lunedì 4 novembre 2013

Repubblica 4.11.13
Congressi caos, Epifani riunisce la segreteria Pd
Chiti: a Empoli tessere vendute a centinaia d’immigrati. Sul rinvio ora Cuperlo frena
di A. Cuz.


ROMA — Toccherà a Guglielmo Epifani, domani, dire quel che pensa della guerra di posizione che si sta combattendo sul tesseramento pd. La segreteria è convocata al Nazareno, dove si riunirà anche la commissione dei garanti guidata da Luigi Berlinguer. C’è da capire se le irregolarità denunciate durante i congressi provinciali sono diffuse o circoscritte. Se si può parlare di tesseramento falsato, o di problemi fisiologici legati alla fretta e all’avvicinarsi delle primarie dell’8 dicembre.
C’è da capire - soprattutto - se alcuni mentono quando dicono che gli avversari hanno truccato le carte per vincere. O se è vero che a Cosenza c’è un congresso falsato da dirigenti vicini all’area Cuperlo (e da garanti non imparziali), ad Asti da file di albanesi per Renzi, e così via in un incrocio di accuse riempite ogni giorno da nuovi particolari. Vannino Chiti denunciava ieri file sospette di immigrati al congresso provinciale di Empoli, e si lanciava contro «compravendite vergognose frutto di regole assurde». Quella di far votare ai gazebo delle primarie anche i non iscritti, quella di non chiudere il tesseramento mesi prima del congresso «per compiacere quanti non sopportano militanti che ogni giorno lavorano per il Pd, volendolo ridurre a comitato elettorale».
Pippo Civati, pur in disaccordo con l’idea di fermare il tesseramento, rivendica a SkyTg24: «Il problema l’avevo denunciato io 15 giorni fa e avevo chiesto agli altri candidati di schierarsi con me. È successo tutto puntualmente. Diamo l’immagine di un partito in cui la corsa per il potere è più importante del rispetto delle regole. Spero che si prendano provvedimenti e si annullino i congressi nelle situazioni più drammatiche». Parla di «coperture politiche», lo sfidante di Renzi e Cuperlo, ricorda: «Io l’ho detto ai miei, il primo che becco lo caccio a calci nel sedere».
Così, mentre i renziani continuano a dire - su mandato del sindaco - che di chiudere il tesseramento non se ne parla, che le commissioni di garanzia hanno il compito di verificare le irregolarità, ma non bisogna approfittare dei casi sospetti per bloccare la partecipazione, Gianni Cuperlo non demorde. Dopo un comunicato in cui il suo comitato garantiva che «le regole si possono cambiare quando c’è condivisione, non saremo certo noi a impuntarci o a chiedere forzature», il candidato da Ferrara - sembrava smentire: «Sul discorso tessere non mi arrendo, non è una polemica mossa nei confronti di qualcuno, è un fatto che riguarda tutti noi e ne va dell’autorevolezza e della dignità del partito».
Ma il Pd, in Emilia, ha problemi anche più grossi: il capogruppo in regione Marco Monari - finito nell’inchiesta sull’utilizzo improprio dei fondi dei gruppi insieme ai colleghi degli altri partiti - si è dimesso dopo le voci su sue presunte spese pazze. Oltre 1000 euro per due notti a Venezia, e 30mila consumate in diversi ristoranti della città nel giro di 19 mesi. «Troppe dichiarazioni disinformate quanto contraddittorie su indiscrezioni incontrollate e incontrollabili si difende - mi convincono che il mio senso di responsabilità, innanzi tutto nei confronti del partito, viene male inteso e interpretato come un tentativo di nascondere mie responsabilità personali che rivendico insussistenti». Per questo, «per il rispetto che devo a me stesso, unito all’affetto per ilpartito che ho contribuito a fondare, lascio la guida del gruppo regionale».

Corriere 4.11.13
Congressi, i primi risultati. I renziani: siamo in vantaggio
Caso tessere, boom di iscrizioni anche a Piacenza
di Ernesto Menicucci


ROMA — C’è la «guerra delle tessere», ma — adesso — c’è anche la battaglia sui voti. Chi ha vinto, al netto di ricorsi, polemiche, veleni, sospetti di brogli, tra Gianni Cuperlo e Matteo Renzi (indietro gli altri due sfidanti, Pippo Civati e Gianni Pittella) nei congressi provinciali Pd di tutta Italia? Le votazioni sono quasi concluse — ieri è toccato a Bari; il 10 parte, dopo mille problemi, Caserta — e adesso si cominciano a fare i conti.
Dal comitato di Cuperlo, qualche giorno fa, erano usciti i primi dati, favorevoli al deputato triestino: 49 segretari provinciali per lui, 25 per Renzi. Ora, però, dallo staff del sindaco di Firenze danno una versione molto diversa: «Finiremo 50 e 50...», dicevano gli uomini a lui più vicini. Secondo questi conteggi, al momento Renzi sarebbe addirittura in vantaggio: 45 (vinti o con previsione di vittoria) per lui, 41 per Cuperlo. Contando, da una parte e dall’altra, i candidati «unitari», quelli scelti di comune accordo sul territorio ma che poi si schiereranno di qua o di là per l’elezione del segretario nazionale. Mancano, all’appello, una quindicina di congressi: alcuni sono in corso, altri (come Roma) andranno al ballottaggio.
Ma, via via, alcune delle situazioni critiche si stanno risolvendo. A Caserta, come detto, la missione dei due «caschi blu» (un renziano e un cuperliano) è servita: domenica prossima si vota. A Torino dovrebbe bastare l’intervento di Giovanni Lunardon, a Lecce e Cosenza si stanno completando le operazioni. Non che manchino, ancora, le denunce. Proprio a Cosenza sono i renziani a scrivere ad Epifani: «Ti chiediamo di intervenire perché si ristabilisca la legalità statutaria». A Napoli, l’eurodeputato Andrea Cozzolino si sfoga sul suo blog: «Sono andato al circolo del Vomero per votare, mi hanno detto che l’elezione era già chiusa. Strano, la settimana scorsa le operazioni si erano bloccate, poi mi avevano detto che, verosimilmente, si sarebbe potuto votare sette giorni dopo...».
A Piacenza, dove si è registrato un vero boom di iscrizioni (iscritti raddoppiati da 900 a duemila, aumento del 117%), c’è il ricorso dei bersaniani (da Paola De Micheli al vicesindaco Francesco Cacciatore): «Cuperlo è informato della nostra iniziativa», dice la consigliera comunale Giulia Piroli, tra i promotori dell’esposto agli organi di garanzia del partito.
Lui, il candidato ex diessino alla segreteria, non vuole fermarsi: «Sul discorso tessere non mi arrendo. Non è una polemica mossa nei confronti di qualcuno, è un fatto che riguarda tutti noi e ne va dell’autorevolezza e della dignità del partito». Domani se ne parlerà alla segreteria e poi alla commissione congresso: lì verranno anche discussi i casi «sospetti», o dove ci sono ricorsi e contestazioni. Va all’attacco anche Vannino Chiti: «Le vergognose compravendite di tessere devono essere duramente sanzionate». E insiste: «Si vuole vincere senza badare ai mezzi, frutto di uno statuto sbagliato che consente non agli iscritti ma a chi l’8 dicembre si recherà ai gazebo di eleggere il segretario». Finita? Ancora no: «C’è chi non sopporta la sinistra nel Pd, e vuole ridurre il partito ad un comitato elettorale».

Repubblica 4.11.13
A Piacenza colpi bassi tra lettiani e renziani
“Voti comprati” “Non sapete perdere ”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — C’era una volta una tranquilla cittadina emiliana dove il Pd marciava unito dalla stessa parte. Era il 2007, il sindaco era l’imprenditore Roberto Reggi che aveva scelto Paola De Micheli come suo assessore al bilancio. Insieme sostenevano la corsa di Enrico Letta alle primarie contro Walter Veltroni.
Sei anni fa. Sembrano secoli. Perché nella Piacenza che ha dato i natali a Pier Luigi Bersani, così come a Reggi, De Micheli, Migliavacca, tutto è stato stravolto dalla corsa alla leadership di Matteo Renzi. Le strade dell’ex sindaco Reggi (coordinatore della campagna per le primarie del rottamatore) e degli altri tre illustri cittadini pd si sono divise drasticamente. E giù liti, baruffe, accuse, che a distanza di un anno dalle primarie si ripetono adesso, nel bel mezzo dei congressi provinciali e dei tesseramenti sospetti.
Così, la vicecapogruppo del Pd alla Camera, la lettiana di ferro Paola De Micheli, fa ricorso (insieme ad altri) alla commissione congresso per 4 casi di tesseramento gonfiato. E dice: «In questa settimana ce ne sono state anche altre, di crescite di tesseramento superiori alle percentuali consentite dalla circolare. Parliamo di un +177 per cento a Piacenza, +340 in Alta Val Trebbia. Nel Paese del candidato renziano gli iscritti sono aumentati del 1370 per cento!». Poi attacca: «Questa modalità di scalare il potere non ha nulla a che fare col Partito democratico. Vincere perdendo la faccia è peggio che perdere». I bersaniani in città narrano di scene mai viste da quelle parti: «C’è gente che ha detto “Mi han pagato la tessera, non mi costava niente venire”. Sono state portate ai seggi truppe cammellate di dipendenti spinti a votare dai loro datori di lavoro. Avevano disponibilità economiche, e le hanno usate».
Il regista di tutto questo è considerato proprio l’ex sindaco ed ex coordinatore renziano Roberto Reggi, che però dà una versione tutta diversa della storia. Intanto, il suo candidato, Gianluigi Molinari, sindaco di un paese di montagna al secondo mandato, ha vinto con il 53 per cento a livello provinciale. «Lo hanno sostenuto anche alcuni cuperliani e civatiani. Nulla è stato fatto contro le regole». Spiega, Reggi, che i suoi “nemici” «cercano solo di screditare un successo bello, pulito, di chi ha riportato a votare per il Pd una parte di coloro che lo avevano fatto l’anno scorso alle primarie». Perché «i numeri che dà la de Micheli si riferiscono alle tessere del 2012, quando gli iscritti erano crollati per la fallimentare gestione sua, di Bersani e Migliavacca. I numeri attuali sono del tutto in linea con il 2011. E ancora troppo al di sotto dei votanti delle primarie, che erano stati 17mila in provincia e 8mila nella sola Piacenza, mentre adesso abbiamo 2000 iscritti in provincia e 800 in città». E poi certo, «a Vernasca il sindaco ha vinto 145 a 1, ma quello è il suo comune!». Non ci sta, Reggi, a sentirsi accusare di illeciti: «Dicano i nomi perché io li ho visti con i miei occhi quelli che sono venuti. Le truppe cammellate, se ci sono state, non hanno certo votato per Molinari». Quanto alle accuse della deputata, di usare trucchi da prima Repubblica, la replica è ancora più dura: «Il vero vizio da prima Repubblica è quello di provare a delegittimare l’avversario politico, soprattutto quando vince con merito».
Insomma, a Piacenza non è più tempo di “tortelli magici”, nostalgiche pompe di benzina o cene tutti insieme in osteria. Se il buongiorno si vede dai congressi locali, alle primarie ci sarà da combattere.

Corriere 4.11.13
Alberghi e 30 mila euro in cene
Si dimette il capogruppo del Pd
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Cade la prima testa in quella da molti già ribattezzata «la grande abbuffata all’emiliana»: girandola di rimborsi, che definire «disinvolti» forse è poco, tra cene, hotel, qualche vestito, libri e perfino un gioiello comprato da Tiffany. Una bufera che squassa una delle Regioni «virtuose» per antonomasia, l’Emilia Romagna, dopo che la Procura della Repubblica ha indagato per peculato tutti i 9 capigruppo (dal Pd al Pdl, da Sel alla Lega, fino ai Cinque Stelle) dell’assemblea regionale.
Ad uscire di scena, rassegnando ieri sera le dimissioni, è Marco Monari, 52 anni, capogruppo in Regione del Pd, di cui è stato uno dei fondatori a livello regionale dopo una lunga militanza ai vertici della Margherita. Monari, che si è sfilato dalla carica di capogruppo, ma non da quella di consigliere regionale, sin dai primi momenti dell’inchiesta condotta dalla Finanza e poi sfociata nell’inchiesta della Procura sulla gestione dei rimborsi in Regione tra il giugno 2010 e il dicembre 2011, si è trovato in prima fila, esposto a tutti gli spifferi. A lui, stando a quanto emerso finora, vengono attribuiti rimborsi pari a 30 mila euro in 19 mesi per cene da 200 euro a testa in lussuosi locali di Bologna, e non solo. Tra i rimborsi chiesti dal capogruppo pd vi sarebbero anche alcuni pranzi per beneficenza. E, dato emerso negli ultimi due giorni, pure un soggiorno a Venezia: 2 notti in hotel per un totale di 1.100 euro (circostanza smentita perentoriamente dall’interessato, che non ha però chiarito chi avrebbe allora presentato il rimborso).
Monari, politico navigato, ha cercato fino all’ultimo di tenere duro, giurando di essere a posto «con la coscienza e con il diritto: non sono uno scialacquatore» e denunciando contro di lui «una gogna mediatica». Poi, incalzato dalla rabbia della base, che ha preso d’assalto a colpi di mail e fax la sede bolognese del Pd, ha cominciato a vacillare, prima dicendosi «pronto a un passo indietro», poi facendo slittare la decisione in un tempo indefinito («Prima voglio capire quali eventuali addebiti mi vengono contestati dai magistrati»).
Ieri sera invece, dopo che lo stesso sindaco di Bologna, Virginio Merola, lo aveva di fatto scaricato («Bisogna tener conto dello sdegno della base pd» le parole del primo cittadino), la resa: «In questa situazione — ha scritto Monari —, il rispetto che devo a me stesso, unito all’affetto per il Partito (la maiuscola è del capogruppo, ndr ) che ho contribuito a fondare, mi impone di lasciare immediatamente la guida del gruppo regionale». Un gesto, ha tenuto a sottolineare, che non intacca minimamente la sua linea difensiva: «Troppe dichiarazioni disinformate su indiscrezioni incontrollate mi convincono che il mio senso di responsabilità viene perfino interpretato come un tentativo di nascondere mie responsabilità personali che rivendico insussistenti».
Inchiesta in bilico tra indiscrezioni e sdegno popolare. I magistrati per ora non hanno notificato formalmente ai 9 capigruppo eventuali contestazioni sulla regolarità o meno dei rimborsi. Monari non è comunque solo in questa storia di spese «creative». Cene per circa 43 mila euro, con la carta di credito del gruppo, risultano rimborsate al capogruppo pdl Luigi Giuseppe Villani (arrestato nel 2013 a Parma per corruzione). E se si allarga il tiro a tutti i consiglieri regionali, si supera il mezzo milione di euro. Solo di cene.

«Letta blinda la Cancellieri “No alla sfiducia dei grillini” Ma il Pd: troppi buchi neri
E spunta l’ipotesi del rimpasto. Il Pdl: noi la difendiamo»
Repubblica 4.11.13
Pippo Civati attacca: “Con lo spauracchio della crisi si mette il silenziatore a qualunque diversità di opinione”
“Davvero tanti imbarazzi nel mio partito lei avrebbe dovuto rimettere il mandato”
intervista di Umberto Rosso


ROMA — «No, non mi è piaciuta l’autodifesa della Cancellieri. E nel mio partito, o sono troppo taciturni o troppo imbarazzati».
Eccesso di prudenza nel Pd, onorevole Civati?
«Ci sono quelli che se ne stanno zitti, per paura di interferire con il governo e metterlo nei guai. E quelli che, come Epifani o come il responsabile giustizia Leva, sollevano il caso ma senza trarne fino in fondo le conseguenze. Ma, se è grave, è grave. Bisogna prenderne atto. Senza traccheggiare, e con un’assunzione di responsabilità».
In che modo?
«Meglio avrebbe fatto il Guardasigilli a rimettere subito il suo incarico a disposizione del presidente del Consiglio. Poi, sarebbe stato Letta a decidere il da farsi. Come è avvenuto del resto con Josefa Idem, che abbiamo sacrificato sull’altare della legalità, giustamente».
Il governo difende la Cancellieri.
«Ci chiederà di salvarla, come è successo con Alfano. Ma io restomolto critico, con tanti dubbi sul comportamento del ministro, con troppe zone d’ombra e poco lineare. Prima e dopo: quando è intervenuta per la scarcerazione della Ligresti e adesso che la rivendica. Senza un briciolo, quanto meno, di umiltà e di ripensamento».
Voterà allora la mozione di sfiducia dei grillini?
«Materia incandescente, votare a favore di una richiesta che arriva dall’opposizione non è mai affare semplice. Mi pare quasi di sentirle già, le accuse: il solito Civati che spera di far cadere il governo sfruttando il caso Cancellieri».
Invece?
«Invece con lo spauracchio della crisi di governo si mette il silenziatore a qualunque diversità di opinione, diventa “sospetto” chiedere che un ministro coinvolto in una storia imbarazzante rassegni il mandato. Ma i nostri elettori la pensano in un altro modo».
Quale sarebbe?
«Io sono in corsa per la segreteria del partito, giro per l’Italia. Sento che la nostra gente è inferocita per la vicenda Cancellieri. Una storia che è lo specchio del solito rapporto privilegiato fra potenti, il paradigma del rapporto fra politica e società, e stavolta coinvolge un ministro di esecutivo targato anche Pd. Nel paese degli amici degli amici, del conflitto di interessi, della casta, la nostra base non giustifica i rapporti della Cancellieri con i Ligresti, personaggi al centro di inchieste giudiziarie, e il suo intervento in loro favore».
Dettato da ragioni umanitarie, ha spiegato il ministro.
«Per favore, basta con le ipocrisie. O lo fa per tutti o per nessuno. Siccome il numero di telefono del ministro è nell’agenda di pochi fortunati, e non certo delle centinaia di detenuti che soffrono in carcere, il bel gesto del Guardasigilli mi pare proprio mirato e amicale. Sarebbe stato imbarazzante pure in Svezia, figuriamoci in Italia. Con quelle frasi che saltano fuori nelle intercettazioni...».
A cosa si riferisce?
«Un ministro che parla di arresti disposti dalla magistratura come “la fine del mondo”, che si mette a disposizione dicendo “contate su di me”, non mi pare proprio faccia una bella figura».
Ce l’ha con la Cancellieri?
«Nessuna avversione personale da parte mia nei confronti del ministro, e nessun “secondo fine” per mettere in difficoltà il governo. Ma devo dire che mi ha deluso anche la sua autodifesa, il rivendicare con orgoglio quel che è successo e confermare che avrebbe tranquillamente rifatto tutto quanto. Un po’ di autocritica non farebbe male».

