Repubblica 4.11.13
Congressi caos, Epifani riunisce la segreteria Pd
Chiti: a Empoli tessere vendute a centinaia d’immigrati. Sul rinvio ora Cuperlo frena
di A. Cuz.
ROMA
— Toccherà a Guglielmo Epifani, domani, dire quel che pensa della
guerra di posizione che si sta combattendo sul tesseramento pd. La
segreteria è convocata al Nazareno, dove si riunirà anche la commissione
dei garanti guidata da Luigi Berlinguer. C’è da capire se le
irregolarità denunciate durante i congressi provinciali sono diffuse o
circoscritte. Se si può parlare di tesseramento falsato, o di problemi
fisiologici legati alla fretta e all’avvicinarsi delle primarie dell’8
dicembre.
C’è da capire - soprattutto - se alcuni mentono quando
dicono che gli avversari hanno truccato le carte per vincere. O se è
vero che a Cosenza c’è un congresso falsato da dirigenti vicini all’area
Cuperlo (e da garanti non imparziali), ad Asti da file di albanesi per
Renzi, e così via in un incrocio di accuse riempite ogni giorno da nuovi
particolari. Vannino Chiti denunciava ieri file sospette di immigrati
al congresso provinciale di Empoli, e si lanciava contro «compravendite
vergognose frutto di regole assurde». Quella di far votare ai gazebo
delle primarie anche i non iscritti, quella di non chiudere il
tesseramento mesi prima del congresso «per compiacere quanti non
sopportano militanti che ogni giorno lavorano per il Pd, volendolo
ridurre a comitato elettorale».
Pippo Civati, pur in disaccordo
con l’idea di fermare il tesseramento, rivendica a SkyTg24: «Il problema
l’avevo denunciato io 15 giorni fa e avevo chiesto agli altri candidati
di schierarsi con me. È successo tutto puntualmente. Diamo l’immagine
di un partito in cui la corsa per il potere è più importante del
rispetto delle regole. Spero che si prendano provvedimenti e si
annullino i congressi nelle situazioni più drammatiche». Parla di
«coperture politiche», lo sfidante di Renzi e Cuperlo, ricorda: «Io l’ho
detto ai miei, il primo che becco lo caccio a calci nel sedere».
Così,
mentre i renziani continuano a dire - su mandato del sindaco - che di
chiudere il tesseramento non se ne parla, che le commissioni di garanzia
hanno il compito di verificare le irregolarità, ma non bisogna
approfittare dei casi sospetti per bloccare la partecipazione, Gianni
Cuperlo non demorde. Dopo un comunicato in cui il suo comitato garantiva
che «le regole si possono cambiare quando c’è condivisione, non saremo
certo noi a impuntarci o a chiedere forzature», il candidato da Ferrara -
sembrava smentire: «Sul discorso tessere non mi arrendo, non è una
polemica mossa nei confronti di qualcuno, è un fatto che riguarda tutti
noi e ne va dell’autorevolezza e della dignità del partito».
Ma il
Pd, in Emilia, ha problemi anche più grossi: il capogruppo in regione
Marco Monari - finito nell’inchiesta sull’utilizzo improprio dei fondi
dei gruppi insieme ai colleghi degli altri partiti - si è dimesso dopo
le voci su sue presunte spese pazze. Oltre 1000 euro per due notti a
Venezia, e 30mila consumate in diversi ristoranti della città nel giro
di 19 mesi. «Troppe dichiarazioni disinformate quanto contraddittorie su
indiscrezioni incontrollate e incontrollabili si difende - mi
convincono che il mio senso di responsabilità, innanzi tutto nei
confronti del partito, viene male inteso e interpretato come un
tentativo di nascondere mie responsabilità personali che rivendico
insussistenti». Per questo, «per il rispetto che devo a me stesso, unito
all’affetto per ilpartito che ho contribuito a fondare, lascio la guida
del gruppo regionale».
Corriere 4.11.13
Congressi, i primi risultati. I renziani: siamo in vantaggio
Caso tessere, boom di iscrizioni anche a Piacenza
di Ernesto Menicucci
ROMA
— C’è la «guerra delle tessere», ma — adesso — c’è anche la battaglia
sui voti. Chi ha vinto, al netto di ricorsi, polemiche, veleni, sospetti
di brogli, tra Gianni Cuperlo e Matteo Renzi (indietro gli altri due
sfidanti, Pippo Civati e Gianni Pittella) nei congressi provinciali Pd
di tutta Italia? Le votazioni sono quasi concluse — ieri è toccato a
Bari; il 10 parte, dopo mille problemi, Caserta — e adesso si cominciano
a fare i conti.
Dal comitato di Cuperlo, qualche giorno fa,
erano usciti i primi dati, favorevoli al deputato triestino: 49
segretari provinciali per lui, 25 per Renzi. Ora, però, dallo staff del
sindaco di Firenze danno una versione molto diversa: «Finiremo 50 e
50...», dicevano gli uomini a lui più vicini. Secondo questi conteggi,
al momento Renzi sarebbe addirittura in vantaggio: 45 (vinti o con
previsione di vittoria) per lui, 41 per Cuperlo. Contando, da una parte e
dall’altra, i candidati «unitari», quelli scelti di comune accordo sul
territorio ma che poi si schiereranno di qua o di là per l’elezione del
segretario nazionale. Mancano, all’appello, una quindicina di congressi:
alcuni sono in corso, altri (come Roma) andranno al ballottaggio.
Ma,
via via, alcune delle situazioni critiche si stanno risolvendo. A
Caserta, come detto, la missione dei due «caschi blu» (un renziano e un
cuperliano) è servita: domenica prossima si vota. A Torino dovrebbe
bastare l’intervento di Giovanni Lunardon, a Lecce e Cosenza si stanno
completando le operazioni. Non che manchino, ancora, le denunce. Proprio
a Cosenza sono i renziani a scrivere ad Epifani: «Ti chiediamo di
intervenire perché si ristabilisca la legalità statutaria». A Napoli,
l’eurodeputato Andrea Cozzolino si sfoga sul suo blog: «Sono andato al
circolo del Vomero per votare, mi hanno detto che l’elezione era già
chiusa. Strano, la settimana scorsa le operazioni si erano bloccate, poi
mi avevano detto che, verosimilmente, si sarebbe potuto votare sette
giorni dopo...».
A Piacenza, dove si è registrato un vero boom di
iscrizioni (iscritti raddoppiati da 900 a duemila, aumento del 117%),
c’è il ricorso dei bersaniani (da Paola De Micheli al vicesindaco
Francesco Cacciatore): «Cuperlo è informato della nostra iniziativa»,
dice la consigliera comunale Giulia Piroli, tra i promotori dell’esposto
agli organi di garanzia del partito.
Lui, il candidato ex
diessino alla segreteria, non vuole fermarsi: «Sul discorso tessere non
mi arrendo. Non è una polemica mossa nei confronti di qualcuno, è un
fatto che riguarda tutti noi e ne va dell’autorevolezza e della dignità
del partito». Domani se ne parlerà alla segreteria e poi alla
commissione congresso: lì verranno anche discussi i casi «sospetti», o
dove ci sono ricorsi e contestazioni. Va all’attacco anche Vannino
Chiti: «Le vergognose compravendite di tessere devono essere duramente
sanzionate». E insiste: «Si vuole vincere senza badare ai mezzi, frutto
di uno statuto sbagliato che consente non agli iscritti ma a chi l’8
dicembre si recherà ai gazebo di eleggere il segretario». Finita? Ancora
no: «C’è chi non sopporta la sinistra nel Pd, e vuole ridurre il
partito ad un comitato elettorale».
Repubblica 4.11.13
A Piacenza colpi bassi tra lettiani e renziani
“Voti comprati” “Non sapete perdere ”
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA
— C’era una volta una tranquilla cittadina emiliana dove il Pd marciava
unito dalla stessa parte. Era il 2007, il sindaco era l’imprenditore
Roberto Reggi che aveva scelto Paola De Micheli come suo assessore al
bilancio. Insieme sostenevano la corsa di Enrico Letta alle primarie
contro Walter Veltroni.
Sei anni fa. Sembrano secoli. Perché nella
Piacenza che ha dato i natali a Pier Luigi Bersani, così come a Reggi,
De Micheli, Migliavacca, tutto è stato stravolto dalla corsa alla
leadership di Matteo Renzi. Le strade dell’ex sindaco Reggi
(coordinatore della campagna per le primarie del rottamatore) e degli
altri tre illustri cittadini pd si sono divise drasticamente. E giù
liti, baruffe, accuse, che a distanza di un anno dalle primarie si
ripetono adesso, nel bel mezzo dei congressi provinciali e dei
tesseramenti sospetti.
Così, la vicecapogruppo del Pd alla Camera,
la lettiana di ferro Paola De Micheli, fa ricorso (insieme ad altri)
alla commissione congresso per 4 casi di tesseramento gonfiato. E dice:
«In questa settimana ce ne sono state anche altre, di crescite di
tesseramento superiori alle percentuali consentite dalla circolare.
Parliamo di un +177 per cento a Piacenza, +340 in Alta Val Trebbia. Nel
Paese del candidato renziano gli iscritti sono aumentati del 1370 per
cento!». Poi attacca: «Questa modalità di scalare il potere non ha nulla
a che fare col Partito democratico. Vincere perdendo la faccia è peggio
che perdere». I bersaniani in città narrano di scene mai viste da
quelle parti: «C’è gente che ha detto “Mi han pagato la tessera, non mi
costava niente venire”. Sono state portate ai seggi truppe cammellate di
dipendenti spinti a votare dai loro datori di lavoro. Avevano
disponibilità economiche, e le hanno usate».
Il regista di tutto
questo è considerato proprio l’ex sindaco ed ex coordinatore renziano
Roberto Reggi, che però dà una versione tutta diversa della storia.
Intanto, il suo candidato, Gianluigi Molinari, sindaco di un paese di
montagna al secondo mandato, ha vinto con il 53 per cento a livello
provinciale. «Lo hanno sostenuto anche alcuni cuperliani e civatiani.
Nulla è stato fatto contro le regole». Spiega, Reggi, che i suoi
“nemici” «cercano solo di screditare un successo bello, pulito, di chi
ha riportato a votare per il Pd una parte di coloro che lo avevano fatto
l’anno scorso alle primarie». Perché «i numeri che dà la de Micheli si
riferiscono alle tessere del 2012, quando gli iscritti erano crollati
per la fallimentare gestione sua, di Bersani e Migliavacca. I numeri
attuali sono del tutto in linea con il 2011. E ancora troppo al di sotto
dei votanti delle primarie, che erano stati 17mila in provincia e 8mila
nella sola Piacenza, mentre adesso abbiamo 2000 iscritti in provincia e
800 in città». E poi certo, «a Vernasca il sindaco ha vinto 145 a 1, ma
quello è il suo comune!». Non ci sta, Reggi, a sentirsi accusare di
illeciti: «Dicano i nomi perché io li ho visti con i miei occhi quelli
che sono venuti. Le truppe cammellate, se ci sono state, non hanno certo
votato per Molinari». Quanto alle accuse della deputata, di usare
trucchi da prima Repubblica, la replica è ancora più dura: «Il vero
vizio da prima Repubblica è quello di provare a delegittimare
l’avversario politico, soprattutto quando vince con merito».
Insomma,
a Piacenza non è più tempo di “tortelli magici”, nostalgiche pompe di
benzina o cene tutti insieme in osteria. Se il buongiorno si vede dai
congressi locali, alle primarie ci sarà da combattere.
Corriere 4.11.13
Alberghi e 30 mila euro in cene
Si dimette il capogruppo del Pd
di Francesco Alberti
BOLOGNA
— Cade la prima testa in quella da molti già ribattezzata «la grande
abbuffata all’emiliana»: girandola di rimborsi, che definire
«disinvolti» forse è poco, tra cene, hotel, qualche vestito, libri e
perfino un gioiello comprato da Tiffany. Una bufera che squassa una
delle Regioni «virtuose» per antonomasia, l’Emilia Romagna, dopo che la
Procura della Repubblica ha indagato per peculato tutti i 9 capigruppo
(dal Pd al Pdl, da Sel alla Lega, fino ai Cinque Stelle) dell’assemblea
regionale.
Ad uscire di scena, rassegnando ieri sera le
dimissioni, è Marco Monari, 52 anni, capogruppo in Regione del Pd, di
cui è stato uno dei fondatori a livello regionale dopo una lunga
militanza ai vertici della Margherita. Monari, che si è sfilato dalla
carica di capogruppo, ma non da quella di consigliere regionale, sin dai
primi momenti dell’inchiesta condotta dalla Finanza e poi sfociata
nell’inchiesta della Procura sulla gestione dei rimborsi in Regione tra
il giugno 2010 e il dicembre 2011, si è trovato in prima fila, esposto a
tutti gli spifferi. A lui, stando a quanto emerso finora, vengono
attribuiti rimborsi pari a 30 mila euro in 19 mesi per cene da 200 euro a
testa in lussuosi locali di Bologna, e non solo. Tra i rimborsi chiesti
dal capogruppo pd vi sarebbero anche alcuni pranzi per beneficenza. E,
dato emerso negli ultimi due giorni, pure un soggiorno a Venezia: 2
notti in hotel per un totale di 1.100 euro (circostanza smentita
perentoriamente dall’interessato, che non ha però chiarito chi avrebbe
allora presentato il rimborso).
Monari, politico navigato, ha
cercato fino all’ultimo di tenere duro, giurando di essere a posto «con
la coscienza e con il diritto: non sono uno scialacquatore» e
denunciando contro di lui «una gogna mediatica». Poi, incalzato dalla
rabbia della base, che ha preso d’assalto a colpi di mail e fax la sede
bolognese del Pd, ha cominciato a vacillare, prima dicendosi «pronto a
un passo indietro», poi facendo slittare la decisione in un tempo
indefinito («Prima voglio capire quali eventuali addebiti mi vengono
contestati dai magistrati»).
Ieri sera invece, dopo che lo stesso
sindaco di Bologna, Virginio Merola, lo aveva di fatto scaricato
(«Bisogna tener conto dello sdegno della base pd» le parole del primo
cittadino), la resa: «In questa situazione — ha scritto Monari —, il
rispetto che devo a me stesso, unito all’affetto per il Partito (la
maiuscola è del capogruppo, ndr ) che ho contribuito a fondare, mi
impone di lasciare immediatamente la guida del gruppo regionale». Un
gesto, ha tenuto a sottolineare, che non intacca minimamente la sua
linea difensiva: «Troppe dichiarazioni disinformate su indiscrezioni
incontrollate mi convincono che il mio senso di responsabilità viene
perfino interpretato come un tentativo di nascondere mie responsabilità
personali che rivendico insussistenti».
Inchiesta in bilico tra
indiscrezioni e sdegno popolare. I magistrati per ora non hanno
notificato formalmente ai 9 capigruppo eventuali contestazioni sulla
regolarità o meno dei rimborsi. Monari non è comunque solo in questa
storia di spese «creative». Cene per circa 43 mila euro, con la carta di
credito del gruppo, risultano rimborsate al capogruppo pdl Luigi
Giuseppe Villani (arrestato nel 2013 a Parma per corruzione). E se si
allarga il tiro a tutti i consiglieri regionali, si supera il mezzo
milione di euro. Solo di cene.
«Letta blinda la Cancellieri “No alla sfiducia dei grillini” Ma il Pd: troppi buchi neri
E spunta l’ipotesi del rimpasto. Il Pdl: noi la difendiamo»
Repubblica 4.11.13
Pippo Civati attacca: “Con lo spauracchio della crisi si mette il silenziatore a qualunque diversità di opinione”
“Davvero tanti imbarazzi nel mio partito lei avrebbe dovuto rimettere il mandato”
intervista di Umberto Rosso
ROMA — «No, non mi è piaciuta l’autodifesa della Cancellieri. E nel mio partito, o sono troppo taciturni o troppo imbarazzati».
Eccesso di prudenza nel Pd, onorevole Civati?
«Ci
sono quelli che se ne stanno zitti, per paura di interferire con il
governo e metterlo nei guai. E quelli che, come Epifani o come il
responsabile giustizia Leva, sollevano il caso ma senza trarne fino in
fondo le conseguenze. Ma, se è grave, è grave. Bisogna prenderne atto.
Senza traccheggiare, e con un’assunzione di responsabilità».
In che modo?
«Meglio
avrebbe fatto il Guardasigilli a rimettere subito il suo incarico a
disposizione del presidente del Consiglio. Poi, sarebbe stato Letta a
decidere il da farsi. Come è avvenuto del resto con Josefa Idem, che
abbiamo sacrificato sull’altare della legalità, giustamente».
Il governo difende la Cancellieri.
«Ci
chiederà di salvarla, come è successo con Alfano. Ma io restomolto
critico, con tanti dubbi sul comportamento del ministro, con troppe zone
d’ombra e poco lineare. Prima e dopo: quando è intervenuta per la
scarcerazione della Ligresti e adesso che la rivendica. Senza un
briciolo, quanto meno, di umiltà e di ripensamento».
Voterà allora la mozione di sfiducia dei grillini?
«Materia
incandescente, votare a favore di una richiesta che arriva
dall’opposizione non è mai affare semplice. Mi pare quasi di sentirle
già, le accuse: il solito Civati che spera di far cadere il governo
sfruttando il caso Cancellieri».
Invece?
«Invece con lo
spauracchio della crisi di governo si mette il silenziatore a qualunque
diversità di opinione, diventa “sospetto” chiedere che un ministro
coinvolto in una storia imbarazzante rassegni il mandato. Ma i nostri
elettori la pensano in un altro modo».
Quale sarebbe?
«Io
sono in corsa per la segreteria del partito, giro per l’Italia. Sento
che la nostra gente è inferocita per la vicenda Cancellieri. Una storia
che è lo specchio del solito rapporto privilegiato fra potenti, il
paradigma del rapporto fra politica e società, e stavolta coinvolge un
ministro di esecutivo targato anche Pd. Nel paese degli amici degli
amici, del conflitto di interessi, della casta, la nostra base non
giustifica i rapporti della Cancellieri con i Ligresti, personaggi al
centro di inchieste giudiziarie, e il suo intervento in loro favore».
Dettato da ragioni umanitarie, ha spiegato il ministro.
«Per
favore, basta con le ipocrisie. O lo fa per tutti o per nessuno.
Siccome il numero di telefono del ministro è nell’agenda di pochi
fortunati, e non certo delle centinaia di detenuti che soffrono in
carcere, il bel gesto del Guardasigilli mi pare proprio mirato e
amicale. Sarebbe stato imbarazzante pure in Svezia, figuriamoci in
Italia. Con quelle frasi che saltano fuori nelle intercettazioni...».
A cosa si riferisce?
«Un
ministro che parla di arresti disposti dalla magistratura come “la fine
del mondo”, che si mette a disposizione dicendo “contate su di me”, non
mi pare proprio faccia una bella figura».
Ce l’ha con la Cancellieri?
«Nessuna
avversione personale da parte mia nei confronti del ministro, e nessun
“secondo fine” per mettere in difficoltà il governo. Ma devo dire che mi
ha deluso anche la sua autodifesa, il rivendicare con orgoglio quel che
è successo e confermare che avrebbe tranquillamente rifatto tutto
quanto. Un po’ di autocritica non farebbe male».
Repubblica 4.11.13
Se anche il carcere divide i ricchi dai poveri
di Chiara Saraceno
Forse
a Giulia Ligresti non occorreva neppure l’interessamento della ministra
della Giustizia Cancellieri perché il tribunale valutasse il suo stato
di salute come troppo rischioso per la sua incolumità psico-fisica e
quindi ne decidesse la scarcerazione. Bastava la sua condizione di
persona ricca e privilegiata, non abituata quindi ai disagi. Secondo la
perizia medica alla base della decisione del tribunale, infatti, proprio
la sua condizione di persona abituata ai privilegi e agli agi l’ha resa
particolarmente inadatta a sostenere l’esperienza carceraria. Secondo
il perito, Giulia Ligresti soffriva “di un disturbo dell’adattamento,
che è un evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima
detenzione e in particolar modo per chi sia abituato a una vita
particolarmente agiata, nella quale abbia avuto poche possibilità di
formarsi in situazioni che possano, anche lontanamente, preparare alla
condizione di restrizione della libertà e promiscuità correlate alla
carcerazione».
Se ne deduce che invece chi non è abituato a una
vita particolarmente agiata ha più facilità ad adattarsi alle condizioni
di vita in carcere. Ne deriva, per seguire fino infondo la logica di
questo ragionamento, che l’istituzione carceraria deve essere
particolarmente attenta ai bisogni e alle difficoltà di chi arriva in
carcere da una vita di privilegi. Una attenzione che invece non è
necessaria nei confronti dei poveri cristi che ci arrivano da vite
modeste. Le “difficoltà di adattamento” di questi ultimi, e più
generalmente il loro malessere, devono essere molto più vistosi per
avere una possibilità di essere presi in considerazione. E non sempre
ciò basta, proprio perché mancano loro le conoscenze, il know how, per
mobilitare perizie e richiamare l’attenzione. Se poi, oltre a non essere
agiate, presentano anche qualche tipo di vulnerabilità sociale (piccoli
precedenti, tossicodipendenza, segnalazione ai servizi sociali e
simili), le loro condizioni di malessere rischiano di essere
sistematicamente ignorate o sottovalutate — qualche volta fino alla
morte, come è avvenuto per il povero Cucchi: prima picchiato da chi lo
aveva arrestato, poi lasciato morire dai medici per carenza di
assistenza medica e per mancanza di cibo e di liquidi.
La ministra
Cancellieri afferma di essere intervenuta per motivi umanitari e di
averlo fatto in un altro centinaio di casi rimasti sconosciuti e
riguardanti sconosciuti. Sarà sicuramente vero. Ma proprio per questo
preoccupante, soprattutto se messo insieme alle argomentazioni del
perito del caso Ligresti. Segnala che, nel girone infernale delle
carceri italiane, la possibilità che i detenuti continuino a essere
considerati esseri umani con diritto alla dignità e integrità personale e
alla cura è affidato — come nell’ancien régime — alla discrezionalità
di chi ha il potere di accogliere una supplica o ai privilegi
riconosciuti alla ricchezza e allo status sociale — incluso il
privilegio di vedersi riconosciuto un plus di vulnerabilità e
sofferenza. Quanti altri detenuti si trovano in condizioni di
“disadattamento grave” alle condizioni carcerarie, ma non hanno modo di
attirare l’attenzione della ministra, o non viene loro neppure in mente
di poterlo fare, e non sono abbastanza agiati da sollecitare la
comprensione di un perito? Se non affronta l’ineguale diritto
all’umanità dei detenuti nelle carceri italiane, il diritto alla propria
umanità rivendicato dalla ministra non è altro che la rivendicazione
del diritto alla discrezionalità benevola in assenza di diritti e
garanzie per tutti.
