domenica 3 novembre 2013

Guerra per bande nel Pd
Cuperlo ha chiesto di sospendere il tesseramento
ma Renzi dice di no, questa volta tutt’uno con Pittella e Civati...
Il redattore? Alla larga!!!
l’Unità 3.11.13
Tessere gonfiate, rivolta nella base «Un Pd-ogm non serve a chi vince»
Da Lecce a Torino, dalla Sicilia a Roma, centinaia di segnalazioni per il garante Morassut, commissione congressuale: sanzioni per chi ha violato le regole
di Jolanda Bufalini


È accoratissimo l’appello del segretario regionale pugliese, Sergio Blasi, che ha scritto al garante Luigi Berlinguer e ai quattro candidati: «Chiunque vinca rischia di essere una vittoria di Pirro. Un partito gonfiato, un partito Ogm, che cosa se ne fanno. Siamo ancora in tempo, facciamo qualcosa, altrimenti assisteremo impotenti all’abbandono della parte migliore». Lui stesso, dice, «se vince la logica dei notabili, non è questo il mio posto». Il panorama che descrive è uniforme a quello del resto del paese: «Poche persone nel circolo riunite per una discussione breve e superficiale e, fuori, decine di tesserandi sconosciuti alla militanza e all’attivismo. È una questione di dignità della politica, queste sono le primarie dei notabili». Gente che alle primarie nazionali non si presenteranno nemmeno perché si tratta di persone cammellate dai potentati locali, anche micro. Poco importa se a Lecce sostengono il cuperliano, a Catania (congresso sospeso) si sono scannati fra quelli di Enzo Bianco e quelli del sottosegretario di Giuseppe Berretta, a Torino il rinnovamento di Renzi poggia su Fabrizio Morri, sodale di antica data del sindaco Piero Fassino. Quello che conta è il gioco perverso delle tessere, pacchetti da far pesare a prescindere dalle scelte politiche, dai programmi, dalle idee di un partito che si candida al governo del paese.
Vicende che talvolta sono micro ma sono uniformi sul territorio nazionale. Un partito meridionalizzato, un fenomeno già osservato in precedenza ma esasperato dal pasticciato compromesso deciso in 20 minuti nella notte del 27 settembre, dopo mesi di inutile lavoro della commissione: iscrizioni possibili fino all’ultimo minuto, congressi di circolo prima delle primarie nazionali ma sganciati dal dibattito politico. A Frosinone si sono ritirati i candidati, situazioni critiche anche in Veneto.
Microstorie come quella del circolo di Cinecittà, Ivana Della Portella (ex consigliere comunale, ex presidente di Zetema) racconta lo sconcerto che hanno provato «una decina di membri del direttivo», «quando il giovane segretario uscente Gianni de Biase, di fronte alla volontà degli altri di non ripresentarlo, ha risposto picche», «Tanto ha detto i voti ce li ho già». Voti piovuti da dove? Un pacchetto di 150 tessere «già pagate» su 270 iscritti. È la ragione per cui gli iscritti che tengono aperto il circolo, che vi fanno attività politica regolarmente, la settimana scorsa si sono barricati fino a quando non è arrivato Piero Latino, il garante, che ha sospeso le votazioni, bloccato le iscrizioni, promesso una verifica. Si voterà il 5 novembre.
In Piemonte, a Torino i militanti riferiscono di «una valanga di gente mai vista prima in fila al circolo». Ad Asti si è passati da 150 a 700 tessere, di cui 400 l’ultimo giorno del congresso cittadino. E 200 nuovi tesserati sono romeni, «per quanto si tratti di una comunità fortemente radicata», commenta Daniele Viotti, che segue la campagna nazionale per Pippo Civati, «non si era mai vista una presenza così massiccia». In più, a Torino, nei circoli si segnalano episodi di persone andate a votare senza i soldi per fare la tessera, che si sono allontanate per tornare poco dopo con i 15 euro necessari.
Le tessere «Ogm» sono solo un aspetto del gioco perverso. C’è anche il gioco di ostruzione: impedire le iscrizioni, far sparire le tessere, portare via le urne. Come è successo a Enna e, dove il potente Crisafulli controlla il partito, e, segnala Viotti, in altre parti della Sicilia. A Roma al circolo Cotral: «Non ho sentito una parola di moral suasion dice il rappresentante di Civati quando qualche volta una dichiarazione politica conta più di 100 regole».
A Cuperlo rispondono Dario Nardella (Renzi): «Cambiare le regole in corsa sui congressi, senza averlo fatto quando era consentito e opportuno, ora è impossibile. Il tesseramento resta aperto come stabilito, anche perché in caso contrario salterebbe la convenzione». È nella convenzione dei delegati eletti che si voteranno i 3 dei 4 candidati che andranno alle primarie dell’8 dicembre. E Civati: «La colpa sarebbe di chi vuole un congresso aperto, non di chi acquista migliaia di tessere in bianco? Ricordiamo a Cuperlo che qualsiasi norma civile deve poter sanzionare i disonesti, più che scoraggiare gli onesti: la proposta di sospendere il tesseramento ora che gli abusi sono già stati compiuti è tardiva, Cuperlo ci dica piuttosto se è d’accordo ad annullare i congressi sospetti».
Roberto Morassut, della commissione del Congresso, che è stato fra i primi a lanciare l’allarme, è sulla stessa lunghezza d’onda: «Sospendere tutto nell’ultima settima non è possibile. Avremo i numeri dei congressi martedì e ragioneremo sui numeri. Quello che si deve fare è studiare delle sanzioni, dall’annullamento dei congressi alla riduzione del numero dei delegati». Resta il fatto che l’esasperazione della lotta delle cordate «si è esasperata per la mancanza di documenti politici su cui confrontarsi».

il Fatto 3.11.13
Te le do io le primarie
Circoli “finti” e truppe cammellate. La guerra Pd a Roma
Proteste e accuse incrociate. Botte, tessere dopate e ricorsi: profondo Dem
50mila nuove tessere in dieci giorni
Spintoni tra avversari, cadute, ricoveri in ospedale
Anche i candidati se la prendono con le regole nazionali: “Assurdo iscriversi e votare nello stesso giorno”
di Luca De Carolis


A Roma qualcuno gonfia il tesseramento, qualcun altro prova a “gonfiarsi”. Tradotto dal vernacolare, significa picchiarsi. Tradotto in termini politici, vuol dire che nei congressi romani del Pd si è andati oltre il limite. Dalle recriminazioni e dai ricorsi si è passati alle risse. Il corollario della corsa per la segreteria, con quattro candidati e una folla di correnti e sotto-correnti a combattersi con ogni mezzo, tra pacchetti di nuove tessere (5mila in dieci giorni, secondo il reggente Eugenio Patanè) e circoli “fantasma”. Ombre che sono lo sfondo dei congressi in mezza Italia. A Roma la partita è principalmente a due: da una parte l’ex senatore Lionello Cosentino, sostenuto dal demiurgo del Pd romano, Goffredo Bettini, e da un fronte che va dai franceschiani ai popolari, per arrivare a gran parte degli zingarettiani, legati al governatore del Lazio. Dall’altra il consigliere municipale Tommaso Giuntella, uno dei tre “giovani” della squadra di Bersani nelle scorse primarie, appoggiato dai dalemiani e da qualche zingarettiano malpancista, come l’ex segretario romano Marco Miccoli. Gli outsider, il renziano Tobia Zevi e Lucia Zabatta (Civati).
SI È GIÀ VOTATO in oltre metà dei circoli, e per ora Cosentino è avanti con il 41 per cento, mentre Giuntella al 36. Salvo sorprese, sarà decisiva l’assemblea del 9novembre. E forse l’ago della bilancia saranno i voti di Zevi, che viaggia sopra il 16 per cento. Un discreto caos sulla carta, ma molto peggio nella realtà. Lunedì scorso, nel circolo Pd di Vigne Nuove, nella periferia nord-est, sono arrivati la polizia e due ambulanze. Riccardo Corbucci, presidente del Consiglio del III Municipio, è finito in ospedale per trauma cranico, con 5 giorni di prognosi. Sostiene di essere stato aggredito da Claudio Maria Ricozzi, presidente dell’assemblea municipale Pd, che nega e parla di “montatura”. La certezza è che hanno discusso ad altissima voce. Corbucci, sostenitore di Giuntella, ha chiesto di invalidare il congresso locale, bollando Vigne Nuove come uno dei (non pochi) circoli fantasma: sempre inattivi, tranne quando c’è da raccogliere voti. Ricozzi, pro Cosentino, ha replicato atono. Bufera, e alla fine il presunto scontro. Corbucci ha battuto la testa: “sono stato picchiato” ripete. Ricozzi, sentito dal giornale on line Roma Post, replica: “Mi sono avvicinato mettendogli due dita davanti alla bocca per fargli capire che doveva smetterla . E lui è caduto all’indietro: io ho anche cercato di trattenerlo”. Il caso potrebbe tracimare in tribunale (“Ho presentato una denuncia” fa sapere Corbucci). Nervi più che tesi anche nel circolo Pd di Cinecittà, dove il congresso è stato rinviato a martedì. Secondo il blog Monitore Romano, sarebbe scoppiata una guerra interna sul controllo di un centinaio di tessere. Mercoledì scorso alcuni iscritti hanno occupato per protesta l’ingresso delcircolo, e sono stati insulti e e spintoni.
PROBLEMI anche in un altro circolo di peso, quello di Trastevere, dove sono volati stracci tra renziani. Ma tutti accusano tutti, nel Pd romano. La deputata Bonaccorsi, vicina al fu rottamtore, ha fatto notare che “in 7 circoli Cosentino ha preso il 100 per cento”. L’ex capogruppo in Comune replica: “Si è svolto tutto secondo le regole”. Ieri la Zabatta ha parlato di circoli “invasi dalle truppe cammellate di questo e di quel candidato”, per poi invocare: “Chi di dovere intervenga al più presto”. A margine, il giudizio (anonimo) di un maturo dirigente: “Le tessere gonfiate le usano tutti, la guerra è guerra”. Ieri sera dibattito congressuale al circolo Pd Aurelio Cavalleggeri (Roma Nord). Sala piccola e stracolma: età media piuttosto alta, tante donne, molti con il blocchetto degli appunti. A presentare le mozioni Cosentino, Zevi e i rappresentanti degli altri due candidati (il consigliere regionale Mario Ciarla per Giuntella, l’ex parlamentare Vincenzo Vita per Zabatta). Quattro discorsi con un punto in comune: le regole per le primarie sono sbagliate. Ovvero, “non ci si può iscrivere e votare nello stesso giorno”. Nel circolo gli iscritti sono raddoppiati: da 150 a oltre 300. “Ma non devi pensare male, molte sono ex iscritti che si erano allontanati in questi anni” spiega Gianna, a sinistra “dai tempi del primo manifesto”. Sostiene: “Stiamo sempre a votare, tra primarie di ogni tipo. Non facciamo politica, così è una conta continua”. Accanto a lei un signore: “Se mi sta passando la voglia? No, l’idea vale più di tutto”. In sala, i candidati ammettono: “Siamo sui giornali solo per le tessere e le botte, è un segnale di allarme”. I militanti annuiscono, una signora sussurra: “Sono qui perché sono di sinistra, ma iscrivermi a questo Pd, mai”. Enrico Berlinguer la scruta da un vecchio quadro.

il Fatto 3.11.13
Caos tesseramento, duello a distanza tra Civati e Cuperlo


“FERMIAMO il tesseramento”. “No, annulliamo i congressi sospetti, piuttosto”. Gianni Cuperlo e Pippo Civati, due tra i candidati alla segreteria del Pd, ieri si sono affrontati sul tema caldo dei “tesseramenti gonfiati”. E si sono scambiati colpi. Ha cominciato Civati, sul suo blog, irridendo “chi si scandalizza del caso e poi viene appoggiato dai signori delle tessere”. Poi è toccato ai cuperliani, prendere parola. I tesseramenti sospetti e last minute, anche il giorno del congresso, sono troppi? “Civati non parli d’altro. Se le cose non funzionano si devono cambiare. Lasciare che tutto degeneri è da irresponsabili”, ha dichiarato Patrizio Mecacci, coordinatore del comitato pro Cuperlo. A stretto giro di posta è arrivata la contro-replica di Paolo Cosseddu, coordinatore del comitato per Civati: “Comprendiamo l’imbarazzo di chi ha tra i propri sostenitori esponenti incandidabili come il siciliano Crisafulli, tuttavia ricordiamo a Cuperlo che qualsiasi norma civile deve poter sanzionare i disonesti, più che scoraggiare gli onesti: la proposta di sospendere il tesseramento ora che gli abusi sono già stati compiuti è tardiva, Cuperlo ci dica piuttosto se è d’accordo ad annullare i congressi sospetti”.

Repubblica 3.11.13
Caos congressi Pd, asse Civati-Renzi
“Non si cambiano le regole in corsa”. Scoppia il caso Piacenza
di A. Cuz.


ROMA — L’ultimo caso è quello di Piacenza: anche lì boom di tessere e ricorso pronto per la commissione Congresso. Si continua a litigare, nel Pd. Tra chi sostiene - con Cuperlo - che lasciare aperto il tesseramento fino all’ultimo minuto utile sia stato dannoso, che bisogna fermarlo subito. E chi - con Renzi - pur denunciando le anomalie dei congressi locali non crede che cambiare le regole in corsa abbia alcun senso.
Il caso della città emiliana lo solleva Paola De Micheli, lettiana di ferro. «Quattro circoli, tra cui quello della città, hanno avuto un boom di tessere innaturale. Domenica scorsa, il giorno del voto, nel circolo più importante l’incremento è stato del 177 per cento. E in Val Trebbia, la settimana precedente, c’è stato un aumento del 340 per cento dei tesserati». I casi, che riguardano candidati vicini a Matteo Renzi, sono statio segnalati alla commissione congresso. «Mi domando - dice la vicepresidente del gruppo pd alla Camera - su quale maggioranza pensano di poter contare i segretari che vengono eletti con questi meccanismi. A cosa serve piantare la bandierina, se non ci sono militanti veri? Questo fenomeno non ha nessuna conseguenza positiva, è una modalità di scalare il partito da prima Repubblica».
E però, l’idea di fermare tutto non piace a molti. Pippo Civati si è lanciato in un duro attacco a Gianni Cuperlo: «È incredibile e molto ipocrita che a scandalizzarsi per il tesseramento gonfiato sia proprio chi ha tra i propri sostenitori e candidati sul territorio i signori delle tessere», ha scritto in una nota. Se la prende anche con Renzi, il candidato alle primarie: «Chi si propone di guidare il Pd non può dichiararsi disinteressato a quel che avviene al suo interno, come fa il sindaco di Firenze». Ma poi il suo comitato fa sapere che la proposta di «sospendere il tesseramento ora che gli abusi sono stati già compiuti è tardiva. Cuperlo ci dica piuttosto se è d’accordo ad annullare i congressi sospetti». Dario Nardella, renziano, continua a dire che le baruffe sulle tessere sono inutili: «Se Gianni Cuperlo ha notizie precise faccia i nomi e si appelli agli organi di garanzia. Di certo cambiare le regole in corsa ai congressi, senza averlo fatto quando era consentito e opportuno, ora è impossibile. Il tesseramento resta aperto come stabilito, in caso contrario salterebbe la convenzione».
Un braccio di ferro che ne contiene decine di altri al suo interno. A Frosinone Francesco De Angelis nega ogni accusa scrivendo una lettera a Guglielmo Epifani e ai candidati alle primarie: «Non c’è nessun caso, solo menzogne da chi non raccoglie consensi», dice in risposta alle accuse dei tre candidati che si sono ritirati per protesta (trasversali, visto che si tratta di sostenitori di Renzi, Civati e Cuperlo). A Cosenza, il candidato cuperliano alla segreteria provinciale Luigi Guglielmelli replica alle accuse di Franco Laratta: «Le segnalazioni riguardano due comuni molto piccoli in cui si erano presentati ai seggi i candidati sindaci delle liste contrapposte al Pd alle ultime elezioni. I segretari di sezione li hanno fermati perché nello statuto è scritto chiaramente che non bisogna appartenere a partiti avversari. È tutto qui, quello di cui ci si accusa».
Così, mentre sui social network i cuperliani rinfacciano a Renzi le file di albanesi ad Asti e i renziani a Cuperlo il sostegno del signore delle tessere Crisafulli ad Enna, Beppe Fioroni coglie l’occasione per attaccare il sindaco di Firenze: «Renzi rifletta, non minimizzi, non banalizzi - scrive su Twitter - in questo caos è coinvolto da attore principale inquanto candidato favorito. Un congresso pieno di brogli ci consegna un segretario appannato, con molte ombre e poche luci».

Corriere 3.11.13
Interruzione del tesseramento Pd, tanti no alla proposta di Cuperlo
di Ernesto Menicucci


ROMA — «Impraticabile», «inutile», «tardiva». La proposta di Gianni Cuperlo di «interrompere il tesseramento», pare destinata a cadere nel vuoto. Controlli a tappeto sì, e punizioni esemplari per chi — in giro per l’Italia — ha commesso irregolarità sulle iscrizioni al Pd. Ma fermare le adesioni ora, sostengono i rappresentanti delle diverse anime del partito, «non si può».
Non lo vogliono i renziani, che continuano a ripetere «che il voto che conta è quello alle primarie dell’8 dicembre». Dario Nardella insiste: «Se Cuperlo sa qualcosa, faccia i nomi». Ma contrari sono anche gli altri due sfidanti alla corsa, Pippo Civati e Gianni Pittella. E persino nel fronte bersaniano, che pure in gran parte sostiene Cuperlo, c’è molto scetticismo. Davide Zoggia, responsabile organizzativo, la mette sul piano regolamentare: «Il Pd — dice — deve essere più forte di una decina di casi isolati. L’appello dei candidati è utile, ma fermare tutto scatenerebbe più polemiche che vantaggi». Zoggia insiste: «In questo fine settimana si chiudono la stragrande maggioranza dei congressi provinciali, questa partita è stata avviata con un meccanismo che non può essere fermato in corsa». Sottolinea inoltre come «la decisione di tenere aperto il tesseramento fino all’ultimo è stata condivisa da tutti» e come «il percorso democratico, in generale, abbia vinto rispetto ai tentativi di inquinamento: capisco l’irritazione dei militanti, ma i “furbetti” non avranno vita lunga». La denuncia/provocazione di Cuperlo, alla fine, un effetto lo ha scatenato: l’accelerazione sulla strada delle verifiche e delle sanzioni dei casi «sospetti».
Se ne occuperanno prima la commissione per il congresso, martedì, poi quella di garanzia guidata da Luigi Berlinguer, che assicura: «Faremo la faccia dura, rigetteremo le situazioni con pacchetti di voti, saremo risoluti». Ma aggiunge: «Abbiamo alzato il livello di partecipazione, con tesseramento e primarie. E c’è anche uno sforzo per recuperare iscritti: nel 2012 erano 502 mila, a settembre eravamo ancora a 255 mila... In ogni caso fermare il tesseramento è una decisione politica, che potrebbe prendere solo la direzione nazionale».
Guglielmo Epifani, ufficialmente, non replica a Cuperlo (che lo aveva tirato in ballo anche sulla sua partecipazione alla Leopolda renziana). Ma i suoi fanno capire: «Parliamo di pochi casi, sugli oltre cento congressi locali. E questa fase, ormai, è finita. Chiudere il tesseramento darebbe un’idea del partito diversa da quella emersa finora». E sul fatto che Epifani non avrebbe replicato al finanziere Davide Serra, secondo il quale il problema dell’Italia sono i pensionati, i partiti e i sindacati? «La storia del segretario parla da sé... E poi ha già replicato a Serra».
Niente cambi in corsa al regolamento, quindi. Anche perché, in commissione congresso, non ci sarebbero neppure i numeri per avanzare una proposta alla direzione nazionale. Gli uomini vicini a Renzi non l’appoggerebbero (con un Roberto Morassut perplesso: «Ne parliamo, ma purtroppo non ci sono i tempi»), Zoggia neppure, il rappresentante di Pittella (Fabio Maccione) si opporrebbe. Il parlamentare europeo, candidato alla segreteria, è netto: «Idea demagogica, inattuabile. E poi, ormai, i buoi sono già scappati tutti...». Anche Civati critica Cuperlo: «È incredibile e molto ipocrita che a scandalizzarsi per il tesseramento gonfiato sia chi ha tra i propri sostenitori e candidati sul territorio i signori delle tessere. Troppo facile pronunciarsi adesso che i risultati sono in cassaforte, come nel caso dell’incandidabile Crisafulli eletto in Sicilia». Replicano dal comitato Cuperlo: «Se le cose non funzionano si possono e si devono cambiare». Col candidato bersaniano si schiera Giuseppe Fioroni che invita Renzi a non minimizzare: «Se con le tessere a pagamento nei congressi Pd succede questo, alle primarie a basso costo cosa accadrà? Un congresso pieno di brogli ci consegna un segretario appannato, con molte ombre e poche luci».

La Stampa 3.11.13
“Migliaia di tessere in più”. Caos ai congressi
Mandati 900mila attestati, ma gli iscritti sono 500mila
Fioroni: figuriamoci cosa succederà con le primarie che costano solo 2 euro
di Francesca Schianchi


ROMA Ora che i congressi locali del Pd sono in corso, e qua e là,ma un po’ troppo spesso e in troppe città, continuano a spuntare denunce di anomalie e irregolarità, ora insomma che il caso dei tesseramenti gonfiati è esploso, a venire a galla sono dubbi e critiche su come questo tesseramento è stato gestito. E pure i veleni tra correnti.
Così, se il candidato segretario Gianni Cuperlo chiede di fermare le iscrizioni, mettendo in discussione la regola per cui lo si può fare fino all’ultimo giorno (votata all’unanimità dalla commissione congresso «ma non proposta da noi», mettono in chiaro i renziani), ecco che, dalle parti del sindaco di Firenze, si concentrano su un altro aspetto: la quantità di tessere bianche inviate dal partito nazionale, in primavera, in giro per l’Italia. «Perché a marzo scorso hanno spedito migliaia di tessere bianche, senza nessun controllo e nessuna regola chiara, distribuite in maniera abnorme rispetto alle necessità dei territori? Chi gestiva il partito risponda», chiede Lorenzo Guerini, membro renziano della commissione congresso.
Funziona così: ogni anno, in ogni circolo, viene inviato un numero di tessere pari agli iscritti dell’anno prima, prestampate coi nomi (nella speranza che tutti vogliano rinnovare l’iscrizione) più una quota di circa il 2030% di tessere in bianco, nell’ottimistica previsione di incrementare gli iscritti. Il fatto è, però, denuncia Guerini, che la quantità di queste tessere bianche è andata ben al di là di quella quota: «In Calabria, per esempio, a fronte di un po’ più di 30mila tesserati nel 2012, sono state inviate quasi 70mila tessere», svela, «e altre situazioni eclatanti si sono verificate in Puglia, nel Lazio, in Piemonte». A Lecce, a fronte di circa 4.700 iscritti nel 2012, sono state inviate 16mila tessere, come ha raccontato l’osservatore inviato da Roma, Roberto Morassut. A Torino, il dirigente mandato dal Pd nazionale, Giovanni Lunardon, ha verificato che non c’è stata nessuna anomalia nelle iscrizioni, ma 9.003 tessere bianche in eccesso, «frutto di materiale errore di invio nella spedizione».
Ed è proprio questo, un errore materiale, la giustificazione che è stata data a Guerini quando ha posto il problema nel partito. Di per sé, ovviamente, tessere in bianco in grandi quantità non sono una irregolarità, però, sottolinea Guerini, «ci scandalizziamo per gli iscritti dell’ultimo minuto, ma avendo avuto a disposizione per tanti mesi tessere in bianco, il rischio è che ci sia chi ha fatto provviste di iscritti nel tempo, senza nemmeno dare nell’occhio». Conviene anche il collega veltroniano Morassut che, «certo, un’inflazione di tessere bianche in circolazione rende più difficili i controlli e può facilitare il lavoro a chi si adopera sui pacchetti di tessere».
Sull’argomento, l’attuale responsabile organizzazione del partito, Davide Zoggia, taglia corto: «Non ne so niente, rispondo solo di quello che ho fatto io». A marzo, il suo ruolo era ricoperto dal bersaniano Nico Stumpo, oggi membro della Commissione congresso. Che respinge le preoccupazioni dei renziani. «L’occasione fa l’uomo ladro? Beh, non è che per questo nei bar non tengono esposte le caramelle...». E ricostruisce cosa è successo. «Di solito si manda un 20-30% di tessere in più rispetto agli iscritti dell’anno prima: stavolta, forse per errore, si è mandata quella percentuale in più rispetto ai tesserati del 2009, anno congressuale». Morale, «sono state inviate circa 900mila tessere», calcola. Un’enormità, se si considera che è quasi il doppio dei tesserati 2012, quando erano poco più di mezzo milione, 500.163 per la precisione. E che, quando si è aperto il tesseramento, l’obiettivo dichiarato, e già pareva ambizioso, era di 750mila iscritti. Martedì, in commissione congresso, dovrebbero essere disponibili i dati delle iscrizioni realmente fatte. Intanto, i congressi entro il 6 dovranno finire. Ma è difficile che le polemiche si fermeranno lì. Beppe Fioroni le prevede già: «Se con le tessere a pagamento nei congressi Pd succede questo, alle primarie a
basso costo che succederà?».

