perché conoscevano cose che noi umani non avremmo dovuto conoscere.
Da qui, da quella sera in una piccola casa di Bethesda, comincia anche il viaggio nell’abisso del “caso Kennedy” che Philip Shenon, autore e inchiestista delNew York Times, il reporter al quale furono affidati il servizio e la squadra di giornalisti dopo l’11 settembre, compie alla ricerca del “Sacro Graal” della risposta al chi, perché e come fu ucciso Jfk. E del chi, perché e come la versione ufficiale, il Rapporto Warren, apparve immediatamente incredibile ed evasiva. Addirittura essa stessa prodotto di una “cospirazione” per nascondere, come più tardi avrebbe sancito un’inchiesta parlamentare.
Una verità, se non “LA” verità nel lungo viaggio di 700 pagine che Shenon ha compiuto anche lui, come tutti noi che da generazioni siamo stati contagiati dal virus del “mistero Kennedy”, la trova, alla fine. Ma non è quel colpo di tuono, quel giorno del Giudizio Universale che i mistici attendono dopo le umane esistenze di menzogne. Senza voler rovinare la lettura di questo reportage, la conclusione è che il governo americano, l’amministrazione di Lyndon Johnson, la Cia, che rapidamente s’impossessò del timone dell’inchiesta, l’Fbi, ancora guidato da un «vecchio senile e paranoico con troppe cose da nascondere » (J. Edgar Hoover), i membri della Commissione, tra i quali il futuro presidente Gerald Ford, allora capogruppo del partito repubblicano alla Camera, lepolizie locali, tutti, parteciparono alla “Grande Menzogna” per nascondere un nome: Cuba. Johnson, e con lui i potentati Usa erano convinti che Lee Harvey Oswald fosse un muppet dei cubani e dei Castro, decisi a consumare finalmente la loro vendetta contro quel Kennedy che per lunghi mesi aveva tentato, dopo il miserabile fallimento alla Baia del Porci, di uccidere Fidel, fallendo.
È la stessa risposta che a scrive diede un potentissimo vecchio in un’intervista per Repubblica poco prima di morire, Jack Valenti. Jack era l’ometto, piccolo di statura e ancor più piccolo accovacciato nella foto, che si vede alle spalle diLady Bird Johnson nell’Air Force One che trasporta la bara di Kennedy da Dallas a Washington, mentre Johnson giura per assumere la presidenza accanto a Jackie con l’abito ancora sporco. Era dunque uno degli uomini “dentro”, vicinissimo al nuovo presidente, all’interno del “cerchio magico”. Nel suo studio di boss assoluto e imperioso della Associazione americana dei produttori di film a Washington, ormai malato terminale, Jack mi disse che il suo capo, il presidente, aveva raggiunto la certezza che fossero stati i cubani, con o senza l’imprimatur dell’Urss, a pilotare Oswald, nel doppio e triplo gioco dell’anticastrismo gorgogliante a New Orleans, come poi avrebbe narrato anche Oliver Stone nel suoJfk.Ma se la verità fosse uscita, l’America avrebbe dovuto immediatamente lanciare l’invasione di Cuba. Senza sapere, in quel 1963, che ancora i reparti sovietici sull’isola disponevano di armi atomiche tattiche, di breve gittata, con l’autorizzazione a usarle contro invasori.
La Grande Menzogna che fu il Rapporto Warren, le misteriose scomparse di documenti, prove, testimoni, a cominciare dallo stesso Oswald fulminato da Jack Ruby sotto gli occhi della polizia di Dallas, sarebbe dunque una colossale operazione dicover up,di insabbiamento e di diversione, per evitare un probabilissimo scontro nucleare fra Usa e Urss. Shenon, in una delle più importanti pagine del suo libro, scopre una notizia inedita che tende a confermare la tesi: nel 1963, Lee Harvey Oswald che già era entrato e uscito dall’Urss, che aveva rinunciato e poi ripreso la cittadinanza Usa andando e venendo da una Russia degli anni 50 come fossero gite fuori porta, Marine scelto, cane senza lavori nè collari visibili, suona alla porta dell’ambasciata russa a Mexico City ed è respinto, indirizzato verso i cubani. E questo era noto.