Corriere 4.11.13
Tra i dem la (vera) prova è sul sostegno al governo
di Alessandro Trocino
ROMA
— «Nessuno strumentalizzi, neanche dentro il Pd». La frase di Danilo
Leva, responsabile giustizia dei Democratici, esplicita quello che già
si intuiva, e cioè che nel caso Cancellieri ha fatto irruzione la
campagna congressuale. Se la linea ufficiale è quella di non condannare
né assolvere, in attesa delle spiegazioni di domani alle Camere, monta
sempre di più un’ala intransigente, nell’area di riferimento di Matteo
Renzi (ma non solo), che chiede le dimissioni del ministro. Richiesta
che all’ala che sostiene con più convinzione il governo delle larghe
intese non sembra esente dal retropensiero di un indebolimento
dell’esecutivo. Domani Guglielmo Epifani riunisce la segreteria, e si
parlerà anche di questo, oltre che della questione tessere.
Significativo
l’intervento di Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi: «È una vicenda molto
seria ma non sono per il ‘fuori subito’, come sostengono altri. Non
vorrei che si utilizzasse questo episodio per colpire il governo.
Sarebbe scorretto». Paola De Micheli, il caos congressuale lo chiama
«entropia»: «Un tasso di confusione crescente, che non aiuta. Ma io sono
convinta della buona fede del ministro e se martedì confermerà le cose
dette da Caselli, il caso sarà chiuso».
Può darsi. Ma le
richieste di dimissioni sono già arrivate da esponenti di aree diverse:
Pina Picierno, Ernesto Carbone, Pippo Civati, Felice Casson. Tra i
renziani i toni si alzano. Antonio Funiciello, responsabile
comunicazione e cultura del Pd, non fa sconti: «Vogliamo sapere da lei
quando è intervenuta, per quali altri casi e in base a quali criteri. Ci
deve dare spiegazioni convincenti». Certi paralleli non lo convincono:
«Come si fa a paragonare una signora che ha commesso un gravissimo reato
con un economista ucciso dalle Br, come Marco Biagi?».
Michele
Anzaldi spiega che bisogna tenere conto anche della base, indignata: «Mi
pare che la Cancellieri sia abbastanza indifendibile. Al Pdl forse la
cosa non scandalizza, ma noi abbiamo un codice deontologico preciso. La
Idem, per esempio, avrebbe potuto anche non dimettersi, ma invece ha
fatto un passo indietro. Qui stiamo parlando di un ministero pesante, la
Giustizia, e stiamo parlando di una famiglia che ha commesso una frode
grave, che lascia il segno e che ha fatto sparire un’assicurazione,
creando pesanti ripercussioni economiche. Certi paragoni che ho sentito
non esistono: la Ligresti non è una vittima».
Naturalmente, lo
schematismo delle correnti non funziona sempre. E così Dario Nardella,
che pure è renziano, sostiene che il ministro ha già dato sufficienti
spiegazioni e la difende. E Sandro Gozi, che da Marino si è avvicinato
da tempo al sindaco di Firenze, è molto più morbido: «La Cancellieri ha
tenuto un comportamento molto imprudente, ma non mi risulta che abbia
fatto pressioni dirette su chi era deputato a decidere. La sua è
un’imprudenza che non deve costare le dimissioni. Mi piacerebbe, invece,
che questa indignazione generale accelerasse la riforma sulla custodia
cautelare».
l’Unità 4.11.13
Noi e la Prima Repubblica: una storia capovolta
di Carlo Galli
Come
si fa a non concordare con Galli della Loggia quando sostiene che non
c’è politica se il partito su cui si regge il sistema italiano il Pd,
dato che la destra pur socialmente fortissima è politicamente quasi
inesistente non è capace di affrontare apertamente la complessità della
storia repubblicana? Se, in altre parole, non si fa carico del compito
di ripensare l’Italia, per rifarla?
C’è in questa tesi molto di
buono: e in primo luogo c’è la percezione che la politica non è
quell’attività ridicola, parassitaria, effimera, a cui oggi si è ridotta
quando non è pura gestione tecnica -; che la politica non è ricerca di
slogan, ma analisi della costituzione materiale di un Paese,
individuazione delle dinamiche del presente, e delineazione di un
realistico orizzonte di sviluppo. E che a questo scopo il partito è
indispensabile (altro che partito leggero!), come sistema
d’interpretazione accorta e partecipata come forza responsabile e ricca
di sapere pratico, e anche di potere legittimo della storia, del
presente e del futuro.
Certo, non si può essere d’accordo con
Galli della Loggia quando riduce questo sapere pratico ad un atto
d’ammenda che il Partito democratico in quanto erede della sinistra
dovrebbe fare per le colpe passate della Prima repubblica, delle cui
«scelte sbagliate» è corresponsabile. Ora, sulla responsabilità
soggettiva c’è da avanzare una prima obiezione: il Pd non è l’erede del
Pci (la sua componente cattolica è troppo forte per essere trascurata), e
in ogni caso il Pci non ha mai avuto responsabilità dirette di governo,
dopo il 1947 (altra cosa sono le responsabilità amministrative). Ciò
non toglie, naturalmente, che la sinistra abbia esercitato una grande
influenza sulla storia d’Italia, che ne sia parte e quindi anche
(parzialmente) responsabile; ma certo maggior peso ebbe quella Dc di cui
solo un settore, la sinistra, è confluita nel Pd, mentre il grosso
delle sue file è divenuta la base (e anche il personale politico) di una
destra che oggi è allo sbando ma che ha sulle spalle sia il ventennio
berlusconiano sia larga parte delle disfunzioni della Prima repubblica.
Sulla
stessa linea, va anche osservato che, per quanto si possa essere
d’accordo sull’insufficienza dell’antiberlusconismo a sostenere e a
legittimare una politica, non si possono tuttavia chiudere gli occhi
davanti alle degenerazioni e alle patologie di cui Berlusconi è stato
veicolo e promotore: insomma, il mea culpa non può riguardare solo la
Prima repubblica, ma anche la seconda; non solo la sinistra ma anche la
destra. Ma anche dal punto di vista oggettivo Galli della Loggia avanza
tesi non del tutto condivisibili. Infatti, se il nostro passato
democratico non è da lui identificato (giustamente) col crimine di
Tangentopoli, lo è tuttavia (ingiustamente) con il clientelismo, il
parassitismo, l’evasione fiscale di massa, il consociativismo, il debito
pubblico. Ora, tutto ciò è la degenerazione della Prima repubblica,
dalla morte di Moro (o forse anche da qualche anno prima) in poi; ed è
vero che da quella degenerazione non ci siamo mai veramente ripresi, e
che con essa non facciamo i conti se non nella sbrigativa vulgata
neoliberista e neomonetarista che iscrive tutta la nostra storia passata
nella rubrica dei peccati contro le sacrosante leggi dell’economia; ma
anche in questo caso un’analisi non sommaria non può trascurare che il
cuore della Prima repubblica, il suo significato storico, è stato avere
promosso in Italia la prima democrazia civile e sociale della sua
storia, fondata sull’antifascismo, sul ruolo dei partiti e dei
sindacati, sulle libere istituzioni, e sul benessere diffuso grazie allo
sviluppo dell’economia e all’espansione dello Stato sociale. La vera
presa di coscienza collettiva necessaria alla rinascita del Paese una
memoria affidata in primis, ma non esclusivamente, al Partito
democratico non può dimenticare questo aspetto della storia d’Italia, e
non può fare i conti soltanto con le sue degenerazioni. Né si può
buttare l’acqua sporca della profonda corruzione della vita civile, che
effettivamente ci tormenta, insieme al bambino della democrazia sociale,
come ricordo di quanto abbiamo fatto e come orizzonte di quanto c’è
ancora da fare. Senza la percezione della complessità non si fa né
storia né politica, ma ideologia. E non vi è dubbio che di questa,
nonostante le apparenze, ve ne sia oggi fin troppa: e tutta
antipolitica, anti-istituzionale, anti-repubblicana. È proprio contro
questa ideologia che devono combattere quanti giustamente sostengono che
senza coscienza storica non c’è né politica né futuro.
Repubblica 4.11.13
Dal catto-comunismo all’odierno dialogo
di Mario Pirani
Con
l’incontro epistolare fra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari una nuova
stagione di riflessione ideologica reciproca si è aperta tra
l’intellighentia laica e quella cattolica. È un evento di non poco
momento che richiama vicende trascorse, destinate, foss’anche nella
forma, ad un destino irripetibile. E in un certo senso lo sono, anche se
i più anziani fra noi ricordano quell’intreccio di idee, di
controversie, di passioni, messe continuamente alla prova, che dalla
fine degli anni Cinquanta al Concilio Vaticano II tracciarono il profilo
di quel rapporto fra cattolici e comunisti, unico in Europa, quasi
intangibile da bordate devastanti, come la scomunica di Pio XII, l’ira
di Cl, lo scontro politicamente predominante tra De Gasperi e Togliatti.
Eppure quel rapporto da ogni cenere risorse, fino a quando non le
maledizioni vaticane, ma il disgregarsi per ragioni endogene di quelle
due “ecclesie” non ne dissolse l’empito dirompente. Si pensò allora che
una Storia fosse esaurita e nuovi cammini si andassero approntando, in
luogo di quel tracciato catto-comunista su cui per decenni quegli
eserciti di popolo erano adusi a ricomporsi.
Oggi il parlare
assieme e la sorprendente dimestichezza di un codice comune di
comunicazione assume il carattere di una riscoperta e non parlo solo di
epifanie giornalistiche, officiate da Francesco o dal fondatore
diRepubblica ma da svariate iniziative che germogliano ovunque. Mentre a
Milano studiosi di fede diversa intrecciano un dibattito su “Un’
economia a misura d’uomo”, a Roma l’Aspen, una fondazione internazionale
radicata nel mondo anglo-sassone, riunisce a palazzo Lancillotti nella
sua sede italiana un seminario presieduto dal cardinale Gianfranco
Ravasi, con la partecipazione di uomini di impresa e studiosi laici di
vario orientamento, da Giulio Tremonti a Luigi Bruni per affrontare il
tema “Gratuità ed economia di mercato” sulla base di vari testi tra cui
spiccavano recenti brani di Papa Francesco e di Benedetto XVI, del
professor Stiglitz e del cardinale Turkson (“Per un’economia basata
sulla logica del dono”), ecc.
L’originalità in confronto al
passato sta nel fatto che un tempo i seguaci delle diverse dottrine
avrebbero affrontato il dibattito ognuno nel proprio orto (ad esempio
“Il pensiero sociale cattolico”), mentre giudizi e confronti si
sarebbero incrociati all’esterno gli uni dagli altri. Ora, invece,
l’elaborazione di un pensiero non solo economico profondamente
rivisitato avviene all’interno di un unico crogiolo di passione e
ricerca. Come rammenta Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, rifacendosi a
un intervento del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni «dopo secoli
di predicazione cristiana contro la “superstizione giudaica” e la vanità
dell’attesa messianica, oggi la fedeltà ebraica diventa un modello per i
cristiani e per l’umanità e questa è una svolta non improvvisa ma molto
significativa, di cui anche gli ebrei dovranno prendere coscienza». Gli
risponde il vescovo di Chieti: «L’altro non è minaccia ma ricchezza,
non pericolo, ma possibile modello e dono. Gesù, ebreo di nascita e per
sempre, non potrà non esser contento di questa parola di verità e di
amore del Successore di Pietro. Gli odi fomentati dall’ideologia
moderna, sono tragiche memorie del passato». È venuto ormai il tempo –
scrive Francesco – e il Vaticano II ne ha inaugurato la stagione, di un
dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e
fecondo incontro con l’altro, con ogni altro».
Repubblica 4.11.13
Grillo sul blog attacca Scalfari: “Teme la nostra vittoria”
ROMA
— «È iniziata l’invasione degli Ultrascalfari. La paura delle elezioni
europee fa novanta e ogni colpo contro il M5S è lecito, meglio se sotto
la cintura. Scalfari fa da apripista, da pennivendolo da sfondamento che
con quell’età e quella barba può scrivere quello che vuole». Beppe
Grillo attacca sul suo blog il fondatore di Repubblica che nel consueto
editoriale domenicale, titolato “Se vince Grillo il paese va a rotoli”,
ha criticato la campagna «di destra xenofoba e qualunquista» che i
grillini stanno cavalcando in vista delle elezioni europee. «Si tratta
di una campagna di destra, una destra xenofoba contro gli immigrati,
qualunquista contro i partiti (tutti i partiti, nessuno escluso) e
contro le istituzioni, dal capo dello Stato al presidente del Consiglio
ai ministri (tutti ministri) e contro la magistratura e la Corte
costituzionale», ha scritto Scalfari.
l’Unità 4.11.13
Il doppio no di Bersani al Cavaliere che chiuse la grande trattativa
In
«Giorni bugiardi», da mercoledì in libreria, i collaboratori dell’ex
segretario Pd raccontano la partita a scacchi col Pdl sulla formazione
del governo e sul Quirinale
di Stefano Di Traglia e Chiara Geloni
La
verità è che nemmeno nell’incontro col Pdl Bersani riscontra
opposizioni rispetto alla legittimità del suo tentativo di formare un
governo. Anzi, il centrodestra ritiene che spetti a lui e a nessun altro
insediarsi a Palazzo Chigi. Non ci sono obiezioni, interpretazioni del
risultato elettorale che giustifichino pareri diversi; ci sono solo due
condizioni. Dice Bersani: «Berlusconi aveva chiaro molto più di tanti
osservatori quale era stato il risultato elettorale. Sapeva benissimo
quello su cui i numeri non lasciavano alcun dubbio, cioè di essere
arrivato terzo. Sapeva che, al di là della propaganda, la famosa
“rimonta” è stata nient’altro che un effetto ottico: un rimbalzo che ha
avvicinato Pd e Pdl ma che è dovuto al fatto che il Movimento 5 Stelle
ha tolto voti al Pd. Gli uomini del Pdl avevano capito molto bene di
aver perso le elezioni, anche se certo non gli è dispiaciuto che tanti
dei nostri enfatizzassero l’idea che le avevamo perse noi. Questo
infatti ha rafforzato la loro vera battaglia, che nelle condizioni date
aveva due obiettivi: ottenere la presidenza della Repubblica, o in
subordine ottenere un governo di larghe intese. Noi purtroppo, con le
nostre scelte successive, gli abbiamo consentito di portare a casa il
secondo obiettivo e di lasciare per così dire in sospeso il primo».
«Noi»,
cioè il Pd. Ma non Bersani, che da premier incaricato aveva risposto no
su entrambi i fronti. Naturalmente Berlusconi, noblesse oblige, alle
consultazioni manda Alfano. (...) Bersani fa il solito cappello
introduttivo, dichiara la sua intenzione, considerato il risultato
elettorale, di cercare tra le forze politiche «il più alto grado di
corresponsabilità che possa risultare credibile agli occhi del Paese».
Significa, spiega, che un governo che veda insieme Pd e Pdl non sarebbe,
a suo giudizio, una giusta interpretazione delle scelte degli elettori e
apparirebbe una soluzione «politicista» e inadeguata alla richiesta di
cambiamento. Al centrodestra Bersani propone dunque un «doppio binario»:
da una parte, una comune assunzione di responsabilità e un reciproco
riconoscimento tra tutte le forze politiche per dar vita a una
convenzione costituzionale che consegni alle Camere, in tempi certi, un
progetto di riforma istituzionale ed eventualmente della legge
elettorale. Dall’altra, un governo che si occupi delle emergenze
sociali, della moralizzazione della vita pubblica e della riforma della
politica, «aperto alla partecipazione di figure indipendenti» rispetto
al quale le forze politiche si assumano la responsabilità, a seconda di
quanto ritengono, o di farlo nascere o di non impedirne la formazione.
Bersani fa capire che la guida della Convenzione in questo caso potrebbe
spettare a un esponente del centrodestra; e che nella scelta dei
ministri lui terrebbe conto di tutte le sensibilità presenti in
Parlamento.
Alfano dà atto al Pd e al suo segretario della
coerenza della proposta, ma ritiene difficile da giustificare di fronte
al suo elettorato un via libera al governo guidato da Bersani. Diverso
sarebbe, ecco il punto, se Bersani fosse disponibile a governare insieme
al centrodestra: in quel caso il sostegno al leader elettorale del
centrosinistra non incontrerebbe alcun ostacolo. O in alternativa, le
cose potrebbero cambiare se Bersani fosse disposto a condividere fin da
subito un accordo sul nome del prossimo presidente della Repubblica:
scelto nel campo del centrodestra, s’intende. Nomi nel colloquio
ufficiale non ne vengono pronunciati, ma Bersani sa bene che quello che
ha in mente Berlusconi è uno solo, ed è quello di Gianni Letta.
(...)
Bersani ribatte che il governo di larghe intese favorirebbe il dilagare
del consenso alle proposte più populiste. Inoltre, afferma che uno
scambio Pd-Pdl tra presidenza del Consiglio e presidenza della
Repubblica sarebbe semplicemente «non presentabile» all’opinione
pubblica. Diverso è dire che le istituzioni appartengono a tutti e che è
quindi necessario condividere la scelta dei vertici. (...)
Alle
19.49 sulle agenzie esce una dichiarazione di Alfano. È l’ultimo
appello: «Bersani si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato. Sta a
lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e può». Alle 20.12, l’Ansa
batte una notizia di tre righe, una dichiarazione anonima che facciamo
filtrare come “fonti del Nazareno”: «Se il Pdl vuole una trattativa sul
Quirinale, noi non ci stiamo».
La mattina dopo nella Sala del
cavaliere sono attese le delegazioni dei partiti della coalizione Italia
bene comune. Siamo tra amici, il tentativo di formare il governo è
sostanzialmente già saltato, si parla ormai di quello che succederà
dopo. Bruno Tabacci e Giovanni Maria Flick, nell’incontro con il Centro
democratico, fanno questa analisi: nessun governo può nascere in questa
situazione parlamentare, finché non ci sarà un presidente della
Repubblica con i pieni poteri, in particolare quello di scioglimento.
Lasciano intendere che sarebbero opportune le dimissioni anticipate di
Napolitano in modo che sia il suo successore a concludere la vicenda.
Non sembra essere una critica al presidente in carica, che anzi tutti si
dicono pronti a rieleggere, se solo volesse. Si parlerà a lungo di
questo scenario nei giorni successivi, ma poi Napolitano deciderà
diversamente: niente dimissioni anticipate, saranno nominati i “saggi” e
l’incarico di Bersani resterà questione nelle mani del suo successore.
Infine arrivano Roberto Speranza e Luigi Zanda. Il giovanissimo
capogruppo alla Camera, alla fine del colloquio, quando è già in piedi
per uscire, prende da parte il segretario e gli dice, a voce bassissima:
«Fallo tu Pier Luigi il governo di larghe intese. Sarà più facile da
gestire con la nostra gente. E poi sono in tanti, anche i più vicini a
noi, che mi chiamano per dirmi di chiedertelo...». Il presidente
incaricato gli mette un braccio sulla spalla. E gli dice che pensa
ancora che il governissimo si possa evitare. E comunque la sua risposta a
questa richiesta è ancora una volta quella di sempre: «No».
il Fatto 4.11.13
D’Alema, Renzi e il delitto (politico) di Bersani
Un libro ricostruisce gli ultimi giorni da leader dei democrat. E fa i nomi dei “mandanti”
di Wanda Marra
Come
insegnano i grandi giallisti, per individuare l’assassino bisogna
innanzitutto capire chi ha il movente”. Semplificando, l’assassinio
(politico) è quello di Pier Luigi Bersani, i giallisti sono due
fedelissimi dell’ex segretario del Pd, Stefano Di Traglia, ex portavoce e
spin doctor, e Chiara Geloni, direttrice di You Dem e gli indiziati
principali, oltre a un partito infido e assente, soprattutto due: Matteo
Renzi e Massimo D’Alema. Giorni Bugiardi in libreria da dopodomani, è
un resoconto dichiaratamente parziale che va dalle primarie 2012, alle
elezioni, alla partita del Quirinale.
IL FILO ROSSO del racconto
rimane uno: le gesta di Bersani sono state dettate sostanzialmente da
lungimiranza e generosità politica, chi non è stato al-l’altezza delle
aspettative è il Pd. Geloni e Di Traglia ricostruiscono comportamenti
ambigui, disseminano indizi. Riflette Bersani: “È l’unanimità che carica
la molla del tradimento. Si accumulano ammaccature e ombre, e alla
prima occasione… Io ho avuto l’unanimità quasi sempre, pur non
chiedendola mai: non so bene perché”. E allora, a proposito di
unanimità, ecco la mattina del Capranica e l’ovazione con cui si arrivò
alla candidatura di Prodi al Colle (mentre nelle intenzioni del
segretario si sarebbe dovuta svolgere una conta tra lui e D’Alema),
momento clou di una serie di eventi, che vanno dalla sera in cui venne
proposto Marini a quella in cui si dimise Bersani. L’opposizione dell’ex
Rottamatore alla candidatura di Marini viene così chiosata: “A tanto
zelo antimariniano non corrisponde però un’analoga indignazione verso la
possibilità che il nome su cui si finisca per convergere sia invece
quella di un altro bersaglio storico della rottamazione…. Massimo
D’Alema… Ma da tempo tra il sindaco e l’ex premier qualcosa sta
cambiando”. Ecco riportate le considerazioni di Luigi Zanda poco prima
che inizi la riunione al Capranica: “Ma se parte l’applauso quando tu
dici…’. Bersani è irremovibile: ‘Si vota lo stesso’. ‘I renziani ci
mandano emissari a dire che loro vogliono acclamare…’, insiste
timidamente Zanda. Bersani scrolla le spalle”. Le primarie non si fanno
perché i grandi elettori acclamano Prodi, con il renziano Marcucci “che
si distingue per foga”. E D’Alema? Raccontano gli autori che il suo nome
non venne mai fatto, nelle trattative con il Pdl, ma anche che lui era
convinto che avrebbe avuto la maggioranza tra i grandi elettori. Altro
passaggio chiave: “Perché i dalemiani non chiedono il voto segreto
nell’assemblea che acclama Prodi? Perché alzano la mano a favore di
Prodi quando Bersani chiede che ci sia almeno un voto palese Il motivo è
forse lo stesso per il quale noi non sappiamo a chi fare queste
domande: in tutta questa vicenda nessuno s’intesta la battaglia di
D’Alema al Quirinale”. Il libro è un atto di accusa continuo: verso Sel,
che si sfila appena può, verso Beppe Grillo, che si racconta inseguito
nella fase del governo del cambiamento in tutti i modi possibili,
incluso suo dentista come intermediario (“In Liguria si cercano contatti
a tutto campo… anche Renzo Piano è della partita”), verso il Pd, verso i
media, accusati di non capire e di non sostenere (Repubblica “il 27
febbraio mette letteralmente alla porta Bersani”). Non mancano
ricostruzioni inedite. Come le lettere segrete in cui Napolitano avrebbe
ribadito di non avere alcuna intenzione di accettare un reincarico.
