sabato 2 novembre 2013

l’Unità 2.11.13
Pd, bufera sul tesseramento
Cuperlo chiede che vengano sospese le iscrizioni dopo i casi sospetti nei congressi di circolo
Il deputato triestino: Serra vergognoso, gravi silenzi di chi era alla Leopolda
Renzi: non si cambiano le regole in corsa
Berlinguer: la commissione di garanzia darà una risposta severa
di Simone Collini


Nel Pd è bufera sul tesseramento. Dopo i casi di iscrizioni sospette nei congressi di sezione, Cuperlo chiede che il tesseramento sia bloccato. Renzi avverte: non si cambiano le regole in corsa, altrimenti si fanno solo le primarie. Il presidente dei garanti Berlinguer: sui casi anomali la risposta sarà severa.

Le polemiche non rimangono confinate tra i circoli di Cosenza, Frosinone, Rovigo, Roma, Asti, Lecce, Torino, Catania e delle altre città dove sono stati denunciati tesseramenti sospetti, dove in alcuni circoli il confronto è degenerato in rissa, dove diversi congressi di federazione sono stati sospesi e più d’un candidato alla segreteria provinciale si è ritirato dalla corsa denunciando mancanza di trasparenza. La questione adesso irrompe nel confronto nazionale, con Gianni Cuperlo che chiede alla Commissione congressuale di chiudere il tesseramento perché visto quanto avvenuto in questa fase locale è impensabile lasciare aperte le iscrizioni fino al momento in cui nei circoli si vota per il segretario nazionale (le cosiddette convenzioni, che si svolgono tra il 7 e il 17) e con Matteo Renzi che quando viene a sapere dell’uscita dell’avversario spiega ai suoi che lui è contrario, perché «non si cambiano le regole in corsa»: «Se Cuperlo ha certezze di irregolarità le denunci è il ragionamento del sindaco di Firenze e se fossero particolarmente gravi si dovrebbero sospendere le convenzioni e andare direttamente alle primarie dell’8 dicembre».
La questione non può però considerarsi chiusa perché a livello locale la tensione rimane alta in molte zone (a Cosenza il candidato renziano Franco Laratta si è ritirato dalla corsa denunciando «limitazioni alla partecipazione», mentre a Frosinone il congresso continua ad andare avanti tra continue sospensioni e ripartenze, solo per citare due casi) e anche perché Cuperlo non intende mollare sulla necessità di «fermare la degenerazione della vita democratica interna»: «Dobbiamo chiudere il tesseramento il prima possibile», dice nel corso della trasmissione “Otto e mezzo”. L’appello, esplicito, a «cambiare le regole in corsa», viene lanciato agli altri candidati, a Guglielmo Epifani, alla commissione congressuale, perché chiudere il tesseramento ora che si chiudono i congressi di federazione «non è un modo per comprimere la partecipazione ma per evitare che casi pur isolati mettano in discussione la cosa più preziosa che abbiamo, la nostra credibilità».
L’uscita di Cuperlo non piace a Renzi, che con i suoi si sfoga ricordando che «noi dal primo giorno abbiamo detto che dovevamo discutere dei problemi del Paese, che queste sceneggiate fanno male all’immagine del Pd e soprattutto ai suoi iscritti». Ma se pure Pippo Civati chiede di «superare il sistema delle tessere», se Gianni Pittella chiede di smetterla con il «confronto tutto muscolare e fatto di pacchetti di tessere», che si chiuda ora il tesseramento viene dato per difficile al Nazareno. Il responsabile Organizzazione Davide Zoggia spiega che la commissione congressuale può cambiare le regole in corsa soltanto se c’è l’accordo tra tutti i candidati. Il che sembra da escludersi, visti i commenti fatti a caldo con i parlamentari a lui più vicini da Renzi. Al quartier generale del Pd spiegano anche che alcuni casi isolati non possono mettere in discussione il complessivo processo democratico e che modificare ora regole decise all’unanimità un mese fa potrebbe dare all’opinione pubblica un’immagine peggiore di quella provocata dai tesseramenti sospetti.
Non a caso, quando nel pomeriggio Cuperlo inizia a ragionare insieme ad alcuni compagni di partito della questione, il presidente della commissione di Garanzia Luigi Berlinguer fa diffondere una nota in cui si assicura una «risposta rigorosa e severa», senza però lasciar prevedere una chiusura anticipata delle iscrizioni: «Posso assicurare che nei casi di documentata e realmente accertata esistenza di alterazioni delle regole e di adesione fittizia al Partito, la risposta sarà rigorosa e severa come peraltro avvenuto nei pochissimi casi verificatisi nel passato», dice il presidente dei garanti facendo riferimento alle primarie annullate per irregolarità negli anni scorsi a Palermo e a Napoli. Una risposta indiretta a Cuperlo, che però pensa sia necessaria una decisione ulteriore per evitare che sia «messa in discussione la credibilità del Pd».
La decisione di mantenere aperta la possibilità di iscriversi fino al giorno in cui si vota per il segretario nazionale è stata presa dopo che l’Assemblea nazionale de Pd che doveva modificare lo statuto e dare il via libera alle regole congressuali si era chiusa con un nulla di fatto. Alla Direzione che venne convocata qualche giorno dopo si decise di fare un passo oltre rispetto alle primarie del 2009 tra Bersani, Franceschini e Marino (ci si poteva iscrivere e votare per il segretario nazionale fino al giorno della Direzione che dava ufficialmente il via al congresso) e di mantenere aperti i tesseramenti fino al giorno delle votazioni per il segretario nazionale.
Una decisione da rivedere alla luce dei recenti fatti, per Cuperlo. Che ieri sera intervistato da Lilli Gruber ha criticato l’intervento alla Leopolda del finanziere Davide Serra, e la mancata reazione che c’è stata tra chi era seduto nelle prime file (un riferimento a Fassino, Franceschini e non solo): «Alla Leopolda, dopo l’intervento sul palco di un impreditore della City di Londra che ha accusato della crisi i sindacati, i partiti, i pensionati che ruberebbero futuro ai giovani, avrei voluto che gli esponenti del mio partito lì presenti e che occupano posti di responsabilità avessero reagito, avrei voluto anche un segretario meno garbato che avesse detto a quell’imprenditore di Londra “vergognati”, perché in gioco sono gli ideali del nostro Pd».

il Fatto 2.11.13
Cuperlo: “Fermiamo subito il tesseramento”


“FACCIO APPELLO agli altri candidati, a Epifani, alla commissione di garanzia: fermiamo il tesseramento il prima possibile, entro pochi giorni”. Lo ha detto durante Otto e Mezzo Gianni Cuperlo, uno dei candidati alla segreteria del Pd, parlando della vicenda dei tesseramenti “gonfiati” che sta avvelenando i congressi locali del partito. “Non è un modo per comprimere la partecipazione - ha aggiunto - ma per dire stop alla degenerazione”. Sul tema è intervenuto anche uno degli altri candidati, Pippo Civati, durante un incontro pubbico ad Ascoli Piceno: “È ora di superare il sistema delle tessere, è una storia indecorosa che mi ricorda le tessere telefoniche prepagate. Il Pd non si deve dividere tra leader e leaderini, ma compiere una battaglia tra le idee e non un conflitto tra le persone”.

il Fatto 2.11.13
Il carretto siciliano di Renzi, spinto da destra
Transumanza verso l’ex rottamatore
Da Agrigento a Catania fino a Palermo, ex Pdl e Mpa fanno la fila per sostenerlo
Lui prende atto
di Luca De Carolis


Il senso della transumanza lo danno un doppio nome e un cognome: Elio Vittorio Belcastro, sottosegretario da luglio a novembre 2011 nell’ultimo governo Berlusconi. Belcastro è stato quasi tutto: Nuovo Psi, poi Movimento per le Autunomie, quindi uno dei Responsabili di Noi Sud, fino alla diretta parente Autonomia Sud. Ora vuole essere renziano. Come tanti del Pdl e satelliti vari: soprattutto al Sud, e soprattutto in Sicilia. Sotto Roma, la voglia del fu rottamatore a destra pare una febbre. Contagiato pure lui, Belcastro: calabrese di nascita, ma approdato in Parlamento grazie all’Mpa del sicilianissimo Raffaele Lombardo. L’ex Responsabile era in prima fila a Bari per il debutto della campagna per le primarie di Renzi. “Voglio i voti del Pdl”, ha spesso ripetuto il sindaco. E in tanti fanno la fila per portarglieli. Renzi prende nota, e a chi gli fa notare i cambi di casacca risponde sempre: “Sul carro non si sale, il carro si spinge”. Ad occhio, tra un po’ questo carro andrà veloce come una Ferrari. Innanzitutto in Sicilia. Ad Agrigento, per dire, è ressa di neo renziani: da Maria Pia Vita, ex Fli ed ex assessore comunale in una giunta di centrodestra, a Carmelo Vitello, anche lui ex Fli ed assessore comunale, ora neo segretario di circolo.
AD ATTRARLI come una calamita verso l’aspirante segretario, il sindaco di Agrigento Marco Zambuto: ex Dc (a vent’anni era già consigliere comunale), poi nel Pdl, quindi passato all’Udc di Totò Cuffaro. Dal giugno scorso, Zambuto è un renziano di stretta osservanza. E ha fatto proseliti. Il segretario provinciale della Cgil, Massimo Raso, non ha gradito. E sul giornale on line Malgrado tutto si è sfogato: “Sono andato a votare per il segretario di quello che pensavo fosse il mio partito, e pensavo di avere sbagliato porta: c’erano tanti esponenti del centro destra”. Folla di nuovi fedeli anche a Palermo, dove il renziano di vecchio conio Davide Faraone miete alleati che è un piacere. Pochi giorni fa, proprio il deputato Faraone si era lamentato: “In Sicilia non è il congresso Pd, ma quello del Pcus: si fanno ricorsi per far decadere candidature come quella di Carmelo Miceli a Palermo”. Il renziano Miceli ce l’ha ugualmente fatta, con il 56 per cento. Un tassellino l’ha messo anche Stefania Munafò, già vicecapogruppo Pdl in Comune, poi transitata nell’Mpa. In luglio la folgorazione sulla via per Firenze: “La mia storia è simile a quella di Renzi, anch’io ho fatto battaglie contro il mio partito. E poi ci riflettevo da mesi”. A riflettere d’altronde sono in tanti. Tre esponenti di spicco del Pdl palermitano pochi giorni fa si sono fatti fotografare assieme a Renzi, con sorrisi da festa. Il consigliere comunale Giuseppe Federico l’ha postata su Facebook. Ma di fronte al diluvio di reazioni l’ha subito tolta, scusandosi con i due colleghi (il capogruppo Tantillo e il deputato regionale Milazzo). Si passa a Catania e si trova Alessandro Lo Presti, coordinatore del comitato Big Bang di Renzi. Era uno strettissimo collaboratore di Lombardo, ma nella primavera scorsa ha cambiato idea. “Voglio cambiare le cose” ha annunciato. Intanto il congresso catanese è stato annullato. Non è bastato neanche il commissario inviato da Roma (il bersaniano Nico Stumpo) per frenare il tesseramento gonfiato.
A Messina, candidato unico: Basilio Ridolfo, renziano. Con lui tutti i big del partito: a cominciare dal deputato Francantonio Genovese, indagato per associazione a delinquere per peculato e truffa, finalizzati al conseguimento di erogazione pubbliche. Indagate anche la moglie e la sorella. Un’ulteriore grana per Genovese, collettore di consensi come pochi. Nelle primarie per il Parlamento ottenne oltre 19mila voti su 24mila disponibili. Cose da big. Che sorridono a Renzi, all’occasione.

il Fatto 2.11.13
O’ ministro Paolo Cirino Pomicino
“Altro che Dc, le tessere gonfiate sono il nuovo Pd”
di Giorgio Meletti


Onorevole Paolo Cirino Pomicino, queste polemiche nel Pd sul boom delle tessere last minute non le fanno venire un po’ di nostalgia?
Se mi vuol far dire che nella Dc la battaglia tra le correnti si faceva a colpi di tessere false la nostra conversazione finisce qui.
Autorevoli boss e semi-boss del suo partito, ai tempi di Mani Pulite, giustificavano le tangenti dicendo che servivano anche a comprare le tessere, per far pesare di più le proprie idee nel partito.
Sciocchezze, chi l’ha detto forse aveva qualcosa da nascondere. No, guardi, nella Dc il problema delle tessere era un problema minore. Ne avevamo meno di un milione, un terzo rispetto al Pci. E comunque erano militanti veri, i nostri e i loro.
Siamo sicuri?
È dimostrato dalla corrispondenza tra numero degli iscritti e voti presi. Per dire, a Napoli il più forte era Antonio Gava, aveva più tessere ma anche più voti. Per accusarlo dicevano “signore delle tessere”, ma era tutto vero, e si vedeva alle elezioni. Noi andreottiani eravamo secondi come iscritti e secondi come voti. E comunque, dia retta a me, i soldi servivano per le campagne elettorali, molto meno per le tessere. Io per diventare deputato dovevo battermi in un collegio con tre milioni e mezzo di elettori.
E quindi queste storie di tesseramenti gonfiati alla vigilia del congresso non li possiamo catalogare come roba da vecchia Dc?
No, però li potete catalogare come roba da nuovo Pd. La Dc era un partito serio, con regole serie. In base al cristianissimo assunto “non ci indurre in tentazione” facevamo della buona prevenzione. Al congresso del 1989, che segnò la fine della segreteria De Mita con l’elezione di Arnaldo Forlani, poté partecipare solo chi si era iscritto diversi mesi prima. Il Pd fa votare, a quanto leggo, gente che ha preso la tessera il giorno prima.
Il laico Pd si fa indurre in tentazione?
È il rischio di chi non è cattolico. Scherzi a parte, qui c’è un problema politico serio, il tesseramento allegro è solo un dettaglio. Sfido il segretario Epifani a indicarmi un solo posto al mondo dove il capo di un partito politico non lo scelgono gli iscritti ma gli elettori, cioè chiunque passi al gazebo quella domenica mattina. Lo trovo un po’ ridicolo. E poi non capisco una cosa: ma perché quella bella ed entusiasta gioventù della Leopolda non si iscrive al Pd e non va a continuare l’interessante discussione nei circoli del partito?
Risponda lei.
La crisi della politica è grave e profonda proprio perché viene meno la funzione dei partiti. È venuto a mancare qualsiasi zoccolo di cultura politica. Questo giochino delle primarie è una follia, guardi che veramente i partiti della Prima Repubblica e quelli di oggi in Europa sono tutta un’altra cosa.
I militanti del Pd potrebbero essere rincuorati da questa sua affermazione.
E sbaglierebbero a rincuorarsi. La Dc era un partito vero, come gli altri peraltro. Le faccio due esempi. Al congresso di Napoli del 1961, Andreotti vota contro Moro e Fanfani che aprono al centrosinistra. Ma poi è ministro nei governi di centrosinistra. Nel 1975 viene eletto segretario il moroteo Benigno Zaccagnini, ma quando Moro fa l’accordo con Berlinguer il governo di solidarietà nazionale lo guida Andreotti.
Non sono classici esempi di consociativismo, in cui nessuno perde mai?
No, è l’esempio di una classe politica che si scontrava duramente su opzioni politiche, ma trovava sempre una sintesi e non strapazzava il partito in nome di guerre personali. Questi del Pd sfasciano tutto in nome di un leaderismo esasperato, che sfocia nell’assemblearismo inconcludente: un solo uomo al comando e poi un’assemblea nazionale di migliaia di membri. La Dc ha governato l'Italia per 40 anni con un consiglio nazionale dove eravamo meno di 200.
Come nasce questo leaderismo?
La messa in soffitta delle culture politiche ha lasciato spazio al leaderismo in tutti i partiti. In questa stagione ha preso il sopravvento il marketing senza prodotto, specialità in cui si sta avviando Matteo Renzi. In America c’è molto marketing, ma almeno ci sono le lobby che scegliendo quale partito appoggiare danno un profilo democratico al confronto politico. Da noi le lobby sono tutte intrecciate tra loro e quindi l'assenza dei partiti determina solo un vuoto occupato da leader veri o presunti. Il marketing è importante per affermare un prodotto buono, ma adesso si pensa che basti da solo per imporre un’offerta politica scadente o scaduta. E questo è il primo frutto malato del leaderismo.
Ce n’è anche un secondo?
Sì, è la selezione della classe dirigente improntata più sulla partigianeria che sulla capacità e sul merito. E quando vince la partigianeria vince la mediocrità.

Corriere 2.11.13
Caos tessere, il Pd indaga su 12 città
di Ernesto Menicucci


ROMA — Lo dicono in molti, adesso: «Di fronte a questo caos, intervengano i candidati a segretario». Ed il primo ad esporsi, dopo lo tsunami dei congressi locali che sta investendo il Pd in tutta Italia, è Gianni Cuperlo, intervenendo ad Otto e mezzo : «Sono angosciato da ciò che sta accadendo: rischiamo di perdere la nostra credibilità. Faccio un appello agli altri candidati: fermiamo qui il tesseramento, cambiamo le regole in corsa».
Il problema degli iscritti «gonfiati», infatti, non si esaurisce con i congressi provinciali, visto che i circoli saranno anche chiamati alla «conta» sugli aspiranti segretari. E, anche in quel caso, le iscrizioni al Pd sono aperte fino all’ultimo momento. Decisione che venne contrastata da alcuni esponenti (Morassut, Gualtieri) ma alla fine approvata, il 27 settembre: «Voto all’unanimità, un solo astenuto...», dice Davide Zoggia, responsabile organizzativo.
E ora? Cuperlo lancia la sua proposta: «Chiudiamo le iscrizioni il prima possibile». I renziani non ci stanno: «Siamo i primi interessati a fare luce sui casi sospetti. Ma se non si vuole rispettare lo Statuto, e impedire a gente perbene di venire a votare per il segretario, allora andiamo direttamente al voto nei gazebo», dice Stefano Bonaccini, coordinatore del comitato Renzi. Ma anche qualche bersaniano è perplesso: «Un conto è un appello, un altro cambiare le regole...». Gianni Pittella chiede «che si interrompa il confronto muscolare», mentre per Pippo Civati «le distanze andavano prese prima di “rivendicare” le vittorie locali: sono stato il primo a denunciare il problema tessere...».
Martedì se ne discuterà nella commissione per il congresso, che esaminerà i casi «sospetti». Quanti sono? Secondo alcune ricostruzioni «sono 12 città: Asti, Torino, Piacenza, Rovigo, Siena, Frosinone, Caserta, Lecce, Cosenza, Palermo, Catania, Roma». Da qualche parte il problema è lo «sforamento» del 25% in più rispetto al 2012, considerato poco credibile. In altre è su chi (e come) è andato a votare. Luigi Berlinguer, presidente della commissione di garanzia, è per la linea dura: «Se saranno accertati casi di adesione fittizia, la risposta sarà rigorosa e severa». Zoggia minimizza: «Asti e Rovigo si stanno risolvendo a livello regionale. A Caserta e Torino abbiamo inviato dei “caschi blu”». Gli altri casi? «A Cosenza pare che intere giunte di centrodestra vadano ad iscriversi al Pd. Va bene allargare la base, ma non ci può essere una mutazione genetica...». Ad alzare il livello di scontro, l’altro affondo di Cuperlo, rivolto sia a Renzi che ad Epifani: «Ho grande rispetto per la teatralità della Leopolda. Ma lì un finanziere della City ha detto che la colpa in Italia è dei pensionati che rubano lavoro ai giovani, dei partiti e dei sindacati. Avrei voluto che gli esponenti di punta del mio partito si alzassero a criticarlo. E che il segretario Epifani fosse meno garbato e gli dicesse “vergognati”».