Quel che segue non lo era. Oswald viene ricevuto dai cubani. Nel settembre del 1963, conosce e ha una relazione con una segretaria cubana della legazione, dove la parola segretaria si presta alle più ampie interpretazioni. Viene visto con lei a un party del “twist” in onore di Chubby Checker, allora l’idolo di questo ballo anni ‘60, e lei lo mette in contatto con un alto funzionario dell’ambasciata conosciuto per il suo feroce anti-americanismo e soprattutto per l’odio verso Kennedy. Due mesi più tardi, Lee Harvey Oswald è affacciato alla finestra del Deposito Libri di Dallas con la nuca di Jack Kennedy nel canocchiale del suo Mannlicher-Carcano, il dito sul grilletto. La Cia lo sapeva, ma aveva taciuto, e avrebbe taciuto, per non rivelare di avere fonti, «spie», dentro quelle ambasciate.
Quell’“Atto crudele e sconvolgente”, The Cruel and Shocking Act,come leggono le prime cinque parole del Rapporto Warren e come s’intitola il libro in versione originale (Anatomia di un assassinio nell’edizione italiana) conserva quindi, 50 anni dopo, tutta la sua capacità di shock, di sbigottire. La profonda crudeltà dell’evento, anche oltre la brutalità dell’assassino di un uomo, sta proprio nel percorso che questo giornalista segue e che ci invita a seguire. Non un luminoso rettilineo verso la Rivelazione, la Cia!, la Mafia!, i Russi!, il Complesso MilitarIndustriale, il «L’avevo detto io!» che conforta i complottisti. Ma un labirinto di false porte, di doppi fondi, di trappole, che per essere capito richiede, a chi non ha vissuto quegli anni, il ritorno alle ore della paranoia apocalittica della quale il mondo era prigioniero.
Appena un anno prima dei tre colpi fatali (o più), Jfk, la sua famiglia, i collaboratori e i pezzi grossi della Casa Bianca, come racconterà Pierre Salinger, il portavoce del presidente, avevano ricevuto i badge speciali per entrare nella caverna sotterranea sotto i Monti Catoctin, a un’ora di elicottero da Washington e sopravvivere al salvo di missili sovietici previsti in arrivo proprio da Cuba dopo l’ultimatum a Kruscev. L’olocausto atomico era dato per certo. Sì, certamente — e non per la prima e ultima volta — la autorità americane hanno mentito, hanno steso sudari e disseminato false briciole, hanno costruito con fatica spesso grottesca la tesi del “pazzo solitario” che un bel mattino di novembre decide di far fuori il presidente. Ma se Shenon — che non ha una propria teoria da vendere, solo fatti da cercare — ha ragione, la Grande Menzogna fu organizzata per evitare una ben più Grande Tragedia, la terza guerra mondiale. «Credimi — mi disse Jack Valenti, l’omino accanto alla bara di Jfk — in quelle ore eravamo terrorizzati dall’idea che si potesse ricondurre a Cuba il filo rosso di quell’assassinio». Forse è vero.