L’artefice della rielezione di Re Giorgio (dipinto non come un amico, ma
neanche come un nemico) nel libro è ancora Bersani: “Io stasera mi
dimetto e domattina vado da Napolitano a chiedergli di restare”, dice
l’ex segretario un minuto prima di andarsene. Nessun veleno
all’indirizzo di Enrico Letta.
SOLO UN ANEDDOTO in cui si
sottolinea la sua vicinanza calcistica a Berlusconi: “Il Cavaliere
durante le trattative per il Colle rivela a Bersani e Letta di essere
sul punto di sostituire Seedorf….’ mi sembrò che Enrico fosse
preoccupato’, rise Bersani”. Su tutte l’interpretazione di Migliavacca
sui 101: “C’era chi voleva chiudere l’esperienza Bersani e c’era chi
riteneva irrealistico il governo di cambiamento e voleva il
governissimo”. In questo racconto di parte l’autocritica è al minimo, il
rimpianto al massimo. Come in quell’immagine, rimasta nel mondo dei
sogni: “Pochi giorni dopo questi fatti, il 12 maggio, si svolge a
Piacenza il Raduno nazionale degli alpini: immaginiamo il palco d’onore
col presidente della Repubblica, Franco Marini, la piuma sul cappello
degli alpini di Barisciano e la pipa spenta, e accanto a lui il nuovo
presidente del Consiglio, alla prima uscita pubblica, proprio nella sua
città… Scherzi della fantasia, cose da non pensare”.
La Stampa 4.11.13
“Nei 101 contro Prodi c’erano anche i renziani”
In un libro dei due collaboratori di Bersani i retroscena su Colle e formazione
del governo. “Napolitano spiegò che la sua rielezione era una non soluzione”
di Fabio Martini
qui
Corriere 4.11.13
Bersani, trappole e congiura «Per parlare con Grillo chiese aiuto a un dentista»
I «fedelissimi» raccontano la caduta del leader
di Aldo Cazzullo
C’è
Enrico Letta che, nel giorno della rielezione di Napolitano, confida ai
presenti nella stanza di Bersani: «Sono stato a Pisa dai miei la scorsa
settimana, mia madre mi ha detto: “Fate di tutto ma il governo con
Berlusconi no…”». C’è Massimo D’Alema che non entra nella partita per il
Quirinale — «nessuno lo propone mai, nessuno pronuncia il suo nome» —
ma è sospettato («anche se non abbiamo prove») di essersi accordato con
Matteo Renzi per «togliere di mezzo Bersani», anche affossando Prodi: «È
convinzione comune di chi conosce la composizione dei gruppi
parlamentari che in nessun modo sia possibile raggiungere la cifra di
101 o più grandi elettori dissenzienti, senza includere nel conteggio i
41 renziani che alla prima votazione avevano rifiutato di votare Marini e
avevano scelto (dichiarandolo pubblicamente) Sergio Chiamparino».
Soprattutto,
ci sono la fedeltà e l’ammirazione verso Pier Luigi Bersani al centro
di «Giorni bugiardi» (Editori Riuniti), il libro che Stefano Di Traglia,
portavoce dell’ex segretario Pd, e Chiara Geloni, direttore di Youdem
Tv, mandano dopodomani in libreria. Una lealtà che induce talora a
qualche forzatura (chi scrive è convinto che la gran parte dei renziani
abbia votato Prodi). Ma non c’è dubbio, a leggere le bozze, che il libro
sia destinato a far discutere, oltre ad arricchire di notizie e
dettagli inediti i mesi decisivi tra le primarie dell’autunno 2012 e la
nascita del governo Letta.
«Arriverai terzo» manda dire D’Alema a
Bersani. Anche Letta, Franceschini, Bindi, Finocchiaro cercano di
dissuaderlo dalla scelta di indire le primarie per la candidatura a
Palazzo Chigi, con un’argomentazione che lo stesso Bersani riassume così
nel libro: «Il partito non è tuo, non puoi esporlo a un tale rischio,
ci porti al disastro». La Bindi in particolare insiste: «La verità è che
tu non hai voglia di andarci, a Palazzo Chigi». «Oggi — conclude l’ex
segretario — rifletto anche sul fatto che è l’unanimità che carica la
molla del tradimento».
Dopo la vittoria dimezzata alle elezioni,
Bersani ottiene l’incarico di formare il governo e avvia le
consultazioni. Tenta invano di incontrare anche Grillo, gli fa sapere di
essere disposto a raggiungerlo a Genova; nella mediazione vengono
coinvolti pure Renzo Piano e il dentista dell’ex comico. Alfano propone
un accordo — Quirinale al Pdl e Palazzo Chigi a Bersani; in
second’ordine, Bersani premier di un governo di larghe intese — ma
riceve due no. Per definire la partita del Colle, Bersani vede pure
Berlusconi (definito da Di Traglia e Geloni «bravissimo a fare
politica»), che si abbandona a confidenze sui guai giudiziari, sul
fidanzamento «con relativa suocera» e sul Milan, annunciando di voler
cacciare Allegri per sostituirlo con Seedorf. I soli nomi con cui si
ragiona sono Amato, Mattarella e Marini; alla fine il Pdl indica il
terzo.
Le drammatiche notti in cui naufragano prima la candidatura
di Marini poi quella di Prodi sono raccontate nei dettagli. Napolitano
scrive una serie di lettere riservate in cui spiega i motivi per cui
rifiuta di essere rieletto, e cambierà idea solo dopo le sollecitazioni
ricevute dai presidenti di Regione (compresi i leghisti Maroni e Zaia),
«forse» da Mario Draghi e «forse anche» dalla Casa Bianca. D’Alema preme
su Bersani perché i grandi elettori del centrosinistra decidano in una
sorta di primarie la candidatura comune, Bersani gli risponde: va bene,
«ma io dico per chi voto», cioè per Prodi. Allora, si chiedono gli
autori, «perché i dalemiani non chiedono il voto segreto nell’assemblea
che acclama Prodi? Perché alzano la mano a favore di Prodi quando
Bersani chiede che ci sia almeno un voto palese?». Ancora una volta
l’unanimità si rivela una trappola per il segretario.
Bersani è
raccontato come un uomo lasciato solo dai suoi nel contrastare l’onda
dell’antipolitica, dando segnali di coraggio che distinguano il Pd dagli
altri partiti. C’è anche qualche metafora inedita e di non immediata
comprensione — «quelli che hanno le volpi sotto l’ascella», «le
smerluzzate che si prendeva Stefano Fassina» —, e una citazione che
Bersani, scrivono con affettuosa ironia gli autori, «giura essere di
Richelieu»: «Ho rincorso il mio obiettivo di spalle, come fanno i
vogatori». E ci sono pagine malinconiche che raccontano quel che poteva
essere e non è stato: il ritrovamento negli scatoloni dei traslochi di
«200 schede dettagliatissime» sui provvedimenti che avrebbe preso il
governo di cambiamento, dalle unioni gay allo ius soli al divorzio
breve; e il «sogno» degli autori di vedere alla festa degli alpini,
convocata proprio a Piacenza all’indomani delle votazioni per il
Quirinale, il presidente Marini con il cappello piumato accanto al suo
neopremier Bersani.
Corriere 4.11.13
Diritto d’asilo, uno sportello in Africa
di Luigi Manconi
Presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato
Caro
direttore, la strage di Lampedusa del 3 ottobre impedirà forse di
chiudere ancora gli occhi davanti a un dato di realtà che non può più
essere rimosso. Nel corso di un quarto di secolo, ogni giorno in quel
mare sono morti mediamente 6-7 fuggiaschi che cercavano di raggiungere
il continente europeo. Quel tratto di mare è ormai un cimitero, una
tomba liquida e una trappola mortale. Dunque, è proprio lì che bisogna
guardare per evitare che quella macabra contabilità di morti si
perpetui. Qualche giorno fa, insieme al Sindaco di Lampedusa Giusi
Nicolini ho presentato al Capo dello Stato un piano per la «ammissione
umanitaria». Il progetto è semplicissimo, anche se di ardua
realizzabilità, e si fonda su un dispositivo elementare: se il
principale attentato all’incolumità è rappresentato da quei viaggi
illegali nel Mediterraneo, va fatto in modo che quel tragitto possa
realizzarsi in condizioni di sicurezza. Dunque, va anticipato
geograficamente il momento e il luogo in cui è possibile chiedere
all’Italia e ai Paesi europei una misura di protezione temporanea. Deve
essere possibile, cioè, formulare quella richiesta e indirizzarla
all’Unione Europea già nei Paesi di partenza o in quelli di transito. Si
tratta, in sostanza, di ricorrere a un piano di reinsediamento, come
già si fa per i profughi siriani, e al riconoscimento di una forma di
protezione, a partire da un territorio precedente la traversata del
Mediterraneo. Quest’ultimo progetto è previsto (direttiva Ue 2001) in
presenza di un «afflusso massiccio di sfollati», ovvero di persone che
hanno dovuto abbandonare la propria terra a causa di una persistente
situazione di guerra o di violazione dei diritti umani.
Una volta
riconosciuta la sussistenza delle condizioni per la protezione
temporanea, l’Unione Europea definirà le quote di accoglienza per
ciascuno Stato membro.
La procedura per il riconoscimento di
quella protezione deve avvenire — questo è il punto fondamentale —
direttamente nei Paesi rivieraschi della sponda sud del Mediterraneo e
deve attuarsi attraverso il Servizio europeo per l’azione esterna e la
rete delle ambasciate e dei consolati degli Stati membri, con il
coinvolgimento delle organizzazioni internazionali. Questo comporta la
realizzazione di presidi dell’Ue, così che in quei Paesi — Egitto,
Giordania, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco e, se ve ne sono le
condizioni, Libia — si possa avviare la procedura di concessione della
protezione temporanea. A questo punto, l’arrivo in Europa per quei
profughi potrebbe avvenire con mezzi legali e sicuri, direttamente dal
presidio internazionale al Paese di destinazione, individuato tenendo
conto del regolamento Dublino III che considera l’eventuale presenza di
familiari.
Ovviamente, la misura di protezione temporanea non
precluderebbe la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato
nei singoli Paesi. Tutto ciò ricorrendo al Fondo europeo per i
Rifugiati e a quello per la Protezione civile.
Conosco bene
l’obiezione: questo piano potrebbe funzionare se l’Europa lo
condividesse. Appunto. Ma non c’è alternativa: o l’Unione Europea prende
in considerazione un simile progetto o qualcosa che gli assomigli,
oppure l’intera responsabilità di quel flusso di profughi ricadrà ancora
sull’Italia. Dunque, questa è l’occasione e questo è il piano (o uno
con le stesse finalità) in grado di verificare quanto l’Unione Europea
sia davvero propensa ad accettare la «condivisione» alla quale l’Italia
la sollecita e alla quale dice di essere disponibile. Se uno spiraglio
si aprisse, è proprio lì, in quei Paesi dell’Africa, prima che inizi
quella traversata maledetta, che una politica europea di accoglienza può
fare le sue prove. Non avremo eliminato il traffico di esseri umani, ma
certamente avremo ridotto le dimensioni di quella ecatombe marina.
Repubblica 4.11.13
Il Paese che perde i suoi giovani
di Ilvo Diamanti
LA
FUGA dei cervelli. È la formula usata per evocare la migrazione di
tanti giovani italiani, ad alto profilo professionale e scientifico,
verso altri Paesi. Non solo europei. Dove trovano occupazione e
riconoscimento. Fuga dei cervelli. È un’espressione che non mi piace.
Perché i cervelli, nei Paesi liberi, sono liberi. E oggi possono
sconfinare ovunque, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione.
L’unica gabbia che possa imprigionarli è il loro corpo.
Se i
“cervelli” se ne vanno dall’Italia è perché fuggono dal loro “corpo”.
Troppo vecchio per permettere loro di esprimersi. O almeno: di
“operare”. Di utilizzare la loro opera. L’Italia è un Paese vecchio
(dati Istat, 2012). Il più vecchio d’Europa. Dopo la Germania, che,
però, può permettersi di invecchiare perché attira i giovani migliori
dagli altri Paesi. Compreso il nostro. Il problema è che noi non ci
accorgiamo di invecchiare. Perché siamo sempre più vecchi. Così ci
immaginiamo giovani, sempre più a lungo. Fino a 40 anni. E rifiutiamo di
invecchiare. Secondo gli italiani — come ho già scritto altre volte —
per dirsi vecchi occorre aver superato 84 anni (indagini Demos).
Considerata la durata media della vita, dunque, in Italia si accetta di
essere vecchi solo dopo la morte. I giovani, in Italia, sono sempre di
meno. Come i figli. Il tasso di fecondità per donna è 1,4. Fra i più
bassi al mondo. Se il nostro declino demografico si è interrotto, da
qualche anno, è per il contributo fornito dagli immigrati. Che,
tuttavia, non hanno modificato la nostra auto-percezione. Perché Noi
continuiamo a invecchiare e a far pochi figli, mentre Loro sono giovani e
fecondi. In altri termini, abbiamo riprodotto i confini al nostro
interno nei confronti degli Altri. Gli immigrati, infatti, restano
Stranieri, anche quando sono italiani, da più generazioni. Anche quando
diventano ministri… Così invecchiamo senza accorgercene e senza
accettarlo. Investiamo le nostre risorse nell’assistenza e nella sanità,
com’è giusto. Molto meno nella scuola, nella formazione,
nell’università (da qualche tempo ho cominciato a scriverla con
l’iniziale minuscola). Cioè, nei giovani. Nei figli. Nel futuro. A loro —
ai figli e ai giovani — ci pensano gli adulti. In fondo, quasi 8
italiani su 10 fra 18 e 38 anni (e quasi 3, fra 30 e 34 anni) risiedono
con i genitori (Istat, 2011). Sottolineo: non “vivono” ma “risiedono”.
Cioè: fanno riferimento a un’abitazione e a una famiglia, per affrontare
una biografia sempre più precaria e intermittente. I dati, a questo
proposito, sono espliciti e crudi. L’Italia è il Paese con il più alto
tasso di disoccupazione giovanile in Europa. Oltre il 40% (fra 15 e 24
anni), in ulteriore crescita nel 2013. Nelle regioni del Mezzogiorno
raggiunge quasi il 50%. Non solo, l’Italia è anche il Paese dei Neet.
Quelli che non studiano e non lavorano. Circa 2 milioni: il dato
peggiore, nei paesi dell’Ocse, dopo il Messico. I giovani: una
generazione precaria e disoccupata. Sono pochi e non scendono più in
piazza, come un tempo. Così, non hanno peso politico. I genitori, sempre
più anziani, si incazzano, per questi figli senza futuro. Ma in fondo,
anche se in modo inconsapevole, non ne sono del tutto dispiaciuti.
Perché, senza di loro, i figli non potrebbero affrontare un percorso
tanto precario. Ma se i figli (unici) si staccassero dalla famiglia
troppo presto e in modo definitivo, loro — i genitori — resterebbero
soli.
Così, i giovani, peraltro sempre più adulti (la sociologia
delle generazioni ha coniato il neologismo (quasi un ossimoro) “giovani
adulti” per definire coloro che hanno 30-35 e perfino 40 anni),
emigrano. Se ne vanno altrove. Di certo, non debbono affrontare l’esodo
drammatico dei disperati che partono dai Paesi dell’Africa e del Medio
Oriente, stipati nei barconi. Per fuggire dalla guerra e dalla povertà. I
“nostri” giovani se ne vanno con il sostegno delle famiglie. Addestrati
da periodi di studio all’estero (Master, Erasmus), trascorsi durante e
dopo l’università. Cercano e spesso trovano occupazione. In alcuni casi,
di livello elevato. Perché i “giovani cervelli”, in Italia, sono
formati da un sistema scolastico e universitario che, nonostante gli
sforzi per logorarlo, ancora resiste. E produce laureati e post-laureati
di qualità. Apprezzati. Fuori dall’Italia. Così si spiega la crescita
continua degli italiani che si trasferiscono all’estero. Quasi 80 mila,
nel 2012, secondo le stime ufficiali (dati Aire elaborati da Radio 24).
Di fatto, circa il doppio. Al loro interno, i giovani — più o meno
adulti — sono in aumento e pesano per circa il 45%. Se ne vanno,
prevalentemente, in Europa (Germania e Gran Bretagna, anzitutto), ma
anche in America Latina e negli Usa. Non è una fuga, ma la ricerca di
lavoro e di esperienza, in un mondo dove i confini sono sempre più
aperti — per chi non proviene dai Paesi poveri. E i “cervelli” sono
sempre ben accolti. Questo è il problema, per l’Italia. Non che i nostri
“cervelli” se ne vadano. Ma che non ritornino. E poco si faccia per
farli rientrare. O per attirarne altri, di eguale qualità. Perché noi
importiamo lavoratori a bassa qualificazione. Ed esportiamo i nostri
figli. Perdiamo i giovani e i cervelli. Perché siamo incapaci di offrire
loro un destino coerente con le loro attese e le loro competenze. Così è
comprensibile, perfino conseguente, che quasi tutti i giovani (8 su 10,
dati Demos) siano convinti che, per fare carriera, occorra partire.
Dall’Italia. Un Paese vecchio. Che maschera l’età e le rughe in modo
artefatto — e un po’ patetico. E lascia partire i giovani, senza farli
tornare. Illudendosi di fermare il tempo. Di non invecchiare. Mentre,
così, nasconde soltanto il futuro.
Corriere 4.11.13
Senza affetti e solidarietà le radici del disagio giovanile
I ragazzi non trovano risposte in famiglia e si chiudono nella Rete
di Dacia Maraini
Il
Premio Goliarda Sapienza è dedicato ai minorenni condannati a pene di
detenzione. Un ennesimo premio, si dirà, a che serve? E invece — sembra
incredibile — così come il cinema e il teatro praticato dai reclusi
hanno funzionato portando una ventata di aria fresca nelle carceri,
l’invito a scrivere racconti ha coagulato attorno al premio molte
energie giovanili.
Messi di fronte alla scrittura, i ragazzi hanno
cominciato a riflettere, a farsi domande che non si erano mai poste, a
crearsi un piccolo mondo di immaginazione che precede di poco una idea
di doveri e di diritti. Ecco l’importanza riconoscibile della lettura e
della scrittura. La parola chiama pensieri, i pensieri chiamano affetti,
memorie e un bisogno di logica. La logica chiama, vuole, esige un
sistema, anche piccolo di valori. Da qui l’importanza di iniziative
creative dentro i luoghi di detenzione e prigionia.
In occasione
del premio si è svolto a Roma, per volere di una donna tenace e
coraggiosa, Antonella Ferrera, un convegno nella sede del Burcardo,
messo a disposizione dalla Siae. Tema: «Il disagio giovanile». Argomento
amplissimo alla cui, anche minima, discussione quattro ore sono
sembrate pochi minuti. Ma pure è stato importante cercare di
sviscerarlo. E alcune novità sono venute fuori. Per esempio il
cambiamento delle «motivazioni a delinquere» usando la terminologia
legale.
«I reati dei minori», ha chiarito subito Caterina
Chinnici, capodipartimento Giustizia minorile, «non derivano solo da
disagio economico o sociale ma da un disagio di relazione». E a tutti è
sembrato un punto focale. È infatti molto probabile che la differenza
fra una visione dickensiana della illegalità giovanile e quella, diciamo
camusiana, stia proprio nello spostamento delle ragioni che portano a
prevaricare e malversare. Il delinquente ottocentesco affondava le sue
radici nel degrado sociale, quello di oggi ha allungato le radici e ha
trovato qualcosa di più profondo e inaspettato: l’inaffettività,
coltivata da un immaginario comune che circola sempre più rapido e
disperante, con il contributo della tecnologia. Uno strumento
apparentemente democratico e alla portata di tutti, ma anche devastante
per la sua incapacità di regolarsi.
«Spesso la psicanalisi ha
favorito l’assoluzione personale, attribuendo la colpa all’esterno. C’è
sempre qualcun altro, fuori di noi, che ci porta sulla mala strada: il
padre, la madre, la società, il denaro, il potere , la politica». Detto
da uno psicanalista, Raffaele Bracalenti, non è male. Quello che si sta
perdendo, continua il presidente psicanalitico per le ricerche sociali, è
il senso della responsabilità personale. Soprattutto quando si sommano
le irresponsabilità creando il branco, la gang. «I ragazzi di via Paal,
tanto per fare un esempio, si mettevano insieme per stornare le leggi
della piccola società provinciale, ma fra di loro c’era un valore a cui
credevano: la solidarietà». Nelle bande di oggi non c’è né amicizia né
solidarietà, ma solo il potere di chi sta sopra su chi sta sotto e
ubbidisce. I padri hanno perso la capacità di stabilire norme, ma non
sanno nemmeno piu darle a se stessi. Insomma il rifiuto delle regole
porta allo sfascio?
La risposta sembra proprio questa: troppe
regole e stabilite in anticipo dall’alto, strangolano l’individuo; ma la
mancanza di regole stabilite, anziché condurre trionfalmente alla
libertà, trascina all’arbitrio e alla dittatura del più forte sul più
debole. «Secondo Freud le masse sono per loro natura irresponsabili e
tendono all’autodistruzione. Una guida non è solo auspicabile, ma
necessaria».