Corriere 2.11.13
Petruccioli
«Nel Pci mai successo La base però non contava»
intervista di Daria Gorodisky


ROMA — «Confrontare le questioni di vita interna del Pd a quelle del Pci sarebbe come paragonare i cavoli alle ostriche… Si tratta di modelli di partito completamente diversi. E poi ormai sono fuori dalla politica, la osservo dall’esterno. Non voglio essere come un giocatore di calcio che a 70 anni, o più, crede ancora di essere in campo. Qualcuno lo fa, io no». Claudio Petruccioli, di politica, ne ha fatta eccome nella sua vita. Entrato nel Pci a 18 anni, nel 1959, ha cominciato a conquistare incarichi sempre più importanti sia nel partito (è stato anche direttore dell’Unità ) che nelle istituzioni: Camera, Senato e presidenza della Rai.
Cosa pensa del caso delle tessere gonfiate nel Pd?
«Non conosco elementi fattuali e comunque non do giudizi. Dal punto di vista storico, posso dire che nel Pci non sarebbe potuto accadere, non avrebbe avuto senso. Il tesseramento si gonfia se serve a far ottenere vantaggio a qualcuno, se una corrente in modo truffaldino vuole conquistare più delegati per il congresso».
Che invece nel partito comunista erano scelti centralmente…
«In una struttura a centralismo democratico l’opinione della base degli iscritti conta poco, decidono i gruppi dirigenti.
Le commissioni elettorali proponevano liste bloccate. Il tesseramento poi era un lavoro duro: le tessere si pagavano, il numero degli iscritti variava pochissimo di anno in anno e i vertici delle singole federazioni avevano la responsabilità di mantenere il 100% delle adesioni».
È con il Pds che le cose sono cambiate?
«Il Pds non può assolutamente essere considerato un prolungamento o un sottoprodotto del Pci. Al contrario, si è trattato della più grande rottura perché sul cambio del nome del partito si sono subito ufficialmente contrapposte due linee: ed ecco finito il centralismo democratico. Il nuovo modello di partito ha portato con sé, esattamente come già accadeva in altre formazioni, il rischio di tesseramenti falsi o “acquistati”».
Antidoti?
«È difficile. Servirebbero procedure e controlli severi, organismi di garanzia autorevoli. E un più efficace controllo democratico».

Repubblica 2.11.13
File piene di immigrati e avversari nella guerra tra potentati locali il Pd diventa terra di avventurieri
Il caso Ciociaria, boom di iscritti e circoli vuoti
di Sebastiano Messina


FROSINONE — Bisogna venire a Frosinone, nella Ciociaria che fu il granaio elettorale di Giulio Andreotti e prima ancora il palcoscenico del neorealismo di De Sica, per toccare con mano cosa sta succedendo nella pancia del Partito democratico, per vedere cosa sono diventati quei congressi che una volta erano la liturgia laica dei partiti di massa, un ricordo che oggi viene sepolto da tessere fotocopiate, truppe cammellate, cordate di assessori e lunghe code di improbabili iscritti last minute. Scene che qui, in Ciociaria, erano diventate così frequenti e così imbarazzanti che la commissione provinciale del Pd ha deciso ieri la «sospensione cautelativa » di tutti i congressi locali, dopo che tre dei quattro candidati alla segreteria provinciale avevano annunciato di ritirarsi se qualcuno non avesse fermato il circo delle votazioni-beffa.
E non si tratta di una bega dei renziani contro i cuperliani, o dei civatiani contro il resto del mondo, perché i tre candidati che hanno gettato la spugna sono proprio gli alfieri di Renzi, di Cuperlo e di Civati. Uniti contro il quarto, sponsorizzato da una cordata di onorevoli ciociari (la senatrice, il consigliere regionale e l’europarlamentare), che a loro volta accusano i loro accusatori, rinfacciandosi a giorni alterni la colpa infamante di truccare il tesseramento per conquistare una seggiola, una poltroncina,un pezzetto di potere.
Tutto comincia ad Arpino, dove viene convocato il primo congresso della stagione. Il segretario del circolo si mette sulla porta, sperando che arrivino - viste le cifre del tesseramento - almeno la metà dei 70 iscritti dell’anno scorso. E invece viene travolto da una folla inaspettata: 166 nuovi militanti. Troppe facce nuove, mai viste. Il regolamento lo obbliga a far votare chiunque si iscriva anche “il giorno stesso dello svolgimento del congresso di circolo”, purché paghi i 20 euro della tessera. E lui li iscrive tutti. Poi però fa mettere a verbale che è il numero di «migranti, extracomunitari e rifugiati» che reclamano di aderire al Pd è, diciamo così, un po’ troppo sospetto per un comune di 7552 abitanti.
Cosa stia accadendo lo si capisce al congresso di Roccasecca, dove l’elencodei tesserati si allunga in dueore da 21 a 130. Tra i nuovi iscritti c’è anche il sindaco, Giorgio Giovanni, al quale i consiglieri del Pd hanno fatto fino a ieri l’opposizione. Fino a ieri, perché i 111 nuovi iscritti eleggono segretario del circolo proprio il candidato proposto dal sindaco, che dopo il Comune si prende anche il partito.
Ma è a Isola del Liri che si arriva allo scontro aperto. Qui il garante inviato dal partito porta 200 tessere. Dovrebbero bastare, visto che l’anno scorso c’erano 86 iscritti. E invece no. Ad aspettare il garante c’è una lunga fila davanti alla porta del circolo, ma c’è anche qualcuno, dentro la sala, che intanto ha già preparato delle quasi-tessere: con la fotocopiatrice. Fuori ci sono 250 avversari del sindaco Luciano Duro, dentro i suoi sostenitori. Il consigliere comunale Lucio Marziale accusa: «Centinaia di persone in coda lasciate senza tessera, mentre nella sala congressuale spuntavano tessere irregolari». Replica il sindaco: «Chiedevano la tessera in maniera arrogante e violenta un numero consistente di oppositori della mia maggioranza, tra cui tre rappresentanti provinciali dell’Udc, con l’unico scopo di inquinare e sovvertire un serio, profondo e tranquillo dibattito ». Le tv locali riprendono il pasticcio delle tessere fotocopiate, volano gli insulti e a tutto si assiste tranne che al «serio, profondo e tranquillo dibattito » evocato dal sindaco. Risultato: il congresso è sospeso.
Come quello di Cassino, dove però la scena è diametralmente opposta. Non per l’insolito boom di iscritti che passano da 360 a 450, sfiorando la quota record di un terzo dei 1562 elettori del Pd alle ultime comunali - ma per l’affollamento nell’aula del congresso. Che manca del tutto. Quando arriva il garante trova solo quattro iscritti, nella grande sala vuota. «E glialtri dove sono?», domanda. «Non ci siamo messi d’accordo» spiega sottovoce uno dei quattro. Tutti a casa.
A dire basta è Sara Battisti, giovane e appassionata segretaria provinciale uscente, cuperliana, uno dei quattro candidati, che un pomeriggio va al congresso di Sora per spiegare il suo programma. «Arrivo puntuale - racconta - ma nella sala trovo solo cinque persone. Non c’è neanche il segretario del circolo. La gente è tutta fuori, in fila per fare la tessera. A un certo punto, mentre sto parlando, entrano una cinquantina di persone e si mettono a chiacchierare come se fossero al mercato, del più e del meno. Non ci ho visto più. Ma cosa siete venuti a votare, gli domando, se non state neanche ad ascoltare quello che dico? Poi ho lanciato il microfono sul tavolo e sono andata via. Arrivata fuori, ho pianto. Perché io sono una che ci crede, sono una partitista convinta, ma quello che mi sono trovata davanti non era il mio partito, era qualcos’altro ».
Già, ma cosa? «Siamo diventati un votificio, si pensa solo a conquistare le piccole cariche che poi daranno il potere di scegliere i candidati locali» risponde Alessandro Martini, il candidato renziano. “Qualcuno pensa che il Pd sia diventato un tram per avventurieri » aggiunge il civatiano Mario D’Alessandro. Così tutti e tre convocano una conferenza stampa per chiedere la sospensione dei congressi locali: «Altrimenti ci ritiriamo dalla competizione». L’unico che si oppone è il quarto, Simone Costanzo, finora in netto vantaggio sui concorrenti. Non perché sia convinto che la procedura sia cristallina, anzi è stato lui a parlare di «tesserificio» a Isola del Liri. «E a Sora - aggiunge - nel giro di tre ore sono arrivati duecento nuovi iscritti, capitanati da persone vicine all’area che oggi ci accusa...».
Con questo scenario davanti agli occhi, in Ciociaria era inevitabile fermare tutto. Anche contro il parere del presidente della commissione per il congresso, l’ex segretario regionale Roberto Morassut, la cui diagnosi è però illuminante: «Sembra un’orgia per il potere, un delirio di competizione tra cordate interne per conquistare circoli e federazioni, mettere le mani su pezzi di organizzazioni territoriali... ». E indicava il quadro nazionale: ma forse aveva in mente proprio la sua Ciociaria.

l’Unità 2.11.13
I partiti senza un progetto costituzionale
di Emanuele Macaluso


Elezioni anticipate? Si fanno i conti senza l’oste La crisi deve essere affrontata con le riforme
Chi ha pensato che bastava cambiare la legge elettorale ora trova le macerie
del bipolarismo bastardo

Il fondatore di questo giornale diceva che un partito è tale se ha un progetto costituzionale. Gramsci indicava il ruolo che un partito deve avere nella società in cui opera e vuole un cambiamento reale. Infatti dopo la liberazione, non solo il Pci di Togliatti, ma il Psi di Nenni e Saragat, la Dc di De Gasperi, i liberali di Villabruna, gli azionisti di Parri e La Malfa, ebbero un loro progetto costituzionale.
E fu trovata una sintesi alta nella Costituzione del 1948. Come è noto, uno dei cardini di quella Carta era, ed è ancora, la democrazia parlamentare. La quale ha retto bene sino a quando hanno retto i grandi partiti. Quando questi pilastri, logorati e non rinnovati, sono crollati, la democrazia parlamentare è rimasta, ma senza i riferimenti che la stessa Costituzione indica come tali.
I 25 anni che sono alle nostre spalle hanno confermato questo carattere della crisi italiana. Chi ha pensato che bastava cambiare la legge elettorale, demolendo e demonizzando i partiti, per ridare forza e credibilità al sistema politico si ritrova ora con le macerie della cosiddetta seconda repubblica. Infatti in questi anni di bipolarismo bastardo, non sono nati partiti con un progetto costituzionale in grado di attuare un nuovo sistema politico. C’è stato e c’è un vuoto politico-costituzionale riempito da partiti personali e aggregati elettorali. La crescita abnorme di tesserati alla vigilia dei congressi del Pd, così come i reclutamenti di «elettori» che votano alle primarie (non solo a Napoli vennero denunciati brogli) confermano quel che scrivo. Non solo oggi.
La crisi economica e sociale di questi ultimi anni ha fatto emergere i danni devastanti dovuti soprattutto alla crisi non risolta del sistema politico. La crisi del berlusconismo è una delle espressioni di questa realtà, l’altra è il grillismo e la mancanza di alternative credibili. Permane quindi il senso di un vuoto non colmabile. Il travaglio che ha investito il centrodestra da una parte e il Congresso del Pd dall’altra non riescono a indicare una via d’uscita.
In questi lunghi anni la Presidenza della Repubblica, con Scalfaro, Ciampi e Napolitano, ha garantito con difficoltà e anche con errori l’essenziale: lo svolgimento della vicenda politica si è mantenuto entro i binari della Costituzione. In questo quadro, occorre dire che la destra berlusconiana ha varato leggi ad personam e protetto un evidente conflitto di interessi, ha urlato contro la magistratura, ma non ha mai messo in discussione l’assetto democratico del Paese: le alternative di governo non hanno risolto la crisi italiana, ma hanno espresso la volontà degli elettori. Tuttavia, oggi siamo al dunque: la crisi del berlusconismo, per le ragioni cui ho accennato, non ha un’uscita morbida. Nel momento in cui i partiti-non partiti dichiarano di non essere in grado di eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano con personale sacrificio e senso dello Stato ha preso decisioni difficili nel tentativo di evitare il baratro di una crisi istituzionale devastante.
Quello di Letta non è un governo di «larghe intese», ma di necessità per dare le risposte possibili, nella situazione data, alla crisi economica e istituzionale. Quindi la legge elettorale e le modifiche alla seconda parte della Costituzione che tutti avevano detto essere essenziale per rendere più agibile il sistema politico. L’opposizione degli sfasciatutto del grillismo era scontata. Ma non quella di quel gruppo di professori costituzionalisti che vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, dando voce al qualunquismo e a chi auspica il caos politico. È questo il senso dell’attacco strumentale al Quirinale. Il governo si «regge» su tre partiti in cui la lotta politica appare come una guerriglia. E c’è chi spara per colpire la compagine di Letta. Nel momento in cui una delle storie giudiziarie di Berlusconi si concludeva con una sentenza definitiva, non c’è stato nessun atto, nessuna dichiarazione, nessun gesto che provenisse dal Quirinale o da palazzo Chigi che possa giustificare la razione del Cavaliere e di gran parte dei suoi sodali.
I dirigenti del Pd avrebbero potuto agire con maggiore autonomia rispetto all’agitazione grillina? Forse. Ma la sostanza non cambiava: la sentenza impone una decadenza. Berlusconi poteva e può ancora dimettersi. Non ci sono alternative. A meno che non si vuole cogliere questa occasione per ipotetici e impossibili rilanci elettorali. I «sodali» del Cavaliere gridano perché vorrebbero votare con l’attuale legge e ricevere il premio di fedeltà nelle liste. Nel Pd c’è qualcuno che pensa la stessa cosa? Non lo escludo. Ma a me pare che tutti fanno i conti senza l’oste. Infine, la crisi economica, quella del lavoro, quella istituzionale volete affrontarle con nuove elezioni, altre manfrine e l’impossibilità di fare, con l’attuale legge, governi omogenei?

l’Unità 2.11.13
L’ideologo agita i grillini: meglio il Cav del Pd
Mentre i 5 Stelle fanno i duri sulla decadenza di Berlusconi il professor Becchi apre: «È moderno». Poi ammette contatti
di Andrea Carugati


ROMA Sulla decadenza del Cavaliere i grillini fanno la voce grossa, gli antiberlusconiani puri, sfidano e sfottono il Pd ogni qualvolta sentono puzza di cedimento o inciucio col Pdl. Come dimostra lo show in Senato di martedì scorso, con Grillo sulle balconate, e i suoi in Aula ad accusare il Pd di voler rinviare.
Ma dietro le quinte, dopo la svolta leghista sui temi dell’immigrazione, al vertice grillino covano ben altri ragionamenti. «Berlusconi è moderno. Più moderno del Pd», ha spiegato ieri l’ideologo Paolo Becchi alla Stampa. «Ha capito l’aria. Il prossimo scontro elettorale sarà tra il rinnovamento di Grillo e la sua conservazione. Mentre il Pd è morto». È lo stesso Becchi che ad agosto ricevette una telefonata dal Cavaliere, che voleva incontrare Grillo e Casaleggio. L’incontro non va in porto, ma i due parlano a lungo di mass media e politica, di tv e di Internet. «Avete ragione voi, il futuro è vostro», conclude Berlusconi. «Ma oggi le tv sono ancora più forti».
L’ideologo ammette che il Cavaliere è interessato allo sviluppo del movimento. Non è un mistero che già dopo le ultime elezioni si sia messo a studiare i comizi di Grillo. «Ho fatto l’esegesi dei suoi discorsi. È la mia brutta copia, ma non è elegante come me», la conclusione di Silvio. Da allora l’interesse non è sfumato. In agosto il Cav voleva sapere da Becchi quanti fossero i grillini dissidenti pronti a votare la fiducia a Letta. «Nessuno del movimento sosterrà il governo», era stata la rassicurazione del prof. Ma sul tavolo potrebbe esserci ben altro. Becchi infatti guida il pool di giuristi incaricati da Grillo e Casaleggio di occuparsi della richiesta di impeachment per Napolitano. Un terreno su cui le intese con i falchi Pdl sono possibili. Se poi dovesse esserci la scissione, con Silvio e i suoi all’opposizione delle larghe intese, la tentazione di uno sgambetto al Quirinale potrebbe farsi fortissima.
Qualche mese fa era stato il leghista Calderoli a ipotizzare un’alleanza con il m5S. «Insieme potremmo governare». Ora la tentazione si sta diffondendo nel Pdl. Brunetta l’ha scritto giovedì nel mattinale del Pdl. «Per Grillo il popolo è grullo, un branco di idioti cui far credere di tutto pur di montargli in groppa per il potere. E dire che c’è qualcuno dei nostri che vorrebbe allearsi con lui...»
Le parole di ieri di Becchi sul Berlusconi «moderno» proprio nei giorni della battaglia sulla decadenza, agitano il M5S. Anche perché l’intervista rivela che l’eliminazione politica del Cavaliere non è affatto in cime all’agenda. Anzi, la speranza è quella di averlo come competitor diretto alle prossime politiche. E se vince lui? «Ce ne faremo una ragione», risponde Becchi.
Sta proprio in questa relativa indifferenza al berlusconismo una delle frattura più profonde dentro il mondo grillino. E non a caso, quando qualcuno dei dissidenti, come Luis Orellana, ipotizza un dialogo col Pd proprio per cercare di mettere al’angolo Berlusconi, subito scatta la rappresaglia sul blog. «Sei il nuovo Scilipoti».
Ora è tutto più chiaro. Non si tratta solo di una diversità di vedute tra colleghi di partito, ma di un punto cardine della strategia dei vertici M5S: «Berlusconi è moderno, il Pd è morto», dice Becchi. Colpisce in particolare il tono bonario verso Silvio e il giudizio durissimo su Renzi: «È il nulla, una figurina, lo zero assoluto».
Becchi annuncia di aver mandato una rettifica alla Stampa, si sente manipolato. Ma il suo attivismo non piace a tutti i grillini. «Parla a titolo personale, sia nelle interviste che nelle eventuali telefonate con Berlusconi. Non certo a nome del movimento», taglia corto il senatore Luis Orellana. «Il nostro giudizio su Berlusconi è nettissimo, ed è una scandalo che dopo tre mesi non sia ancora decaduto da senatore».
Non è la prima volta che l’ideologo incappa in un incidente. Già a maggio aveva detto che «non è follia pensare che uno possa prendere le armi». Subito era arrivata la scomunica dei gruppi parlamentari: «Non ci rappresenta». Ma dal giro non è uscito. Anzi, ora è lui a curare il delicatissimo dossier sull’impeachment.