Repubblica 4.11.13
Se anche il carcere divide i ricchi dai poveri
di Chiara Saraceno


Forse a Giulia Ligresti non occorreva neppure l’interessamento della ministra della Giustizia Cancellieri perché il tribunale valutasse il suo stato di salute come troppo rischioso per la sua incolumità psico-fisica e quindi ne decidesse la scarcerazione. Bastava la sua condizione di persona ricca e privilegiata, non abituata quindi ai disagi. Secondo la perizia medica alla base della decisione del tribunale, infatti, proprio la sua condizione di persona abituata ai privilegi e agli agi l’ha resa particolarmente inadatta a sostenere l’esperienza carceraria. Secondo il perito, Giulia Ligresti soffriva “di un disturbo dell’adattamento, che è un evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima detenzione e in particolar modo per chi sia abituato a una vita particolarmente agiata, nella quale abbia avuto poche possibilità di formarsi in situazioni che possano, anche lontanamente, preparare alla condizione di restrizione della libertà e promiscuità correlate alla carcerazione».
Se ne deduce che invece chi non è abituato a una vita particolarmente agiata ha più facilità ad adattarsi alle condizioni di vita in carcere. Ne deriva, per seguire fino infondo la logica di questo ragionamento, che l’istituzione carceraria deve essere particolarmente attenta ai bisogni e alle difficoltà di chi arriva in carcere da una vita di privilegi. Una attenzione che invece non è necessaria nei confronti dei poveri cristi che ci arrivano da vite modeste. Le “difficoltà di adattamento” di questi ultimi, e più generalmente il loro malessere, devono essere molto più vistosi per avere una possibilità di essere presi in considerazione. E non sempre ciò basta, proprio perché mancano loro le conoscenze, il know how, per mobilitare perizie e richiamare l’attenzione. Se poi, oltre a non essere agiate, presentano anche qualche tipo di vulnerabilità sociale (piccoli precedenti, tossicodipendenza, segnalazione ai servizi sociali e simili), le loro condizioni di malessere rischiano di essere sistematicamente ignorate o sottovalutate — qualche volta fino alla morte, come è avvenuto per il povero Cucchi: prima picchiato da chi lo aveva arrestato, poi lasciato morire dai medici per carenza di assistenza medica e per mancanza di cibo e di liquidi.
La ministra Cancellieri afferma di essere intervenuta per motivi umanitari e di averlo fatto in un altro centinaio di casi rimasti sconosciuti e riguardanti sconosciuti. Sarà sicuramente vero. Ma proprio per questo preoccupante, soprattutto se messo insieme alle argomentazioni del perito del caso Ligresti. Segnala che, nel girone infernale delle carceri italiane, la possibilità che i detenuti continuino a essere considerati esseri umani con diritto alla dignità e integrità personale e alla cura è affidato — come nell’ancien régime — alla discrezionalità di chi ha il potere di accogliere una supplica o ai privilegi riconosciuti alla ricchezza e allo status sociale — incluso il privilegio di vedersi riconosciuto un plus di vulnerabilità e sofferenza. Quanti altri detenuti si trovano in condizioni di “disadattamento grave” alle condizioni carcerarie, ma non hanno modo di attirare l’attenzione della ministra, o non viene loro neppure in mente di poterlo fare, e non sono abbastanza agiati da sollecitare la comprensione di un perito? Se non affronta l’ineguale diritto all’umanità dei detenuti nelle carceri italiane, il diritto alla propria umanità rivendicato dalla ministra non è altro che la rivendicazione del diritto alla discrezionalità benevola in assenza di diritti e garanzie per tutti.

Corriere 4.11.13
Tra i dem la (vera) prova è sul sostegno al governo
di Alessandro Trocino


ROMA — «Nessuno strumentalizzi, neanche dentro il Pd». La frase di Danilo Leva, responsabile giustizia dei Democratici, esplicita quello che già si intuiva, e cioè che nel caso Cancellieri ha fatto irruzione la campagna congressuale. Se la linea ufficiale è quella di non condannare né assolvere, in attesa delle spiegazioni di domani alle Camere, monta sempre di più un’ala intransigente, nell’area di riferimento di Matteo Renzi (ma non solo), che chiede le dimissioni del ministro. Richiesta che all’ala che sostiene con più convinzione il governo delle larghe intese non sembra esente dal retropensiero di un indebolimento dell’esecutivo. Domani Guglielmo Epifani riunisce la segreteria, e si parlerà anche di questo, oltre che della questione tessere.
Significativo l’intervento di Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi: «È una vicenda molto seria ma non sono per il ‘fuori subito’, come sostengono altri. Non vorrei che si utilizzasse questo episodio per colpire il governo. Sarebbe scorretto». Paola De Micheli, il caos congressuale lo chiama «entropia»: «Un tasso di confusione crescente, che non aiuta. Ma io sono convinta della buona fede del ministro e se martedì confermerà le cose dette da Caselli, il caso sarà chiuso».
Può darsi. Ma le richieste di dimissioni sono già arrivate da esponenti di aree diverse: Pina Picierno, Ernesto Carbone, Pippo Civati, Felice Casson. Tra i renziani i toni si alzano. Antonio Funiciello, responsabile comunicazione e cultura del Pd, non fa sconti: «Vogliamo sapere da lei quando è intervenuta, per quali altri casi e in base a quali criteri. Ci deve dare spiegazioni convincenti». Certi paralleli non lo convincono: «Come si fa a paragonare una signora che ha commesso un gravissimo reato con un economista ucciso dalle Br, come Marco Biagi?».
Michele Anzaldi spiega che bisogna tenere conto anche della base, indignata: «Mi pare che la Cancellieri sia abbastanza indifendibile. Al Pdl forse la cosa non scandalizza, ma noi abbiamo un codice deontologico preciso. La Idem, per esempio, avrebbe potuto anche non dimettersi, ma invece ha fatto un passo indietro. Qui stiamo parlando di un ministero pesante, la Giustizia, e stiamo parlando di una famiglia che ha commesso una frode grave, che lascia il segno e che ha fatto sparire un’assicurazione, creando pesanti ripercussioni economiche. Certi paragoni che ho sentito non esistono: la Ligresti non è una vittima».
Naturalmente, lo schematismo delle correnti non funziona sempre. E così Dario Nardella, che pure è renziano, sostiene che il ministro ha già dato sufficienti spiegazioni e la difende. E Sandro Gozi, che da Marino si è avvicinato da tempo al sindaco di Firenze, è molto più morbido: «La Cancellieri ha tenuto un comportamento molto imprudente, ma non mi risulta che abbia fatto pressioni dirette su chi era deputato a decidere. La sua è un’imprudenza che non deve costare le dimissioni. Mi piacerebbe, invece, che questa indignazione generale accelerasse la riforma sulla custodia cautelare».

l’Unità 4.11.13
Noi e la Prima Repubblica: una storia capovolta
di Carlo Galli


Come si fa a non concordare con Galli della Loggia quando sostiene che non c’è politica se il partito su cui si regge il sistema italiano il Pd, dato che la destra pur socialmente fortissima è politicamente quasi inesistente non è capace di affrontare apertamente la complessità della storia repubblicana? Se, in altre parole, non si fa carico del compito di ripensare l’Italia, per rifarla?
C’è in questa tesi molto di buono: e in primo luogo c’è la percezione che la politica non è quell’attività ridicola, parassitaria, effimera, a cui oggi si è ridotta quando non è pura gestione tecnica -; che la politica non è ricerca di slogan, ma analisi della costituzione materiale di un Paese, individuazione delle dinamiche del presente, e delineazione di un realistico orizzonte di sviluppo. E che a questo scopo il partito è indispensabile (altro che partito leggero!), come sistema d’interpretazione accorta e partecipata come forza responsabile e ricca di sapere pratico, e anche di potere legittimo della storia, del presente e del futuro.
Certo, non si può essere d’accordo con Galli della Loggia quando riduce questo sapere pratico ad un atto d’ammenda che il Partito democratico in quanto erede della sinistra dovrebbe fare per le colpe passate della Prima repubblica, delle cui «scelte sbagliate» è corresponsabile. Ora, sulla responsabilità soggettiva c’è da avanzare una prima obiezione: il Pd non è l’erede del Pci (la sua componente cattolica è troppo forte per essere trascurata), e in ogni caso il Pci non ha mai avuto responsabilità dirette di governo, dopo il 1947 (altra cosa sono le responsabilità amministrative). Ciò non toglie, naturalmente, che la sinistra abbia esercitato una grande influenza sulla storia d’Italia, che ne sia parte e quindi anche (parzialmente) responsabile; ma certo maggior peso ebbe quella Dc di cui solo un settore, la sinistra, è confluita nel Pd, mentre il grosso delle sue file è divenuta la base (e anche il personale politico) di una destra che oggi è allo sbando ma che ha sulle spalle sia il ventennio berlusconiano sia larga parte delle disfunzioni della Prima repubblica.
Sulla stessa linea, va anche osservato che, per quanto si possa essere d’accordo sull’insufficienza dell’antiberlusconismo a sostenere e a legittimare una politica, non si possono tuttavia chiudere gli occhi davanti alle degenerazioni e alle patologie di cui Berlusconi è stato veicolo e promotore: insomma, il mea culpa non può riguardare solo la Prima repubblica, ma anche la seconda; non solo la sinistra ma anche la destra. Ma anche dal punto di vista oggettivo Galli della Loggia avanza tesi non del tutto condivisibili. Infatti, se il nostro passato democratico non è da lui identificato (giustamente) col crimine di Tangentopoli, lo è tuttavia (ingiustamente) con il clientelismo, il parassitismo, l’evasione fiscale di massa, il consociativismo, il debito pubblico. Ora, tutto ciò è la degenerazione della Prima repubblica, dalla morte di Moro (o forse anche da qualche anno prima) in poi; ed è vero che da quella degenerazione non ci siamo mai veramente ripresi, e che con essa non facciamo i conti se non nella sbrigativa vulgata neoliberista e neomonetarista che iscrive tutta la nostra storia passata nella rubrica dei peccati contro le sacrosante leggi dell’economia; ma anche in questo caso un’analisi non sommaria non può trascurare che il cuore della Prima repubblica, il suo significato storico, è stato avere promosso in Italia la prima democrazia civile e sociale della sua storia, fondata sull’antifascismo, sul ruolo dei partiti e dei sindacati, sulle libere istituzioni, e sul benessere diffuso grazie allo sviluppo dell’economia e all’espansione dello Stato sociale. La vera presa di coscienza collettiva necessaria alla rinascita del Paese una memoria affidata in primis, ma non esclusivamente, al Partito democratico non può dimenticare questo aspetto della storia d’Italia, e non può fare i conti soltanto con le sue degenerazioni. Né si può buttare l’acqua sporca della profonda corruzione della vita civile, che effettivamente ci tormenta, insieme al bambino della democrazia sociale, come ricordo di quanto abbiamo fatto e come orizzonte di quanto c’è ancora da fare. Senza la percezione della complessità non si fa né storia né politica, ma ideologia. E non vi è dubbio che di questa, nonostante le apparenze, ve ne sia oggi fin troppa: e tutta antipolitica, anti-istituzionale, anti-repubblicana. È proprio contro questa ideologia che devono combattere quanti giustamente sostengono che senza coscienza storica non c’è né politica né futuro.

Repubblica 4.11.13
Dal catto-comunismo all’odierno dialogo
di Mario Pirani


Con l’incontro epistolare fra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari una nuova stagione di riflessione ideologica reciproca si è aperta tra l’intellighentia laica e quella cattolica. È un evento di non poco momento che richiama vicende trascorse, destinate, foss’anche nella forma, ad un destino irripetibile. E in un certo senso lo sono, anche se i più anziani fra noi ricordano quell’intreccio di idee, di controversie, di passioni, messe continuamente alla prova, che dalla fine degli anni Cinquanta al Concilio Vaticano II tracciarono il profilo di quel rapporto fra cattolici e comunisti, unico in Europa, quasi intangibile da bordate devastanti, come la scomunica di Pio XII, l’ira di Cl, lo scontro politicamente predominante tra De Gasperi e Togliatti. Eppure quel rapporto da ogni cenere risorse, fino a quando non le maledizioni vaticane, ma il disgregarsi per ragioni endogene di quelle due “ecclesie” non ne dissolse l’empito dirompente. Si pensò allora che una Storia fosse esaurita e nuovi cammini si andassero approntando, in luogo di quel tracciato catto-comunista su cui per decenni quegli eserciti di popolo erano adusi a ricomporsi.
Oggi il parlare assieme e la sorprendente dimestichezza di un codice comune di comunicazione assume il carattere di una riscoperta e non parlo solo di epifanie giornalistiche, officiate da Francesco o dal fondatore diRepubblica ma da svariate iniziative che germogliano ovunque. Mentre a Milano studiosi di fede diversa intrecciano un dibattito su “Un’ economia a misura d’uomo”, a Roma l’Aspen, una fondazione internazionale radicata nel mondo anglo-sassone, riunisce a palazzo Lancillotti nella sua sede italiana un seminario presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi, con la partecipazione di uomini di impresa e studiosi laici di vario orientamento, da Giulio Tremonti a Luigi Bruni per affrontare il tema “Gratuità ed economia di mercato” sulla base di vari testi tra cui spiccavano recenti brani di Papa Francesco e di Benedetto XVI, del professor Stiglitz e del cardinale Turkson (“Per un’economia basata sulla logica del dono”), ecc.
L’originalità in confronto al passato sta nel fatto che un tempo i seguaci delle diverse dottrine avrebbero affrontato il dibattito ognuno nel proprio orto (ad esempio “Il pensiero sociale cattolico”), mentre giudizi e confronti si sarebbero incrociati all’esterno gli uni dagli altri. Ora, invece, l’elaborazione di un pensiero non solo economico profondamente rivisitato avviene all’interno di un unico crogiolo di passione e ricerca. Come rammenta Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, rifacendosi a un intervento del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni «dopo secoli di predicazione cristiana contro la “superstizione giudaica” e la vanità dell’attesa messianica, oggi la fedeltà ebraica diventa un modello per i cristiani e per l’umanità e questa è una svolta non improvvisa ma molto significativa, di cui anche gli ebrei dovranno prendere coscienza». Gli risponde il vescovo di Chieti: «L’altro non è minaccia ma ricchezza, non pericolo, ma possibile modello e dono. Gesù, ebreo di nascita e per sempre, non potrà non esser contento di questa parola di verità e di amore del Successore di Pietro. Gli odi fomentati dall’ideologia moderna, sono tragiche memorie del passato». È venuto ormai il tempo – scrive Francesco – e il Vaticano II ne ha inaugurato la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro con l’altro, con ogni altro».

Repubblica 4.11.13
Grillo sul blog attacca Scalfari: “Teme la nostra vittoria”


ROMA — «È iniziata l’invasione degli Ultrascalfari. La paura delle elezioni europee fa novanta e ogni colpo contro il M5S è lecito, meglio se sotto la cintura. Scalfari fa da apripista, da pennivendolo da sfondamento che con quell’età e quella barba può scrivere quello che vuole». Beppe Grillo attacca sul suo blog il fondatore di Repubblica che nel consueto editoriale domenicale, titolato “Se vince Grillo il paese va a rotoli”, ha criticato la campagna «di destra xenofoba e qualunquista» che i grillini stanno cavalcando in vista delle elezioni europee. «Si tratta di una campagna di destra, una destra xenofoba contro gli immigrati, qualunquista contro i partiti (tutti i partiti, nessuno escluso) e contro le istituzioni, dal capo dello Stato al presidente del Consiglio ai ministri (tutti ministri) e contro la magistratura e la Corte costituzionale», ha scritto Scalfari.

l’Unità 4.11.13
Il doppio no di Bersani al Cavaliere che chiuse la grande trattativa
In «Giorni bugiardi», da mercoledì in libreria, i collaboratori dell’ex segretario Pd raccontano la partita a scacchi col Pdl sulla formazione del governo e sul Quirinale
di Stefano Di Traglia e Chiara Geloni


La verità è che nemmeno nell’incontro col Pdl Bersani riscontra opposizioni rispetto alla legittimità del suo tentativo di formare un governo. Anzi, il centrodestra ritiene che spetti a lui e a nessun altro insediarsi a Palazzo Chigi. Non ci sono obiezioni, interpretazioni del risultato elettorale che giustifichino pareri diversi; ci sono solo due condizioni. Dice Bersani: «Berlusconi aveva chiaro molto più di tanti osservatori quale era stato il risultato elettorale. Sapeva benissimo quello su cui i numeri non lasciavano alcun dubbio, cioè di essere arrivato terzo. Sapeva che, al di là della propaganda, la famosa “rimonta” è stata nient’altro che un effetto ottico: un rimbalzo che ha avvicinato Pd e Pdl ma che è dovuto al fatto che il Movimento 5 Stelle ha tolto voti al Pd. Gli uomini del Pdl avevano capito molto bene di aver perso le elezioni, anche se certo non gli è dispiaciuto che tanti dei nostri enfatizzassero l’idea che le avevamo perse noi. Questo infatti ha rafforzato la loro vera battaglia, che nelle condizioni date aveva due obiettivi: ottenere la presidenza della Repubblica, o in subordine ottenere un governo di larghe intese. Noi purtroppo, con le nostre scelte successive, gli abbiamo consentito di portare a casa il secondo obiettivo e di lasciare per così dire in sospeso il primo».
«Noi», cioè il Pd. Ma non Bersani, che da premier incaricato aveva risposto no su entrambi i fronti. Naturalmente Berlusconi, noblesse oblige, alle consultazioni manda Alfano. (...) Bersani fa il solito cappello introduttivo, dichiara la sua intenzione, considerato il risultato elettorale, di cercare tra le forze politiche «il più alto grado di corresponsabilità che possa risultare credibile agli occhi del Paese». Significa, spiega, che un governo che veda insieme Pd e Pdl non sarebbe, a suo giudizio, una giusta interpretazione delle scelte degli elettori e apparirebbe una soluzione «politicista» e inadeguata alla richiesta di cambiamento. Al centrodestra Bersani propone dunque un «doppio binario»: da una parte, una comune assunzione di responsabilità e un reciproco riconoscimento tra tutte le forze politiche per dar vita a una convenzione costituzionale che consegni alle Camere, in tempi certi, un progetto di riforma istituzionale ed eventualmente della legge elettorale. Dall’altra, un governo che si occupi delle emergenze sociali, della moralizzazione della vita pubblica e della riforma della politica, «aperto alla partecipazione di figure indipendenti» rispetto al quale le forze politiche si assumano la responsabilità, a seconda di quanto ritengono, o di farlo nascere o di non impedirne la formazione. Bersani fa capire che la guida della Convenzione in questo caso potrebbe spettare a un esponente del centrodestra; e che nella scelta dei ministri lui terrebbe conto di tutte le sensibilità presenti in Parlamento.
Alfano dà atto al Pd e al suo segretario della coerenza della proposta, ma ritiene difficile da giustificare di fronte al suo elettorato un via libera al governo guidato da Bersani. Diverso sarebbe, ecco il punto, se Bersani fosse disponibile a governare insieme al centrodestra: in quel caso il sostegno al leader elettorale del centrosinistra non incontrerebbe alcun ostacolo. O in alternativa, le cose potrebbero cambiare se Bersani fosse disposto a condividere fin da subito un accordo sul nome del prossimo presidente della Repubblica: scelto nel campo del centrodestra, s’intende. Nomi nel colloquio ufficiale non ne vengono pronunciati, ma Bersani sa bene che quello che ha in mente Berlusconi è uno solo, ed è quello di Gianni Letta.
(...) Bersani ribatte che il governo di larghe intese favorirebbe il dilagare del consenso alle proposte più populiste. Inoltre, afferma che uno scambio Pd-Pdl tra presidenza del Consiglio e presidenza della Repubblica sarebbe semplicemente «non presentabile» all’opinione pubblica. Diverso è dire che le istituzioni appartengono a tutti e che è quindi necessario condividere la scelta dei vertici. (...)
Alle 19.49 sulle agenzie esce una dichiarazione di Alfano. È l’ultimo appello: «Bersani si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato. Sta a lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e può». Alle 20.12, l’Ansa batte una notizia di tre righe, una dichiarazione anonima che facciamo filtrare come “fonti del Nazareno”: «Se il Pdl vuole una trattativa sul Quirinale, noi non ci stiamo».
La mattina dopo nella Sala del cavaliere sono attese le delegazioni dei partiti della coalizione Italia bene comune. Siamo tra amici, il tentativo di formare il governo è sostanzialmente già saltato, si parla ormai di quello che succederà dopo. Bruno Tabacci e Giovanni Maria Flick, nell’incontro con il Centro democratico, fanno questa analisi: nessun governo può nascere in questa situazione parlamentare, finché non ci sarà un presidente della Repubblica con i pieni poteri, in particolare quello di scioglimento. Lasciano intendere che sarebbero opportune le dimissioni anticipate di Napolitano in modo che sia il suo successore a concludere la vicenda. Non sembra essere una critica al presidente in carica, che anzi tutti si dicono pronti a rieleggere, se solo volesse. Si parlerà a lungo di questo scenario nei giorni successivi, ma poi Napolitano deciderà diversamente: niente dimissioni anticipate, saranno nominati i “saggi” e l’incarico di Bersani resterà questione nelle mani del suo successore. Infine arrivano Roberto Speranza e Luigi Zanda. Il giovanissimo capogruppo alla Camera, alla fine del colloquio, quando è già in piedi per uscire, prende da parte il segretario e gli dice, a voce bassissima: «Fallo tu Pier Luigi il governo di larghe intese. Sarà più facile da gestire con la nostra gente. E poi sono in tanti, anche i più vicini a noi, che mi chiamano per dirmi di chiedertelo...». Il presidente incaricato gli mette un braccio sulla spalla. E gli dice che pensa ancora che il governissimo si possa evitare. E comunque la sua risposta a questa richiesta è ancora una volta quella di sempre: «No».