IL LIBRO Anatomia di un assassinio di Philip Shenon (Mondadori, pagg. 672, euro 22,50)

Repubblica 31.10.13
“Ma quale cospirazione, è solo una storia di soldi”
Bill O’Reilly, autore di un volume sull’assassinio del presidente in uscita per Castelvecchi
intervista di Federico Rampini


NEW YORK Bill O’Reilly è una star del giornalismo americano. Di destra. Lui preferisce definirsi “tradizionalista” più che conservatore. Sta di fatto che il suo talkshow suFox News, tutte le sere in orario di massimo ascolto, è un punto di riferimento per l’elettorato di destra. O’Reilly è talmente celebre che il suo sito Internet prevede addirittura un accesso “esclusivo”, a pagamento, per chi vuole sentirsi parte del club dei suoi fan più affezionati. O’Reilly è anche un autore di massa, recensito con rispetto dalNew York Times, perché ha azzeccato un filone di grande successo: gli assassinii che cambiarono la storia. Lincoln, Cristo, e naturalmente Kennedy. Un po’ come fece Indro Montanelli con la storia d’Italia, O’Reilly è riuscito a compiere un’operazione divulgativa. I suoi libri, preparati con l’aiuto di uno storico di professione, sono accurati e attendibili. Scritti con il ritmo incalzante di un giallo, hanno battuto record di vendite: due milioni Lincoln, un milione per Kennedy. Mentre si avvicina il 50esimo anniversario di Dallas, eKilling Kennedy esce in Italia dall’editore Castelvecchi, intervisto O’Reilly sull’omicidio che cambiò per sempre l’America.
Fino all’11 settembre 2001, l’attentato di Dallas rimase l’unico evento di cui tutti gli americani (e tanti europei) potessero dire: ricordo dov’ero quando arrivò la notizia. E prima dell’11 settembre nessun altro evento aveva alimentato così tante teorie del complotto. Perché?
«Soldi. C’è da farci sopra un sacco di soldi. L’industria del complotto è un business fiorente. Natural-mente è favorita dal fatto che sul 22 novembre 1963 abbiamo avuto una nebbia di versioni confuse, segreti di Stato, indagini mal condotte. Se riesci a convincere il pubblico che questi non furono errori, ma la conseguenza di una cospirazione, puoi guadagnare tanto: con i libri, le inchieste tv, i film come quello di Oliver Stone».
Nel libro lei esamina tutte le piste dei possibili complotti ma alla fine non le considera credibili. Neppure quella della mafia italo- americana? Kennedy tra le sue numerose amanti ebbe anche quella del boss Sam Giancana. Il capo dell’Fbi, Edgar Hoover, era convinto che Jfk fosse ricattabile per le sue avventure extraconiugali. Suo fratello Bob, allora ministro di Giustizia, aveva lanciato delle offensive antimafia.
«Tutte le piste di complotti sono sprovviste di prove fattuali convincenti. Subito dopo che Lee Oswald sparò al presidente, Hoover volle avocare all’Fbi le indagini. Perciò aveva bisogno lui stesso di una teoria del complotto nazionale, una trama che superasse i confini del Texas, altrimenti l’omicidio rimaneva di competenza della polizia locale. Hoover mandò 80 agenti dell’Fbi a Dallas con un ordine: trovare il complotto. Non trovarono nulla ».
Ma la mafia era potente, avrebbe potuto eliminare le prove del suo ruolo.
«Non c’è dubbio che nella grande criminalità organizzata c’era chi avrebbe voluto far fuori Kennedy. Questo non vuol dire che avessero i mezzi per riuscirci, né che siano stati loro. Non abbiamo alcuna prova che i boss conoscessero l’esistenza di Oswald. Attorno a lui c’erano altri personaggi sospetti, come quel petroliere russo, George de Mohrenschildt, legato alla Cia. E tuttavia la versione più probabile resta quella che Oswald agì da solo. Era disperatamente alla ricerca della celebrità. Se non avesse fatto fuori Kennedy avrebbe ucciso qualcunaltro».
Un altro approccio per affrontare le teorie del complotto consiste nel chiedersi chi aveva interesse a interrompere l’èra Kennedy. Ecco, facendo la storia con i “se”: cosa sarebbe cambiato negli anni Sessanta, se Jfk non fosse stato eliminato?