Corriere 2.11.13
Accuse di «parentopoli», 5 Stelle in assemblea
In discussione le scelte di collaboratori. Lunedì il confronto tra i parlamentari
di Emanuele Buzzi


MILANO — C’è chi parla di «parentopoli», chi invece liquida il caso come una questione di mancata trasparenza condita con un pizzico di «inopportunità politica». Sta di fatto che una nuova faglia, un nuovo tormentone si sta aprendo all’interno dei parlamentari Cinque Stelle. Un problema che sarà già affrontato in assemblea lunedì, all’ordine del giorno alla voce «trasparenza dei rapporti tra collaboratori e senatori». Nell’occhio del ciclone partner, figli di compagni e amici di amici assunti da alcuni esponenti — con regolare contratto — come collaboratori. Casi balzati in primo piano dopo le accuse — velate, ma non troppo — sollevate durante l’incontro tra i parlamentari e Beppe Grillo. Sarebbe stata Laura Bignami a mettere in discussione con il leader le assunzioni «sospette». Non una novità (si tratta di una battaglia che la senatrice da qualche mese porta avanti, ndr), ma stavolta voci e malumori si sono ingigantiti al punto da far esplodere la discussione. E a calendarizzarla in tempi rapidissimi. Lei, Bignami, non commenta e si limita a controbattere: «Non ho detto tutto quello che è stato riportato dai media».
Intanto, però, è partita la conta dei casi. Si parla della figlia del compagno di una senatrice pugliese o del convivente di un’altra esponente campana. «Parliamo di tre casi a Palazzo Madama e di qualche caso analogo alla Camera», ribadisce un parlamentare del Movimento. «Numeri da verificare», sottolinea un altro. «Ne parleremo presto: ma a questo punto bisogna chiedersi cosa è legittimo e opportuno». E, infatti, tra i collaboratori del Movimento spuntano sorprese di tutt’altra risma. In questi mesi, a Roma, a fianco di deputati e senatori si sono alternati anche ex candidati (non ammessi) alle Parlamentarie, ex collaboratori di personalità espulse dal Movimento (come Giovanni Favia) e anche attivisti diffidati via blog dallo stesso Grillo. «Le regole del Senato impediscono che si possano assumere parenti o affini», puntualizza Vito Crimi. Secondo l’ex capogruppo a Palazzo Madama, «i parlamentari hanno assunto del personale seguendo le loro necessità: profili diversi secondo esigenze diverse».
Intanto, la vicenda degli assistenti parlamentari travalica i confini del Parlamento e diventa oggetto di discussione tra i meet-up. In quello romano addirittura se ne discute online: «Info ed elenco collaboratori dei nostri portavoce», è il titolo di uno dei temi del forum. Molte le voci critiche. «Dopo più di 4 settimane di discussioni e varie aperture e chiusure del thread (del processo di comunicazione, ndr ) ancora non riusciamo ad avere una lista completa di collaboratori dei gruppi e dei singoli parlamentari — accusa tribvno —. Mi sembra davvero che si voglia coprire qualcosa di molto torvo». «Qui si torna al vizio che ha accompagnato la fase pre-elettorale: un numero definito di persone buono per tutte le stagioni e tutti compiti (portavoce, amministratore, organizer, moderatore, collaboratore parlamentare), per giunta contestualmente per più di uno di tali ruoli», afferma Bruno Bellocchio. C’è chi esprime disagio per la scelta della deputata Federica Daga di scegliere come collaboratrice Veronica Mammì, consigliera al VI Municipio capitolino. E c’è anche chi si difende come Massimo Lazzari, attivista alle dipendenze della deputata Carla Ruocco. Molti i nomi nel mirino per una battaglia (interna) che si preannuncia infuocata.

il Fatto 2.11.13
Migranti: salvati o catturati?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, ho letto che i sopravvissuti del naufragio del 3 ottobre (il barcone incendiato) sono ancora bloccati a Lampedusa. Hai mai visto le “strutture di accoglienza” di Lampedusa?
Umberto

HO VISTO un edificio semibruciato ma, benché a quel tempo (2011) fossi parlamentare, mi è stato impedito l'ingresso e la visita, con un abuso di potere fuorilegge dal ministro dell'Interno Maroni. Ho potuto invece constatare che i sopravvissuti di un altro naufragio (per fortuna in quel caso meno tragico) erano stati lasciati sugli scogli, sotto la pioggia, giorno e notte, per settimane. Ho potuto constatare allora, e constato adesso, che la Repubblica italiana continua a non sapere (non per via istituzionale, non attraverso i media) la vastità e illegalità del danno (atti contro la Costituzione italiana, i codici italiani e tutti i trattati internazionali firmati dall'Italia) che le leggi e i ministri del ventennio berlusconiano (in obbedienza agli spregevoli codici morali della Lega Nord) hanno inflitto agli stranieri in arrivo e all'Italia. Un buon esempio l'abbiamo adesso: coloro che si sono salvati dalla tragedia sono trattenuti nello squallido e invivibile “Centro di Espulsione” di Lampedusa perché i magistrati conducono un’inchiesta sul loro trasporto e il loro sbarco, ma anche per la imputazione di “clandestinità” in obbedienza alla legge Bossi-Fini sull'immigrazione e al “Pacchetto sicurezza” di Maroni. La prima legge è inapplicabile e assurda. Fissa soltanto regole negative che tendono a respingere e offrono la grottesca alternativa di ottenere da ditte italiane contratti di lavoro in Somalia o in Eritrea o nelle Repubbliche del Centro Africa, mentre sono in corso massacri, persecuzioni e stragi continue. La seconda, il famigerato “pacchetto sicurezza”, trasforma l'intero evento della migrazione in un reato che di volta in volta va perseguito. Come? Inventando il reato di “clandestinità” che giuridicamente non può esistere perché è la colpa di essere quello che sei, e non la responsabilità di un reato compiuto. Il vero scandalo è che il Parlamento (in questo caso, davvero tutti, inclusi, senza alcuna eccezione, coloro che volevano “aprire il Parlamento come una scatola di sardine”) non c'è stata alcuna iniziativa (che costa il lavoro di un giorno) per abolire la legge Bossi-Fini e per liberare il Paese dal vergognoso “pacchetto sicurezza”. Pare che non sia popolare farlo. E così ai sopravvissuti di Lampedusa non è stato permesso di partecipare ai funerali dei loro cari perduti in quel naufragio (360 morti). Ma c'è qualcosa di ancora più squallido e triste: quel funerale (promesso come funerale di Stato) non è mai avvenuto.

Repubblica 2.11.13
Emendamento di Boccia alla Legga di stabilità: sì alle imposte sui profitti della pubblicità online in Italia
Il Pd punta a tassare Google e le altre multinazionali del web
di Lisa Grion


ROMA — L’obiettivo dichiarato è quello di fare pagare in Italia le tasse sulla ricchezza qui prodotta. Il fatto dovrebbe essere scontato, ma così non è, specialmente se i guadagni in questione derivano da vendite online. Uno dei problemi del fisco nazionale, infatti, e quello di non riuscire a trattenere le entrate da commercio elettronico: le multinazionali del web — pur agendo nel pieno rispetto della leggi vigenti — versano nelle casse dello Stato italiano poco più che spiccioli rispetto ai fatturati ottenuti. Le tasse, infatti, preferiscono pagarle nei paesi dove hanno la sede legale e godono di trattamenti da paradiso fiscale o quasi. Come l’Irlanda. E’ il caso di Google, ma anche di Amazon, Facebook, Twitter, Ebay: le star della rete abilissime non far «passare» dall’Italia i profitti qui creati, sia nel mercato della vendita che in quello della pubblicità.
Ora il Pd, con un emendamento alla legge di Stabilità, punta ad invertire la rotta per recuperare dalla tassazione sull’online almeno un miliardo di gettito. Necessario come il pane, per esempio, per meglio finanziare il taglio della tassazione sul lavoro.
Il progetto è stato presentato pochi giorni fa da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio alla Camera, in un’assemblea dei parlamentari del partito. Il testo ricalca quello giù inserito nel disegno dilegge delega sulla riforma del sistema fiscale, che ormai richiederebbe tempi troppo lunghi per l’approvazione. I tre punti dell’emendamento sono molto snelli: «chi intende acquistare servizi online — sia come commercio diretto che indiretto — è obbligato a farlo da soggetti titolare di partita Iva italiana». L’obiettivo, ha spiegato Boccia ai suoi, è quello di «difendere il mercato italiano e la sua competitività » e di intercettare una linea sulla quale si sta muovendo l’intera Europa, Gran Bretagna eFrancia in testa.
L’obbligo, specifica l’emendamento, riguarda anche l’acquisto di «spazi pubblicitari online e dei link specializzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca visualizzabili sul territorio italiano». Una volta varata la legge, anche gli editori, le concessionarie e gli operatori pubblicitari che li vendono dovranno essere quindi muniti di partita Iva. Non solo: il pagamento di tali servizi dovrà avvenire tramite bonifico postale o bancario «ovvero con altri strumenti di pagamento idonei a consentire la piena tracciabilità delle operazioni e a veicolare la partita Iva del beneficiario ». Il semplice obbligo di partita Iva italiana dovrebbe servire a scardinare quei meccanismi che permettono ad un colosso del web, come Google per esempio, di dichiarare in Italia solo i modesti compensi ricevuti per i servizi prestati dalle consorelle Google Inc e Google Ireland.

l’Unità 2.11.13
La Germania riconosce il «terzo sesso»
di Gherardo Ugolini


BERLINO Maschio, femmina o «indeterminato»? Da ieri i sessi non sono più due, ma tre. Almeno in Germania, dove è entrata in vigore una legge che riconosce ufficialmente il cosiddetto «terzo genere». La normativa, approvata dal Bundestag già lo scorso maggio, prevede che i bambini di sesso incerto, coloro che alla nascita presentano organi genitali non esclusivamente femminili o maschili, potranno essere registrati all? anagrafe come «indeterminati». In casi del genere i genitori non saranno più costretti a esplicitare il sesso del bambino forzando ciò che la natura ha lasciato ambiguo. Nei formulari e nei documenti d’identità sarà previsto, accanto alle classiche caselle M (maschio) e F (femmina), anche lo spazio per indicare una X equivalente a «intersessuale».
La legge recepisce una sentenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto come legittima espressione dei diritti della persona la distinzione fra il sesso «percepito» e sesso «vissuto».
La Corte aveva esortato il Parlamento a farsi carico della necessità di proteggere i diritti umani degli individui di sesso incerto che vengono calpestati quotidianamente in una società basata su un modello a due sessi. E le forze politiche sono riuscite a dare una risposta in tempi rapidi e trovando un consenso ampio e trasversale. Nella discussione che ha accompagnato l’iter legislativo sono emersi i numerosi casi di cittadini nati con sessualità incerta, classificati dai genitori come «maschi» o come «femmine», e quindi sottoposti ad operazioni chirurgiche di «normalizzazione» con conseguenze fisiche e psicologiche devastanti.
Secondo le statistiche del governo tedesco il numero degli «intersessuali» in Germania si aggira tra gli 8 e i 10mila, ma le associazioni che difendono i loro interessi parlano di circa 100mila casi.
Il fatto è che chi nasce in quel modo ed è costretto a fare i conti tutta la vita con un’identità sessuale ambigua o imposta, se ne vergogna e tende a non rivelarsi per quello che sente di essere veramente.
«Si tratta di un buon punto di partenza perché riconosce ufficialmente la nostra condizione di sofferenza» commenta Lucie Veith, presidentessa dell?Associazione tedesca degli intersessuali, che però vi trova anche delle insufficienze: «Avrei auspicato un divieto esplicito per le operazioni chirurgiche ai genitali su minorenni. Ci vorrà ancora molto per arrivare al superamento della classificazione sessuale binaria uomo/donna».
Il caso personale di Veith ha fatto scalpore: solo a 23 anni, quando era sposata da due, si accorse di non essere veramente una donna. Aveva sempre avuto un aspetto prevalentemente femminile, ma all’interno del corpo nascondeva genitali maschili. Per «curarsi» si sottopose a varie operazioni chirurgiche e trattamenti ormonali che produssero solo disagio e depressione. Fino al punto che ha deciso di accettare la sua condizione di persona «intersessuale».
La Germania è la prima nazione d’Europa a legiferare sul tema.
Fuori dal vecchio continente soltanto l’Australia aveva introdotto una legislazione simile.
Occorre, per altro, fare attenzione a non confondere la «intersessualità» con la «transessualità».
I transessuali ovvero coloro che si sentono di appartenere all’altro sesso e come tali vogliono essere riconosciuti godono in Germania già da tempo di diritti previsti dalle leggi vigenti.
La nuova legge tedesca lascia aperti alcuni problemi. Il principale riguarda le unioni matrimoniali.
In Germania il matrimonio è definito giuridicamente come unione tra uomo e donna mentre alle coppie omosessuali sono riservate le unioni civili.
Ora, le persone appartenenti al genere X con chi potranno contrarre matrimonio o unione civile? Solo con persone di genere altrettanto indeterminato?
Sono aspetti che dovranno essere chiariti dal Parlamento o dalla Corte costituzionale. Ma la legittimazione del «terzo sesso» potrebbe produrre anche un rivoluzionamento semantico del linguaggio. Lo ha sostenuto sulla Süddeutsche Zeitung Wolf Sieberichs, giurista a Bruxelles, per il quale la «dualità linguistica» fondata su uomo/ donna è destinata al tramonto.
Presto si dovrà smettere di usare appellativi sessualmente connotati come «Herr» (Signore) o «Frau» (Signora).

Repubblica 2.11.13
Né maschio né femmina rivoluzione in Germania per i bimbi dal sesso incerto
Sul certificato di nascita la casella resterà vuota
di Andrea Tarquini


Nella sola Germania nascono ogni anno 1500/2000 bimbi inter-sessuali
Secondo Le Monde in Europa un piccolo su 5000 presenta alla nascita organi sessuali ambigui

RIVOLUZIONE nella parità dei diritti tra i generi in Germania: da ieri i genitori di neonati i cui caratteri sessuali sono incerti, sono autorizzati a lasciare in bianco la casella “sesso: maschio o femmina” nei certificati di nascita.

BERLINO «È UN primo, importante passo avanti», dichiara alla Afp Lucie Veith, dell’associazione degli intersessuali. La Bundesrepublik è il primo paese europeo a introdurre una legge simile. A livello mondiale il precedente più importante è l’Australia. «Ma l’importante — aggiunge Veith — è vietare le operazioni genitali cosmetiche sui neonati e garantire gli intersessuali da ogni discriminazione».
La legge era passata in gennaio al Bundestag. Fino a ieri, i genitori erano obbligati a dichiarare il sesso del neonato entro una settimana dopo il parto. «La legge è incoraggiante», ci dice dietro la copertura dell’anonimato la madre di una bambina di 8 anni, una piccola «che già oggi dice di sentirsi sia maschio sia femmina, gioca più con i ragazzi, adora il set Star wars della Lego e non le bambole».
Il neonato fu registrato come bambina, «ma è un intersessuale, e lo sa», dice la donna. Finora, non vigeva solo l’obbligo di dichiarare il sesso: i medici consigliavano con forte pressing i genitori a far operare i neonati per eliminare i caratteri anatomici più deboli. «Interventi chirurgici di questo tipo certamente continueranno, sebbene i genitori possano porre il loro veto », afferma Silvan Agius, della Ilga Europa, una Ong per i diritti di omosessuali, transessuali e intersessuali.
«E’ un’esperienza dura per i genitori, quando già alla nascita i caratteri sessuali non sono chiari», sottolinea la nostra interlocutrice anonima. «In tali casi i genitali sono chiaramente diversi, il bimbo può nascere con i testicoli in pancia, o con un pene sotto-dimensionato o un clitoride più grande. E i cromosomi disegnano il loro futuro, la loro tendenza alla scelta di genere che emerge poi con l’adolescenza. Noi scegliemmo di dichiarare il bimbo come femmina e fu operato. La nuova legge è un passo avanti, rende superflue operazioni sui neonati che lasciano nel loro animo traumi tutta la vita. Il mio bambino oggi dice “sono sia maschietto che femminuccia”, ma le tendenze maschili sono chiare, più forti».
La nuova legge è un grande passo avanti, apre nuove porte, ma molto resta da definire, aggiungono le Ong. Non è chiaro se possa essere interpretata in modo retroattivo, «una retroattività sarebbe molto positiva per i bimbi intersessuali già nati come il mio — afferma la madre della bimba di 8 anni — darebbe loro il diritto di scegliere alla maggiore età o più tardi verso quale genere sentono più appartenenza ». Incalza Lucie Veith: «Il governo deve adottare misure per garantire che nessun bimbo intersessuale diventi vittima di discriminazioni a causa della nuova legge». Anche il Consiglio d’Europa è intervenuto sul tema, esortando gli Stati membri a «far sì che nessuno sia spinto a operazioni cosmetiche inutili, rispetto alle tendenze dei bimbi». Nella sola Germania, nascono ogni anno tra i 1500 e i 2000 bimbi intersessuali.