il Fatto 4.11.13
D’Alema, Renzi e il delitto (politico) di Bersani
Un libro ricostruisce gli ultimi giorni da leader dei democrat. E fa i nomi dei “mandanti”
di Wanda Marra


Come insegnano i grandi giallisti, per individuare l’assassino bisogna innanzitutto capire chi ha il movente”. Semplificando, l’assassinio (politico) è quello di Pier Luigi Bersani, i giallisti sono due fedelissimi dell’ex segretario del Pd, Stefano Di Traglia, ex portavoce e spin doctor, e Chiara Geloni, direttrice di You Dem e gli indiziati principali, oltre a un partito infido e assente, soprattutto due: Matteo Renzi e Massimo D’Alema. Giorni Bugiardi in libreria da dopodomani, è un resoconto dichiaratamente parziale che va dalle primarie 2012, alle elezioni, alla partita del Quirinale.
IL FILO ROSSO del racconto rimane uno: le gesta di Bersani sono state dettate sostanzialmente da lungimiranza e generosità politica, chi non è stato al-l’altezza delle aspettative è il Pd. Geloni e Di Traglia ricostruiscono comportamenti ambigui, disseminano indizi. Riflette Bersani: “È l’unanimità che carica la molla del tradimento. Si accumulano ammaccature e ombre, e alla prima occasione… Io ho avuto l’unanimità quasi sempre, pur non chiedendola mai: non so bene perché”. E allora, a proposito di unanimità, ecco la mattina del Capranica e l’ovazione con cui si arrivò alla candidatura di Prodi al Colle (mentre nelle intenzioni del segretario si sarebbe dovuta svolgere una conta tra lui e D’Alema), momento clou di una serie di eventi, che vanno dalla sera in cui venne proposto Marini a quella in cui si dimise Bersani. L’opposizione dell’ex Rottamatore alla candidatura di Marini viene così chiosata: “A tanto zelo antimariniano non corrisponde però un’analoga indignazione verso la possibilità che il nome su cui si finisca per convergere sia invece quella di un altro bersaglio storico della rottamazione…. Massimo D’Alema… Ma da tempo tra il sindaco e l’ex premier qualcosa sta cambiando”. Ecco riportate le considerazioni di Luigi Zanda poco prima che inizi la riunione al Capranica: “Ma se parte l’applauso quando tu dici…’. Bersani è irremovibile: ‘Si vota lo stesso’. ‘I renziani ci mandano emissari a dire che loro vogliono acclamare…’, insiste timidamente Zanda. Bersani scrolla le spalle”. Le primarie non si fanno perché i grandi elettori acclamano Prodi, con il renziano Marcucci “che si distingue per foga”. E D’Alema? Raccontano gli autori che il suo nome non venne mai fatto, nelle trattative con il Pdl, ma anche che lui era convinto che avrebbe avuto la maggioranza tra i grandi elettori. Altro passaggio chiave: “Perché i dalemiani non chiedono il voto segreto nell’assemblea che acclama Prodi? Perché alzano la mano a favore di Prodi quando Bersani chiede che ci sia almeno un voto palese Il motivo è forse lo stesso per il quale noi non sappiamo a chi fare queste domande: in tutta questa vicenda nessuno s’intesta la battaglia di D’Alema al Quirinale”. Il libro è un atto di accusa continuo: verso Sel, che si sfila appena può, verso Beppe Grillo, che si racconta inseguito nella fase del governo del cambiamento in tutti i modi possibili, incluso suo dentista come intermediario (“In Liguria si cercano contatti a tutto campo… anche Renzo Piano è della partita”), verso il Pd, verso i media, accusati di non capire e di non sostenere (Repubblica “il 27 febbraio mette letteralmente alla porta Bersani”). Non mancano ricostruzioni inedite. Come le lettere segrete in cui Napolitano avrebbe ribadito di non avere alcuna intenzione di accettare un reincarico. L’artefice della rielezione di Re Giorgio (dipinto non come un amico, ma neanche come un nemico) nel libro è ancora Bersani: “Io stasera mi dimetto e domattina vado da Napolitano a chiedergli di restare”, dice l’ex segretario un minuto prima di andarsene. Nessun veleno all’indirizzo di Enrico Letta.
SOLO UN ANEDDOTO in cui si sottolinea la sua vicinanza calcistica a Berlusconi: “Il Cavaliere durante le trattative per il Colle rivela a Bersani e Letta di essere sul punto di sostituire Seedorf….’ mi sembrò che Enrico fosse preoccupato’, rise Bersani”. Su tutte l’interpretazione di Migliavacca sui 101: “C’era chi voleva chiudere l’esperienza Bersani e c’era chi riteneva irrealistico il governo di cambiamento e voleva il governissimo”. In questo racconto di parte l’autocritica è al minimo, il rimpianto al massimo. Come in quell’immagine, rimasta nel mondo dei sogni: “Pochi giorni dopo questi fatti, il 12 maggio, si svolge a Piacenza il Raduno nazionale degli alpini: immaginiamo il palco d’onore col presidente della Repubblica, Franco Marini, la piuma sul cappello degli alpini di Barisciano e la pipa spenta, e accanto a lui il nuovo presidente del Consiglio, alla prima uscita pubblica, proprio nella sua città… Scherzi della fantasia, cose da non pensare”.

La Stampa 4.11.13
“Nei 101 contro Prodi c’erano anche i renziani”
In un libro dei due collaboratori di Bersani i retroscena su Colle e formazione
del governo. “Napolitano spiegò che la sua rielezione era una non soluzione”
di Fabio Martini

qui

Corriere 4.11.13
Bersani, trappole e congiura «Per parlare con Grillo chiese aiuto a un dentista»
I «fedelissimi» raccontano la caduta del leader
di Aldo Cazzullo


C’è Enrico Letta che, nel giorno della rielezione di Napolitano, confida ai presenti nella stanza di Bersani: «Sono stato a Pisa dai miei la scorsa settimana, mia madre mi ha detto: “Fate di tutto ma il governo con Berlusconi no…”». C’è Massimo D’Alema che non entra nella partita per il Quirinale — «nessuno lo propone mai, nessuno pronuncia il suo nome» — ma è sospettato («anche se non abbiamo prove») di essersi accordato con Matteo Renzi per «togliere di mezzo Bersani», anche affossando Prodi: «È convinzione comune di chi conosce la composizione dei gruppi parlamentari che in nessun modo sia possibile raggiungere la cifra di 101 o più grandi elettori dissenzienti, senza includere nel conteggio i 41 renziani che alla prima votazione avevano rifiutato di votare Marini e avevano scelto (dichiarandolo pubblicamente) Sergio Chiamparino».
Soprattutto, ci sono la fedeltà e l’ammirazione verso Pier Luigi Bersani al centro di «Giorni bugiardi» (Editori Riuniti), il libro che Stefano Di Traglia, portavoce dell’ex segretario Pd, e Chiara Geloni, direttore di Youdem Tv, mandano dopodomani in libreria. Una lealtà che induce talora a qualche forzatura (chi scrive è convinto che la gran parte dei renziani abbia votato Prodi). Ma non c’è dubbio, a leggere le bozze, che il libro sia destinato a far discutere, oltre ad arricchire di notizie e dettagli inediti i mesi decisivi tra le primarie dell’autunno 2012 e la nascita del governo Letta.
«Arriverai terzo» manda dire D’Alema a Bersani. Anche Letta, Franceschini, Bindi, Finocchiaro cercano di dissuaderlo dalla scelta di indire le primarie per la candidatura a Palazzo Chigi, con un’argomentazione che lo stesso Bersani riassume così nel libro: «Il partito non è tuo, non puoi esporlo a un tale rischio, ci porti al disastro». La Bindi in particolare insiste: «La verità è che tu non hai voglia di andarci, a Palazzo Chigi». «Oggi — conclude l’ex segretario — rifletto anche sul fatto che è l’unanimità che carica la molla del tradimento».
Dopo la vittoria dimezzata alle elezioni, Bersani ottiene l’incarico di formare il governo e avvia le consultazioni. Tenta invano di incontrare anche Grillo, gli fa sapere di essere disposto a raggiungerlo a Genova; nella mediazione vengono coinvolti pure Renzo Piano e il dentista dell’ex comico. Alfano propone un accordo — Quirinale al Pdl e Palazzo Chigi a Bersani; in second’ordine, Bersani premier di un governo di larghe intese — ma riceve due no. Per definire la partita del Colle, Bersani vede pure Berlusconi (definito da Di Traglia e Geloni «bravissimo a fare politica»), che si abbandona a confidenze sui guai giudiziari, sul fidanzamento «con relativa suocera» e sul Milan, annunciando di voler cacciare Allegri per sostituirlo con Seedorf. I soli nomi con cui si ragiona sono Amato, Mattarella e Marini; alla fine il Pdl indica il terzo.
Le drammatiche notti in cui naufragano prima la candidatura di Marini poi quella di Prodi sono raccontate nei dettagli. Napolitano scrive una serie di lettere riservate in cui spiega i motivi per cui rifiuta di essere rieletto, e cambierà idea solo dopo le sollecitazioni ricevute dai presidenti di Regione (compresi i leghisti Maroni e Zaia), «forse» da Mario Draghi e «forse anche» dalla Casa Bianca. D’Alema preme su Bersani perché i grandi elettori del centrosinistra decidano in una sorta di primarie la candidatura comune, Bersani gli risponde: va bene, «ma io dico per chi voto», cioè per Prodi. Allora, si chiedono gli autori, «perché i dalemiani non chiedono il voto segreto nell’assemblea che acclama Prodi? Perché alzano la mano a favore di Prodi quando Bersani chiede che ci sia almeno un voto palese?». Ancora una volta l’unanimità si rivela una trappola per il segretario.
Bersani è raccontato come un uomo lasciato solo dai suoi nel contrastare l’onda dell’antipolitica, dando segnali di coraggio che distinguano il Pd dagli altri partiti. C’è anche qualche metafora inedita e di non immediata comprensione — «quelli che hanno le volpi sotto l’ascella», «le smerluzzate che si prendeva Stefano Fassina» —, e una citazione che Bersani, scrivono con affettuosa ironia gli autori, «giura essere di Richelieu»: «Ho rincorso il mio obiettivo di spalle, come fanno i vogatori». E ci sono pagine malinconiche che raccontano quel che poteva essere e non è stato: il ritrovamento negli scatoloni dei traslochi di «200 schede dettagliatissime» sui provvedimenti che avrebbe preso il governo di cambiamento, dalle unioni gay allo ius soli al divorzio breve; e il «sogno» degli autori di vedere alla festa degli alpini, convocata proprio a Piacenza all’indomani delle votazioni per il Quirinale, il presidente Marini con il cappello piumato accanto al suo neopremier Bersani.

Corriere 4.11.13
Diritto d’asilo, uno sportello in Africa
di Luigi Manconi

Presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato

Caro direttore, la strage di Lampedusa del 3 ottobre impedirà forse di chiudere ancora gli occhi davanti a un dato di realtà che non può più essere rimosso. Nel corso di un quarto di secolo, ogni giorno in quel mare sono morti mediamente 6-7 fuggiaschi che cercavano di raggiungere il continente europeo. Quel tratto di mare è ormai un cimitero, una tomba liquida e una trappola mortale. Dunque, è proprio lì che bisogna guardare per evitare che quella macabra contabilità di morti si perpetui. Qualche giorno fa, insieme al Sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini ho presentato al Capo dello Stato un piano per la «ammissione umanitaria». Il progetto è semplicissimo, anche se di ardua realizzabilità, e si fonda su un dispositivo elementare: se il principale attentato all’incolumità è rappresentato da quei viaggi illegali nel Mediterraneo, va fatto in modo che quel tragitto possa realizzarsi in condizioni di sicurezza. Dunque, va anticipato geograficamente il momento e il luogo in cui è possibile chiedere all’Italia e ai Paesi europei una misura di protezione temporanea. Deve essere possibile, cioè, formulare quella richiesta e indirizzarla all’Unione Europea già nei Paesi di partenza o in quelli di transito. Si tratta, in sostanza, di ricorrere a un piano di reinsediamento, come già si fa per i profughi siriani, e al riconoscimento di una forma di protezione, a partire da un territorio precedente la traversata del Mediterraneo. Quest’ultimo progetto è previsto (direttiva Ue 2001) in presenza di un «afflusso massiccio di sfollati», ovvero di persone che hanno dovuto abbandonare la propria terra a causa di una persistente situazione di guerra o di violazione dei diritti umani.
Una volta riconosciuta la sussistenza delle condizioni per la protezione temporanea, l’Unione Europea definirà le quote di accoglienza per ciascuno Stato membro.
La procedura per il riconoscimento di quella protezione deve avvenire — questo è il punto fondamentale — direttamente nei Paesi rivieraschi della sponda sud del Mediterraneo e deve attuarsi attraverso il Servizio europeo per l’azione esterna e la rete delle ambasciate e dei consolati degli Stati membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali. Questo comporta la realizzazione di presidi dell’Ue, così che in quei Paesi — Egitto, Giordania, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco e, se ve ne sono le condizioni, Libia — si possa avviare la procedura di concessione della protezione temporanea. A questo punto, l’arrivo in Europa per quei profughi potrebbe avvenire con mezzi legali e sicuri, direttamente dal presidio internazionale al Paese di destinazione, individuato tenendo conto del regolamento Dublino III che considera l’eventuale presenza di familiari.
Ovviamente, la misura di protezione temporanea non precluderebbe la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato nei singoli Paesi. Tutto ciò ricorrendo al Fondo europeo per i Rifugiati e a quello per la Protezione civile.
Conosco bene l’obiezione: questo piano potrebbe funzionare se l’Europa lo condividesse. Appunto. Ma non c’è alternativa: o l’Unione Europea prende in considerazione un simile progetto o qualcosa che gli assomigli, oppure l’intera responsabilità di quel flusso di profughi ricadrà ancora sull’Italia. Dunque, questa è l’occasione e questo è il piano (o uno con le stesse finalità) in grado di verificare quanto l’Unione Europea sia davvero propensa ad accettare la «condivisione» alla quale l’Italia la sollecita e alla quale dice di essere disponibile. Se uno spiraglio si aprisse, è proprio lì, in quei Paesi dell’Africa, prima che inizi quella traversata maledetta, che una politica europea di accoglienza può fare le sue prove. Non avremo eliminato il traffico di esseri umani, ma certamente avremo ridotto le dimensioni di quella ecatombe marina.

Repubblica 4.11.13
Il Paese che perde i suoi giovani
di Ilvo Diamanti


LA FUGA dei cervelli. È la formula usata per evocare la migrazione di tanti giovani italiani, ad alto profilo professionale e scientifico, verso altri Paesi. Non solo europei. Dove trovano occupazione e riconoscimento. Fuga dei cervelli. È un’espressione che non mi piace. Perché i cervelli, nei Paesi liberi, sono liberi. E oggi possono sconfinare ovunque, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione. L’unica gabbia che possa imprigionarli è il loro corpo.
Se i “cervelli” se ne vanno dall’Italia è perché fuggono dal loro “corpo”. Troppo vecchio per permettere loro di esprimersi. O almeno: di “operare”. Di utilizzare la loro opera. L’Italia è un Paese vecchio (dati Istat, 2012). Il più vecchio d’Europa. Dopo la Germania, che, però, può permettersi di invecchiare perché attira i giovani migliori dagli altri Paesi. Compreso il nostro. Il problema è che noi non ci accorgiamo di invecchiare. Perché siamo sempre più vecchi. Così ci immaginiamo giovani, sempre più a lungo. Fino a 40 anni. E rifiutiamo di invecchiare. Secondo gli italiani — come ho già scritto altre volte — per dirsi vecchi occorre aver superato 84 anni (indagini Demos). Considerata la durata media della vita, dunque, in Italia si accetta di essere vecchi solo dopo la morte. I giovani, in Italia, sono sempre di meno. Come i figli. Il tasso di fecondità per donna è 1,4. Fra i più bassi al mondo. Se il nostro declino demografico si è interrotto, da qualche anno, è per il contributo fornito dagli immigrati. Che, tuttavia, non hanno modificato la nostra auto-percezione. Perché Noi continuiamo a invecchiare e a far pochi figli, mentre Loro sono giovani e fecondi. In altri termini, abbiamo riprodotto i confini al nostro interno nei confronti degli Altri. Gli immigrati, infatti, restano Stranieri, anche quando sono italiani, da più generazioni. Anche quando diventano ministri… Così invecchiamo senza accorgercene e senza accettarlo. Investiamo le nostre risorse nell’assistenza e nella sanità, com’è giusto. Molto meno nella scuola, nella formazione, nell’università (da qualche tempo ho cominciato a scriverla con l’iniziale minuscola). Cioè, nei giovani. Nei figli. Nel futuro. A loro — ai figli e ai giovani — ci pensano gli adulti. In fondo, quasi 8 italiani su 10 fra 18 e 38 anni (e quasi 3, fra 30 e 34 anni) risiedono con i genitori (Istat, 2011). Sottolineo: non “vivono” ma “risiedono”. Cioè: fanno riferimento a un’abitazione e a una famiglia, per affrontare una biografia sempre più precaria e intermittente. I dati, a questo proposito, sono espliciti e crudi. L’Italia è il Paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile in Europa. Oltre il 40% (fra 15 e 24 anni), in ulteriore crescita nel 2013. Nelle regioni del Mezzogiorno raggiunge quasi il 50%. Non solo, l’Italia è anche il Paese dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Circa 2 milioni: il dato peggiore, nei paesi dell’Ocse, dopo il Messico. I giovani: una generazione precaria e disoccupata. Sono pochi e non scendono più in piazza, come un tempo. Così, non hanno peso politico. I genitori, sempre più anziani, si incazzano, per questi figli senza futuro. Ma in fondo, anche se in modo inconsapevole, non ne sono del tutto dispiaciuti. Perché, senza di loro, i figli non potrebbero affrontare un percorso tanto precario. Ma se i figli (unici) si staccassero dalla famiglia troppo presto e in modo definitivo, loro — i genitori — resterebbero soli.
Così, i giovani, peraltro sempre più adulti (la sociologia delle generazioni ha coniato il neologismo (quasi un ossimoro) “giovani adulti” per definire coloro che hanno 30-35 e perfino 40 anni), emigrano. Se ne vanno altrove. Di certo, non debbono affrontare l’esodo drammatico dei disperati che partono dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, stipati nei barconi. Per fuggire dalla guerra e dalla povertà. I “nostri” giovani se ne vanno con il sostegno delle famiglie. Addestrati da periodi di studio all’estero (Master, Erasmus), trascorsi durante e dopo l’università. Cercano e spesso trovano occupazione. In alcuni casi, di livello elevato. Perché i “giovani cervelli”, in Italia, sono formati da un sistema scolastico e universitario che, nonostante gli sforzi per logorarlo, ancora resiste. E produce laureati e post-laureati di qualità. Apprezzati. Fuori dall’Italia. Così si spiega la crescita continua degli italiani che si trasferiscono all’estero. Quasi 80 mila, nel 2012, secondo le stime ufficiali (dati Aire elaborati da Radio 24). Di fatto, circa il doppio. Al loro interno, i giovani — più o meno adulti — sono in aumento e pesano per circa il 45%. Se ne vanno, prevalentemente, in Europa (Germania e Gran Bretagna, anzitutto), ma anche in America Latina e negli Usa. Non è una fuga, ma la ricerca di lavoro e di esperienza, in un mondo dove i confini sono sempre più aperti — per chi non proviene dai Paesi poveri. E i “cervelli” sono sempre ben accolti. Questo è il problema, per l’Italia. Non che i nostri “cervelli” se ne vadano. Ma che non ritornino. E poco si faccia per farli rientrare. O per attirarne altri, di eguale qualità. Perché noi importiamo lavoratori a bassa qualificazione. Ed esportiamo i nostri figli. Perdiamo i giovani e i cervelli. Perché siamo incapaci di offrire loro un destino coerente con le loro attese e le loro competenze. Così è comprensibile, perfino conseguente, che quasi tutti i giovani (8 su 10, dati Demos) siano convinti che, per fare carriera, occorra partire. Dall’Italia. Un Paese vecchio. Che maschera l’età e le rughe in modo artefatto — e un po’ patetico. E lascia partire i giovani, senza farli tornare. Illudendosi di fermare il tempo. Di non invecchiare. Mentre, così, nasconde soltanto il futuro.