«La chiave ovviamente è il Vietnam. Secondo alcuni storici, con Kennedy non avremmo avuto l’escalation che ci fu sotto Lyndon Johnson. Jfk non voleva certo che il Vietnam finisse nell’orbita di Urss e Cina, ma come comandante supremo forse avrebbe gestito meglio il conflitto. L’altro grande tema sono i diritti civili. Ma su questo terreno, chi ha ucciso Kennedy non ha affatto cambiato il corso della storia. Johnson ha rispettato e portato avanti l’agenda dei fratelli Kennedy sui diritti civili e la de-segregazione».
Lei non è certo un liberal eppure il suo libro è pieno di simpatia per Kennedy. Per le vostre comuni origini irlandesi?
«È vero, ci sono dei Kennedy dal lato materno della mia famiglia... ma i miei erano dei Kennedy poveri. Politicamente io sono un indipendente. Mi piacciono i leader che risolvono i problemi. Nella biografia di Jfk c’è una svolta con la morte del suo terzo figlio, Patrick, poco dopo la nascita. Da quel momento stabilisce un vero rapporto emotivo con la nazione, che lo rende più efficace come leader».
Somiglianze e differenze, tra Jfk e Obama?
«In comune hanno il carisma, senza dubbio. È importante, perché l’America ama il glamour. Come Kennedy, l’arrivo di Obama è stato un catalizzatore di speranze. Le analogie si fermano qui. Kennedy era il rampollo di una famiglia ricchissima, mentre Obama si è fatto da solo partendo da umili origini».

Repubblica 31.10.13
L’arte di donare alla divinità per dire grazie
Dai monili agli ex voto: il “sacrificio” fatto al santo
di Mariapia Veladiano


La storia degli ex voto ci consegna una dimensione singolare e barocca del tempo, che nel comporre questa foresta bizzarra di oggetti di ogni arte e di ogni luogo, offerti a ogni tipo di divinità celeste o terrestre, continuamente torna su se stesso, a riproporre qualcosa che sta in un punto così profondo dell’umano da non tollerare di essere messo da parte. Anche quando ci si prova con determinazione, come fanno i profeti dell’Antico Testamento, che obbediscono al mandato di spogliare la fede dalla materialità magica e cruenta dei sacrifici animali per questo spendono le parole e la vita, testimoni ostinati di un Dio che vuole “l’amore e non il sacrificio” (Os 6,6). E ancora di più lo fa il Vangelo, dove ad ogni passo si ricorda che è l’amore l’unico possibile movimento nelle relazioni con Dio. E che così dovrebbe essere anche fra gli uomini.
Perché l’offerta di un dono a Dio ex voto suscepto (secondo promessa fatta) può certo raccontare la pura gratitudine, nostro traboccare di felicità per la vita ritrovata, ma può anche denunciare l’umana tentazione di afferrare la libertà di Dio attraverso la promessa del dono. Impossibile scambio, evidentemente. Inaudito ghermire Dio, portati dall'illusione di un desiderio che non sa darsi una misura se si tratta di vita, di figli, di amore. C’è un poco di empietà nell’ex voto? Di pensiero magico e blasfemo? Chissà, ma certo nel gesto del dono concreto al Dio invisibile c’è un tanto di umanità e quindi di verità, perché quel che è profondamente umano porta sempre con sé un suo perfetto frammento di verità.
Qui porta il desiderio di (toccare) Dio e insieme il bene del nostro essere corpo e materia. Materia che va oltre la sua pesantezza e vuole arrivare a sfiorare i piedi del trono di Dio per chiamarlo, Dio, a rispondere al nostro bisogno. Che la materia dell’oggetto votivo diventi un mezzo così potente è meno paradossale per il Dio cristiano che per altre divinità del mondo. Se Dio si dà in un corpo allora la materia può reggere questo andar oltre confinecarica di bisogni e tornare a noi leggera di grazie. Come raccontano le sigle che troviamo sugli ex voto: P.G.R per grazia ricevuta, e P.G.F. per grazia fatta. E ancora P.G.D. per grazia donata, e P.G.A. per grazia avuta. Meraviglioso punto di vista oscillante fra sé e Dio, confusione fra la gioia di avere e quella di donare. Con-fusione possibile nel guazzabuglio che è l’amore quando, sempre?, nel cuore dell’uomo si mescola al bisogno.