Repubblica 2.11.13
“È giusto accettare la diversità occorre rispettare ogni individuo”
“Purtroppo da noi nei casi dubbi si dichiara il neonato femmina: solo perché è più facile ricondurre l’anatomia al femminile
La psicologa Anna Ravenna: “In Italia non vedo spiragli in questa direzione”
intervista di Silvia Bernasconi


ROMA — «La Germania ha fatto un passo avanti verso la libertà dell’individuo. Ho seguito una persona intrappolata dalla nascita in un’identità femminile che non gli corrispondeva, e solo all’università si è sentita libera di dare spazio a un’identità maschile». Anna Ravenna, psicologa, è direttore didattico dell’Istituto Gestalt Firenze e supervisore del Servizio per l’adeguamento tra identità fisica e psichica all’ospedale San Camillo di Roma.
Come giudica la legge tedesca?
«È un passo verso la libertà, perché non obbliga ma lascia la possibilità di non dichiarare il genere consentendo alla persona, man mano che cresce, di seguire un percorso conforme al suo vissuto. Ed è realistica, perché accetta la diversità (della quale la natura è piena) come un dato di fatto e rompe la dicotomia tra maschile e femminile. Non vedo inoltre problemi di ordine pubblico: avere il sesso sui documenti non è significativo per la sicurezza».
Può essere un esempio da seguire anche in Italia?
«Certo, ma purtroppo in Italia non c’è nulla e non ci sono spiragli progressisti. In caso di intersessualità, da noi si tende a dichiarare il neonato “femmina”, perché è più facile dal punto di vista medico e chirurgico, con cure ormonali o operazioni, ricondurre l’anatomia di un essere umano al femminile. E spesso è più accettato socialmente».
Basta una “X” sulla carta d’identità?
«Non da sola. Il contesto in cui il bimbo cresce è fondamentale, deve esser in grado di accogliere la diversità, deve supportare e non reprimere».
Cosa si può fare?
«Le famiglie vanno rassicurate nei confronti di un’ambiguità che ha bisogno di tempo per definirsi. I genitori si sentono in colpa e vanno sostenuti. Il bimbo intersessuale deve potersi esprimere fin da piccolo: giocare con chi vuole, amiche o amici, vestirsi e comportarsi senza sentirsi giudicato».

l’Unità 2.11.13
La Nsa contro Kerry «Vi abbiamo ubbidito»
Alexander scarica su ambasciatori e segreteria di Stato Usa le decisione di spiare i 35 capi di Stato
Snowden pronto a testimoniare sul caso Merkel
di Umberto De Giovannangeli


Una resa dei conti senza precedenti. La Nsa ha raccolto informazioni sui leader mondiali su richiesta dei responsabili politici. Lo ha detto il capo della agenzia di intelligence americana, Keith Alexander, respingendo le accuse di portare avanti programmi al di fuori del controllo dell’amministrazione, e puntando il dito in particolare sul personale diplomatico. «Non sono le agenzie di intelligence ad avanzare le richieste ha sottolineato il generale Alexander intervenendo al Baltimore Council on Foreign Relations ma i responsabili della politica, tra cui gli ambasciatori». Si tratta di parole che il capo della Nsa ha pronunciato proprio mentre il segretario di Stato, John Kerry, intervenendo in videoconferenza da Londra, parlava di una intelligence «col pilota automatico», che era andata oltre i suoi compiti. «La Nsa ha insistito Alexander ha raccolto le informazioni quando gli è stato chiesto da funzionari politici di scoprire le intenzioni delle leadership dei Paesi stranieri. E se tu vuoi conoscere queste intenzioni, questo è quello che devi fare».
SCONTRO FRONTALE
Alexander ha fatto queste osservazioni rispondendo a un ex ambasciatore americano in Romania. Il capo della Nsa è stato, infatti, contestato da James Carew Rosapepe, che ha servito come ambasciatore sotto l’amministrazione Clinton, e che ha puntato il dito contro il monitoraggio del telefono della cancelliera tedesca Angela Merkel. Rosapepe, che ora è un senatore del Maryland, ha insistito su Alexander affinché questi fornisse «una giustificazione» sull’attività di intelligence della Nsa: «Tutti scherziamo sul fatto che tutti spiano ha affermato il senatore ma questa non è una giustificazione». Immediata la replica di Alexander: «Non sono le agenzie di intelligence ad avanzare le richieste ha osservato ma i responsabili della politica, tra cui gli ambasciatori».
Lo scontro a distanza tra il capo della Nsa e il segretario di Stato Usa è di quelli destinati a lasciare il segno. Kerry ha riconosciuto per la prima volta che gli Stati Uniti si sono «a volte spinti troppo in là nello spionaggio», riferendosi ovviamente al duro confronto in corso con l’Europa sulla raccolta dei dati fatta dalla Nsa «In alcuni casi, lo ammetto, così come ha fatto il presidente Barack Obama, alcune di queste azioni sono andate troppo lontano e faremo in modo che questo non accada più in futuro», ha rimarcato il segretario di Stato. Nel suo discorso in videoconferenza da Washington e trasmesso a Londra alla presenza del suo omologo britannico William Hague il capo della diplomazia americana ha a lungo giustificato le pratiche di informazione e di raccolta dei dati con la necessità di combattere il terrorismo e di prevenire possibili attacchi.
LA TALPA DISPONIBILE
Edward Snowden non vorrebbe testimoniare sulla intercettazione della cancelliera Angela Merkel davanti a rappresentanti tedeschi su suolo russo, secondo quanto indicato ieri a Berlino dal deputato dei Verdi, Hans-Christian Stroebele, che ha incontrato l’altro ieri l’ex collaboratore della Nsa, in asilo ora a Mosca. A testimoniare «sul suolo russo ha forti riserve per ragioni che ora non posso e voglio spiegare», ha assicurato Stroebele. Il deputato verde ha precisato in una conferenza stampa di avere garantito a Snowden che parte del loro colloquio, durato oltre tre ore, resterà segreto. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti della sua sicurezza. Queste informazioni, ha affermato il parlamentare tedesco, non le riferirebbe neppure alla cancelliera Angela Merkel se glielo chiedesse. Snowden sarebbe aperto, invece, ad altre varianti, come ad esempio «a venire in Germania». A patto però che gli venisse garantito di poter rimanere in sicurezza nel Paese o in un altro Stato affine. Una possibilità sarebbe, ha spiegato Stroebele, quella di garantirgli un «salvacondotto» tedesco: «Se questo verrà chiarito e organizzato sarebbe pronto a venire». Sempre secondo Stroebele, Snowden si sarebbe detto pronto a testimoniare davanti al Congresso Usa. Proprio ieri il ministro dell’Interno tedesco, Hans-Peter Friedrich ha fatto sapere che Berlino sta organizzando un incontro tra gli inquirenti e la «talpa». «Troveremo il modo, se il signor Snowden è pronto a parlare con le autorità tedesche ha spiegato . Se vuole fornire informazioni le accogliamo volentieri».

Corriere 2.11.13
Diplomatici e 007, a Washington la resa dei conti
di Guido Olimpio


Esploso il caso dello spionaggio Nsa è l’ora dei lunghi coltelli. Con fendenti in tutte le direzioni. Il direttore dell’intelligence elettronica Keith Alexander, detto anche «Alessandro il Grande», ha chiamato in causa il Dipartimento. Durante un dibattito con l’ex ambasciatore americano in Romania James Carew Rosapepe, è sbottato: «Siete voi che ci chiedete di spiare i leader mondiali». Per il direttore Nsa la sua agenzia «non fa richieste» ma agisce in base agli ordini politici e dei diplomatici. Gli agenti sono solo degli esecutori mentre le linee guida e i bersagli sono indicati da altri. Sempre Alexander ha poi aggiunto di non essere troppo d’accordo con queste forme di spionaggio: «Non ho sposato questi programmi e se trovassimo alternative migliori, dovremmo sceglierle». Poi la solita posizione ripetuta all’infinito. Per la Nsa c’è sempre il rischio di «un nuovo 11 settembre» e allora è necessario cercare ogni briciola di informazione. La sortita di Alexander segue altre polemiche. Anche aspre. Quando Barack Obama ha sostenuto di non aver mai saputo dell’attività contro altri capi di stato, dalla Nsa sono arrivate le risposte dure — anche se anonime — degli agenti che hanno ribadito di essersi mossi in base a disposizioni avute dalla Casa Bianca. E se non è stato il presidente a firmare l’ordine — cosa che appare difficile —, la responsabilità è stata dei suoi consiglieri che si occupano della sicurezza, da John Brennan (oggi alla guida della Cia) a Lisa Monaco. La Nsa, in teoria, dovrebbe essere abituata a questo «ambiente», anche perché spesso lavora con il Dipartimento di Stato. Il suo centro d’addestramento nel Maryland confina con quello dove sono preparati i tecnici per le comunicazioni inviati poi nelle ambasciate. Anzi, secondo alcuni è una delle coperture usata dallo SCS, l’unità coinvolta nello spionaggio elettronico all’estero e che ha le sue basi proprio nelle sedi diplomatiche.
In questa vicenda complicata, potrebbe avere anche un ruolo il dramma di Bengasi del settembre 2012, quando furono uccisi l’ambasciatore Chris Stevens e tre funzionari della sicurezza. Secondo una fonte nella città libica, insieme agli agenti della Cia, ci sarebbe stato anche un team della Nsa. Operava nella famosa «casa sicura» poco lontana dal consolato statunitense e seguiva le mosse degli estremisti libici in Cirenaica. Un lavoro per sorvegliare formazioni qaediste e sostenere l’intelligence in non meglio precisate operazioni. Dopo l’assalto il tema dei rapporti tra Dipartimento di Stato e agenti è diventato una delle molte questioni aperte. Sono anche emerse incomprensioni e frizioni. Per questo il Congresso è pronto ad ascoltare un gruppo di uomini della Cia e della sicurezza presenti a Bengasi quella drammatica notte. Una deposizione a porte chiuse che potrebbe avere un forte impatto.

Corriere 2.11.13
L’ira dei giganti del web contro Obama
Ora vogliono blindarsi nelle «fortezze»
di Massimo Gaggi


NEW YORK – Traditi dai servizi segreti coi quali, pure, collaboravano. Offesi dall’atteggiamento di Barack Obama, il leader che hanno sostenuto con tutto il loro impegno in due campagne elettorali. Ma, soprattutto, spaventati perché tutto questo mette in pericolo il loro business che è basato sulla fiducia degli utenti che animano i «social network» e interrogano i motori di ricerca. I big di Internet sono furibondi e ora, dopo le ultime rivelazioni su come la Nsa raccoglie tutte le informazioni che transitano per Google e Yahoo setacciando anche i loro «datacenter» all’estero, passano al contrattacco: Apple, Google, Facebook, Microsoft, Yahoo e Aol, tutte le grandi firme della rete, hanno scritto al Senato di Washington chiedendo il varo di una legge che le metta al riparo da questo spionaggio indiscriminato.
Silicon Valley chiede, inoltre, che a far parte del tribunale segreto che sorveglia la Nsa venga chiamato anche un difensore civico della «privacy» capace di tutelare i diritti civili degli utenti: una proposta contenuta anche in una proposta di legge del presidente della Commissione Giustizia del Senato, Pat Leahy che, però, fin qui non ha fatto molta strada. Anzi Dianne Feinstein, potentissima presidentessa della Commissione Intelligence del Congresso, pur avendo messo sotto accusa la Nsa per lo spionaggio dei cellulari dei leader europei alleati dell’America, sta facendo passare una leggina che legittima pienamente la sorveglianza sul traffico telefonico e wireless interno.
Le industrie della Silicon Valley, che hanno snobbato a lungo il Congresso, negli ultimi anni si sono dotate di potenti strutture di «lobbying» (soprattutto Google e Facebook) e ora sono decise a usare tutta la loro influenza sui parlamentari, come hanno già fatto con durezza nello scontro con l’industria cinematografica di Hollywood sul Sopa: la legge, proposta quasi due anni fa, per la protezione del diritto d’autore e contro la pirateria online.
Quella battaglia l’hanno vinta, ma stavolta spuntarla con l’intelligence federale sarà molto più dura. I giganti di Internet lo sanno e corrono ai ripari anche provando a «blindare» i loro sistemi: fin qui non hanno crittato le loro comunicazioni interne perché la procedura è complessa e costosa e perché pensavano di essere al riparo da questo tipo di spionaggio, data la vasta collaborazione assicurata ai servizi segreti. Ma adesso Google ha deciso di crittare tutto. E anche Facebook userà codici segreti almeno per parte delle sue comunicazioni . Google si sta anche dotando di una rete privata di cavi a fibre ottiche in modo da creare flussi di dati ancora più difficili da intercettare.
I tecnici responsabili della protezione delle reti aziendali ormai parlano del loro lavoro come della sfida di un videogioco nel quale si combatte contro l’intrusione di hacker. Solo che qui gli hacker sono le spie federali.
«È vergognoso, è urgente una riforma» è esploso ieri, dopo le ultime rivelazioni, il consigliere generale di Google David Drummond che è, praticamente, il responsabile degli affari legali del gruppo. Un’altra fonte interna delle industrie digitali che preferisce restare anonima nota: «Abbiamo sempre collaborato, ci avevano assicurato che non ci avrebbero spiato, che non ce n’era motivo. Sospettavamo qualcosa, ma non di queste dimensioni e così capillare. Qui siamo veramente al furto».
La Nsa replica sostenendo che tutte le sue azioni, per quanto possano essere percepite con fastidio, sono sempre rimaste nel perimetro di ciò che è consentito dalla legge. Ma, dopo aver messo in pericolo il rapporto con gli alleati europei, ora le rivelazioni di Snowden hanno fatto a pezzi la «relazione speciale» di Obama con quelle industrie che inneggiavano a lui come al primo «tech president» della storia americana.
Cinque anni fa l’attuale presidente di Google, Eric Schmidt, entrò addirittura a far parte del «gabinetto di transizione» del leader appena eletto dagli americani e non ancora insediato alla Casa Bianca. Adesso, quando ad agosto Obama ha invitato i capi delle aziende di Internet alla Casa Bianca per discutere dei problemi della sorveglianza, si è sentito rispondere con un secco «no, grazie» del fondatore e amministratore delegato del gruppo di Mountain View, Larry Page, che gli ha mandato un funzionario.

l’Unità 2.11.13
Atene, agguato alla sede di Alba Dorata. Due i morti
di Virginia Lori


Due morti e un ferito è il bilancio di una sparatoria avvenuta ieri sera nel quartiere Neo Eraklio di Atene davanti ad una sede del partito filo-nazista Alba Dorata. Una prima ricostruzione dell’attacco riferisce che intorno alle 19:00 locali davanti alla sede del movimento di estrema destra c’era un gruppo di militanti e simpatizzanti. All’improvviso è sopraggiunta una moto di grossa cilindrata con due uomini a bordo. La moto si è fermata ed il passeggero, che imbracciava un fucile mitragliatore tipo Kalashnikov secondo una prima ricostruzione -, è sceso ed ha aperto il fuoco contro il gruppo. Le due vittime (una di 20 e l’altra di 23 anni), secondo un portavoce di Alba Dorata, erano militanti del partito come pure il ferito.
La polizia non esclude per ora alcun movente alla base dell’agguato, anche se la pista politica sembra essere quella privilegiata. Il portavoce della polizia ha spiegato che il caso è da considerarsi decisamente collegato al terrorismo e per questo motivo i rilievi sul luogo dell’agguato sono svolti dai tecnici della squadra antiterrorismo. Gli inquirenti hanno già escluso l’ipotesi del regolamento di conti personale in quanto i due killer hanno agito in maniera estremamente professionale. A mano a mano si fanno infatti più chiari i particolari dell’agguato: gli inquirenti sono sempre più convinti che si sia trattato di una vera e propria esecuzione.
AZIONE PIANIFICATA
A riprova di ciò ci sarebbe il fatto che i due killer avrebbero sparato entrambi e non uno solo, come riferito inizialmente dai testimoni. Entrambi gli uomini sarebbero scesi dalla moto a bordo ed entrambi hanno estratto due mitragliette, probabilmente Skorpion, con le quali hanno aperto il fuoco. Una delle vittime è stata raggiunta da un solo proiettile alla testa e la seconda da due, uno al capo e uno al petto, a riprova della professionalità dei killer che poi si sono dileguati. Nei pressi del luogo dell’agguato, secondo alcuni testimoni, è stata notata un’auto con a bordo alcune persone che potevano essere un «gruppo di sostegno» pronto ad intervenire per dare eventualmente man forte ai due killer.
Da gruppuscolo minoritario ai margini della politica, nelle ultime elezioni a giugno Alba Dorata ha coagulato la rabbia di molti greci di fronte alla crisi e all’immigrazione ottenendo quasi 400mila voti, ovvero circa il 7%, e 18 deputati in Parlamento. Da allora i suoi aderenti si sono scatenati con numerose e violente «spedizioni punitive» ai danni di immigrati (regolari e non) e gay ad Atene e in altre città della Grecia, fino all’imponente operazione di polizia che ha portato agli arresti dei leader e di alcuni parlamentari.

il Fatto 2.11.13
Reportage
L’altra Siria: i curdi e la nascita violenta di una Nazione
In equilibrio tra ribelli e regime l’etnia cerca l’autonomia approfittando di guerra civile e petrolio
di Fabio Bucciarelli