Corriere 3.11.13
Miracolo a Torino, raddoppiano gli iscritti
Denunce e un commissario da Roma
Nel mirino Gallo, uomo forte del Pd
Anche nella città di Antonio Gramsci il partito tiene famiglia
di Marco Imarisio


Torino è forse lo snodo più delicato dello psicodramma Pd sull’aumento esponenziale delle iscrizioni, avvenuta proprio a ridosso dei congressi locali. Nel giro di qualche giorno: cinque ricorsi formali, una segnalazione scritta su «anomalie e abnormità gravissime», una denuncia pubblica fatta da un senatore, un commissario inviato da Roma per cercare di capire come sia stato possibile passare dai 12.000 iscritti del 2012 alle 26.000 nuove tessere in circolazione tra nuovi adepti e rinnovi.
Non è solo questione di dimensioni, ma di simboli. Questo è stato a lungo il villaggio di Asterix del centrosinistra nel nord, la città modello rinata dalle sue ceneri post industriali che ha sempre fatto bandiera della sua diversità nel fare politica. Al momento il passato sembra aver lasciato posto a una rissa interna che ha origine soprattutto nella conversione di una parte consistente del Pd locale, fino a pochi mesi fa una specie di monolite bersaniano. Adesso invece quasi tutti renziani sotto la Mole, a cominciare dal sindaco Piero Fassino, ex segretario nazionale del Pd che nel 2011 sconfisse alle amministrative Davide Gariglio, molto vicino al sindaco di Firenze.
Accadono miracoli, in una zona dove negli ultimi anni il Pd ha fatto parlare di sé soprattutto per il calo delle tessere, più che dimezzate rispetto al 2011. Al circolo di Santa Rita-Mirafiori, per dire, la bellezza di 111 iscritti in un sol giorno. Alla Barriera di Milano assistono compiaciuti alla moltiplicazione di pani, pesci e tessere: dai 346 iscritti del 10 ottobre si è passati ai 464 del 16 ottobre per arrivare ai 611 della scorsa settimana, fino agli attuali 745, con quest’ultimo dato ancora ufficioso, ché alla provvidenza non bisogna mai porre limiti.
All’interno del partito le accuse di compravendita, pacchetti di tessere che passano di mano, si sprecano e sono reciproche, perché nessuno ha la prova della colpevolezza altrui. «C’è un clima cupo e pesante. Ne consegue una tensione e un livello di attenzione molto forti, ma non bisogna fare di tutta l’erba un fascio». Giovanni Lunardon, l’osservatore giunto da Roma, si accontenta di aver risolto il mistero delle 26.000 tessere bianche spedite nei circoli, numero davvero abnorme. Errore di invio, e così sia. Resta la marcia trionfale dei nuovi iscritti. «In alcuni circoli ci sono stati incrementi ben superiori alla media. Se scopriremo il dolo, saranno provvedimenti severi. Un congresso regolare è interesse di tutti».
Comunque vada, rimarrà uno sfregio sulla facciata della città modello del centrosinistra. La diatriba sulle tessere fa emergere realtà scomode, che a Torino possono essere tollerate, come lo sono state finora, solo in tempo di pace. La movimentazione massiccia delle tessere è attribuita da tutti i contendenti a Salvatore Gallo. Un uomo solo al comando, nel Pd torinese. A stare bassi, controlla circa il venti per cento delle tessere.
A volte ritornano. Nella Torino degli anni Ottanta, Gallo era il ras di Bettino Craxi. Lui, defilato oggi come allora, controllava il partito dall’interno, nel nome e per conto di Francesco Froio, ex parlamentare Psi e soprattutto primo presidente della Sitaf, la società dell’autostrada Torino-Bardonecchia. Fu consigliere comunale dal 1985 al 1992. Lasciò la scena a causa di una storia di mazzette e ospedali per la quale fu condannato. Era troppo anche per Salvatore detto Sasà, detto «l’uovo» per l’indubbia capacità di galleggiamento. Chiese aiuto a Froio, che gli aprì la porta della Sitaf. Ancora oggi Gallo è presidente di Sitalfa, una controllata che gestisce gli appalti della casa madre, da sempre porto sicuro per i rappresentanti piemontesi del centrosinistra.
La politica ha continuato a rappresentare una passione, sua e della famiglia, sempre in virtù della disponibilità di un notevole pacchetto di voti aumentato durante il transito per la Margherita prima dell’approdo definitivo nel Pd. Con Sergio Chiamparino non è mai stato amore. Gallo gli fece la guerra nei congressi locali, ottenendo consensi talvolta anche superiori al 20 per cento in ogni circolo cittadino. Il suo tesoretto non dispiacque a Piero Fassino quando si trattò di raccogliere firme per le primarie cittadine. Apparvero articoli maliziosi su comitive, di dipendenti Sitaf e non solo, spediti in pullman al seggio.
«Non è da oggi che nel Pd di Torino si è insediato e consolidato un sistema nato nel vecchio Psi. Il metodo è noto: si scala il partito facendo tessere a macchinetta». A parlare è Stefano Esposito, senatore Pd in eterno odor di eresia, autore della denuncia di cui sopra. Il sasso che ha lanciato nello stagno ha fatto emergere nomi di altra epoca. Come quello di Giancarlo Quagliotti, anch’egli ex socialista, condannato per le tangenti Fiat, ex dirigente Sitaf, oggi considerato uno dei massimi consiglieri di Fassino, regista del nuovo avvicinamento di Gallo alla militanza attiva, chiamiamola così.
Non è dato sapere quale sia il rapporto tra causa ed effetto, ma il ritorno di Gallo sul proscenio cittadino si è materializzato per interposta persona. Oggi il figlio Stefano è assessore allo Sport nella giunta cittadina, mentre il secondogenito Raffaele è diventato dirigente della Gtt, l’azienda torinese dei trasporti. A Torino la gara del nuovo che avanza potrebbero essere decisa dai vecchi amici di sempre.

l’Unità 3.11.13
«Sprecare la legislatura senza una riforma delle istituzioni e della legge elettorale favorirebbe un disegno ostile all’alternanza»
Gianni Cuperlo: «Il governo chiuda l’era del Cav»
Costruire l’alternativa per cambiare l’Italia
Le iscrizioni gonfiate? Torno a chiedere: fermiamo subito il tesseramento
intervista di Simone Collini


ROMA Dice Gianni Cuperlo che «nella crisi italiana siamo a un punto di non ritorno». E che bisogna partire da qui per capire qual è la posta in gioco in questo congresso del Pd.
Punto di non ritorno è un’espressione eccessiva, non crede?
«No perché la crisi italiana è una miscela di recessione e collasso del sistema politico, col rischio di una paralisi istituzionale. Milioni di persone soffrono ciò che non hanno mai sofferto: impoverimento, la privazione di beni vitali, il non essere in grado di provvedere ai bisogni dei figli, che è una delle umiliazioni più profonde che può colpire la dignità di un padre o di una madre. E questo mentre politica, istituzioni e partiti vengono percepiti come principio del male anziché come leva di una riscossa civica e morale. Allora io mi chiedo che cos’altro debba accadere perché le classi dirigenti prendano atto che un ciclo storico si è compiuto. Perché capiscano che senza una svolta radicale di strategia, regole e soggetti siamo destinati a una dissoluzione dello Stato e della democrazia, almeno per come li avevamo ereditati dai padri».
Parla di “classi dirigenti” in terza persona,maancheilPdha giocato unruolodi primo piano in questi anni, o no?
«Sì, ma qui siamo a un bivio della storia del Paese. Da un lato c’è una parte delle élite e io annovero tra questa il Pd che cerca in mezzo a mille traversie di instradare la crisi italiana sui binari dell’Europa e della sua integrazione. Il che non vuol dire volare a Bruxelles col capo cosparso di cenere a esibire il quaderno coi compiti fatti a casa e la speranza di un buon voto, ma spiegare le ragioni che impongono all’Europa un cambio di linea, fosse solo per i guasti che una lettura ottusa della crisi ha determinato su tutta l’Eurozona con l’eccezione di chi ha vissuto del proprio surplus commerciale dimenticandosi del debito storico e morale contratto con il resto del Continente. E questo naturalmente è il caso della Germania della Cancelliera Merkel». E chi c’è sull’altro fronte di cui parlava? «C’è una comitiva di avventurieri che scommette, e non da oggi, sul dissolvimento del sistema politico, o di quel che ne resta, con l’idea che cancellati i partiti e compiuta la traversata verso una deriva presidenzialista, toccherà di nuovo a un uomo forte o comunque a un potere svuotato di contrappesi democratici guidare il Paese verso una nuova stagione». Anche nel suo partito c’è chi vorrebbe realizzare questo scenario?
«A volerlo sono con ogni evidenza la destra schierata dietro il suo capo storico, pezzi del grillismo, poteri più o meno espliciti anche esterni alla politica, e io mi auguro che nessun esponente del Pd si faccia lusingare da queste sirene, perché equivarrebbe a seppellire ogni speranza di riscossa sotto una coltre di populismo».
Non teme che le larghe intese, su cui si regge l’attuale esecutivo, diano maggiore forza alle spinte populiste?
«Il governo Letta ha una responsabilità doppia. La prima è fronteggiare l’emergenza economica e sociale con mezzi e risorse nettamente più coraggiosi del quadro fornito fin qui». Quindi secondo lei la legge di Stabilità è da rivedere?
«Non si tratta di discutere i saldi o annunciare delle incoscienti rotture dei patti che abbiamo sottoscritto. Ma altra cosa è ascoltare le grida di aiuto che si levano da molte parti e segnare con più radicalità l’inversione di rotta».
I punti su cui intervenire?
«Pensioni, esodati, fondi per le politiche sociali, misure straordinarie contro la povertà, selettività nell’intervento sul cuneo e una riflessione seria sul dovere di alzare il deficit previsto per ora nel 2014 al 2,5%».
E su questi punti particolari crede sia possibile trovare degli accordi con la destra berlusconiana?
«Io non a caso parlavo di un doppia responsabilità dell’esecutivo. L’altro compito del governo è chiudere il ventennio, sciogliere le ambiguità che segnano in questo passaggio il destino della destra e piantare bene a fondo i paletti di un bipolarismo che dalla fine del 2011 tutti invochiamo a parole sapendo che vive però sospeso nei fatti. Gettare alle ortiche questa legislatura senza una riforma almeno parziale delle istituzioni come ridurre il numero dei parlamentari e senza una nuova legge elettorale imprimerebbe a un disegno neocentrista e ostile all’alternanza tra destra e sinistra un marchio di fabbrica».
Per essere più chiari?
«Chi dichiara che si può rivotare col Porcellum e chi enuncia riforme radicali sapendo che non ci sono numeri e condizioni per realizzarle sta nella stessa metà del campo e indossa una maglietta dove lo sponsor recita “muoiano i partiti con tutti gli elettori”. Se non vogliamo dare sponde alla destra, salvare la democrazia parlamentare e rifondare un progetto costituzionale logorato da un ventennio di precarietà nei soggetti e nelle identità è tempo di schierare il primo partito della sinistra senza se e senza ma sulla frontiera della riforma delle regole. Ma con i fatti, perché il tempo delle promesse è alle spalle».
Il congresso del Pd può essere utile da questo punto di vista? Finora la discussione si è concentrata sulla leadership... «Il nostro congresso è interamente compreso dentro questo scenario, e se non partiamo da qui si rischia di andare a farfalle. Io ho cercato di raccontarlo in questi mesi. Qua non si tratta solo di scegliere un nuovo leader, ma di restituire al progetto la sua missione, che è rigenerare gli anticorpi della democrazia, restituire dignità alla parte offesa del Paese, progettare l’Italia che verrà dopo la crisi e dopo la destra».
E come si fa tutto questo?
«Intanto serve parlare la lingua dell’alternativa e non della continuità. Serve riscrivere l’agenda e il vocabolario di una sinistra che riscopre l’orgoglio di sé, di uno sguardo sul mondo a partire dai diritti che non coincide con quello dei nostri avversari. Noi abbiamo una responsabilità enorme, non tradire l’attesa che una volta di più abbiamo generato nelle persone che l’8 dicembre si metteranno in fila ai gazebo. Già in passato abbiamo mancato nella promessa fondamentale e non siamo riusciti a diventare quello che avevamo annunciato di voler essere. Adesso è la prova d’appello. E io non voglio immaginare che si possa fallire».
La polemica sul tesseramento fa correre questo rischio?
«Potrebbe. Per questo ho chiesto a tutti, a cominciare dagli altri candidati coi quali non ho imbastito sul punto mezza polemica, di fermarci e mettere la parola fine a un tesseramento che in alcune realtà, per fortuna poche, risulta viziato da metodi a dir poco irresponsabili».
Dal fronte renziano hanno già detto che non si possono modificare le regole in corsa e che va garantita la massima partecipazione.
«Io mi domando se davvero c’è chi pensa di poter trarre un beneficio da ciò che sta accadendo in alcuni casi. Lo dico perché chiunque sia il referente diretto o indiretto di quelle pratiche fa male a tutti. Io ho semplicemente detto che sarebbe saggio chiudere il tesseramento alcuni giorni prima dei congressi di circolo in cui si deciderà la guida nazionale del Pd. Non è un modo per comprimere la partecipazione, visto che le primarie resteranno aperte a tutti. È un modo per evitare episodi che possono bruciare in una vampata la credibilità del progetto per primo».
Cosa risponde ai sostenitori di Renzi che parlano di scelta tardiva e ipocrita?
«Non polemizzo. Dico solo che io al mio partito voglio bene. E che per questo, solo per questo, torno a chiedere di camminare uniti sul principio. Ovunque vi siano state irregolarità, ripeto ovunque, si intervenga. Poi avremo modo di discutere su tutto, ma sulla credibilità del Pd dobbiamo assolutamente procedere assieme».
Per poi dividervi tra poche settimane?
«Dopo sarà necessario aprire un confronto vero sulla natura del partito, sulla nostra idea di partecipazione e decisione, perché certi segnali che arrivano in questi giorni non debbono e non possono incidere sul valore dell’atteggiamento quasi eroico di centinaia di migliaia di nostri iscritti, un patrimonio che nonostante tutto nel mito di una buona politica continua a credere».
Però, che il tesseramento si chiuda o meno nelle prossime ore, quei segnali dicono che c’è un problema nel partito che va affrontato, non crede?
«Quei segnali dicono che è maturo il tempo per una rigenerazione del partito che valorizzi il significato dell’iscrizione. Gli iscritti sono il principale antidoto a degenerazioni di questo genere. Ma lo sono quando diventano parte attiva di una comunità di senso e di destino, quando il dibattito tra di noi produce allo stesso tempo le differenze nelle opinioni e un livello profondo di solidarietà nell’appartenenza a un campo. Questo sarà uno dei grandi investimenti che dovremo fare ed è anche una delle ragioni che mi porta a dire che chiunque avrà il compito di guidare il Pd nella nuova stagione dovrà dedicarsi a quello per l’intero mandato. Anche superare la stagione di doppi e tripli incarichi sta dentro un’idea moderna del partito».
Renzi non la pensa allo stesso modo e dice che sta e vuole continuare a stare in mezzo alla gente.
«Trovo caricaturale questo contrapporre il lavoro prezioso di tanti sindaci al ruolo di un segretario che sarebbe prigioniero di riunioni estenuanti nel suo bunker romano. Io immagino esattamente l’opposto. Un segretario del Pd che a tempo pieno e quasi senza respirare si tuffa nel Paese, nei luoghi fisici del conflitto per la conquista di libertà e diritti, che riscopre il legame non solo con la parte offesa di questa società, che è grande, ma con la sua anima più dinamica, più proiettata verso un altro tempo e nuove opportunità».
Questo quanto al ruolo del segretario. Qual è invece il Pd che ha in mente? «Penso a un partito-società, a un partito-movimento, che non si arrocca di fronte alla spinta che vuole spezzare rendite e poteri incancreniti. Penso a un partito che rimette al centro la persona, la dignità di ogni essere umano, i diritti indivisibili, umani, sociali e civili, che ovunque nel mondo sono sempre più la leva del progresso e dello sviluppo economico, sociale e morale delle comunità. Questo è il Pd che ho in mente. E in questo viaggio nel Paese raccolgo un bisogno di questo partito che oltre numeri e percentuali mi dà la fiducia che il popolo democratico mai come ora è cosciente della sfida».

il Fatto 3.11.13
Il fu rottamatore
Dai Lupetti alle banche: il cerchio magico dello scout Renzi e il fattore “M”
di Davide Vecchi


Ai tempi degli scout Matteo era una persona molto appassionata, aveva una grande capacità di mettersi in cammino”. E di portare gli amici con sé. L’elogio di Matteo Renzi è dell’amico e omonimo Matteo Spanò. Il fattore M. Cresciuti negli scout di Pontassieve, “insieme dai lupetti”, legati poi per sempre. Spanò è un componente del cerchio magico di Renzi o, a seconda dell’opinione che si ha del rottamatore, un ingrediente della ciambella che sta intorno al buco. Un po’ insapore, perché il sindaco di Firenze di consiglieri fidati ne ha pochi. Pochissimi. Escluso lo storico portavoce Marco Agnoletti, al fianco di Renzi ci sono Spanò, Luca Lotti, Marco Carrai e Luigi De Siervo. Altri si sono persi per strada. Come Giuliano da Empoli, ex fedelissimo lasciato sul campo alle scorse primarie o Massimo Mattei, ex assessore alla mobilità, dimissionario dopo lo scandalo escort che ha sfiorato Palazzo Vecchio scoperto a seguito dell’esposto presentato da Alessandro Majorano, un dipendente del Comune. Tutti under 40 (tranne il 43enne, De Siervo) cresciuti con lui e coinvolti, a seconda delle capacità e della necessità, nelle varie tappe del cammino che da Pontassieve sta portando Renzi alla scalata del Pd per conquistare il Palazzo.
Spanò è stato da poco confermato alla guida della Banca Credito Cooperativo di Pontassieve ed è anche presidente del Museo dei Ragazzi di Firenze, nominato per espresso desiderio di Renzi. Che lo aveva già insediato a capo della Florence Multimedia, società creata ad hoc nel 2004 dal non ancora rottamatore ma giovane presidente della Provincia fiorentina e recentemente finita all’attenzione della Corte dei Conti per i 9,2 milioni di euro spesi tra il 2006 e il 2009. Tra cui ci sono fatture pagate alla Dotmedia, impresa privata di Spanò.
Non solo. Alla Dotmedia, società che fino al 2012 è stata tra i fornitori del Comune di Firenze, sono finite anche alcune commesse dirette affidate dal Museo dei Ragazzi. Presieduto, come detto, sempre da Spanò. Un dato: Dotmedia è passata da 9 mila euro di fatturazione del 2008 ai 401 mila del 2011. Socio di Spanò era Andrea Conticini allo stesso tempo socio della Eventi 6, la società della famiglia Renzi: amministrata dalle sorelle Matilde e Benedetta, che ne detengono il 36 per cento ciascuna, insieme alla madre, Laura Boboli, che ha l’8 per cento. Il restante 20 per centoè in mano a Conticini, marito di Matilde. Un uomo di fiducia e di famiglia dunque, Spanò per Renzi.
Ruoli chiave anche per Matteo Carrai, il Richelieu di Renzi, già descritto come l’uomo forte che agisce nell’ombra, come Gianni Letta per Berlusconi, anche se lui preferisce essere paragonato a Peter Mandelson, storico consigliere di Tony Blair. Carrai presiede l’Aeroporto di Firenze e siede nei consigli della Fondazione Carifirenze (azionista di Intesa San Paolo al 3,2 per cento) e della municipalizzata Firenze Parcheggi, di recente finita sotto la lente della Guardia di Finanza Toscana che sta verificando gli appalti e i conti degli ultimi anni. Giusto per rimanere in tema. Va detto che da quando Renzi è considerato il futuro segretario e possibile premier, gli esposti a Firenze fioccano. Carrai non è tipo da preoccuparsene. Composto, schifo ai riflettori, è considerato vicino a tutto: Comunione e Liberazione, Opus Dei, finanza laica, l’entourage obamiano, David Serra e Oscar Farinetti di Eataly. Si conoscono negli anni novanta nel Ppi prima e insieme poi nella Margherita. Renzi nel 2004 conquista la Provincia e lo porta come capo segreteria. Direttore generale della Fondazione Big Bang, da sempre gestisce i finanziamenti alle campagne elettorali tanto che alle primarie d’esordio di Renzi chi versava contributi con Paypal riceveva un sms: “Hai inviato un pagamento a Marco Carrai”.
Nato e cresciuto nel Chianti da una notissima famiglia di imprenditori è anche socio e consigliere del la Carrai Paolo e figli. Ed è presente in diverse società, tutte a Firenze, oltre a detenere alcune partecipazioni attraverso la holding D&C, della quale è presidente del consiglio di amministrazione e socio al 50 per cento. Ha il 12 per cento della Ourfuture, di cui è presidente e ad, il 14,2 della Cambridge consulting e quote in altre società: Beauty Lab, C&T, Cki. Unico neo: essere stato, nel 1994, tra i fondatori dei circoli di Forza Italia nel Chianti e aver inizialmente sostenuto Berlusconi. Ma anche questo, in fondo, può contribuire al cammino di Renzi.

Corriere 3.11.13
Boschi, la renziana che piace al Cavaliere
«Silvio? È il passato» «Matteo non è un Berlusconi di sinistra»
colloquio di Fabrizio Roncone


(Domenica scorsa, vecchia stazione Leopolda, Firenze )
Maria Elena Boschi scende dal palco, beve un bicchiere d’acqua, si volta. Smorfietta, occhioni, l’aria un po’ scandalizzata: «Cerca me?».
Sì, lei.
«Ma io non ho niente da dire. Io l’ho solo organizzata questa convention».
Però ne è diventata subito il personaggio assoluto.
«Si sbaglia».
No.
«Uff!... Si sbaglia, giuro!».
(Ieri )
Gli esercizi di modestia, a volte, sono inutili. Nel volgere di una settimana, l’onorevole Boschi — 32 anni, da Laterina (Arezzo), avvocato — ha conquistato prime pagine, salotti tivù, Berlusconi (del Cavaliere parleremo, tra poco, direttamente con lei). Matteo Renzi l’aveva già conquistato quando, in pieno furore da rottamazione, per salire sul camper delle primarie contro Bersani, lasciò la scrivania dello studio legale Tombari Laroma e associati di Firenze. Un anno dopo è l’unica donna ammessa nel famoso Giglio Magico, con Luca Lotti (generale dei renziani in Parlamento) e con Francesco Bonifazi (anch’egli deputato e capogruppo del Pd a Palazzo Vecchio). È pure l’unica autorizzata a consigliare il capo sull’abbigliamento. E, vedrete, da adesso in poi sarà l’unica ad andare in televisione: l’altra sera, a Piazza Pulita , la Boschi ha incontrato Daniela Santanché, e l’ha battuta. Un’impresa. Con dentro dosi di empatia e sangue freddo, eleganza e solidità di ragionamento. Tecnicamente, perfetta.
Silvio Berlusconi, ovviamente, se ne è accorto.
«Guardi, le dico: non mi fa né caldo né freddo».
Eppure lui pensa cose bellissime: che è brava, convincente, la candidata ideale.
«Guardi, al giudizio di Berlusconi, francamente, preferisco quello di mia madre... che infatti, subito dopo la fine della trasmissione, mi ha mandato un bellissimo sms...».
Berlusconi ci resterà male.
«Berlusconi, come sappiamo, è un formidabile esperto di televisione, ma non è il segretario del mio partito. Perciò, fine delle chiacchiere».
Comunque, dopo questi complimenti, sa cosa diranno gli avversari che Renzi ha nel Pd?
«Nooooo... Ancora? Lei dice che ricominciano con la storia che Renzi è un Berlusconi di sinistra? Ma è una storia sciocca e ormai davvero vecchia!».
Andrà così, vedrà.
«Senta, lo dico con il cuore: Renzi non ha nulla in comune con Berlusconi... è stato boy-scout, ha cominciato a fare politica da giovane, è stato presidente della Provincia, adesso è sindaco di Firenze... ha idee nuove, ci mette passione e non un filo di interesse personale... no, davvero: se si vuol criticare Matteo, bisogna trovare altri argomenti».
Rapida, non reticente, sicura. Già con una sfilza di etichette addosso. La «giaguara» (per colpa delle tremende scarpe leopardate che sfoggiò alla Leopolda); la «soave» (Pietrangelo Buttafuoco sul Foglio ); Miss Montecitorio (eletta, quasi all’unanimità, da due diverse commissioni: quella dei suoi colleghi deputati e quella dei cronisti parlamentari); la deputata dal carattere «dolce e un po’ salato» (Lettera43.it citando una canzone di Pupo).
Anime pie, tormentate da bolle di invidia, suggeriscono di fare un paragone con Alessandra Moretti, ex vestale del pensiero bersaniano, prima fedelissima e poi, a disfatta ancora fresca, subito alla ricerca di nuovo convento (avrebbe persino bussato a Palazzo Vecchio, senza essere ricevuta).
Lei, la Boschi, intuisce la presenza di gufi e replica senza perdere la pazienza: «Ho sempre apprezzato il lavoro della Moretti... Detto questo, ogni paragone mi sembra fuori luogo, anche in considerazione dei diversi percorsi finora compiuti».
Riepilogando: questa giovane deputata figlia di un ex dirigente della Coldiretti e di una preside, due fratelli («Due ragazzi fichissimi, può scriverlo»), tre colleghe a insidiarle il ruolo di preferita dal capo (Nadia Ginetti, Simona Bonafé e Lorenza Bonaccorsi), la moglie del capo, Agnese, che alla Leopolda disse: «Mi tengo lontana dal palco, non mi piace il ruolo della first lady», il quotidiano Libero che addirittura le dedica un «graffio» titolando: «Una giaguara per il Cav», sembra tutt’altro che spaventata.
«Scusi, ma perché mai dovrei essere spaventata? Tra qualche settimana Matteo sarà il nuovo segretario del Pd, Berlusconi è quasi un ricordo del passato. È così grave se sono ottimista?».

«il Pd dovrebbe sentirsi spinto a una battaglia di verità sul passato italiano di cui è figlio il nostro (e dunque anche il suo) presente»
Corriere 3.11.13
La memoria della Repubblica
di Ernesto Galli della Loggia


Tra i partiti oggi esistenti solo il Partito democratico (se si esclude la microscopica Udc) può essere considerato in qualche modo erede della Prima Repubblica: se non altro perché già allora la grande maggioranza dei suoi esponenti era sulla breccia e spesso in prima fila. Tra gli attori politici odierni solo il Pd, insomma, può essere considerato rappresentante della memoria storica di quei decenni; non immemore di quella che è stata la loro vicenda. Proprio da ciò, tra l’altro, nella Seconda Repubblica esso ha ricavato non pochi vantaggi: a cominciare dal ritrovarsi ad essere l’unico rappresentante di una certa continuità istituzionale, della tradizione politica del Paese formatasi nel dopoguerra, venendo così ad essere il naturale interlocutore della sua classe dirigente tradizionale, degli ambienti economici e finanziari consolidati, delle magistrature dello Stato, dei grandi burocrati. Tutti costoro, avendo a suo tempo appreso quanto il Pci (Partito comunista italiano) contasse, quanto fosse utile non averlo nemico, e quanto di esso ci si potesse per così dire «fidare», non hanno avuto problemi a trasferire sul Pd suo erede e su molti suoi esponenti quell’antica immagine positiva e, spesso, anche una più o meno antica consuetudine di rapporti.
Ma proprio per tutto questo oggi il Pd dovrebbe sentirsi investito di quello che può ben definirsi un dovere civile prima che politico. Il dovere cioè di testimoniare — lui che ben la conosce — la verità di ciò che la Prima Repubblica è realmente sta- ta. Un dovere civile, ho detto, perché solo da una piena consapevolezza (e conoscenza) di quel passato, degli errori e delle responsabilità di allora, l’Italia di oggi può sperare di imboccare la via della rinascita. Solo se ci convinceremo che oggi paghiamo scelte sbagliate, compiute però con il concorso più o meno generale, solo così saremo capaci di trovare un minimo di accordo preliminare sulla necessità di cambiare. Non già, sia chiaro, in vista di qualche nuova versione delle «larghe intese», ma per poter muovere — sia pure ognuno con la propria identità politica e con il proprio programma — almeno da un punto di partenza e da una diagnosi comuni. Da un’opinione condivisa circa i nodi da sciogliere e il perché della loro esistenza.
Il nostro passato, dunque. Il Pd sa bene che non è certo tangentopoli la verità della Prima Repubblica. Gli uomini e le donne che lo dirigono conoscono bene quale fu il tormentato cammino del Paese dalla fine dei Sessanta agli anni Novanta: quale fu la realtà di quel consociativismo, delle leggi di spesa fatte tutt’insieme senza curarsi troppo del futuro, dei danni prodotti nel pubblico impiego da leggi che vollero i sindacati e i grandi partiti. Ricordano senz’altro il clima di colpevole ottimismo nel quale fu dato avvio all’esperimento regionalistico; sanno la miriade di elargizioni e sussidi, concessi a chiunque o quasi li chiedesse e fosse abbastanza forte da alzare la voce; dei favori fatti alle tante corporazioni, ai tanti interessi costituiti, protetti dall’una o dall’altra parte.
Avendo avuto dirette responsabilità di governo non ignorano di quante impensabili complicità ha potuto godere da sempre l’evasione fiscale: non l’evasione dei super ricchi, che percentualmente è poca cosa, ma quella delle affollatissime categorie professionali e commerciali. Soprattutto essi sanno bene come il Paese, finché c’era il Partito comunista, fosse condannato a non poter cambiare mai il proprio governo: e come questo abbia avuto la sua parte (e quale parte!) nel produrre i danni che oggi lamentiamo. Gli uomini e le donne del Pd sanno tutto. E semmai l’avessero dimenticato possono leggere i libri di tanti bravi storici di sinistra — da Silvio Lanaro ad Aurelio Lepre, a Guido Crainz, ad Andrea Graziosi — che lo hanno raccontato bene e con dovizia di particolari.
Proprio oggi, pertanto, essi dovrebbero sentire il dovere di parlare, di restituire alla Repubblica la verità del suo passato. Senza di ciò, infatti, il Pd resterà sempre prigioniero di quella parte dell’opinione pubblica di sinistra — numericamente minoritaria, ma vocalmente prevalente sulla scena pubblica — la quale non solo, ebbra com’è di antiberlusconismo, è portata a vedere esclusivamente nel «fare giustizia» la soluzione di tutti i problemi del Paese, ma è convinta che la responsabilità di questi sia sempre e solo degli «altri», chiude gli occhi di fronte alla complessità delle questioni per la varietà degli interessi in gioco, spasima perché ogni contrasto sia tagliato con l’accetta, perché chi non la pensa come lei sia collocato all’istante tra i «nemici» e possibilmente consegnato a un tribunale. È fatto di questi ingredienti il volto nuovo dell’antico estremismo italiano che oggi ha preso le sembianze di un radicalismo iperdemocratico nutrito di un’ossessiva rivendicazione di «trasparenza» e di «diritti» quanto della più schietta ignoranza di ogni passato. Un estremismo che proprio per la sua forma «democratica» è capace, però, d’infiltrarsi per mille rivoli anche nell’opinione «media» di sinistra, finendo in tal modo per prendere in ostaggio e condizionare lo stesso Pd.
È dunque soprattutto per avere la libertà d’azione necessaria che oggi il Pd dovrebbe sentirsi spinto a contrapporre a tale estremismo una battaglia di verità sul passato italiano di cui è figlio il nostro (e dunque anche il suo) presente. Una battaglia del genere avrebbe un ulteriore e ben maggiore significato. Essa sarebbe infatti, nella sostanza, una cruciale battaglia per l’egemonia sul futuro sviluppo politico del Paese. In una situazione incerta, fluida, com’è quella odierna dell’Italia, dove i profili politico-sociali hanno confini così mal definiti, in una situazione di marasma profondo privo di punti di orientamento, riuscire a stabilire una narrazione credibile del passato, una narrazione inclusiva capace di accogliere in modo equo torti e ragioni di tutti i principali attori, evitando di racchiudersi in una prospettiva esasperatamente di parte: se il Pd fosse in grado di tanto, porrebbe di certo una premessa decisiva per ottenere il consenso necessario a governare. Non nascondere al Paese alcuna difficoltà, alcun problema, né addebitarne con leggerezza le colpe solo agli «altri»; non «farla facile» insomma. Ma al contrario mettere tutti davanti alla cruda verità ammettendo anche le proprie colpe: è solo così che ci si può conquistare un capitale di fiducia e quindi chiamare tutti ai sacrifici necessari. L’Italia ha bisogno di una forza politica, di un leader, che sappiano fare questo. Che abbiano l’intelligenza e il coraggio di farlo.