E ha anche una sua ostinata democraticità l’ex voto. A dispetto di tanti colti tentativi di farne cosa di popolo minuto e grezzo, gli studi mostrano che non è così. I santuari possono esser pieni di cuoricini ricamati con la rappresentazione della grazia ricevuta, oppure di “mancanze”, cioè tavolette che non riportano il fatto per cui si ringrazia, inconfessabile, innominabile, indicibile fatto privato e personale, ma in questa portentosa quasi infinita rassegna del bisogno dell'uomo, sta di tutto: il cuoricino appunto, e l'iperrealistico braccio salvato per grazia da un trinciacarne e riprodotto nella perfezione della sua pelle risanata, fino alla croce in oro, brillanti e smeraldi donati da re Umberto e Margherita di Savoia al Tesoro di San Gennaro, che è a sua volta tutto intero un grandioso ex voto della città di Napoli a un santo popolarissimo e insieme portatore di un miracolo di vertiginosa profondità teologica e umana. Perché la reliquia di San Gennaro ingloba il potere del sangue che nel suo reale e disturbante ridivenire fluido e vivo ricorda che la grazia delle grazie è la vita e così chiude il cerchio dell’originale truce sacrificio animale delle origini e lo riscatta allontanando per sempre da Dio il sangue di morte.
Nella materia che dice il miracolo di una vita restituita, l’ex voto si offre cauto al nostro credere più avvertito. Ma l'ammirazione c'è, per questo ostinato coltivare l'arte perduta della gratitudine.

Repubblica 31.10.13
Il genio è nei geni alla ricerca del Dna dell’intelligenza
Si chiama “Progetto Einstein” ed ha arruolato 400 matematici e fisici delle più prestigiose università americane
Con speciali apparecchi sarà letto il loro genoma estraendo i caratteri comuni. Sul tema, già altre ricerche deludenti
di Elena Dusi


L’intelligenza è nei geni. Già, ma in quali? Alla ricerca del segreto del sublime pensare, gli esploratori del Dna finora sono puntualmente tornati a mani vuote. E altrettanto puntualmente sono sempre ripartiti per nuove battute di caccia, come quella oggi voluta (e finanziata a suon di milioni di dollari) da Jonathan Rothberg, uno dei tanti imprenditori che grazie alla genetica è entrato nel gotha degli uomini più ricchi del mondo.
“Progetto Einstein” è la nuova impresa scientifica che, per cominciare, ha arruolato 400 fra matematici e fisici teorici delle più prestigiose università americane. Grazie agli apparecchi per il sequenziamento del Dna di cui Rothberg è specialista, il genoma dei geni sarà letto dalla prima lettera all’ultima. Toccherà a quel punto al fisico del Mit Max Tegmark mettere i dati a confronto ed estrarre i tratti comuni dei 400 Dna: i geni dei geni, come sono stati ironicamente battezzati.
Nella ricerca del “succo dell’intelligenza” l’uomo ha sempre profuso non poche energie. E raramente tanto sforzo è stato ripagato con risultati così scarsi. Cervelli prestigiosi come quello di Einstein sono stati affettati e analizzati al microscopio alla ricerca di quel “quid” anatomico che non è mai stato davvero individuato. A indirizzare le ricerche sul Dna fu uno degli scopritori della doppia elica, James Watson, che dapprima dichiarò che i geni dell’intelligenza andavano cercati tra i cromosomi degli individui eccezionali. Poi, senza preoccuparsi di apparire immodesto, donò il suo Dna alla causa (ma senza costrutto). E nel 2007 concluse affermando che in ogni caso i fantomatici geni dell’intelligenza sono meno numerosi nei neri africani rispetto agli occidentali.