Derek (Kurdistan siriano) Con il suo inseparabile cappellino a visiera, la camicia di un finto stropicciato blu e azzurro, l’inesistente barba, il fratellino biondo e quello con gli occhi chiari, Hogen non rappresenta esattamente l’immaginario dell’uomo arabo mediorientale. O almeno non il nostro cliché di uomo mediorientale. Quando parla nel suo inglese dall’accento duro, Halgurd sa sempre esattamente cosa dice e ha chiaro i dubbi che vuole suscitare con il suoi discorsi: ogni riflessione affrontata, è stata da lui sviscerata giorni, mesi o molto probabilmente anche anni prima. Quando parla della cultura curda delle riforme del pensiero unico e della determinazione di un popolo introdotte da Abdullah Ocalan, gli occhi brillano di speranza e libertà: “Un giorno saremo liberi di parlare la nostra lingua, insegnarla a scuola e avremo la nostra terra. Il processo di cambiamento è già iniziato”.
È Halgurd, sotto il suo berretto, la prima persona che vedo quando scendo dalla barca usata per trasportare avanti e indietro i civili sullo stanco fiume, un tempo il polmone della Mezzaluna Fertile. L’impressione che mi ero fatto leggendo i libri sulla Mesopotamia, era di una terra dove la ricchezza e la maestosità prosperassero. Come spesso accade, la realtà è diversa dall’immaginazione e il nobile Tigri lungo questo tratto di frontiera, si è trasformato in Acheronte e le grandi imbarcazioni di un tempo hanno preso le sembianze di squallide scialuppe dove Caronte fa spola tra la vita e l’Ade. Da una parte l’Iraq e dall’altra la Siria, o meglio, il Kurdistan del Sud e il Rojava.
UNO STATO E UN POPOLO FANTASMA DIVISO TRA QUATTRO PAESI
Il Kurdistan, il sogno dello Stato che non c’è, un’area piena di risorse petrolifere che ha sempre perso ogni lotta di riconoscimento, è una terra spezzettata e ambita da molti, divisa su quattro paesi e circondata dall’odio dagli stessi. Il Kurdistan del Nord, ovvero la Turchia, la stessa che ha sempre considerato l’etnia curda alla stregua di terroristi internazionali, ha bandito il movimento e rinchiuso in carcere a vita il suo leader Ocalan. Qui i curdi vivono in totale clandestinità, cercando di parlare la loro lingua madre lontano dagli occhi indiscreti di Erdogan. Nel Kurdistan dell’Est (Iran), essere curdo vuol dire non poter vivere alla luce del sole. In particolare, dopo la cacciata dello Scià nel ’79, il regime di Teheran ha represso violentemente ogni timida rivendicazione da parte dei curdi e di tutti coloro non in linea con la parola del capo supremo Khomeini.
Anche in Iraq la storia dei curdi ha lo stesso sapore agrodolce, ma vive un presente diverso. Sotto Saddam, l’etnia ha sofferto una delle pagine più violente delle sua storia: nel 1998 il dittatore attaccò l’area indipendentista con armi chimiche uccidendo migliaia di persone. Solo dopo la sua morte, i curdi sono riusciti a organizzarsi e a creare una sorta di Stato federale all’interno dell’Iraq, riconosciuto da Bagdad, ma non dalla comunità internazionale. Erbil (Euler in curdo) ne è diventata la capitale e il governo capeggiato da Barzani aspira alla completa autonomia viaggiando a ritmi rapidi anche per le potenze occidentali.
Mentre scendo dalla scialuppa e tutte le anime vanno incontro al proprio destino, penso a quanto è cambiata la Siria dall’ultima volta che sono venuto. È passato un anno e migliaia morti, milioni di profughi e lo spettro delle armi chimiche. La richiesta di democrazia e di libertà urlata dall’esercito ribelle si è trasformata in lotta islamica per il controllo del territorio. In molte città, le cellule jidaiste hanno sostituito il Free Syrian Army conquistando i punti strategici del paese: Azaz al confine con la Turchia, Aleppo e la zona centro orientale, le città di Deir-az-Zoir e Raqqa.
Salto così sull’auto che zigzagando tra gli sterminati campi di petrolio ci porta a Derek, al Malkia in arabo. Come nel Kurdistan iracheno, qui più che mai, ogni singolo paese, città o tenda spersa nella tundra, ha il doppio nome. Quello conosciuto al mondo, scritto in arabo e quello comprensibile solo ai 40 milioni di curdi. Curva dopo curva il paesaggio cambia: salutate le montagne turche di confine, scendiamo in collina, che piano piano si è fatta sempre più bassa e sempre più ampia fino a diventare pianura e poi un deserto ornato di centinaia di pompe petrolifere. Strani marchingegni di metallo che in controluce sembrano uccelli con il becco in giù, pronti a scavare per trovare oro. A Derek, dopo poche ore abbiamo già incontrato la portavoce della Woman Academy i membri della People’s House, il responsabile degli Asays, la censura e il nostro uomo. Praticamente tutta Derek in meno di un giorno ha saputo che tre reporter europei volevano vedere quello che c’è dietro la guerra. Fare giornalismo in Kurdistan non è come farlo nella altre zone della Siria: gli anni di sofferenza e quelli di sottomissione, una stessa educazione e un indottrinamento culturale, hanno reso il popolo curdo più efficiente e più compatto. Conoscono bene il ruolo e la forza dell’informazione e si promuovono a fare buon viso a cattivo gioco. Questo non vuole dire necessariamente censura, ma indirizzamento verso qualche evento anziché qualche altro di maggiore interesse giornalistico.
Fortunatamente Halgurd, divenuto il nostro fixer, ha saputo destreggiarsi fra la morsa del pensiero comune e quella più forte di tre giornalisti che non avevano nessuna intenzione di arrendersi.
In una decina di giorni abbiamo ottenuto i permessi per andare alla frontline di Ras al Ayn e a quella di Ramelan, per passare la città contesa dal regime di al-Quamishi e presenziare al Training Camp degli Ypg di Shedshelan, per intervistare lo spokeman degli Ypg Seliman Mohmed e Salim Muslim, il numero 1 del Rojava, l’esponente di punta del Pyd, il più grande partito politico curdo-siriano. E come in ogni conflitto, abbiamo assistito all’esodo di migliaia di profughi che scappano dalla guerra. Le decine di persone incontrate e gli innumerevoli chilometri macinati mi hanno fatto riflettere e vivere il momento storico di cambiamento e creazione del nuovo Rojava.
Un nascita militare politica e ideologica. Quello che il partito di maggioranza e il braccio militare chiedono è uno spazio dove i curdi possano rispettare la propria legge, parlare la propria lingua e avere l’indipendenza economica. Per questo le milizie dello Ypg (People’s Protection Units) combattono lungo i confini immaginari dell’area per difendere le posizione sotto gli attacchi degli islamisti. Dalla primavera i gruppi armati islamici di Jabat al Nusra e di Isis (Islamic State of Iraq and Al-Sham), hanno cercato di allargare la loro zona di controllo ed espugnare l’area di al-Quamishi di Amuda e di Ras al Ayn. Conquistando questo tratto di frontiera con la Turchia, avrebbero controllato il valico verso un paese apparentemente amico. Inizialmente hanno avuto la meglio, ma ad agosto lo Ypg con dure controffensive ha riconquistato le città contese e la frontiera delimitando con trincee il territorio controllato. Vista come una lotta di liberazione contro i soldati di Jabat al Nusra e Isis, la popolazione appoggia con tutte le forze lo Ypg e la nuova polizia curda degli Asays. Con decine di check-point gli Asays controllano chi entra e chi esce da ogni villaggio mentre l’esercito di protezione combatte per il popolo lungo i confini. Sul fronte occidentale, vicino alla Turchia. la presenza dei lealisti è più forte. Dopo qualche giorno passiamo i check-point appena rallentando e salutando con un cenno gli Asays di vedetta. Oramai conosciamo l’intera area di Derek e decidiamo di muoversi verso il fronte più occidentale di Serykaney (Ras al Ayn), a ridosso del confine turco.
SUL FRONTE OCCIDENTALE, VERSO LA TURCHIA LA PRESENZA DEI LEALISTI È PIÙ FORTE
Durante il tragitto, si intravedono le bandiere prima rade, poi sempre più fitte, dell’esercito di Assad. Il governo è ancora presente in Siria e non manca nemmeno nella zona curda. Prima della guerra le grandi risorse petrolifere erano destinate a Damasco e il regime era l’unica legge anche in Rojava. Ora i rubinetti sono chiusi e i militari di Assad praticamente scomparsi. Tranne che ad al-Quamishi dove hanno ancora dei check-point e controllano il traffico mentre lo Ypg giorno dopo giorno ne fa sempre di più la sua base. Oramai distrutto da una guerra che ha lacerato il paese, anche Assad deve scendere a patti più o meno ufficiali fuori e dentro i propri confini. Né Bashar né suo padre Hafiz hanno mai amato i curdi ma in un momento dove gigantesche risorse vengono spese per vincere la guerra e scacciare gli le milizie jidaiste, aprire un altro fronte a est risulterebbe controproducente. Soprattutto se anche i curdi combattono contro Jabat al Nusra e contro Isis. Quindi vige una sorta di accordo informale di pace apparente che per ora risparmia ai curdi i raid dei Mig e al regime un problema da risolvere.
Nonostante l’accordo nessuno si fida del nemico. Durante l’intervista a Salih Muslim, diventato martire dopo avere perso il 9 ottobre il figlio Servan ucciso da un cecchino di al-Nusra, gli chiedo proprio come può fidarsi di chi fino a ieri gli ha sparato contro e non ha mai riconosciuto l’etnia curda. Senza bisogno di interprete e guardando dritto in camera mi conferma come questa guerra sia divenuta sporca, si sia trasformata e non abbia più nulla a che vedere con la lotta per la libertà. Salih Muslim è un uomo che ha appena perso il proprio figlio mentre lottava per la liberazione del paese e allo stesso tempo è la guida politica più influente. In modo diretto e schietto mi dice: “Come facciamo a essere amici di chi fa affari con i nostri nemici? ”.
* fotoreporter, vincitore del Robert Capa Gold Medal 2013

l’Unità 2.11.13
Beni culturali. Ministero da snellire. E rifondare
0.39: la percentuale del Bilancio dello Stato destinata ai Beni culturali nel 2001
0.20: la percentuale del Bilancio dello Stato destinata ai Beni culturali nel 2013 (stima)
Al vertice ben nove ruoli da direttore generale, eppure la tutela del patrimonio si è indebolita
di Vittorio Emiliani


Stanno per concludersi i lavori delle commissioni di riforma insediate dal ministro Massimo Bray titolare ora dei Beni culturali, dello Spettacolo e del Turismo. Una, snella, presieduta da Salvatore Settis per migliorare l’attuazione del Codice per i beni culturali e paesaggistici (di cui lo stesso Settis fu coautore, in sostanza, con Francesco Rutelli). Un’altra, che ha terminato nei giorni scorsi i propri lavori, molto più corposa, presieduta dal giurista Mario D’Alberti, incaricata di rivedere tutta la struttura di un Ministero nato quasi 40 anni fa unendo beni culturali e ambientali e che ha subito incisive modifiche, tutt’altro che positive purtroppo.
Esso è stato assai presto mutilato della omogenea parte ambientale per la pressione di potenti lobby. Così i Parchi nazionali rientrano nella competenza del Ministero dell’Ambiente che a volte ha nominato, al ribasso, ex sindaci, ex assessori, magari ex dirigenti locali di associazioni venatorie e, con Altero Matteoli, persino agenti immobiliari -, mentre la fondamentale tutela del paesaggio è rimasta al MiBAC e alle Soprintendenze. Che però hanno quadri tecnico-scientifici sempre più all’osso a fronte della speculazione immobiliare che preme: appena 487 architetti ognuno dei quali dovrebbe esaminare, e risolvere, per giorno lavorativo dalle 5 alle 10 pratiche, a Milano (secondo la denuncia dell’allora direttore generale Roberto Cecchi) addirittura 79 (sic!) pratiche al giorno. Per un territorio coperto da vincoli paesaggistici e ambientali al 47 per cento e con circa 60.000 immobili e siti vincolati, più interi centri storici (Urbino ad esempio).
UNA STRUTTURA ABNORME
È sotto accusa, da anni ormai, la struttura abnorme del Ministero che perso l’Ambiente e inglobato lo Spettacolo (ora tocca al Turismo) presenta un testone assurto ai soprintendenti territoriali e di settore: 167.000 euro lordi contro nemmeno 79.000. E gli archeologi e gli storici dell’arte che dirigono musei formidabili? Funzionari di terza fascia con buste-paga mensili da 1.700-1.800 euro, circa 35.000 euro lordi l’anno.
Anni fa i direttori generali centrali erano 4, le Soprintendenze regionali (già discusse) si limitavano a fungere da organismi di coordinamento, non esistevano ancora i Poli museali imposti dal centro a città (succede spesso nel Centro-Nord) dove c’è un solo importante museo nazionale e una corona di musei civici di peso che vanno per conto loro. Questa struttura ha potenziato la tutela attiva del patrimonio? Direi di no. Al punto che il ministro Bray è orientato a ridurre le direzioni generali centrali (da 9 a 5, ma va creata quella per il Turismo) e pure quelle regionali (da 20 a 12, pare) riportando queste ultime a compiti, sovraregionali in alcuni casi, di coordinamento. Alleate alla struttura forte delle direzioni generali centrali, alcune di quelle regionali hanno drenato uomini e mezzi alle Soprintendenze. In una regione del Nord, in clima di revisione della spesa, la direzione generale ha fruito di ben 8 milioni di euro per la propria sede, mentre ai quattro musei nazionali della regione sono toccati gli spiccioli, 60.000 euro in tutto. Così come i Poli museali, spesso astratti, hanno tolto risorse a musei importantissimi (a Roma, per esempio) per organizzare mostre su mostre. Il «mostrificio», del resto, sta provocando, nei fatti, la chiusura di musei locali.
Ovviamente ogni taglio proposto per posti di potere suscita reazioni energiche (specie in presenza di un governo non saldissimo sulle gambe). Qualche membro della commissione ha già definito «magmatico» il documento uscito dalla commissione D’Alberti. Dovrebbero esserci al centro due direzioni generali, una per la tutela e un’altra per gli istituti. Verrebbero riaccorpati archivi e biblioteche, con non pochi mugugni. Sparirebbe la direzione per la valorizzazione creata da Sergio Bondi per Mario Resca ex Mc Donald’s e nessuno la rimpiangerà. Si riuniscono spettacolo dal vivo e cinema. Di questo ambito fondamentale in commissione non si è praticamente parlato, a quanto si sa. A conferma del potere autonomo di cui gode. Come non si è parlato quasi per nulla di arte contemporanea e qui forse bruciano ancora le vicende recenti e dolenti del Maxxi di ornaghiana memoria. La commissione avanzerebbe poi la proposta di creare una scuola sul modello della École du patrimoine, col fine di formarvi i funzionari dei Beni culturali, ma anche di altri Ministeri, aprendola anche ai privati. Buona idea che rimonta alla visione originaria del MiBAC per il quale l’ultimo direttore generale di vero spicco, Mario Serio, parlava di Ministère de patrimoine. Un po’ dissoltosi nel quarantennio 1974-2013 e diventato un’altra cosa. Anche grazie al Titolo V della Costituzione che ha complicato la non facile gestione dell’articolo 9 della Costituzione (la Repubblica tutela il paesaggio, ecc. e non lo Stato come avevano proposto due personaggi diversissimi, l’azionista, poi socialista, Tristano Codignola e il comunista Concetto Marchesi).
Anche grazie alla ostinata pretesa di certe Regioni di dar vita ad una regionalizzazione della tutela, dopo i palesi disastri siciliani o gli stravolgimenti paesaggistici della giunta Cappellacci rispetto alla giunta Soru in Sardegna. E malgrado che il federalismo alla lumbàrda sembri tramontato dietro il Resegone.

il Fatto 2.11.13
Olivetti, l’uomo che sognava il mondo. E lo cambiava
Un viaggio sui sedili stretti della Fiat 600 mentre l’azienda vola negli Usa
Le responsabilità di un’impresa mai tentata e la poesia della Lettera 22
Ritratto diretto e inedito di un italiano raro. E attualissimo
di Furio Colombo