Corriere 4.11.13
Senza affetti e solidarietà le radici del disagio giovanile
I ragazzi non trovano risposte in famiglia e si chiudono nella Rete
di Dacia Maraini


Il Premio Goliarda Sapienza è dedicato ai minorenni condannati a pene di detenzione. Un ennesimo premio, si dirà, a che serve? E invece — sembra incredibile — così come il cinema e il teatro praticato dai reclusi hanno funzionato portando una ventata di aria fresca nelle carceri, l’invito a scrivere racconti ha coagulato attorno al premio molte energie giovanili.
Messi di fronte alla scrittura, i ragazzi hanno cominciato a riflettere, a farsi domande che non si erano mai poste, a crearsi un piccolo mondo di immaginazione che precede di poco una idea di doveri e di diritti. Ecco l’importanza riconoscibile della lettura e della scrittura. La parola chiama pensieri, i pensieri chiamano affetti, memorie e un bisogno di logica. La logica chiama, vuole, esige un sistema, anche piccolo di valori. Da qui l’importanza di iniziative creative dentro i luoghi di detenzione e prigionia.
In occasione del premio si è svolto a Roma, per volere di una donna tenace e coraggiosa, Antonella Ferrera, un convegno nella sede del Burcardo, messo a disposizione dalla Siae. Tema: «Il disagio giovanile». Argomento amplissimo alla cui, anche minima, discussione quattro ore sono sembrate pochi minuti. Ma pure è stato importante cercare di sviscerarlo. E alcune novità sono venute fuori. Per esempio il cambiamento delle «motivazioni a delinquere» usando la terminologia legale.
«I reati dei minori», ha chiarito subito Caterina Chinnici, capodipartimento Giustizia minorile, «non derivano solo da disagio economico o sociale ma da un disagio di relazione». E a tutti è sembrato un punto focale. È infatti molto probabile che la differenza fra una visione dickensiana della illegalità giovanile e quella, diciamo camusiana, stia proprio nello spostamento delle ragioni che portano a prevaricare e malversare. Il delinquente ottocentesco affondava le sue radici nel degrado sociale, quello di oggi ha allungato le radici e ha trovato qualcosa di più profondo e inaspettato: l’inaffettività, coltivata da un immaginario comune che circola sempre più rapido e disperante, con il contributo della tecnologia. Uno strumento apparentemente democratico e alla portata di tutti, ma anche devastante per la sua incapacità di regolarsi.
«Spesso la psicanalisi ha favorito l’assoluzione personale, attribuendo la colpa all’esterno. C’è sempre qualcun altro, fuori di noi, che ci porta sulla mala strada: il padre, la madre, la società, il denaro, il potere , la politica». Detto da uno psicanalista, Raffaele Bracalenti, non è male. Quello che si sta perdendo, continua il presidente psicanalitico per le ricerche sociali, è il senso della responsabilità personale. Soprattutto quando si sommano le irresponsabilità creando il branco, la gang. «I ragazzi di via Paal, tanto per fare un esempio, si mettevano insieme per stornare le leggi della piccola società provinciale, ma fra di loro c’era un valore a cui credevano: la solidarietà». Nelle bande di oggi non c’è né amicizia né solidarietà, ma solo il potere di chi sta sopra su chi sta sotto e ubbidisce. I padri hanno perso la capacità di stabilire norme, ma non sanno nemmeno piu darle a se stessi. Insomma il rifiuto delle regole porta allo sfascio?
La risposta sembra proprio questa: troppe regole e stabilite in anticipo dall’alto, strangolano l’individuo; ma la mancanza di regole stabilite, anziché condurre trionfalmente alla libertà, trascina all’arbitrio e alla dittatura del più forte sul più debole. «Secondo Freud le masse sono per loro natura irresponsabili e tendono all’autodistruzione. Una guida non è solo auspicabile, ma necessaria».
C’è una colpevolezza della stampa in tutto questo? E qui vengono le dolenti note che riguardano la rappresentazione che noi stessi ci diamo. Lo specchio in cui ci riflettiamo risulta sempre più deformato e deformante. La stampa e la televisione, ma soprattutto la televisione, con il corollario dei fumetti, dei videogiochi, tende a eroicizzare i violenti. Le narrazioni sono sempre dalla parte del vincente, anche se apparentemente lo si condanna. Le storie dei delitti sono per lo più raccontate, con indulgenza spettacolare, dalla parte degli assassini. Le vittime vengono dimenticate facilmente. O vengono enfiate come voluminosi fantasmi enigmatici, incapaci di suscitare sentimenti di solidarietà.
Marco Polillo, presidente della Confindustria cultura Italia non è molto d’accordo. La televisione e i videogiochi sono intrattenimenti, non insegnamenti. È la famiglia che deve formare l’individuo. Purtroppo la famiglia è frammentata, disgregata. La rissa ha prevalso sul ragionamento. Abbiamo anche la presenza pubblica di cattivi maestri che non aiuta a crescere. I ragazzi, non trovando risposte in famiglia, tendono a chiudersi nel loro piccolo e grande mondo della rete. «Ormai tutto è social net-work. I genitori si sentono in colpa perché non sanno crescerli e finiscono per accontentarli in tutto. Oppure promettono grandi punizioni, che poi vengono smentite subito dopo». «Oggi gli esempi virtuosi che ci vengono presentati in tv sono i cuochi e i grandi sarti. Eppure la nostra cultura è il miglior biglietto da visita del mondo. Ma noi, volendoci male, chiudiamo, cancelliamo, distruggiamo le nostre piu grandi ricchezze». E ricorda che nel nostro Paese il 54% delle persone non legge neanche un libro l’anno. E secondo l’Ocse è l’ultimo Paese capace di intendere la matematica e capace di esprimersi nella propria lingua.
Anche Alberto Contri, presidente della Pubblicità Progresso, se la prende con il nucleo familiare. «L’imprinting avviene in famiglia. È lì che si forma il carattere, la disposizione ad affrontare il mondo. Ma con le madri che lavorano fuori casa, il tempo che diventa sempre più corto e stretto, i ragazzi perdono la capacità di concentrazione. La deficienza del linguaggio esprime e rivela una deficienza della struttura del pensiero». E allora, che fare? La risposta è una bella metafora: «Per navigare su una barca bisogna avere una conoscenza del mare e del legno su cui ci si trova. Per navigare su internet non c’è bisogno di nessuna preparazione e questo porta a cadere in preda ai marosi».
Ma la stampa quotidiana ha delle responsabilità? «Direi proprio di sì», risponde Marida Lombardo Pijola, giornalista del Messaggero , «troppo spesso si raccontano con tono falsamente indignato storie truculente, insistendo sull’aspetto piu spettacolare e morboso». E questo crea abitudine alla mistificazione. La sessualità poi viene presentata sempre di più come prestazione e non come incontro e piacere. Preda e predatore sono faccia a faccia e sembra che tra i due non possa crearsi altro rapporto. «I giornali troppo spesso portano l’esempio di giovanissimi che vendendo il proprio corpo hanno ottenuto denaro, successo, potere, le cose più ambite, date come fondamentali per districarsi in questo mondo». Il branco sostituisce l’adulto e si divide in vincenti e perdenti. Il successo si misura sul consumo e sul dominio dell’altro. «Le femmine nell’immaginario collettivo sono destinate, quasi per natura, allo stupro. I maschi sono tenuti sotto la pressione tremenda della sfida a chi si mostra più duro, piu insensibile, piu crudele». Insomma sembrerebbe che il maschilismo cacciato dalla porta, stia rientrando dalla finestra.
«Eppure cambiare si può», asserisce Serenella Pesarin, direttore generale del Dipartimento giustizia giovanile, che si alza in piedi per dichiararlo con energia. Le sue piccole mani di donna generosa e determinata si sollevano a cacciare via un senso di disperazione e di sfiducia che si sta creando nella sala. «Ogni società ha le sue crisi. Ma vanno superate. Si può farlo. Basta volerlo». E spiega come dalle ultime ricerche sia risultato che la legge della recidiva stia cambiando. La preoccupazione per il rilascio dei ragazzi, nonostante la riluttanza a tenerli chiusi dentro carceri inadeguate e troppo affollate, era basata proprio sul principio della recidiva: vedrete quanti torneranno, piu violenti di prima. E invece no: «Da noi, nel circuito criminale minorile, la recidiva è molto bassa, piu bassa che in tutti gli altri Paesi europei. Da noi Caino può diventare Abele. Ma bisogna crederci e infondere in loro la fiducia nel cambiamento. Purtroppo il villaggio globale è poco solidale. C’è una grande povertà pedagogica. Forse perché non ci si crede. Fatto sta che molti ragazzi, rinchiusi, tentano il suicidio».
Alla fine, quando si parla con questi ragazzi, gli addetti debbono constatare che si tratta sempre di una carenza di relazione. «Qualcuno ancora interpreta il malessere come mancanza di beni. Ma non è così. Sono le relazioni che mancano. Bisognerebbe recuperare lo spirito del ‘68. Non per abbattere l’autorità, di cui abbiamo bisogno, ma l’autoritarismo. La scuola dovrebbe essere un luogo in cui si impara la pratica delle relazioni, ma purtroppo ne siamo lontani». La pratica delle relazioni, per esperienza, porta a una maggiore attenzione verso la meritocrazia. «Noi ci crediamo. E facciamo quello che possiamo. I ragazzi hanno capacità straordinarie di ripresa e di metamorfosi».
Insomma: meno celle di detenzione, meno metodi arcaici di penalizzazione e più fiducia nella rieducazione, nella trasformazione. Largo uso della cultura come strumento di conoscenza di sé e del mondo. La crudeltà della pena non aiuta né chi la applica né chi la subisce. Sono la fiducia, il buon esempio, lo stimolo alla creatività, al lavoro, all’analisi e al giudizio a fare la differenza. Speriamo che qualcuno se ne renda conto.
Dacia Maraini

Repubblica 4.11.13
Pretty baby
Gli amori disperati delle bambine mascherate da donne
di Concita De Gregorio


Dai conflitti a casa agli show in Rete. Chi sono le studentesse squillo dei Parioli: bambine-adulte, sicure di poter gestire il gioco
Due ragazzine spavalde, cresciute senza padri, diventano grandi troppo in fretta.
Poi sprofondano nell’abisso della prostituzione, ma rifiutano di considerarsi vittime.
Perché loro, “le baby squillo dei Parioli”, si credono vincitrici: padrone degli uomini che pagano per i loro corpi

ROMA Questa è una storia normale. Una storia di ragazzine spavalde, cresciute in famiglie normalmente complicate in un quartiere né bello né brutto, né alto né basso. «Due belle ragazze, sembrano molto più grandi della loro età. Imbronciate, aggressive. La più grande, durante l’interrogatorio, ha pianto solo quando le hanno detto che le avrebbero tolto il cellulare». Ragazze andate a scuola nelle scuole pubbliche, buone scuole anni fa all’avanguardia didattica, quando l’educazione primaria era un valore protetto e condiviso, e ancora oggi comunque scuole consigliabili e consigliate, di quelle in cui si fanno i mercatini e gli scambi internazionali, la preside è brava, gli psicologi a disposizione, in certe sezioni gli insegnanti bravissimi. Una storia di bambine diventate donne presto, come sempre più spesso succede: il seno esploso dentro le magliette in prima media, il trucco in classe, il telefonino sotto il banco, i compagni maschi, bambini di undici anni, spaventati e attratti da quelle ragazze di mezzo metro più alte di loro che hanno subito smesso diandare alle loro feste di compleanno perché hanno altro di meglio da fare il pomeriggio che stare coi bimbetti, hanno i ragazzi con la moto che le aspettano fuori. Se avete figli alle medie sapete di cosa stiamo parlando. Se avete figlie femmine lo sapete anche meglio. «Alla madre, quando le hanno comunicato che non sarebbe tornata a casa, sarebbe andata direttamente in comunità, la ragazza si è rivolta col tono di dare ordini: vai a prendermi i pantaloni e il giubbotto, almeno. La madre ha eseguito».
Dunque la storia delle “baby prostitute dei Parioli”, come è stata etichettata con la segreta ansia di renderla estrema e dunque estranea, bisogna raccontarla da capo cominciando da qui: dal dire quello che non è. Non è una storia dei Parioli, quartieri alti di Roma che è facile immaginare popolati da ragazzi annoiati, viziati, figli di genitori ricchi e distratti per quanto neanche questo sia sempre del tutto vero. No, ai Parioli c’era solo l’appartamento dove le due ragazzine incontravano i clienti: un posto preso in affitto da uno degli uomini, ora in galera, che organizzava per loro gli incontri.
Le due ragazze, oggi 15 la piccola e 16 compiuti da poco la grande, sono state bambine e sono cresciute nel quartiere Trieste, fra villa Torlonia via Salaria e via Nomentana, un triangolo soffocato dal traffico di auto e bus in corsia preferenziale, bar botteghe e studi medici di media fama e medio prezzo, vecchie scuole ospitate in edifici di mattoni rossi e bandiere italiche, media e piccola borghesia del commercio e degli uffici. Nelle scuole medie di quartiere dove le due bambine sono state in classe insieme, molti ragazzi della zona di piazza Bologna, un passo dalla Tangenziale est, molti arrivati in treno a Termini dai paesi della cintura. Qualcuno dai Parioli,sì,certo,anche.Ambiente «molto misto», lo definisce uno dei prof. Molto misto.
È Il triangolo fra l’istituto Alfieri, il liceo Giulio Cesare, il Maria Ausiliatrice che è gestito dalle suore, sì, ma i professori sono laici e non costa tanto la retta, è abbordabile, una famiglia di impiegati se la può permettere. Ci mandano i figli che hanno ripetuto un anno, magari, per provare a farli recuperare. O anche solo perché siano seguiti con più rigore, i genitori pensano questo. Le due ragazzine, compagne di classe alle medie, sono state separate alle superiori:entrambe al liceo classico ma due scuole diverse. Una pubblica e una privata. I genitori della più grande, che aveva ripetuto un anno, hanno deciso di separarla dall’amica e di riservarle un ambiente “protetto”: «È stata una tragedia. Essere separata dalla sua amica è stato vissuto da lei come una violenza terribile. Ci sono state liti tremende a casa. Era già molto aggressiva, feroce col nuovo compagno della madre,è diventata totalmente ostile», racconta una persona che le vuole bene e l’ha seguita. Famiglia in ansia, in grande difficoltà con questa figlia sofferente chiusa e ribelle, vedremo tra poco quanto.
Quindi non sono i Parioli e loro due, hanno detto a chi le interrogava e le assisteva nell’interrogatorio, non vogliono essere chiamate né bambine né prostitute: non si sentono né l’una né l’altra. Gli psicologi forensi hanno scritto nelle loro relazioni, dopo i colloqui, più o meno così: «L’idea di sé di queste ragazze corrisponde ad un’età molto maggiore di quella anagrafica. Anche l’aspetto – l’abbigliamento, gli accessori, i tatuaggi, il trucco - tradisce l’ansia di apparire adulte. In ogni caso non si percepiscono come vittime di violenza sessuale, hanno al contrario l’impressione di dominare la situazione. Sono loro che tengono in pugno le persone che incontrano e a cui chiedono denaro, pensano. Sono loro che decidono che cosa fare e con chi percepiscono gli uomini come deboli, ne parlano con disprezzo e sarcasmo, non attribuiscono al fatto di cedere il corpo in cambio di denaro nessun disvalore. Considerano anzi il fatto di suscitare desiderio una forma di potere». È un potere, suscitare desiderio. Una delle due, la piccola, dice al magnaccia che la rimprovera di non essere andata a un appuntamento: «Ma che ti credi che mi puoi dire tu cosa devo fare? Mettiamo che io ho altro da fare, che cazzo vuoi?». Poi, subito, posta su Facebook un messaggio all’amica: noi due insieme per sempre. Sorrisi, cuoricini, labbra che baciano l’autoscatto, appuntamento la sera al solito posto. Waiting dawn, aspettando l’alba. Collezionista di attimi. Società che “organizzano eventi”, si chiamano così. I fatti, allora. Le due bambine sono compagne di classe, a periodi di banco. Fioriscono splendide. Entrambe non hanno il padre. La madre della più grande, quella che anni dopo farà seguire la figlia da un investigatore privato dopo averla denunciata ai servizi sociali per aggressione, dopo le denunce per furto, dopo aver cercato aiuto come poteva – la madre “buona” dicono i giornali - è impiegata in un ufficio. Ha un nuovo compagno, che non è il padre di sua figlia: medico di bel nome, grandi ospedali. Chissà come vanno le cose a casa. La madre della più piccola, una bambina di spettacolare bellezza, ha un bar nella zona bassa del quartiere che naviga in pessime acque, molti problemi di soldi, un figlio minore ammalato. Le due bambine si coalizzano. Vivono in grande conflitto con le loro famiglie, l’adolescenza è alle porte. Le femmine fanno banda contro i maschi, alle elementari. Sono gli anni, quelli, in cui in una scuola di zona un gruppo di bambine di otto nove anni forma una banda per accedere alla quale bisogna superare alcune prove di iniziazione: una di queste consiste nell’inserirsi una matita, una penna, un oggetto nei genitali. Alcuni genitori capiscono,denunciano, diventa un caso,intervengono gli psicologi, la bambina considerata capo banda fa da capro espiatorio, viene portata via dalla scuola. Fine della questione. Si passa alle medie, attigue al liceo. Scoppia un altro scandalo, tenuto legittimamente riservatissimo. Alcune quattordici-quindicenni organizzano a ricreazione un torneo che si svolge nei bagni della scuola. Le ragazzine stanno nel bagno, offrono una prestazione di sesso orale ai maschi che per iscriversi al torneo devono pagare cinque euro. La gara è a chi conclude più rapporti, a chi fa scemare la fila più presto. La fila è lunga, ogni aspirante paga cinque euro. Si paga comunque, il rischio da correre è che arrivi il tuo turno o non arrivi. Il certamen è pubblico, la vincitrice accolta da applausi. Comunque le gareggianti portano a casa cinquanta euro, anche di più, ad ogni prova. Si fanno soldi, così. Soldi che a casa non ci sono o non ti danno, soldi per pagare la ricarica del cellullare e per pagarsi la birra e presto qualcos’altro, la sera. Di nuovo qualche genitore denuncia, di nuovo intervengono gli psicologi. Da una relazione del tempo: «Sgomenta l’assenza di pudicizia, di senso della riservatezza e dell’intimità. Il commercio del corpo considerato la norma, nessuna censura corre tra i coetanei, solo la presa d’atto di un’abilità».
Gli adulti non trovano il varco,non capiscono cosa stia succedendo ai loro figli. Le più abili tra le figlie diventano celebri nella scuola, e fuori. Spesso le performances sono filmate coi telefonini, e condivise. Chi è più fragile soccombe, a volte tragicamente. Chi è più forte avanza.
Tutti sono su Facebook. La vita di relazione virtuale è reale. Le due ragazzine decidono insieme di farsi dei tatuaggi senza dirlo ai genitori, vita reale, li esibiscono nei profili, la cosa più importante, virtuale e reale insieme, per loro. Si mettono in vetrina. Una si fa scrivere sul fianco una scritta in latino, del resto ormai lo studiano. L’altra si fa disegnare un drago che parla di amore disperato. I maschi della classe, tredici-quattordicenni, chiedono amicizia, tollerati come bambini. Entrano a visitare il profilo giovani universitari conosciuti il sabato sera alle feste di zona, una importante università privata è dietro l’angolo, gli studenti vengono da fuori Roma, hanno amici più grandi, più soldi, diversi orizzonti. La violenza, a casa, è la norma. La grande detesta sua madre, sopporta malissimo il nuovo compagno di lei. La piccola soffre la mancanza di soldi, non c’è mai un euro per uscire la sera. Dalla relazione psicologica: «L’aggressività, la violenza, il sesso diventano esperienze più virtuali che reali. L’adolescenza chiama al compito della sessualità. Attraverso la sessualità, si può esercitare un potere, persino un dominio. Il corpo diventa uno strumento neutro, un utensile da utilizzare per accedere a ciò che si desidera». Le ricariche. Il corpo un utensile. Le ragazzine imparano che puoi dare baci e qualcosa di più, puoi dare quello che ti chiedono e che non ti costa concedere, in apparenza, in cambio di ricariche al cellulare, indispensabili per postare i tuoi filmati su Fb. «Mangi all’Hitlon sei ricco, pagami la ricarica almeno, stronzo», si legge nelle intercettazioni. Si filmano di continuo, si fotografano ogni minuto. Vivono sul profilo, dalla vita reale traggono linfa per alimentarlo. Si tatuano insieme, odiano le famiglie insieme, si fotografano atteggiate a donne, insieme. Trovano su Internet, il posto dove passano i giorni chiuse in camera a casa, un luogo: si chiama Bakeca incontri. Dice che devi essere maggiorenne per mettere la tua offerta di sesso online ma non c’è nessun filtro nessun controllo reale. Entrano. Si offrono. Ottengono, certo, immediato successo. Uomini di età le cercano. Loro si scambiano messaggi che dicono «fico, è facile». Qualcuno furbo, criminale, le intercetta. Vede dietro i seni prorompenti, le labbra color rubino, vede nelle calze di pizzo nero dentro le scarpe da tennis due ragazzine. I tatuaggi,le promesse di dannazione e reciproco amore per sempre.
Arrivano i maschi adulti. Mirko Ieni, autista che lavora per quell’università privata del quartiere, uno che nel suo profilo Facebook ha un catalogo di “amiche” studentesse, aspiranti pr, animatrici di eventi. Le aggancia, ma loro sono convinte di agganciare lui. «Va bene vengo, ma l’albergo non mi piace», scrive la piccola. Lui mette a disposizione una stanza in una casa ai Parioli. «A quel panzone chiediamogli duecento piotte», scrive una delle ragazze. I clienti sono uomini adulti, cinquantenni che si fanno chiamare papi, commercialisti, professionisti. «Mi ha detto che sono troppo piccola», dice lei una volta. «Mi ha fatto un film quello stronzo», racconta un’altra volta all’amica, comincia la spirale dei ricatti. «Vai tu che io oggi non posso non mi fanno uscire». «Queste due mi fanno guadagnare 600 euro al giorno», esulta Mirko l’autista. I suoi amici su Fb, gli amici di Mirko, gli dicono bravo. «Chi cazzo ti credi di essere, io faccio come mi pare», lo mette a posto, crede, la ragazzina che intanto porta a casa ogni giorno tre, quattrocento euro. E li dà alla madre che non ha soldi, il bar non va più e il fratello malato ha bisogno di cure. Dicono le cronache che la madre “cattiva” sfruttava la figlia, la faceva prostituire. Dice la madre, ora a Regina Coeli, che lei non sapeva come la figlia guadagnasse quei soldi che erano comunque benedetti. Non voleva saperlo. Forse spacciava, aveva pensato. Che sarà mai. Non certo che si facesse pagare dagli uomini, questo no: comunque non ha domandato. Le indagini sono in corso, le responsabilità degli adulti tutte da accertare. Tutte già scritte, ma nulla di questo si può per ora con certezza ancora dire. Di certo c’è un elenco lungo così, nei tabulati delle due adolescenti, di “cliente 1 Adriano” “cliente2Federico”.Di certo ci sono uomini spregiudicati e criminali, consapevoli, che hanno approfittato della fragilità mascherata da onnipotenza di due quindicenni, e chissà se solo di loro due. Diciamo i nomi. Riccardo Sbarra, commercialista, cliente. Nunzio Pizzacalla, militare, sfruttatore. Mario detto Michael di Quattro, commerciante, ricattatore. Mirko Ieni, autista e organizzatore di eventi, quello di «guadagno 600 euro al giorno», nel giro della prostituzione si direbbe un pappone, quello che mette i locali e organizza il traffico. Salvo che le ragazzine, quelle che la cronaca chiama baby prostitute, lo sbertucciavano: ma chi ti credi di essere,pensi di essere tu il padrone? Le padrone siamo noi, sei un poveraccio.
L’inchiesta è in corso. Nei tabulati dei cellulari delle ragazze c’è un elenco lungo così di clienti. Tremano, i pedofili che hanno pagato le quindicenni. Commercianti, professionisti, consulenti d’immagine. Avranno di certo famiglia, i clienti delle due quindicenni: avranno mogli e figli. Sulla pagina Fb d Mirko Ieni c’è un rosario di solidarietà, «non so cosa sia successo e non ci credo, sei er mejo». I profili delle due ragazze, invece, si sono congelati una settimana fa. Quando la grande ha pianto, in tribunale, per il fatto che le toglievano il telefono: la sua identità. La piccola ora è coi nonni, le grande in una comunità. Hanno tolto loro i cellulari, sì. Di questo e solo per questo si sono disperate.
Una delle due madri è in galera accusata di aver sfruttato la figlia, o nel migliore dei casi di non aver indagato da dove venivano i pacchi di soldi che vedeva arrivare e la incitava a continuare a procacciare. L’altra delle due madri tace, assistita da avvocati avveduti e comunque asserragliata nel dolore di non aver saputo, nonostante le denunce, varcare la soglia della porta chiusa di una ragazzina ostile, violenta, incazzata nera, una bambina mascherata da donna nemica di sua madre. Una dark lady dominatrice, quindicenne tatuata in scarpe da ginnastica. Innamorata dei “Diluvio”, il gruppo musicale da cui rubava le citazioni nei suoi post, “lasciali fare, lasciali dire”. Baci scarlatti. Amori disperati. Spade tatuate, serpenti. Non si possono “tenere due piedi in una Jordan” e chissà cosa avrà voluto dire tua figlia, cosa avrà voluto dirti quando si è fotografata le scarpe e ti ha lasciata nella tua casa del quartiere Trieste, senza una parola, ti ha lasciata così.