C’è una colpevolezza della stampa in tutto questo? E
qui vengono le dolenti note che riguardano la rappresentazione che noi
stessi ci diamo. Lo specchio in cui ci riflettiamo risulta sempre più
deformato e deformante. La stampa e la televisione, ma soprattutto la
televisione, con il corollario dei fumetti, dei videogiochi, tende a
eroicizzare i violenti. Le narrazioni sono sempre dalla parte del
vincente, anche se apparentemente lo si condanna. Le storie dei delitti
sono per lo più raccontate, con indulgenza spettacolare, dalla parte
degli assassini. Le vittime vengono dimenticate facilmente. O vengono
enfiate come voluminosi fantasmi enigmatici, incapaci di suscitare
sentimenti di solidarietà.
Marco Polillo, presidente della
Confindustria cultura Italia non è molto d’accordo. La televisione e i
videogiochi sono intrattenimenti, non insegnamenti. È la famiglia che
deve formare l’individuo. Purtroppo la famiglia è frammentata,
disgregata. La rissa ha prevalso sul ragionamento. Abbiamo anche la
presenza pubblica di cattivi maestri che non aiuta a crescere. I
ragazzi, non trovando risposte in famiglia, tendono a chiudersi nel loro
piccolo e grande mondo della rete. «Ormai tutto è social net-work. I
genitori si sentono in colpa perché non sanno crescerli e finiscono per
accontentarli in tutto. Oppure promettono grandi punizioni, che poi
vengono smentite subito dopo». «Oggi gli esempi virtuosi che ci vengono
presentati in tv sono i cuochi e i grandi sarti. Eppure la nostra
cultura è il miglior biglietto da visita del mondo. Ma noi, volendoci
male, chiudiamo, cancelliamo, distruggiamo le nostre piu grandi
ricchezze». E ricorda che nel nostro Paese il 54% delle persone non
legge neanche un libro l’anno. E secondo l’Ocse è l’ultimo Paese capace
di intendere la matematica e capace di esprimersi nella propria lingua.
Anche
Alberto Contri, presidente della Pubblicità Progresso, se la prende con
il nucleo familiare. «L’imprinting avviene in famiglia. È lì che si
forma il carattere, la disposizione ad affrontare il mondo. Ma con le
madri che lavorano fuori casa, il tempo che diventa sempre più corto e
stretto, i ragazzi perdono la capacità di concentrazione. La deficienza
del linguaggio esprime e rivela una deficienza della struttura del
pensiero». E allora, che fare? La risposta è una bella metafora: «Per
navigare su una barca bisogna avere una conoscenza del mare e del legno
su cui ci si trova. Per navigare su internet non c’è bisogno di nessuna
preparazione e questo porta a cadere in preda ai marosi».
Ma la
stampa quotidiana ha delle responsabilità? «Direi proprio di sì»,
risponde Marida Lombardo Pijola, giornalista del Messaggero , «troppo
spesso si raccontano con tono falsamente indignato storie truculente,
insistendo sull’aspetto piu spettacolare e morboso». E questo crea
abitudine alla mistificazione. La sessualità poi viene presentata sempre
di più come prestazione e non come incontro e piacere. Preda e
predatore sono faccia a faccia e sembra che tra i due non possa crearsi
altro rapporto. «I giornali troppo spesso portano l’esempio di
giovanissimi che vendendo il proprio corpo hanno ottenuto denaro,
successo, potere, le cose più ambite, date come fondamentali per
districarsi in questo mondo». Il branco sostituisce l’adulto e si divide
in vincenti e perdenti. Il successo si misura sul consumo e sul dominio
dell’altro. «Le femmine nell’immaginario collettivo sono destinate,
quasi per natura, allo stupro. I maschi sono tenuti sotto la pressione
tremenda della sfida a chi si mostra più duro, piu insensibile, piu
crudele». Insomma sembrerebbe che il maschilismo cacciato dalla porta,
stia rientrando dalla finestra.
«Eppure cambiare si può»,
asserisce Serenella Pesarin, direttore generale del Dipartimento
giustizia giovanile, che si alza in piedi per dichiararlo con energia.
Le sue piccole mani di donna generosa e determinata si sollevano a
cacciare via un senso di disperazione e di sfiducia che si sta creando
nella sala. «Ogni società ha le sue crisi. Ma vanno superate. Si può
farlo. Basta volerlo». E spiega come dalle ultime ricerche sia risultato
che la legge della recidiva stia cambiando. La preoccupazione per il
rilascio dei ragazzi, nonostante la riluttanza a tenerli chiusi dentro
carceri inadeguate e troppo affollate, era basata proprio sul principio
della recidiva: vedrete quanti torneranno, piu violenti di prima. E
invece no: «Da noi, nel circuito criminale minorile, la recidiva è molto
bassa, piu bassa che in tutti gli altri Paesi europei. Da noi Caino può
diventare Abele. Ma bisogna crederci e infondere in loro la fiducia nel
cambiamento. Purtroppo il villaggio globale è poco solidale. C’è una
grande povertà pedagogica. Forse perché non ci si crede. Fatto sta che
molti ragazzi, rinchiusi, tentano il suicidio».
Alla fine, quando
si parla con questi ragazzi, gli addetti debbono constatare che si
tratta sempre di una carenza di relazione. «Qualcuno ancora interpreta
il malessere come mancanza di beni. Ma non è così. Sono le relazioni che
mancano. Bisognerebbe recuperare lo spirito del ‘68. Non per abbattere
l’autorità, di cui abbiamo bisogno, ma l’autoritarismo. La scuola
dovrebbe essere un luogo in cui si impara la pratica delle relazioni, ma
purtroppo ne siamo lontani». La pratica delle relazioni, per
esperienza, porta a una maggiore attenzione verso la meritocrazia. «Noi
ci crediamo. E facciamo quello che possiamo. I ragazzi hanno capacità
straordinarie di ripresa e di metamorfosi».
Insomma: meno celle
di detenzione, meno metodi arcaici di penalizzazione e più fiducia nella
rieducazione, nella trasformazione. Largo uso della cultura come
strumento di conoscenza di sé e del mondo. La crudeltà della pena non
aiuta né chi la applica né chi la subisce. Sono la fiducia, il buon
esempio, lo stimolo alla creatività, al lavoro, all’analisi e al
giudizio a fare la differenza. Speriamo che qualcuno se ne renda conto.
Dacia Maraini
Repubblica 4.11.13
Pretty baby
Gli amori disperati delle bambine mascherate da donne
di Concita De Gregorio
Dai
conflitti a casa agli show in Rete. Chi sono le studentesse squillo dei
Parioli: bambine-adulte, sicure di poter gestire il gioco
Due ragazzine spavalde, cresciute senza padri, diventano grandi troppo in fretta.
Poi sprofondano nell’abisso della prostituzione, ma rifiutano di considerarsi vittime.
Perché loro, “le baby squillo dei Parioli”, si credono vincitrici: padrone degli uomini che pagano per i loro corpi
ROMA
Questa è una storia normale. Una storia di ragazzine spavalde,
cresciute in famiglie normalmente complicate in un quartiere né bello né
brutto, né alto né basso. «Due belle ragazze, sembrano molto più grandi
della loro età. Imbronciate, aggressive. La più grande, durante
l’interrogatorio, ha pianto solo quando le hanno detto che le avrebbero
tolto il cellulare». Ragazze andate a scuola nelle scuole pubbliche,
buone scuole anni fa all’avanguardia didattica, quando l’educazione
primaria era un valore protetto e condiviso, e ancora oggi comunque
scuole consigliabili e consigliate, di quelle in cui si fanno i
mercatini e gli scambi internazionali, la preside è brava, gli psicologi
a disposizione, in certe sezioni gli insegnanti bravissimi. Una storia
di bambine diventate donne presto, come sempre più spesso succede: il
seno esploso dentro le magliette in prima media, il trucco in classe, il
telefonino sotto il banco, i compagni maschi, bambini di undici anni,
spaventati e attratti da quelle ragazze di mezzo metro più alte di loro
che hanno subito smesso diandare alle loro feste di compleanno perché
hanno altro di meglio da fare il pomeriggio che stare coi bimbetti,
hanno i ragazzi con la moto che le aspettano fuori. Se avete figli alle
medie sapete di cosa stiamo parlando. Se avete figlie femmine lo sapete
anche meglio. «Alla madre, quando le hanno comunicato che non sarebbe
tornata a casa, sarebbe andata direttamente in comunità, la ragazza si è
rivolta col tono di dare ordini: vai a prendermi i pantaloni e il
giubbotto, almeno. La madre ha eseguito».
Dunque la storia delle
“baby prostitute dei Parioli”, come è stata etichettata con la segreta
ansia di renderla estrema e dunque estranea, bisogna raccontarla da capo
cominciando da qui: dal dire quello che non è. Non è una storia dei
Parioli, quartieri alti di Roma che è facile immaginare popolati da
ragazzi annoiati, viziati, figli di genitori ricchi e distratti per
quanto neanche questo sia sempre del tutto vero. No, ai Parioli c’era
solo l’appartamento dove le due ragazzine incontravano i clienti: un
posto preso in affitto da uno degli uomini, ora in galera, che
organizzava per loro gli incontri.
Le due ragazze, oggi 15 la
piccola e 16 compiuti da poco la grande, sono state bambine e sono
cresciute nel quartiere Trieste, fra villa Torlonia via Salaria e via
Nomentana, un triangolo soffocato dal traffico di auto e bus in corsia
preferenziale, bar botteghe e studi medici di media fama e medio prezzo,
vecchie scuole ospitate in edifici di mattoni rossi e bandiere
italiche, media e piccola borghesia del commercio e degli uffici. Nelle
scuole medie di quartiere dove le due bambine sono state in classe
insieme, molti ragazzi della zona di piazza Bologna, un passo dalla
Tangenziale est, molti arrivati in treno a Termini dai paesi della
cintura. Qualcuno dai Parioli,sì,certo,anche.Ambiente «molto misto», lo
definisce uno dei prof. Molto misto.
È Il triangolo fra l’istituto
Alfieri, il liceo Giulio Cesare, il Maria Ausiliatrice che è gestito
dalle suore, sì, ma i professori sono laici e non costa tanto la retta, è
abbordabile, una famiglia di impiegati se la può permettere. Ci mandano
i figli che hanno ripetuto un anno, magari, per provare a farli
recuperare. O anche solo perché siano seguiti con più rigore, i genitori
pensano questo. Le due ragazzine, compagne di classe alle medie, sono
state separate alle superiori:entrambe al liceo classico ma due scuole
diverse. Una pubblica e una privata. I genitori della più grande, che
aveva ripetuto un anno, hanno deciso di separarla dall’amica e di
riservarle un ambiente “protetto”: «È stata una tragedia. Essere
separata dalla sua amica è stato vissuto da lei come una violenza
terribile. Ci sono state liti tremende a casa. Era già molto aggressiva,
feroce col nuovo compagno della madre,è diventata totalmente ostile»,
racconta una persona che le vuole bene e l’ha seguita. Famiglia in
ansia, in grande difficoltà con questa figlia sofferente chiusa e
ribelle, vedremo tra poco quanto.
Quindi non sono i Parioli e loro
due, hanno detto a chi le interrogava e le assisteva
nell’interrogatorio, non vogliono essere chiamate né bambine né
prostitute: non si sentono né l’una né l’altra. Gli psicologi forensi
hanno scritto nelle loro relazioni, dopo i colloqui, più o meno così:
«L’idea di sé di queste ragazze corrisponde ad un’età molto maggiore di
quella anagrafica. Anche l’aspetto – l’abbigliamento, gli accessori, i
tatuaggi, il trucco - tradisce l’ansia di apparire adulte. In ogni caso
non si percepiscono come vittime di violenza sessuale, hanno al
contrario l’impressione di dominare la situazione. Sono loro che tengono
in pugno le persone che incontrano e a cui chiedono denaro, pensano.
Sono loro che decidono che cosa fare e con chi percepiscono gli uomini
come deboli, ne parlano con disprezzo e sarcasmo, non attribuiscono al
fatto di cedere il corpo in cambio di denaro nessun disvalore.
Considerano anzi il fatto di suscitare desiderio una forma di potere». È
un potere, suscitare desiderio. Una delle due, la piccola, dice al
magnaccia che la rimprovera di non essere andata a un appuntamento: «Ma
che ti credi che mi puoi dire tu cosa devo fare? Mettiamo che io ho
altro da fare, che cazzo vuoi?». Poi, subito, posta su Facebook un
messaggio all’amica: noi due insieme per sempre. Sorrisi, cuoricini,
labbra che baciano l’autoscatto, appuntamento la sera al solito posto.
Waiting dawn, aspettando l’alba. Collezionista di attimi. Società che
“organizzano eventi”, si chiamano così. I fatti, allora. Le due bambine
sono compagne di classe, a periodi di banco. Fioriscono splendide.
Entrambe non hanno il padre. La madre della più grande, quella che anni
dopo farà seguire la figlia da un investigatore privato dopo averla
denunciata ai servizi sociali per aggressione, dopo le denunce per
furto, dopo aver cercato aiuto come poteva – la madre “buona” dicono i
giornali - è impiegata in un ufficio. Ha un nuovo compagno, che non è il
padre di sua figlia: medico di bel nome, grandi ospedali. Chissà come
vanno le cose a casa. La madre della più piccola, una bambina di
spettacolare bellezza, ha un bar nella zona bassa del quartiere che
naviga in pessime acque, molti problemi di soldi, un figlio minore
ammalato. Le due bambine si coalizzano. Vivono in grande conflitto con
le loro famiglie, l’adolescenza è alle porte. Le femmine fanno banda
contro i maschi, alle elementari. Sono gli anni, quelli, in cui in una
scuola di zona un gruppo di bambine di otto nove anni forma una banda
per accedere alla quale bisogna superare alcune prove di iniziazione:
una di queste consiste nell’inserirsi una matita, una penna, un oggetto
nei genitali. Alcuni genitori capiscono,denunciano, diventa un
caso,intervengono gli psicologi, la bambina considerata capo banda fa da
capro espiatorio, viene portata via dalla scuola. Fine della questione.
Si passa alle medie, attigue al liceo. Scoppia un altro scandalo,
tenuto legittimamente riservatissimo. Alcune quattordici-quindicenni
organizzano a ricreazione un torneo che si svolge nei bagni della
scuola. Le ragazzine stanno nel bagno, offrono una prestazione di sesso
orale ai maschi che per iscriversi al torneo devono pagare cinque euro.
La gara è a chi conclude più rapporti, a chi fa scemare la fila più
presto. La fila è lunga, ogni aspirante paga cinque euro. Si paga
comunque, il rischio da correre è che arrivi il tuo turno o non arrivi.
Il certamen è pubblico, la vincitrice accolta da applausi. Comunque le
gareggianti portano a casa cinquanta euro, anche di più, ad ogni prova.
Si fanno soldi, così. Soldi che a casa non ci sono o non ti danno, soldi
per pagare la ricarica del cellullare e per pagarsi la birra e presto
qualcos’altro, la sera. Di nuovo qualche genitore denuncia, di nuovo
intervengono gli psicologi. Da una relazione del tempo: «Sgomenta
l’assenza di pudicizia, di senso della riservatezza e dell’intimità. Il
commercio del corpo considerato la norma, nessuna censura corre tra i
coetanei, solo la presa d’atto di un’abilità».
Gli adulti non
trovano il varco,non capiscono cosa stia succedendo ai loro figli. Le
più abili tra le figlie diventano celebri nella scuola, e fuori. Spesso
le performances sono filmate coi telefonini, e condivise. Chi è più
fragile soccombe, a volte tragicamente. Chi è più forte avanza.
Tutti
sono su Facebook. La vita di relazione virtuale è reale. Le due
ragazzine decidono insieme di farsi dei tatuaggi senza dirlo ai
genitori, vita reale, li esibiscono nei profili, la cosa più importante,
virtuale e reale insieme, per loro. Si mettono in vetrina. Una si fa
scrivere sul fianco una scritta in latino, del resto ormai lo studiano.
L’altra si fa disegnare un drago che parla di amore disperato. I maschi
della classe, tredici-quattordicenni, chiedono amicizia, tollerati come
bambini. Entrano a visitare il profilo giovani universitari conosciuti
il sabato sera alle feste di zona, una importante università privata è
dietro l’angolo, gli studenti vengono da fuori Roma, hanno amici più
grandi, più soldi, diversi orizzonti. La violenza, a casa, è la norma.
La grande detesta sua madre, sopporta malissimo il nuovo compagno di
lei. La piccola soffre la mancanza di soldi, non c’è mai un euro per
uscire la sera. Dalla relazione psicologica: «L’aggressività, la
violenza, il sesso diventano esperienze più virtuali che reali.
L’adolescenza chiama al compito della sessualità. Attraverso la
sessualità, si può esercitare un potere, persino un dominio. Il corpo
diventa uno strumento neutro, un utensile da utilizzare per accedere a
ciò che si desidera». Le ricariche. Il corpo un utensile. Le ragazzine
imparano che puoi dare baci e qualcosa di più, puoi dare quello che ti
chiedono e che non ti costa concedere, in apparenza, in cambio di
ricariche al cellulare, indispensabili per postare i tuoi filmati su Fb.
«Mangi all’Hitlon sei ricco, pagami la ricarica almeno, stronzo», si
legge nelle intercettazioni. Si filmano di continuo, si fotografano ogni
minuto. Vivono sul profilo, dalla vita reale traggono linfa per
alimentarlo. Si tatuano insieme, odiano le famiglie insieme, si
fotografano atteggiate a donne, insieme. Trovano su Internet, il posto
dove passano i giorni chiuse in camera a casa, un luogo: si chiama
Bakeca incontri. Dice che devi essere maggiorenne per mettere la tua
offerta di sesso online ma non c’è nessun filtro nessun controllo reale.
Entrano. Si offrono. Ottengono, certo, immediato successo. Uomini di
età le cercano. Loro si scambiano messaggi che dicono «fico, è facile».
Qualcuno furbo, criminale, le intercetta. Vede dietro i seni
prorompenti, le labbra color rubino, vede nelle calze di pizzo nero
dentro le scarpe da tennis due ragazzine. I tatuaggi,le promesse di
dannazione e reciproco amore per sempre.
Arrivano i maschi adulti.
Mirko Ieni, autista che lavora per quell’università privata del
quartiere, uno che nel suo profilo Facebook ha un catalogo di “amiche”
studentesse, aspiranti pr, animatrici di eventi. Le aggancia, ma loro
sono convinte di agganciare lui. «Va bene vengo, ma l’albergo non mi
piace», scrive la piccola. Lui mette a disposizione una stanza in una
casa ai Parioli. «A quel panzone chiediamogli duecento piotte», scrive
una delle ragazze. I clienti sono uomini adulti, cinquantenni che si
fanno chiamare papi, commercialisti, professionisti. «Mi ha detto che
sono troppo piccola», dice lei una volta. «Mi ha fatto un film quello
stronzo», racconta un’altra volta all’amica, comincia la spirale dei
ricatti. «Vai tu che io oggi non posso non mi fanno uscire». «Queste due
mi fanno guadagnare 600 euro al giorno», esulta Mirko l’autista. I suoi
amici su Fb, gli amici di Mirko, gli dicono bravo. «Chi cazzo ti credi
di essere, io faccio come mi pare», lo mette a posto, crede, la
ragazzina che intanto porta a casa ogni giorno tre, quattrocento euro. E
li dà alla madre che non ha soldi, il bar non va più e il fratello
malato ha bisogno di cure. Dicono le cronache che la madre “cattiva”
sfruttava la figlia, la faceva prostituire. Dice la madre, ora a Regina
Coeli, che lei non sapeva come la figlia guadagnasse quei soldi che
erano comunque benedetti. Non voleva saperlo. Forse spacciava, aveva
pensato. Che sarà mai. Non certo che si facesse pagare dagli uomini,
questo no: comunque non ha domandato. Le indagini sono in corso, le
responsabilità degli adulti tutte da accertare. Tutte già scritte, ma
nulla di questo si può per ora con certezza ancora dire. Di certo c’è un
elenco lungo così, nei tabulati delle due adolescenti, di “cliente 1
Adriano” “cliente2Federico”.Di certo ci sono uomini spregiudicati e
criminali, consapevoli, che hanno approfittato della fragilità
mascherata da onnipotenza di due quindicenni, e chissà se solo di loro
due. Diciamo i nomi. Riccardo Sbarra, commercialista, cliente. Nunzio
Pizzacalla, militare, sfruttatore. Mario detto Michael di Quattro,
commerciante, ricattatore. Mirko Ieni, autista e organizzatore di
eventi, quello di «guadagno 600 euro al giorno», nel giro della
prostituzione si direbbe un pappone, quello che mette i locali e
organizza il traffico. Salvo che le ragazzine, quelle che la cronaca
chiama baby prostitute, lo sbertucciavano: ma chi ti credi di
essere,pensi di essere tu il padrone? Le padrone siamo noi, sei un
poveraccio.
L’inchiesta è in corso. Nei tabulati dei cellulari
delle ragazze c’è un elenco lungo così di clienti. Tremano, i pedofili
che hanno pagato le quindicenni. Commercianti, professionisti,
consulenti d’immagine. Avranno di certo famiglia, i clienti delle due
quindicenni: avranno mogli e figli. Sulla pagina Fb d Mirko Ieni c’è un
rosario di solidarietà, «non so cosa sia successo e non ci credo, sei er
mejo». I profili delle due ragazze, invece, si sono congelati una
settimana fa. Quando la grande ha pianto, in tribunale, per il fatto che
le toglievano il telefono: la sua identità. La piccola ora è coi nonni,
le grande in una comunità. Hanno tolto loro i cellulari, sì. Di questo e
solo per questo si sono disperate.
Una delle due madri è in
galera accusata di aver sfruttato la figlia, o nel migliore dei casi di
non aver indagato da dove venivano i pacchi di soldi che vedeva arrivare
e la incitava a continuare a procacciare. L’altra delle due madri tace,
assistita da avvocati avveduti e comunque asserragliata nel dolore di
non aver saputo, nonostante le denunce, varcare la soglia della porta
chiusa di una ragazzina ostile, violenta, incazzata nera, una bambina
mascherata da donna nemica di sua madre. Una dark lady dominatrice,
quindicenne tatuata in scarpe da ginnastica. Innamorata dei “Diluvio”,
il gruppo musicale da cui rubava le citazioni nei suoi post, “lasciali
fare, lasciali dire”. Baci scarlatti. Amori disperati. Spade tatuate,
serpenti. Non si possono “tenere due piedi in una Jordan” e chissà cosa
avrà voluto dire tua figlia, cosa avrà voluto dirti quando si è
fotografata le scarpe e ti ha lasciata nella tua casa del quartiere
Trieste, senza una parola, ti ha lasciata così.