Milano, un venerdì sera di giugno, diciamo le otto, c'è la luce di un'estate precoce, una ventata di caldo inaspettata sul piccolo piazzale deserto.
Ho fatto tardi. Sul lato del parcheggio non ci sono più auto, tranne la mia Seicento. Da quel punto si vede la strada, che è quasi un vicolo a senso unico. E lì c'è Adriano Olivetti, con un borsone accanto. Guarda la strada, in attesa. Si volta, mi dice: “Ho perso l'autista”. Io avevo già chiuso la porta del palazzo degli uffici (la Olivetti aveva la sua sede milanese in via Clerici) e naturalmente non avevo le chiavi. Intorno, a quel tempo, non c'erano né bar né telefoni. Con un po' di imbarazzo mi sono offerto di accompagnarlo.
ANDAVA ALLA STAZIONE CENTRALE, il treno fra un'ora. Anche lui era un po' imbarazzato, un suo tratto normale all'inizio di ogni conversazione, persino se ti chiamava lui. Ha afferrato il borsone prima che potessi aiutarlo e ha faticato un poco a sistemarlo sul sedile posteriore. Poi si è seduto davanti, ma né lui né io siamo riusciti a cambiare la posizione un po' scomoda del sedile, uno spazio stretto. Non c'era traffico e avremo avuto sì e no un quarto d'ora per una conversazione prima del treno. Ma quella conversazione ha cambiato molte cose nella mia vita. Ecco come è andata.
Adriano Olivetti: “Lei sa che abbiamo comprato la Underwood”. Ho detto “Sì, ma non avevano detto tutti che era una azienda colabrodo, molti debiti, troppo personale e nessun progetto? ”.
Adriano Olivetti: “È la più grande fabbrica di macchine per scrivere nel mondo. Ventimila dipendenti, 128 filiali. E adesso è una nostra fabbrica”. L'Ingegner Adriano diceva sempre “macchine per scrivere”, non “da scrivere”. Non era autoritario, ma su questo ti correggeva subito. “Ingegnere, se devo credere ai film, quelle officine non assomiglieranno molto alle fabbriche Olivetti”. L'Ing. Adriano non era grasso, però stava stretto in quella Seicento con il sedile messo male. Ma questo non diminuiva il suo entusiasmo.
Adriano Olivetti: “Si rende conto? 128 filiali vuol dire punti di vendita in tutta l'America. Gli uffici sono a New York, al numero 1 della Park Avenue. Le fabbriche sono ad Hartford, nel Connecticut. Bisognerà fare la spola. Per fortuna ci sono ottime autostrade. E poi bisognerà visitare continuamente tutte le filiali. Devono diventare nuove, capisce? Come il nostro negozio di New York”. Sapevo del negozio per la celebre fotografia della Lettera 22 montata su una colonnina di metallo nero, sul marciapiede della Quinta Avenue, all'altezza della Cinquantaseiesima Strada: i passanti facevano la coda per provare a scrivere su un foglio bianco già inserito.
DI SOLITO MI CONTAGIAVA il suo entusiasmo, che si accendeva subito se si parlava delle nuove fabbriche, del come rendere silenziose le officine, della biblioteca (che era diventata una leggenda italiana), della scuola dei piccoli, del progetto di calcolatore elettronico (aveva già un nome: Elea) a cui lavorava il mitico Ing. Chou, un giovane cinese di immenso talento. Ma adesso ero disorientato.
Passione ed entusiasmo li conoscevo fin dal periodo trascorso a Ivrea, prima in fabbrica (alle presse e alla catena di montaggio) poi nell'Ufficio di selezione del Personale (guidato allora da un ex ufficiale di Marina colto e avventuroso, Nicola Tufarelli) dove Paolo Volponi mi ha aiutato a capire che, nella visione dell'Ing. Adriano, la direzione del personale – e dunque anche la selezione, in una fabbrica che prevedeva solo assunzioni – contava quanto la direzione finanziaria. E poi a Milano, in via Clerici, dove ai piani di sopra c'erano Franco Fortini, Giovanni Giudici, Giorgio Soavi, Franco Momigliano, Cesare Musatti, Renzo Zorzi. E con me, al secondo piano, c'era Ottiero Ottieri, lo scrittore che ha trasformato in romanzo la fabbrica di Pozzuoli (Donnarumma all'assalto) e ha dato un senso letterario all'epoca Olivetti, mentre Franco Ferrarotti (anche lui sul posto) ne aveva dato la rappresentazione sociologica e Musatti quella psicanalitica.
INTANTO GLI ARCHITETTI, da Sottsass a Bellini, da Pollini a Vittoria, davano forma alla bellezza che Olivetti cercava nella fabbrica e nel lavoro. Passione ed entusiasmo, ho appena detto, ma niente esuberanza estroversa. Conoscevo bene il piccolo, ripetuto colpo di tosse di imbarazzo, all'inizio delle conversazioni, anche se poi si facevano intense. Quelle conversazioni tendevano a dilatarsi, come un sommario di cose da fare, da ripensare, da disegnare. Mai nel tempo, perché l'ing. Adriano non amava i monologhi e aveva in mente una sua precisa scansione delle cose da fare (una volta si è accorto dopo giorni di avere l'orologio da polso fermo, senza mancare mai il momento per cominciare e per finire una cosa).
Ma noi eravamo scomodi, lui un po' schiacciato su una Seicento, andando verso la Stazione Centrale di Milano, e le notizie sulla Underwood e sulla Olivetti in America erano importanti e interessanti. Ma in che senso mi riguardavano? Io stavo bene tra Ivrea e Milano, con un quadro di Leger alle spalle (quasi tutta la collezione d'arte contemporanea di Olivetti era negli uffici e nell'atrio delle officine) e Ottiero per discutere il lavoro (lo strano lavoro di assumere sempre senza licenziare mai) nella stanza accanto. C'erano molte filiali Olivetti nel mondo, da Londra a Tokyo, ma non erano mai entrate nei nostri discorsi.
Adriano Olivetti: “Poi c'è un'altra cosa. I campus universitari americani. Lei sa che ogni primavera ci sono le interviste delle grandi aziende per selezionare i migliori. Noi non cerchiamo ingegneri. Gli ingegneri più bravi li troviamo a Torino e a Milano. Noi cerchiamo giovani laureati in Matematica, Letteratura, Filosofia, Scienze umanistiche, come lei ha fatto finora in Italia. Per il nuovo calcolatore dobbiamo mettere insieme nazionalità, formazioni, culture diverse. Posso dire al consiglio di amministrazione che lei accetta? ”.
L'esperienza era quella di un circo, lasciare la presa e rimbalzare su una rete grande, ma in un altrove totale, un bel po' prima dei trent'anni.
L'IDEA DELL'ING. ADRIANO era questa: non più di cinque italiani nel corpo immenso dell'azienda americana appena diventata Olivetti (Olivetti-Underwood). A me toccava la responsabilità del personale. L'ho già detto, ero disorientato. Ma non mi rendevo conto del vero pericolo che stavo correndo: credere che il mondo del lavoro, i suoi manager, i suoi protagonisti, fosse questo. Che fosse tutto così.
Una domanda già allora era inevitabile: se la bellezza e la cultura sono così importanti per il lavoro e per la vita di uomini e donne che lavorano, se fare le cose inventando ogni volta i modi e le forme, chiamando a raccolta persone capaci di farlo e rendendo eccezionale, e citato, ed esposto nei musei, anche un piccolo prodotto come la macchina per scrivere portatile, guadagnando attenzione e prestigio e successo, perché gli altri non se ne sono accorti? Perché hanno considerato Adriano Olivetti un estraneo, un disturbatore, un nemico? Certo “Non è uno di noi”, era la persuasione che era quasi universalmente condivisa nell'imprenditoria italiana, che ha una lunga storia di grettezza e favori, con una forte inclinazione a chiedere e a non dare (sia alle persone sia al proprio Paese). E che comunque non ha mai voluto Olivetti in Confindustria.
SPOSTANDOMI PER IL MONDO, nelle tappe di quella incredibile avventura, mi sono reso conto che in altri Paesi l’immagine di Adriano Olivetti appariva meno remota e inspiegabile. In America, per esempio, c'è una grande tradizione di filantropia, che vuol dire donare in grande (ospedali, scuole, università) come forma di tributo al proprio successo e al proprio nome. E mi sono reso conto, frequentandolo molti anni più tardi per un altro lavoro, che la persona più vicina e più confrontabile ad Adriano Olivetti (il rispetto alle persone, l'attenzione al rapporto fra arte, bellezza, impresa, la decisione di fondare una università dedicata alla ricerca scientifica, col suo nome) nell'universo del capitalismo americano, era David Rockefeller, un uomo mite, colto e intelligente che non ha mai assomigliato alle feroci caricature che gli sono state dedicate. Ma questa somiglianza, più della tensione ostile di una tribù arretrata del capitalismo italiano, mi serve per chiarire.
Adriano Olivetti non era un filantropo, non correggeva benevolmente il mondo, lo sognava, lo costruiva, lo cambiava e tendeva a non fermarsi perché la differenza fra il progetto e il mondo restava grandissima: e lui, realistico, concreto, proprio mentre era immerso nel sogno, sapeva la differenza e non si dava pace. Eppure aveva un passo apparentemente tranquillo, senza gesticolazioni e senza concitazioni, una voglia di spiegare calorosa ma chiara, come a scuola. Si rendeva conto del buon senso delle obiezioni, che ascoltava e annotava.
“PERCHÉ COSÌ PRESTO? ”, gli ho chiesto una volta mentre l'uomo con gli occhi azzurri e la cravatta bianca mi aspettava, senza carte sul tavolo, alle 6:15 del mattino per leggere dal pacco di giudizi (scritti da me, rivisti da Ottiero) sui giovani neolaureati che avevamo “intervistato”, e che proponevamo di assumere). Sorrideva in modo mite, non da manager, con un accenno di scusa: “Perché io mi sveglio prestissimo. Mi sveglio alle quattro”. “Ingegnere, ma che cosa fa dalle quattro? ”. Mi guarda bene (non perdeva mai gli occhi del suo interlocutore). “Progetto”, è stata la risposta. E tu sapevi e constatavi ogni giorno che era vera. Sentirsi parte di quel progetto creava un lieve, continuo entusiasmo che rendeva diverso ogni giorno di lavoro. Per i corridoi (immaginate lo scenario delle Alpi, sul fondo), andavano e venivano il giovane filosofo Lunardi (che Umberto Eco cita ancora come una guida intelligente nell'impegno filosofico) il giovane filosofo Franco Tatò, il giovane esperto di Asia e di lingue asiatiche Tiziano Terzani.
Lì vicino c'era l'ufficio di Franco Ferrarotti, uno dei fondatori della Sociologia italiana, che faceva da ponte fra Adriano Olivetti imprenditore e Adriano Olivetti editore (Le edizioni di Comunità, una finestra sul mondo della cultura non italiana ma anche il marchio dei libri di Olivetti sulla sua visione della Comunità, che stava per portare in politica), ed era impossibile non fermarsi e non sentirlo nella sua appassionata irruenza (chi di noi, presenti allora, ha dimenticato il suo discorso appassionato e piangente davanti agli operai e alla fabbrica il giorno della morte dell'Ing. Adriano?). Ma nell'interruzione del pranzo cercavo di sedermi al tavolo di Volponi. E poi, nel periodo trascorso negli uffici di via Clerici a Milano, in cerca di Franco Fortini o del poeta Giovanni Giudici, mentre Ottiero Ottieri mi dava da leggere (“per domani”) pacchi di pagine del suo romanzo- diario La Linea Gotica. E gli intervalli più lievi erano con Giorgio Soavi, scrittore, poeta, jazzista, inventore dell’Agenda Olivetti.
Però la domanda resta. Qual è il filo che lega ragione, bellezza e intelligenza (nel senso creativo) alla fabbrica. E perché ha funzionato (gli scrittori lavorano in fabbrica, gli architetti la disegnano, i poeti trovano le parole per le frasi pubblicitarie, i designer portano i manifesti, gli operai si sentono parte di questa prima, operosa comunità in cui le vendite aumentano, e aumentano anche i salari, gli stipendi, i risparmi (aumentano prima che tu te lo aspetti o lo chieda), e aumentano gli aiuti agli operai ex contadini, per persuaderli a non vedere la cascina e la terra? La risposta, ovvero il senso di tutto ciò che è stato Adriano Olivetti, non finisce qui, comincia qui.
COMINCIA DAL RAPPORTO fra fabbrica e cultura, dalla cultura intesa come servizio di ciascuno che sa o ha di più, alla vita degli altri, che comunque ricambiano. Comincia da una visione che non si spiega se si riduce a bontà o gentilezza o generosità o mecenatismo. La parola è uguaglianza, un sogno di uguaglianza fondata sulla dignità e sulla fervida immaginazione che le vite si vivono in modo diverso, con talenti e bravure diverse, ma con lo stesso grado di valore, legate da un intenso dare e avere. C'è in tutto questo una religiosità implicita, ebraica e cristiana, che crede nel dono reciproco. E sorprendentemente accenna a una sequenza di reincarnazioni, di nuove vite, da operaio a poeta, da scrittore a operaio, da contadino o pescatore che sta in fabbrica senza rinunciare alla terra e al mare. Così è stato, vi assicuro, in questo tempo e in questo Paese.

l’Unità 2.11.13
Il «complotto» secondo Fo
Il premio Nobel torna sulla «censura vaticana» a Rame
«Il no dell’Auditorium non colpisce me o Franca, ma Papa Francesco.
Mi sono arrivate decine di proposte dai teatri di tutta Italia»
di Toni Jop


ECCO DARIO SPUMEGGIANTE COME AI VECCHI TEMPI. LO HANNO «MESSO IN MEZZO«, LO HANNO CHIUSO ALL’ANGOLO, ancora; pareva impossibile che accadesse e invece di nuovo censura. Il Paese sa che il teatro dell’Auditorium in via della Conciliazione ha ritenuto di non accettare nel suo cartellone la messa in scena tratta dal libro di Franca Rame sulla sua soffertissima esperienza parlamentare. E che male c’è? Ciascuno è libero di scegliere come accroccare il proprio carnet, solo che i particolari della vicenda fanno di questo contrattempo decisamente livido una pochade semiseria ricca di sfumature. Il primo aspetto interessante sta nel fatto che chi ha detto di no ad un premio Nobel (che quando le cose gli vanno male riempie le platee e qualcuno resta pure fuori con tutta la buona volontà dell’organizzazione) è un’anima vaticana. Sta lì, Oltretevere, il potere sulla sala e sul cartellone.
Quindi, a rigor di storia, chi in teoria avrebbe detto «no» a Dario è Santa Madre Chiesa: e scusate se è poco. Secondo: Dario è (e qui andiamo d’accordo) uno dei più sfegatati fan di Papa Francesco, il titolare numero uno del Vaticano. Terzo: la stessa sala che lo ha respinto ora, un anno fa ha volentieri messo in cartellone quella meraviglia stagionatissima di Mistero Buffo che ha fatto scoppiare i botteghini. Quarto: Dario è un mattacchione impenitente, non sta mai fermo, non sa cosa sia la rassegnazione e trova sempre una via d’uscita, vitale, irridente, scrosciante.
Eccovelo, fresco fresco, che pare un ragazzino senza freni e senza malinconie, con una teoria tra le mani, un movente, un colpevole, una trama che spedisce Dan Brown a fare il contadino. (Dario è nello studio, sta dipingendo, poi spieghiamo).
Lo vedi? Sei di nuovo all’indice. Mi giro dall’altra parte e me ne combini una che peggio non si può. Cos’hai fatto per meritarti il cartellino rosso dal Vaticano?
«Io lo so, lo so. Qui c’è una questione di geometria del potere che salta clamorosamente; io, in questa trama, sono solo il pretesto, un banale catalizzatore...»
Ci salvi il cielo, quando dici così stai per sparare, Django Fo...
«Dunque, ascolta: quel testo di Franca non poteva rappresentare un problema per nessuno, se non per le istituzioni che stanno sputando sangue per conservare un briciolo di dignità e di autorevolezza. La Chiesa c’entra niente, Dio nemmeno: solo questione di uomini e donne e dei loro edifici di civiltà. Paura di che? Di me, forse, che ho raccontato Cristo con la dolcezza innamorata di un vangelo laico proprio in Mistero Buffo? No, caro. Non regge, c’è sotto qualcosa..».
Fermati: a quanto pare, il Vaticano ha detto di non aver saputo nulla di questa storia, evidentemente smaltita – secondo questa visione da un gestore non porporato che le sue vibrazioni se le sarebbe tenute per sé...
«Forse sì e forse no. Ma il risultato non cambia: eccomi fuori con piena soddisfazione porporata, come vedi. Sono i fatti che contano. E i conti, nel mio bilancio, tornano...».
Va bene, allora illumina l’oscurità dei nostri sguardi...
«Il centro è il Papa. Papa Francesco. Un grandissimo uomo, una risorsa meravigliosa, una intelligenza vivida, un coraggio da leone e non so che altro aggiungere a quel che ho detto, non da solo, di lui e del ruolo che sta svolgendo nel mondo e anche dentro il Vaticano. È lui il bersaglio, ecco, di questa storia...»
Audace, ma torna ai fatti...
«Giusto, i fatti. Cosa produce questa piccola ma fastidiosa crisi agli interpreti della vicenda? Vuoi sapere cosa accade a me, cosa mi viene meno? Nulla, tranne la sgradevolezza di una censura abbastanza stupida e difficilmente giustificabile anche nell’ottica di una visione vaticana delle cose. Anzi: mi hanno fatto una pubblicità enorme e non pagabile. Tanto che ho pensato di ritirare tutte le manchette previste sui giornali, a che mi servono? Ora questo lavoro di Franca e mio veleggia da solo, grazie a questo “no”. Appena ricevuto lo sfratto, mi ha telefonato il direttore del teatro Sistina di Roma e mi ha offerto la sala per il giorno dopo quello previsto per il debutto. E altri dieci teatri, uno dietro l’altro, si sono fatti avanti. Ho ricevuto proprio un gran regalo, non so come sdebitarmi. Io sono a posto, allora, vero? Ma per la prima volta da quando Francesco si è seduto sul seggio papale, ecco una notizia che vela, o pretende di farlo, il clima di umanissima, rivoluzionaria comprensione che proprio Francesco ha irradiato sulla Chiesa. Vero o falso?».
Vuoi dire che hanno colpito te per colpire Papa Francesco? «Nessun altro quadro mi garantisce che tutte le tessere del modesto mosaico vadano al loro posto, in pace, senza incongruenze. Francesco è l’uomo che sta mettendo sotto-sopra i vecchi ordini del Vaticano, i suoi comportamenti, la sua linea strategica, i suoi valori testimoniati nel rito e nella quotidianità. Te l’ho detto: questo è l’uomo per il quale il denaro è lo sterco del diavolo, il capitalismo irresponsabile è un male; sostiene che gli uomini della Chiesa non sono santi, che non rappresentano Dio, ha fatto saltare il banco dello Ior. Questo papa sta mettendo alla gogna una storia quasi fondativa del potere temporale e persino morale della Chiesa, sta attaccando e demolendo centri di potere visibili e non visibili, come si fa a non riconoscere in tutto ciò una potente rivoluzione?».
Ok, hai messo a fuoco il bersaglio, ma stai disegnando uno scenario grandioso, qualcuno sosterrà che ti piacciono i fondali gotici...
«Che dicano: il ruolo di Papa Francesco è grandioso. E il Vaticano raramente si è distinto per gentilezza d’animo, di propositi e soluzioni. Vedi quel che è accaduto a Papa Luciani, Giovanni Paolo primo. Anche lui aveva iniziato a mettere
in discussione alcuni capisaldi di un potere millenario e gli è andata male, molto male: c’è qualcuno che in cuor suo non abbia pensato “ecco, lo hanno ammazzato” quando fu trovato senza vita dopo una tisana serale? Questo Papa è andato a Lampedusa e di quella vergogna in cui hanno smistato i residui umani di una immensa strage ha detto cose che nemmeno la politica più attenta e radicale ha mai avuto il coraggio di dire. Avrà nemici in Vaticano, oppure son tutti contenti e gli vanno appresso senza fiatare, senza resistere, senza mettergli i bastoni tra le ruote mentre lui gli porta via le auto di lusso, i ristoranti, le collane d’oro, le parole infingarde, un’aura di santità fatta col neon?».
Accidenti, dovevi fare il commissario. Quindi, sei capitato nel bel mezzo di un complotto internazionale?
«Senza merito, ma sì, è così, penso così. Adesso, un bel po’ di gente è autorizzata a ritenere che la magnifica onda di Francesco si sia fermata in quella sala dell’Auditorium dove è rinata la censura più odiosa ai danni di un artista modestamente io che si è mosso con largo anticipo proprio lungo la traiettoria critica nei confronti del Vaticano seguita da Papa Francesco; e, di più, spolverando la originale bellezza del messaggio cristiano, la sua carica rivoluzionaria portata avanti coi cannoni dell’amore e della comprensione».
Non siam degni, ma accettiamo. Che stai dipingendo?
«Un grande quadro. È la scena della scuola Diaz di Genova, violentata da decine di poliziotti che irrompono nella notte di anni fa durante il G8 in un grande dormitorio di ragazzi pacifici e democratici presi a calci e pugni mentre dormivano. Oggi sono a Genova per uno spettacolo che racconta proprio questo. Il quadro lo regalo ai “figli” di Don Gallo, loro lo venderanno e a qualcosa servirà il denaro così ricavato».

l’Unità 2.11.13
La sfida della nuova socialdemocrazia
Intervista al sociologo Colin Crouch oggi al Salone dell’Editoria Sociale
di Giuliano Battiston


«Il movimento politico dovrebbe adottare un “doppio passo” riconoscendo la continuità con la sua tradizione storica ma allo stesso tempo rinnovandosi. Per dare ossigeno ai nuovi ceti sociali e a un’altra Europa»
Il problema principale resta il potere. L’attuale capitale globale può esercitare una potenza tremenda