Repubblica 4.11.13
Via dalla strada, ora prevalgono gli annunci mascherati sui siti
Minorenni in vendita sul web è il nuovo sfruttamento 2.0
di Vladimiro Polchi


«Giovanissima, disinibita. Tante curve e fantasie». L’annuncio, intitolato “80 voglia”, fa bella mostra di sé sul sito roma.bakecaincontrii.com. Impossibile risalire all’età della ragazza, anche se dalla foto pare più una ragazzina. È il pianeta sommerso delle baby-squillo, il regno dello sfruttamento 2.0. Perché oggi i “pezzi” più pregiati, sul mercato dei corpi in vendita, sono le minorenni. Le più giovani? Le trovi in Calabria, Marche, Abruzzo, Veneto, Campania e Lazio.
«Il web ha un potenziale lesivo enorme – conferma Elvira D’Amato, vicequestore aggiunto del centro nazionale per il contrasto alla pedopornografia on line della Polizia postale e delle comunicazioni – la rete è senza confini, per questo abbiamo un centro nazionale che raccoglie tutte le informazioni provenienti da internet. La prostituzione minorile e il suo sfruttamento può avvalersi della rete, anche se il nostro lavoro non parte da qui: parte dalla pedopornografia, cioè dall’adescamento on line, che poi può pure sfociare in forme di prostituzione». L’escalation classica è la seguente: «Il pedofilo conquista la fiducia del minore sui social network con piccoli regali, come le ricariche telefoniche, e in cambio chiede foto. Il processo di fidelizzazione prosegue con i video e il sesso via webcam. Quindi può scattare il ricatto: “Se non ci incontriamo pubblico le foto su internet”». Da qui il passo a un rapporto sessuale è breve e si può arrivare anche allo sfruttamento della prostituzione. «Con la rete tutti i passaggi sono velocissimi e l’esposizione al pericolo dei minori cresce. Per questo – precisa D’Amato – è importante la prevenzione: filtriamo i siti con contenuti pedofili e forniamo ai provider una black list per la navigazione protetta». Un altro fronte è «quello dei siti con foto professionali di bambini in abiti sexy e atteggiamenti ammiccanti: nulla di incriminabile, ma, dietro la promessa di un book da modella, le indagini hanno portato alla luce anche forme di sfruttamento sessuale».
Quante sono le baby-prostitute in Italia nessuno lo so. Si va dalle stime prudenti del consorzio Parsec (45mila prostitute, 7% minorenni), a quelle del gruppo Abele: 70mila sex workers, 20% minorenni. Non tutte sono sfruttate e non tutte si vendono per “fame”. Pino Gulia, vicepresidente di Slaves no more onlus, ricorda una vecchia ricerca dell’Istituto di epidemiologia della Regione Lazio sulla prostituzione, «dove emergeva un sorprendente numero di giovani, che si vendevano nei quartieri della Roma bene». Oggi questo mercato si affida al passaparola o ai siti di annunci economici, dove nascondere l’inserzione di un minore è più facile, rispetto ai tradizionali portali di escort.
La prostituzione minorile ha anche a che fare con la tratta dei migranti. Stando al dossier “Piccoli schiavi invisibili” di Save the Children, 21.795 vittime di tratta (1.171 minori) sono state assistite in Italia dal 2000 al 2012. Principali paesi di origine? Nigeria e Romania. La maggioranza delle ragazze vittime di sfruttamento sessuale ha un’età compresa tra i 16 e i 18 anni. Ma in Calabria, Marche, Abruzzo, Veneto, Campania e Lazio si segnala anche la presenza di ragazze tra i 14 e i 16 anni. Quelle molto piccole, sotto i 14 anni, sono raramente presenti su strada. I luoghi di sfruttamento si sono infatti moltiplicati, come denuncia il rapporto Caritas-Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza. Oggi chi si prostituisce (soprattutto i minori) lo trovi non solo su strada e nei classici luoghi al chiuso (appartamenti, night club), ma anche in aree di grande transito: stazioni ferroviarie e centri commerciali.

l’Unità 4.11.13
Snowden: «La verità non è un crimine»
Manifesto della talpa del Datagate sullo Spiegel: «Abbiamo il dovere di tutelare i nostri diritti»
di U.D.G.


Ora anche Edward Snowden ha il suo manifesto. Niente meno che il «Manifesto per la verità». «Le richieste di più controlli sui servizi di intelligence dimostrano che avevo ragione nel rivelare i metodi e gli obiettivi dei servizi segreti Usa». Edward Snowden torna a parlare e lo fa attraverso il settimanale tedesco Der Spiegel pubblicando ieri un «Manifesto per la verità».
«Invece di causare danni, l’utilità della nuova conoscenza per la società è molto chiara in quanto suggerisce una riforma alla supervisione della politica e delle leggi», scrive il 30enne ex impiegato della Cia e analista informatico della National Security Agency (Nsa). «I cittadini devono combattere contro la soppressione di informazioni su questioni di importanza fondamentale per il pubblico. Quelli che dicono la verità non stanno commettendo un crimine». Nel Manifesto, Snowden sostiene che la sorveglianza di massa è un problema globale che necessita di soluzioni globali; inoltre, aggiunge, «i programmi di sorveglianza dei criminali da parte dei servizi segreti» compromettono la privacy individuale, la libertà di opinione e le società. L’esistenza delle tecnologie di spionaggio non dovrebbe determinare la politica. «Abbiamo un dovere morale di assicurare che le nostre leggi e valori limitino i programmi di sorveglianza e proteggano i diritti umani».
SFIDA GLOBALE
Secondo Snowden, alcuni governi che si sentivano «smascherati» dalle sue rivelazioni hanno provato a fermarlo «con una campagna persecutoria senza precedenti», ma non sono riusciti a impedire l’avvio di un dibattito internazionale sullo spionaggio americano. E l’apertura di questo dibattito è per Snowden un segno di speranza e di vitalità: «In gioco sostiene è il futuro stesso della democrazia». Quanto al suo di futuro, una risposta viene dagli Usa. Ed è una risposta non certo rassicurante per la «talpa»
del Nsagate. La Casa Bianca e i capi delle commissioni intelligence di Camera e Senato degli Stati Uniti respingono la richiesta di clemenza di Snowden. Il consigliere della Casa Bianca Dan Pfeiffer, intervenendo al programma «This week» del canale Abc, ha affermato che Snowden dovrebbe tornare negli Stati Uniti e affrontare le accuse a suo carico, tra cui quella di avere rivelato informazioni classificate. Opinione condivisa anche dal deputato repubblicano Mike Rogers e dalla senatrice democratica Dianne Feinstein, entrambi comparsi nel programma «Face the nation» su Cbs. Il primo ha detto che l’ipotesi della clemenza per Snowden è «un’idea terribile», mentre la seconda ha ribadito che la talpa ha infranto la legge mentre avrebbe potuto fare le sue rivelazioni privatamente alla commissione intelligence.

La Stampa 4.11.13
Su «Der Spiegel»  Germania,  appello dei vip
“Diamo asilo  a Snowden”


Intellettuali, politici, imprenditori e rappresentanti del mondo sportivo  tedesco in campo per Edward Snowden. In un articolo apparso su «Der Spiegel» decine di vip si sono  espressi a favore della concessione dell’asilo politico  in Germania all’ex analista  della Nsa, attualmente in  Russia. Tra gli appelli illustri quello dell’ex segretario della Cdu Heinen Geissler che ha sottolineato come «Snowden abbia reso  all’Occidente un grande  servizio». In campo anche  il presidente della Lega  calcio, Reinhard Rauballe,  e lo scrittore Hans-Magnus Enzensberger.

Repubblica 4.11.13
Il filosofo Michael Walzer: “Anche il Congresso si sta svegliando e chiede un’inchiesta. Ci vogliono limiti precisi al programma di sorveglianza”
“La talpa del Datagate è un eroe negli Usa la democrazia è a rischio”
intervista di Alix Van Buren


«IN ogni governo, da sempre, esistono tendenze autoritarie: l’inclinazione ad accumulare potere, a usarlo nel segreto, in particolare negli Stati moderni. Il sistema di sorveglianza della Nsa ne è un esempio perfetto. Un refrain americano recita così: “L’eterna vigilanza è il prezzo della libertà”. Ecco, quell’adagio è più valido che mai». Esaurito il preambolo, Michael Walzer, filosofo e saggista di etica politica, sbotta in una sonora risata: «C’è un lato comico in tutto questo. Al pensiero che l’America ascolti le conversazioni private dei leader europei, o 50 milioni di telefonate in Italia e Spagna, io mi chiedo cosa frulli per la testa dei responsabili. Se fanno tanto in Europa, figuriamoci in Cina? E quanti alla Nsa parlano il cinese? È una storia inverosimile, davvero».
Professore Walzer, la Nsa sostiene che il programma serva a salvare vite umane, a proteggere l’America. Controllare il telefonino di Angela Merkel, la cancelliera tedesca, o del francese Sarkozy fa parte della missione?
«Impossibile! non ha alcuna utilità nella lotta contro il terrorismo. Regala forse un vantaggio nelle trattative commerciali.Piuttosto, siamo davanti a un’agenzia tecnologica impazzita: ha le capacità, una tecnologia superlativa, e le impiega a dismisura. È un po’ come la storia dei droni: fantastici sotto il profilo tecnologico, vengono usati sempre più spesso solo perché sono disponibili. Finché qualcuno “spiffera” gli eccessi, e Obama interviene».
Un brutto imbarazzo per Obama, se è vero che il presidente era all’oscuro delle intercettazioni dei leader europei. Lei lo crede?
«Sì, che lo credo. È rimasto senza parole, come me. Per cinque anni non ha nemmeno conosciuto la portata del programma disorveglianza».
La Nsa è un corpo separato, sottratta al controllo degli organi politici e giudiziari?
«Per capire la Nsa bisogna tornare alla sua nascita, alla presidenza Bush; chiedersi se lo stesso Bush ne fosse al corrente: lo era più probabilmente il vicepresidente Cheney. Da allora la Nsa ha seguito il suo corso e non ha ritenuto necessario informare Obama: qualcuno forse non si fidava di lui».
Lei vede una minaccia alla democrazia americana?
«Il rischio è evidente: considerata la natura delle nuove tecnologie, basta chiedersi cosa sarebbe successo se alla Casa Bianca fosse insediato un governo peggiore di Obama, ad esempio la destra radicale. È una prospettiva dabrivido».
Obama ha promesso un freno. Lei se l’aspetta?
«È ovvio: anche il Congresso sta svegliandosi e pretende un’inchiesta. Vogliamo sapere l’intera portata di quel che è stato fatto finora, scoprire quel che è ancora nascosto, e decidere in maniera democratica come procedere nel futuro, ponendo limiti rigorosi. C’è poi un altro aspetto».
Quale?
«È l’aspetto pratico. Visto dal contribuente, il programma della Nsa non ha senso. Pensi ai costi esorbitanti e allo spreco di personale che esso richiede: decine di migliaia di impiegati. E poi: come gestire quei miliardi di dati? Se tutto questo fosse stato ragionevole, non avrebbe suscitato tanto scandalo. Invece, è incredibile».
E le libertà degli europei, calpestate? Pensate anche a questo? Alla Nsa basta l’ingiunzione di una Corte americana per accedere ai contenuti di telefonate, email, ricerche Internet di cittadini europei. Germania e Francia vogliono trattare un codice di condotta.
«Merkel e Hollande hanno ragione. Però, il codice dovrà tutelare il mondo intero, non solo amici ed alleati. È impensabile che l’America decida sulla privacy di un cittadino straniero: la scelta spetta ai rispettivi governi».
Il Datagate ha spalancato un nuovo capitolo nell’evoluzione delle democrazie occidentali?
«Può ben dirlo. Dobbiamo tutto a un giovane di nome Edward Snowden. Quello “spifferatore” si è rivelato un eroe. Grazie a lui oggi scopriamo quale pericolo ci sia stato nascosto. E quanti altri, forse, restino da rivelare».