Repubblica 4.11.13
Via dalla strada, ora prevalgono gli annunci mascherati sui siti
Minorenni in vendita sul web è il nuovo sfruttamento 2.0
di Vladimiro Polchi
«Giovanissima,
disinibita. Tante curve e fantasie». L’annuncio, intitolato “80
voglia”, fa bella mostra di sé sul sito roma.bakecaincontrii.com.
Impossibile risalire all’età della ragazza, anche se dalla foto pare più
una ragazzina. È il pianeta sommerso delle baby-squillo, il regno dello
sfruttamento 2.0. Perché oggi i “pezzi” più pregiati, sul mercato dei
corpi in vendita, sono le minorenni. Le più giovani? Le trovi in
Calabria, Marche, Abruzzo, Veneto, Campania e Lazio.
«Il web ha un
potenziale lesivo enorme – conferma Elvira D’Amato, vicequestore
aggiunto del centro nazionale per il contrasto alla pedopornografia on
line della Polizia postale e delle comunicazioni – la rete è senza
confini, per questo abbiamo un centro nazionale che raccoglie tutte le
informazioni provenienti da internet. La prostituzione minorile e il suo
sfruttamento può avvalersi della rete, anche se il nostro lavoro non
parte da qui: parte dalla pedopornografia, cioè dall’adescamento on
line, che poi può pure sfociare in forme di prostituzione». L’escalation
classica è la seguente: «Il pedofilo conquista la fiducia del minore
sui social network con piccoli regali, come le ricariche telefoniche, e
in cambio chiede foto. Il processo di fidelizzazione prosegue con i
video e il sesso via webcam. Quindi può scattare il ricatto: “Se non ci
incontriamo pubblico le foto su internet”». Da qui il passo a un
rapporto sessuale è breve e si può arrivare anche allo sfruttamento
della prostituzione. «Con la rete tutti i passaggi sono velocissimi e
l’esposizione al pericolo dei minori cresce. Per questo – precisa
D’Amato – è importante la prevenzione: filtriamo i siti con contenuti
pedofili e forniamo ai provider una black list per la navigazione
protetta». Un altro fronte è «quello dei siti con foto professionali di
bambini in abiti sexy e atteggiamenti ammiccanti: nulla di
incriminabile, ma, dietro la promessa di un book da modella, le indagini
hanno portato alla luce anche forme di sfruttamento sessuale».
Quante
sono le baby-prostitute in Italia nessuno lo so. Si va dalle stime
prudenti del consorzio Parsec (45mila prostitute, 7% minorenni), a
quelle del gruppo Abele: 70mila sex workers, 20% minorenni. Non tutte
sono sfruttate e non tutte si vendono per “fame”. Pino Gulia,
vicepresidente di Slaves no more onlus, ricorda una vecchia ricerca
dell’Istituto di epidemiologia della Regione Lazio sulla prostituzione,
«dove emergeva un sorprendente numero di giovani, che si vendevano nei
quartieri della Roma bene». Oggi questo mercato si affida al passaparola
o ai siti di annunci economici, dove nascondere l’inserzione di un
minore è più facile, rispetto ai tradizionali portali di escort.
La
prostituzione minorile ha anche a che fare con la tratta dei migranti.
Stando al dossier “Piccoli schiavi invisibili” di Save the Children,
21.795 vittime di tratta (1.171 minori) sono state assistite in Italia
dal 2000 al 2012. Principali paesi di origine? Nigeria e Romania. La
maggioranza delle ragazze vittime di sfruttamento sessuale ha un’età
compresa tra i 16 e i 18 anni. Ma in Calabria, Marche, Abruzzo, Veneto,
Campania e Lazio si segnala anche la presenza di ragazze tra i 14 e i 16
anni. Quelle molto piccole, sotto i 14 anni, sono raramente presenti su
strada. I luoghi di sfruttamento si sono infatti moltiplicati, come
denuncia il rapporto Caritas-Coordinamento nazionale delle comunità di
accoglienza. Oggi chi si prostituisce (soprattutto i minori) lo trovi
non solo su strada e nei classici luoghi al chiuso (appartamenti, night
club), ma anche in aree di grande transito: stazioni ferroviarie e
centri commerciali.
l’Unità 4.11.13
Snowden: «La verità non è un crimine»
Manifesto della talpa del Datagate sullo Spiegel: «Abbiamo il dovere di tutelare i nostri diritti»
di U.D.G.
Ora
anche Edward Snowden ha il suo manifesto. Niente meno che il «Manifesto
per la verità». «Le richieste di più controlli sui servizi di
intelligence dimostrano che avevo ragione nel rivelare i metodi e gli
obiettivi dei servizi segreti Usa». Edward Snowden torna a parlare e lo
fa attraverso il settimanale tedesco Der Spiegel pubblicando ieri un
«Manifesto per la verità».
«Invece di causare danni, l’utilità
della nuova conoscenza per la società è molto chiara in quanto
suggerisce una riforma alla supervisione della politica e delle leggi»,
scrive il 30enne ex impiegato della Cia e analista informatico della
National Security Agency (Nsa). «I cittadini devono combattere contro la
soppressione di informazioni su questioni di importanza fondamentale
per il pubblico. Quelli che dicono la verità non stanno commettendo un
crimine». Nel Manifesto, Snowden sostiene che la sorveglianza di massa è
un problema globale che necessita di soluzioni globali; inoltre,
aggiunge, «i programmi di sorveglianza dei criminali da parte dei
servizi segreti» compromettono la privacy individuale, la libertà di
opinione e le società. L’esistenza delle tecnologie di spionaggio non
dovrebbe determinare la politica. «Abbiamo un dovere morale di
assicurare che le nostre leggi e valori limitino i programmi di
sorveglianza e proteggano i diritti umani».
SFIDA GLOBALE
Secondo
Snowden, alcuni governi che si sentivano «smascherati» dalle sue
rivelazioni hanno provato a fermarlo «con una campagna persecutoria
senza precedenti», ma non sono riusciti a impedire l’avvio di un
dibattito internazionale sullo spionaggio americano. E l’apertura di
questo dibattito è per Snowden un segno di speranza e di vitalità: «In
gioco sostiene è il futuro stesso della democrazia». Quanto al suo di
futuro, una risposta viene dagli Usa. Ed è una risposta non certo
rassicurante per la «talpa»
del Nsagate. La Casa Bianca e i capi
delle commissioni intelligence di Camera e Senato degli Stati Uniti
respingono la richiesta di clemenza di Snowden. Il consigliere della
Casa Bianca Dan Pfeiffer, intervenendo al programma «This week» del
canale Abc, ha affermato che Snowden dovrebbe tornare negli Stati Uniti e
affrontare le accuse a suo carico, tra cui quella di avere rivelato
informazioni classificate. Opinione condivisa anche dal deputato
repubblicano Mike Rogers e dalla senatrice democratica Dianne Feinstein,
entrambi comparsi nel programma «Face the nation» su Cbs. Il primo ha
detto che l’ipotesi della clemenza per Snowden è «un’idea terribile»,
mentre la seconda ha ribadito che la talpa ha infranto la legge mentre
avrebbe potuto fare le sue rivelazioni privatamente alla commissione
intelligence.
La Stampa 4.11.13
Su «Der Spiegel» Germania, appello dei vip
“Diamo asilo a Snowden”
Intellettuali,
politici, imprenditori e rappresentanti del mondo sportivo tedesco in
campo per Edward Snowden. In un articolo apparso su «Der Spiegel» decine
di vip si sono espressi a favore della concessione dell’asilo
politico in Germania all’ex analista della Nsa, attualmente in
Russia. Tra gli appelli illustri quello dell’ex segretario della Cdu
Heinen Geissler che ha sottolineato come «Snowden abbia reso
all’Occidente un grande servizio». In campo anche il presidente della
Lega calcio, Reinhard Rauballe, e lo scrittore Hans-Magnus
Enzensberger.
Repubblica 4.11.13
Il
filosofo Michael Walzer: “Anche il Congresso si sta svegliando e chiede
un’inchiesta. Ci vogliono limiti precisi al programma di sorveglianza”
“La talpa del Datagate è un eroe negli Usa la democrazia è a rischio”
intervista di Alix Van Buren
«IN
ogni governo, da sempre, esistono tendenze autoritarie: l’inclinazione
ad accumulare potere, a usarlo nel segreto, in particolare negli Stati
moderni. Il sistema di sorveglianza della Nsa ne è un esempio perfetto.
Un refrain americano recita così: “L’eterna vigilanza è il prezzo della
libertà”. Ecco, quell’adagio è più valido che mai». Esaurito il
preambolo, Michael Walzer, filosofo e saggista di etica politica, sbotta
in una sonora risata: «C’è un lato comico in tutto questo. Al pensiero
che l’America ascolti le conversazioni private dei leader europei, o 50
milioni di telefonate in Italia e Spagna, io mi chiedo cosa frulli per
la testa dei responsabili. Se fanno tanto in Europa, figuriamoci in
Cina? E quanti alla Nsa parlano il cinese? È una storia inverosimile,
davvero».
Professore Walzer, la Nsa sostiene che il programma
serva a salvare vite umane, a proteggere l’America. Controllare il
telefonino di Angela Merkel, la cancelliera tedesca, o del francese
Sarkozy fa parte della missione?
«Impossibile! non ha alcuna
utilità nella lotta contro il terrorismo. Regala forse un vantaggio
nelle trattative commerciali.Piuttosto, siamo davanti a un’agenzia
tecnologica impazzita: ha le capacità, una tecnologia superlativa, e le
impiega a dismisura. È un po’ come la storia dei droni: fantastici sotto
il profilo tecnologico, vengono usati sempre più spesso solo perché
sono disponibili. Finché qualcuno “spiffera” gli eccessi, e Obama
interviene».
Un brutto imbarazzo per Obama, se è vero che il
presidente era all’oscuro delle intercettazioni dei leader europei. Lei
lo crede?
«Sì, che lo credo. È rimasto senza parole, come me. Per
cinque anni non ha nemmeno conosciuto la portata del programma
disorveglianza».
La Nsa è un corpo separato, sottratta al controllo degli organi politici e giudiziari?
«Per
capire la Nsa bisogna tornare alla sua nascita, alla presidenza Bush;
chiedersi se lo stesso Bush ne fosse al corrente: lo era più
probabilmente il vicepresidente Cheney. Da allora la Nsa ha seguito il
suo corso e non ha ritenuto necessario informare Obama: qualcuno forse
non si fidava di lui».
Lei vede una minaccia alla democrazia americana?
«Il
rischio è evidente: considerata la natura delle nuove tecnologie, basta
chiedersi cosa sarebbe successo se alla Casa Bianca fosse insediato un
governo peggiore di Obama, ad esempio la destra radicale. È una
prospettiva dabrivido».
Obama ha promesso un freno. Lei se l’aspetta?
«È
ovvio: anche il Congresso sta svegliandosi e pretende un’inchiesta.
Vogliamo sapere l’intera portata di quel che è stato fatto finora,
scoprire quel che è ancora nascosto, e decidere in maniera democratica
come procedere nel futuro, ponendo limiti rigorosi. C’è poi un altro
aspetto».
Quale?
«È l’aspetto pratico. Visto dal
contribuente, il programma della Nsa non ha senso. Pensi ai costi
esorbitanti e allo spreco di personale che esso richiede: decine di
migliaia di impiegati. E poi: come gestire quei miliardi di dati? Se
tutto questo fosse stato ragionevole, non avrebbe suscitato tanto
scandalo. Invece, è incredibile».
E le libertà degli europei,
calpestate? Pensate anche a questo? Alla Nsa basta l’ingiunzione di una
Corte americana per accedere ai contenuti di telefonate, email, ricerche
Internet di cittadini europei. Germania e Francia vogliono trattare un
codice di condotta.
«Merkel e Hollande hanno ragione. Però, il
codice dovrà tutelare il mondo intero, non solo amici ed alleati. È
impensabile che l’America decida sulla privacy di un cittadino
straniero: la scelta spetta ai rispettivi governi».
Il Datagate ha spalancato un nuovo capitolo nell’evoluzione delle democrazie occidentali?
«Può
ben dirlo. Dobbiamo tutto a un giovane di nome Edward Snowden. Quello
“spifferatore” si è rivelato un eroe. Grazie a lui oggi scopriamo quale
pericolo ci sia stato nascosto. E quanti altri, forse, restino da
rivelare».
Repubblica 4.11.13
Visioni del sottosuolo
“L’inganno è sempre in superficie”: la profezia di Hugh Howey
Incontro con l’autore di “Wool”
Un caso clamoroso nato in Rete che ha conquistato anche Ridley Scott
di Pierdomenico Baccalario
Immaginate
un’intera comunità di persone che vive all’interno di un gigantesco
silo sotterraneo: cento piani collegati tra loro da un’interminabile
scala a chiocciola. Ci si sposta solo così: a piedi, su e giù dai
gradini della scala sociale. Ai piani inferiori vivono i meccanici, ci
sono le macchine e le pompe che estraggono petrolio e producono energia
elettrica. Sopra di loro i contadini, gli allevamenti di animali e gli
orti idroponici. Nei piani alti i programmatori informatici, con i
server e i computer che controllano ogni aspetto della vita dentro al
silo. E dove il silo si avvicina alla superficie vi è un grande cinema,
dove si può osservare la Vista: ciò che le telecamere riprendono del
mondo esterno, uno sterminato paesaggio brullo, devastato da un’antica
quanto misteriosa guerra. Ogni volta che qualcuno degli abitanti del
silo trasgredisce una regola, viene condannato a “uscire”: gli viene
cucita addosso una tuta che si sgretolerà nell’atmosfera acida e
consegnato uno straccio di lana. Perché tutti i condannati, un volta
fuori, un attimo prima di morire ripetono lo stesso gesto: puliscono,
con un panno di lana, le telecamere. E perché lo fanno?
La
soluzione del mistero è il filo conduttore di uno dei più formidabili
libri dell’anno: si intitola Wool. Il suo autore, Hugh Howey, lo ha
pubblicato in cinque puntate sulla piattaforma di self-publishing di
Amazon, dove, da qualche anno, è saldamente in cima alle classifiche di
download. Oggi esce in versione cartacea (Howey si è tenuto i diritti
digitali) in più di venticinque paesi (in Italia lo pubblica Fabbri
editori) e Ridley Scott, il regista di Blade Runner, ne ha acquistato i
diritti per farne un film. Un clamoroso successo di pubblico, ma questa
volta anche di critica: perché dietro alla storia intrigante, questa
volta, c’è anche uno scrittore.
Incontriamo Howey a Francoforte,
chiedendogli se è finalmente arrivato il momento del ritorno della
grande narrativa di fantascienza. «Non bisogna parlare di fantascienza.
Wool,
come PlayerOne (di Ernest Cline, Isbn Edizioni), sono storie e basta.
La gente le legge perché parlano di noi, del nostro mondo, della
dipendenza dai computer. Non di battaglie spaziali». Howey ha 38 anni, e
ne ha trascorsi sei su una barca, con un generatore di corrente a
vento, un dissalatore e una schiera di pannelli solari. «Quando sei in
mezzo al mare, è come se fossi nello spazio. L’unica differenza è che
puoi respirare». E proprio in mezzo al mare gli è venuta l’idea del
mondo dentro a un silo, con gli abitanti come “raccolto per l’inverno”.
«Dopo giorni e giorni da solo, riuscii finalmente a captare il segnale
radio di alcuni telegiornali. Ma anziché confortarmi, ne fui
terrorizzato: erano solo notizie terribili».
Secondo Howey, il
terrore informativo è un modo per tenerci sotto controllo. Per togliere
il coraggio di viaggia-re ed esplorare. E di scoprirlo. L’informazione, i
server, lo stesso Internet, può anche essere una grande menzogna
collettiva. E come nel romanzo culto La penultima verità di Philip K.
Dick (Fanucci), il mistero e l’inganno non si trovano nel sottosuolo. Ma
in superficie. O, meglio, nell’immagine della superficie. «Quando
iniziai a scrivere, avevo solo pensato al perché quelle telecamere
fossero così importanti. E perché dovessero essere pulite», confessa,
«ma quando mi accorsi che avevo così tanti lettori, e che loro stessi si
ponevano decine di domande sulle regole del silo, sentii su di me la
responsabilità di tutte le loro aspettative».
Howey ha cercato di
evitare l’“Effetto Lost”, e cioè i telefilm che, con la loro mancata
pianificazione nella risoluzione dei misteri, hanno finito per deludere
milioni dispettatori in tutto il mondo. Si è quindi fermato e ha
costruito con attenzione l’intero universo narrativo, anche apportando
modifiche a quanto aveva già fatto: «Il libro che è appena uscito ha un
capitolo che inizialmente non esisteva, il numero tredici. Ma che,
d’accordo con il mio editor alla Simon & Schuster, ho aggiunto per
anticipare la comparsa di alcuni personaggi». Il risultato cartaceo è
quello di un romanzo godibile, claustrofobico, popolato da personaggi
che vivono inconsapevoli di tutto ciò che c’è intorno a loro e si
affidano alle istruzioni ricevute sui computer, dove la carta è più a
buon mercato delle email (un quarto di buono pasto) e dove la verità su
quanto è successo è contenuta in un vecchio libro, nascosto dentro un
finto computer. Scoprire il mistero dei programmatori e del panno di
lana con cui i condannati a morte puliscono le telecamere sarà il
compito di Juliette, la protagonista, una meccanica di trentaquattro
anni (di cui si innamora Lukas, un ragazzo di dieci anni più giovane) e
che ricorda, in quanto a determinazione, la Ripley di Alien. «Juliette è
una pericolosa, perché fa sempre cose nel migliore dei modi», spiega
Howey. E una che fa gruppo. «Ci tengono tutti insieme, ma separati,
ignari gli uni degli altri, in modo da non infettare i vicini se
dovessimo ammalarci».
Wool è diventato un libro di culto grazie
alla rete, ma al suo interno i programmatori dell’information technology
fanno la figura dei grandi truffatori. A questa domanda lui sorride,
guarda il suo libro e risponde: «Non mi risulta che nessun server abbia
mai nutrito qualcuno, salvato una vita umana o rammendato un paio di
pantaloni. Le macchine sono importanti, certo», conclude Howey, «ma solo
perché siamo importanti noi». Tanto perché lo sappiate, le telecamere
fuori dal silo non mentono. Sarebbe troppo facile: là fuori è davvero
impossibile vivere. Per sapere dove si nasconde l’inganno, dovete essere
più sottili. Come un foglio di carta.
Wool (Fabbri editori, traduzione di Giulio Lupieri pagg. 560 euro 14,90)
l’Unità 4.11.13
«Più tasse per i ricchi» De Blasio strega New York
Il democratico italo-americano favorito alle elezioni di domani per la poltrona di sindaco
Da vent’anni i repubblicani governano la Grande Mela
di Gabriel Bertinetto
Senza
avere virato al centro per un solo giorno in dodici mesi di campagna
elettorale, Bill De Blasio, 52 anni, si appresta a diventare sindaco di
New York. I cittadini della Grande Mela vanno alle urne domani per
scegliere il successore di Michael Bloomberg, e i pronostici sono tutti a
favore dell’italo-americano, candidato della sinistra liberal
democratica. Tramontano vent’anni di ininterrotto dominio repubblicano,
prima con Rudy Giuliani e poi con Michael Bloomberg. L’avversario di De
Blasio, Joseph Lhota, avrebbe bisogno di un miracolo per ribaltare il
distacco di 45 punti percentuali fotografato dagli ultimi sondaggi.
Lhota, che qualche commentatore ha definito «uomo senza carisma», è
accreditato di un misero 23%, a fronte del 68% intenzionati a votare per
il rivale.Lhota può ringraziare i suoi colleghi parlamentari di
Washington per avergli inflitto il colpo di grazia con l’intransigenza
mostrata con lo shutdown, il blocco delle finanze federali.
Il
candidato democratico ha riproposto sino all’ultimo con coerenza i suoi
programmi progressisti per riunificare «le due città», geograficamente
contigue ma socialmente agli antipodi: Wall Street, l’alta finanza, i
grandi capitali immobiliari da una parte, e all’altra estremità il 21 %
degli abitanti che vivono sotto la soglia di povertà. De Blasio è
rimasto fedele ai suoi progetti innovatori, tanto quanto i repubblicani,
Lhota compreso, rimanevano condizionati dagli estremismi ideologici del
Tea Party. Due modi radicalmente diversi di sottrarsi al destino che
accomuna spesso i politici di opposte tendenze: la virata al centro.
Naturalmente
molti si chiedono se la fermezza programmatica di De Blasio resisterà
al confronto con la complessità dei problemi che si troverà ad
affrontare a partire dal giorno successivo al probabile successo
elettorale. Il primo ostacolo che gli si parerà davanti sarà la prevista
riluttanza del governatore Andrew Cuomo ad assecondare l’aumento delle
tasse a carico dei super-ricchi per finanziare asili nido e altre
iniziative a vantaggio dei ceti meno abbienti. Nel mirino di De Blasio
sono i redditi familiari superiori al mezzo milione di dollari all’anno,
con un prelievo aggiuntivo che va dai mille ai 180mila dollari, per chi
ha entrate superiori ai 10 milioni.
SUPER-PRELIEVO
Cuomo
teme la fuga dei Paperoni non solo dalla città di New York, ma anche
dallo Stato omonimo. Basta attraversare il fiume Hudson e si mette piede
in New Jersey, dove il fisco è quanto mai gentile verso gli
ultraprivilegiati. Per non parlare del vicino Connecticut, mecca degli
Hedge Funds e altri istituti finanziari ad alto tasso speculativo. Cuomo
ha facoltà di porre il veto alle leggi del sindaco in materia fiscale, e
se De Blasio le presentasse nella forma annunciata in campagna
elettorale, molti ritengono che sarebbero respinte. Qualche cedimento
moderato, evitato nei comizi, potrebbe essere imposto insomma dalla
necessità di trattenere a Manhattan e dintorni il grosso di quegli
imprenditori, immobiliaristi, banchieri, che garantiscono con le loro
attività una parte considerevole delle risorse cittadine. Il solo
settore finanziario dà lavoro a 185mila persone e contribuisce per
l’8,5% ai 45 miliardi di dollari che ogni anno entrano nelle casse
comunali attraverso le imposte. Si profila insomma uno scontro tutto
interno a New York, al partito Democratico (cui appartengono sia Cuomo
che De Blasio), e alla comunità italoamericana.