NEL SUO ULTIMO LIBRO, MAKING CAPITALISM FIT FOR SOCIETY, APPENA USCITO IN INGLESE PER POLITY PRESS E NON ANCORA TRADOTTO in italiano, il sociologo inglese Colin Crouch, professore emerito all’Università di Warwick, sottolinea con insistenza il bisogno che la socialdemocrazia diventi «assertiva», che si faccia più audace, che esca dalla postura difensiva degli ultimi anni, perché il suo compito rappresentare quanti nel sistema capitalistico hanno meno potere è un «compito permanente, oggi più attuale che mai».
Per farlo, sostiene l’autore di Postdemocrazia e de Il potere dei giganti (entrambi pubblicati da Laterza), la socialdemocrazia dovrebbe adottare un «doppio passo», riconoscendo la continuità con la sua tradizione storica ma allo stesso tempo rinnovandosi, così da rispondere alle esigenze e alle caratteristiche della società attuale, postindustriale. Stamane Colin Crouch parteciperà alla quinta edizione del Salone dell’editoria sociale per parlare de «La società dei diseguali. Welfare, politica ed economia dentro la grande crisi». Abbiamo approfittato della sua presenza a Roma per porgli alcune domande.
Professor Crouch, partiamo proprio dalla più difficile: che volto dovrebbe avere il nuovo progetto socialdemocratico?
«Sono tre le strade da seguire: in primo luogo, riconoscere sia i vantaggi del mercato, sia i suoi limiti. Accettarne apertamente i vantaggi rende più convincente la nostra insistenza sui seri problemi che provoca. La definizione di tali problemi è il secondo aspetto: l’ingresso del mercato in ogni ambito della nostra vita provoca delle vittime, danneggia degli interessi, che non possono essere né protetti né ricompensati dal mercato stesso. Per questo, servono interventi sia dello stato sia di altri soggetti. Il compito specifico della socialdemocrazia contemporanea è quello di distinguere tra questi interessi, individuando quelli che vanno sostenuti non tutti lo sono e unificando quelli che possono rendere la società più equa (come i problemi dell’ambiente e della precarietà sul mercato del lavoro). Infine, dobbiamo comprendere la natura dei nuovi ceti sociali dell’economia post-industriale, che ancora non hanno trovato un’autonoma espressione politica. Il blairismo della cosiddetta “Terza via” aveva ragione a pensare che il centrosinistra non potesse più essere espressione della classe operaia industriale, ma aveva torto nel dimenticare il radicamento in questi ceti sociali, la cui caratteristica è l’essere costituiti prevalentemente da donne. Questo vuol dire che, così come nella società industriale gli interessi di tutti venivano definiti secondo una prospettiva maschile, nel nuovo progetto della socialdemocrazia postindustriale tali interessi vanno definiti secondo una prospettiva femminile».
Uno dei problemi della socialdemocrazia rimane però la difficoltà a comprendere chi rappresentare e come farlo. Per evitare l’irrilevanza o l’ulteriore, progressivo ridimensionamento della propria base sociale, ai partiti di sinistra e ai sindacati lei suggerisce un rinnovamento nella forma organizzativa (meno centralizzata) e nell’identità politica (meno monolitica e ortodossa). Come rinnovarsi senza perdersi?
«Si tratta di una sfida difficile. Le nuove generazioni non accettano più i vecchi modelli organizzativi (un problema che riguarda anche le aziende). Cercano e inventano nuovi modelli, meno formali. Il movimento socialdemocratico si è sviluppato nel periodo del capitalismo e della politica delle grandi burocrazie, ma di fronte ai cambiamenti della società sarebbe uno sbaglio se mantenesse quelle caratteristiche. Inoltre, ai suoi esordi il movimento operaio si è sviluppato in una società dominata da forze antagoniste, di natura aristocratica, borghese, ecclesiale. E in molti Paesi ha cercato di costruire un vero e proprio mondo a sé, una diversa cultura. Si trattava di una risposta difensiva, di una reazione a una situazione ostile. Oggi una strategia isolazionistica sarebbe quasi impossibile, oltre che inutile. Le idee del welfare state, dei diritti universali, di un certo livello di uguaglianza della cittadinanza, sono molto diffuse nelle istituzioni, nei tribunali, nelle scuole, nelle università. In un certo senso sono i neoliberisti a dover contrastare queste idee dominanti, oggi. È un’occasione da non perdere. La perderemmo se il movimento socialdemocratico si richiudesse in se stesso».
Nei suoi libri «Il potere dei giganti» e «Making Capitalism Fit for Society», lei stesso però riconosce il grande paradosso del nostro tempo: il neoliberismo è all’origine della crisi, dell’insicurezza sociale ed economica di molti lavoratori, ma rimane l’ideologia politica dominante, mentre i socialdemocratici restano sulla difensiva. Perché?
«Il problema principale è il potere. L’attuale capitale globale può esercitare una potenza tremenda, in termini economici e politici. Come può essere contestata una simile concentrazione di potere da una forza politica che rappresenta la gente “normale”, senza grandi risorse e senza un’idea chiara della propria identità politica? In ogni caso, benché potente in termini economici e politici, il neoliberismo non è altrettanto forte quanto a consenso nei sentimenti popolari. I partiti politici più o meno “puramente” neoliberali sono minoritari come in Germania il Freie Democratische Partei, che dopo le ultime elezioni ha perso i suoi seggi nel Bundestag. Per questo il neoliberismo ha sempre bisogno di alleanze, sia con la democrazia cristiana sia con forze particolari come il Tea Party negli Stati Uniti». Nonostante le forti critiche che rivolge alle politiche di austerità, lei continua ad attribuire all’Unione europea «il compito principale di costruire alternative praticabili al neoliberismo dentro una cornice capitalistica». Cosa possiamo realisticamente aspettarci dall’Unione europea? E come risponde a chi, anche a sinistra, è tentato dal ritorno al nazionalismo economico e al protezionismo, come risposta alla crisi?
«Affrontare i problemi di natura globale con un ritorno alle politiche nazionali sarebbe un progetto alla Don Chisciotte, oltre che un ritorno a un passato irrecuperabile. Uno dei problemi dei nostri giorni è che abbiamo forze economiche globali e democrazie nazionali. Si tratta di una lotta impossibile. In un contesto globale, i singoli stati europei perfino la Germania sono soggetti più piccoli e deboli dei grandi attori del futuro: gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, gli altri pPaesi Brics. Tra questi, nessun Paese vanta politiche sociali come quelle europee, le quali, benché minacciate, continuano a offrire sistemi di welfare-state avanzati e sindacati protagonisti della vita pubblica. Senza delle istituzioni europee forti e democratiche tutto questo andrà perso. So bene che l’attuale Unione europea è nemica dei miei valori politici e sociali, ma dobbiamo provare a cambiarla. Non vedo alternative. Di certo, non è un’alternativa né il nazionalismo economico né il protezionismo, che rimane una politica di destra, se non fascista, che protegge solo i grandi imprenditori. A farne le spese sono la maggioranza del popolo e le piccole imprese».

L’INCONTRO A ROMA
Il tema di quest’anno è «La grande mutazione»

Promossa dalle Edizioni dell’Asino, dalla rivista “Lo Straniero”, dalle associazioni Gli Asini e Lunaria, dall’agenzia giornalistica Redattore sociale e dalla Comunità di Capodarco, la quinta edizione del Salone dell’editoria sociale è dedicata al tema de «La grande mutazione». 130 ospiti italiani e stranieri, 40 editori e organizzazioni del volontariato, 42 incontri su economia e politica, cultura e società, etica e diritti, fino a domenica 3 novembre negli Spazi di Porta Futuro, a Roma, a via Galvani 108.

Corriere 2.11.13
Il nuovo libro di di Sandra Bonsanti, Il gioco grande del potere
Il duello infinito tra le due Italie
di Corrado Stajano


Un terribile libro questo di Sandra Bonsanti, Il gioco grande del potere (Chiarelettere, pagine 240, e 12,90). La speranza è che non scivoli via come quasi tutto in questo infelice Paese dove la compromissione è sovrana, dove la tragedia tarda poco a diventare commedia, dove i tempi di normale vita democratica e civile non sono numerosi, subito sopraffatti dall’intrigo e dalla voglia di stare in pace lasciando in un angolo la coscienza che è pur sempre una parola astratta.
Che cosa racconta Sandra Bonsanti, giornalista di prestigio, già parlamentare progressista, ora presidente dell’associazione Libertà e Giustizia? Ha rivisitato la memoria, la vita italiana degli ultimi decenni del Novecento fino a oggi, ha tirato fuori da una cassapanca i suoi taccuini di cronista curiosa, li ha riletti, spesso con raccapriccio, e ne ha tratto questo libro scritto con sereno coraggio. Certo, impressiona ritrovare una pagina dopo l’altra quel che si è vissuto, sofferto e anche dimenticato.
Il libro è popolato dei fatti atroci che hanno bloccato via via il progredire della Repubblica, rimasti il più delle volte privi di verità e di giustizia: stragi, delitti, piazza Fontana, l’assassinio di Aldo Moro, la P2, le misteriose carte nascoste in Uruguay, Gladio e la Cia, il Noto servizio; Sindona, Calvi; i golpe tentati, la Rosa dei venti, Sogno, Borghese; la strategia della tensione studiata a tavolino e un’infinità di morti innocenti uccisi perché in nome di un’Italia pulita hanno fatto il loro dovere, magistrati, uomini dello Stato, politici, preti, giornalisti e, con loro, gli agenti delle scorte dai nomi dimenticati.
Lo Stato e l’Antistato sono i protagonisti del libro: «Ancora una volta Stato e servitori fedeli contro Antistato e servitori infedeli. Potere occulto e potere palese». Lo Stato di diritto sempre in bilico perché tutto, ruoli e personaggi, è spesso mescolato in una maionese impazzita e fuorilegge.
C’è sempre l’altra Italia alla quale Sandra Bonsanti è appassionatamente vicina: «Abbiamo avuto Andreotti e Sindona — scrive — , ma anche Ugo La Malfa e Giorgio Ambrosoli. Abbiamo avuto Carmelo Spagnuolo e Cossiga e Gladio, ma anche Sandro Pertini. Abbiamo avuto Berlusconi e Dell’Utri, ma anche Falcone e Borsellino. Abbiamo avuto Licio Gelli, ma anche Occorsio e Minervini e Tina Anselmi e Norberto Bobbio. Dunque lo Stato è esistito e resiste oltre l’Antistato che è in lui. Per questo è ancora possibile, oggi, distinguere e credere (...). “Gente pacifica ma dura”, aveva scritto Giovanni Ferrara. Gente che continuerà sempre a fare quello che può e “certo sarà più che nulla”».
La speranza è un diritto del cuore, ma l’eterna minoranza che dal Risorgimento alla Resistenza a oggi ha tenuto in piedi il Paese è perennemente sconfitta e si trova sempre di fronte a implacabili muri che si riproducono in una sorta di naturale cariocinesi.
Da Gelli a Craxi a Berlusconi la continuità è stata assicurata. Il Piano di rinascita democratica fatto scoprire il 4 luglio 1981 all’aeroporto di Fiumicino dalla figlia di Gelli è stato un po’ il catechismo di questi decenni. E infatti l’uomo di villa Wanda ha reclamato, più o meno ironicamente, i diritti d’autore. Il passato che non passa, anche qui da noi?
Nel libro ci sono pagine molto belle, il ritratto di Tina Anselmi, la dc limpida che guidò con mano ferma, rischiando anche di persona, la Commissione P2, odiata dall’Italia del sottosuolo, quasi una sorella maggiore per Sandra. E poi Sandro Pertini, un altro anomalo della politica italiana, «trasmetteva onestà, emanava fraternità e giustizia e lealtà repubblicana». Non nasconde la commozione l’autrice nella pagina che racconta del presidente mentre lascia il Quirinale.
«La Repubblica ha retto, ma a quale prezzo!», scrive Gustavo Zagrebelsky nella postfazione del libro. La politica deve rinnovarsi. Come? Rispettando la Costituzione: è questo, in nome della salvezza del Paese, conclude così il suo scritto, il senso della battaglia di Sandra Bonsanti nel corso d’una vita d’impegno civile.

Corriere 2.11.13
Non si può restare inerti di fronte al negazionismo
di Liliana Picciotto


Capita spesso che si chieda agli studiosi di storia un parere sull’opportunità di una legge contro il negazionismo (la negazione della Shoah). Io però non penso che sia la comunità degli storici, cui appartengo, a dover rispondere. Non stiamo infatti parlando di storia, né di interpretazioni storiche contrapposte, perché quello dei negazionisti (come l’inglese David Irving o il francese Robert Faurisson) è un progetto politico e culturale. È un disegno inteso a destrutturare ciò che tutti noi, cittadini di buona volontà, ebrei e non ebrei, abbiamo cercato di costruire dal dopoguerra. Un’idea di convivenza, di solidarietà, di conflitti tenuti sotto controllo, un mondo insomma più vivibile rispetto al passato. Il progetto negazionista indica la strada dello scetticismo programmatico, dell’offesa alla dignità umana, della malevola interpretazione del nostro passato. Penso che sia un grave errore lasciarlo propagare nelle aule delle scuole e delle università. I nostri ragazzi hanno il diritto di essere tutelati nel coltivare valori di convivenza, di solidarietà, di altruismo, di senso civico e noi abbiamo il dovere di difendere questo loro diritto.
Molti intellettuali chiedono, non senza fondamento, che il progettato disegno di legge contro il negazionismo non prosegua il suo iter, in nome della libertà di opinione e di ricerca storica. Ma attenzione! Così avremmo salvato la dignità del nostro sapere, ma avremmo compromesso fortemente la nostra possibilità di indicare ai giovani che cosa sia il male da non ripetere mai più. Ci aspettano scelte difficili, ma non possiamo permetterci di tollerare il proliferare di falsità e pensare di combatterle con le nostre corrette argomentazioni e con la cultura. È una questione di grado di civiltà raggiunta e noi non siamo pronti. La libertà non può essere senza limiti e trasformarsi in licenza di insultare. Non so quale sia la formula giuridica migliore per fermare i negazionisti. Mi rendo conto che una legge potrebbe essere inefficace, perché la materia è troppo magmatica per poter essere definita univocamente: pure, essa avrebbe un forte valore simbolico, una specie di dichiarazione di intenti di un ipotetico codice etico virtuale condiviso. Del resto, non abbiamo già un Comitato nazionale di bioetica, chi si scandalizza per quello?

Corriere 2.11.13
Dove punta la freccia del tempo
Si può indirizzarlo verso il potere, la felicità o il miglioramento dell’umanità
di Jacques Attali


Il tempo è intangibile, sfuggente; e tuttavia, gli uomini si sono sempre sforzati di dominarlo, allo scopo di accrescere il proprio potere. Misurare il tempo fu il primo metodo che utilizzarono per cercare di dare un significato a qualcosa che non riuscivano ad afferrare. Poi le istituzioni politiche colsero le importanti implicazioni connesse con la misurazione del tempo: imponendo un particolare sistema di riferimento, potevano influenzare il modo in cui gli individui gestivano il proprio tempo e, entro certi limiti, definire i ritmi della società.
Molti leader politici, dagli imperatori cinesi e romani ai rivoluzionari francesi, istituirono così degli specifici calendari, nel tentativo di asservire il tempo alle proprie ambizioni. Altri ravvisarono nel concetto di posterità la possibilità di sfidare e sconfiggere il tempo; la realizzazione di opere in grado di perpetuare la loro fama presso le generazioni future li avrebbe messi in grado di diventare parte della storia dell’umanità e di liberarsi così dal vincolo primario cui gli uomini sono assoggettati: il tempo di vita che è loro concesso. Altri ancora tentarono di raggiungere lo stesso scopo dominando un altro elemento: lo spazio. Da Alessandro il Grande a Napoleone o alla regina Vittoria, furono i primi ad immaginare un governo globale e, per realizzarlo, si sentirono spinti a conquistare interi continenti.
L’ambizione a dominare il tempo, tuttavia, non si è tradotta soltanto in azioni. A modo loro, anche i pensatori hanno tentato di soggiogarlo. L’hanno fatto decifrando le leggi della storia e applicandole alla loro epoca, per formulare previsioni sul futuro. Con questo procedimento hanno spesso attribuito un significato specifico agli eventi del passato, e una direzione alla storia. Karl Marx, per esempio, vedeva nella lotta di classe la forza motrice della storia dell’umanità, e interpretava le diverse ere — feudalesimo, società borghese — come passaggi verso l’evoluzione finale: l’avvento della società comunista.
Un simile approccio offre il fianco alle critiche dei detrattori, perché la «fine della storia» è tutt’altro che prevedibile. Il concetto stesso di una progressione lineare della storia è discutibile, e può persino apparire assurdo a chi percepisce il tempo come un ciclo. Così come la notte si succede al giorno e le stagioni si alternano, la storia sarebbe condannata a ripetersi e gli avvenimenti a reiterarsi. Gli uomini dovrebbero accettare questa fatalità, e i loro sforzi di dominare il tempo e appropriarsene risulterebbero vani. Ciò non significa, tuttavia, che debbano rassegnarsi all’impotenza, perché c’è almeno una cosa sulla quale hanno assoluto controllo: il modo in cui impiegano il tempo. Certo, ognuno ne ha poco a disposizione, ma è proprio questo a renderlo così prezioso. Gli uomini non possono regalare o vendere il tempo loro concesso, ma possono condividerlo, il che ne accresce il valore. Valga da esempio la musica: condividere tempo e arte con altri musicisti e con il pubblico è la chiave del successo dei concerti dal vivo. Allo stesso modo, la disponibilità dei professori a condividere con gli studenti tempo e conoscenze costituisce il fondamento dell’istruzione.
Ogni singolo individuo dovrebbe sforzarsi di sfruttare al meglio il proprio tempo e, grazie a queste o altre attività, utilizzarlo per costruire la propria felicità e per contribuire a quella del genere umano. Dovrebbe vivere più vite in una e impiegarle per lasciare ai figli un mondo migliore di quello che ha ereditato dai genitori. Soltanto così il suo operato raggiungerà davvero la posterità, come spiegò Denis Diderot a Voltaire, in una lettera che gli scrisse il 19 febbraio 1758: «Verrà il giorno in cui le ceneri di tutti si mescoleranno. E dunque, che mi potrà mai importare di essere stato Voltaire oppure Diderot, e che a sopravvivere siano le vostre tre sillabe piuttosto che le mie? Bisogna lavorare, bisogna rendersi utili».
(traduzione di Laura Lunardi )

Corriere 2.11.13
Sbiadito nel ricordo è lento nelle attese e veloce nell’amore
di Jacques Le Goff


Il testo è elaborato dall’articolo «I don’t know what time is», pubblicato nel numero 65 della rivista «World». La traduzione è di Laura Lunardi

Il tempo è un fenomeno dalle molteplici sfaccettature. L’uomo ha cercato di imprigionarlo servendosi di strumenti che ha migliorato nel corso dei secoli, dalla clessidra con i suoi tre minuti di sabbia alla meridiana, fino alla rivoluzionaria invenzione dell’orologio meccanico. Ma il tempo degli individui elude tali misurazioni, perché è il tempo sbiadito dalla memoria, il tempo lento delle attese, quello veloce della paura e dell’amore. Di rado è solo tempo naturale; è inoltre caratterizzato dal contesto sociale e culturale.
L’esempio più eloquente è il campanile, simbolo del tempo connesso con le esigenze spirituali. Oppure il calendario. Per noi storici, il tempo è l’oggetto di una scienza che è essenziale per l’uomo e che, seppure basata sull’oggettività e sui fatti, non può liberarsi dalle manipolazioni sociali e culturali, costringendoci a venire a patti con i molteplici aspetti del medesimo momento.
Nella nostra era siamo testimoni dell’evoluzione delle relazioni temporali nell’universo, il movimento verso la globalizzazione, i cui risultati non siamo purtroppo in grado di prevedere: il futuro resta un enigma.
Il tempo racchiude in sé la lentezza delle ere geologiche ma anche i rapidi tempi individuali del quotidiano di ciascuno di noi.

l’Unità 2.11.13
Fuoco e ghiaccio
A Firenze la mostra sull’Avanguardia Russa che guardava a Oriente
A Palazzo Strozzi le opere di Malevic, Kandinskij, Bakst, Filonov e Gontcharova, ma anche ottimi artisti minori
Un fil rouge che si srotola fino al Giappone. Peccato per l’allestimento fin troppo didascalico
di Marco Di Capua