Repubblica 3.11.13
Perché il Pd brucia i suoi leader
di Roberto Esposito


Quella raccontata da Mauro Calise nel suo ultimo libro, Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, edito da Laterza in piena campagna per la scelta del segretario, è la prima, convincente, analisi d’insieme del recente insuccesso elettorale del Pd. Questo non è che l’ultima tappa di una inguaribile tendenza a bruciare, l’uno dopo l’altro, i propri leader sull’altare di un rifiuto, arretrato e perdente, della personalizzazione politica, ormai caratteristica di tutte le democrazie occidentali. La forza del libro – scritto da uno dei pochissimi scienziati politici italiani capaci di incrociare l’attenzione alle più attuali dinamiche socio- culturali con lo sguardo lungo dello storico – non sta nel contrapporre al partito impersonale un modello contrario, ma nel metterne in luce il carattere contraddittorio: proprio issando la bandiera della collegialità – la ‘ditta’ a responsabilità limitata, come la intende Bersani – , il Pd si è di fatto consegnato al micropersonalismo di capicorrente che lo hanno trascinato nella peggiore performance della sua breve storia.
Come tutti i fenomeni dalla genesi complessa – risalente alla fine dei partiti ideologici di massa – anche la personalizzazione della leadership può avere un esito ambivalente, a seconda che la si guardi dal suo versante “macro” oppure da quello “micro” che ne costituisce insieme una generalizzazione e una degenerazione. Ma tutt’altro che procedere per modelli politologici astratti, l’analisi di Calise si cala in una vicenda storica di cui ricostruisce in dettaglio le varie fasi. A partire dall’avvento sulla scena italiana di Berlusconi. Sono i tratti di populismo mediatico che caratterizzano il suo partito personale ad orientare in senso contrario il maggior partito della sinistra. Ma tale rifiuto, pure comprensibile nelle sue intenzioni, ha finito per bloccare sul nascere esperienze complessivamente positive come quella della stagione dei sindaci, percepite dalla pubblica opinione in maniera favorevole – Calise si sofferma in particolare sulla vicenda di Bassolino, che egli conosce dall’interno. Gli stessi governi Prodi e D’Alema, anche a prescindere dai loro risultati, non sono stati privi di elementi di innovazione istituzionale nel rapporto tra leader e parlamento.
Ma forse il tramite decisivo, nella degenerazione di una dinamica potenzialmente positiva, sono state le primarie. Indette inizialmente per legittimare la premiership di Prodi e poi di altri, esse si sono poco a poco trasformate in una sorta di trappola da cui sono emersi capicorrente e notabili che hanno dato alla personalizzazione in atto il volto della frantumazione. La procedura caotica e inconcludente dell’elezione del Presidente della Repubblica è stata solo l’ultimo anello di questa catena dalla quale il Pd appare ancora immobilizzato – anche per l’attuale legge elettorale che accentua tutte le disfunzioni del nostro sistema politico. Così si è arrivati al vero e proprio autodafé che ha ingoiato l’uno dopo l’altro i suoi leader – il sindaco Bassolino, il premier D’Alema, il segretario Veltroni, ai quali Calise dedica gli ultimi capitoli del suo libro. Con la vistosa eccezione di Napolitano, dovuta in parti uguali all’indebolimento di tutti gli altri protagonisti e alla sua indubbia capacità personale. In tale modo ad incarnare lo spirito del tempo è risultato proprio il leader più anziano di un partito che, sia pure in altre condizioni, già in Togliatti e Berlinguer aveva conosciuto due forti esempi di leadership carismatica.
Che indicazioni ricavare da tutto ciò in ordine alle prossime scelte? Calise, secondo il suo costume, si astiene dal darne – almeno in forma esplicita. Ciò che si può concludere è che se un fenomeno, come quello della personalizzazione, non si conosce a fondo, diventa poi difficile valutarne risorse e rischi. Se il Pd vuole superare i propri traumi, non basta nominare un nuovo leader. Ciò è condizione necessaria, ma non sufficiente, finché non si sarà data vita a una rifondazione culturale dell’intera classe dirigente del partito. Magari cominciando a riflettere su questo libro.

l’Unità 3.11.13
La guerra dei mondi
di Luca Landò


IL FISICO AMERICANO BRIAN GREENE SOSTIENE CHE L’UNIVERSO NON SIA FIGLIO UNICO. Oltre a quello che conosciamo (o meglio, che conosciamo in minima parte) ci sarebbero altri otto fratelli, chiamati universi paralleli, di cui non sappiamo e non sapremo mai nulla. Difficile dire se la teoria abbia un fondamento o sia il trastullo di un geniale scienziato. Abbiamo però il sospetto che quell’idea, vera o falsa che sia, possa diventare un efficace strumento per comprendere quanto accade da anni in Italia.
Non è necessario essere astrofisici o premi Nobel per capire che nel nostro Paese ci sono due realtà, due mondi che corrono paralleli come i binari di un treno. Nel primo, il mondo di B, c’è un signore condannato a quattro anni per frode fiscale che anziché togliere gentilmente il disturbo annuncia urbi et orbi di volersi candidare per governare il Paese. Nel secondo, il mondo di I, ci sono 3,2 milioni di persone che hanno perso il lavoro, altri che stanno per perderlo e un esercito di giovani (quattro ogni dieci) che se le cose non cambieranno presto, un lavoro qualunque lavoro non lo troveranno mai.
Nel mondo di B si discute e si litiga, ma non sul fatto che un premier abbia potuto approfittare del suo ruolo istituzionale per non pagare le tasse al Paese da lui governato (non lo diciamo noi, ma la Corte di Appello di Milano): si discute e litiga sul tipo di voto che dovrà decidere se quel signore sia ancora degno di rimanere sulla poltrona di senatore. Nel mondo di I non si discute e non si litiga, ma intanto le persone in povertà assoluta (niente casa, niente cibo, niente vestiti) sono raddoppiate in cinque anni: erano 2,4 milioni nel 2007, sono diventate 4,8 milioni nel 2012, come dimostrano le file sempre più lunghe davanti alle mense della Caritas.
Vogliamo continuare? Una delle discussioni più appassionate, nel mondo di B, riguarda la figlia del signore condannato a quattro anni, perché non potendo candidarsi lui (lo dicono una legge e una sentenza) potrebbe almeno candidarsi lei, garantendo continuità sia al partito che al marchio di fabbrica. Ma lei non vuole, o forse sì. Però no.
In attesa di questi avvincenti sviluppi, nel mondo di I si fanno i conti con un Pil che dopo mesi di tracollo sta dando lievi segni di ripresa. Poca roba, intendiamoci, ma proprio per questo bisognerebbe fare il possibile perché il flebile respiro non vada perduto ma incoraggiato. Ci vorrebbe una terapia choc, come ha detto Guglielmo Epifani all’Unità. Ci vorrebbero un piano per il lavoro, una riforma delle istituzioni e una riorganizzazione del Paese. Si potrebbero accorpare i Comuni più piccoli, superare le Province, ridisegnare i confini di alcune Regioni con l’obbiettivo di ridurre costi e duplicazioni e migliorare efficienza e prestazioni. Si potrebbero fare molte cose o almeno iniziare. Peccato che appena cominci a parlare del mondo di I e dei suoi problemi, ecco che spunta il mondo parallelo di B e le priorità cambiano improvvisamente. Perché nel mondo di B. non ci sono quattro punti cardinali ma due: il sole sorge ad Arcore dietro Villa San Martino e tramonta a Roma su Palazzo Grazioli. È un mondo strano ma è fatto così. Lo sanno tutti, anche i ministri del Pdl che un mese fa costrinsero il padre padrone alla famosa piroetta votando la fiducia al governo. Una scelta coraggiosa, ma di breve durata. Perché dopo un giorno e poche ore i disobbedienti fecero marcia indietro, tornando a casa come Lassie.
È chiaro che nessuna terapia, per quanto importante e urgente, potrà mai avere successo se continuamente interrotta: avete mai visto un chirurgo uscire dalla sala operatoria per rispondere al cellulare? Eppure questo è proprio quello che avviene dal 2 ottobre, perché da allora Alfano e soci non fanno che passare, con pendolare regolarità, dal mondo di «B come Berlusconi» a quello di «I come Italia» per poi tornare indietro.
I ben informati dicono che i cosiddetti «innovatori» (cioé gli alfaniani, cioè i governisti) stiano in realtà cuocendo a fuoco lento il vecchio leone giocando sul fatto che senza di loro il cavaliere non ha i voti in Senato per mandare tutto all’aria. Possibile. La storia degli ultimi vent’anni insegna però che Berlusconi una via di fuga la trova sempre: costi quel che costi, come dimostrano i tre milioni del caso De Gregorio.
Mentre Alfano e Berlusconi giocano la loro personale partita a scacchi, nel mondo parallelo dell’Italia le cose non vanno avanti, ma indietro. Come gli indici di fiducia di consumatori e imprese che a ottobre sono tornati a diminuire. Come i prezzi e l’inflazione, che calano perché a calare sono i consumi. E dall’inizio dell’anno gli ordini delle imprese che producono solo per l’Italia sono calati del 10%. Ci vorrebbero misure di sostegno alla domanda, dicono gli esperti, ma nella legge di Stabilità non se ne vede traccia.
Il guaio è che il risanamento del Paese richiederebbe una politica mirata e una maggioranza che la sostenga. Il pendolino di Alfano e soci tiene in piedi il governo, ma non aiuta il Paese. Perché ogni decisione, ogni iniziativa vive sotto l’eterno ricatto che tutto possa saltare da un momento all'altro. La stessa legge di Stabilità, pur timida e con molti difetti, potrebbe venire rinforzata e corretta se il Parlamento si dedicasse davvero ai problemi dell'Italia e non a quelli del Cavaliere, se anziché minacciare il Vietnam parlamentare e la guerriglia (così parlò Brunetta) ci si occupasse di ridurre il cuneo fiscale, correggere le tasse sulla casa, aumentare gli investimenti. E bisognerebbe ripristinare e incrementare il credito a imprese e famiglie. Come ha ricordato Paolo Guerrieri, dalla fine del 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di oltre 70 miliardi di euro. Il rifinanziamento del Fondo di garanzia per le imprese piccole e medie è un passo nella direzione giusta, ma bisogna che quel passo abbia una falcata più ampia e decisa. Lo stesso per il patto di stabilità interno: un miliardo è una cifra importante ma non sufficiente. E forse, proposta ardita, si potrebbero persino rivedere i saldi di spesa, concetto tabù per il ministro dell’Economia.
Di questo e di altro si dovrebbe discutere nel mondo di I, individuando e realizzando scelte coraggiose per riaccendere il motore economico del Paese. Per farlo è però indispensabile capire se il governo, come dice Letta, ha davvero un'altra maggioranza o se quella del 2 ottobre sia stata una simpatica sceneggiata. Perché la domanda, per quanto imbarazzante, è a questo punto una sola: a quale mondo appartiene Angelino Alfano?

l’Unità 3.11.13
Se l’intellettuale balla da solo
di Michele Ciliberto


Chi sono gli intellettuali? La domanda è tornata di moda perché su un autorevole quotidiano italiano si è ripreso a parlarne, sostenendo tesi abbastanza discutibili. Penso che si possa abbozzare una risposta con un riferimento storico. Intellettuali per antonomasia sono stati gli illuministi, d’Alembert, Diderot: cioè i direttori della Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri.
Figure che hanno saputo intrecciare nella loro esperienza saperi particolari e interessi generali. Terreno di incontro e di mediazione fra gli uni e gli altri è stata la politica. Non per nulla gli illuministi si dichiaravano eredi degli umanisti italiani che fra il ’400 e il ’500 realizzarono in Italia un simile intreccio e tale mediazione: Machiavelli era segretario della seconda cancelleria e ha scritto i «Discorsi»; Guicciardini, commissario generale dell’esercito pontificio, è autore dei «Ricordi» e della «Storia d’Italia». Nè questo intreccio, in forme volta a volta differenti, è venuto meno nei secoli successivi: basta pensare a Genovesi, a Beccaria, al Manzoni autore della «Storia della colonna infame» o, in altri campi, a una figura eccezionale come Bertrando Spaventa, professore a Napoli e autore delle lezioni sui rapporti tra filosofia italiana e filosofia europea.
Se si volesse individuare, sul piano morfologico, quando gli intellettuali entrano in crisi, si potrebbe dire che ciò avviene quando si incrinano i loro contesti di riferimento generale si tratti della nazione oppure del partito e quando viene meno la politica come luogo complesso di mediazione entro cui vengono riconosciute e coordinate le loro, legittime istanze di autonomia (attraverso i saperi particolari) e di partecipazione (attraverso i «corpi» intermedi). In quelle circostanze e in quelle condizioni, gli intellettuali tendono o a separarsi o a costituirsi come «coscienza» critica della nazione, con forme di «protagonismo» cetuale che hanno avuto in genere effetti deleteri, anche nella nostra storia nazionale.
La storia della Repubblica mostra però come la dinamica della storia degli intellettuali possa essere complessa e a quali esiti differenti essa possa dare luogo. Faccio due esempi.
Subito dopo la guerra, un’intera generazione di «intellettuali» riconobbe nella politica la propria vocazione, e scelse la politica anzi il partito come terreno principale della propria esperienza umana e intellettuale. Mi riferisco alla generazione nata negli anni Venti del Novecento, alla quale appartengono molti dei dirigenti dei partiti della sinistra italiana attivi nella prima Repubblica.
Questa scelta che scaturiva da intricati itinerari intellettuali entro cui avevano un ruolo centrale complesse motivazione di ordine etico venne stimolata anche dal significato che i partiti di sinistra, e specie il Pci, assegnavano alla «quistione degli intellettuali» come centro nevralgico della costruzione in Italia di una democrazia antifascista e «progressiva». Né è difficile comprendere quanto in questa posizione abbiano inciso le analisi svolte da Gramsci, da Togliatti, da Morandi delle cause che in Italia avevano condotto all’avvento e al trionfo del fascismo.
Nella seconda Repubblica il quadro è completamente mutato: la «quistione degli intellettuali» è ormai finita e gli intellettuali stessi o si sono distaccati, anzi separati dalla politica, o si sono ridotti a tristi comprimari di talk show televisivi. Neppure in questo caso è difficile individuare le cause profonde di questo processo che, in maniera diretta o indiretta, hanno a che fare con il berlusconismo e l’affermazione nel nostro Paese di una forma di dispotismo democratico che ha bruciato la funzione della politica come luogo di mediazione di valori, competenze e interessi, compresi quelli degli intellettuali.
Se si guarda alla situazione attuale, si vede che essi sono oggi arroccati nelle tende dei loro saperi particolari, come monadi senza finestre e senza contatti con il mondo «grande e terribile». Oggi, quando un intellettuale assume ruoli politici lo fa solo in quanto e perché «tecnico». E del resto anche i politici che oggi guidano il Paese si configurano anzitutto come «tecnici». La separazione tra intellettuali e politica è piena, da qualunque parte la si consideri.
Come giudicare questa situazione e come uscirne? La via più sbagliata, a mio giudizio, è quella di ricorrere alla categoria del «trasformismo», come è stato fatto per spiegare la conversione di molti intellettuali italiani dal fascismo, in cui si erano formati, all’antifascismo. Significa non avere capito niente della trasformazione morfologica della politica che si compie nella prima metà del secolo con l’insorgere per tutti anche per gli intellettuali della centralità della dimensione di massa della politica contemporanea. Allo stesso modo, non ha senso esprimere oggi giudizi moralistici sul «silenzio» degli intellettuali. Significa non comprendere quali siano gli effetti della fine della politica, e dei partiti, di massa sulla condizione e sul lavoro intellettuale.
Il problema è assai più vasto e complesso: riguarda le trasformazioni radicali della Costituzione «interiore» del nostro Paese. Gli storici futuri avranno molto da lavorare su questo terribile ventennio. Né, se tale analisi ha un senso, è pensabile che gli intellettuali decidano un giorno di uscire dalle loro tende per rimettersi in cammino verso la «rivoluzione» o, più modestamente, verso l’impegno politico. Sarebbe pura illusione.
Bisogna rovesciare il punto di vista tradizionale e sottolineare con forza che gli intellettuali non sono un «intero» ma una «parte»: questa è stata sia la loro forza che la loro, strutturale, debolezza. Per riaprire la «quistione degli intellettuali» (uso una formula) bisogna dunque rimettere in moto la Nazione, l’Italia. Anzi, l’Europa. Non possono esserci cultura, e funzione e significato della cultura, se non si mettono in gioco e in movimento tutte le energie interne ed esterne di un Paese, di una nazione, di un continente, ricostituendo «vincoli» e visioni in cui anche gli intellettuali possano riconoscersi, ristabilendo un rapporto con il mondo e la realtà. Ma per far questo è pregiudiziale prendere atto di quanto è accaduto, delle trasformazioni che si sono prodotte rinunciando alle forme del passato.
È possibile, oggi, porre in modi nuovi il problema degli intellettuali senza affermazioni di tipo moralistico? Ce ne sono le condizioni? È difficile dirlo, ma certo non si fa un passo avanti suonando la canzone assai vecchiadel «trasformismo» degli intellettuali italiani. Per questa strada si va poco lontano: si confonde la «parte» con l’«intero», mentre il problema è esattamente il contrario: distinguerli con rigore e comprendere, sineiraetstudio, cosa questo «intero» sia ormai diventato. Come insegna Spinoza, «sognare il secolo d’oro dei poeti, o una favola», non serve.

Corriere 3.11.13
Sull’utilità degli intellettuali, qualche diversa opinione
risponde Sergio Romano


Nella sua risposta sul ruolo degli intellettuali italiani e sulla loro attitudine trasformistica mi ha colpito in particolare la sua conclusione, secondo cui l’Italia ha bisogno di «scienziati, filosofi, pittori, scultori, romanzieri, poeti, studiosi ed esperti delle più diverse discipline, non di intellettuali». La cosa mi interessa particolarmente, visto che la mia casa editrice ha pubblicato i libri di molti autori che non saprei come definire se non «intellettuali». A partire da Benedetto Croce che fu filosofo, storico e critico della letteratura, ma il cui contributo alla cultura italiana mi pare non possa risolversi nella somma di queste competenze. E non è un caso forse se Croce decise di influire sugli orientamenti della classe dirigente italiana — a partire dagli educatori delle giovani generazioni — attraverso una rivista come La Critica e una casa editrice come Laterza. Non nego che il trasformismo sia stato un vizio anche di molti intellettuali italiani: ma non lo è stato anche di molti politici e imprenditori? Non è forse una caratteristica nazionale? E non pensa che nell’Italia del dopoguerra ci siano stati grandi intellettuali che con coerenza e pluralità di idee hanno contribuito a formare le nostre opinioni? Penso a filosofi come Bobbio e Garin, economisti come Sylos Labini e Padoa Schioppa, storici come Rosario Romeo e Renzo De Felice, scienziati come Margherita Hack, scrittori come Pasolini, per citare solo alcuni nomi. Persone che possedevano competenze specifiche ma che mi sembra abbiano contribuito a costruire diverse «visioni del mondo». Un’espressione non più di attualità dopo la (pretesa) fine delle ideologie, a cui sembrano essersi sostituite solo le competenze dei ‘tecnici’ e le suggestioni dei «comunicatori». Eppure io ho il dubbio che gli intellettuali esistano ancora, magari in forme diverse... Ad esempio tra coloro che scrivono articoli e libri rigorosi ma rivolti al pubblico generale. Analisi che — anche quando non sono «tecniche» — possono servire a mettere le informazioni e le conoscenze in una prospettiva critica e in un contesto più ampio, cosa essenziale in un mondo complesso come quello in cui viviamo. Non vorrei sembrarle provocatorio (come quegli intellettuali che a lei non piacciono) ma — in questo senso almeno — a me pare che anche lei quando interviene sul Corriere o con i suoi libri su argomenti diversi di grande rilievo pubblico sia un intellettuale...
Giuseppe Laterza

Caro Laterza,
Forse noi diamo alla parola «intellettuale» contenuti diversi. Nella mia definizione l’intellettuale è certamente un erede di Voltaire e Zola, avvocati difensori di due grandi innocenti — l’ugonotto Jean Calas e l’ebreo Aldred Dreyfus — entrambi vittime di pregiudizi religiosi o razziali. Ma col passare del tempo l’ambizione, la vanità, le lusinghe degli ammiratori e uno sproporzionato concetto di sé hanno persuaso l’intellettuale dei nostri giorni a considerarsi coscienza della società, custode di «valori» (una delle parole più inflazionate dei nostri tempi), arbitro dei nostri dilemmi politici e morali, oracolo e profeta. Ascolto e leggo volentieri le opinioni degli intellettuali quando sono il risultato di studi e competenze professionali. Ma non riesco a comprendere perché una qualsiasi pubblica campagna per il raggiungimento di un particolare obiettivo politico o umanitario debba essere più autorevole quando l’appello è firmato da un poeta, da un romanziere, da un astronomo o da un premio Nobel. Benedetto Croce fu un intelligente filosofo, un eccellente scrittore, un brillante storico e un grande animatore culturale. Ma la percentuale dell’errore, nelle sue valutazioni politiche, fu mediamente quella dei migliori esponenti della classe sociale a cui apparteneva.
Lei ha ragione, caro Laterza, quando osserva che il trasformismo è una caratteristica della storia italiana e non può essere quindi imputato soltanto agli intellettuali. Ma forse il fenomeno è più grave quando concerne uomini e donne che si considerano maestri di vita e di pensiero.

l’Unità 3.11.13
Anna Maria Cancellieri

Quella «sinistra» che nega i diritti
di Luigi Manconi


Confesso: ho parlato numerose volte al telefono con il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri; e le ho sottoposto vicende di persone recluse, le cui condizioni di detenzione o il cui stato di salute reclamavano attenzione da parte dell’amministrazione penitenziaria. E, ancora prima, e per le medesime ragioni, mi è capitato di parlare con il ministro Paola Severino e, anni addietro, con i ministri Oliviero Diliberto e Piero Fassino. Nella stragrande maggioranza dei casi, si trattava di detenuti senza nome e cognome, spesso privi di avvocato e di qualunque risorsa materiale e immateriale.
Talvolta si trattava di persone titolari di beni e di un nome noto: come Angelo Rizzoli, affetto da sclerosi multipla e da una grave insufficienza renale, che ha dovuto attendere quasi cinque mesi la concessione degli arresti domiciliari. Perché anche questo è un tratto, in genere ignorato, del sistema penitenziario: sopravvive, sì, un certo numero di privilegi ma la reclusione produce un rapido livellamento verso il basso delle condizioni di tutti. Dunque, confesso e credo proprio che, in futuro, sarò recidivo.
Su l’Unità di ieri, in una bella vignetta di Sergio Staino, Ilaria chiede: «Cosa può fare adesso la Cancellieri?»; e Bobo risponde: «Dare il suo numero di cellulare a tutti gli Stefano Cucchi d’Italia». C’è chi non lo sa, ma Staino, oltre a essere un magnifico disegnatore, è persona retta e garantista coerente: e la deformazione satirica dei fatti coglie nel segno con puntuta intelligenza. Non così un giornalista molto brillante che qualche giorno fa, nel corso di una trasmissione televisiva, ha detto ironicamente: «Immagino che il ministro sarebbe intervenuta nello stesso modo anche per uno come Stefano Cucchi». Il giornalista in questione è uno che non ha mai scritto un solo rigo a proposito di Cucchi e che ignora come il ministro Cancellieri abbia ricevuto, e per due volte, i familiari del trentaduenne morto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini. E altrettanto ha fatto con la sorella di Giuseppe Uva e con quella di Dino Budroni, con la figlia di Michele Ferrulli, con i genitori di Federico Aldrovandi e con Luciano Isidro Diaz, che porta ancora sul corpo i segni delle violenze subite durante un fermo.
Nel merito della vicenda relativa a Giulia Ligresti i fatti sono chiari: ricevuta la segnalazione delle gravi condizioni di salute di una detenuta il ministro ne ha interessato l’autorità competente. L’amministrazione penitenziaria ha fatto quanto era nella sua responsabilità e la magistratura si è mossa in maniera totalmente autonoma. Giulia Ligresti non è stata dunque scarcerata per un favore concesso dal ministro, che non ha esercitato alcuna pressione su Procura e giudice per le indagini preliminari, ma esclusivamente per decisione della magistratura sulla base dei presupposti di legge. Presupposti tanto più rigorosi perché Giulia Ligresti si trovava in custodia cautelare: non condannata, e dunque da innocente.
Questo particolare non andrebbe dimenticato in un Paese che ha il triste primato europeo dei detenuti in attesa di giudizio. Appare perciò pretestuosa la polemica preventiva di chi trasforma un giusto intervento in un illegittimo privilegio, sulla base del presupposto indimostrato di una sorda indifferenza alle legittime lamentele di altre centinaia o migliaia di detenuti. Si sospetta una discriminazione, e tanto basta ai militanti del partito «Più Carcere Per Tutti».
Ciò detto, se il ministro ha agito doverosamente e nell’ambito delle proprie competenze, resta il problema di cosa accada in altre circostanze e di come i singoli detenuti (tutti i singoli detenuti) possano far valere i propri diritti. Dunque, piuttosto che biasimare un intervento a tutela del fondamentale diritto alla salute di una detenuta (qualunque sia il suo ruolo sociale), bisognerebbe capire come estendere la massima tutela possibile alla generalità dei detenuti.
Molto in questi anni è stato fatto dalla magistratura di sorveglianza e dalla Corte costituzionale, che ha riconosciuto la intangibilità dei diritti umani dei detenuti e la piena efficacia delle decisioni del giudice nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. Un passo ancora potrebbe e dovrebbe essere fatto: istituire finalmente il Garante nazionale delle persone private della libertà, come si sta proponendo da quindici anni e come si sta sperimentando in molte Regioni e in molti enti locali. Un difensore civico dotato di incisivi poteri di intervento, cui tutti i detenuti possano rivolgersi liberamente e direttamente. Sarebbe una scelta assai utile al fine elevare gli standard di tutela dei diritti all’interno del sistema penitenziario.
Ma la vicenda Ligresti-Cancellieri propone una ulteriore lezione. Sullo sfondo emerge una tendenza culturale assai diffusa, specie ahinoi a sinistra. Una sorta di rancorosa e surrettizia lotta di classe per via giudiziaria che incapace di garantire i diritti dovuti a tutti i cittadini si contenta di sottrarli a chi riesce in qualche modo a beneficiarne (certo: anche grazie al diseguale potere di cui si dispone). Se non possiamo essere uguali nei diritti è meglio esserlo nei non diritti? Tutti sulla forca pur di essere tutti allo stesso livello? Si manifesta, così, un feroce meccanismo demagogico: in nome di un presunto egualitarismo si propugna un livellamento delle garanzie verso il basso.
Si ritiene, cioè, che l’assunto della legge «uguale per tutti» possa essere trasformato in uno scadimento generalizzato dei diritti e delle tutele verso il grado più infimo della loro applicazione, mentre dovrebbe essere l’esatto contrario. E in questo meschino surrogato di lotta di classe si ricorre al carcere in luogo degli antichi e cari metodi del conflitto. Ma quelli sì che avevano una loro nobiltà. Invece qui siamo alla torva invocazione del carcere come strumento di giustizia sociale.