De Blasio miete
consensi tra i neri e gli ispanici, avendo chiarito l’intenzione di
attenuare lo strapotere poliziesco, di cui proprio quelle due comunità
sono le vittime preferite. La legislazione antiterrorismo consente agli
uomini in divisa di fermare e perquisire chiunque e in qualunque
circostanza. Si chiama «stop and brisk» ed è considerata dai suoi
promotori come un ottimo meccanismo di deterrenza e prevenzione del
crimine. Dovrebbe essere applicata in maniera casuale, ma di fatto ne
fanno le spese soprattutto gli afroamericani e i latinos. Il candidato
democratico vuole impedirne l’uso eccessivo e discriminatorio.
Liberal
in politica come nella vita privata, De Blasio è sposato con una
poetessa nera, dichiaratamente lesbica. Chirlane McCray, 58 anni cercò
invano di dissuaderlo dal corteggiamento mostrandogli una copia di
Essence, una rivista in cui lei raccontava le sue esperienze
omosessuali. Dal matrimonio sono nati Chiara e Dante, di 18 e 16 anni.
Frequentano scuole pubbliche. Dante ha partecipato attivamente alla
campagna in favore del padre.
l’Unità 4.11.13
Tawakkul Karman
Prima donna araba premio Nobel per la pace critica il dopo-Morsi
E sulla Siria dice: «Il posto di Assad è davanti alla Corte dell’Aja»
«L’Egitto in divisa ha tradito la sua Primavera»
intervista di Umberto De Giovannangeli
È
stata la prima donna araba a ricevere il premio Nobel per la Pace. È la
più giovane donna in assoluto ad essere stata insignita di questa
prestigiosa onoreficenza: Tawakkul Karman, 34 anni, yemenita, premio
Nobel per la Pace 2011, è la donna simbolo della sollevazione non
violenta contro il regime di Ali Abdullah Saleh. Musulmana, Karman è
profondamente convinta che «Islam e democrazia non siano tra loro
inconciliabili» e che il dialogo tra «Islam e Occidente non sia solo
necessario, ma possibile, a patto che sia un vero dialogo tra pari,
senza alcuna presunzione, da nessuna delle due parti, di essere
depositari di una verità assoluta da brandire contro il “Male
assoluto”».
Il senso del suo impegno politico e professionale (è
giornalista), è racchiuso in una frase che Karman ribadisce anche in
questa intervista: «Pace non significa fermare la guerra, ma fermare
l’oppressione e l’ingiustizia».
Da araba e musulmana, la Nobel per
la pace, leader del principale partito islamico yemenita Islah, anima
della primavera yemenita, prende posizione sugli avvenimenti che
marchiano a sangue due tra i più importanti Paesi arabi: Egitto e Siria.
Quanto alla difficile transizione che investe il suo Paese, lo Yemen,
la Nobel per la pace lancia un appello agli Stati Uniti: «Chiediamo solo
che voi, rispettiate le regole internazionali sui diritti umani e i
diritti del popolo yemenita alla libertà e alla giustizia dice Tawakkul
Karman -. A nome di molti dei giovani coinvolti nella rivoluzione dello
Yemen, io assicuro il popolo americano che siamo pronti a partecipare a
un’autentica partnership. Insieme, possiamo eliminare le cause
dell’estremismo e la cultura del terrorismo mediante un rafforzamento
della società civile e l’incoraggiamento dello sviluppo e della
stabilità».
In Egitto oggi si apre il processo contro la
leadership dei Fratelli musulmani. Lei è stata accusata di essersi
schierata apertamente con la Fratellanza.
«Io non ho preso
posizione per i Fratelli musulmani, io ho preso anzitutto posizione
contro il colpo di Stato dei militari. Un colpo di Stato che non solo ha
messo in discussione la presidenza di un uomo (Mohamed Morsi)
liberamente eletto dal popolo egiziano, ma quel golpe guidato dal
generale al-Sissi rappresenta anche una sfida alla rivoluzione egiziana e
alla Primavera araba».
Resta il fatto che la presidenza Morsi aveva fallito molti degli obiettivi che aveva enunciato.
«Ma
questo non giustifica affatto il colpo di Stato e la messa fuorilegge
di un movimento che, piaccia o no, è fortemente radicato nella società
egiziana, come hanno dimostrato sia il voto a Morsi che il referendum
costituzionale. Non sarò io a ergermi a giudice dei successi e dei
fallimenti, non ho titoli per farlo, ma ciò che mi preme sottolineare è
che in nessun caso la repressione di piazza, l’arresto in massa di
dirigenti e attivisti della Fratellanza, lo scioglimento d’imperio del
Parlamento, possono essere giudicati un passo in avanti in direzione
della democrazia. Quello che il colpo di Stato dei militari ha
cancellato è lo spirito di Piazza Tahrir».
Il generale al-Sissi
replicherebbe che l’intervento dei militari è stato giustificato proprio
dalla difesa di quello «spirito» minacciato dalla Fratellanza.
«Questa
è una giustificazione a cui non credono più neanche quei movimenti che
pure avevano fortemente contestato la presidenza Morsi. E poi, non è che
la riconciliazione nazionale possa fondarsi sulla criminalizzazione di
una parte in causa. Così si fa solo il gioco di chi, anche in campo
islamista, punta alla radicalizzazione e allo scontro violento. Ma forse
è proprio questo l’obiettivo del generale al-Sissi. Vorrei mettere in
chiaro una cosa...».
Quale?
«Ho fatto riferimento a quei
movimenti, come Tamarrod (Ribelli) che prima del golpe del 3 luglio
avevano guidato la protesta pacifica contro la presidenza Morsi. Ebbene,
all’inizio io ho sostenuto quella protesta, e l’ho fatto perché speravo
che portasse alla fine della spaccatura all’interno della società
egiziana, e alla costruzione di un Paese fondato sulla collaborazione
piuttosto che sulla regola della maggioranza ristretta che ambisce a
tutto. Ma questa aspettativa è venuta meno con il colpo di mano dei
militari e con tutto ciò che ne è seguito, migliaia tra morti e feriti e
le carceri riempite di attivisti contrari alla destituzione di Morsi.
La democrazia non veste la divisa. E insisto nel dire che il golpe
egiziano rappresenta una minaccia per la “Primavera araba”: perché
quella “Primavera” aveva come obiettivo quello di costruire la
democrazia. Il golpe dei militari ne è l’antitesi. Il golpe mina ogni
cosa. Il generale al-Sissi ha ripetuto più volte che i militari sono al
servizio del popolo. Ma una parte di quel popolo è stata brutalmente
repressa e incarcerata. Mi si lasci almeno dubitare della loro
conclamata volontà di servizio. Così come è innegabile che il governo
posto in essere dai militari stia tornando ai metodi autocratici del
passato. La verità è che l’attuale regime egiziano ha spodestato il
primo presidente eletto liberamente nella storia del Paese, ha sospeso
una costituzione che aveva ottenuto il 60% dei consensi in un
referendum, e ha completamente escluso i Fratelli musulmani e il Partito
della Giustizia e Libertà (il braccio politico della Fratellanza, ndr)
dalla vita politica. Non ci sono opzioni limitate per quelli di noi che
hanno a cuore il futuro dell’Egitto: possiamo scegliere di stare o con i
valori civili, o con il governo militare, e la loro tirannia, e
coercizione».
Un altro scenario insanguinato è quello siriano. Lei
ha usato parole durissime contro il presidente Bashar al-Assad. «Parole
inadeguate a dar conto delle sofferenze che quel dittatore ha inflitto
al popolo siriano. Il posto giusto per Assad non è a un tavolo della
pace ma sul banco degli imputati davanti alla Corte penale
internazionale dell’Aja dove dovrebbe rispondere dei crimini di guerra e
contro l’umanità di cui si è macchiato. In una Siria davvero libero e
pacificata non può esserci posto per lui. Assad resta un satrapo
sanguinario, con o senza le armi chimiche».
Corriere 4.11.13
La politica estera turca colpita dalle rivolte arabe
risponde Sergio Romano
Dove
sta andando la Turchia? La domanda appare in qualche modo inevitabile
se si guarda a quanto accade. Questo Paese, uno dei pilastri della
Nato, ha infatti scelto un’azienda cinese per la fornitura di un
importante sistema missilistico di difesa aerea. Quasi un sacrilegio,
prontamente criticato dagli Stati Uniti e dalla stessa Alleanza
atlantica per le conseguenze pratiche che tale decisione comporterà. In
realtà, la mossa rappresenta l’ennesimo segnale di una qualche
intraprendenza di Ankara sul piano internazionale e, al contempo, di un
certo allontanamento dall’Occidente, tanto che, per esempio, l’adesione
all’Ue appare sempre più remota. Se a ciò si aggiunge la crescente
islamizzazione sul piano interno, accompagnata dal ridimensionamento di
quei militari custodi della laicità voluta dal padre della Turchia
Atatürk, il quadro si può definire completo e un (poco) preoccupante.
Giovanni Martinelli
Caro Martinelli,
Una
singola fornitura militare non è necessariamente un segnale decisivo.
Il vero problema mi sembra essere piuttosto la crisi della politica
estera turca. Quando il partito AK (Giustizia e sviluppo) conquistò il
potere nel 2007, il suo leader, Cerep Tayyip Erdogan, volle al ministero
degli Esteri Ahmet Davotoglu, studioso di politica internazionale, uomo
di buona cultura e di chiare intuizioni. Sotto la sua guida, la
diplomazia turca avrebbe approfittato della fine della Guerra fredda e
della scomparsa dell’Urss per garantire a se stessa un più importante
ruolo regionale.
Si parlò allora, con una certa esagerazione, di
una politica neoottomana. Ma la Turchia voleva soprattutto esercitare
una leadership culturale, nel senso più largo della parola. Avrebbe
cercato di avere buoni rapporti con tutti gli Stati arabo-musulmani
della regione e persino, nei limiti del possibile, con la Repubblica
d’Armenia. Avrebbe dimostrato a tutti i suoi vicini che l’osservanza
dell’Islam non era incompatibile con il progresso civile ed economico.
Si sarebbe imposta come modello politico e potenza economica. Avrebbe
anche continuato a desiderare l’adesione all’Unione Europea per
conseguire due vantaggi: l’appartenenza a una grande e moderna area
economica e sociale, la possibilità di attribuire alle insistenze
dell’Ue quel ridimensionamento della casta militare turca, nella
gestione dello Stato, che fu l’obiettivo più caro a Erdogan sin
dall’inizio del suo primo governo, ma cominciò a delinearsi con maggiore
chiarezza soltanto negli anni seguenti. Più tardi, gli screzi con
Israele incrinarono una vecchia solidarietà, ma rafforzarono l’immagine
della Turchia agli occhi del mondo musulmano.
Quando alcuni Paesi
europei (Francia, Austria, Paesi Bassi, Germania) presero posizione
contro l’ingresso di Ankara nell’Unione, i negoziati di Bruxelles
vennero di fatto interrotti. Ma il castello della politica estera turca
cominciò a traballare soltanto dopo le rivolte arabe. Erdogan e
Davotoglu cercarono di pilotare il declino dei tiranni e l’avvento della
democrazia, ma si scontrarono con difficoltà insormontabili e, in
Siria, con la forte resistenza di Bashar Al Assad. Da quel momento
Erdogan, forse per ragioni prevalentemente caratteriali, finì dentro la
mischia e il suo governo divenne obiettivamente il protettore della
Fratellanza musulmana in Egitto, il fornitore di armi e altri servizi ad
alcune delle formazioni sunnite combattenti in Siria, l’oggettivo
alleato dell’Arabia Saudita e del Qatar. Non era questa la politica che
Davotoglu voleva perseguire per il suo Paese. E non è questo il Paese
che l’Unione Europea desidera avere tra i suoi membri.
Come
spiegare allora il fatto che negli scorsi giorni sia stato deciso di
riprendere il negoziato interrotto per l’adesione di Ankara all’Ue? A
Bruxelles non si è perduta la speranza di trattenere la Turchia nel
mondo occidentale. Ad Ankara si è deciso che l’ancoraggio all’Europa,
nel momento in cui il Paese sta perdendo pezzi di politica estera, non
può essere buttato via.
La Stampa 4.11.13
E Netanyahu prepara un muro sul Giordano
La barriera isolerà i territori palestinesi dalla Giordania
Trattative a rischio
Celebre
per la sua potenza evocativa per i fedeli cristiani ed ebrei, il
fiume Giordano è destinato a cambiare fisionomia. Sulla sua sponda
occidentale sarà costruita una barriera: un lungo reticolato, ricco di
sensori e di strumenti ottici sofisticati concepiti per segnalare
tempestivamente presenze reputate minacciose, o comunque sgradite.
Anche in futuri accordi di pace, ha detto ieri il premier Benyamin
Netanyahu, «il Giordano deve restare il nostro confine di sicurezza».
In Cisgiordania, ha lasciato intendere, c’è spazio per un compromesso
con Abu Mazen. Ma la valle del Giordano, sprofondata in una ripida
depressione con 1000 metri di dislivello rispetto a Gerusalemme,
mantiene un significato importante per gli strateghi israeliani. In
primo luogo la Barriera servirà a scongiurare il pericolo che centinaia
di migliaia di siriani, sfollati in Giordania, possano incamminarsi
verso la Cisgiordania. Il fiume Giordano è scarso di acque: per
bloccarli occorre dunque un ostacolo fisico più serio. Ma quella
Barriera avrà anche un chiaro valore politico. Segnalerà ai palestinesi
la determinazione israeliana a impedire che assumano il controllo del
confine orientale del futuro Stato indipendente. Ad impedire cioè che
un giorno spalanchino la porta a forze ostili allo Stato ebraico.
«Cosi’ - ha concluso Netanyahu - difenderemo non solo Israele, ma
anche la pace». Per ora ci sono solo progetti preliminari. La
costruzione vera e propria della barriera nella Valle del Giordano
comincerà dopo il completamento della Barriera sul Golan e di quella al
confine del Sinai, a ridosso di Eilat.
Corriere 4.11.13
Una statua per l’ammiraglio Horthy: così si favorisce l’antisemitismo
di Maria Serena Natale
Stelle
di David e svastiche sotto la pioggia, centinaia di manifestanti, due
cortei contrapposti, scene dal Novecento nel centro di Budapest. Tutto
per una statua dell’ammiraglio Miklos Horthy, reggente d’Ungheria dal
1920 al 1944, inaugurata ieri a poca distanza dalla sede del Parlamento
in una cerimonia promossa dal partito di estrema destra oggi terza forza
politica, Jobbik.
La tempistica era studiata sul 75°
anniversario del Primo arbitrato di Vienna con il quale, dopo l’Accordo
di Monaco del 1938, i nazifascisti costrinsero la Cecoslovacchia a
cedere ampi territori all’Ungheria mutilata dal Trattato del Trianon del
’20: occasione ideale per esaltare quell’intreccio di miti nazionali e
sentimenti revanscisti sul quale Jobbik ha costruito la propria
piattaforma programmatica, assecondando pulsioni xenofobe e antisemite
mai così forti dal Dopoguerra in un Paese che accoglie una tra le più
antiche ed estese comunità ebraiche d’Europa.
Circa 437 mila
ebrei deportati in 56 giorni: accadeva nel 1944 sotto la reggenza
dell’ammiraglio alleato di Hitler. Gli ebrei ungheresi vittime
dell’Olocausto furono oltre mezzo milione. Rendere omaggio al leader di
quei tempi bui, nell’Ungheria che non ha ancora un giudizio storico
condiviso su Horthy e che come il resto del Centro-Est europeo guarda al
periodo nazista attraverso la lente deformata dell’oppressione
sovietica, significa concedere ulteriore terreno a un partito che in
questi anni ha portato in Parlamento una retorica pericolosamente
aggressiva nei confronti delle minoranze.
Ieri le preoccupazioni
dei politici locali e del partito conservatore di governo, la Fidesz del
premier Viktor Orbán, si sono limitate al potenziale danno d’immagine
per il Paese e alle attese reazioni della «stampa occidentale di
sinistra». Ma le tensioni alimentate da Jobbik sotto la copertura del
dibattito storiografico scavano nel profondo, soprattutto in tempi di
recessione e vicine elezioni, quando è più forte la tentazione di
trovare bersagli alla rabbia e alla paura.
Corriere 4.11.13
La barbarie al potere e i furti del Reich
di Hans Tuzzi
La
notizia del ritrovamento in Germania di millecinquecento importanti
quadri razziati dai nazisti in tutta Europa può stupire, ma non
sorprendere.
Hitler e i suoi, infatti, alla parola «cultura»
mettevano mano alla pistola, ma per accumulare tesori spogliando privati
e pubbliche istituzioni, a cominciare dagli ebrei tedeschi per finire
con l’Italia «traditrice». Hitler sognava di creare a Linz il più grande
e splendido museo del mondo, Göring accumulava con vorace ingordigia
(suo l’ordine di depredare Montecassino) e Goebbels, pragmatico, sino al
1939 finanziò il Reich vendendo all’estero l’arte «degenerata». È dalla
miniera di sale di Altaussee, in Stiria, che nel 1947 emergono, coperte
di fango, migliaia e migliaia di opere d’arte. Fra quelle trafugate
all’Italia, ricordiamo 262 quadri dei fiorentini Uffizi, la Venere e la
Danae di Tiziano, l’Apollo di Pompei, che Hitler teneva in casa, la
Madonna di Bruges di Michelangelo, l’Agnello mistico di Jan van Eyck,
gli ori del Museo archeologico di Napoli. La «tutela» nazionalsocialista
dei beni culturali italiani ebbe inizio il 30 settembre 1943 con
l’incendio dell’Archivio storico di Napoli su ordine del comando
tedesco. Per pura barbarie? Perché l’ordine era distruggere quel che non
si poteva portare in Germania. Dunque sì, per pura barbarie. Lo aveva
scritto, il 30 gennaio 1933, Hitler eletto cancelliere, Joseph Roth a
Stefan Zweig: «Si è riusciti a far governare la barbarie». Il primo
italiano a seguire le piste delle opere trafugate fu Rodolfo Siviero: in
occasione del trentennale della morte Castelvecchi e Skira lo ricordano
con due libri. Del 1971 è la creazione del Comando carabinieri tutela
patrimonio artistico: non gli mancherà il lavoro, a Monaco, nei prossimi
mesi.
Repubblica 4.11.13
Trovato il tesoro segreto di Hitler 1500 opere da Picasso a Matisse
Sequestrati a un gallerista quadri per un valore di oltre un miliardo
di Andrea Tarquini
BERLINO
— Era il tesoro segreto del Terzo Reich, quasi un’eventuale seconda
riserva aurea della tirannide dopo quella della Reichsbank sperperata
fino all’orlo della bancarotta per finanziare guerre e crimini contro
l’umanità: oltre millecinquecento opere d’arte, dipinti dei massimi
maestri dell’arte moderna, confiscati dai nazisti come “arte degenerata”
o semplicemente rubata agli ebrei prima perseguitati costretti a
lasciare la Germania dopo la “Notte dei cristalli”, poi finiti vittima
della Shoah, il loro genocidio organizzato su base industriale. E solo
adesso si viene a sapere che il tesoro è riemerso per caso, in un blitz
del febbraio 2011 della dogana bavarese a casa di un anziano signore,
ambiguo ma inosservato. È un evento sensazionale: l’arte e la cultura
del mondo riprendono possesso di quelle opere, dal valore stimato di
oltre un miliardo di euro, che dal 1945 erano state classificate come
disperse per sempre.
Quadri di Pablo Picasso e Henri Matisse, Marc
Chagall e Emil Nolde, Franz Marc, Max Beckmann, Paul Klee, Oskar
Kokoschka, Ernst Ludwig Kirchner e Max Liebermann. Per decenni e
decenni, dopo l’8 maggio 1945 quando il Reich fu costretto dagli Alleati
alla resa incondizionata, del Tesoro di Hitler non si era saputo più
nulla. Molti sopravvissuti alla Shoah, o i loro discendenti, per decenni
chiesero ai governi del mondo ogni sforzo per ritrovarli, ma invano.
Tutti si erano ormai rassegnati, tutti pensavano che i millecinquecento
quadri fossero andati distrutti nei bombardamenti dei Lancaster e dei
B-17 alleati, o a Berlino nei combattimenti tra tank, “carri armati
volanti” e soldati di Zhukov e vecchi donne e bimbi arruolati a forza
dal Fuehrer nel Volkssturm.
Solo ora si viene a sapere che tutto è stato ritrovato due anni fa.
Millecinquecento
quadri di grandi autori sono una parte davvero non piccola del
patrimonio culturale mondiale. Tutto era nascosto nell’appartamento
lussuoso ma polveroso e decaduto di un anziano abitante di Schwabing,
uno dei quartieri più chic della ricca capitale bavarese. Sotto il letto
o negli armadi, li teneva nascosti il taciturno, schivo Herr Cornelius
Gurlitt. Suo padre, il mercante d’arte Hildebrand Gurlitt, fu uno dei
tanti “ariani doc” che seppero profittare del nazismo. Negli anni Trenta
e Quaranta aveva acquistato quelle opere dai nazisti. Non si sa bene se
doveva custodirle per loro come accadde a opere d’arte rubate e celate
dai gerarchi nei forzieri di compiacenti banche elvetiche, o se ne fosse
divenuto proprietario a pieno titolo. In ogni caso,sia lui sia il
regime avevano fatto un buon affare. Herr Gurlitt senior nascose subito
il tesoro nella bella casa di Schwabing, e per sua fortuna Monaco fu ben
meno bombardata rispetto ad altre città del Reich.
«Almeno
trecento dei millecinquecento quadri appartengono all’arte condannata e
vietata dai nazisti come “degenerata” (astratta, surrealista ecc). Altre
furono confiscate semplicemente per il loro valore», dice a
Focus,il
giornale tedesco che rivela la storia nel numero in edicola oggi, la
storica dell’arte berlinese Meike Hoffmann. Dopo la guerra, tutto restò
in mano a Cornelius Gurlitt, appunto figlio di Hildebrand. Cornelius
ereditò almeno un po’ di quadri in più dei 1.500 ritrovati. A lungo
visse vendendo ora una tela ora un’altra, senza mai dichiarare nulla al
fisco. Per questo finì indagato dalla magistratura, col sospetto di
evasione fiscale. Riuscì a farla franca finché un giorno di settembre
del 2010 si fece cogliere in flagrante dai doganieri, su un treno tra
Monaco e la Svizzera, con in tasca forti somme di denaro contante. Fu
ordinata una perquisizione nella casa di Schwabing, e venne effettuata
nella primavera del 2011. Da allora, la dogana bavarese è in possesso
del tesoro, custodito nel bunker di massima sicurezza a Garching, non
lontano dal reattore atomico sperimentale.