Lo scivolone di Watson non è rimasto isolato. Tre anni più tardi l’assai meno famoso professore dell’università dell’Ulster Richard Lynn sostenne di aver trovato uno scarto nel quoziente intellettivo degli italiani del sud rispetto a quelli del nord. La discrepanza poteva essere spiegata con un apporto genetico dei nordafricani nel nostro Meridione.
Gli ultimi a partire alla caccia del Sacro Graal dell’intelligenza sono stati un anno fa i cinesi. Il più grande istituto di genetica del mondo — che si chiama Bgi e si trova a Shenzhen — sta attualmente macinando i dati del Dna di 1.600 individui superdotati (almeno 160 di quoziente intellettivo, dove la media è 100 e i premi Nobel si aggirano attorno ai 140). Ancora una volta, l’iniziativa ha scatenato un vespaio. Subito dopo l’annuncio di Bgi, lo psicologo della New York University Geoffrey Miller ha accusato il governo cinese di avere la selezione degli embrioni come obiettivo finale.
Nulla di tutto ciò potrà avvenire in tempi brevi per il semplice motivo che nessun gene dell’intelligenza è mai stato individuato. Né in realtà il concetto di intelligenza ha mai trovato una definizione soddisfacente. Studi sui gemelli hanno dimostrato che in effetti alcune abilità cognitive si trasmettono all’interno delle famiglie. E a maggio una ricerca su 125mila persone ha individuato tre varianti genetiche debolmente associate al successo scolastico. L’ipotesi più accreditata però è che alle qualità intellettive contribuiscano reti molto estesi di geni e non singoli frammenti di Dna, osservabili con gli apparecchi di Rothberg o del Bgi.
David Aldous, un esperto di calcolo delle probabilità a Berkeley, è fra i 400 geni arruolati dal Progetto Einstein. «Ho sempre desiderato che qualcuno leggesse il mio Dna, se non altro per stamparne una sequenza su una maglietta» racconta con una gran risata. «Ritengo del tutto implausibile che la componente genetica dell’intelligenza possa essere individuata davvero. Ma chi può dirlo. Magari invece da questo studio verrà fuori qualcosa di inatteso».

l’Unità 31.10.13
Il muscolo della mente
Cos’è l’attenzione: ce lo spiega l’esperto Daniel Goleman
Collaboratore scientifico del «New York Times», ha scritto sul tema libri divenuti best seller
«Esercitiamo sempre di meno questa risorsa cognitiva. I nostri figli sono perennemente distratti»
di  Cristiana Pulcinelli


L’ATTENZIONE È UNA RISORSA IMPORTANTE. ENTRA IN NUMEROSE OPERAZIONI MENTALI: la comprensione, la memoria, l’apprendimento, la lettura delle emozioni degli altri. Eppure, forse, la stiamo perdendo perché, come dice Daniel Goleman, «l’attenzione è un muscolo della mente e se non si usa si indebolisce».
Goleman ha insegnato psicologia ad Harvard, è collaboratore scientifico del New York Times ed è autore di un best seller: L’intelligenza emotiva. Ora esce in Italia il suo nuovo lavoro: Focus (Rizzoli editore, pp. 374, euro 19,00).
Il suo libro parla dell’attenzione che, però, è un concetto un po’ sfuggente. Ce ne può dare una definizione?