Repubblica 3.11.13
La zona grigia
di Massimo Giannini


C’È UNA zona grigia che rende inquietante la vicenda Cancellieri- Ligresti e che svela la natura compromissoria e forse compromessa del potere. Il ministro dice «non mi pento», evocando quasi una categoria religiosa, che nel caso in questione non ha alcun senso perché in gioco c’è invece un problema politico. Non è un «pentimento» che si chiede al ministro, ma semmai un «chiarimento» sulla natura dei rapporti che la legano alla famiglia di don Salvatore. Fino ad obbligarla a telefonare al fratello del «padrino» per garantirgli il suo interessamento, come testimoniano le intercettazioni agli atti dell’inchiesta di Torino. Perché la Cancellieri si è sentita in dovere di farlo? Questo chiarimento non è arrivato. Il movente che ha spinto il ministro a sollecitare la scarcerazione di Giulia Ligresti non sembra il «volto umano della giustizia», ma semmai la faccia complice dell’amicizia. Se il Guardasigilli non è libero nei confronti di chigli chiede un passo improprio, non può restare al suo posto.

Repubblica 3.11.13
L’amaca
di Michele Serra


Non è facilissimo giudicare la vicenda Cancellieri perché ogni sortita dal carcere preventivo — se non di un serial killer o di uno stragista — segna un punto contro l'inciviltà di quella pratica. Specie se è vero che il ministro ha usato il suo potere, sia pure irritualmente, anche in favore di decine di detenuti ignoti e ben più indifesi della signorina Ligresti. C'è però un aspetto, nella querelle politico-giudiziaria, che giudiziario non è, e anzi probabilmente è del tutto lecito; ma fa trasecolare, penso, molti italiani. Parlo dei tre milioni e mezzo di liquidazione che, secondo le cronache, il figlio del ministro avrebbe percepito dai Ligresti dopo un solo anno di lavoro. Ignoro i parametri che portano a un calcolo del genere; immagino siano trasparenti come l'acqua di fonte, e perfettamente legali; mi domando, solo, come può reggere una società così follemente sperequata da garantire a un manager, per un così breve periodo di lavoro, una buonuscita così smisurata, pari al salario di sei o sette vite operaie. Oltre — beninteso — al suo stipendio. Il potere di corruzione, o quanto meno di manomissione dei rapporti sociali, che il denaro ha assunto negli ultimi anni è pauroso. Ed è la vera questione cheil caso Cancellieri solleva.

l’Unità 3.11.13
Le affinità che Casaleggio non può smentire
di Gigi Marcucci


«Non ho mai avuto né ho intenzione di avere alcun contatto con esponenti del Front National. Chi afferma il contrario mente». Pochi minuti dopo le 15 di ieri, Gianroberto Casaleggio affida a Twitter la secca smentita di quanto in mattinata pubblicato dal Giornale. Nessuna «prova tecnica d’intesa» con il movimento francese guidato da Marine, la figlia di Jean Marie Le Pen. nessun incontro riservato con emissari dello stesso. Una formazione che rifiuta, pena querele, di essere etichettata come di estrema destra e cerca di aumentare i suoi consensi in vista delle europee. Secondo un sondaggio del Nouvel Observator, il Fn potrebbe contare sul 24% dei voti. La sua pretesa neutralità «Non siamo di destra né di sinistra», dice Marine Le Pen cavalca l’onda della crisi e delle paure da essa suscitate: chiamatela, se volete, vocazione maggioritaria. Anche per questo, la notizia pubblicata ieri dal quotidiano della famiglia Berlusconi, ancorché falsa, come dice Casaleggio, gode di una certa verosomiglianza. Non è più necessario indossare camicie nere per affermare che gli emigrati devono stare a casa loro e, se non vogliono starci, devono assumersi il rischio di perire tra i flutti; che la cittadinanza ai figli degli stranieri nati sul sacro suolo patrio non deve essere concessa; che i provvedimenti di clemenza per i detenuti vanno respinti, non tanto perché possano nascondere l’ennesimo favore a condannati eccellenti, ma perché potrebbero spaventare gli elettori; e, infine, per mandare al diavolo l’Euro e magari anche un bel po’ d’Europa. In Italia si tratta di concetti sdoganati dalla Lega e recentemente mutuati dalla coppia Grillo-Casaleggio, che man mano che gli appuntamenti elettorali si avvicinano sembrano sempre più attenti a riempire le urne che a sventolare bandiere. La convergenza con i lepenisti forse non è nelle intenzioni dei due guru pentastellati, ma in molte loro dichiarazioni recenti. Più degli incontri, contano le affinità.

Repubblica 3.11.13
Se vince Beppe Grillo, il Paese va a rotoli
Pensa a una sorta di dittatura con lui alla guida di un popolo
di Eugenio Scalfari

qui
 

La Stampa 3.11.13
Dopo gli arresti. Le squillo minorenni
“Il mio incubo di mamma ai Parioli il quartiere delle baby-prostitute”
La storia di Francesca: i nostri figli hanno amici che i genitori difendono a qualsiasi costo


olte minorenni non si fanno nemmeno pagare: vogliono solo essere «popolari»
di Maria Corbiù

Ho saputo che molte minorenni non si fanno nemmeno pagare: vogliono solo essere «popolari»
C’è chi non tollera nemmeno i rimproveri degli insegnanti ai loro ragazzi, che hanno una «paghetta» di 400 euro

«Io amo questo quartiere, i Parioli. Lo devo premettere». Francesca, la chiameremo così, lo precisa quando tutte le parole hanno già composto questo articolo. «Mi sono chiesta: come può una mamma crescere dei figli in un quartiere che ha prodotto le baby prostitute, ma soprattutto i loro clienti?
Qui sono nata, qui voglio rimanere».
Un quadrilatero benestante stretto tra villa Borghese e villa Glori. Terra di ricchi, certo, spesso di nuovi ricchi. Ma non solo. Qui abitano anche la borghesia intellettuale, e famiglie modeste che hanno ereditato le loro case dai bisnonni. Gente perbene. Figli perbene.
«Io due figli li sto crescendo. Non so se sarebbe più facile in un’altra zona di Roma, so però che questo viaggio con loro fino a qui, in questo contesto, è stato faticoso. Come se in un mare calmo, dove tu hai deciso la rotta, ci fosse qualcuno che, continuamente, tenta di spostare la barra per farti dirottare. E la fatica per tenerla dritta, quella barra è tanta. E’ difficile in assoluto, in ogni luogo, insegnare a chi stai crescendo il senso di responsabilità, cosa è giusto e cosanonloè,maquiloèdipiù.Moltofa l’esempio, ma può non bastare quando tutto ti rema contro. Quando le prime feste di tuo figlio sono all’hotel Hilton, quando va a casa di un amichetto che ha in camera ceste ricolme di merendine a disposizione, quando i suoi amici non amano il Natale perché tanto i regali li hanno tutti i giorni. Quando a 8 anni pretendono vestiti Ralph Lauren. Quando a 14 anni la paghetta mensile è di 400 euro. E la lista è lunga».
Gli episodi le si affollano in mente. «Anni fa nella scuola dei miei figli, una manciata di pargoli dai cognomi altisonanti rubarono negli zaini dei compagni i cellulari, gli Ipod, i soldi. Un consiglio disciplinare decise pene varie, tra cui sospensione ed espulsione. Qualche genitore, invece di trascinarsi via il figlio per le orecchie, decise di denunciare la scuola per danni “biologici”».
Difenderli, sempre, ad ogni costo, anche a quello della loro educazione, del loro futuro. «Difenderli anche quando il professore di italiano riferisce con educazione che la ragazzina invece di scrivere il tema ha disegnato fiorellini sul foglio protocollo». Sempre e comunque. Genitori che non tollerano che il figlio subisca rimproveri o salutari frustrazioni. Che minacciano i professori della costosissima scuola privata, ricorda Francesca, «quando li convocano per avvertire che il figlio/figlia rischia di rimanere analfabeta». «“Io pago e lei non deve seccarmi”». E che parlano all’erede ciuccio del radioso futuro che li attende, perché tanto il merito non conta. «E se tuo figlio cresce tra queste persone devi continuamente spiegargli che gli strani sono gli altri genitori e non tu che lo costringi a studiare, a chiedere scusa, ad assumersi le responsabilità. Che quando vai a parlare con il professore ti cospargi il capo di cenere quando lo ascolti raccontare che tuo figlio nel tema ha scritto che il capo dei crociati era un certo “Alemanno”. Che gli togli la playstation e non lo fai uscire per punizione. Che ritieni che per un adolescente 20 euro a settimana siano grasso che cola. Che pretendi che non frequentino quei dementi che su WhatsApp chiamano il gruppo “Terzo Reich”, anche se sono compagni di scuola».
«Uno dei miei figli confida Francesca conosceva di fama e di vista una delle baby prostitute». «Ne parlavano l’altro giorno alla Casina delle Muse». «Non sapevano che si prostituisse. Era una delle tante “putty” che girano». Putty? «Mah sì, le chiamano così, le ragazzine svelte, quelle che non si fanno tanto problemi. Ma senza farsi pagare». Perché lo fanno? «L’ho chiesto a mio figlio e mi ha detto “Per essere popolari”». Le Putty, dice il figlio di Francesca, classe 1999, hanno tra i 14 e i 16 anni. «Anche di meno. Vanno tutte ai pomeridiani delle discoteche, entrano gratis perché movimentano la festa». Come entrano gratis i cosiddetti «pr», ragazzini imberbi contattati tramite Facebook dai gestori delle discoteche per portare gente. Con percentuale sulle vendite. E ci sono pure le riunioni motivazionali dove quattro cialtroni incitano i ragazzini a fare del loro meglio, a convincere tutto il gruppo ad andare «all’evento». «Evento», altra parola magica che deve mettere in allarme i genitori normali. «Perché qui, in queste “festicciole”, sui tavoli dei locali non c’è coca-cola ma vodka o prosecco», spiega Francesca. Uno “shot” tira l’altro anche a 13 anni. «Sono andata dai carabinieri questa estate a denunciare un bar che vendeva tequila ai minorenni. Sono stata ascoltata gentilmente, ma quel gestore di bar ha continuato a spacciare (perché di questo si tratta) alcol». Il triangolo maledetto delle riunioni parioline si snoda tra piazza delle Muse, Ponte Milvio e Campo dei Fiori, affollate di macchinette truccate che costano quanto un’utilitaria.
«Ma alla fine assicura Francesca ce la puoi fare, puoi permettergli di frequentare quella gente, i loro, i tuoi, vicini di casa, perché i principi, le regole, la tradizione e la storia della loro famiglia, hanno un peso fondamentale. Anche se non smetteranno mai di ripeterti: “mamma sei una rompic...”. Sì, lo sono, lo ammetto, perché il terrore che l’ambiente, il nulla, li divori è un compagno di viaggio nella loro crescita».

Repubblica 3.11.13
Baby squillo, trovata la lista dei clienti vip
Imprenditori, notai e commercialisti nel mirino
Saranno indagati per violenza sessuale. Insospettabili professionisti anche da altre città per gli incontri nella casa ai Parioli
di Federica Angeli

qui

Corriere 3.11.13
A lezione di matrimonio da psicologi e avvocati
Si moltiplicano i corsi laici prima delle nozze
di Elvira Serra


Alessandra Tedeschi, psicologa e psicoterapeuta cognitivista, era stufa di occuparsi di separazioni. «Perché non facciamo qualcosa prima?», ha chiesto ad alcuni colleghi dopo l’ennesima seduta dedicata a rabbia, delusione e frustrazione del paziente. Da qui l’idea di un corso prematrimoniale laico, pensato in particolare (ma non esclusivamente) per chi si sposa con rito civile: più della metà delle coppie al Nord e al Centro, percentuale che a livello nazionale scende al 39,8 per cento se si sommano i dati del Sud, dove sposarsi in Chiesa è pressoché la norma (76,3%). E così martedì si parte, a Milano, con la supervisione di Alessandra e la collaborazione dei professionisti dell’associazione Buen Vivir: saranno sei incontri di due ore ciascuno per acquisire competenze legali e di relazione utili per affrontare un progetto bello come il matrimonio.
L’iniziativa non è isolata. Da Napoli a Treviso, passando per Lecco, l’esigenza di prepararsi al «grande giorno» è sentita al netto della fede religiosa. Solo che mentre la Chiesa rende obbligatorio formare i promessi sposi, in ambito laico tutto è lasciato alla buona volontà dei diretti interessati. «Per noi è stata una scelta casuale», racconta Anastasia, 26 anni, da due mesi moglie di Filippo Capocefalo, suo coetaneo, come lei di Lecco. «Stavamo cercando un posto per il ricevimento e siamo venuti a conoscenza del corso organizzato dal nostro Comune insieme con Epeira, un ente che si occupa di superare il conflitto. A noi è piaciuta molto la parte sulla comunicazione di coppia. Per esempio scoprire il peso delle cose non dette: uno rientra a casa dal lavoro, ha avuto una pessima giornata e va a chiudersi in camera; quel silenzio non è verso il coniuge, è importante non fraintenderlo, anche per essere di aiuto al partner».
Paolo Ceri ha 28 anni e il prossimo giugno sposerà Alina, trentenne russa conosciuta in vacanza. Colpo di fulmine, fidanzamento a distanza per un anno e mezzo, poi due anni e mezzo di convivenza a Milano. Si sono iscritti al corso di Buen Vivir. «È stata Alina a trascinarmi — spiega lui —. Conosciamo uno degli psicologi che terranno gli incontri, e a me è sembrata subito una buona idea. Veniamo da culture diverse, la mia fidanzata è figlia di padre ortodosso e madre musulmana. Insomma, trovo che possa essere interessante fare qualche colloquio per confrontare le nostre visioni del mondo».
Spesso non si tratta soltanto di ascoltare le aspettative dell’altro, ma di fare vere e proprie scoperte sulle responsabilità implicite nel negozio giuridico che suggella l’unione. «Mi è capitato di incontrare coppie che cascavano dal pero quando scoprivano, per esempio, che bisogna collaborare al ménage familiare in proporzione al proprio reddito», finge di scandalizzarsi Annamaria Bernardini de Pace, che in realtà nella sua carriera di matrimonialista ne ha davvero viste di tutti i colori. La preparazione al matrimonio la fa privatamente, nel suo studio, ma anche attraverso incontri pubblici: qualche mese fa a Napoli, al Forum della famiglia, e a metà ottobre a Treviso, durante l’appuntamento organizzato dal centro Paradoxa dal titolo «L’amore per scelta, per legge, per dovere!»: erano presenti 180 persone. Assieme a lei c’era Andrea Sales, che ha curato più gli aspetti dell’affettività, come riconoscere e comunicare le emozioni. È lui a dire: «I timori di chi sta per sposarsi si assomigliano: si chiedono quando sia giusto fare figli, ma hanno molta paura di perdere la loro individualità. “Potrò continuare a giocare a calcetto?”; “Potrò ancora uscire con le amiche?”. Cerco di non dare risposte preconfezionate, ma li aiuto a porsi le domande giuste».
Il punto, infine, lo coglie Bernardini de Pace: «Il matrimonio è sempre stato visto come basato sull’amore o sul sacramento religioso, senza tener conto della sua valenza giuridica. Regime economico, comunione o separazione dei beni, fondo patrimoniale, parentela, genitorialità non sono concetti astratti, ma rientrano nei diritti e doveri di marito e moglie. Meglio conoscerli prima che dopo».

Corriere 3.11.13
Lo «scivolo d’oro» dei militari italiani
Per i cinquantenni esenzione dal servizio di 10 anni con l’85% di stipendio
di Goffredo Buccini


L’appuntamento è in un bar di largo Argentina: a due passi dai palazzi dove si disegna proprio in questi giorni la nuova faccia delle nostre forze armate. Il vecchio ufficiale, ora «consulente istituzionale», chiede l’anonimato bevendo caffè lungo e ben zuccherato: «Sa, ho l’amaro in bocca». Sembra in imbarazzo: «La facciamo, sì, la riforma, ma la scarichiamo sulle spalle degli italiani». Tira fuori le carte. «Mi dica lei se in un Paese di esodati e precari possiamo portare avanti un testo del genere: è uno scivolo d’oro, come diavolo si fa a spiegarlo alla gente?».
La riforma delle riforme, lanciata con lo slogan «meno generali, più tecnologia», sta tutta qui, atti del governo 32 e 33, decreti attuativi della legge 244 del 2012 voluta da Giampaolo Di Paola, allora ministro del governo Monti dopo una carriera da ammiraglio approdata sullo scranno di capo di Stato maggiore della Difesa. I provvedimenti del governo Letta recepiscono il lavoro dell’esecutivo precedente, Mario Mauro assorbe la visione del predecessore con le stellette. «Trentacinquemila uomini in meno in dodici anni» e una formula magica che prevede una sostanziosa redistribuzione dei carichi di spesa: quest’anno in un bilancio di circa 14 miliardi per la «funzione difesa» (la «funzione sicurezza» con i carabinieri è a parte) i costi del personale gravano per il 67 per cento, il 10 per cento va all’addestramento (pericolosamente scarso) e il 23 agli investimenti; il mantra di Di Paola è 50, 25 e 25. Ovvero meno uomini, armi migliori e usate meglio.
Ma, attenzione: nel dimagrimento il trucco c’è e s’intravede. Molto resta a carico della spesa pubblica e quindi delle nostre tasche, tramite tre canali: il passaggio del personale ad altro ministero, il prepensionamento e, soprattutto, l’«esenzione dal servizio», comma sesto dell’articolo 2209, il punto più controverso nella disciplina del periodo transitorio: dai 50 anni in poi (dieci anni prima del congedo) si può entrare in un magico limbo, lo «scivolo d’oro» appunto, grazie al quale si conserva l’ottantacinque per cento dello stipendio senza lavorare più nemmeno un solo giorno, con tanto di pensione piena; non è esclusa neppure la facoltà di fare altri lavori (il reddito non si cumula). Questo bonus decennale per le forze armate in (libera) uscita verrà inserito nel codice dell’ordinamento militare a meno che Camera e Senato non si mettano di traverso in modo plateale (è solo previsto un loro parere) spingendo il governo a ripensarci. Fino a oggi il comma dorato stava attraversando zitto zitto l’ultimo guado tra Palazzo Madama e Montecitorio. Eppure era proprio difficile non accorgersene.
«Quando ho visto quella norma, ho fatto tre salti sulla sedia! Così com’è non passerà. Non è un articolo di legge, è una provocazione», tuona Gian Piero Scanu, capogruppo pd in commissione Difesa. «È vero, fa effetto», ammette Domenico Rossi, ex generale e adesso deputato di Scelta civica: «Però, ci pensi, è la via d’uscita della generazione delle missioni, i cinquantenni di adesso avevano 35 anni in Kosovo. Non è che si possono mandar via così». Già, ma non è che tutti i trentacinquenni degli anni Novanta andassero in missione... «Va bene, ma non ne faccia una questione di percentuali. E comunque la legge era diversa, il Cocer (la rappresentanza “sindacale” dei militari, ndr ) ha ottenuto di aumentare dal settanta all’ottantacinque per cento la quota di stipendio mantenuta intatta». Nelle commissioni di Camera e Senato, si combatterà sugli articoli della riforma. Ed è da qui che è opportuno partire per cogliere chiaroscuri, miserie e nobiltà dei nostri uomini e donne in divisa.
La faccenda è dura da semplificare, perché ha ragione il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Claudio Graziano, quando dice che «ci serve la certezza di risorse adeguate per l’addestramento del personale e l’ammodernamento, se adeguatamente vogliamo andare in missione. Non si tratta di una spesa, ma di un investimento». Insomma, il comma d’oro è una goccia che cade nel pieno d’una grande, autentica trasformazione dei nostri militari, passati dalla derisione negli anni della contestazione allo straordinario lavoro nelle missioni, dal Libano in poi, e già radicalmente rinnovati nel 2001 con l’abolizione della leva.
Quando si parla dei loro sprechi si pensa, per dire, ai circoli (storica la querelle su quello degli ufficiali a palazzo Barberini, a Roma) o agli stabilimenti balneari (tutta roba che ormai è affidata in buona parte a privati con grande contrarietà dei Cocer). E certo fa sorridere la battaglia a suon di finanziamenti di Fregene nord contro Fregene sud, scolpita nel rapporto Monti di due anni or sono, un milione di qua, duecentomila euro di là alle rispettive spiagge con cabine riservate alle stellette. Fanno mugugnare noialtri gli alberghi camuffati da centri di addestramento dove soggiornare da Dobbiaco ad Alghero per una trentina d’euro a persona; l’«ausiliaria» che ancora consente un 24 per cento in più di pensione garantita per un molto improbabile richiamo in servizio nei cinque anni successivi al congedo (dovesse scapparci una guerra...); già nel 2006 la senatrice Silvana Pisa, Sinistra democratica, rilevava persino le spese di «rifacimento letti» negli appartamenti di generali e ammiragli al top della carriera, parte di un esborso di tre milioni e mezzo l’anno per la pulizia dei loro 44 alloggi di servizio e rappresentanza.
«Noi rischiamo di diventare strumento delle lobby e voi cercate il colore», ci rimprovera la nostra fonte al bar di largo Argentina. Già. Lo «scivolo d’oro» della riforma può fare imbestialire i comuni cittadini ma la partita vera delle spese e, forse, degli sperperi, si gioca su altri tavoli. Gli F-35, con una faida sanguinosa in cui il ministro Mauro ha rischiato di restare impallinato, sono stati solo un assaggio: tutto ora è al vaglio del Parlamento. La commessa più ghiotta per un futuro molto futuribile si chiama Forza Nec: ventidue miliardi di spesa possibile nei vent’anni che verranno; si tratta di digitalizzare l’esercito, immaginando il soldato del 2030 molto prossimo a un robot (l’acronimo Nec sta per Network enabled capability , capacità di fare rete coi sensori sul campo di battaglia). Già nel 2006 Di Paola riteneva «prioritaria e ineludibile» la trasformazione «net-centrica» (sic) delle forze armate, salvandola dalla scure montiana della spending review. Con verosimile soddisfazione di Selex Es, la società di Finmeccanica che, quale «prime contractor», gestirà a tempo debito tutto da sola, senza gara né confronto sui prezzi, come consentono le procedure. Il domani in un affarone, insomma, senza voler in alcun modo revocare in dubbio le capacità tecniche dell’azienda italiana. Tuttavia lo scenario non è pacificato. «Nessuno conosce le cifre esatte, ma chi pensa che Forza Nec sia cosa fatta, sbaglia di grosso. Mauro è molto... incline ad assecondare le richieste dell’amministrazione militare, ma la ricreazione è finita», dice ancora Scanu. Fabio Mini, già comandante delle nostre forze in Kosovo, si spinge molto oltre: «Ci sono sistemi per dare soldi all’industria italiana». Cioè? «Dall’industria dipendono gli incarichi dei vertici militari, cooptati dalle cordate politiche. I debiti si pagano». È un’affermazione molto grave, generale... «Beh, va così. L’ho pure scritto nel mio libro “Soldati”, senza fare nomi, naturalmente». Naturalmente.
Sotto le uniformi, battono cuori intossicati. La legge di Stabilità è stata l’occasione d’un sotterraneo scontro di lobby per la conquista dei finanziamenti. Si chiudono caserme dove mancano i soldi per la bolletta della luce, e le ristrettezze esasperano. Perfino il prossimo viaggio umanitario in Africa della portaerei Cavour ci viene segnalato come spreco da una fonte di un’altra arma, «130 giorni di navigazione, ci costa venti milioni. Quanti ospedali potrebbero farci laggiù?». Alla fine il nostro esercito è come noi, generosità e invidie, grettezze e slanci, questa è l’Italia del 2013. Alla stazione Trastevere due bersaglieri sono di pattuglia con un appuntato dei carabinieri (è la vecchia operazione «strade sicure» che volle La Russa da ministro, soldati e forze di polizia assieme): sono ragazzini, prendono 900 euro per i prossimi quattro anni, «è dura», e dopo non andrà molto meglio. Stipendi bloccati dal 2010 come tutti, l’idea della «specificità» del lavoro fagocitata dalla crisi. «Se mi promuovono colonnello sono rovinato, ci perdo», mastica amaro un amico prossimo ai gradi. Più grane, meno quattrini. Merito e coraggio negletti come sempre. «Usiamo le missioni per addestrare i ragazzi, se no addio!». In quelle missioni, dal 1982, sono caduti 103 dei nostri, dall’Afghanistan in poi i feriti sono 651. «Io vorrei che il Paese se ne ricordasse», dice l’ex generale Rossi: «Ci sono posti dove si decidono vita e morte in un secondo. Chi sta di notte in un avamposto a Bakwa tra colpi e rumori nel buio, beh, vorrei che non si sentisse troppo solo».