MATCH GEOPOLITICO E GUERRA CULTURALE SEMIFREDDA TRA DUE GRANDI MOSTRE ATTUALMENTE IN ITALIA. PERCHÉ, mentre a Palazzo Reale di Milano dominano Gli Irascibili, e cioè Jackson Pollock & Company, e dunque in filigrana leggi l’America liberal che dai Kennedy arriva a Obama, a Palazzo Strozzi di Firenze c’è Putin. Nel senso che questa interessantissima esposizione, L’Avanguardia russa. La Siberia e l’Oriente (fino al 19 gennaio) respira forte, a pieni polmoni, il vento di recupero nazionale e imperiale che oggi soffia da Mosca e in tutte le direzioni e le terre e le piccole patrie dell’ex Urss.
Ne parliamo tra un attimo, però prima, già che ci siamo andati e abbiamo toccato con mano, diciamo ciò che nella mostra è proprio brutto. Mio Dio, l’allestimento. Un disastro.
In totale e quasi simpatica controtendenza con il trend attuale tutto less is more perfino ove si tratti di mettere i cartellini coi nomi degli autori e le date, ecco un massiccio bombardamento a tappeto di intrusioni storico-didascalico-pedagogiche, viste come trionfo, intaso e accumulo ossessivo del «tranquilli, adesso vi spieghiamo tutto noi!», attraverso tazebao e manifesti esplicativi e perfino disquisizioni sporgenti ad altezza ginocchio (attenti alla rotula!), con invasive domande tipo: «che rapporti hai con il cyber-spazio?». E ciò accanto o sotto, magari, a un incolpevole Malevic.
IL DIRETTORE RISPONDE
Giro il mio disagio al Direttore di Palazzo Strozzi, James Bradburne, e lui cortesemente ma fermamente obietta così: «Da noi, pannelli e didascalie per famiglie accompagnano ogni allestimento, e in questo caso in cui il tema è complesso un simile accompagnamento era ancora più necessario. Non mi sembra che all’estero si tenda a ridurre l’apparato didattico, era una tendenza ormai superata e risalente agli anni Ottanta. Palazzo Strozzi si basa sulla ricerca, e la ricerca ha dimostrato che gli oggetti “parlano da sé” solo a coloro che sono già informati, una piccola parte del pubblico. Una presentazione “non mediata” fa parte di un approccio non più giustificabile né dalla teoria né dalla pratica. Desideriamo far partecipare il visitatore. Di qui la presenza di domande nel percorso per famiglie e bambini. La dimensione dei testi è dovuta a una precisa volontà di leggibilità».
Ok, ma non ci sono già tutte quelle robe tecnologiche, nelle salette apposite? Non bastano quelle per i piccini, per altro sveltissimi sui touch screen? Bisogna asfissiare e alla fine tramortire così un’opera d’arte? È vero che da una mostra dobbiamo ricavare significati, un qualche senso, ma ciò spetta allo sguardo e a menti concentrate. Accidenti, soprattutto quando contempliamo opere che nacquero invocando una qualche purezza. Il silenzio. Dico questo davanti a una parete, proprio all’inizio del percorso, dove il Cerchio nero di Malevic è confinato sulla sinistra di un pannello che a destra e al centro esibisce la megaspiegazione del quadro medesimo. Stupefacente.
E veniamo al bello. La mostra, curata da John Bowlt, Nicoletta Mister e Evgenia Petrova (catalogo Skira), presenta 130 pezzi, e cioè 79 dipinti, 15 sculture e 36 oggetti di tipo etnoantropologico, per cui qui non solo quadri ma il senso profondo di una fascinazione e di un richiamo, quella per i misteriosi e leggendari Orienti, covati nella pancia turbolenta dell’Avanguardia russa tra Otto e Novecento.
Ci sono i bei nomi: oltre a Malevic, Kandinskij, la stupenda, barbarica Gontcharova, Larionov, Léon Bakst, Filonov, Burljuk. Ma ecco anche, tra i molti, pittori meno noti come lo stupendo, solido fauve Ilja Maskov, Petr Kontchalovskij, o come quel povero Gurkin, che amava dipingere sciamani e laghi ghiacciati e che nel 1937 fu fucilato con l’accusa di spionaggio a favore del Giappone. Infatti qui, ecco un sacco di stampe giapponesi, perché l’occhio laggiù cadeva di preferenza, come si sa. Meno si sapeva dei culti sciamanici delle popolazioni siberiane che sedussero fior di intellettuali. In mostra tamburi rituali e statue paleolitiche e idoli, simboli inquieti degli spiriti dei boschi e del deserti, vezzeggiati e stilisticamente copiati tali e quali nei lavori dei giovani, ferventi primitivisti di allora.
Non sapevo affatto, né me lo immaginavo, che esattamente un secolo fa, nel 1913, fu innalzato a San Pietroburgo il primo tempio buddista, sotto la doppia bandiera russa e tibetana: Nicola II e molti della sua corte erano interessatissimi al Buddismo, praticavano la meditazione, collezionavano oggetti venuti dal Tibet. Dunque, non solo l’orrido Rasputin attorno a quello stravagante, tragico trono?
Ora: un martellamento ritmico di danza pagana echeggia, notoriamente, nella Sagra della Primavera di Stravinsky, ma facendo il viaggio mentale ispirato da questa mostra ti ricordi un’altra cosa. Anzi due, una buona e una cattivissima. Quella buona è Derzu Usala, il piccolo uomo delle grandi pianure. È il film di Akiro Kurosawa, tratto dalle memorie di viaggio in Siberia di Arsenev, del 1923. L’aria e le date e le facce sono quelle lì. Lo spirito di Derzu si aggira per queste sale. Quella cattiva riguarda la storia di Roman Von Urgen-Sternberg, Il Barone sanguinario nel racconto di Vladimir Pozner pubblicato da Adelphi. Accidenti: quando dici il richiamo dell’Oriente, del Buddismo... E poi lo impasti con la reazione, con il viscerale, disperato disgusto per ciò che è «moderno». Urgen, a capo di un ferocissimo esercito paranazista e razzista di mongoli, cosacchi e tibetani si credette Gengis Khan, terrorizzò intere popolazioni a est della Russia, ammazzò migliaia di comunisti e di ebrei, e finì, con gran sollievo generale, fucilato su ordine di Lenin.
Storie di fango e di sangue, figure del Buddha assise tra i falò di accampamenti notturni, di assedi, di massacri. Che l’aria a Palazzo Strozzi non sia esattamente quella di un delicato, tenero vagheggiamento new age lo conferma la presenza del tatuatissimo Nicolai Lilin lo scorso 29 ottobre. Sapete, quello di Educazione siberiana. L’argomento che propone è: «La mia Siberia. Una terra di confini e al centro dell’Universo». (Prima dell’uso leggere attentamente le avvertenze).

Repubblica 2.11.13
La nuova biografia dell’autore del “Maestro e Margherita” della Cudakova: un viaggio nella vita dello scrittore più amato e censurato dell’Unione Sovietica
Michail Bulgakov
Stalin gli telefonò per vietargli di espatriare
Gli sibilò minaccioso nella cornetta: «Le siamo venuti tanto a noia?»
di Roberto Brunelli


Strani quaderni, con tutte le pagine strappate a metà. Sono le prime stesure del Maestro e Margherita. «I manoscritti non bruciano», è una delle folgorazioni proverbiali di Michail Bulgakov: ma lui i suoi li aveva gettati alle fiamme, eccome. C’era una grande stufa rotonda, nella stanza. Misha cominciò a strappare le pagine e a gettarle nel fuoco. «Ma perché non bruci i quaderni per intero?», gli chiede Elena Seergevna, la terza moglie. La risposta è degna del suo capolavoro: «Se brucio tutto, nessuno crederà che il libro sia davvero esistito». Lo racconta Marietta Cudakova, che allo scrittore più controverso della letteratura russa ha dedicato tutta la vita, tanto da arrivare ad essere presidente della Fondazione Bulgakov. Oggi il suo lavoro — un imponente volume di 476 pagine — grazie all’editore Odoya vede la luce in Italia (prima ancora che in Russia), arricchito e rielaborato rispetto alla sua unica e quasi leggendaria edizione, nel 1988.
Un’occasione per entrare nella straordinaria e oscura galassia Bulgakov: detestato dal potere ma bizzarramente stimato da Stalin, gettato ai margini, dimenticato, riscoperto, celebrato (postumo), di nuovo spinto verso l’oblio, finalmente ricollocato tra le voci più alte del Novecento. Figlio di un dottore di teologia e medico militare convertito alla letteratura, la sua vita è una specie di declinazione di ogni immaginabile censura: per gli scriba di regime era un dovere impellente “raddrizzare” la sua biografia. «Virtuosistici giri di parole», scrive Cudakova, per sorvolare su quelle che venivano considerate le sue “zone d’ombra”. Squisitamente sovietico, per esempio, l’aneddoto della celeberrima telefonata di Stalin. Il “piccolo padre” chiama l’autore e drammaturgo da lui tanto apprezzato (pare che se ne siano registratealmeno quindici presenze in platea quando andava in scena I giorni dei Turbin) sostanzialmente per vietargli di espatriare. E per sibilare nella cornetta: «Le siamo venuti tanto a noia?». La versione di un letterato come Viktor Petelin è questa: «Quella telefonata lo restituì all’arte! ». Affermazione «vergognosa», annota Cubakova, visto che da «quella famosa telefonata alla morte lo scrittore non pubblicò una sola riga».
È emblematico che la censura bulgakoviana cominci dallo stesso Bulgakov. Lui stesso cercò, infatti, di cancellare ogni traccia del primo testo a sua firma mai pubblicato. Certo: gli sarebbe potuto costare le penne. È l’articolo dal titolo “Prospettive venture”, apparso il 26 novembre 1919 sulla rivistaGroznyj, che la Cudakova scova solo dopo la prima edizione del suo libro, grazie ad anni di ricerche. È un fiume di lava, tenebroso e apocalittico, realizzato da Michail quand’è ancora medico militare in Cecenia, dove «i cosacchi insanguinati muoiono fra le mie braccia»: questa rivoluzione — scrive il ventottenne Bulgakov «è una follia. Molto sangue scorrerà, giacché dietro a Trockij si accalcano i pazzi armati che ha accalappiato, e la nostra non sarà vita, ma uno scontro mortale». Non è un caso che lo scrittore abbia conservato solo brandelli di quel giornale, un frammento della testata (esclusivamente le tre lettere “rzn”), la data e le proprie iniziali: ancora decenni dopo la sua morte (per nefrosclerosi, nel 1940), veniva “rimosso” tutto ciò che poteva nuocere a lui e alla pubblicazione della sua opera.
Quell’autunno del 1919 Michail e la sua prima moglie lasciano Groznyj. La guerra infuria. «Vivevamo in treno, vagone passeggeri o carrozza merci che fosse», racconta la bella Tat’jana. Si stabiliscono a Beslan. Quasi un’oscura profezia.

IL LIBRO Michail Bulgakov. Cronaca di una vita di Marietta Cudakova (Odoya pagg. 476 euro 30)

Repubblica 2.11.13
Ma quando arriveranno  i giorni felici della rivoluzione?
Pagheremo per generazioni questa nostra rivoluzione
Tardi, tardissimo, ricominceremo a fare e a creare Chi vedrà questi giorni felici? Noi? Figurarsi! I nostri figli, forse, o forse i nostri nipoti
di Michail Bulgakov


Ora che la nostra patria sventurata ha toccato il fondo nel baratro della vergogna e della sciagura nelle quali l’ha costretta la “grande rivoluzione sociale”, molti di noi si ritrovano con lo stesso pensiero in testa. Un pensiero ostinato. Che cupo, fosco, si offre alla nostra coscienza ed esige imperiosamente una risposta. È un pensiero semplice: che ne sarà di noi? Ed è un pensiero ovvio. Abbiamo analizzato a fondo il nostro passato recente. Abbiamo sviscerato ogni singolo istante – o quasi – degli ultimi due anni. E oltre a sviscerarli, molti di noi li hanno persino maledetti, quegli istanti.
Il presente ce l’abbiamo davanti agli occhi. Ma è tale che viene voglia di chiuderli, gli occhi. Pur di non vedere. Ci resta il futuro. Incerto, ignoto. E davvero, che ne sarà di noi?...
Di recente mi sono capitati per le mani alcuni numeri di una rivista illustrata inglese. Ho fissato a lungo, incantato, quelle foto meravigliose. E a lungo – molto a lungo – ho riflettuto… Il quadro è oramai chiarissimo. Giorno dopo giorno, dentro enormi fabbriche macchine enormi divorano spasmodicamente carbone su carbone e battono e rombano e riversano colate di metallo fuso per rimpiazzare altre macchine che fino a poco fa hanno forgiato la vittoria seminando morte e distruzione. A Ovest la grande guerra di grandi popoli è finita. Ed è giunto il tempo di leccarsi le ferite. Si rimetteranno in piedi presto, là, prestissimo! E tutti coloro che – finalmente – a mente fredda hanno smesso di credere al patetico delirio di chi sostiene che la nostra perfida malattia contagerà anche l’Occidente, vedranno l’impresa titanica che condurrà i paesi occidentali a vette inaudite di potenza pacifica. E noi? Noi resteremo indietro… E resteremo tanto indietro, che nessuno dei profeti di oggi saprà mai dirci quando – e soprattutto se – potremo mai raggiungerli. Perché questo è il nostro castigo. Al momento per noi èimpensabile creare. Al momento il nostro scopo è riconquistare la nostra stessa terra. Siamo alla resa dei conti. Palmo a palmo gli eroici Volontari strappano la terra russa dalle mani di Trockij. E tutti, tutti quanti – chi, impavido, fa il proprio dovere e chi esita nelle retrovie del Sud convinto che il paese si salverà anche senza di lui – attendono con fervore che la patria sia liberata. E lo sarà.
Perché anche noi abbiamo i nostri eroi, ed è un crimine pensare che la patria sia morta. Ma dovremo combattere, e molto sangue scorrerà, giacché dietro a Trockij si accalcano i pazzi armati che ha accalappiato, e la nostra non sarà vita, ma uno scontro mortale.Dobbiamo combattere. E mentre in Occidente si udrà il fragore delle macchine che creano, da un estremo all’altro del nostro paese si leverà solo il fragore delle mitraglie. La follia degli ultimi due anni ci ha costretti a un viaggio tremendo, senza soste né riposo. Abbiamo portato alle labbra il calice del castigo e dobbiamo berlo fino alla feccia. L’Occidente si accenderàdi mille luci elettriche, gli aviatori addomesticheranno il cielo, e si costruirà, si studierà, si pubblicheranno libri e si insegnerà...
Mentre noi… Noi combatteremo. E non c’è nulla che possa cambiare questa situazione. Noi dovremo conquistare le nostre città. E le conquisteremo. Memori del nostro sangue versato come rugiada sui campi e di come abbiamo scacciato i tedeschi da Parigi, gli inglesi ci presteranno cappotti e scarponi per arrivare presto a Mosca. E noi ci arriveremo. Pazzi e canaglie verranno cacciati, dispersi, annientati. E la guerra finirà. E allora il nostro paese distrutto e insanguinato si rimetterà in piedi… Lentamente, faticosamente. Chi si lamenta per la “fatica” dovrà ricredersi. E dovrà “faticare” ancora di più… Dovremo pagare per il nostro passato con una fatica colossale e una vita di rigorosa povertà. E dovremo pagarlo in senso lato e nel significato letterale del termine. Dovremo pagare per la follia di marzo e di ottobre, per i nazionalisti ucraini traditori, per aver rovinato gli operai, per Brest, per l’uso folle della zecca di Stato… Per tutto quanto! E pagheremo. Tardi, tardissimo, ricominceremo a fare e a creare quanto serve per essere ammessi a pieno titolo nei giardini di Versailles. Chi vedrà questi giorni fe- lici? Noi? Figurarsi! I nostri figli, forse, o forse i nostri nipoti, giacché la storia legge i decenni come fossero anni.
E noi che siamo stati parte di una generazione patetica e che moriremo da falliti, ci vedremo costretti a dire ai nostri figli: «Pagate, pagate tutto con onestà e serbate eterna memoria della rivoluzione sociale!».

Traduzione di Claudia Zonghetti L’articolo che pubblichiamo, apparso in Italia solo sulla rivista Slavia, è contenuto in Michail Bulgakov. Cronaca di una vita in uscita da Odoya il 4 novembre

Repubblica 2.11.13
Ecco perché abbiamo bisogno dei baci
Le risposte in una indagine degli psicologi della Oxford University
Eccitazione, affetto ma anche un sistema per selezionare il partner
di Enrico Franceschini


Lo fa una sola specie, fra tutte quelle che popolano la terra: gli esseri umani. E fra gli umani lo fanno tutte le razze, a ogni latitudine, in ogni cultura. Perché, dunque, lo facciamo? Perché tutti i bipedi pensanti del pianeta si baciano, bianchi e neri, ricchi e poveri, religiosi e atei, mentre nessun’altra creatura vivente compie un gesto del genere? La domanda può apparire oziosa: lo facciamo perché ci piace, e basta. Eppure non ci sono comportamenti immotivati per uno scienziato: ogni attività umana, dall’alba dell’Homo Sapiens in poi, e anche da prima, fin da quando i primi ominidi scesero dagli alberi, ha una ragione. Per questo studiosi della Oxford University si sono proposti di studiare il problema e di trovare una risposta a un quesito che può sembrare futile come le frasette infilate dentro la carta stagnola dei Baci Perugina, ma in realtà non lo è, celando segreti importanti sull’evoluzione della nostra specie. Cos’è un bacio, dunque, oltre che “un apostrofo rosa tra le parole t’amo”, come recita appunto la stereotipata formuletta da cioccolatini? Un’indagine svolta su un campione di quasi mille persone di entrambi i sessi dal professor Rafael Wlodarski della facoltà di psicologia di Oxford, e riportata sulla rivista scientifica Archives of Sexual Beaviour, produce perlomeno tre possibili spiegazioni.
La prima teoria è anche la più semplice: ci si bacia come preludio al sesso. I baci sono un metodo per mettere in moto e aumentare l’eccitazione sessuale. Questo si comprende facilmente oggi giorno, ma era così anche per i nostri progenitori, per gli uomini e le donne delle caverne? Anche per loro un bacio era la scintilla del coito? Gli scienziati di Oxford non ne sono del tutto certi, considerando anche un dato ricavato dalla loro inchiesta: pare che gli uomini siano estremamente interessati a baciarsi prima di fare sesso ed estremamente poco interessati a baciarsi dopo averlo fatto; mentre per le donne, in apparenza, è l’esatto contrario,preferiscono farlo dopo che prima.
Una seconda teoria è che baciarsi sia un simbolo di affetto, di attaccamento e di impegno nella relazione di coppia. Bacio, quindi amo, potrebbe essere il ragionamento razionale e comportamentale, valido fin dalla preistoria. E questa ipotesi regge più della precedente: può darsi che a un certo punto dell’evoluzione della nostra specie, scattando la fiammella di un’intelligenza superiore a quella animale (e del puro desiderio sessuale), uomini e donne abbiano voluto inviare un messaggio al proprio partner, “questa è una cosa seria, mi piaci davvero, voglio restare con te”, e l’abbiano suggellato unendo le labbra al lui o alla lei prescelti. Ciò sarebbe accaduto più o meno nell’era in cui la tribù primordiale era cresciuta di numero e gli accoppiamenti casuali diventavano troppo numerosi, suscitando screzi e tensioni nelgruppo, in modo da formare poco per volta dei nuclei più piccoli: l’inizio delle famiglie, una coppia e i propri cuccioli. Gli scienziati di Oxford lo spiegano in termini non proprio romantici, ma indubbiamente forniti di praticità: “Baciare dimostrava la volontà di esporsi a potenziali pericoli per la salute, come l’influenza, il virus dell’herpes, la meningite e altre malattie”. E dunque a correre dei rischi. Per che cosa? Per amore.
La terza teoria è quasi una derivazione della seconda. Per baciarsi, bisogna stare vicini, per cui diventa inevitabile toccarsi, annusarsi, scoprire eventuali doti o difetti. Per l’uomo e la donna dell’età della pietra, dunque, il bacio era un metodo per selezionare il partner meno puzzolente, più ben fatto (sotto tutto quei peli), maggiormente adatto. A rifletterci, non erano poi così primitivi.