Finora, le autorità
avevano tenuto tutto sotto segreto. Anche il fatto che, dopo la
perquisizione, Cornelius Gurlitt riuscì a intascare 864mila euro
vendendo con l’aiuto di complici un quadro di Max Beckmann.
La
memoria d’Europa,schiacciata in quei decenni dalle dittature, si
risveglia. Nel tesoro di Herr Gurlitt c’era anche un quadro di Matisse,
proprietà del collezionista ebreo francese Paul Rosenberg. Il quale
fuggendo prima dell’occupazione nazista di Parigi lasciò là la sua
collezione. Sua nipote Anne Sinclair (sì, proprio lei, l’ex moglie del
controverso Dominique Strauss-Kahn) lottava da anni per ottenere la
restituzione dei quadri del nonno. Ma di quel ritratto di donna di
Matisse non sapeva nulla.
Repubblica 4.11.13
Anna Foa: “Hanno cancellato non solo milioni di vite, ma una parte della nostra storia e del pensiero europeo”
“È il genocidio culturale del Terzo Reich”
intervista di Alessandra Baduel
«IL
numero dei morti della Shoah sovrasta il ricordo, il concetto stesso
del genocidio culturale operato dal nazismo, fra opere sparite e
possibilità di sviluppo del pensiero in ogni campo. Nei primi decenni
del Novecento la creatività ebraica ha influenzato tutta la produzione,
artistica e non solo: c’è un intero pezzo di cultura che manca, nella
nostra storia, cancellato dai nazisti». La storica Anna Foa, grande
esperta di ebraismo, accoglie la notizia del ritrovamento con le parole
di chi da tempo riflette anche su questo, il «genocidio dell’arte», come
lei lo definisce.
Secondo le stime, nella sola Francia i tedeschi
saccheggiarono dalle case degli ebrei circa centomila fra dipinti,
arazzi, sculture e altri oggetti d’antiquariato.
«E il paradosso
ulteriore è che la chiamavano arte “degenerata”, per poi nasconderla nei
caveau e mostrarla agli amici, ben consci del suo valore. L’“ideale”
hitleriano, in privato non valeva. Ma poi, penso a tutta l’arte finita
con i suoi autori nei campi di sterminio. Un nome solo, Charlotte
Salomon, morta ad Auschwitz a 26 anni, lasciandoci alcuni ottimi dipinti
autobiografici. Cos’altro avrebbe potuto fare, per la cultura di tutti
noi? E ci sono i musicisti. Continuavano a scrivere note sulla carta
igienica, c’è un italiano, Francesco Lotoro, che sta recuperando quei
foglietti, per farci finalmente sentire quelle note».
Come possiamo guardarli, oggi, quei quadri ritrovati?
«Sono
opere che nessuno in questi decenni ha potuto studiare, meditare,
godere. Quando potremo di nuovo guardarle, bisognerà tenere conto di
quel che è successo. Di dove sono state nascoste, fra barattoli di
fagioli scaduti, nella polvere. Bisognerà capire quel che ha
rappresentato la loro perdita per il mondo. E magari da lì riuscire a
ripartire».
l’Unità 4.11.13
Camarade Antonio Gramsci
Anche la Francia lo riscopre ne parla il filosofo Andrè Tosel
di Stefania Miccolis
LA
FILOSOFIA ITALIANA DEL ‘900 È RICCA E DI GRANDISSIMO VALORE, MA
PURTROPPO OGGI È POCO NOTA. Ma è come un fiume carsico, le cose
interessanti sono sottoterra e poi all’improvviso risorgono». Così André
Tosel, filosofo, docente all’Università di Nizza, specialista del
pensiero di Marx e del marxismo italiano, elogia la nostra cultura
mentre passeggia ammirando il «patrimonio straordinario» di Roma.
«L’Italia è piena di fascino e incanto, mi preoccupa però la volgarità
in cui è caduta», dice. Senza nascondere, poi, il suo pessimismo
nell’analizzare il presente in cui «la globalizzazione capitalista ha
creato disuguaglianze così forti e ingiustizie insormontabili e
ingiustificabili». Insomma, il nostro è un mondo guasto, Un monde en
abîme, come il titolo di uno dei suoi saggi, (edito da Kimé nel 2008). E
la filosofia può aiutarci a comprendere... La formula di Hegel per
trasformare il mondo bisogna capirlo è alla base del pensiero di Tosel:
«Io voglio capire il mondo nelle sue articolazioni, potenzialità,
contraddizioni e opposizioni spiega -. La domanda importante è: quale
mondo per quale gente? Le solidarietà di un tempo sono perdute e
l’individualismo è giusto solo se concepito come individualismo
dell’uguaglianza, il partager (ovvero la condivisione) e non come
individualismo solitario.
Il sistema è riuscito a neutralizzare
l’uomo in quanto massa compatta. All’individualismo come libertà di
pensiero non si può rinunciare, è un diritto, ma al tempo stesso è molto
ambiguo perché permette anche a determinate forze di agire
incontrastate. Il popolo è stato soggiogato dall’idea imperante del
consumo, e gli individui sono infelici perché non potranno mai
soddisfare i loro desideri, non solo perché i fenomeni economici non
vanno loro incontro, ma perché è lo stesso desiderio ad essere
un’illusione».
Viviamo in un mondo paradossale, ripete Tosel, e si
«aggrappa» al pensiero gramsciano, ne fa il faro della sua analisi:
«l’ideale antropologico di Gramsci era quello di un uomo lavoratore
serio, rigoroso, modello soppiantato dal liberismo capitalista. I limiti
sono enormi e l’individualismo è diventato una religione. Non si può
uscire da questa situazione se non si è capaci di produrre rispetto per
il mondo, rispetto del bene comune. Gramsci, Hegel, Marx, in questo
senso, sono strumenti di cui fare una intelligente rilettura».
Partiamo
da Gramsci, che Tosel considera l’esponente più importante del marxismo
del ‘900: «È poco studiato in Francia dice il filosofo ma in Italia è
un po’ più vivo, perché vi sono ancora storici e filosofi che si
interessano a lui e c’è un Istituto molto valido. A differenza
dell’Italia la Francia non ha avuto una grande tradizione filosofica
marxista, non abbiamo avuto Antonio Labriola, una discussione
approfondita su Marx, ma solo una conoscenza frammentata, secca,
dogmatica e schematica».
Labriola viene pubblicato in Francia
grazie a Sorel: nella rivista Le Devenir Social appare il primo dei tre
Saggi sul materialismo storico; il secondo e il terzo sono tradotti in
francese nel 1897 e nel 1899. Il terzo, Discorrendo di socialismo e di
filosofia, era scritto in forma di lettere indirizzate a Sorel; ma la
fortuna di Labriola in Francia subisce una battuta d’arresto anche per
l’ accoglienza negativa del grande sociologo Emile Durkheim. Tosel
ricorda ciò che scrive Stefano Miccolis: «I Saggi erano la prima,
meditata e originale interpretazione europea del pensiero di Marx; e
avrebbero contribuito a produrre grazie anche alla loro immediata
discussione, che coinvolse Croce e Gentile quel rinnovamento e
rinvigorimento della filosofia italiana, che caratterizzò i primi
decenni del Novecento». «E Gramsci secondo Tosel ha saputo analizzare
con profondità molti aspetti della struttura del mondo moderno ed oggi
assume un ruolo di interlocutore critico. Ha sempre avuto la speranza in
una egemonia dei subalterni». Sottolinea quanto Gramsci abbia compreso
la modificazione della concezione del lavoro, la correlazione fra
struttura economica e forme politiche, quanto si sia soffermato sulla
cultura dei linguaggi, sugli apparati egemonici e non solo, sull’unità
linguista e sul folclore (importanti tra l’altro per l’antropologia
culturale di oggi). «Ha riflettuto sul modo di unificare tutti questi
aspetti in un modello di lavoro teoretico e politico. La sua è una
analisi immane. È il solo marxista del secolo ad aver fatto questo. Ha
saputo fare una sorta di mappa molto articolata, e le tesi generali sono
basate su analisi precise. Ha cercato di unire la riflessione generale,
concettuale dentro l’analisi dei fenomeni più concreti; questa è la
forza del pensiero di Gramsci».
Ma adesso Tosel conviene che le
sue analisi non possono essere riprese alla lettera, devono essere
rivisitate: la punta avanzata dell’industrializzazione non è più
l’industria pesante, ma quella della comunicazione.
Anche le forme
politiche sono cambiate: «abbiamo delle forme ademocratiche, la
democrazia parlamentare è divenuta non democratica perché è lontana dai
bisogni e dalle aspettative della gente, è divenuta una specie di classe
corporativa che da sola pretende di dirigere un paese che di fatto è
sensibile soprattutto agli interessi economici più forti. C’è un blocco
economico politico che regge tutto. Questa è una forma politica che
Gramsci ancora non poteva conoscere in cui è la figura del popolo ad
essere svanita. Il vero problema adesso è sapere se l’idea di una
egemonia delle masse subalterne abbia ancora senso».
Tosel spiega
come oggi l’epicentro della cultura gramsciana sia anglo-americano e
come Gramsci sia stato rivalutato in America latina dove ha avuto un
ruolo importante nei movimenti social-democratici che si sono affermati.
Ma anche in India antropologi e sociologi analizzano i ceti subalterni
attraverso il suo pensiero. «Gramsci aveva capito in anticipo
l’importanza di queste categorie e la necessità di far nascere in loro
una cultura propria ma combinata con i punti avanzati della cultura
moderna».
Tosel nel 1991, a Besançon, organizzò lui stesso un
importante e grande convegno sul fondatore del partito comunista. Oggi
l’Istituto Gramsci gli dà la possibilità di curare il volume Gramsci in
Francia dove riunirà i testi noti e poco noti sull’intellettuale
marxista usciti in Francia.
Un progetto importante già cominciato e
che continuerà in altri paesi «per mantenere vivo il pensiero
gramsciano nel mondo e attualizzarlo, perché non possiamo dimenticare lo
sforzo fatto dal marxismo nel secolo passato per capire il mondo e
cercare di trasformarlo».
Corriere 4.11.13
San Francesco, uomo nuovo a imitazione fedele di Cristo
Le stimmate, le visioni e le parole supreme del religioso
di Pietro Citati
Credo
che la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio (La letteratura
francescana vol. IV, La leggenda di Francesco , a cura di Claudio
Leonardi, traduzione di Mauro Donnini, commento di Daniele Solvi, pp.
XXI-440, Fondazione Lorenzo Valla — Mondadori, e 30) sia la più bella
vita di santo conosciuta dalla tradizione cristiana. Come nella vita di
Tommaso da Celano (La letteratura francescana , vol. II, Le vite antiche
di san Francesco , pp. 614 e 30), san Francesco, quest’uomo piccolo,
mite, umile, poverissimo, è l’uomo assolutamente nuovo: mai si giunse
così lontano, nella febbrile rincorsa spirituale del futuro.
Più
Francesco è nuovo, più affonda nell’antico: imita l’antico; non è altro
che l’incessante novità dell’antico. Come l’arcobaleno nella Bibbia,
Francesco è il segno della nuova alleanza stabilita tra Dio e gli
uomini: è Mosè, Giobbe, Giovanni, Battista, Gesù Cristo, un angelo
dell’Apocalisse. In primo luogo, è Cristo: «O uomo veramente
cristianissimo — scrive Bonaventura —, che, con perfetta imitazione, si
prodigò, per essere confuso, da vivo, al Cristo vivo, da morente, al
Cristo morente, da morto, al Cristo morto».
Se leggiamo
Bonaventura, e attraverso di lui risaliamo ai Vangeli, e a tutti gli
eventi e le parole che stanno prima dei Vangeli, abbiamo l’acutissima
sensazione di essere avvolti nel loro profumo e nella loro musica.
Mentre Francesco parla, Gesù Cristo torna a parlargli e a parlarci. Non
una parola è inesatta, non una parola è sbagliata: tutto ciò che Gesù —
Francesco dice, «penetra nelle parti più profonde del cuore, al punto da
suscitare un intenso stupore in chi lo ascolta». Gesù Francesco dice e
Francesco ripete: «Non portate nulla durante il viaggio»; «Chi vuol
venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Così anche noi siamo tentati di rinnegare noi stessi e di prendere la
nostra croce, seguendo durante il viaggio chi, duemila anni or sono,
aveva percorso, con leggerezza, dolore e un piccolissimo viatico, le
strade e le acque di Palestina.
La Legenda maior non è la prima
vita di san Francesco. Bonaventura era stato incaricato di scrivere la
vita definitiva di Francesco nel Capitolo generale di Narbona del 1260:
la sua opera venne approvata nel Capitolo di Pisa del 1263; e nel
Capitolo di Parigi del 1266 fu presa la decisione, come era abitudine
nel medioevo, di distruggere tutte le biografie precedenti, sebbene la
decisione non venisse applicata alla lettera. Mi piacerebbe sapere cosa i
francescani trovassero di nuovo nella prosa sublime della Legenda maior
. Rispetto a Tommaso da Celano, a Giuliano di Spira, alla Lettera dei
tre compagni e agli altri antichi testi anonimi, credo che essi vi
ritrovassero una voce perennemente estatica: una mirabile ebbrezza
mistica: lacrime e gioia: preghiera ininterrotta: la conoscenza di tutti
gli animi umani e delle cose celesti, ottenuta non attraverso la
cultura dei libri ma l’immediata rivelazione di Dio; in una parola, come
scriveva Bonaventura, «il carbone ardente», il «fulgore eterno» di
Cristo. Mi scuso se parlerò soltanto di un episodio della Legenda maior :
le pagine dedicate alle stimmate di Francesco.
+++
Probabilmente
nel settembre 1224, due anni prima di morire, Francesco si reca «in un
luogo eccelso e solitario», il Monte della Verna, dove rimane quaranta
giorni: esso gli richiama alla memoria tre altri monti, il Sinai, dove
Mosè aveva ricevuto le tavole della legge, e i due altri monti dove Gesù
aveva conosciuto la tentazione e la trasfigurazione. Francesco ama e
ricerca i segreti della solitudine e della quiete: vi si dedica
liberamente a Dio, «così da ripulirsi se gli era rimasto attaccato un
qualsiasi granello di polvere, proveniente dalla vita cogli uomini». In
quei giorni viene inondato dalla dolcezza della contemplazione divina, e
infiammato ardentemente dal fuoco dei desideri celesti.
Un
giorno, Dio gli ispira la lettura del Vangelo. Francesco prende il
libro: lo fa aprire tre volte da un compagno; e tutte le volte il
Vangelo gli rivela un episodio della passione di Cristo. Allora,
Francesco comprende che, se per tutta l’esistenza aveva imitato la vita
di Gesù, ora , giunto presso la morte, deve essere «conforme al Signore»
nelle sofferenze e nei dolori della passione. È stanco e debole:
marchiato dai segni visibili e invisibili della croce: ma non ha nessuna
paura, perché egli ha cercato da sempre il martirio, «le fiaccole di
fuoco e di fiamme», «l’insuperabile incendio dell’amore di Cristo». La
dolcezza della compassione lo trasforma nel suo Signore: senza che nulla
accada in apparenza, egli è già spiritualmente crocifisso, con le mani e
i piedi forati dai chiodi, e il fianco destro trapassato dalla lancia.
Qualche
giorno dopo, di mattina, Francesco ha una visione: come sia Tommaso da
Celano sia Bonaventura ripetono. Della visione, esistono due versioni.
Tommaso racconta che Francesco, presso il Monte della Verna, vede un
uomo «simile a un serafino con sei ali, inchiodato a una croce, con le
braccia distese e i piedi uniti»; due ali sono spiegate sopra il capo,
due protese per volare, e le due ultime velano tutto il corpo. Tommaso
non dice che l’uomo-serafino inchiodato alla croce sia il Cristo: lo
pensa certamente e lo ripete più tardi, perché altrimenti la storia
delle stimmate non avrebbe avuto significato; ma cela, con una nube di
pudore e di discrezione, il nome prodigioso del Signore. Quanto al
serafino con sei ali, qualsiasi lettore della Bibbia lo aveva incontrato
in Isaia (e in Ezechiele ). I serafini con sei ali, gli incandescenti,
erano creature angeliche che si avvicinavano al «carbone ardente» di
Dio, senza scorgerlo. Nella letteratura cristiana, il serafino diventò
Cristo.
La visione di Bonaventura è completamente diversa: egli
non ha nessuno ritegno a pronunciare il nome Signore, anzi lo ripete.
Perché, in quella mattina, presso il Monte della Verna, Francesco
conosce, secondo Bonaventura, due visioni del Cristo, separate tra loro.
Il primo è un serafino con sei ali, «tanto infuocate quanto
splendenti», che scende dal cielo in volo rapidissimo: esso è la
«sublime similitudine del serafino», avvicinato e opposto «all’umile
effige di Cristo». La seconda visione, che appare in mezzo alle ali,
vicinissima alle ali, sino quasi a confondersi con esse, è il crocifisso
che salì sulla croce nei Vangeli, e ancor ora, nel cielo della Verna,
«ha le mani e i piedi confitti a una croce». Il rapporto tra le due
figure è «inscrutabile»: possiamo soltanto dire che il Cristo-serafino
non sopporta la sofferenza della passione, perché il suo spirito non può
accordarsi con essa. Come chiamarlo? Forse potremmo dire, come scrisse
Francesco, che il figlio di Dio è per natura «immortale, invisibile,
ineffabile, incomprensibile, inaccessibile»: Cristo immortale e
ineffabile è il serafino, e a rigore non soffre né patisce, sebbene
appaia nella sua paradossale forma angelica. Con queste due figure,
Bonaventura esprime mirabilmente l’infinita complessità teologica della
sua visione del Figlio.
In Tommaso da Celano, il silenzio
avvolgeva il misterioso serafino inchiodato alla croce. In Bonaventura,
la prima visione di Cristo, il serafino infuocato e rapidissimo, parla.
Non sappiamo cosa dica, ma parla: secondo Francesco, disse «alcune cose
che per tutta la vita egli non avrebbe dovuto rivelare a nessuno».
«Senza dubbio è da credere — aggiunge Bonaventura — che le parole di
quel santo serafino siano state così ineffabili, che forse non era
lecito agli uomini proferirle». Qui raggiungiamo la vetta della
rivelazione: queste parole taciute rappresentano il culmine ineffabile e
incomprensibile, che né Francesco né Bonaventura osano rivelare. Mentre
il serafino parla, sorride a Francesco: il suo sorriso è pieno di
amabilità e di ammirazione; e Francesco prova letizia davanti a questa
gioia sovrannaturale che lo avvolge.
Dopo il radioso sorriso
celeste, il racconto si capovolge. La visione, che finora aveva riempito
lo spirito di Francesco con le immagini del serafino e del crocifisso,
scompare: la mente del santo resta vuota. Qualcuno potrebbe credere che,
a causa di questa scomparsa e di questa assenza, egli perda il suo
ardore e la sua gioia: forse, la sua stessa fede; mentre, al contrario,
la visione, scomparendo, lascia nel cuore «un mirabile ardore».
In
questo preciso momento, avvengono le stimmate : parola usata solo da
Paolo; vale a dire l’imitazione di Cristo, che ora accade per la prima
volta nella storia cristiana. Gesù aveva conosciuto il «martirio della
carne»: i chiodi di ferro nelle mani e nei piedi: il colpo di lancia nel
fianco, che aveva versato sangue e acqua (solo sangue, secondo
Bonaventura). Sopra e attorno a lui, c’erano Dio, i fedeli timorosi, e i
soldati che lo torturavano. Nel caso di Francesco, non c’è nulla di
esterno: non ci sono fedeli né soldati, e nemmeno un Dio che agisca nel
mondo reale. Tutto avviene, a poco a poco, con evidente lentezza, nello
spirito, nel cuore e nel corpo di Francesco: la visione incendia lo
spirito; la carne, a sua volta incendiata, imita i segni lasciati nel
crocifisso, che un momento prima era apparso, presso il Monte della
Verna, tra le ali del serafino.
Qualche pagina più tardi,
avviandosi alla conclusione della Legenda maior , Bonaventura ci spiega
che, in quel momento, presso il Monte della Verna, Dio lavora sul corpo
del suo amatissimo santo, come uno scultore-pittore nel più sublime
degli atelier. Egli trasforma la carne di Francesco: escrescenze, simili
a teste di chiodi di ferro, rotonde e nere, fuoriescono nella parte
interna delle mani e in quella superiore dei piedi; mentre le punte dei
chiodi di carne, allungate, ritorte e ribattute, si ripiegano sulla
parte opposta della ferita.
Qui Bonaventura riprende, quasi alla
lettera, una pagina di Tommaso da Celano: tutto è minuziosissimo e
dettagliatissimo; mentre, poco prima, aveva rivelato con oscura rapidità
i segreti più profondi della sua cristologia. Questa minuzia visiva non
deve stupirci. Le stimmate sono anche un’opera d’arte: un capolavoro
d’arte divina; quei chiodi rotondi e neri come il ferro, che imprimono
il loro nero nella carne bianchissima di Francesco, quella ferita del
fianco che rosseggia come il fiore rotondo della rosa primaverile,
suscitano «piacere e ammirazione» in tutti coloro che contemplano il
corpo vivo e morto di Francesco.
«Siccome è cosa buona tenere
nascosto il segreto del Re», Francesco vuole celare le stimmate:
specialmente la ferita del fianco, che per lui, come per il Vangelo e la
prima lettera di Giovanni, possiede un importantissimo valore
simbolico. Dio vuole che le stimmate vengano rivelate: Bonaventura
obbedisce al volere di Dio; e racconta, specie nell’appendice della
Legenda , una serie di miracoli che mostrano la forza prodigiosa dei
segni sacri. Una sola cosa resta nascosta: le parole pronunciate dal
serafino con sei ali, presso il Monte della Verna. Proprio perché esse
sono assolute parole del Cristo supremo, e contengono probabilmente il
segreto della Legenda , Francesco e Bonaventura pensano che «non sia
lecito agli uomini di proferirle».
l’Unità 4.11.13
I falsari della ricerca
di Pietro Greco
«How
science goes wrong». Il coloratissimo titolo dominava la prima pagina
della più nota e diffusa rivista economica del mondo, The Economist,
sulla prima pagina. Annunciando un dossier, piuttosto lungo, sul «come
la scienza sbaglia».