La Stampa 3.11.13
Bagnasco: "I cimiteri sono "dormitori" in attesa della Resurrezione"

qui

l’Unità 3.11.13
Una rete europea di spie Italia esclusa: «Inaffidabile»
Guardian: Germania, Francia, Spagna e Svezia lavoravano con Londra dal 2008 alle intercettazioni
I nostri 007: «Da noi più vincoli legali»
di Umberto De Giovannangeli


Lo scandalo si allarga a macchia d’olio. Ogni giorno una rivelazione, ogni giorno una chiamata in causa. I servizi segreti di Germania, Francia, Spagna e Svezia avrebbero messo a punto un sistema di sorveglianza di massa delle comunicazioni telefoniche e internet in stretta collaborazione con il Gchq britannico. Lo riferisce il Guardian. Lo sviluppo di questa rete risalirebbe a 5 anni fa, secondo documenti della talpa del Datagate, Edward Snowden. Dai file emerge anche che il Gchq, l’equivalente britannico della Nsa americana, svolgeva un ruolo di consulente nell’aiutare i partner europei ad aggirare le leggi nazionali che limitano i poteri dell’agenzie di intelligence.
E l’Italia? Da un’ipotetica classifica di affidabilità dei servizi, ne esce piuttosto male: «Il Gchq ha avuto alcune discussioni in materia di antiterrorismo e internet sia con i servizi di sicurezza per l’estero (Aise) sia interni (Aisi) ma ha trovato la comunità di intelligence italiana frammentata e incapace o riluttante nella cooperazione interna», si legge in uno dei report. Un successivo contatto con l’Aisi, sei mesi più tardi, si era arenato, forse su «problemi legali che potrebbero aver intralciato la loro capacità di aderire» alla rete. I meno collaborativi dunque erano gli italiani, non solo perché «divisi» tra di loro ma nache per le leggi italiane che «legavano loro le mani».
Sempre secondo il Guardian, gli agenti britannici abituati come i cugini americani ad avere accesso senza limiti alle comunicazioni degli altri Paesi esprimevano «frustrazione» per le «frizioni interne tra le agenzie italiane (Aise e Aisi, ndr) e i limiti imposti dalla legge alle loro attività. Gchq ha gestito alcune (attività) di antiterrorismo e ha avuto discussioni concentrate sulla (sicurezza) di internet con entrambe le agenzie di intelligence ma ha scoperto che i servizi italiani sono divisi e si sono dimostrati non in grado e/o non intenzionati a collaborare tra di loro», si legge ancora nel report.
LA DIFESA DELL’INTELLIGENCE
Fonti italiane di intelligence, interpellate sull’articolo del Guardian, hanno spiegato che la fase a cui ci si riferisce è quella dell’avvio e della messa in opera della recente riforma dei servizi iniziata nel 2007 e recentemente conclusa. Altre fonti dei servizi italiani affermano che sono in corso «accertamenti per appurare se e cosa eventualmente risulti circa un’asserita richiesta di collaborazione non andata a buon fine da parte del servizio britannico».
Per una volta i documenti di Snowden pubblicati dal quotidiano britannico chiariscono che i servizi italiani «sono più garantisti» di quelli di altri Paesi e che «non sono disponibili ad andare al di là di quanto previsto dall’ordinamento», aggiungono le fonti dell’intelligence italiana, evidenziando come in Italia vigano «limiti legali stringenti» che sono «indubbiamente un fattore di garanzia e rendono non attuabili qui intercettazioni massive su grandi flussi di traffico».
RETE TRASVERSALE
Il monitoraggio avverrebbe con intercettazioni dirette attraverso le fibre ottiche e con lo sviluppo di segrete relazioni con le compagnie di telecomunicazione. L’alleanza ha quindi permesso alle agenzie dei diversi Paesi di coltivare legami con compagnie di altri Paesi per facilitare una sorta di «pesca a strascico» di dati sul web, secondo il contenuto dei documenti del Gchq sottratti dall’ex contractor della Nsa Edward Snowden. I file inoltre proverebbero che proprio il Gchq ha giocato un ruolo guida nel consigliare ai partner europei su come aggirare le leggi nazionali tese a restringere il potere di sorveglianza delle agenzie di intelligence.
I governi di Germania, Francia e Spagna hanno reagito con grande irritazione alle rivelazioni basate sui documenti sottratti all’americana Nsa, che hanno evidenziato come le comunicazioni di decine di milioni di loro cittadini sono state intercettate ogni mese, mentre le autorità Usa hanno insistito su un punto: il monitoraggio di massa è stato realizzato dalle agenzie dei singoli Paesi e condiviso con gli Stato Uniti. Ecco perché il direttore dell’intelligence nazionale americana, James Clapper, davanti al Congresso martedì scorso ha definito l’indignazione professata ufficialmente dai governi europei «ipocrita».
E proprio nel giorno delle nuove rivelazioni, Germania e Brasile hanno chiesto all’Assemblea generale dell’Onu di adottare una bozza di risoluzione, che invoca il diritto alla privacy nell’era digitale. La bozza di risoluzione, che non nomina i singoli Paesi, sarà discussa da una commissione dell’Assemblea generale incentrata sui diritti umani. La bozza chiede ai 193 membri dell’Assemblea di dichiararsi «profondamente preoccupati per le violazioni dei diritti umani e gli abusi che possono derivare dalla condotta di qualsiasi sorveglianza delle comunicazioni». Abusi che includono «la sorveglianza delle comunicazioni extraterritoriali, la loro intercettazione così come la raccolta di dati personali, in particolare il ricorso massiccio a controlli e intercettazioni». La risoluzione, che sarà votata a fine mese, invita infine tutti i Paesi a proteggere il diritto alla privacy garantito dal diritto internazionale.

Corriere 3.11.13
Inutilità dello spionaggio universale
Cosa (non) ci ha insegnato il comunismo
di Claudio Magris


Quand’era in una prigione comunista a Praga, Havel scrisse che ciò che accadeva in quei Paesi e regimi dell’Est era pure un memento per l’Occidente, perché mostrava a quest’ultimo il suo latente destino. Speriamo che l’intrepido campione di libertà si sia sbagliato e che, se il comunismo — straordinariamente capace di vincere le guerre e disastrosamente votato a perdere le paci — è andato a gambe all’aria l’Occidente non lo segua in questa caduta libera, come ogni tanto la durissima crisi economica, effetto e causa a sua volta di crisi politica, potrebbe indurre a temere. La recente vicenda, offensiva e pasticciona, dello spionaggio universale potrebbe essere un indizio preoccupante. Se i regimi comunisti sono andati a rotoli, ciò è accaduto non soltanto ma anche perché, come scriveva Cesare Cases riferendosi alla Ddr, metà dei cittadini era impegnata a spiare l’altra metà e a riferire minuziosamente e macchinosamente i risultati quasi sempre nulli di tali spiate, anziché essere impegnata a produrre, a lavorare, a fornire servizi. Se non si zappa la terra né si mungono le mucche né si fanno correre puntuali i treni, pane latte e altre merci e cose necessarie non arrivano nei negozi, nelle case e negli stomaci.
Certo i servizi segreti e le loro spiate e intercettazioni svolgono in molti casi una funzione utile e necessaria; possono aiutare a smascherare associazioni criminali, prevenire delitti, scoprire truffe e furti eclatanti, segnalare preparativi di ostilità e di guerra, combattere il terrorismo. L’utilità di tali risultati spesso però annega in un oceano di inutilità e perdita di tempo. Se preparassi un attentato, difficilmente darei per telefono, per lettera o per email, precise ed esplicite indicazioni sul luogo e l’ora in cui collocare gli ordigni micidiali e sugli esecutori della strage; parlerei, secondo un codice, di mia zia a letto col raffreddore o delle giornate che si fanno più brevi. Il messaggio criminoso può essere nascosto in centinaia di migliaia di messaggi di auguri e saluti e per individuarlo occorrono legioni di esperti decifratori, chiamati a scoprire se veramente andrò a New York per il compleanno di mio cugino. Quando viaggiavo per la Romania di Ceausescu, le persone con cui facevo amicizia mi pregavano di non scrivere loro una volta tornato in Italia, anche se non avrei certo scritto cose più delicate di «buon Natale» o di «carissimi saluti e spero a presto». Immaginavo l’inutile e lungo lavoro che l’interpretazione di quelle mie banalità avrebbe procurato agli agenti segreti.
Non credo che i vari 007, specialmente americani, che hanno ficcato il naso nelle case altrui e soprattutto dei loro alleati abbiano scoperto granché. Si ha l’impressione, in generale, che abbiano scoperto soprattutto l’acqua calda, cosa certo disdicevole se l’hanno scoperta spiando dal buco della serratura Capi di Governo e di Stato mentre facevano la doccia in costume adamitico. La reazione più appropriata sembra quella bonaria e in realtà tagliente del Vaticano, il cui attuale Pontefice dimostra di possedere mirabilmente la grande ironia cattolica. Alla notizia che i servizi segreti americani avrebbero intercettato pure le telefonate di Papa Francesco, la risposta è stata «Non ci risulta e comunque non abbiamo nulla da nascondere». A questa faccenda che ha fatto tanto chiasso la Chiesa ha dedicato pochi secondi. Certo, purtroppo neanche un Papa ardito e originale come Francesco può permettersi un linguaggio più colorito e che sarebbe ancora più appropriato; ad esempio quello di una vecchia storiella triestina, che racconta di un tale il quale riteneva che le sue telefonate venissero origliate e registrate e allora, ogniqualvolta sollevava la cornetta, diceva per prima cosa: «Mona chi scolta».

Corriere 3.11.13
Proletari del mondo diversamente poveri
di Danilo Taino


Il proletariato internazionale non esiste più non perché le fabbriche hanno chiuso ma perché le differenze tra ricchi e poveri non sono più una questione di classe ma in grande misura di geografia. In uno straordinario studio condotto su statistiche internazionali, il lead economist della Banca mondiale Branko Milanovic ha calcolato che la disuguaglianza globale è aumentata, tra il 1870 e il 2000, da un indice pari a 65 a un indice 80: ma mentre un secolo e mezzo fa due terzi delle differenze di reddito erano dovute all’appartenenza di classe, ai nostri giorni due terzi sono dovuti al Paese in cui una persona vive (o è nata, le due cose coincidendo nel 97% dei casi). A metà del Diciannovesimo Secolo, essere poveri in Europa non era molto diverso dall’essere poveri, per dire, in America Latina; oggi, al contrario, è la geografia a decidere gran parte della differenza di reddito. «Proletari di tutto il mondo unitevi» non ha più senso, dunque — dice Milanovic: è più giustificato «poveri del mondo emigrate».
Per spiegare qual è la situazione, l’economista considera tra l’altro l’Italia. Divide la popolazione italiana in venti parti a seconda del reddito (dal 5% più povero al 5% più ricco) e le distribuisce su una scala di raffronto con i redditi mondiali: si nota così che il 5% più povero degli italiani ha un reddito pari o superiore a quello del 59% della popolazione mondiale; il 5% più ricco è vicino al massimo, cioè al cento per cento. Se si fa il confronto con l’Argentina, si nota che circa un quarto della popolazione ha un reddito più basso di quello del 5% più povero degli italiani. Lo stesso vale per il 30% degli albanesi. Se si prende la Costa d’Avorio come approssimazione per l’Africa, l’80% dei suoi abitanti ha un reddito inferiore al 5% degli italiani più poveri. Il modo per migliorare le proprie condizioni di vita per il 25% degli argentini, un terzo degli albanesi e l’80% degli africani «è semplicemente trasferirsi» in Italia o in un Paese ricco. Ragione strutturale del mondo aperto e globalizzato per la quale è più probabile che nei Paesi poveri si pensi all’emigrazione invece che alla rivoluzione. Il confronto con i redditi tedeschi dice invece che al 15% più povero degli italiani converrebbe trasferirsi in Germania anche se finisse nel 5% inferiore di quel Paese.
Milanovic fa altre scoperte lavorando su dati storici e mondiali.
Per esempio nota che tra il 1988 (poco prima della caduta del Muro di Berlino) e il 2008 è probabilmente avvenuto «il più profondo sconvolgimento nelle posizioni economiche delle genti dai tempi della rivoluzione industriale»: l’1% più ricco della popolazione mondiale ha accresciuto il reddito del 60% e le classi medie cinese, indiana, brasiliana, indonesiana, egiziana addirittura tra il 70 e l’80%; mentre le classi medie occidentali e il 5% più misero del mondo non hanno affatto migliorato. Ma soprattutto sottolinea l’aspetto strutturale delle migrazioni e le sue implicazioni politiche. Sul pianeta — dice — ci sono sette punti (Lampedusa è uno) in cui Paesi ricchi e Paesi poveri sono vicini, per confine o braccio di mare: in tutti sette, ci sono muri, mine, fili spinati, guardacoste: «Il mondo ricco si sta recintando». Anche se non è più marxiano.

il Fatto 3.11.13
Russia, scomparsa una Pussy Riot

Da dieci giorni non si hanno più notizie di Nadezhda Tolokonnikova, una delle Pussy Riot arrestate per uno show anti-Putin. Era stata trasferita in un nuovo carcere. Poi, il buio sulla sorte della donna: il marito, come dichiarato a un sito americano, non sa neanche dove si trovi attualmente.

Corriere 3.11.13
«Nessuna notizia di Nadia sparita da dieci giorni»

MOSCA — Nadia Tolokonnikova, una delle tre Pussy Riot condannate a due anni di carcere per la preghiera punk anti-Putin nella cattedrale ortodossa di Mosca, è sparita da oltre dieci giorni: lo denuncia il marito della 23enne, Piotr Verzilov, che dice di non avere più notizie dallo scorso 21 ottobre, quando Nadia è stata trasferita dal carcere della Mordovia dov’era rinchiusa. Nelle settimane precedenti, Tolokonnikova aveva cominciato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni da «gulag sovietico» della colonia penale ed era finita in ospedale. Secondo le dichiarazioni
del marito al sito americano BuzzFeed, il trasferimento è stato «una punizione».

La Stampa 3.11.13
La storia riscritta da Putin, riabilita Stalin e Gengis Khan
Pronte le bozze del manuale “unico”: tutti dovranno adottarlo
di Anna Zafesova


La vecchia battuta che la Russia è un Paese dal passato imprevedibile sta per passare di attualità, almeno negli intenti del Cremlino. Sulla scrivania di Vladimir Putin è arrivato forse il progetto più ambizioso tra tutti quelli che aveva lanciato: la stesura finale e definitiva della storia russa. Ottanta pagine di linee guida che dopo l’approvazione al vertice verranno affidate a un team di storici per diventare, possibilmente già per il prossimo anno scolastico, il manuale di storia «unico» per le scuole russe, che dovrà chiudere con il «pluralismo» degli oltre 60 libri di testo attualmente autorizzati, e spesso polari nell’interpretazione.
Le linee guida, presentate dalla crema degli accademici russi, sono state oggetto di un dibattito acceso, in un Paese dove parte dell’opinione pubblica è fieramente orgogliosa di cose per le quali altri vorrebbero solo chiedere scusa. Su alcuni temi si è optato per il compromesso. La rivoluzione d’Ottobre presentata con gli aggettivi di «grande» e «socialista» nei manuali sovietici che la descrivevano come il maggiore evento del ‘900 stava per venire declassata a «golpe bolscevico», definizione in uso nella storiografia occidentale. Ma alla fine è stata ribattezzata «Grande rivoluzione russa del 1917», includendo quindi anche la rivoluzione borghese che aveva rovesciato la monarchia dei Romanov per venire soffocata da Lenin pochi mesi dopo.
Ma lo scontro maggiore è avvenuto sul personaggio più ingombrante del XX secolo russo: Stalin. Onnipresente fino alla morte nel 1954 anzi, autore del suo manuale di storia, il famoso «Corso breve del partito comunista» è diventato poi un innominabile fino alla perestroika,
che ha svelato fino in fondo la portata delle purghe. Negli ultimi anni però Stalin è rientrato in film, monumenti, manifesti che lo rappresentano come grande leader. Dopo un dibattito durato fino all’ultimo giorno alla definizione di «socialismo stalinista» è stata preferita quella più tecnica di «variante sovietica di modernizzazione», che quindi includerà l’industrializzazione e la guerra contro il nazismo come le carestie e le repressioni, cercando di mantenere un approccio «equilibrato» nella descrizione degli orrori e dei successi. Chi ha potuto però dare una sbirciatina alle linee guida afferma che l’enfasi è sui secondi rispetto ai primi, e che il testo non menziona nemmeno il numero delle vittime del Gulag.
Un altro argomento spinoso è il rapporto con gli ex satelliti. Come ha constatato con rammarico il direttore dell’Istituto di storia universale Alexandr Chubarian, in tutti i Paesi ex comunisti con l’eccezione di Bielorussia e Armenia il periodo sovietico viene trattato come «coloniale». Definizione che non va giù ai «colonizzatori». Per le conquiste dei secoli scorsi è bastato un intervento politicamente corretto: il «giogo mongolo-tartaro» è stato sostituito dal «giogo della Orda d’Oro» per non offendere i sudditi russi discendenti di Genghis Khan. Più difficile la storia contemporanea: mentre Putin crede che la caduta dell’Urss sia stata «la più grande catastrofe geopolitica del ‘900», in molti Paesi ex sovietici la celebrano come festa nazionale.
La storia resta dunque attualità e non è un caso che Putin abbia voluto, come ai tempi comunisti, un manuale «unico», dopo aver lanciato, al suo terzo mandato al Cremlino, una offensiva anche ideologica improntata alla grandeur nazionale per compattare il consenso. L’ultimo evento narrato dal manuale infatti sarà la rielezione di Putin nel 2012, ma non menzionerà le proteste di piazza che l’hanno accompagnata. Depennati anche gli oligarchi ribelli Berezovsky e Khodorkovsky. Agli insegnanti però, promette Chubarian, verrà offerta notevole libertà di interpretazione in aula. In attesa che un giorno un nuovo vincitore delle elezioni riscriva la storia a modo suo.

il Fatto 3.11.13
Il giornalista greco Dimitri Deliolanes
“Alba Dorata diventa carne da cannibali”
intervista di Roberta Zunini


L’arma del killer che l’altra sera ad Atene ha ucciso alcuni militanti del partito neonazista Alba Dorata è una Zastava Tokarev mai utilizzata per esecuzioni di matrice terroristica. Secondo gli inquirenti, l’assalitore, arrivato a bordo di una moto enduro e con il volto coperto da un casco, avrebbe cominciato a sparare da 15 metri di distanza e poi si sarebbe avvicinato per finire le vittime, due ragazzi di 20 e 22 anni, Manolis Kapellonis e Yorgos Fundulis. Un altro, Alexandros Gerontas, è rimasto ferito ma non sarebbe in pericolo di vita.
Dimitri Deliolanes, il giornalista della radio e tv pubblica greca che recentemente ha scritto un libro intitolato “Alba Dorata”, sostiene che “l’agguato è un tentativo di destabilizzare il Paese. Al contempo serve a fare uscire Alba Dorata dall’isolamento in cui è finita dopo l'arresto del suo leader, Nikos Michaloliakos e l’espulsione di alcuni suoi deputati dal parlamento perché accusati di aver creato un’organizzazione criminale”.
Non potrebbe invece essere stato un regolamento di conti tra estrema destra ed estrema sinistra, dopo l’uccisione del rapper Pavlos Fyssas da parte di alcuni militanti di Alba Dorata e il conseguente arresto dei suoi vertici a partire dal piccolo führer Michaloliakos?
“Non credo - risponde Deliolanes -. Innanzitutto la dinamica dell’omicidio mostra che gli assassini sono dei killer professionisti e non degli estremisti spinti da un movente ideologico. Secondo, in questo momento il governo greco è in una posizione ancora più debole e precaria del solito, a causa delle divergenze tra i due partiti più importanti della coalizione, Nea Demokratia e Pasok. Si rischia quindi tornare alle urne e in questo caso vincerebbe il partito di sinistra Syriza, ora all’opposizione, che si scontrerebbe immediatamente con l’establishment europeo perché si è sempre opposta al memorandum e al piano di austerity della Troika”.
E quindi?
Assassinare a freddo due militanti di Alba Dorata può essere una strategia per gettare un’ombra su Syriza e indebolirla sia localmente sia in campo europeo. Siamo di fronte a un gioco davvero pericoloso che può innescare una guerra civile strisciante come avvenne in Italia negli anni ‘70. Oggi al posto della guerra fredda tra Occidente e Unione Sovietica c’è la guerra tra due modelli economici, uno basato sull’economia reale, l’altro sul mercato finanziario.
La polizia, che vanta molti simpatizzanti di Alba Dorata, ha detto subito che si tratta di
terrorismo. Cosa ne pensa?
Soprattutto l’area anarco-insurrezionalista è stata spesso infiltrata dai servizi, dalla malavita legata a sua volta a elementi dell’apparato, non si può escludere nulla ora. Resta il fatto che è importante scoprire i mandanti non gli esecutori.
Visto il giro di vite nei confronti di Alba Dorata, non potrebbe essere stato il partito
stesso, o una sua corrente, ad aver pianificato l'esecuzione?
Non si può escludere nulla, la pratica del “cannibalismo”, come viene definita dai servizi segreti, potrebbe avere un senso visto che Alba Dorata è crollata nei consensi dopo l’omicidio di Fyssas e se si andasse a votare ora non supererebbe il 6%. Passando dalla parte della vittima, ovviamente riguadagnerebbe popolarità. Per quanto riguarda l'ipotesi della corrente, è altrettanto credibile perché in questo momento nel partito c’è un vuoto di potere a causa del-l’arresto del suo leader e del suo braccio destro. Molti aspirano a prendere il loro posto ed è in corso una guerra tra la figlia di Michaloliakos, Urania, e altri membri della dirigenza. Voglio anche ricordare che il piccolo führer, almeno un paio di volte, sfruttando i suoi contatti con le forze dell’ordine, ha fatto delle soffiate allo scopo di togliersi dai piedi i membri del partito che insidiavano la sua leadership.

Corriere 3.11.13
Strategia della tensione, in Grecia rinasce l’Incubo degli Anni Settanta
di Antonio Ferrari


Davanti all’assassinio di due appartenenti al partito neonazista Alba dorata, lo scrittore greco Vassilis Vassilikos, che i giochi del potere li ha sempre denunciati, evita valutazioni affrettate. Però su un punto ha ben pochi dubbi. L’autore di Z, l’orgia del potere , libro e film che raccontarono la Grecia alla vigilia del colpo di Stato dei colonnelli, è convinto che siamo entrati in una nuova fase della «strategia della tensione». Che significa provocazioni, incursioni dei servizi segreti, e utilizzo di tutti gli strumenti necessari per infiammare una situazione già esplosiva. Noi italiani questa «strategia della tensione» l’abbiamo vissuta negli Anni 70. La Grecia rischia di doverla subire oggi, nel cuore di una crisi economica devastante, con costi sociali difficilmente sostenibili. Il clima ideale per le manovre più ardite e spietate di troppi poteri paralleli.
Vassilikos invita a riflettere su alcuni dettagli-chiave: le modalità del doppio assassinio, compiuto da sperimentati professionisti; le armi, mai utilizzate dal terrorismo ellenico, tipo Zastava, nome di una nota e antica fabbrica serba; la spietata esecuzione, con la raffica ad infierire su corpi ormai senza vita. Tutti elementi che lasciano intuire la pericolosità di questa nuova stagione. Il doppio assassinio, infatti, potrebbe essere la risposta al blitz democratico del ministro dell’interno Nicos Dendias, che con una discrezione straordinaria ha sferrato un attacco mirato e forte contro Alba dorata, denunciandone i retroscena e le mire. Sotto inchiesta non è l’estremismo politico, ma le azioni di un’organizzazione criminale con rappresentanza parlamentare. Oltre agli arresti eccellenti, alcuni deputati del partito neonazista hanno perduto l’immunità.
È difficile, adesso, prevedere le conseguenze di un doppio assassinio che ha provocato quantomeno una totale convergenza delle forze politiche greche: più che mai unite nel condannare il crimine, gli autori e i mandanti. Alba dorata, per il tramite del suo portavoce, invita i greci alla calma e a non raccogliere le provocazioni. Saggio appello. Nella speranza che sia davvero un segnale per limitare le violente scorribande di un gruppo che neppure la più devastante delle crisi economiche può giustificare.

Corriere 3.11.13
Il gigante che piace alla Grande Mela «Ora paghino i ricchi»
Il trionfo annunciato di Bill de Blasio
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Basta privatizzazioni. Basta affidare servizi pubblici ai contractor esterni. E basta attacchi ai sindacati che devono, invece, estendere il loro ruolo: nel passato in America si è affermato un vasto ceto medio grazie al movimento dei lavoratori. Oggi il 46 per cento della gente di New York vive in povertà. Parlare dei problemi di chi, pur lavorando sodo, fatica ad arrivare a fine mese è onesto e patriottico: servono 200 mila case popolari, basta chiudere gli ospedali di quartiere. E i ricchi devono dare di più con le tasse per finanziare gli asili e il doposcuola delle scuole medie».
È l’imbrunire quando Bill de Blasio, l’italoamericano che martedì verrà eletto sindaco di New York, arringa una piccola folla fatta soprattutto di sindacalisti sulla scalinata di Borough Hall, il municipio di Brooklyn. Gli attivisti agitano felici i cartelli delle union degli insegnanti e di quelle dei camionisti, mentre lui incalza: «Dobbiamo organizzare altre categorie: guardie private, dipendenti degli autolavaggi e dei fast food». È tornato il vero Bill, il «loro» sindaco: l’immagine del campione della lotta degli oppressi in un sistema dominato dal grande capitale finanziario scaccia di nuovo quella del candidato che fa pace con Wall Street e incassa l’apprezzamento dei banchieri e perfino di Donald Trump, appena diffusa dai giornali.
Ma qual è il vero de Blasio? Quello che da New York si propone di diventare il motore di una rivoluzione sociale americana, e magari mondiale, nel segno dell’egualitarismo (con l’ovvio corollario di un aumento delle tasse sui ricchi) o il candidato che si siede a tavola coi tycoon della finanza riuscendo a sedurre anche l’arciconservatore Rupert Murdoch e il capo di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein? E che, nelle parole di Trump, «non ucciderà la gallina dalle uova d’oro» che è la finanza per questa città? Da de Blasio non arrivano risposte nette. Né, forse, se ne possono pretendere nella foga delle ultime 72 ore della campagna elettorale. Anche se la corsa è tutta in discesa, visto il vantaggio siderale (40 punti percentuali nei sondaggi) sull’avversario repubblicano, Joe Lhota: «Non c’è solo una New York sempre più divisa tra foreste di condomini per plurimilionari e mezza città che scivola verso l’indigenza», dice il candidato democratico, mentre fende la folla di un altro evento elettorale. «Un modello progressista per correggere squilibri che sono diventati eccessivi serve in tutta l’America, è nell’interesse di tutti». Poi, ammiccante coi cronisti italiani: «Torno sempre volentieri in Italia. Le radici della mia famiglia sono a Sant’Agata dei Goti. Averle ritrovate mi ha dato un senso diverso delle cose, ha cambiato il mio modo di vedere il mondo».
Marxista, sandinista, castrista: de Blasio è riuscito a spazzare via le caricature che la stampa di destra aveva provato ad appiccicargli addosso sulla base delle sue infatuazioni politiche giovanili. Ma il pragmatismo dell’amministratore efficiente che Bill ha esibito davanti alla comunità degli affari non gli farà di certo rinnegare il suo credo sociale. Lo sanno anche quelli di Wall Street che, pure, si dicono pronti ad accoglierlo a braccia aperte: qualcuno sta semplicemente saltando sul carro di un vincitore che avrà enormi poteri d’indirizzo dell’attività economica della città; altri si rendono semplicemente conto che non possono passare i prossimi quattro anni a elaborare il lutto per la perdita di Michael Bloomberg. Un altro come lui, un imprenditore della finanza che diventa sindaco, non ci sarà mai più. De Blasio spaventa, più ancora che per le sue idee sulle tasse, per l’intenzione di rendere meno stringenti i controlli di polizia nelle strade, oggi severi soprattutto per neri e ispanici: il timore è quello di un’inversione di tendenza dopo vent’anni — quelli di Giuliani e Bloomberg — di crollo verticale degli indici di criminalità.
Ma alla fine il mondo dell’economia e anche i benestanti progressisti della città scommettono sul pragmatismo di de Blasio: se vuole diventare un modello (e magari anche un leader) nazionale, non può certo ignorare l’ossessione degli americani per la sicurezza. E Bill sa bene che il suo esperimento sarà attentamente monitorato dal partito democratico che intende focalizzare proprio su lavoro e riduzione delle diseguaglianze le presidenziali del 2016.
Per adesso Bill coglie i frutti di una campagna elettorale efficace e senza sbavature nella quale, più ancora che sul suo credo economico-sociale, ha puntato sulla sua grande simpatia umana da «gigante buono» (è alto un metro e 96) e su una famiglia multietnica (la moglie, Charlene, è nera ed è stata anche una leader del movimento gay) per conquistare le minoranze. C’è riuscito alla grande facendo sparire, già nelle primarie, i candidati di colore e conquistandosi non solo il consenso di un’ampia maggioranza di afroamericani e italiani, ma anche degli ispanici (parla perfettamente lo spagnolo dagli anni dei viaggi in Nicaragua) e perfino degli ebrei.
Governare, ridurre le diseguaglianze e modificare i meccanismi di distribuzione del reddito senza rinnegare l’economia di mercato, sarà tutt’altra sfida.