«Ci sono differenti tipi di attenzione, ma i più importanti sono tre. Il primo è quello che chiamiamo “concentrazione”, ovvero la capacità di selezionare: stiamo attenti ad alcune cose e ne ignoriamo altre. Facoltà essenziale per lavorare in modo efficace ed è fondamentale sia nell’apprendimento che nella vita professionale. Ma è una capacità che richiede uno sforzo attivo. Il secondo tipo di attenzione è quella che io chiamo la consapevolezza aperta o sensoriale. Ne abbiamo esperienza quando ci sdraiamo su una spiaggia e ci godiamo il suono delle onde o la vista del tramonto. È l’immergersi nella pienezza dei sensi. L’essere «qui e or» e godere di questa esperienza. Il terzo tipo si ha quando lasciamo libera la nostra mente di vagare. È il perdersi nei propri pensieri. Se la creatività è la capacità di pensare elementi diversi e metterli insieme in modo insolito, questo è lo stato in cui la creatività si esprime». Per il libero gioco della mente, però, ci vuole tempo libero. Oggi che ne abbiamo sempre meno siamo anche meno creativi?
«In realtà abbiamo più tempo di quanto crediamo. La creatività si articola in diverse fasi, entrambe importanti. Una si ha quando siamo pienamente concentrati su una cosa da risolvere. L’altra quando lasciamo andare la mente. Ma il momento in cui ci si lascia andare, si molla, non è tanto il tempo libero, quanto i tempi morti: quando siamo sotto la doccia, quando portiamo a spasso il cane, quando fissiamo il fuoco. Nella storia della scienza ci sono molti esempi di intuizioni importanti avvenute in questi momenti. È vero che oggi siamo sempre più occupati, ma quello che dovremo recuperare non è tanto il tempo libero, quanto i momenti tra i momenti. Sono quelli il luogo in cui emergono le idee».
Oggi sentiamo dire che la capacità di attenzione soprattutto dei giovani si è ridotta, ma anche che riusciamo a dare attenzione a più cose contemporaneamente. Due affermazioni contraddittorie?
«Non c’è dubbio che oggi i giovani siano circondati da molte più distrazioni rispetto al passato, pensiamo solo agli strumenti tecnologici: smartphone, I pad, computer. È vero che questo vale anche per tutte le giovani generazioni precedenti, ma oggi i nostri figli non riescono più a fare con la stessa frequenza del passato un’esperienza di alta concentrazione senza essere interrotti. E se il muscolo dell’attenzione non si usa, si indebolisce: un insegnante mi raccontava come gli studenti di 14-15 anni oggi hanno più difficoltà a comprendere i testi che vengono loro assegnati da leggere rispetto agli studenti di alcuni anni fa. Quindi dobbiamo essere più attivi e determinati nell’aiutare i bambini fin da piccoli ad esercitare il muscolo dell’attenzione. D’altra parte, oggi sappiamo che il multitasking è un’invenzione. Non è vero che facciamo attenzione a tante cose contemporaneamente, piuttosto passiamo molto velocemente da una cosa all’altra. Il che può essere utile, per esempio, ad una mamma che lavora e ha tanti figli, però può creare anche dei problemi: se non riusciamo più a leggere un testo o a scrivere un testo perché siamo continuamente interrotti da distrazioni, io credo sia un bel problema».
Se, durante una conversazione, non si presta attenzione all’interlocutore perché si guarda in continuazione l’e mail, l’sms o il social network, si perde una parte importante del messaggio: quello che ci dà la comunicazione non verbale. Lei pensa che questo creerà problemi in futuro?
«Sospetto di sì. Noi abbiamo un cervello sociale che legge i segnali non verbali. Questo cervello si sviluppa nel corso della vita e continua a crescere fino a circa 25 anni. Più questo cervello viene usato, più saremo in grado di collegarci con la mente dell’interlocutore e, in ultima analisi, di avere rapporti profondi con gli altri. Ma se la nostra attenzione è continuamente distratta da ciò che accade nell’ambiente, il cervello disimpara a leggere i segnali non verbali. Questo è quello che penso ed è il motivo per cui sono sostenitore dell’insegnamento a scuola di certe competenze come l’empatia, la capacità di leggere gli altri. Stiamo vivendo un esperimento non intenzionale che coinvolge tutta una generazione a livello globale. Il risultato lo vedremo tra alcuni anni».