O, meglio ancora, su «come la scienza funziona male».
L’intervento
ha scatenato una miriade di reazioni, anche sui media italiani. E,
anche se il tema non è nuovo, giunge più che mai opportuno. Per due
motivi. Il primo è che la copertina di The Economist, ricorda a tutti ma
soprattutto a noi italiani che la scienza occupa un ruolo decisivo
nella società e nell’economia del mondo. E che il suo funzionamento
interno non è questione da tecnici, ma può ben occupare la copertina di
una delle poche riviste globali. Per dirla in una battuta, The Economist
ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza è
questione troppo seria per lasciarla ai (soli) scienziati. Il secondo
motivo che torna a merito di The Economist è di averci ricordato come la
scienza o meglio, la comunità scientifica mondiale, con le sue prassi e
i suoi valori è nel bel mezzo di una transizione epocale. Anche se,
bisogna dire, gli estensori del dossier non hanno colto tutta la
dimensione del cambiamenti. E, di conseguenza, non hanno colto tutte le
ragioni che inducono (che sembrano indurre) la comunità scientifica a
sbagliare più che in passato e le prassi scientifiche a funzionare
peggio che in passato.
Il succo dell’analisi di The Economist,
fondata su alcune recenti ricerche scientifiche (e già, la scienza sa
indagare su se stessa senza indulgenza), è che molti degli articoli
scientifici pubblicati su alcune decine di migliaia di riviste in tutto
il mondo sono piene di errori, metodologici e di contenuto, e presentano
risultati né verificati né verificabili. Questa situazione costituisce
un pericolo sia per il corretto funzionamento della scienza, sia per la
sua credibilità. Ma, soprattutto, costituisce uno spreco di denaro,
spesso pubblico, e un danno per l’umanità. Perché procedure più corrette
consentirebbero di migliorare la qualità della spesa e di produrre
risultati migliori a beneficio dei cittadini del pianeta. È vero che
anche in passato, riconosce The Economist, non sono certo mancati gli
errori e persino le frodi scientifiche. Ma ora la patologia sta
diventando più estesa e diffusa.
Le cause individuate dai
redattori della rivista sono essenzialmente tre. Una è che gli
scienziati sono chiamati a confrontarsi con una massa crescente di dati e
non hanno ancora acquisito una matura cultura statistica per gestirli.
Una seconda ragione è che sta crescendo la competitività scientifica a
livello globale e il «public or perish» (pubblica o altrimenti muori),
induce, appunto, a pubblicare qualsiasi cosa, anche non rigorosa, anche
talvolta falsa. Terzo, è che né le riviste né le istituzioni
scientifiche hanno interesse a verificare se le metodologie sono
corrette e i risultati pubblicati verificabili. La situazione
fotografata da The Economist è reale. E certamente le tre cause indicate
colgono parti di verità. Ma, appunto, solo una parte della verità. E,
dunque, ci danno un’informazione un po’ deformata sulla ricerca
scientifica. Che, come dicevamo, è nel bel mezzo di una trasformazione
epocale. Per tre motivi. Mai la ricerca scientifica ha avuto così tante
risorse: il 2% del Prodotto interno lordo mondiale, pari a quasi 1.500
miliardi di dollari nel 2012. Con queste risorse possono lavorare oltre 7
milioni di ricercatori: cento volte di più che un secolo fa. I
ricercatori di oggi sono superiori alla somma di tutti gli scienziati
vissuti nelle epoche precedenti. Con tante risorse, finanziarie e umane,
le vecchie e consolidate procedure funzionano necessariamente meno
bene.
La seconda trasformazione riguarda la scienza finanziate
dalle imprese private. I due terzi degli investimenti in ricerca nel
mondo (circa 1.000 miliardi di dollari) sono a opera di privati. Tutto
questo sta modificando la griglia di valori di una parte della comunità
scientifica (quella finanziata con fondi privati). E pone spesso in
conflitto l’interesse privato (il segreto, il profitto) con quello
pubblico (la trasparenza, il beneficio per tutti). La terza
trasformazione riguarda l’internazionalizzazione. Fino a cinquanta anni
fa, tre scienziati su quattro vivevano o in Europa o in Nord America: un
mondo culturalmente omogeneo. Oggi più della metà degli scienziati vive
in Asia. L’universo culturale è cambiato e si è differenziato.
Difficile che le regole e i valori che vigevano in Europa e in
quell’estensione dell’Europa che è il Nord America possano funzionare
senza incrinature in una comunità finalmente globale. In definitiva, la
scienza è in piena crisi di crescita. Come potrebbe non avere problemi? A
tutto ciò si aggiunga il fatto che la ricerca scientifica costituisce
il motore dell’economia di gran parte del pianeta (Italia, ahinoi
esclusa): dei Paesi di antica industrializzazione e dei Paesi a economia
emergente. Per cui sui ricercatori, pubblici e privati, si esercitano
pressioni enormi, del tutto sconosciute in passato.
Per questo un
acuto osservatore della società scientifica, il fisico teorico John
Ziman, sosteneva che la scienza vive una nuova fase storica,
post-accademica, profondamente interpenetrata con il resto della
società. Diversa dalla fase accademica vigente fino alla seconda guerra
mondiale, quando gli scienziati vivevano e si sentivano isolati e ben
protetti in una «torre d’avorio». Ma al netto di tutto ci sono ancora
due considerazioni da fare. La prima è che quella scientifica, per
quanto cresciuta e globalizzata, è una comunità che ha una capacità
senza pari di indagare se stessa, di scoprire dove sbaglia e di
autocorreggersi. Ne ha dato prova nei mesi scorsi l’esperimento Opera,
che aveva rivelato presso il Gran Sasso dei neutrini che sembravano
viaggiare a velocità superiore a quella della luce. Ha diffuso questi
risultati che, se veri, avrebbero costituito una pietra miliare nella
storia della fisica. Ma lo ha fatto con prudenza. E, soprattutto, si è
messo alla ricerca di un possibile errore. La ha trovato. E, anche se
era un errore banale, non ha avuto paura di metterci la faccia e di
riconoscerlo. Quale altra comunità avrebbe fatto altrettanto?
Ma,
al di là dell’onesta individuale che, sia detto per inciso, tra gli
scienziati è in media superiore di gran lunga alla media c’è un altro
fattore che ci deve far continuare ad avere fiducia nella scienza. La
storia della ricerca è piena zeppa di errori o di studi irrilevanti. Ma
le conoscenze più solide e profonde sopravvivono per selezione naturale,
e indipendentemente dai comportamenti dei ricercatori. La selezione non
è deterministica, ma è efficiente. Tant’è che la scienza, pur con i
suoi difetti, è la forma di conoscenza umana più produttiva e solida che
si conosca.
il Fatto 4.11.13
“Le donne saranno la salvezza”
di Rania di Giordania*
"La
crisi finanziaria ha lasciato un'ombra, che incombe su di noi. Sono
andati persi migliaia di posti di lavoro. E migliaia di miliardi sono
stati spesi per salvare l'economica globale. Cosa può contribuire a
invertire la rotta? A cancellare lo spettro della crisi finanziaria
dalla nostra vita, e a tornare un mondo sostenibile? Una sola parola: le
donne. Per anni nella cittadella della teoria economica, le donne sono
state cittadine di seconda classe. La gente ha semplicemente accettato
che gli uomini controllassero il denaro, dai fondi per la casa, alle
finanze nazionali. Ma i tempi stanno cambiando. Secondo le previsioni,
le donne possono dare la più forte spinta all'economia globale nella
storia dell'umanità: un'espansione più potente della crescita di Cina e
India messe assieme. Sì, le donne sono in ascesa. Ma c'è un altro lato
di questa storia. Mentre sempre più donne guadagnano salari alti e
raggiungono posizioni elevate, altre milioni di ragazze rimangono
tagliate fuori dal lavoro. Viene negata loro la possibilità di esprimere
il loro potenziale. Nel mondo arabo, le nostre donne sono fin troppo
abituate a questo. Il loro tasso di partecipazione nel mondo del lavoro è
uno dei più bassi al mondo. Il loro potenziale è sprecato. I loro
talenti sono sprecati. Questa ingiustizia è globale. In altre parole, le
donne oggi rappresentano due lati del mondo: essi sono il volto della
ripresa globale e insieme il volto della povertà globale. Il problema è
complesso, ma la soluzione è più semplice di quanto si possa pensare:
istruzione. Non possiamo permetterci di continuare a buttare via così
tanto potenziale umano".
Tratto dal discorso della regina di
Giordania, Rania Al Abdullah, pronunciato a Roma il 22 ottobre 2009, in
occasione del Premio Marisa Bellisario.
il Fatto 4.11.13
Uomo donna e dio
Islam, tutto è concesso nei confini del matrimonio
di Giulia Zaccariello
Il
filo rosso che non va mai oltrepassato si chiama nikah: il matrimonio
islamico tra un uomo e una donna. Dentro quel confine, una coppia
musulmana può abbandonarsi a ogni piacere del corpo. Con l'unica
eccezione della sodomia, nella vita sessuale degli sposi il Corano
concede quasi tutto, dalla contraccezione ai giochi erotici. In una
visione dell'amore che appaga i sensi e non obbliga al concepimento. Ma è
fuori dalle mura di casa, dove termina il legame coniugale, che si
alzano i divieti, si cancellano i diritti, si allargano le
disuguaglianze tra i generi. E che sui costumi si stringono le maglie
della morale e quelle delle leggi. In una continua ricerca di equilibrio
tra tradizione e modernità, tra passato e presente.
MATRIMONIO.
Non c'è solo quello classico, quello del “fino a che morte non vi
separi”. Nella tradizione sciita esiste anche il mut'a, ossia il
matrimonio di piacere, una sorta di unione a tempo determinato che può
durare, a seconda delle esigenze, 1 giorno o 10 anni. Non ha bisogno di
riti o cerimonie, può essere stipulato con un accordo verbale davanti a
due testimoni ed è ripetibile più volte nella vita. In Iran, ad esempio,
è noto come sigheh e negli ultimi anni ha subito un vero e proprio
boom, diventando un business per decine agenzie specializzate nella
ricerca di aspiranti sposi a termine. A scegliere questa formula sono
soprattutto quei giovani, che non si sentono pronti per le nozze ma
desiderano comunque avere rapporti sessuali, senza violare i dettami
religiosi. Oppure uomini già sposati, che in questo modo possono
giustificare relazioni con più donne, dando vita, talvolta, a delle
forme di poligamia.
ADULTERIO. Il Corano vieta qualsiasi piacere
carnale fuori del matrimonio. Compreso l'autoerotismo. È considerato
peccato dalla Sharia. Ma più grave è l'infedeltà coniugale, reato in
quasi tutti i codici penali dei paesi islamici. In molti casi punito con
pene severissime. In Iran, ad esempio, ogni anno vengono lapidate a
morte decine di donne. Anche in Arabia Saudita chi ha un rapporto
sessuale, anche se frutto uno stupro, con un uomo diverso dal compagno
rischia la condanna capitale. Discorso simile vale per alcune forme di
trasgressione, come lo scambismo. In Egitto, ad esempio, una coppia alla
ricerca di altri partner può finire in carcere.
CONTRACCEZIONE E
ABORTO. Sono due terreni, in cui le norme coraniche lasciano ampie
libertà. Ovviamente sempre restando nell'ambito del matrimonio. Sono
ammessi sia l'uso del preservativo, sia quello della pillola. Mentre
l’interruzione di gravidanza è lecita solo in alcuni casi: dopo uno
stupro o un incesto, quando è a rischio la salute della donna, o quando i
genitori non hanno i mezzi per mantenere il bambino. Tra i primi paesi
islamici ad aver regolamentato l'aborto c'è la Tunisia, dove una donna
può chiedere di interrompere la gravidanza in ospedale o in cliniche
autorizzate, entro i primi 90 giorni.
DIVORZIO. Nei paesi più
integralisti, come Arabia Saudita e Iran, si chiama talaq. Ossia,
ripudio. È il diritto, riservato agli uomini, di interrompere il
matrimonio all'improvviso e senza motivazioni, e di sposare un’altra
donna. Le mogli invece possono chiedere lo scioglimento del legame solo
se riescono a provare gravi mancanze del compagno. Il ripudio, da alcuni
anni al centro di proteste e dibattiti tra conservatori e progressisti,
è stato abolito in Algeria e in Tunisia. Mentre nel 2004 il Marocco ha
approvato un nuovo codice, chiamato Mudawana, che punta a regolare
diversi aspetti della vita familiare, tra cui anche le separazioni,
parificando i diritti dell'uomo e della donna.
OMOSESSUALITÀ. Se
in generale la sodomia è vietata anche tra uomo e donna, i rapporti tra
persone dello stesso sesso sono perseguitati in gran parte del mondo
musulmano. Secondo i dati di Amnesty International in sette paesi
islamici, Arabia Saudita, Iran, Mauritania, Sudan e Yemen, Nigeria e
Somalia, i gay rischiano la pena di morte. Nel migliore dei casi, come
in Egitto e in Turchia, l’omosessualità non è considerata un crimine, ma
resta comunque difficile per la comunità Lgbt vivere alla luce del
sole.
Corriere 4.11.13
Le radici mitiche e sacre dei tre enigmi di Turandot
La tradizione antica in un’inedita interpretazione
di Paolo Isotta
Al Teatro dell’Opera di Roma è andata in scena in questi giorni la Turandot , l’ultima e incompiuta Opera di Giacomo Puccini.
L’allestimento,
originariamente del Teatro Petruzzelli di Bari, si deve, sulle scene
meravigliose di Nicola Rubertelli e coi costumi meravigliosi di Odette
Nicoletti, al grande compositore Roberto De Simone per la regia. Questi
detta un preziosissimo saggio di carattere mitologico, egli essendo
anche un mitologo e storico della mitologia e autore di un volume su
Virgilio. La Fiaba di Carlo Gozzi, tradotta in tedesco da Federico
Schiller e ritradotta in italiano da Andrea Maffei, l’amico di Verdi, è
la fonte ultima di Adami e Simoni, i peritissimi poeti che stesero a
Puccini il Dramma da lui musicato; ma De Simone risale alle fonti e si
spinge fino ai tempi preistorici pei quali la Fiaba «affonda le sue
radici in arcaici miti cosmogonici che riguardano il Sole e la Luna nel
loro continuo alternarsi ciclico di vita, morte, rinascita. Il tema
riguardante gli enigmi rimanda a lontani riti iniziatici nei quali
rientra il noto episodio della Sfinge che pone a Edipo una medesima
prova da superare per potere sposare la regina Giocasta. L’elemento del
nome da indovinare si connette alla sacralità del nome nascosto, di un
mantra, di una divinità, di un eroe e non al reale nome assunto
comunemente da tale eroe o da un dio. Conoscere il nome misterico di
un’entità celeste o infera equivale ad avere in proprio potere
l’essenza, l’anima dell’eroe o del dio stesso».
Quest’allestimento
è uno dei più belli che si siano mai visti, non della Turandot , dico,
in assoluto. Le porte della reggia son poste al sommo d’un’alta
scalinata e su di essa è il fatale gong che il principe Calaf percote
per sacrarsi alla morte o alla vittoria. La scena è occupata anche da
simulacri di soldati in terracotta. Turandot appare la prima volta,
invisibile quasi, circonfusa di luce e d’incenso. Sincretismi vedici e
buddhisti arricchiscono l’allestimento caratterizzato da un minuzioso
ritualismo avvolgente anche l’esecuzione al I atto del Principe di
Persia.
Sul podio il maestro Pinchas Steinberg. Egli rifinisce
straordinariamente la concertazione rendendola una festa timbrica ma al
tempo stesso prosciuga i ritmi senza sottolinearne abusivamente la
modernità e domina l’insieme con eccezionale autorità. Per trovare una
Turandot altrettanto ben diretta debbo andare con la memoria agli anni
Settanta e a uno dei più grandi musicisti che abbia in vita mia
conosciuti, nonché uno dei più preziosi amici, il pianista, compositore e
direttore d’orchestra Franco Mannino.
La compagnia di canto è
eccezionalmente assortita. La protagonista, autentico soprano drammatico
che ricorda Gina Cigna, è Evelyn Herlitzius, ossia l’indimenticabile
Ortruda del Lohengrin datosi alla Scala il 7 dicembre scorso; e che
nell’attuale stagione sarà Elettra. Calaf è l’ottimo tenore Marcello
Giordani. Carmela Remigio interpreta molto bene Liù. Il meraviglioso
basso Roberto Tagliavini è Timur. Chris Merritt, tenore qualche decennio
fa temerario nell’affrontare ruoli a lui vietati, è Altoum e qui è
perfetto per aver egli voce di «monaca vecchia». Simone Del Savio,
Saverio Fiore e Gregory Bonfatti sono il terzetto delle Maschere,
equilibrato come poche volte s’è visto. Gianfranco Montresor è il
Mandarino degli annunci («Popolo di Pechino!»)
Tutti sanno, per
averlo io scritto molte volte, che di quest’Opera esiste un Finale
convenzionale, dovuto a Franco Alfano, che Toscanini abusivamente
ridusse fino a stravolgerne la linea compositiva. Ma l’autentico
Finale-Alfano adesso è disponibile e io mi batto da quando lo è affinché
venga eseguito. Questa volta la Turandot è rappresentata senza «alcun»
Finale, arrestandosi essa al Mi bemolle dell’ottavino, ultima nota
scritta dall’Autore. (Ricordo in via incidentale non esser vero che
l’Opera sia incompiuta per il subentrare della morte di Puccini: egli
morì senza esser riuscito a scrivere un Finale.) Alle mie rimostranze il
maestro Alessio Vlad, Direttore Artistico, ha obbiettato: esser Alfano
il più grande compositore italiano del Novecento; il suo Finale esser un
tale capolavoro compositivo da dover essere eseguito a sé in forma di
concerto. E io non finisco mai d’imparare.
Corriere 4.11.13
La poesia della fisica
di Sandro Modeo
Come
molti altri libri disponibili sull’argomento, anche quello del Nobel
Leon Lederman e di Christopher Hill privilegia fin dal titolo «Fisica
quantistica per poeti» (Bollati Boringhieri, pagine 328, e 24) gli
scarti controintuitivi e le suggestioni estetiche di una teoria
contrastata dallo stesso Einstein — che pure aveva contribuito a
generarla — per la sua «apparenza sovrannaturale». Lederman e Hill si
caratterizzano, però, sia per la concretezza metaforica (vedi il
bicchiere pieno d’acqua o di sabbia fine per distinguere il «continuo»
dal «discreto», l’onda dalla particella), sia per una cautela estesa dal
livello astratto-speculativo (la teoria delle stringhe) a quello
applicativo (la crittografia e i computer quantistici). In questo modo,
anche le implicazioni filosofiche (gli «abissi dei fondamenti» intesi
come i rapporti tra la «pesantezza» della fisica classica e la
«spettralità» di quella subatomica) evitano facili tentazioni da
metafisica new age. Poesia sì, ma sempre al confine con la prosa.
il Fatto 4.11.13
Un nuovo libro di Aldo Cazzullo
Basta piangere, possiamo ancora farcela
di Furio Colombo
Lo
leggi volentieri un libro di Aldo Cazzullo, perchè, da buon giornalista
con grande seguito, quasi sempre a metà strada tra il reporting e la
riflessione, ti racconta in modo preciso cose che sa.
In altre
parole, Cazzullo non rovescia il mondo. Lo prende così com’è e lo
spiega. E non guasta la gentilezza un po’ pedagogica con cui l’autore si
rivolge al lettore. L’ho letto volentieri e vorrei spiegare perché, a
momenti, con dissenso.
Il libro è Basta piangere, Storia di
un’Italia che non si lamentava (Mondadori, Strade Blu). Il titolo dice
bene: c’era una volta un Paese che ha affrontato e superato durissime
prove, sempre con una gran voglia di fare, molta fatica, molto talento,
alcuni colpi di genio, un diffuso coraggio, misto a ostinazione e alla
persuasione di farcela.
Sono in grado, da testimone e partecipe
della incredibile stagione italiana della ricostruzione, del “boom” e
poi dell’Italia benestante che è sorta quasi per incanto su rovine e
povertà, di dare atto a Cazzullo, tanto più giovane e dunque informato
più da libri e da film che da esperienza diretta di quegli anni, che la
sua narrazione è del tutto attendibile, ben documentata e ben narrata.
Ma c’è, a volte implicito, a volte apertamente proclamato, un
ammonimento che non sono sicuro di condividere: adesso, invece, ci
troviamo in una Italia che si piange addosso tutto il tempo, per ragioni
serie e per ragioni futili, e che non sa più ritrovare il polso fermo,
la determinazione, la forza, con cui questo Paese è risorto da qualcosa
di molto peggiore di una pur grave crisi economica e politica. Leggendo,
mi sono ricordato di un viaggio ad Haiti, molti decenni fa, quando in
quella sfortunata isola c’era ancora la dittatura di Papa Doc.
L’AUTISTA
DEL TAXI che avevo noleggiato per alcuni giorni all’aeroporto, mi
appariva sempre molto triste. Un giorno gli ho chiesto come mai.
“Signore - mi ha risposto - le assicuro che non ho alcuna ragione per
essere felice”. È stata l'unica frase della nostra conversazione. Ha
scritto quasi la stessa storia il commentatore del New York Times, Frank
Bruni (26 ottobre), in un articolo dedicato all’Italia: “Sono abituato,
in questo Paese, a un pessimismo teatrale, a un certo diffuso
compiacimento di dire male di se stessi. Questa volta è diverso”. Lo
spiega in tre paragrafi: Berlusconi e il suo ridicolo disastro; i
governi tentennanti che non trovano una via d'uscita; l’impressione
diffusa di avere perso il futuro. “Basta piangersi” è un invito giusto e
legittimo. Come l’autista di Haiti, il giornalista americano, dopo il
suo giro nella penisola, si è convinto che per noi sarà un po’
difficile. Temo che abbia ragione.
La Stampa 4.11.13
Quando Annibale mangiava ananas in America
Secondo lo storico della scienza Lucio Russo il Nuovo Mondo sarebbe stato scoperto già nell’antichità, forse dai Cartaginesi
Una tesi fondata su ragioni di metodo, con qualche punto debole
di Alessandro Barbero
qui