Repubblica 3.11.13
“Riprendiamoci il Palazzo”, l’ultimo sprint di Bill il rosso alla conquista di New York
In piazza con de Blasio, il candidato sindaco favorito
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — George ha l’aria timida, i capelli radi e gli occhiali con le lenti spesse, ma non si arrende, sposta di peso le persone e blocca Bill de Blasio che sta salendo in auto dopo il comizio. Gli fa vedere un foglio scritto fitto fitto: «Io abito là dietro, ci sono queste cose che non vanno, te ne devi occupare». Lui, il candidato sindaco dei democratici, si piega dall’alto dei quasi due metri e lo ascolta attento, si gira verso la sua assistente: «Prendi questi appunti e il suo nome» poi gli dice: «Grazie di essere venuto ad ascoltarmi». George sorride: «Vedi? Non mi ero sbagliato lui la gente la ascolta veramente. È l’uomo giusto».
È la prima tappa dell’ultimo sprint, il week end decisivo prima del voto di martedì, quello in cui si decide il futuro di New York: Bill de Blasio viene dato al 68% contro il suo rivale, il repubblicano Joe Lhota, ma non basta arrivare davanti: «Serve una vittoria con un ampio margine, perché questa volta dobbiamo cambiare le cose», come ripetono i suoi collaboratori più stretti invocando quella che chiamano “la valanga”. Sono le undici del mattino, a Verdi Square la statua dedicata al compositore italiano accoglie i sostenitori di Bill: ci sono i giovani studenti, molti afroamericani, ma anche una delegazione di latinos con tanto di striscione. Poi le famiglie con i bambini. Enne, cappotto rosa e borsa firmata, abita due strade più in là è qui con i suoi figli piccoli Susy di cinque anni e William di due: «Tutta la mia famiglia si fida di Bill. Io credo in una città diversa, con lui ci sarà la svolta. Io sono afroamericana, lui è molto vicino alla mia comunità ma sono sicura che sarà il sindaco di tutti».
C’è un bel sole, l’appuntamento è qui nel cuore dell’Upper West Side, uno dei quartieri residenziali, un luogo simbolico per un politico sospettato dai poteri forti di essere troppo di sinistra. Lui lo sa, per questo nelle ultime settimane mette in agenda incontri con gli uomini di Wall Street e con i broker immobiliari più importanti. Ma non fa sconti. Le parole d’ordine sono quelle che lo hanno portato sino ad un passo dal successo: tassare i più ricchi, case per tutti, niente privilegi all’edilizia di lusso, più ospedali, sostegno alla scuola pubblica e soprattutto basta con lo “stop and frisk”, la pratica accusata di razzismo (benché venerdì assolta da un giudice) con cui la polizia ferma i sospetti soprattutto giovani black. Dai microfoni il flusso di slogan segue un copione dai ritmi perfetti: «Andiamo a riprenderci il palazzo, da vent’anni ci tengono lontano: tocca a noi», ancora: «L’ultima volta di un democratico non esisteva ancora Internet», che rende bene l’idea delle aspettative e il redivivo: «Yes we can».
Progressista è il mantra. Lo dice anche Harry Belafonte, l’icona della musica caraibica e delle battaglie per i diritti civili. È stato uno dei primi a puntare su de Blasio — con l’attrice Susan Sarandon che si presenta nell’altro comizio di ieri dove si sono date appuntamento “le donne per Bill” — e adesso è qui. Ha 87 anni ma gli occhi brillano pieni di energia: «Sono orgoglioso di esserci. Condivido la sua filosofia, dopo tanto, troppo tempo avremo un sindaco progressista. Basta con la cultura dei ricchi, bisogna pensare alla gente comune: sono loro la voce e la musica di New York». Poi si ferma, cerca laparola giusta per il saluto. Da sotto gli urlano: “Liberal”, ma lui allarga un sorriso e ribatte: «No, troppo poco: siamo radicali».
L’applauso saluta Bill de Blasio che abbraccia Belafonte. Le mani intrecciate con la moglie Chirlane che gli sta al fianco, la prima dedica è per lei: «Mi ha indicato la strada giusta, è piccolina ma è coraggiosa e forte, è stata decisiva per me. Sarà una perfetta first lady». Poi, con la solita abilità retorica attacca lo spartito: «È un momento storico, da vent’anni il potere di questa città non ascolta la voce della gente: è tempo di cambiare. Non fidiamoci dei sondaggi, io credo solo in quello che la gente fa. Siamo allo sprint e dobbiamo mettere in campo le energie, serve l’impegno di tutti voi per ottenere un risultato importante: portate i vostri amici, i vostri familiari, portate tutti a votare. In bici, in auto, in skateboard: non mi importa come ma lo dovete fare. Mi accusano di avere idee ambiziose. Io dico semplicemente che sono giuste». La stoccata è per Rudy Giuliani che, sostenendo Lhota, lo accusa di «voler riportare il crimine e la violenza». Lui, senza nominarlo, replica: «Ovvio, anche io voglio vivere in una comunità sicura, ma voglio anche vengano rispettati i diritti civili delle minoranze e la costituzione d’America». La musica del suo jingle invade la piazza. La gente balla. Qualche metro più in là Lisa Rosenthal, una delle donne dello staff, osserva la scena: «Se penso da dove siamo partiti mi sembra incredibile. Mi viene quasi da piangere». Invece ride e saluta quelli che le sono vicini, si danno appuntamento «a Brooklyn martedì notte» e sognano di risvegliarsi all’alba di una nuova era.

Corriere La Lettura 3.11.13
Qualcosa è cambiato nel cuore di Istanbul
Ecco chi sono oggi i giovani e i meno giovani della rivoluzione Taksim
di Paolo Giordano


Mancano pochi giorni al 29 ottobre e sulle strade principali di Istanbul, appesi in alto, a fili che formano uno zigzag interminabile, ondeggiano al vento centinaia di stendardi biforcuti con la stella solitaria e l’unghia sottilissima di luna su sfondo rosso, che fanno della bandiera turca una delle più poetiche al mondo. Il volto fiero di Atatürk domina dalla facciata di un palazzo la piazza Taksim. Il padre della patria attende di vedere i cortei, lo sguardo glaciale proteso verso l’infinito e l’espressione dolente e fiduciosa di sempre. La Festa della Repubblica verrà celebrata in pompa magna, come vuole l’orgoglio nazionalista del Paese e secondo l’inclinazione alla megalomania del governo in carica e del suo leader, Recep Tayyip Erdogan. Ma qualcosa è cambiato nello stomaco della città.
«Sì, qualcosa è cambiato», afferma con convinzione S., una trentaduenne con la montatura degli occhiali sbarazzina e l’aria più newyorchese che turca. S. lavora nell’editoria, insieme al suo capo e unico collega che ora le siede accanto e con il quale giura di non avere una relazione sentimentale: «Dopo Gezi Park sappiamo che esiste una generazione con gli occhi sbarrati, che valuta ogni mossa del governo e d’ora in poi non lo lascerà libero di comportarsi come vuole». Poi, però, distoglie lo sguardo e ammette la propria debolezza: «Non sono andata a manifestare. La folla mi spaventa. Non solo i poliziotti, ma così tante persone radunate... può succedere di tutto».
In occasione della ricorrenza del 29 ottobre, il premier turco inaugurerà l’ultima delle opere faraoniche di cui si è fatto promotore, il Marmaray, un tunnel scavato a sessanta metri di profondità sotto il Bosforo, dentro il quale viaggerà un treno della metropolitana, il passo successivo nel congiungimento di Asia ed Europa. «Non ci salirò mai» promette la ragazza dell’editoria e il suo collega e capo annuisce con la testa (se anche non condividono una relazione sentimentale e lei non ne desidera una, è evidente che lui non la pensa allo stesso modo). Insieme si lasciano andare a una fantasia: «Pensa se il primo ministro e il presidente restassero bloccati nel loro tunnel durante il viaggio inaugurale». «Vivi?» «Certo, vivi, per carità. Però chiusi là dentro per qualche mese, ad arrangiarsi».
L’ironia, l’immaginazione divertita, il romanticismo e l’ingenuità sono stati il contrassegno della protesta di Gezi Park. A cominciare dal suo proposito iniziale: la salvaguardia di qualche decina di alberi nel centro città di Istanbul. Il 28 maggio scorso, quando il governo ha annunciato l’avvio dei lavori per il rinnovo del parco Gezi — rinnovo che prevedeva innanzitutto di radere al suolo i platani e il resto della vegetazione e di scavare una buca profonda per le fondamenta di Dio solo sa cosa, forse un centro commerciale —, una cinquantina di persone, per lo più appartenenti a gruppi ambientalisti, si sono riunite spontaneamente nell’area verde e si sono opposte all’ingresso delle ruspe. Il giorno dopo il numero è raddoppiato e la terza sera erano più di cinquecento, tanto che gli ambientalisti credevano che si trattasse dei ragazzi diretti al concerto di Rihanna. I dimostranti sono cresciuti nelle settimane successive in proporzione geometrica e il dissenso ha contagiato rapidamente le altre città, da Ankara a Smirne, da Antalya a Bursa.
La reazione veloce e non commensurata del governo — un governo che ha in cima alla sua agenda il riconoscimento della propria lungimiranza da parte dell’Occidente — ha sbalordito il mondo: dopo avere ordinato lo sgombero, la polizia ha attaccato i manifestanti con lanci massicci di gas lacrimogeno e con le pompe idranti. Nel cuore della neutralissima Turchia sono state innalzate barricate di ferraglia e per aria sono volati sassi e bottiglie molotov: oltre una settimana di guerriglia non preparata, non annunciata, che ha portato morti e feriti e alla quale sono seguite altre ricadute sporadiche.
Fin da subito i media locali sono stati opportunamente azzittiti, chi osava coprire l’evento veniva allontanato o addirittura arrestato con motivazioni esili, al punto che la Cnn turca, il secondo giorno di scontri, mandava in onda un documentario sui pinguini mentre gli occhi del pianeta erano fissi sulla lacerazione di Istanbul. I dimostranti hanno ribaltato lo slancio di autoritarismo con una leggerezza che gli scontri di piazza non conoscevano fino ad allora: hanno eletto a proprio simbolo la sagoma del pinguino della Cnn, coprendogli il viso con una maschera antigas, hanno coniato slogan irridenti ma per nulla offensivi — «Mi fate venire le lacrime agli occhi!», «Ne vuoi altri tre come me?» (riferendosi all’insistenza espansionistica del governo sulla necessità di generare almeno tre figli) — e hanno perfino ballato sotto il getto impetuoso degli idranti. Per molti si trattava della prima protesta della vita, specie per i più giovani, già bollati dalle generazioni precedenti come apolitici / disinteressati / globalizzati / figli del consumismo / bambocci / çapulcu ovvero vandali e che, al contrario, hanno dimostrato di possedere non solo un amor proprio, ma il gene specifico codificante la dissidenza, occupando una piazza e inscenando una protesta che ha ottenuto immediato risalto mondiale.
Piccole sacche di malcontento che prima erano parcellizzate e invisibili le une alle altre — gruppi di ecologisti, associazioni per i diritti degli omosessuali, minoranze etniche, partiti di sinistra relegati ai margini, singole persone preoccupate e soprattutto ragazzi che si sentivano trattati con eccessiva degnazione — si sono unite per proteggere degli alberi, con la stessa delicatezza perentoria con cui le sorelle Lisbon abbracciavano l’olmo del loro cortile per evitarne l’abbattimento, nel film Il giardino delle vergini suicide . I dimostranti di Gezi Park si sono accorti, contandosi, che le cose non andavano bene come credevano (o forse andavano molto meglio), che qualcuno li aveva ingannati: gli era stato dato motivo di credere che ognuno di loro fosse il solo a sentirsi escluso dal grande miglioramento collettivo. Non era così.
È quasi impossibile sintetizzare in un profilo unico un’umanità composita come quella che a maggio affollava piazza Taksim. Ma, se si provasse, verrebbe fuori una sorta di supergioventù dalla faccia pulitissima, attenta ai temi ecologici e insofferente verso il progresso — a meno che non abbia a che vedere con la tecnologia e i multimedia, perché in quel caso l’insofferenza si trasforma in beatificazione —, tollerante rispetto alle preferenze sessuali ma sessualmente tiepida; libera e giuliva eppure profondamente seriosa, a suo modo perfino ortodossa, vicina per certi aspetti al movimento hippy, ma senza i fronzoli né le utopie né i gravi conflitti con i padri, tipici di quegli anni. Il conflitto generazionale, quando compare, viene affrontato in modo assai diverso, con il sorriso, come se al posto di dare sfogo al risentimento, i figli indicassero gentilmente ai genitori la via della casa di riposo. Una presa in giro bonaria, insomma. È all’incirca ciò che è successo quando Erdogan ha bollato «quella cosa chiamata social media» come «la più grande minaccia della società», o forse, in quel caso, ha fatto tutto da solo. «Pensavamo che i ragazzi della tua età non avessero dentro nulla», mi confessa un’insegnante di italiano, «pensavo che mia figlia di 29 anni non avesse dentro nulla, e invece ha partecipato a tutta la protesta. Al mattino andava al lavoro e si portava dietro la borsa per restare fuori il pomeriggio e la sera. Un giorno sono andata anch’io. C’erano molte madri come me».
Istanbul rappresenta da sempre uno spartiacque. Si divide a metà fra l’Europa e l’Asia, in un ipotetico baricentro del mondo emerso, e si divide a metà fra il passato e il presente, perché attraversando i cinquecento metri del ponte di Galata si transita in pochi minuti dal modernismo esasperato di Beyoglu all’immutabilità ostile, quasi medievale di Sultanahmet. Ma non è questo l’unico motivo per il quale ho cercato le tracce della trasformazione proprio qui. Istanbul rappresenta anche uno spartiacque personale, perché l’ho conosciuta durante l’ultimo viaggio della mia prima esistenza, quando mi trovavo già con entrambi i piedi nella seconda — era l’estate del 2008. Dentro l’hammam dove andai a sudare, mentre l’energumeno del massaggiatore mi schiaffeggiava contro il marmo come uno straccio bagnato, strofinandomi malamente con un guanto ruvido, pensavo che non capivo niente di ciò che mi stava accadendo e che avevo paura del futuro, ma che uno strato della mia pelle sarebbe comunque rimasto lì per sempre.
Tutti coloro che interpello a proposito di Gezi Park mi assicurano di essere stati fra i manifestanti della prima ora, fra i trenta valorosi, ormai leggendari come i trecento spartani delle Termopili o i Mille garibaldini. La maggior parte di loro mente. Senza dubbio, tuttavia, al parco c’erano gli esponenti della Piattaforma Taksim che incontro il venerdì mattina nella pasticceria leziosa del Pera Hotel. Avevo chiesto di intervistare un portavoce del gruppo, invece si presentano in tre: un architetto, un giornalista in pensione e il proprietario di un’agenzia di viaggi che nella stagione opportuna produce olio d’oliva — nessuno ha meno di cinquant’anni. Si conoscono da molto tempo, ma non sembra che siano esattamente amici, piuttosto che abbiano covato insieme un ideale segreto, una resistenza: assomigliano a tre partigiani dal cuore indurito.
È curioso che siano loro a rappresentare la protesta che è stata venduta al mondo come il risveglio delle nuove generazioni, come la Grande Rivolta dei Social Network. Glielo faccio notare, sperando di non risultare offensivo, ma a quanto pare lo sono. «Anche noi ci aspettavamo di trovare qualcuno di più vecchio», ribatte il giornalista pensionato, «ci avevano detto che sarebbe venuto uno scrittore». E comunque, puntualizza poco dopo, tutti loro sono attivi sia su Twitter che su Facebook. «Non solo un centro commerciale. Volevano costruire una moschea», racconta l’architetto. «Ho fotografato di nascosto il cerchio che avevano tracciato a terra, là dove sarebbe sorta la costruzione. Piazza Taksim rappresenta la cultura laica di questo Paese. Volevano inserire una moschea proprio lì per creare una polarità pericolosa». Snocciolano le ragioni della protesta, quelle che ben presto hanno sopravanzato la volontà di proteggere gli alberi: l’urbanizzazione selvaggia incoraggiata dal governo, che mira ad attirare capitali stranieri e a spingere la povertà sempre più ai margini; il ritorno implicito eppure evidente alla supremazia religiosa, per esempio tramite la restrizione della vendita di alcolici — una misura alquanto goffa, come mi renderò conto la sera stessa, camminando nella calca del mercato del pesce, dove ogni dieci passi è pronta una postazione per gli shot di rum e di vodka —; e poi ancora la questione curda, sempre sotterrata e mai veramente risolta.
«Un gruppo di esperti si riunisce ogni anno, proprio qui davanti, per discutere dei cambiamenti da apportare alla città. L’anno scorso abbiamo consegnato al premier un plico con delle proposte. Lui, dopo essere decollato con l’elicottero, ha stracciato i fogli e lasciato cadere i pezzetti». S’interrompono l’un l’altro, si parlano addosso. Il giornalista in pensione, che è anche il più timido, non trova il modo di inserirsi, si vede che soffre. Anche fra tre irriducibili sessantottini turchi s’instaurano delle dinamiche curiose di sopraffazione. Domando loro cosa succederà adesso, se l’evoluzione naturale non sarebbe di convertirsi in un movimento politico, per non disperdere le energie accumulate. «Esiste un partito che avrà Gezi Park nel nome, ma non andrà lontano. In questa protesta nessuno rappresenta nessuno».
Non è difficile capire perché i disordini sono accaduti proprio qui, in Turchia, a Istanbul, nel quartiere di Beyoglu. Camminando in mezzo e contro la folla lungo l’Istiklal Caddesi, la via pedonale che collega la stazione della funicolare per Galata a piazza Taksim, ti accorgi che essa corre attraverso la città e la taglia in due come un filo di benzina. È sufficiente una scintilla per incendiare tutto. Ciò che risulta meno comprensibile — e assai meno accettabile — è il motivo per il quale non accade lo stesso da noi. Non sono io a osare il paragone con l’Italia, viene fuori da ognuna delle persone con cui parlo, accompagnato da un risolino (un italiano che viaggia all’estero negli ultimi anni deve innanzitutto abituarsi a questo continuo sogghignare). Ma neppure si può fingere che delle assonanze non esistano: una situazione politica da lungo tempo stagnante e avvitata su se stessa; una generazione di ormai adulti che continuano a essere trattati come bambini; una sinistra che «ha le sue colpe, perché ha voluto imporre se stessa come struttura intermedia fra la gente e le istituzioni, allontanandola sempre di più» (lo dice il produttore d’olio); la costruzione di un ponte controverso e dispendioso, il terzo che dovrebbe solcare il Bosforo; il timore latente e giustificato di tornare a essere inghiottiti dal bigottismo religioso, ma soprattutto l’egemonia sostanziale di una figura — per la Turchia quella di Recep Tayyip Erdogan — dalla quale il Paese stenta a emanciparsi, come attanagliato dal terrore di ritrovarsi orfano di quel carisma, una figura ingombrante che con il passare del tempo viene attorniata sempre più strettamente dai propri antichi fantasmi — per Erdogan, il colpo di Stato del 28 febbraio 1997 — e trascina nel proprio destino l’intero Stato, come Macbeth impazzito.
Le analogie mi tormentano per tutto il tempo che rimango a Istanbul. Possibile che i giovani turchi siano sottoposti a una frustrazione maggiore della nostra, che il loro desiderio di emanciparsi sia più ostacolato di quello dei coetanei italiani? Possibile che la personalità che tiene in pugno il loro Paese da dieci anni sia più antipatica e squallida di quella che ha tenuto (e tiene ancora) in pugno il nostro da venti? Possibile che l’abbattimento di una manciata di alberi a Gezi Park meriti più sdegno della rimozione in cui è affondata una città intera, L’Aquila, a quattro anni dal terremoto che l’ha sbriciolata? Può darsi. O magari è solo che noi usiamo male i nostri smartphone, li adoperiamo soprattutto per blaterare e intontirci. Oppure è molto più complicato di così: ogni nazione possiede la propria soglia del dolore e la nostra è diventata pericolosamente alta, tanto alta da lasciare che la malattia infetti ogni organo prima che proviamo anche solo a contrastarla. Le circostanze dimostrano, mi sembra, che, a dispetto del nostro pittoresco sbraitare, siamo un popolo di incassatori formidabili.
A dirla tutta, i platani di Gezi non sono né molto antichi né granché maestosi, con qualche eccezione. Ma sono alberi, gli unici nel raggio di chilometri e contengono la speranza di cui ci parlava Jean Giono. Soprattutto sono simboli, simboli del rilascio di ossigeno e di qualcosa che può restare uguale mentre tutto intorno cambia. Entrando nel parco si sperimenta un silenzio improvviso. Piazza Taksim è ampia, il vociare della gente sull’Istiklal e il frastuono dei cantieri disseminati intorno si disperdono facilmente. Riesco a sentire il fruscio di un sacchetto di plastica che si contorce al vento. È domenica mattina, le bancarelle vendono castagne arrostite sbucciate per metà e spremute di melograno, che hanno il colore e il sapore del vino acido. Un vietnamita capellone siede a gambe incrociate sul prato, si esercita nel far scivolare una sfera di vetro da una mano all’altra e poi su, lungo le braccia. Una donna anziana un po’ svitata strimpella una chitarra. I netturbini spazzano con metodo le foglie secche e i mozziconi di sigaretta. C’è un uomo che piange rannicchiato su una panchina, indossa una giacca elegante, ma gli si scorgono i calzini di spugna bianchi, guarda ripetutamente qualcosa sul telefono e ogni volta si dispera.
Il piano di rinnovo del parco è stato ritirato, gli alberi sono salvi per il momento e non vi è segno dei disordini della primavera, soltanto tre ragazzi che, appartati in un angolo, registrano un videomessaggio. Mi avvicino per ascoltare. Uno di loro sta leggendo un comunicato da un foglio, in un inglese incerto racconta della repressione della polizia e, proprio mentre sta dicendo di un quattordicenne che si trova ancora in coma per via dei gas lacrimogeni, gli scappa da ridere. La batteria della videocamera si scarica prima che abbia terminato. «È per la televisione estone» mi spiegano, quasi scusandosi, «si capiva qualcosa?». «Sì» gli rispondo. Si capiva molto bene.

l’Unità 3.11.13
Scienza
Gli «scherzi» della mente
Sacks racconta in un libro cosa sono le allucinazioni
di Eugenio De Rosa


Il neurologo di «Risvegli»
Oliver Wolf Sacks è un neurologo e scrittore inglese, autore di diversi libri di successo basati sulle storie cliniche e umane dei propri pazienti.
Il suo testo più noto è Risvegli (Awakenings), dal quale è stato tratto il film omonimo con Robin Williams e Robert De Niro, e a cui sono seguiti i noti Su una gamba sola e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Sacks ha approfondito un genere letterario quello delle storie cliniche risalente alla tradizione del XIX secolo.

ADDIO FANTASMI, VOCI MISTERIOSE, ANGOSCIOSE PRESENZE, APPARIZIONI MOSTRUOSE, APPARIZIONI ESTATICHE, singole o collettive. Questi fenomeni sono assai più comuni di quanto si creda per il pudore a dichiararli (poi mi prendono per matto) e, nella loro divulgazione danno luogo a credenze tutte orientate al paranormale o al soprannaturale. Qualche giorno fa una mia amica, persona coltissima, di intelligenza non comune, grande lettrice, moglie di un giornalista importante, mi ha, in segreto confessato che parecchi anni fa (e lo ricorda ancora!) passando da una stanza all’altra della sua grande e antica casa (un poco scricchiolante...) improvvisamente si è trovata di fronte a un uomo sconosciuto dal viso serio e non simpatico. Non ha fatto in tempo a cacciare un urlo di terrore e l’uomo era già scomparso: «Cos’era se non un fantasma? I fantasmi esistono».
No, era un’allucinazione, una di quelle che chiunque in condizioni per esempio di stress, può provare . Comunque dopo questo libro del grande neurologo e divulgatore Oliver Sacks (Allucinazioni, pag. 325, 16 euro, Adelphi) non è più possibile supporre di trovarsi dinnanzi a fenomeni paranormali provenienti in qualche modo dall’esterno, da «altri mondi», perché sono interamente il prodotto della nostra testa, di quell’incredibile organo che è il nostro cervello.
L’ allucinazione, dice Sacks, è una percezione (visiva, ma anche solo uditiva, o olfattiva o tattile) che ha origine in assenza di una qualsiasi realtà esterna: in sostanza quando si percepisce qualcosa che proprio non c’è.
Come è capitato al signor Charles Lullin, nonno del naturalista svizzero Charles Bonnet che doveva lasciare la prima grande traccia di uno studio sulle allucinazioni. Siamo nel ‘700 e Bonnet si accorge che il nonno sta perdendo la vista e al contempo mostra di avere delle «visioni». Ne trae la conclusione che il cervello perdendo i segnali provenienti dagli occhi attingeva alla memoria per fabbricarsi una sua visione personale.
Rosalie, invece, paziente di Sacks, qualche anno fa ha cominciato ad avere visioni: persone vestite con eleganti abiti orientali, cavalli nella neve, bambini. Trattandosi di un’ultranovantenne cieca sulle prime si pensava fosse affetta da qualche malattia neurologica come l’Alzheimer; ma la sua cecità e il continuo seguire con le pupille cieche il succedersi delle immagini ha consentito a Sacks di diagnosticare la Sindrome di Charles Bonnet collegata alla cecità. Uno studio condotto in Olanda su 600 anziani ciechi o con problemi alla vista ha mostrato che circa il 15 per cento aveva allucinazioni complesse e addirittura l’80% aveva allucinazioni cromatiche di vario tipo.
Ma le allucinazioni non nascono solo dalla deprivazione della vista (solo il 10-20% dei non vedenti ne soffre): negli anni Sessanta del secolo scorso sono stati effettuati esperimenti con vasche in cui gli individui non potevano attivare alcun senso: non la vista né l’udito, l’odorato o il tatto. Le allucinazioni cominciavano già dal secondo giorno e divenivano sempre più intense. La deprivazione sensoriale può anche manifestarsi per mancanza di sonno, fatica eccessiva, sfinimento. Il caso Micael Shermer, filosofo e storico della scienza, molto impegnato contro il paranormale: Shermer era anche un atleta di endurance e durante una faticosissima ciclomaratona, dopo avere pedalato per 83 ore e aver percorso più di 2000 chilometri, nelle prime ore del mattino di quell’8 agosto «un velivolo con luci molto intense mi sorpassò e mi costrinse ad accostare. Ne uscirono esseri alieni che mi rapirono e mi tennero con loro per 90 minuti....». Piccoli uomini verdi? No, fatica e mancanza di sonno.
SENTIRE LE VOCI
Le voci: quanti di noi hanno sentito voci non solo quelle ben riconoscibili sussurrate dentro di noi? Voci forti, esterne. Una volta il fatto di riconoscere che si «sentivano delle voci» era il modo migliore per finire in manicomio con la diagnosi di schizofrenia. Ora è diverso: si sono identificate frequentissime situazioni di questo tipo senza necessariamente che si parli di patologia. Una testimonianza, niente meno che di Freud. «Ci sono stati solo due momenti in cui mi sono sentito in pericolo di vita. In entrambi i casi udii quelle parole “è la fine” gridate all’orecchio e le ho viste come stampate su un foglio di carta».
Qualche volta le voci salvano la vita. Liz: aveva il cuore spezzato per un abbandono e stava per ingoiare una manciata di pillole che l’avrebbe uccisa; improvvisamente una voce maschile le disse «no, tu non vuoi farlo davvero» e vide un giovane in abiti del ’700 seduto davanti a lei. Liz può ancora raccontarlo. Da quali meccanismi vengano queste voci non è ancor chiaro.
E passiamo all’odorato di questa straordinaria rassegna di Sacks: gli odori che siamo in grado di distinguere sono circa 10.000 (che però non sono tutti gli odori esistenti) e nel naso ci sono per questo oltre 500 recettori che inviano i loro segnali in apposite aree del cervello. Per varie ragioni può capitare che tale via si interrompa; e dunque si manifesta per l’odorato una sindrome corrispondente a quella di Charles Bonnet per la vista: il cervello si inventa gli odori che non riceve più, odori che sono in genere schifosi e sovente indescrivibili.
A parte le già citate deprivazione sensoriale, mancanza di sonno, eccessiva stanchezza, stress che possono riguardare chiunque, quali sono i malanni, oltre la cecità e la sordità, che possono condurre a sperimentare allucinazioni: parkinsonismo, epilessia, schizofrenia, ma anche emicrania stato di trance e uso di droghe.
L’emicrania a lungo sperimentata dallo stesso Sacks che ha cominciato a soffrirne a 3 o 4 anni: «Stavo giocando in giardino quando apparve una luce così luminosa da accecarmi. La luce si espanse...» e diventò un arco di molti colori con bordi taglienti e lucidi. Era l’aura che spesso precede la dolorosissima emicrania che può esser seguita da allucinazioni.
Anche persone sanissime possono sperimentare occasionalmente allucinazioni: il momento è il passaggio dalla veglia al sonno o viceversa in cui possono apparire le immagini più strane. Non è una malattia ma il nostro cervello in piena attività. Naturalmente lo stato allucinatorio può essere indotto attraverso l’uso di droghe. Il nostro Sacks, ora quasi ottantenne (è nato in Inghilterra nel 1933) confessa di aver cominciato sulla trentina (forse a scopo scientifico) a sperimentare le droghe allora disponibili dalle anfetamine all’Lsd e di avere raggiunto i più diversi stati e molti tipi diversi di allucinazioni che ora descrive con grande accuratezza scientifica come tutto quello che racconta in decine di suoi libri, molti tradotti anche in italiano.