Repubblica 4.11.13
Visioni del sottosuolo
“L’inganno è sempre in superficie”: la profezia di Hugh Howey
Incontro con l’autore di “Wool”
Un caso clamoroso nato in Rete che ha conquistato anche Ridley Scott
di Pierdomenico Baccalario


Immaginate un’intera comunità di persone che vive all’interno di un gigantesco silo sotterraneo: cento piani collegati tra loro da un’interminabile scala a chiocciola. Ci si sposta solo così: a piedi, su e giù dai gradini della scala sociale. Ai piani inferiori vivono i meccanici, ci sono le macchine e le pompe che estraggono petrolio e producono energia elettrica. Sopra di loro i contadini, gli allevamenti di animali e gli orti idroponici. Nei piani alti i programmatori informatici, con i server e i computer che controllano ogni aspetto della vita dentro al silo. E dove il silo si avvicina alla superficie vi è un grande cinema, dove si può osservare la Vista: ciò che le telecamere riprendono del mondo esterno, uno sterminato paesaggio brullo, devastato da un’antica quanto misteriosa guerra. Ogni volta che qualcuno degli abitanti del silo trasgredisce una regola, viene condannato a “uscire”: gli viene cucita addosso una tuta che si sgretolerà nell’atmosfera acida e consegnato uno straccio di lana. Perché tutti i condannati, un volta fuori, un attimo prima di morire ripetono lo stesso gesto: puliscono, con un panno di lana, le telecamere. E perché lo fanno?
La soluzione del mistero è il filo conduttore di uno dei più formidabili libri dell’anno: si intitola Wool. Il suo autore, Hugh Howey, lo ha pubblicato in cinque puntate sulla piattaforma di self-publishing di Amazon, dove, da qualche anno, è saldamente in cima alle classifiche di download. Oggi esce in versione cartacea (Howey si è tenuto i diritti digitali) in più di venticinque paesi (in Italia lo pubblica Fabbri editori) e Ridley Scott, il regista di Blade Runner, ne ha acquistato i diritti per farne un film. Un clamoroso successo di pubblico, ma questa volta anche di critica: perché dietro alla storia intrigante, questa volta, c’è anche uno scrittore.
Incontriamo Howey a Francoforte, chiedendogli se è finalmente arrivato il momento del ritorno della grande narrativa di fantascienza. «Non bisogna parlare di fantascienza.
Wool, come PlayerOne (di Ernest Cline, Isbn Edizioni), sono storie e basta. La gente le legge perché parlano di noi, del nostro mondo, della dipendenza dai computer. Non di battaglie spaziali». Howey ha 38 anni, e ne ha trascorsi sei su una barca, con un generatore di corrente a vento, un dissalatore e una schiera di pannelli solari. «Quando sei in mezzo al mare, è come se fossi nello spazio. L’unica differenza è che puoi respirare». E proprio in mezzo al mare gli è venuta l’idea del mondo dentro a un silo, con gli abitanti come “raccolto per l’inverno”. «Dopo giorni e giorni da solo, riuscii finalmente a captare il segnale radio di alcuni telegiornali. Ma anziché confortarmi, ne fui terrorizzato: erano solo notizie terribili».
Secondo Howey, il terrore informativo è un modo per tenerci sotto controllo. Per togliere il coraggio di viaggia-re ed esplorare. E di scoprirlo. L’informazione, i server, lo stesso Internet, può anche essere una grande menzogna collettiva. E come nel romanzo culto La penultima verità di Philip K. Dick (Fanucci), il mistero e l’inganno non si trovano nel sottosuolo. Ma in superficie. O, meglio, nell’immagine della superficie. «Quando iniziai a scrivere, avevo solo pensato al perché quelle telecamere fossero così importanti. E perché dovessero essere pulite», confessa, «ma quando mi accorsi che avevo così tanti lettori, e che loro stessi si ponevano decine di domande sulle regole del silo, sentii su di me la responsabilità di tutte le loro aspettative».
Howey ha cercato di evitare l’“Effetto Lost”, e cioè i telefilm che, con la loro mancata pianificazione nella risoluzione dei misteri, hanno finito per deludere milioni dispettatori in tutto il mondo. Si è quindi fermato e ha costruito con attenzione l’intero universo narrativo, anche apportando modifiche a quanto aveva già fatto: «Il libro che è appena uscito ha un capitolo che inizialmente non esisteva, il numero tredici. Ma che, d’accordo con il mio editor alla Simon & Schuster, ho aggiunto per anticipare la comparsa di alcuni personaggi». Il risultato cartaceo è quello di un romanzo godibile, claustrofobico, popolato da personaggi che vivono inconsapevoli di tutto ciò che c’è intorno a loro e si affidano alle istruzioni ricevute sui computer, dove la carta è più a buon mercato delle email (un quarto di buono pasto) e dove la verità su quanto è successo è contenuta in un vecchio libro, nascosto dentro un finto computer. Scoprire il mistero dei programmatori e del panno di lana con cui i condannati a morte puliscono le telecamere sarà il compito di Juliette, la protagonista, una meccanica di trentaquattro anni (di cui si innamora Lukas, un ragazzo di dieci anni più giovane) e che ricorda, in quanto a determinazione, la Ripley di Alien. «Juliette è una pericolosa, perché fa sempre cose nel migliore dei modi», spiega Howey. E una che fa gruppo. «Ci tengono tutti insieme, ma separati, ignari gli uni degli altri, in modo da non infettare i vicini se dovessimo ammalarci».
Wool è diventato un libro di culto grazie alla rete, ma al suo interno i programmatori dell’information technology fanno la figura dei grandi truffatori. A questa domanda lui sorride, guarda il suo libro e risponde: «Non mi risulta che nessun server abbia mai nutrito qualcuno, salvato una vita umana o rammendato un paio di pantaloni. Le macchine sono importanti, certo», conclude Howey, «ma solo perché siamo importanti noi». Tanto perché lo sappiate, le telecamere fuori dal silo non mentono. Sarebbe troppo facile: là fuori è davvero impossibile vivere. Per sapere dove si nasconde l’inganno, dovete essere più sottili. Come un foglio di carta.

Wool (Fabbri editori, traduzione di Giulio Lupieri pagg. 560 euro 14,90)

l’Unità 4.11.13
«Più tasse per i ricchi» De Blasio strega New York
Il democratico italo-americano favorito alle elezioni di domani per la poltrona di sindaco
Da vent’anni i repubblicani governano la Grande Mela
di Gabriel Bertinetto


Senza avere virato al centro per un solo giorno in dodici mesi di campagna elettorale, Bill De Blasio, 52 anni, si appresta a diventare sindaco di New York. I cittadini della Grande Mela vanno alle urne domani per scegliere il successore di Michael Bloomberg, e i pronostici sono tutti a favore dell’italo-americano, candidato della sinistra liberal democratica. Tramontano vent’anni di ininterrotto dominio repubblicano, prima con Rudy Giuliani e poi con Michael Bloomberg. L’avversario di De Blasio, Joseph Lhota, avrebbe bisogno di un miracolo per ribaltare il distacco di 45 punti percentuali fotografato dagli ultimi sondaggi. Lhota, che qualche commentatore ha definito «uomo senza carisma», è accreditato di un misero 23%, a fronte del 68% intenzionati a votare per il rivale.Lhota può ringraziare i suoi colleghi parlamentari di Washington per avergli inflitto il colpo di grazia con l’intransigenza mostrata con lo shutdown, il blocco delle finanze federali.
Il candidato democratico ha riproposto sino all’ultimo con coerenza i suoi programmi progressisti per riunificare «le due città», geograficamente contigue ma socialmente agli antipodi: Wall Street, l’alta finanza, i grandi capitali immobiliari da una parte, e all’altra estremità il 21 % degli abitanti che vivono sotto la soglia di povertà. De Blasio è rimasto fedele ai suoi progetti innovatori, tanto quanto i repubblicani, Lhota compreso, rimanevano condizionati dagli estremismi ideologici del Tea Party. Due modi radicalmente diversi di sottrarsi al destino che accomuna spesso i politici di opposte tendenze: la virata al centro.
Naturalmente molti si chiedono se la fermezza programmatica di De Blasio resisterà al confronto con la complessità dei problemi che si troverà ad affrontare a partire dal giorno successivo al probabile successo elettorale. Il primo ostacolo che gli si parerà davanti sarà la prevista riluttanza del governatore Andrew Cuomo ad assecondare l’aumento delle tasse a carico dei super-ricchi per finanziare asili nido e altre iniziative a vantaggio dei ceti meno abbienti. Nel mirino di De Blasio sono i redditi familiari superiori al mezzo milione di dollari all’anno, con un prelievo aggiuntivo che va dai mille ai 180mila dollari, per chi ha entrate superiori ai 10 milioni.
SUPER-PRELIEVO
Cuomo teme la fuga dei Paperoni non solo dalla città di New York, ma anche dallo Stato omonimo. Basta attraversare il fiume Hudson e si mette piede in New Jersey, dove il fisco è quanto mai gentile verso gli ultraprivilegiati. Per non parlare del vicino Connecticut, mecca degli Hedge Funds e altri istituti finanziari ad alto tasso speculativo. Cuomo ha facoltà di porre il veto alle leggi del sindaco in materia fiscale, e se De Blasio le presentasse nella forma annunciata in campagna elettorale, molti ritengono che sarebbero respinte. Qualche cedimento moderato, evitato nei comizi, potrebbe essere imposto insomma dalla necessità di trattenere a Manhattan e dintorni il grosso di quegli imprenditori, immobiliaristi, banchieri, che garantiscono con le loro attività una parte considerevole delle risorse cittadine. Il solo settore finanziario dà lavoro a 185mila persone e contribuisce per l’8,5% ai 45 miliardi di dollari che ogni anno entrano nelle casse comunali attraverso le imposte. Si profila insomma uno scontro tutto interno a New York, al partito Democratico (cui appartengono sia Cuomo che De Blasio), e alla comunità italoamericana.
De Blasio miete consensi tra i neri e gli ispanici, avendo chiarito l’intenzione di attenuare lo strapotere poliziesco, di cui proprio quelle due comunità sono le vittime preferite. La legislazione antiterrorismo consente agli uomini in divisa di fermare e perquisire chiunque e in qualunque circostanza. Si chiama «stop and brisk» ed è considerata dai suoi promotori come un ottimo meccanismo di deterrenza e prevenzione del crimine. Dovrebbe essere applicata in maniera casuale, ma di fatto ne fanno le spese soprattutto gli afroamericani e i latinos. Il candidato democratico vuole impedirne l’uso eccessivo e discriminatorio.
Liberal in politica come nella vita privata, De Blasio è sposato con una poetessa nera, dichiaratamente lesbica. Chirlane McCray, 58 anni cercò invano di dissuaderlo dal corteggiamento mostrandogli una copia di Essence, una rivista in cui lei raccontava le sue esperienze omosessuali. Dal matrimonio sono nati Chiara e Dante, di 18 e 16 anni. Frequentano scuole pubbliche. Dante ha partecipato attivamente alla campagna in favore del padre.

l’Unità 4.11.13
Tawakkul Karman
Prima donna araba premio Nobel per la pace critica il dopo-Morsi
E sulla Siria dice: «Il posto di Assad è davanti alla Corte dell’Aja»
«L’Egitto in divisa ha tradito la sua Primavera»
intervista di Umberto De Giovannangeli


È stata la prima donna araba a ricevere il premio Nobel per la Pace. È la più giovane donna in assoluto ad essere stata insignita di questa prestigiosa onoreficenza: Tawakkul Karman, 34 anni, yemenita, premio Nobel per la Pace 2011, è la donna simbolo della sollevazione non violenta contro il regime di Ali Abdullah Saleh. Musulmana, Karman è profondamente convinta che «Islam e democrazia non siano tra loro inconciliabili» e che il dialogo tra «Islam e Occidente non sia solo necessario, ma possibile, a patto che sia un vero dialogo tra pari, senza alcuna presunzione, da nessuna delle due parti, di essere depositari di una verità assoluta da brandire contro il “Male assoluto”».
Il senso del suo impegno politico e professionale (è giornalista), è racchiuso in una frase che Karman ribadisce anche in questa intervista: «Pace non significa fermare la guerra, ma fermare l’oppressione e l’ingiustizia».
Da araba e musulmana, la Nobel per la pace, leader del principale partito islamico yemenita Islah, anima della primavera yemenita, prende posizione sugli avvenimenti che marchiano a sangue due tra i più importanti Paesi arabi: Egitto e Siria. Quanto alla difficile transizione che investe il suo Paese, lo Yemen, la Nobel per la pace lancia un appello agli Stati Uniti: «Chiediamo solo che voi, rispettiate le regole internazionali sui diritti umani e i diritti del popolo yemenita alla libertà e alla giustizia dice Tawakkul Karman -. A nome di molti dei giovani coinvolti nella rivoluzione dello Yemen, io assicuro il popolo americano che siamo pronti a partecipare a un’autentica partnership. Insieme, possiamo eliminare le cause dell’estremismo e la cultura del terrorismo mediante un rafforzamento della società civile e l’incoraggiamento dello sviluppo e della stabilità».
In Egitto oggi si apre il processo contro la leadership dei Fratelli musulmani. Lei è stata accusata di essersi schierata apertamente con la Fratellanza.
«Io non ho preso posizione per i Fratelli musulmani, io ho preso anzitutto posizione contro il colpo di Stato dei militari. Un colpo di Stato che non solo ha messo in discussione la presidenza di un uomo (Mohamed Morsi) liberamente eletto dal popolo egiziano, ma quel golpe guidato dal generale al-Sissi rappresenta anche una sfida alla rivoluzione egiziana e alla Primavera araba».
Resta il fatto che la presidenza Morsi aveva fallito molti degli obiettivi che aveva enunciato.
«Ma questo non giustifica affatto il colpo di Stato e la messa fuorilegge di un movimento che, piaccia o no, è fortemente radicato nella società egiziana, come hanno dimostrato sia il voto a Morsi che il referendum costituzionale. Non sarò io a ergermi a giudice dei successi e dei fallimenti, non ho titoli per farlo, ma ciò che mi preme sottolineare è che in nessun caso la repressione di piazza, l’arresto in massa di dirigenti e attivisti della Fratellanza, lo scioglimento d’imperio del Parlamento, possono essere giudicati un passo in avanti in direzione della democrazia. Quello che il colpo di Stato dei militari ha cancellato è lo spirito di Piazza Tahrir».
Il generale al-Sissi replicherebbe che l’intervento dei militari è stato giustificato proprio dalla difesa di quello «spirito» minacciato dalla Fratellanza.
«Questa è una giustificazione a cui non credono più neanche quei movimenti che pure avevano fortemente contestato la presidenza Morsi. E poi, non è che la riconciliazione nazionale possa fondarsi sulla criminalizzazione di una parte in causa. Così si fa solo il gioco di chi, anche in campo islamista, punta alla radicalizzazione e allo scontro violento. Ma forse è proprio questo l’obiettivo del generale al-Sissi. Vorrei mettere in chiaro una cosa...».
Quale?
«Ho fatto riferimento a quei movimenti, come Tamarrod (Ribelli) che prima del golpe del 3 luglio avevano guidato la protesta pacifica contro la presidenza Morsi. Ebbene, all’inizio io ho sostenuto quella protesta, e l’ho fatto perché speravo che portasse alla fine della spaccatura all’interno della società egiziana, e alla costruzione di un Paese fondato sulla collaborazione piuttosto che sulla regola della maggioranza ristretta che ambisce a tutto. Ma questa aspettativa è venuta meno con il colpo di mano dei militari e con tutto ciò che ne è seguito, migliaia tra morti e feriti e le carceri riempite di attivisti contrari alla destituzione di Morsi. La democrazia non veste la divisa. E insisto nel dire che il golpe egiziano rappresenta una minaccia per la “Primavera araba”: perché quella “Primavera” aveva come obiettivo quello di costruire la democrazia. Il golpe dei militari ne è l’antitesi. Il golpe mina ogni cosa. Il generale al-Sissi ha ripetuto più volte che i militari sono al servizio del popolo. Ma una parte di quel popolo è stata brutalmente repressa e incarcerata. Mi si lasci almeno dubitare della loro conclamata volontà di servizio. Così come è innegabile che il governo posto in essere dai militari stia tornando ai metodi autocratici del passato. La verità è che l’attuale regime egiziano ha spodestato il primo presidente eletto liberamente nella storia del Paese, ha sospeso una costituzione che aveva ottenuto il 60% dei consensi in un referendum, e ha completamente escluso i Fratelli musulmani e il Partito della Giustizia e Libertà (il braccio politico della Fratellanza, ndr) dalla vita politica. Non ci sono opzioni limitate per quelli di noi che hanno a cuore il futuro dell’Egitto: possiamo scegliere di stare o con i valori civili, o con il governo militare, e la loro tirannia, e coercizione».
Un altro scenario insanguinato è quello siriano. Lei ha usato parole durissime contro il presidente Bashar al-Assad. «Parole inadeguate a dar conto delle sofferenze che quel dittatore ha inflitto al popolo siriano. Il posto giusto per Assad non è a un tavolo della pace ma sul banco degli imputati davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja dove dovrebbe rispondere dei crimini di guerra e contro l’umanità di cui si è macchiato. In una Siria davvero libero e pacificata non può esserci posto per lui. Assad resta un satrapo sanguinario, con o senza le armi chimiche».

Corriere 4.11.13
La politica estera turca colpita dalle rivolte arabe
risponde Sergio Romano


Dove sta andando la Turchia? La domanda appare in qualche modo inevitabile se si guarda  a quanto accade. Questo  Paese, uno dei pilastri della Nato, ha infatti scelto un’azienda cinese per la fornitura di un importante sistema missilistico di difesa aerea. Quasi un sacrilegio, prontamente criticato dagli Stati Uniti e dalla  stessa Alleanza atlantica per le conseguenze pratiche che tale decisione comporterà. In realtà, la mossa rappresenta l’ennesimo segnale di una qualche intraprendenza di Ankara sul piano internazionale e, al contempo, di un certo allontanamento dall’Occidente, tanto che, per esempio, l’adesione all’Ue appare sempre più remota. Se a ciò si aggiunge la crescente islamizzazione sul piano interno, accompagnata dal ridimensionamento di quei militari custodi della laicità voluta dal padre della Turchia Atatürk, il quadro si può definire completo e un (poco) preoccupante.
Giovanni Martinelli

Caro Martinelli,
Una singola fornitura militare non è necessariamente un segnale decisivo. Il vero problema mi sembra essere piuttosto la crisi della politica estera turca. Quando il partito AK (Giustizia e sviluppo) conquistò il potere nel 2007, il suo leader, Cerep Tayyip Erdogan, volle al ministero degli Esteri Ahmet Davotoglu, studioso di politica internazionale, uomo di buona cultura e di chiare intuizioni. Sotto la sua guida, la diplomazia turca avrebbe approfittato della fine della Guerra fredda e della scomparsa dell’Urss per garantire a se stessa un più importante ruolo regionale.
Si parlò allora, con una certa esagerazione, di una politica neoottomana. Ma la Turchia voleva soprattutto esercitare una leadership culturale, nel senso più largo della parola. Avrebbe cercato di avere buoni rapporti con tutti gli Stati arabo-musulmani della regione e persino, nei limiti del possibile, con la Repubblica d’Armenia. Avrebbe dimostrato a tutti i suoi vicini che l’osservanza dell’Islam non era incompatibile con il progresso civile ed economico. Si sarebbe imposta come modello politico e potenza economica. Avrebbe anche continuato a desiderare l’adesione all’Unione Europea per conseguire due vantaggi: l’appartenenza a una grande e moderna area economica e sociale, la possibilità di attribuire alle insistenze dell’Ue quel ridimensionamento della casta militare turca, nella gestione dello Stato, che fu l’obiettivo più caro a Erdogan sin dall’inizio del suo primo governo, ma cominciò a delinearsi con maggiore chiarezza soltanto negli anni seguenti. Più tardi, gli screzi con Israele incrinarono una vecchia solidarietà, ma rafforzarono l’immagine della Turchia agli occhi del mondo musulmano.
Quando alcuni Paesi europei (Francia, Austria, Paesi Bassi, Germania) presero posizione contro l’ingresso di Ankara nell’Unione, i negoziati di Bruxelles vennero di fatto interrotti. Ma il castello della politica estera turca cominciò a traballare soltanto dopo le rivolte arabe. Erdogan e Davotoglu cercarono di pilotare il declino dei tiranni e l’avvento della democrazia, ma si scontrarono con difficoltà insormontabili e, in Siria, con la forte resistenza di Bashar Al Assad. Da quel momento Erdogan, forse per ragioni prevalentemente caratteriali, finì dentro la mischia e il suo governo divenne obiettivamente il protettore della Fratellanza musulmana in Egitto, il fornitore di armi e altri servizi ad alcune delle formazioni sunnite combattenti in Siria, l’oggettivo alleato dell’Arabia Saudita e del Qatar. Non era questa la politica che Davotoglu voleva perseguire per il suo Paese. E non è questo il Paese che l’Unione Europea desidera avere tra i suoi membri.
Come spiegare allora il fatto che negli scorsi giorni sia stato deciso di riprendere il negoziato interrotto per l’adesione di Ankara all’Ue? A Bruxelles non si è perduta la speranza di trattenere la Turchia nel mondo occidentale. Ad Ankara si è deciso che l’ancoraggio all’Europa, nel momento in cui il Paese sta perdendo pezzi di politica estera, non può essere buttato via.

La Stampa 4.11.13
E Netanyahu prepara un muro sul Giordano
La barriera isolerà i territori palestinesi dalla Giordania
Trattative a rischio


Celebre per la sua potenza  evocativa per i fedeli cristiani ed ebrei, il fiume  Giordano è destinato a  cambiare fisionomia. Sulla  sua sponda occidentale sarà costruita una barriera:  un lungo reticolato, ricco di  sensori e di strumenti ottici  sofisticati concepiti per segnalare tempestivamente  presenze reputate minacciose, o comunque sgradite.  Anche in futuri accordi  di pace, ha detto ieri il premier Benyamin Netanyahu,  «il Giordano deve restare il  nostro confine di sicurezza». In Cisgiordania, ha lasciato intendere, c’è spazio  per un compromesso con  Abu Mazen. Ma la valle del  Giordano, sprofondata in  una ripida depressione con  1000 metri di dislivello rispetto a Gerusalemme,  mantiene un significato importante per gli strateghi  israeliani.  In primo luogo la Barriera  servirà a scongiurare il pericolo che centinaia di migliaia  di siriani, sfollati in Giordania, possano incamminarsi  verso la Cisgiordania. Il fiume  Giordano è scarso di acque:  per bloccarli occorre dunque  un ostacolo fisico più serio.  Ma quella Barriera avrà anche un chiaro valore politico.  Segnalerà ai palestinesi la determinazione israeliana a impedire che assumano il controllo del confine orientale del  futuro Stato indipendente. Ad  impedire cioè che un giorno  spalanchino la porta a forze  ostili allo Stato ebraico. «Cosi’  - ha concluso Netanyahu - difenderemo non solo Israele,  ma anche la pace».  Per ora ci sono solo progetti  preliminari. La costruzione  vera e propria della barriera  nella Valle del Giordano comincerà dopo il completamento della Barriera sul Golan e di  quella al confine del Sinai, a ridosso di Eilat.