Repubblica 3.11.13
Ludwig Wittgenstein
La vita oltre la Logica
di Simonetta Fiori


Gli ultimi scatti volle controllarli fin nel dettaglio. Disse al fotografo che preferiva essere ripreso di spalle, poi ci ripensò e decise di guardare l’obiettivo. Ma mancava il fondale. Si affrettò allora a casa dei von Wright a prendere un lenzuolo, Elizabeth gli offrì un telo fresco di stiratura ma andava benissimo quello spiegazzato tirato via dal letto. Lo appese davanti alla veranda, accostò due sedie per far posto a un soddisfatto Georg Henrick — suo successore in cattedra a Cambridge — e finalmente Ludwig Wittgenstein si accomodò davanti all’obiettivo. Lo sguardo diretto e teso, come una freccia da conficcare dentro la macchina. È la prima volta che succede, in tutto l’album. Nelle altre sequenze sembra guardare sempre oltre la camera — o anche di sbieco, talvolta spiritato — il sorriso beffardo di chi non si ferma alla realtà apparente delle cose. No, qui no. Pare proprio voler impallinare l’interlocutore, se-vero e nel contempo naïf. L’aria trasandata, calzettoni di lana spessa, il sandalo a penzoloni. E quel dardo fulminante. È la sua ultima immagine nella primavera del 1950, un anno prima di andarsene.
Per la prima volta esce in Italia l’album privato di una delle figure più affascinanti ed enigmatiche del Novecento. Un mistero destinato a riaccendersi con questa bellissima Biografia per immagini curata da Michael Nedo, che ha raccolto foto, lettere, citazioni, taccuini, appunti e memorie di amici e famigliari, incluso l’album costruito con perfezione geometrica dallo stesso Ludwig. Ne viene fuori il grande romanzo europeo nel passaggio tra due secoli, tra le sinfonie di Brahms e la rivoluzione atonale di Schoenberg, tra i decori barocchi della Vienna fin de siécle e la pulizia architettonica di Adolf Loos, tra il vecchio ordine asburgico e l’aristocrazia inglese dei Russell e dei Keynes. Il romanzo della distruzione e della rinascita. Con un protagonista che sembra capitato lì per caso.
Pur essendo di quel maremoto esemplare incarnazione, Ludwig dà la sensazione di essere estraneo alla sua stessa storia. Piccolo di statura, piuttosto bello, «il profilo affilato da uccello in volo». Appare spaesato tra gli ori e gli specchi di “palazzo Wittgenstein”, in Alleegasse, uno dei più sontuosi della Vienna asburgica: le sorelle riccamente addobbate, gli uomini in marsina, lui in giacca di flanella stazzonata, inconsapevole emblema del Novecento che avanza. Eccolo ancora con gli stivali di gomma, tra i suoi scolari contadini della bassa Austria, mentre il mondo intellettuale sta già scoprendo le novità del Tractatus. E poi di nuovo, sul finire degli anni Venti a Vienna, in scarponi impolverati nel cantiere di Kundmanngasse, dove aveva costruito la casa per la sorella Margarete. In quello stesso periodo Rudolf Carnap definisce «fondamentali» le sue riflessioni sulla logica, ma Ludwig preferisce concentrarsi sul termosifone angolare per la stanza della colazione. «Era forse l’esempio più perfetto del genio così come lo si immagina», avrebbe annotato di lì a poco Russell. «Appassionato e profondo, intenso e dispotico».
Dispotico anche nelle tante vite che scelse di abi-tare. Ingegnere aeronautico. Volontario nella Grande Guerra. Maestro di scuola elementare. Giardiniere. Architetto. Professore nell’esclusivo club di Cambridge. La vita è per Wittgenstein una continua mossa del cavallo. Fu l’inventore di una nuova filosofia che ruppe con ogni tradizione concettuale del passato — le sue elaborazioni sul linguaggio cambiarono la geografia mentale della modernità — ma non smise mai di contenere l’impulso teorico dentro la concretezza del lavoro manuale. Già considerato un fenomeno negli ambienti accademici, nel 1920 volle andarsene nel villaggio austriaco di Trattenbach per insegnare ai ragazzi delle campagne tutti i segreti del firmamento. Molti strumenti didattici se li fabbricò da solo oppure con l’aiuto dei bambini. Modelli di macchine a vapore. Martelli di ferro. Scheletri di mammiferi. «Un ridicolo spreco di energia e di intelligenza», commentò sprezzante Ramsey, il suo traduttore inglese, in una conversazione con Keynes. Figlio di un magnate della metallurgia, Ludwig aveva scelto di vivere in povertà. E quando la sorellamaggiore Hermine lo rimproverò per le sue scelte al ribasso, lui le raccontò di quel tale che si affanna in tutti i modi per mantenersi in equilibrio durante l’infuriare della tempesta. «Ma allo sguardo di chi non sente la violenza del vento paiono movimenti privi di senso». Lui la tempesta la sentiva fuori e dentro. L’aveva sentita fin da quando era bambino.
Casa Wittgenstein era l’equivalente austriaco dei Krupp e dei Rothschild, tra enormi flussi di denaro, serate musicali e fervore d’arte. Brahms aveva fatto da maestro di piano alla zia Anna. E nel “salone rosso” era praticamente cresciuto lo Jugendstil, generosamente finanziato dal padre Karl. In una foto è poggiato di lato un dipinto di Klimt con una fanciulla bruna in un abito di voile color ghiaccio: è la sorella Margarete, ritratta nel 1905 dall’artista poco prima delle nozze. Tra le stanze di Alleegasse si contano circa ventisei precettori privati per otto figli. Un’atmosfera di «nervoso splendore» che però non riesce a camuffare fino in fondo le tensioni e i laceranti conflitti propri di un’epoca ma anche della facoltosissima famiglia. Tre dei fratelli decisero di farla finita. E anche Ludwig ha spesso la sensazione «di essere di troppo a questo mondo». I decori barocchi gli si rivelano presto gusci vuoti, privi di senso, cui contrapporre il rigore estremo di un’assurda capanna da lui costruita vicino al lago glaciale di Skjolden, Norvegia. Spoglia, essenziale, irraggiungibile su un dirupo. Siamo nel giugno del 1914, poche settimane prima del grande botto.
La sua vita privata fu un continuo oscillare tra il bisogno d’affetto e un’esigenza di quieta solitudine. Nell’album si susseguono molti ritratti maschili — prima l’amico David Pinset, poi l’allievo Francis Skinner, ed ancora il giovane operaio Keith Kirk — che riempirono le pagine bianche della sua vita amorosa, ma senza mai romperne il solipsismo sentimentale. Il fatto che queste persone lo ricambiassero era forse del tutto irrilevante. Anzi, la loro indifferenza finiva per rassicurarlo nella sua splendida blindatura.NarrailbiografoRayMonkchel’unico a minacciarne l’isolamento fu il devoto Skinner, qui ritratto in pose eleganti durante una passeggiata a Cambridge. Nel 1935 prese a scrivergli lettere turbate — «ti ho pensato un sacco da quando ci siamo visti», «ho sperato che ti facesse piacere sapere quale felicità mi procura vederti» — con l’effetto di provocare il bisogno di lontananza. Nel 1941 il ragazzo muore. Ai funerali Ludwig s’aggira senza requie, come un animale disperato e selvaggio. Nell’agenda solo un appunto: «Francis dies».Qualche tempo dopo sarebbe toccato a un giovanissimo medico incontrato in Inghilterra, Ben Richards, rinnovargli le pene d’amore. Alto, prestante, decisamente sensuale. Ha quasi quarant’anni meno di lui, e forse è anche il solo che riesce a renderlo «highly inflammable». Per la prima volta Ludwig crede di essersi imbattuto nell’«amore giusto». Un’altra ragione per lasciare Cambridge.
«Vorrei una buona volta chiarire la mia vita a me stesso e agli altri», si legge in una pagina dei manoscritti. Non sappiamo se sia mai riuscito nel proposito. Michele Ranchetti, uno dei suoi massimi studiosi, ha trovato una chiave nel «dovere del genio». «È difficile trovare nella vita dei grandi un esercizio così assoluto di ricerca della perfezione». Nell’aprile del 1951, pochi istanti prima di morire, Wittgenstein fa in tempo a sussurrare a un’incredula Mrs Bevan, moglie del medico che lo ospitava a Cambridge: «Dite loro che ho avuto una bellissima vita». Forse era anche quello che voleva dirci nell’ultimo scatto.

Repubblica 3.11.13
Se un computer pensa di voler dimostrare l’esistenza di Dio
di Piergiorgio Odifreddi


Un paio di mesi fa gli informatici Christoph Benzmüller e Bruno Woltzenlogel Paleo, l’uno tedesco e l’altro austriaco, hanno pubblicato una ricerca intitolataFormalizzazione, meccanizzazione e automatizzazione della dimostrazione di Gödel dell’esistenza di Dio, ben consci della massima di Stephen Hawking: «Ogni citazione del nome di Dio fa raddoppiare le vendite, ogni formula le dimezza». Non parliamo, poi, di una dimostrazione al computer dell’esistenza di Dio!
Puntualmente, con il ritardo necessario perché la notizia arrivasse ai giornali, questi l’hanno recentemente ripresa qualche giorno fa. Anzitutto, stiano tranquilli gli atei, e non si esaltino i credenti: non c’è nessuna novità sul lato teologico. La dimostrazione di Gödel, a cui fa riferimento il titolo della ricerca, è vecchia di mezzo secolo, e si basa a sua volta sulla cosiddetta “prova ontologica”, che invece è vecchia di un millennio.
La novità introdotta a suo tempo da Gödel è stata di prendere una dimostrazione filosofica, tanto poco convincente da non venir neppure citata da Tommaso d’Aquino nella sua Summa theologiae,e di riformularla in maniera matematica, senza ovviamente renderla più convincente. La novità di Benzmüller e Paleo introdotta nel loro recente lavoro è stata di far controllare la dimostrazione matematica in tutti i suoi dettagli da un computer, in mondo da rendere inoppugnabile la conclusione derivata dalle premesse.
Si tratta di un esempio della cosiddetta verifica automatica dei teoremi, che costituisce un fecondo campo dell’informatica teorica moderna. Un campo di cui però non avremmo mai parlato, se i due autori non ci avessero messo un’esca per farci abboccare tutti. Esca che, ovviamente, ha funzionato.

l’Unità 3.11.13
La spia del Ghetto. Si chiamava Celeste, detta la Pantera
Fece arrestare e uccidere la sua gente
Fece portare via anche suo cognato Ugo Di Nola, il cugino Armando Di Segni e il pugile Lazzaro Anticoli
Una ragazza ebrea bellissima e sfrontata che per soldi cominciò a frequentare i fascisti. Fu lei, secondo le testimonianze, a fornire ai nazisti i nomi per completare la lista delle Fosse Ardeatine
Girava per Campo de’ Fiori e con un cenno del capo segnalava alla polizia tedesca i ribelli e gli antifascisti
di Wladimiro Settimelli


ROMA LA TRAGEDIA DEL GHETTO EBRAICO DI ROMA, CON IL RASTRELLAMENTO DEL 16 OTTOBRE DEL 1943, HA RIPROPOSTO ALL’ATTENZIONE DI TUTTI IL DOLORE, LA SOFFERENZA, IL TERRORE E LA MORTE di migliaia di persone portate via, verso le camere a gas, in una città incupita e sconvolta dall’occupazione e dalle scorribande quotidiane dei torturatori fascisti e nazisti. Era la città di Kappler, di Priebke, di via Tasso e delle bande Bardi-Pollastrini e Koch. Poi, la città delle Fosse Ardeatine, con quelle grotte piene di poveri morti che erano stati uccisi, come bestie, cinque alla volta, con le mani legate dietro la schiena.
Il ricordo di quei giorni, di settanta anni fa, ha fatto anche riemergere storie infami di spie e di spioni, di gente che «vendeva» gli ebrei, gli antifascisti e i «banditi», ai nazisti e alla polizia fascista, in cambio di soldi o di qualche chilo di sale.
Di questi personaggi, tutti parlano, ancora oggi, sottovoce, malvolentieri e con uno strano pudore perché è come ammettere, anche a distanza di tanto tempo, una sconfitta della fratellanza, della solidarietà e della pietà. Perché la spia poteva anche essere semplicemente un tuo vicino di casa che per anni ti aveva salutato ogni mattina, il tuo professore di scuola, il proprietario del negozio dove avevi fatto la spesa ogni giorno o addirittura un parente con il quale ti eri seduto a tavola durante le feste o nelle grandi occasioni.
Celeste Di Porto, la «Pantera nera» o «Stella di piazza Giudia», come la chiamavano tutti, è stata una di queste spie, una delatrice giovanissima che gli ebrei di Roma non dimenticheranno mai perché era una di loro, nata e cresciuta nel Ghetto con amici e parenti tra il Portico d’Ottavia e il Lungotevere.
«Stella», certo, come la chiamavano i genitori perché era bella, bellissima, con occhi e capelli nerissimi e un petto prorompente. Era nata il 29 luglio del 1923. Il padre Settimio aveva un negozietto da merciaio e la madre Ersilia si occupava di altri sette figli. Celeste, appena superati i quindici anni, era stata mandata a lavorare come commessa e come donna delle pulizie.
Tutti raccontano che la ragazzina era «sfrontata», strafottente, senza ritegno e quasi aggressiva. Nel Ghetto, proprio per questo motivo, avevano cominciato a criticarla ad alta voce, a sfotterla, a girare alla larga quando arrivava lei. Celeste, che aveva appena diciotto anni, si sentiva ormai emarginata e reagiva con rabbia, insultando a destra e a manca.
Dicono che, ormai, era promessa ad un ragazzo ebreo che la corteggiava da tempo. Un giorno, invece, Celeste si era presentata nel Ghetto accanto ad un giovane uomo vestito con la divisa fascista. Lui si chiamava Vincenzo Antonelli e faceva parte della banda Bardi e Pollastrini, quella che aveva sede a Palazzo Braschi. Erano un branco di torturatori e di ladri che poi verranno addirittura arrestati dai nazisti. Tra l’altro, già dal 1938, erano in vigore le leggi razziali, ma Vincenzo Antonelli, comunque, insieme ad un gruppo di camerati, andava sempre a mangiare in un piccolo ristorante del Ghetto ed è li che aveva conosciuto Celeste. Per lei era stata, dal punto di vista psicologico, una specie di rivincita su tutta la gente del quartiere che ora la guardava con il rispetto dovuto alla paura perché il suo uomo girava con lei armato di tutto punto e pronto ad arrestare chiunque.
Il giorno del rastrellamento del Ghetto, il padre di Celeste, Settimio, era casualmente uscito per comprare le sigarette e si era salvato. La madre, i fratelli e le sorelle, erano riusciti ad uscire appena in tempo da una porticina. Celeste, invece, girava tra i nazisti con assoluta tranquillità.
È dopo l’attacco partigiano di via Rasella, che Celeste non ha più remore. È lei, secondo alcuni, che fornì al comando tedesco i nomi di una ventina di ebrei per completare la lista di coloro che dovevano essere uccisi alle Ardeatine. Quei suoi vicini, infatti, finirono ammazzati alle Cave. Non contenta, Celeste, ogni giorno, camminava nella zona di Campo de’ Fiori e segnalava, muovendo la testa, ai poliziotti tedeschi in borghese, chi doveva essere arrestato perché ebreo.
Dicono che quel poveruomo di Settimio, il padre, per la vergogna e il dolore, si consegnò volontariamente ai tedeschi e morì in un campo di concentramento. Lei intanto, si faceva consegnare, da altri correligionari, soldi e gioielli in cambio della promessa di salvezza.
Si racconta che almeno cinquanta ebrei siano finiti nelle mani dei nazisti per colpa sua. Tra gli altri suo cognato Ugo Di Nola e il cugino Armando Di Segni. È lei che fece arrestare anche il pugile Lazzaro Anticoli detto Bucefalo. Fu proprio lui che denunciò Celeste. Con un chiodo scrisse su una parete della sua cella, la numero 306 di Regina Coeli: «Sono Anticoli Lazzaro detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto». Bucefalo, comunque, non rivedrà mai la famiglia: è uno dei martiri delle Ardeatine.
Il 4 giugno 1944, quando gli alleati arrivano a Roma, Celeste Di Porto sparisce. Più tardi, in una casa di tolleranza di Napoli, due ragazzi ebrei del Ghetto, la riconoscono. Lei si fa chiamare Stella Martellini. I due ragazzi raccontano ai clienti chi è quella ragazza e, per poco, Celeste viene linciata. La polizia militare l’arresta e poi la rilascia e lei finisce a Perugia in un convento. Alla fine il nuovo arresto e il ritorno a Roma. Sarà processata e condannata a dodici anni di carcere, ma ne sconterà solo sette.
Divenuta cattolica in cella, uscirà e si trasferirà a Trento dove si sposerà. Dicono che sia morta nel 1981. Di lei, comunque, nessuno, per tanti anni, ha saputo più nulla.

il Fatto 3.11.13
Negazionismo
Shoah, se l’intellettuale finge di non sapere
di Furio Colombo


Il pericolo è grande. Ma contro questo pericolo non si risponde con una legge. Il terreno privilegiato è la scuola”. Lo ha detto Carlo Ginzburg, uno dei nostri storici migliori, e dei partecipanti più insospettabili di questo di dibattito (punire o no chi nega la Shoah?) in un’intervista a Repubblica dal titolo “Perché è un errore punire i negazionisti” (22 ottobre). Due giorni dopo, nel blog di Piergiorgio Odifreddi (il celebre matematico-scrittore) ospitato e poi subito cancellato dal portale dello stesso giornale, si è potuto leggere: “Non entro nello specifico delle camere a gas perché su di esse so soltanto ciò che mi è stato fornito dal ‘ministero della propaganda’ alleato nel dopoguerra. (Notare lo sberleffo di “ministero della propaganda alleato”). E non avendo mai fatto ricerche in proposito e non essendo comunque, uno storico, non posso far altro che uniformarmi all’opinione comune. Ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti”. La frase, specialmente se scritta da un intellettuale e docente, è molto strana. Non essendo uno storico e non avendo mai fatto ricerche in proposito, come può Piergiorgio Odifreddi sapere e discutere del Risorgimento, del New Deal, della guerra italiana in Abissinia e di Cefalonia? Dipartimento “opinioni”?
L’affermazione è ancora più strana se scritta da un non incolto, che finge di non sapere che siano esistiti testimoni come Primo Levi e Liliana Segre (ancora viva e lucidissima, se Odifreddi volesse trasformare, da matematico, la sua opinione in fatto). E ha mancato di poco Shlomo Venezia che tuttavia ha narrato per tempo (il suo compito era rimuovere i corpi dalle camere a gas) e senza alcuna smentita, in un mondo, come si sa, poco incline anche adesso alla benevolenza quando parlate di Shoah. Fa notare queste cose, con la giusta indignazione, Mario Pirani nella sua rubrica “Linea di confine” (Repubblica 28 ottobre). Come si vede, in pochi giorni, non nel corteo nazista o tra i preti lefebvriani che hanno accudito la salma di Priebke, ma fra voci alte e colte, si è acceso all'istante un inconciliabile e profondo dibattito.
IL 2 NOVEMBRE si è aggiunta la voce di Liliana Picciotto, storica e autrice dell’unico libro che lista, nome per nome e circostanza per circostanza, l’arresto e la deportazione degli ebrei italiani (quanti consegnati ai tedeschi da altri italiani) e l’indicazione di coloro che non sono mai più ritornati. E afferma, da storica: “Ci dicono che, abolendo ogni condanna, avremmo salvato la dignità del nostro sapere. Ma avremmo compromesso fortemente la nostra possibilità di indicare ai giovani che cosa sia il male da non ripetere mai più. Non so quale sia la formula giuridica per fermare i negazionisti. Mi rendo conto che una legge potrebbe essere inefficace. Eppure avrebbe un forte valore simbolico”. Credo che Liliana Picciotto porti in campo l’argomento giusto.
FATALMENTE è imperfetto e inadeguato ogni strumento che si oppone a progetti di sterminio degli esseri umani o progetti che negano, dopo che quello sterminio sia mai avvenuto, perché non lo rimpiangono e perché, persino inconsapevolmente, non vedono dove sia lo scandalo. Dunque non resta che uno sbarramento istituzionale, alto e simbolico perché anche sulla marea, che sale e si espande, dell'antisemitismo, ci sia un faro acceso che indichi un punto irremovibile. Faccio un esempio americano. Nel Paese del Ku Klux Klan e dei prolungati linciaggi dei neri, il Congresso americano, fin da prima delle leggi sui diritti civili, aveva dichiarato reato negare la liberazione degli schiavi come scopo della Guerra di Secessione (1868). Nel 1988 una studentessa che aveva esposto alla finestra della sua stanza, nel campus dell’Università di Harvard, la bandiera schiavista, è stata espulsa dal presidente di quella università, dopo che la studentessa aveva rifiutato di rimuovere il vessillo, che chiamava “la sua bandiera”. Non è stata accettata l’ipotesi dello scherzo o della bravata, sostenuto dai legali della famiglia (famosa per le donazioni a quella università). È stata dichiarata “inaccettabile, offensiva e pericolosa” la negazione di un episodio fondamentale della storia americana.
LA SEQUENZA è la stessa. Se non fosse legalmente condannata, la negazione della Shoah (che, dimostra l’esperienza, si trasforma subito in “denuncia dell’imbroglio”) seguirebbe (già accade) la negazione della legittimità dello Stato di Israele (benché tutti gli Stati che circondano Israele siano stati disegnati a tavolino dalle diplomazie inglesi e francesi e solo Israele e la Palestina, uguali e vicini, siano stati proclamati legalmente dall’Onu) e si griderebbe, neonazisti e sinistre insieme, che Israele se ne deve andare, perché fondato sulle false lacrime della Shoah. Non dimentichiamo che tutto è cominciato, in Italia, con il pacco delle ignobili e incredibili “leggi sulla difesa della razza” (sic) che anche adesso, presso gli archivi della Camera e del Senato, sono a disposizione di chi non avesse avuto tempo di informarsi, come Odifreddi. Ora, a tanti decenni di distanza, mentre un liquame (che per gli sprovvisti di informazione e di opinione è certamente pericoloso) si sparge fra media, rete e persino fra persone che dovrebbero aiutare a far luce, non dovrebbe scandalizzare una legge-argine.
Non basterà ma è molto meglio del vuoto.

Corriere La Lettura 3.11.13
La provocazione di Alain Touraine
La società è finita
Così si è rotto il patto tra lo Stato e l’individuo
di Carlo Bordoni


Margaret Thatcher l’aveva detto: «Non esiste la società. Esistono solo individui, uomini e donne, e ci sono famiglie», anticipando le conclusioni di Alain Touraine, classe 1925, il maggior sociologo francese vivente. Touraine ha appena pubblicato un corposo volume presso l’editore Seuil, che rappresenta la summa del suo pensiero e l’estremo sforzo di comprendere la modernità. Un testo sorprendente a partire dal titolo, La fin des sociétés , la fine delle società, con un’evidente carica provocatoria: la distruzione delle istituzioni sociali come democrazia, città, scuola, famiglia. Touraine osserva che la crisi fiscale dello Stato e la sua difficoltà a gestire le risorse necessarie al funzionamento delle istituzioni sociali, per via dell’aumento smisurato del potere della finanza, crea una separazione tra risorse e valori culturali. Così le istituzioni si vengono a svuotare di contenuto e si può parlare di «fine del sociale» o, meglio, di fine delle società.
Ma è possibile ricostruire un controllo sociale dell’economia finanziaria? Touraine sostiene che sono i valori culturali a sostituirsi alle norme sociali istituzionalizzate, opponendosi alla logica del profitto e del potere. Veri e propri valori etici, la cui origine è estranea all’organizzazione sociale, dal contenuto universale, tanto forti da porsi al di sopra delle leggi, quasi un «diritto naturale» che appartiene sia alla tradizione cristiana, sia allo spirito dell’Illuminismo. In questa distruzione epocale sopravvive solo il soggetto, cioè il singolo individuo che non è più un «soggetto sociale». Il ritorno all’individualismo è stato il Leitmotiv del postmodernismo, con il suo riferimento alla solitudine del cittadino globale, a causa della perdita dei valori e delle ideologie su cui la modernità aveva costruito le sue sicurezze. Guardando alla società liquida, ci appare sempre più costituita da individui alla ricerca di un’identità, affascinati dall’immensa (quanto precaria) opportunità di costruire relazioni in Rete. Nel loro insieme assomigliano più alle moltitudini di Spinoza che ai popoli di una nazione. Michael Hardt e Toni Negri (Moltitudine , Rizzoli, 2004) ne hanno dato un’interpretazione politica, rilevando la loro potenziale carica rivoluzionaria. Ma Touraine non sembra credere nelle moltitudini. Piuttosto nella forza del soggetto, figura centrale che si riappropria di ogni diritto, anche al di sopra delle leggi. È la rottura dell’antico patto tra individuo e Stato-nazione, siglato quattro secoli fa per stringere un’alleanza in cui il singolo cedeva al sovrano parte delle sue prerogative di autonomia e libertà, in cambio di alcune certezze fondamentali. Nasceva così la modernità, rappresentata dal mostruoso Leviatano di Hobbes, su cui Touraine si è esercitato a lungo, a cominciare dalla sua fondamentale Critica della modernità (1992). Ma è soprattutto nel successivo La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore) che Touraine inizia a esporre le sue tesi sulla disgregazione del tessuto sociale, che poi sfoceranno in La fin des sociétés con lucida e implacabile determinazione. Ma di quale società annuncia la fine? Non possiamo che pensare alla società moderna. O forse a quella postmoderna, visto che Vattimo e altri avevano già decretato la morte della modernità? O non sarà la società liquida di Bauman, prosciugata o evaporata dagli stravolgimenti etici, economici e sociali di una finanza sfuggita al controllo della politica e in rotta di collisione col capitalismo industriale? È più probabile che ci si trovi di fronte alla fine di una certa tipologia di società, piuttosto che alla fine delle società tout court . Abbiamo assistito a mutamenti irreversibili e non ha grande importanza se questi siano definiti modernità liquida o postmodernità (anche se il movimento postmoderno presenta caratteristiche estetiche e concettuali proprie, ormai definite storicamente). Ciò che è essenziale è che abbiamo modificato il nostro comportamento, le relazioni economiche e politiche, la cultura e la comunicazione, i rapporti tra lo Stato e i cittadini. In questo contesto il ruolo del soggetto, che Touraine rileva come emergente, assume un’importanza determinante. Allora quando Touraine parla di fine della società, non intende la fine delle relazioni sociali tra gli individui e tra questi e le istituzioni. Intende piuttosto una delegittimazione di quegli ordinamenti e di quelle regole burocratiche che non rispondono più alle esigenze di democrazia, uguaglianza e libertà a cui le persone aspirano. Una sorta di ribellione etica contro la rigidità e l’anacronismo delle norme sociali che regolano la vita contemporanea. Impolitico, utopistico, veggente? La sua analisi rimette in discussione l’esistenza della sociologia, in quanto scienza della società, la cui crisi era stata annunciata da Alvin W. Gouldner nel lontano 1970. Ma più che una crisi della sociologia, forse oggi è più che mai necessaria una sociologia della crisi.