Corriere 4.11.13
Una statua per l’ammiraglio Horthy: così si favorisce l’antisemitismo
di Maria Serena Natale


Stelle di David e svastiche sotto la pioggia, centinaia di manifestanti, due cortei contrapposti, scene dal Novecento nel centro di Budapest. Tutto per una statua dell’ammiraglio Miklos Horthy, reggente d’Ungheria dal 1920 al 1944, inaugurata ieri a poca distanza dalla sede del Parlamento in una cerimonia promossa dal partito di estrema destra oggi terza forza politica, Jobbik.
La tempistica era studiata sul 75° anniversario del Primo arbitrato di Vienna con il quale, dopo l’Accordo di Monaco del 1938, i nazifascisti costrinsero la Cecoslovacchia a cedere ampi territori all’Ungheria mutilata dal Trattato del Trianon del ’20: occasione ideale per esaltare quell’intreccio di miti nazionali e sentimenti revanscisti sul quale Jobbik ha costruito la propria piattaforma programmatica, assecondando pulsioni xenofobe e antisemite mai così forti dal Dopoguerra in un Paese che accoglie una tra le più antiche ed estese comunità ebraiche d’Europa.
Circa 437 mila ebrei deportati in 56 giorni: accadeva nel 1944 sotto la reggenza dell’ammiraglio alleato di Hitler. Gli ebrei ungheresi vittime dell’Olocausto furono oltre mezzo milione. Rendere omaggio al leader di quei tempi bui, nell’Ungheria che non ha ancora un giudizio storico condiviso su Horthy e che come il resto del Centro-Est europeo guarda al periodo nazista attraverso la lente deformata dell’oppressione sovietica, significa concedere ulteriore terreno a un partito che in questi anni ha portato in Parlamento una retorica pericolosamente aggressiva nei confronti delle minoranze.
Ieri le preoccupazioni dei politici locali e del partito conservatore di governo, la Fidesz del premier Viktor Orbán, si sono limitate al potenziale danno d’immagine per il Paese e alle attese reazioni della «stampa occidentale di sinistra». Ma le tensioni alimentate da Jobbik sotto la copertura del dibattito storiografico scavano nel profondo, soprattutto in tempi di recessione e vicine elezioni, quando è più forte la tentazione di trovare bersagli alla rabbia e alla paura.

Corriere 4.11.13
La barbarie al potere e i furti del Reich
di Hans Tuzzi


La notizia del ritrovamento in Germania di millecinquecento importanti quadri razziati dai nazisti in tutta Europa può stupire, ma non sorprendere.
Hitler e i suoi, infatti, alla parola «cultura» mettevano mano alla pistola, ma per accumulare tesori spogliando privati e pubbliche istituzioni, a cominciare dagli ebrei tedeschi per finire con l’Italia «traditrice». Hitler sognava di creare a Linz il più grande e splendido museo del mondo, Göring accumulava con vorace ingordigia (suo l’ordine di depredare Montecassino) e Goebbels, pragmatico, sino al 1939 finanziò il Reich vendendo all’estero l’arte «degenerata». È dalla miniera di sale di Altaussee, in Stiria, che nel 1947 emergono, coperte di fango, migliaia e migliaia di opere d’arte. Fra quelle trafugate all’Italia, ricordiamo 262 quadri dei fiorentini Uffizi, la Venere e la Danae di Tiziano, l’Apollo di Pompei, che Hitler teneva in casa, la Madonna di Bruges di Michelangelo, l’Agnello mistico di Jan van Eyck, gli ori del Museo archeologico di Napoli. La «tutela» nazionalsocialista dei beni culturali italiani ebbe inizio il 30 settembre 1943 con l’incendio dell’Archivio storico di Napoli su ordine del comando tedesco. Per pura barbarie? Perché l’ordine era distruggere quel che non si poteva portare in Germania. Dunque sì, per pura barbarie. Lo aveva scritto, il 30 gennaio 1933, Hitler eletto cancelliere, Joseph Roth a Stefan Zweig: «Si è riusciti a far governare la barbarie». Il primo italiano a seguire le piste delle opere trafugate fu Rodolfo Siviero: in occasione del trentennale della morte Castelvecchi e Skira lo ricordano con due libri. Del 1971 è la creazione del Comando carabinieri tutela patrimonio artistico: non gli mancherà il lavoro, a Monaco, nei prossimi mesi.

Repubblica 4.11.13
Trovato il tesoro segreto di Hitler 1500 opere da Picasso a Matisse
Sequestrati a un gallerista quadri per un valore di oltre un miliardo
di Andrea Tarquini


BERLINO — Era il tesoro segreto del Terzo Reich, quasi un’eventuale seconda riserva aurea della tirannide dopo quella della Reichsbank sperperata fino all’orlo della bancarotta per finanziare guerre e crimini contro l’umanità: oltre millecinquecento opere d’arte, dipinti dei massimi maestri dell’arte moderna, confiscati dai nazisti come “arte degenerata” o semplicemente rubata agli ebrei prima perseguitati costretti a lasciare la Germania dopo la “Notte dei cristalli”, poi finiti vittima della Shoah, il loro genocidio organizzato su base industriale. E solo adesso si viene a sapere che il tesoro è riemerso per caso, in un blitz del febbraio 2011 della dogana bavarese a casa di un anziano signore, ambiguo ma inosservato. È un evento sensazionale: l’arte e la cultura del mondo riprendono possesso di quelle opere, dal valore stimato di oltre un miliardo di euro, che dal 1945 erano state classificate come disperse per sempre.
Quadri di Pablo Picasso e Henri Matisse, Marc Chagall e Emil Nolde, Franz Marc, Max Beckmann, Paul Klee, Oskar Kokoschka, Ernst Ludwig Kirchner e Max Liebermann. Per decenni e decenni, dopo l’8 maggio 1945 quando il Reich fu costretto dagli Alleati alla resa incondizionata, del Tesoro di Hitler non si era saputo più nulla. Molti sopravvissuti alla Shoah, o i loro discendenti, per decenni chiesero ai governi del mondo ogni sforzo per ritrovarli, ma invano. Tutti si erano ormai rassegnati, tutti pensavano che i millecinquecento quadri fossero andati distrutti nei bombardamenti dei Lancaster e dei B-17 alleati, o a Berlino nei combattimenti tra tank, “carri armati volanti” e soldati di Zhukov e vecchi donne e bimbi arruolati a forza dal Fuehrer nel Volkssturm.
Solo ora si viene a sapere che tutto è stato ritrovato due anni fa.
Millecinquecento quadri di grandi autori sono una parte davvero non piccola del patrimonio culturale mondiale. Tutto era nascosto nell’appartamento lussuoso ma polveroso e decaduto di un anziano abitante di Schwabing, uno dei quartieri più chic della ricca capitale bavarese. Sotto il letto o negli armadi, li teneva nascosti il taciturno, schivo Herr Cornelius Gurlitt. Suo padre, il mercante d’arte Hildebrand Gurlitt, fu uno dei tanti “ariani doc” che seppero profittare del nazismo. Negli anni Trenta e Quaranta aveva acquistato quelle opere dai nazisti. Non si sa bene se doveva custodirle per loro come accadde a opere d’arte rubate e celate dai gerarchi nei forzieri di compiacenti banche elvetiche, o se ne fosse divenuto proprietario a pieno titolo. In ogni caso,sia lui sia il regime avevano fatto un buon affare. Herr Gurlitt senior nascose subito il tesoro nella bella casa di Schwabing, e per sua fortuna Monaco fu ben meno bombardata rispetto ad altre città del Reich.
«Almeno trecento dei millecinquecento quadri appartengono all’arte condannata e vietata dai nazisti come “degenerata” (astratta, surrealista ecc). Altre furono confiscate semplicemente per il loro valore», dice a
Focus,il giornale tedesco che rivela la storia nel numero in edicola oggi, la storica dell’arte berlinese Meike Hoffmann. Dopo la guerra, tutto restò in mano a Cornelius Gurlitt, appunto figlio di Hildebrand. Cornelius ereditò almeno un po’ di quadri in più dei 1.500 ritrovati. A lungo visse vendendo ora una tela ora un’altra, senza mai dichiarare nulla al fisco. Per questo finì indagato dalla magistratura, col sospetto di evasione fiscale. Riuscì a farla franca finché un giorno di settembre del 2010 si fece cogliere in flagrante dai doganieri, su un treno tra Monaco e la Svizzera, con in tasca forti somme di denaro contante. Fu ordinata una perquisizione nella casa di Schwabing, e venne effettuata nella primavera del 2011. Da allora, la dogana bavarese è in possesso del tesoro, custodito nel bunker di massima sicurezza a Garching, non lontano dal reattore atomico sperimentale.
Finora, le autorità avevano tenuto tutto sotto segreto. Anche il fatto che, dopo la perquisizione, Cornelius Gurlitt riuscì a intascare 864mila euro vendendo con l’aiuto di complici un quadro di Max Beckmann.
La memoria d’Europa,schiacciata in quei decenni dalle dittature, si risveglia. Nel tesoro di Herr Gurlitt c’era anche un quadro di Matisse, proprietà del collezionista ebreo francese Paul Rosenberg. Il quale fuggendo prima dell’occupazione nazista di Parigi lasciò là la sua collezione. Sua nipote Anne Sinclair (sì, proprio lei, l’ex moglie del controverso Dominique Strauss-Kahn) lottava da anni per ottenere la restituzione dei quadri del nonno. Ma di quel ritratto di donna di Matisse non sapeva nulla.

Repubblica 4.11.13
Anna Foa: “Hanno cancellato non solo milioni di vite, ma una parte della nostra storia e del pensiero europeo”
“È il genocidio culturale del Terzo Reich”
intervista di Alessandra Baduel


«IL numero dei morti della Shoah sovrasta il ricordo, il concetto stesso del genocidio culturale operato dal nazismo, fra opere sparite e possibilità di sviluppo del pensiero in ogni campo. Nei primi decenni del Novecento la creatività ebraica ha influenzato tutta la produzione, artistica e non solo: c’è un intero pezzo di cultura che manca, nella nostra storia, cancellato dai nazisti». La storica Anna Foa, grande esperta di ebraismo, accoglie la notizia del ritrovamento con le parole di chi da tempo riflette anche su questo, il «genocidio dell’arte», come lei lo definisce.
Secondo le stime, nella sola Francia i tedeschi saccheggiarono dalle case degli ebrei circa centomila fra dipinti, arazzi, sculture e altri oggetti d’antiquariato.
«E il paradosso ulteriore è che la chiamavano arte “degenerata”, per poi nasconderla nei caveau e mostrarla agli amici, ben consci del suo valore. L’“ideale” hitleriano, in privato non valeva. Ma poi, penso a tutta l’arte finita con i suoi autori nei campi di sterminio. Un nome solo, Charlotte Salomon, morta ad Auschwitz a 26 anni, lasciandoci alcuni ottimi dipinti autobiografici. Cos’altro avrebbe potuto fare, per la cultura di tutti noi? E ci sono i musicisti. Continuavano a scrivere note sulla carta igienica, c’è un italiano, Francesco Lotoro, che sta recuperando quei foglietti, per farci finalmente sentire quelle note».
Come possiamo guardarli, oggi, quei quadri ritrovati?
«Sono opere che nessuno in questi decenni ha potuto studiare, meditare, godere. Quando potremo di nuovo guardarle, bisognerà tenere conto di quel che è successo. Di dove sono state nascoste, fra barattoli di fagioli scaduti, nella polvere. Bisognerà capire quel che ha rappresentato la loro perdita per il mondo. E magari da lì riuscire a ripartire».

l’Unità 4.11.13
Camarade Antonio Gramsci
Anche la Francia lo riscopre ne parla il filosofo Andrè Tosel
di Stefania Miccolis


LA FILOSOFIA ITALIANA DEL ‘900 È RICCA E DI GRANDISSIMO VALORE, MA PURTROPPO OGGI È POCO NOTA. Ma è come un fiume carsico, le cose interessanti sono sottoterra e poi all’improvviso risorgono». Così André Tosel, filosofo, docente all’Università di Nizza, specialista del pensiero di Marx e del marxismo italiano, elogia la nostra cultura mentre passeggia ammirando il «patrimonio straordinario» di Roma. «L’Italia è piena di fascino e incanto, mi preoccupa però la volgarità in cui è caduta», dice. Senza nascondere, poi, il suo pessimismo nell’analizzare il presente in cui «la globalizzazione capitalista ha creato disuguaglianze così forti e ingiustizie insormontabili e ingiustificabili». Insomma, il nostro è un mondo guasto, Un monde en abîme, come il titolo di uno dei suoi saggi, (edito da Kimé nel 2008). E la filosofia può aiutarci a comprendere... La formula di Hegel per trasformare il mondo bisogna capirlo è alla base del pensiero di Tosel: «Io voglio capire il mondo nelle sue articolazioni, potenzialità, contraddizioni e opposizioni spiega -. La domanda importante è: quale mondo per quale gente? Le solidarietà di un tempo sono perdute e l’individualismo è giusto solo se concepito come individualismo dell’uguaglianza, il partager (ovvero la condivisione) e non come individualismo solitario.
Il sistema è riuscito a neutralizzare l’uomo in quanto massa compatta. All’individualismo come libertà di pensiero non si può rinunciare, è un diritto, ma al tempo stesso è molto ambiguo perché permette anche a determinate forze di agire incontrastate. Il popolo è stato soggiogato dall’idea imperante del consumo, e gli individui sono infelici perché non potranno mai soddisfare i loro desideri, non solo perché i fenomeni economici non vanno loro incontro, ma perché è lo stesso desiderio ad essere un’illusione».
Viviamo in un mondo paradossale, ripete Tosel, e si «aggrappa» al pensiero gramsciano, ne fa il faro della sua analisi: «l’ideale antropologico di Gramsci era quello di un uomo lavoratore serio, rigoroso, modello soppiantato dal liberismo capitalista. I limiti sono enormi e l’individualismo è diventato una religione. Non si può uscire da questa situazione se non si è capaci di produrre rispetto per il mondo, rispetto del bene comune. Gramsci, Hegel, Marx, in questo senso, sono strumenti di cui fare una intelligente rilettura».
Partiamo da Gramsci, che Tosel considera l’esponente più importante del marxismo del ‘900: «È poco studiato in Francia dice il filosofo ma in Italia è un po’ più vivo, perché vi sono ancora storici e filosofi che si interessano a lui e c’è un Istituto molto valido. A differenza dell’Italia la Francia non ha avuto una grande tradizione filosofica marxista, non abbiamo avuto Antonio Labriola, una discussione approfondita su Marx, ma solo una conoscenza frammentata, secca, dogmatica e schematica».
Labriola viene pubblicato in Francia grazie a Sorel: nella rivista Le Devenir Social appare il primo dei tre Saggi sul materialismo storico; il secondo e il terzo sono tradotti in francese nel 1897 e nel 1899. Il terzo, Discorrendo di socialismo e di filosofia, era scritto in forma di lettere indirizzate a Sorel; ma la fortuna di Labriola in Francia subisce una battuta d’arresto anche per l’ accoglienza negativa del grande sociologo Emile Durkheim. Tosel ricorda ciò che scrive Stefano Miccolis: «I Saggi erano la prima, meditata e originale interpretazione europea del pensiero di Marx; e avrebbero contribuito a produrre grazie anche alla loro immediata discussione, che coinvolse Croce e Gentile quel rinnovamento e rinvigorimento della filosofia italiana, che caratterizzò i primi decenni del Novecento». «E Gramsci secondo Tosel ha saputo analizzare con profondità molti aspetti della struttura del mondo moderno ed oggi assume un ruolo di interlocutore critico. Ha sempre avuto la speranza in una egemonia dei subalterni». Sottolinea quanto Gramsci abbia compreso la modificazione della concezione del lavoro, la correlazione fra struttura economica e forme politiche, quanto si sia soffermato sulla cultura dei linguaggi, sugli apparati egemonici e non solo, sull’unità linguista e sul folclore (importanti tra l’altro per l’antropologia culturale di oggi). «Ha riflettuto sul modo di unificare tutti questi aspetti in un modello di lavoro teoretico e politico. La sua è una analisi immane. È il solo marxista del secolo ad aver fatto questo. Ha saputo fare una sorta di mappa molto articolata, e le tesi generali sono basate su analisi precise. Ha cercato di unire la riflessione generale, concettuale dentro l’analisi dei fenomeni più concreti; questa è la forza del pensiero di Gramsci».
Ma adesso Tosel conviene che le sue analisi non possono essere riprese alla lettera, devono essere rivisitate: la punta avanzata dell’industrializzazione non è più l’industria pesante, ma quella della comunicazione.
Anche le forme politiche sono cambiate: «abbiamo delle forme ademocratiche, la democrazia parlamentare è divenuta non democratica perché è lontana dai bisogni e dalle aspettative della gente, è divenuta una specie di classe corporativa che da sola pretende di dirigere un paese che di fatto è sensibile soprattutto agli interessi economici più forti. C’è un blocco economico politico che regge tutto. Questa è una forma politica che Gramsci ancora non poteva conoscere in cui è la figura del popolo ad essere svanita. Il vero problema adesso è sapere se l’idea di una egemonia delle masse subalterne abbia ancora senso».
Tosel spiega come oggi l’epicentro della cultura gramsciana sia anglo-americano e come Gramsci sia stato rivalutato in America latina dove ha avuto un ruolo importante nei movimenti social-democratici che si sono affermati. Ma anche in India antropologi e sociologi analizzano i ceti subalterni attraverso il suo pensiero. «Gramsci aveva capito in anticipo l’importanza di queste categorie e la necessità di far nascere in loro una cultura propria ma combinata con i punti avanzati della cultura moderna».
Tosel nel 1991, a Besançon, organizzò lui stesso un importante e grande convegno sul fondatore del partito comunista. Oggi l’Istituto Gramsci gli dà la possibilità di curare il volume Gramsci in Francia dove riunirà i testi noti e poco noti sull’intellettuale marxista usciti in Francia.
Un progetto importante già cominciato e che continuerà in altri paesi «per mantenere vivo il pensiero gramsciano nel mondo e attualizzarlo, perché non possiamo dimenticare lo sforzo fatto dal marxismo nel secolo passato per capire il mondo e cercare di trasformarlo».