Corriere La Lettura 3.11.13
La lunga guerra al pregiudizio
Così i razzismi si combattono nel cervello. E nella cultura
di Francesca Ronchin


La prossima volta che il vostro collega, arrivando tardi in ufficio, si lamenterà che le donne al volante rallentano il traffico e non sanno guidare, sappiate che se la cosa dovesse suonarvi come un pregiudizio vagamente maschilista, dovete prendervela con la sua amigdala. Lo spiegano gli studi delle neuroscienze sociali, secondo i quali i pregiudizi, quei concetti che — come dice il termine — si esprimono prima che sia in atto una qualche forma di iudicium , scaturirebbero dall’attivazione di una delle parti più primitive del cervello, l’amigdala appunto. Si tratta della struttura a forma di mandorla incastonata nel sistema limbico e responsabile delle nostre emozioni e pulsioni più irrazionali. Processi di pensiero contro i quali l’Associazione italiana di psicoanalisi mette in guardia perché, spiega, in grado di deformare la realtà.
E così, per capire cosa si nasconde dietro comportamenti maschilisti, omofobici o razzisti sono stati chiamati a raccolta in una giornata di studi a Roma alcuni dei massimi esperti italiani nel campo della psicoanalisi, delle neuroscienze e persino del diritto. «Questa fase storica ci impone un continuo confronto con il diverso — spiega la psicoanalista Simona Argentieri — e non credo che Roger Money-Kyrle avesse tutti i torti quando paragonava i pregiudizi ai virus: una volta che si sono organizzati, tendono a conservarsi e a diffondersi per contagio». La mente umana, votata all’efficienza e alla semplificazione, difficilmente resiste alla tentazione di organizzare il continuo flusso di informazioni che riceve dall’ambiente in categorie grossolane, così da risparmiare tempo ed energie. Per questo, dopo aver letto di giocattoli tossici made in China e di ristoranti etnici dalle dubbie condizioni igieniche, sarà molto facile per il nostro cervello concludere che «tutti i prodotti asiatici» sono dannosi. Generalizzazioni, appunto, che, oltre a farci risparmiare la fatica dei distinguo, custodiscono altri vantaggi. «Ci fanno sentire meglio con noi stessi — spiega Argentieri — e ci mettono al riparo da sentimenti spiacevoli come invidia e senso d’inferiorità», motivo per cui la maggior parte dei pregiudizi porta con sé una svalutazione in negativo degli altri.
In pratica funzionerebbero come un meccanismo di difesa caratterizzato dalla proiezione, per cui si attribuiscono ad altri quelle parti di sé che non si riesce a riconoscere come proprie e dunque ad eliminare. Per questo succede che i propri istinti aggressivi vengano trasposti sugli stranieri, che la nostra avidità misconosciuta finisca per essere associata agli ebrei, che gli omosessuali siano un simulacro delle nostre ansie di passività e che certe caratterizzazioni delle donne parlino della nostra paura di non essere all’altezza. In questo senso, spiega Argentieri, «la non integrazione psicologica e la lontananza dal proprio sentire autentico sono uno dei terreni più fertili per la nascita di pregiudizi». Quante volte chi esordisce dicendo «Non ho pregiudizi, ma...» finisce per rivelarne più degli altri. Sono contenuti che forniscono un ottimo strumento di analisi, dicono molto di noi e delle nostre paure, ma non dimentichiamoci la carica di aggressività che portano con loro. I motivi hanno a che fare con l’evoluzione. «In quanto sistema di difesa — aggiunge Paolo Mariotti, neurologo presso l’Università del Sacro Cuore di Roma — i pregiudizi hanno permesso alla specie di evolversi, e al branco di coalizzarsi contro il nemico predatore. Non è un caso che questi giudizi affrettati abbiano la meglio proprio quando si ha una iperattivazione dell’amigdala o quando i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, sono particolarmente alti. In questi frangenti — continua Mariotti — il soggetto mostra un’emozionalità elevata, magari difficoltà nella gestione della rabbia o l’assenza di contenuti mentali e culturali in grado di frenare le risposte istintive dell’amigdala».
In base a quanto raccolto con le tecniche della risonanza magnetica funzionale e dei potenziali evocati, sembra che, quando di fronte a un soggetto di colore la risposta istintiva della nostra amigdala è che «la pelle scura è indice di pericolo», il compito di controbattere spetti alla corteccia prefrontale, una delle parti più evolute del cervello e informate da cultura ed educazione. In questo caso, se il valore dell’egualitarismo ci appartiene, la corteccia ricorderà all’amigdala che «tutti gli uomini sono uguali». A questo punto, spiega Mariotti, area primitiva e area evoluta del cervello si troveranno in conflitto e spetterà alla corteccia cingolata dorsale il compito di mediare.
È probabile dunque che un soggetto dal comportamento mite cresciuto in una famiglia di larghe vedute arrivi alla conclusione che se «alcuni uomini neri possono essere pericolosi, questo non dipende certo dal colore della loro pelle». Chiaramente — precisa Mariotti — non siamo di fronte a «processi che avvengono in singole strutture separate tra loro, ma si tratta di dinamiche per cui le regioni cerebrali coinvolte, quelle degli istinti e quelle più evolute, si trovano in uno stato di continua interazione tra loro, il processo non è sequenziale, ma quasi simultaneo». In linea con le neuroscienze sociali sarebbero proprio gli attuali paradigmi psicoanalitici, a partire da quello post-freudiano per cui i contenuti consci si trovano in comunicazione costante con quelli inconsci.
In quest’ottica, una cultura adeguata può essere in grado di disinnescare i pregiudizi e controllare le pulsioni più profonde. Ma non basta. «Se oltre a studiare, il soggetto non svolge un lavoro di conoscenza su di sé — commenta Argentieri — il rischio è quello di passare dal pregiudizio al contropregiudizio», e quindi da convinzioni come quelle per cui «gli omosessuali vivono nel vizio» alla visione opposta e altrettanto irrealistica per cui «gli omosessuali vivono nella virtù». Meccanismo alimentato dal politicamente corretto e dalla tendenza a ripulire il linguaggio da termini che potrebbero essere letti come discriminatori nei confronti di determinate minoranze sociali. Se è vero che «nero» è meno offensivo di «negro» e che «diversamente abile» è più positivo di «portatore di handicap», Argentieri mette in guardia dal rischio della china scivolosa. «Accettare la diversità non vuol dire che tutto vada ugualmente bene, perché altrimenti si arriva a quello che sta accadendo in molti Paesi compreso il nostro, ossia che adolescenti, per non dire addirittura bambini nell’età dell’asilo, che manifestano tendenze a comportamenti del genere sessuale opposto vengono incoraggiati a definirsi transgender. Un comportamento di questo tipo nei confronti di ragazzini che sono ancora in una fase di massima fluidità della psicologia e dell’identità di genere non è un atto di coraggio, ma una forma di violenza».
Insomma, per essere superati, i pregiudizi vanno «attraversati», in un continuo processo di negoziazione tra idee ed emozioni che in qualche modo allena quel circuito cerebrale caratterizzato dalla mediazione della corteccia cingolata. Ma se è vero che c’è sempre l’eccezione che conferma la regola, il giurista Stefano Rodotà la individua nel frangente storico che viviamo. «Per quanto il politicamente corretto possa portare a derive grottesche come quella del vicepresidente del Consiglio Angelino Alfano, che, per paura di prendere le distanze dal proprio leader, preferisce nascondersi dietro l’ipocrisia di una definizione come “diversamente berlusconiano”, in certi casi il superamento del pregiudizio è talmente difficile che richiede l’estremizzazione. Non a caso — continua — Luigi Manconi, per convincere gli italiani che lo straniero è una risorsa, ha scelto un titolo estremo come Accogliamoli tutti». Buonismo? «Neanche per idea», sostiene. Sicuramente un modo per scatenare una reazione e un dibattito nella società, probabilmente non molto diverso da quello già attivato nel nostro cervello. 

Corriere La Lettura 3.11.13
La natura tribale delle battaglie morali
di Antonio Pascale


Intellettuali italiani, opinion leader, scrittori, funzionari di partito, giornalisti, piccoli e grandi amministratori di condominio e della cosa pubblica (piccoli e grandi), e insomma, cittadini curiosi: è il caso di leggere questo libro, Menti tribali , di Jonathan Haidt (traduzioni di Ciro Castiello, Marco Cupellaro, Paola Marangon e Marina Rullo, Codice edizioni, pagine 420, e 22,90). Perché a prescindere da alcune interessanti diatribe tecniche — quanto la selezione multilivello ha inciso sull’evoluzione dell’altruismo, oppure se i moduli comportamentali hanno una spiccata importanza nella formazione della morale — a prescindere da questo, il libro sostiene una tesi importante: la storia umana si racconta meglio attraverso i sentimenti. Alla base dei sentimenti c’è la morale e la morale si esamina con più precisione se si tiene conto della biologia evoluzionista e della psicologia cognitiva — due discipline che nel dibattito pubblico italiano latitano.
Haidt è un innatista: dicesi innatismo qualcosa di organizzato prima dell’esperienza, come la bozza di un libro che viene rivista a mano a mano che una persona cresce. Valori e regole specifiche variano da una cultura all’altra. Tuttavia se vogliamo capire cosa c’è scritto nella prima bozza universale della natura umana, allora bisogna fare i conti con cinque principi. A partire da questi Haidt elabora nella seconda parte l’ipotesi che dà appunto il titolo al libro: la morale crea sì vincoli di appartenenza ma acceca, abbiamo ancora menti tribali. I cinque principi dunque. Principio protezione/danno, sviluppato in risposta alla sfida di offrire protezione ai bambini, ci rende sensibili ai segnali di sofferenza del prossimo. Principio di correttezza/inganno, evolutosi in risposta alla sfida di raccogliere i frutti della collaborazione senza essere sfruttati, ci spinge a evitare o punire i truffatori. Principio di lealtà/tradimento, ci fa allontanare chi tradisce il gruppo cui apparteniamo. Principio di autorità/sovversione, ci rende sensibili ai segnali relativi allo status o al rango sociale. E infine principio di sacralità/degradazione, cosa ci appartiene (dunque è spesso irrazionalmente investito di sacralità), cosa dobbiamo allontanare (perché ci degrada). La bozza è questa, e nelle verifiche empiriche di Haidt si scopre che i progressisti hanno una morale che fa affidamento solo sui principi protezione/danno e correttezza/inganno, mentre la destra attiva meno i primi due e più i restanti tre.
Dunque, i conservatori nelle campagne elettorali hanno più modi per stabilire un contatto con gli elettori? Purtroppo sì (si intende: purtroppo per quelli come me che sono di sinistra). Il fatto è che prima vengono le emozioni, poi il ragionamento. Spesso il ragionamento altro non è che un modo strategico per accogliere le tesi a sostegno e allontanare i dubbi. Haidt usa un’immagine: le emozioni sono come un elefante, il ragionamento è il portantino. Quando parliamo, parliamo all’elefante che si curva e spesso il portantino lo segue. Non capita spesso che grazie al ragionamento (alle verifiche sperimentali, alla metodologia scientifica, ecc.) accada il contrario. E se così stanno le cose, arriviamo a punto. L’intellettuale (qui inteso in sento lato, quello che si applica nell’impresa conoscitiva) dovrebbe essere quello che riconosce l’intelligenza, ma anche la pericolosità dell’elefante. L’intellettuale (portantino) è colui il quale sa gettare ponti tra i diversi principi morali.
In Italia tuttavia non stanno vincendo solo gli elefanti, ma i branchi e i sottobranchi di elefanti, con relativi portantini. Più facile che si fondino club, gruppi ristretti dove valgono solo i ragionamenti di conferma. Chiediamoci. Ma davvero l’intellettuale italiano cerca la verità? Questa richiede empirismo e metodologie scientifiche di verifica, capacità di imparare dai propri errori. Forse si sta trasformando in un buon addetto stampa? Preoccupante. Si creano situazioni confuse.
Prendi la sinistra, da una parte attiva i codici di protezione/danno, quindi è sensibile a temi e sofferenze globali, dall’altra parte, pensa solo alla sacralità (al guadagno) del proprio piccolo orto. In effetti, alcuni intellettuali di sinistra in teoria sono progressisti, nella pratica conservatori. Tanto è vero che i richiami alla sacralità sono utilizzati sia dalla destra religiosa sia dalla sinistra spirituale. Quanti sindacalisti vogliono, poi, proteggere un lavoro che non c’è più o uno Stato sociale che non ha più soldi? La destra sembra cristallizzata nel principio di autorità/sovversione: culto del capo à gogo — e dunque incapace di autocritica e di indipendenza.
Dunque, le nostre menti tribali, il nostro istinto al gruppismo rischiano di impoverire il dibattito pubblico. Pubblico, appunto, di ampia portata, che riguarda più gruppi e le interazioni fra questi. Strano: alcune questioni, in passato care alla sinistra, come il garantismo, sono diventate in questi ultimi vent’anni privilegio della destra — «in prigione, in prigione!» era, in un passato non lontano, una dichiarazione che contraddistingueva l’uomo di destra dal garantista di sinistra. Con l’arrivo di Berlusconi i rapporti, nel caso specifico, si sono capovolti, l’attenzione si è focalizzata su un solo uomo politico, e i gruppi si sono chiusi a riccio, in formazione d’attacco o di difesa.
Anche lo stile ne ha risentito. Chiediamoci: davvero, da destra e sinistra, abbiamo cercato di descrivere il problema che ci preoccupava esaminando con attenzione le motivazioni dell’avversario? Più semplicemente, da destra e da sinistra non abbiamo fatto altro che usare la tecnica del riflettore, illuminare solo ciò che nell’avversario è ridicolo e grottesco, così per vincere facile ed evitare quelle perniciose domande che possono inficiare le nostre tesi. Il dibattito culturale italiano è l’estrema conferma dell’ipotesi di Haidt. La morale serve per creare vincoli sì, ma acceca. Siamo o non siamo accecati dalle nostre battaglie? In ambito politico, non siamo pronti a sottoscrivere appelli (senza nemmeno leggerli) per rinnovare continuamente la tessera del club d’appartenenza? Perché magari in segreto diciamo che sì, i nostri avversari su alcune cose hanno ragione, ma poi applaudiamo spellandoci le mani quelli che li insultano.
Questo libro va letto soprattutto da chi crede che il benessere del mondo dipenda esclusivamente dalla vittoria della sua squadra. Non è importante andare d’accordo, ma essere in disaccordo in maniera costruttiva. Vista la difficoltà di cambiare l’elefante (o la lentezza per farlo spostare), a volte basterebbero portantini pluralisti e sentimentali, capaci di riconoscere che nell’altra squadra, o gruppo, o sottogruppo, esistono brave persone che hanno qualcosa di importante da proporre. Sembra banale, ma con una metodologia comune e curiosità intellettuale i singoli gruppi possono fare grandi cose insieme.

Repubblica 3.11.13
Etica ed estetica secondo il cervello
di Francesca Bolino


Il bello, il buono, il vero per Platone sono essenze celesti, o idee, indipendenti, ma allo stesso tempo, diciamo, inseparabili. Il buono è il vero, che è il bello. Potrebbe innanzitutto sembrare uno scioglilingua. Ma non solo. Se ci fermassimo a riflettere, ne emergerebbe certamente un conflitto. Perché? Perché non siamo assolutamente in condizione di “percepirli”: il bello, il buono e il vero, essendo il medesimo, non possono essere in conflitto.
Jean-Pierre Changeux professore onorario al Collège de France sostiene che una delle fondamentali questioni lasciate irrisolte dalle neuroscienze moderne sia proprio cosa significhi “percepire” qualcosa e in che modo siamo consapevoli della nostra esistenza. Nel mondo fragile e liquido in cui viviamo dobbiamo allora essere in grado di orientare il nostro cervello in direzione di un futuro che consenta all’umanità di realizzare una vita più ricca. E in grado di spingere il cervello a inventare un domani pieno zeppo di solidarietà.
Tutto molto giusto. Ricordo però Diderot che ironicamente affermava: «l’uomo saggio è solo composto di folli molecole».
IL BELLO, IL BUONO, IL VERO di Jean-Pierre Changeux Raffaello Cortina, a cura di C. Cappelletto, pagg. 385, euro 29

Repubblica 3.11.13
Internet Club
Apre l’edicola delle riviste culturali ma solo online
di Loredana Lipperini


Sta arrivando. Dal 25 novembre sarà attivo il portale portreview.it (ma il blog è già online, blog.portreview.it). A cosa serve, a chi è rivolto? A tutti coloro che amano le riviste culturali e hanno difficoltà a trovarle in giro. A tutti coloro che vogliono informarsi sulla letteratura. Ai curiosi. L’iniziativa, che si deve a Lotto 49 (agenzia letteraria e libreria) sta raccogliendo fondi su produzioni dal basso, si articolerà «su due piani temporali: il futuro dell’editoria su rivista, e il passato, per tutto quello che rischia di andare perduto». Dunqueci sarà un’edicola, dove sarà possibile consultare gratuitamente o acquistare le riviste (fin qui, saranno disponibili fra l’altro Alfabeta2, Aut Aut, ’tina, Colla, il Reportage, inutile, Lo Straniero, Maltese narrazioni, Progetto grafico, Robot, gli ebook di Doppiozero, Eleanore Rigby). La parte più ambiziosa, e in accrescimento, è l’emeroteca: ovvero, una mappatura con le riviste storiche del Novecento italiano fino ai primi anni Duemila. Infine, per discutere e approfondire, c’è la sezione Reviù. Da sostenere. È già arrivato. Si chiama errorday.it ed è un sito dedicato agli errori: voluto da Clelia Sedda, dà il benvenuto a «abbagli, disguidi, equivoci, falli, inesattezze, malintesi, sbagli, sviste, refusi, strafalcioni, svarioni, torti». Si possono confessare i propri e gli altrui (via video e foto), leggere aneddoti e aforismi, partecipare a deliziosi sondaggi su chi sbaglia di più, sorridere e infine capire che l’errore è il “ vero atto conoscitivo” e il “passaporto per il rinnovamento e l'invenzione”. Da meditare.

Repubblica 3.11.13
Suzanne Valadon, la madre di Utrillo che da modella si fece pittrice di nudi
di Melania Mazzucco


Il suo nome di battesimo era Marie- Clémentine. A Montmartre la conoscevano come Maria. Ma è il nome d’arte (suggerito ironicamente da Toulouse-Lautrec) il dato più vero di una biografia che lei cercò, fin da bambina, di abbellire e mistificare. Suzanne come Susanna, la bellezza biblica che i Vecchioni spiano nuda. Susanna era ignara di essere guardata; Suzanne invece dai quindici anni aveva fatto del corpo uno strumento di lavoro. Occhi blu, pelle luminosa, viso d’angelo e forme procaci, benché tascabili (era alta un metro e cinquantaquattro), Valadon divenne la modella prediletta dell’aristocratico Puvis de Chavannes (che la notò quando lei, figlia di una lavandaia, gli consegnò una cesta di biancheria pulita), di Auguste Renoir, di Zandomenghi, De Nittis e molti altri. Per quindici anni posò negli atelier dei pittori, diventando ninfa, bagnante, bevitrice ubriaca, perfino efebo. Li osservava miscelare pigmenti e maneggiare pennelli, sfogliava i loro libri (folgorata dai disegni di Dürer). Fu la scuola che non aveva mai frequentato: cacciata dalle suore per cattiva condotta, a nove anni disegnava sul marciapiede col carbone rubato alle caldaie. Aveva già deciso che il suo futuro era dall’altra parte del quadro.
All’inizio, si limitò a disegnare. La sua prima modella fu lei stessa: nel primo autoritratto a pastello, a mezzo busto a 18 anni nel 1883, ostenta bocca imbronciata e sguardo serio e indagatore. Valadon continuò a ritrarsi per tutta la vita, e con audacia si raffigurò, a seno nudo, anche nel declino fisico della senilità. Ma il modello preferito divenne il figlio Maurice, che era nato – come lei all’arte – nel 1883. (Senza padre, come lei). Bambino, lo faceva posare nudo incamera e sul letto. Faceva posare anche la madre Madeleine. Rugosa, deturpata da una vita avara: vedova di un falsario condannato ai lavori forzati, madre sola di una bastarda, aveva cresciuto con pena la figlia – prima nel Limousin, dal 1870 a Parigi. Valadon era una ragazzina di strada – precoce, insolente, maliziosa. Avida di lusso e di piacere, si era votata all’allegria, rifiutando la miseria cui sembrava predestinata. I suoi disegni non somigliavano al personaggio frivolo, leggero ed erotico che interpretava nei caffè di Montmartre, sperperando amore e denaro. Il suo tratto era duro, realistico, impietoso. In seguito dissero, per farle un complimento: virile. I pittori per cui posava non presero sul serio le sue ambizioni artistiche. Il bisbetico Degas, per cui mai posò, trovò invece i suoi disegni “terribili”. Cioè potenti, disturbanti, geniali. Ne appese uno in sala da pranzo. Ne acquistò altri 16, le insegnò ciò che sapeva, la incoraggiò con la sua stima e le regalò la sua sorprendente amicizia. Così lei si convinse a insistere. Espose i primi disegni nel 1894. Volubile nella vita, nel lavoro dimostrò fedeltà e una volontà feroce. Sono una bugiarda, ammise, solo nella pittura dico la verità.
Dopo il 1892 passò a dipingere a olio: ritratti di familiari, amici, amanti, gatti, paesaggi, nudi. Fu ammessa, unica donna, alla Societé Nationale des Beaux-Arts. All’inizio del ’900 espose in qualche collettiva e al Salon d’Automne; Berthe Weill le offrì la sua galleria, qualche amatore la elogiò, ma vendeva un disegno per 3 franchi e le sue tele non avevano mercato. Estranea alle mode e alle teorie (fra i contemporanei ammetteva solo l’influenza di Gauguin), non cercava di sedurre né di piacere. Le rimproveravano il realismo crudo e aggressivo (che ricordava Degas e Toulouse-Lautrec), i colori aspri, il tocco violento, la brutalità delle forme. O forse altro. I collezionisti ritenevano disonorevole acquistare i quadri di una donna.
Il lanciatore della reteè del 1914. Per Valadon, il nudo era la pittura stessa. La maggior parte dei suoi dipinti raffigurano nudi. Quasi tutti femminili: scontrose bambine del quartiere, grevi prostitute, cameriere sfasciate, mulatte disinibite. Nudi mai sensuali – anzi, quasi respingenti. È stato detto che “cantano con voce roca”. Questo invece è un cantico, una coreografia danzata e sognante, un inno al corpo maschile.
La composizione – monumentale – misura due metri per tre. Le tre figure, atletiche, vigorose e solenni, voluttuosamente circondate da una linea nera, sono in realtà una sola, colta da vari punti di vista e in diversi momenti della stessa azione: il lancio della rete nel mare, di un blu vetrificato e minerale come una pietra preziosa. Il soggetto è infatti un pescatore: osservato durante una vacanza in Corsica nel 1913, quando Valadon disegnò gli schizzi preparatori. Ma la natura è sintetizzata in un paesaggio astratto di rocce dominato da una montagna rosa, e il mestiere umile e il gesto plebeo sono raffigurati con la ieraticità di un rito classico. Ciò le aveva insegnato il suo maestro Puvis de Chavannes (il cuiPovero Pescatore aveva suscitato la riprovazione accademica nel 1881). Anche l’assenza di profondità e la ripetizione ritmica e musicale della figura riecheggiano Puvis de Chavannes (che aveva fatto la stessa cosa nelleFanciulle sulla riva del mare, 1879). Valadon però compie un’appropriazione più significativa. NelLanciatore per la prima volta nella storia della pittura la modella- musa è diventata il pittore e il modello l’oggetto del suo desiderio. La vecchiona adesso è lei (ha 49 anni), e la Susanna della cui radiosa carne l’artista si bea è André Utter, il suo amante – 21 anni più giovane di lei e 3 di suo figlio. Oggi è noto solo per la turbolenta relazione con lei: ma l’avvenente Utter, aspirante pittore che la ammirava, le aveva restituito il desiderio di dipingere, spento dall’indifferenza del pubblico. Posava per lei dal 1909. Valadon lo aveva perfino esaltato come Adamo nell’Eden.
Il lanciatore è il suo ultimo nudo maschile: dovette considerarlo definitivo e perfetto, perché non ne dipinse mai più. Può considerarsi anche la sua dote di nozze: suscitando scherno e scandalo, Valadon sposò Utter in quello stesso 1914, quando fu mobilitato per la guerra. Non sapeva ancora che il suo etilico figlio, Maurice Utrillo, sarebbe presto diventato uno dei pittori più pagati del mondo (nel 1926 un Utrillo poteva spuntare 50.000 franchi), rendendo la bastarda della lavandaia talmente ricca da poter comprare un castello del XIII secolo e far dormire l’amato cane sulla sua pelliccia.Il lanciatore,presentato al Salon des Indépendents, non trovò invece acquirenti.
Negli anni ’20 Valadon aveva un agente ed esponeva regolarmente, ormai rispettata dai critici: ma non vendeva e molti la consideravano solo “la madre di Utrillo”. Non fu mai gelosa del successo del figlio, di cui era stata maestra. Smise di dipingere, limitandosi a quadretti di fiori che regalava alle amiche. Visse abbastanza da vedere nel 1937 il Lanciatore acquistato da un museo pubblico (con Adamo ed Eva eNonna e nipote). Soddisfazione tardiva. Le pittrici si apprezzano meglio da morte, e Valadonlo capì: si spense l’anno dopo.
Suzanne Valadon: Le lancement du filet(1914) 201 x 301 olio su tela C. Pompidou Parigi

La Stampa TuttoLibri 2.11.13
Una storia del Mediterraneo
Il Grande Mare che ha bagnato dei, sangue e denari
di Alessandro Barbero

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La Stampa TuttoLibri 2.11.13
Agnes Heller
“Con Jules Verne nell’Olocausto”
di Giuseppe Salvaggiulo

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