Corriere 4.11.13
San Francesco, uomo nuovo a imitazione fedele di Cristo
Le stimmate, le visioni e le parole supreme del religioso
di Pietro Citati


Credo che la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio (La letteratura francescana vol. IV, La leggenda di Francesco , a cura di Claudio Leonardi, traduzione di Mauro Donnini, commento di Daniele Solvi, pp. XXI-440, Fondazione Lorenzo Valla — Mondadori, e 30) sia la più bella vita di santo conosciuta dalla tradizione cristiana. Come nella vita di Tommaso da Celano (La letteratura francescana , vol. II, Le vite antiche di san Francesco , pp. 614 e 30), san Francesco, quest’uomo piccolo, mite, umile, poverissimo, è l’uomo assolutamente nuovo: mai si giunse così lontano, nella febbrile rincorsa spirituale del futuro.
Più Francesco è nuovo, più affonda nell’antico: imita l’antico; non è altro che l’incessante novità dell’antico. Come l’arcobaleno nella Bibbia, Francesco è il segno della nuova alleanza stabilita tra Dio e gli uomini: è Mosè, Giobbe, Giovanni, Battista, Gesù Cristo, un angelo dell’Apocalisse. In primo luogo, è Cristo: «O uomo veramente cristianissimo — scrive Bonaventura —, che, con perfetta imitazione, si prodigò, per essere confuso, da vivo, al Cristo vivo, da morente, al Cristo morente, da morto, al Cristo morto».
Se leggiamo Bonaventura, e attraverso di lui risaliamo ai Vangeli, e a tutti gli eventi e le parole che stanno prima dei Vangeli, abbiamo l’acutissima sensazione di essere avvolti nel loro profumo e nella loro musica. Mentre Francesco parla, Gesù Cristo torna a parlargli e a parlarci. Non una parola è inesatta, non una parola è sbagliata: tutto ciò che Gesù — Francesco dice, «penetra nelle parti più profonde del cuore, al punto da suscitare un intenso stupore in chi lo ascolta». Gesù Francesco dice e Francesco ripete: «Non portate nulla durante il viaggio»; «Chi vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Così anche noi siamo tentati di rinnegare noi stessi e di prendere la nostra croce, seguendo durante il viaggio chi, duemila anni or sono, aveva percorso, con leggerezza, dolore e un piccolissimo viatico, le strade e le acque di Palestina.
La Legenda maior non è la prima vita di san Francesco. Bonaventura era stato incaricato di scrivere la vita definitiva di Francesco nel Capitolo generale di Narbona del 1260: la sua opera venne approvata nel Capitolo di Pisa del 1263; e nel Capitolo di Parigi del 1266 fu presa la decisione, come era abitudine nel medioevo, di distruggere tutte le biografie precedenti, sebbene la decisione non venisse applicata alla lettera. Mi piacerebbe sapere cosa i francescani trovassero di nuovo nella prosa sublime della Legenda maior . Rispetto a Tommaso da Celano, a Giuliano di Spira, alla Lettera dei tre compagni e agli altri antichi testi anonimi, credo che essi vi ritrovassero una voce perennemente estatica: una mirabile ebbrezza mistica: lacrime e gioia: preghiera ininterrotta: la conoscenza di tutti gli animi umani e delle cose celesti, ottenuta non attraverso la cultura dei libri ma l’immediata rivelazione di Dio; in una parola, come scriveva Bonaventura, «il carbone ardente», il «fulgore eterno» di Cristo. Mi scuso se parlerò soltanto di un episodio della Legenda maior : le pagine dedicate alle stimmate di Francesco.
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Probabilmente nel settembre 1224, due anni prima di morire, Francesco si reca «in un luogo eccelso e solitario», il Monte della Verna, dove rimane quaranta giorni: esso gli richiama alla memoria tre altri monti, il Sinai, dove Mosè aveva ricevuto le tavole della legge, e i due altri monti dove Gesù aveva conosciuto la tentazione e la trasfigurazione. Francesco ama e ricerca i segreti della solitudine e della quiete: vi si dedica liberamente a Dio, «così da ripulirsi se gli era rimasto attaccato un qualsiasi granello di polvere, proveniente dalla vita cogli uomini». In quei giorni viene inondato dalla dolcezza della contemplazione divina, e infiammato ardentemente dal fuoco dei desideri celesti.
Un giorno, Dio gli ispira la lettura del Vangelo. Francesco prende il libro: lo fa aprire tre volte da un compagno; e tutte le volte il Vangelo gli rivela un episodio della passione di Cristo. Allora, Francesco comprende che, se per tutta l’esistenza aveva imitato la vita di Gesù, ora , giunto presso la morte, deve essere «conforme al Signore» nelle sofferenze e nei dolori della passione. È stanco e debole: marchiato dai segni visibili e invisibili della croce: ma non ha nessuna paura, perché egli ha cercato da sempre il martirio, «le fiaccole di fuoco e di fiamme», «l’insuperabile incendio dell’amore di Cristo». La dolcezza della compassione lo trasforma nel suo Signore: senza che nulla accada in apparenza, egli è già spiritualmente crocifisso, con le mani e i piedi forati dai chiodi, e il fianco destro trapassato dalla lancia.
Qualche giorno dopo, di mattina, Francesco ha una visione: come sia Tommaso da Celano sia Bonaventura ripetono. Della visione, esistono due versioni. Tommaso racconta che Francesco, presso il Monte della Verna, vede un uomo «simile a un serafino con sei ali, inchiodato a una croce, con le braccia distese e i piedi uniti»; due ali sono spiegate sopra il capo, due protese per volare, e le due ultime velano tutto il corpo. Tommaso non dice che l’uomo-serafino inchiodato alla croce sia il Cristo: lo pensa certamente e lo ripete più tardi, perché altrimenti la storia delle stimmate non avrebbe avuto significato; ma cela, con una nube di pudore e di discrezione, il nome prodigioso del Signore. Quanto al serafino con sei ali, qualsiasi lettore della Bibbia lo aveva incontrato in Isaia (e in Ezechiele ). I serafini con sei ali, gli incandescenti, erano creature angeliche che si avvicinavano al «carbone ardente» di Dio, senza scorgerlo. Nella letteratura cristiana, il serafino diventò Cristo.
La visione di Bonaventura è completamente diversa: egli non ha nessuno ritegno a pronunciare il nome Signore, anzi lo ripete. Perché, in quella mattina, presso il Monte della Verna, Francesco conosce, secondo Bonaventura, due visioni del Cristo, separate tra loro. Il primo è un serafino con sei ali, «tanto infuocate quanto splendenti», che scende dal cielo in volo rapidissimo: esso è la «sublime similitudine del serafino», avvicinato e opposto «all’umile effige di Cristo». La seconda visione, che appare in mezzo alle ali, vicinissima alle ali, sino quasi a confondersi con esse, è il crocifisso che salì sulla croce nei Vangeli, e ancor ora, nel cielo della Verna, «ha le mani e i piedi confitti a una croce». Il rapporto tra le due figure è «inscrutabile»: possiamo soltanto dire che il Cristo-serafino non sopporta la sofferenza della passione, perché il suo spirito non può accordarsi con essa. Come chiamarlo? Forse potremmo dire, come scrisse Francesco, che il figlio di Dio è per natura «immortale, invisibile, ineffabile, incomprensibile, inaccessibile»: Cristo immortale e ineffabile è il serafino, e a rigore non soffre né patisce, sebbene appaia nella sua paradossale forma angelica. Con queste due figure, Bonaventura esprime mirabilmente l’infinita complessità teologica della sua visione del Figlio.
In Tommaso da Celano, il silenzio avvolgeva il misterioso serafino inchiodato alla croce. In Bonaventura, la prima visione di Cristo, il serafino infuocato e rapidissimo, parla. Non sappiamo cosa dica, ma parla: secondo Francesco, disse «alcune cose che per tutta la vita egli non avrebbe dovuto rivelare a nessuno». «Senza dubbio è da credere — aggiunge Bonaventura — che le parole di quel santo serafino siano state così ineffabili, che forse non era lecito agli uomini proferirle». Qui raggiungiamo la vetta della rivelazione: queste parole taciute rappresentano il culmine ineffabile e incomprensibile, che né Francesco né Bonaventura osano rivelare. Mentre il serafino parla, sorride a Francesco: il suo sorriso è pieno di amabilità e di ammirazione; e Francesco prova letizia davanti a questa gioia sovrannaturale che lo avvolge.
Dopo il radioso sorriso celeste, il racconto si capovolge. La visione, che finora aveva riempito lo spirito di Francesco con le immagini del serafino e del crocifisso, scompare: la mente del santo resta vuota. Qualcuno potrebbe credere che, a causa di questa scomparsa e di questa assenza, egli perda il suo ardore e la sua gioia: forse, la sua stessa fede; mentre, al contrario, la visione, scomparendo, lascia nel cuore «un mirabile ardore».
In questo preciso momento, avvengono le stimmate : parola usata solo da Paolo; vale a dire l’imitazione di Cristo, che ora accade per la prima volta nella storia cristiana. Gesù aveva conosciuto il «martirio della carne»: i chiodi di ferro nelle mani e nei piedi: il colpo di lancia nel fianco, che aveva versato sangue e acqua (solo sangue, secondo Bonaventura). Sopra e attorno a lui, c’erano Dio, i fedeli timorosi, e i soldati che lo torturavano. Nel caso di Francesco, non c’è nulla di esterno: non ci sono fedeli né soldati, e nemmeno un Dio che agisca nel mondo reale. Tutto avviene, a poco a poco, con evidente lentezza, nello spirito, nel cuore e nel corpo di Francesco: la visione incendia lo spirito; la carne, a sua volta incendiata, imita i segni lasciati nel crocifisso, che un momento prima era apparso, presso il Monte della Verna, tra le ali del serafino.
Qualche pagina più tardi, avviandosi alla conclusione della Legenda maior , Bonaventura ci spiega che, in quel momento, presso il Monte della Verna, Dio lavora sul corpo del suo amatissimo santo, come uno scultore-pittore nel più sublime degli atelier. Egli trasforma la carne di Francesco: escrescenze, simili a teste di chiodi di ferro, rotonde e nere, fuoriescono nella parte interna delle mani e in quella superiore dei piedi; mentre le punte dei chiodi di carne, allungate, ritorte e ribattute, si ripiegano sulla parte opposta della ferita.
Qui Bonaventura riprende, quasi alla lettera, una pagina di Tommaso da Celano: tutto è minuziosissimo e dettagliatissimo; mentre, poco prima, aveva rivelato con oscura rapidità i segreti più profondi della sua cristologia. Questa minuzia visiva non deve stupirci. Le stimmate sono anche un’opera d’arte: un capolavoro d’arte divina; quei chiodi rotondi e neri come il ferro, che imprimono il loro nero nella carne bianchissima di Francesco, quella ferita del fianco che rosseggia come il fiore rotondo della rosa primaverile, suscitano «piacere e ammirazione» in tutti coloro che contemplano il corpo vivo e morto di Francesco.
«Siccome è cosa buona tenere nascosto il segreto del Re», Francesco vuole celare le stimmate: specialmente la ferita del fianco, che per lui, come per il Vangelo e la prima lettera di Giovanni, possiede un importantissimo valore simbolico. Dio vuole che le stimmate vengano rivelate: Bonaventura obbedisce al volere di Dio; e racconta, specie nell’appendice della Legenda , una serie di miracoli che mostrano la forza prodigiosa dei segni sacri. Una sola cosa resta nascosta: le parole pronunciate dal serafino con sei ali, presso il Monte della Verna. Proprio perché esse sono assolute parole del Cristo supremo, e contengono probabilmente il segreto della Legenda , Francesco e Bonaventura pensano che «non sia lecito agli uomini di proferirle».

l’Unità 4.11.13
I falsari della ricerca
di Pietro Greco


«How science goes wrong». Il coloratissimo titolo dominava la prima pagina della più nota e diffusa rivista economica del mondo, The Economist, sulla prima pagina. Annunciando un dossier, piuttosto lungo, sul «come la scienza sbaglia».
O, meglio ancora, su «come la scienza funziona male».
L’intervento ha scatenato una miriade di reazioni, anche sui media italiani. E, anche se il tema non è nuovo, giunge più che mai opportuno. Per due motivi. Il primo è che la copertina di The Economist, ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza occupa un ruolo decisivo nella società e nell’economia del mondo. E che il suo funzionamento interno non è questione da tecnici, ma può ben occupare la copertina di una delle poche riviste globali. Per dirla in una battuta, The Economist ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza è questione troppo seria per lasciarla ai (soli) scienziati. Il secondo motivo che torna a merito di The Economist è di averci ricordato come la scienza o meglio, la comunità scientifica mondiale, con le sue prassi e i suoi valori è nel bel mezzo di una transizione epocale. Anche se, bisogna dire, gli estensori del dossier non hanno colto tutta la dimensione del cambiamenti. E, di conseguenza, non hanno colto tutte le ragioni che inducono (che sembrano indurre) la comunità scientifica a sbagliare più che in passato e le prassi scientifiche a funzionare peggio che in passato.
Il succo dell’analisi di The Economist, fondata su alcune recenti ricerche scientifiche (e già, la scienza sa indagare su se stessa senza indulgenza), è che molti degli articoli scientifici pubblicati su alcune decine di migliaia di riviste in tutto il mondo sono piene di errori, metodologici e di contenuto, e presentano risultati né verificati né verificabili. Questa situazione costituisce un pericolo sia per il corretto funzionamento della scienza, sia per la sua credibilità. Ma, soprattutto, costituisce uno spreco di denaro, spesso pubblico, e un danno per l’umanità. Perché procedure più corrette consentirebbero di migliorare la qualità della spesa e di produrre risultati migliori a beneficio dei cittadini del pianeta. È vero che anche in passato, riconosce The Economist, non sono certo mancati gli errori e persino le frodi scientifiche. Ma ora la patologia sta diventando più estesa e diffusa.
Le cause individuate dai redattori della rivista sono essenzialmente tre. Una è che gli scienziati sono chiamati a confrontarsi con una massa crescente di dati e non hanno ancora acquisito una matura cultura statistica per gestirli. Una seconda ragione è che sta crescendo la competitività scientifica a livello globale e il «public or perish» (pubblica o altrimenti muori), induce, appunto, a pubblicare qualsiasi cosa, anche non rigorosa, anche talvolta falsa. Terzo, è che né le riviste né le istituzioni scientifiche hanno interesse a verificare se le metodologie sono corrette e i risultati pubblicati verificabili. La situazione fotografata da The Economist è reale. E certamente le tre cause indicate colgono parti di verità. Ma, appunto, solo una parte della verità. E, dunque, ci danno un’informazione un po’ deformata sulla ricerca scientifica. Che, come dicevamo, è nel bel mezzo di una trasformazione epocale. Per tre motivi. Mai la ricerca scientifica ha avuto così tante risorse: il 2% del Prodotto interno lordo mondiale, pari a quasi 1.500 miliardi di dollari nel 2012. Con queste risorse possono lavorare oltre 7 milioni di ricercatori: cento volte di più che un secolo fa. I ricercatori di oggi sono superiori alla somma di tutti gli scienziati vissuti nelle epoche precedenti. Con tante risorse, finanziarie e umane, le vecchie e consolidate procedure funzionano necessariamente meno bene.
La seconda trasformazione riguarda la scienza finanziate dalle imprese private. I due terzi degli investimenti in ricerca nel mondo (circa 1.000 miliardi di dollari) sono a opera di privati. Tutto questo sta modificando la griglia di valori di una parte della comunità scientifica (quella finanziata con fondi privati). E pone spesso in conflitto l’interesse privato (il segreto, il profitto) con quello pubblico (la trasparenza, il beneficio per tutti). La terza trasformazione riguarda l’internazionalizzazione. Fino a cinquanta anni fa, tre scienziati su quattro vivevano o in Europa o in Nord America: un mondo culturalmente omogeneo. Oggi più della metà degli scienziati vive in Asia. L’universo culturale è cambiato e si è differenziato. Difficile che le regole e i valori che vigevano in Europa e in quell’estensione dell’Europa che è il Nord America possano funzionare senza incrinature in una comunità finalmente globale. In definitiva, la scienza è in piena crisi di crescita. Come potrebbe non avere problemi? A tutto ciò si aggiunga il fatto che la ricerca scientifica costituisce il motore dell’economia di gran parte del pianeta (Italia, ahinoi esclusa): dei Paesi di antica industrializzazione e dei Paesi a economia emergente. Per cui sui ricercatori, pubblici e privati, si esercitano pressioni enormi, del tutto sconosciute in passato.
Per questo un acuto osservatore della società scientifica, il fisico teorico John Ziman, sosteneva che la scienza vive una nuova fase storica, post-accademica, profondamente interpenetrata con il resto della società. Diversa dalla fase accademica vigente fino alla seconda guerra mondiale, quando gli scienziati vivevano e si sentivano isolati e ben protetti in una «torre d’avorio». Ma al netto di tutto ci sono ancora due considerazioni da fare. La prima è che quella scientifica, per quanto cresciuta e globalizzata, è una comunità che ha una capacità senza pari di indagare se stessa, di scoprire dove sbaglia e di autocorreggersi. Ne ha dato prova nei mesi scorsi l’esperimento Opera, che aveva rivelato presso il Gran Sasso dei neutrini che sembravano viaggiare a velocità superiore a quella della luce. Ha diffuso questi risultati che, se veri, avrebbero costituito una pietra miliare nella storia della fisica. Ma lo ha fatto con prudenza. E, soprattutto, si è messo alla ricerca di un possibile errore. La ha trovato. E, anche se era un errore banale, non ha avuto paura di metterci la faccia e di riconoscerlo. Quale altra comunità avrebbe fatto altrettanto?
Ma, al di là dell’onesta individuale che, sia detto per inciso, tra gli scienziati è in media superiore di gran lunga alla media c’è un altro fattore che ci deve far continuare ad avere fiducia nella scienza. La storia della ricerca è piena zeppa di errori o di studi irrilevanti. Ma le conoscenze più solide e profonde sopravvivono per selezione naturale, e indipendentemente dai comportamenti dei ricercatori. La selezione non è deterministica, ma è efficiente. Tant’è che la scienza, pur con i suoi difetti, è la forma di conoscenza umana più produttiva e solida che si conosca.

il Fatto 4.11.13
“Le donne saranno la salvezza”
di Rania di Giordania
*

"La crisi finanziaria ha lasciato un'ombra, che incombe su di noi. Sono andati persi migliaia di posti di lavoro. E migliaia di miliardi sono stati spesi per salvare l'economica globale. Cosa può contribuire a invertire la rotta? A cancellare lo spettro della crisi finanziaria dalla nostra vita, e a tornare un mondo sostenibile? Una sola parola: le donne. Per anni nella cittadella della teoria economica, le donne sono state cittadine di seconda classe. La gente ha semplicemente accettato che gli uomini controllassero il denaro, dai fondi per la casa, alle finanze nazionali. Ma i tempi stanno cambiando. Secondo le previsioni, le donne possono dare la più forte spinta all'economia globale nella storia dell'umanità: un'espansione più potente della crescita di Cina e India messe assieme. Sì, le donne sono in ascesa. Ma c'è un altro lato di questa storia. Mentre sempre più donne guadagnano salari alti e raggiungono posizioni elevate, altre milioni di ragazze rimangono tagliate fuori dal lavoro. Viene negata loro la possibilità di esprimere il loro potenziale. Nel mondo arabo, le nostre donne sono fin troppo abituate a questo. Il loro tasso di partecipazione nel mondo del lavoro è uno dei più bassi al mondo. Il loro potenziale è sprecato. I loro talenti sono sprecati. Questa ingiustizia è globale. In altre parole, le donne oggi rappresentano due lati del mondo: essi sono il volto della ripresa globale e insieme il volto della povertà globale. Il problema è complesso, ma la soluzione è più semplice di quanto si possa pensare: istruzione. Non possiamo permetterci di continuare a buttare via così tanto potenziale umano".
   Tratto dal discorso della regina di Giordania, Rania Al Abdullah, pronunciato a Roma il 22 ottobre 2009, in occasione del Premio Marisa Bellisario.

il Fatto 4.11.13
Uomo donna e dio
Islam, tutto è concesso nei confini del matrimonio
di Giulia Zaccariello


Il filo rosso che non va mai oltrepassato si chiama nikah: il matrimonio islamico tra un uomo e una donna. Dentro quel confine, una coppia musulmana può abbandonarsi a ogni piacere del corpo. Con l'unica eccezione della sodomia, nella vita sessuale degli sposi il Corano concede quasi tutto, dalla contraccezione ai giochi erotici. In una visione dell'amore che appaga i sensi e non obbliga al concepimento. Ma è fuori dalle mura di casa, dove termina il legame coniugale, che si alzano i divieti, si cancellano i diritti, si allargano le disuguaglianze tra i generi. E che sui costumi si stringono le maglie della morale e quelle delle leggi. In una continua ricerca di equilibrio tra tradizione e modernità, tra passato e presente.
MATRIMONIO. Non c'è solo quello classico, quello del “fino a che morte non vi separi”. Nella tradizione sciita esiste anche il mut'a, ossia il matrimonio di piacere, una sorta di unione a tempo determinato che può durare, a seconda delle esigenze, 1 giorno o 10 anni. Non ha bisogno di riti o cerimonie, può essere stipulato con un accordo verbale davanti a due testimoni ed è ripetibile più volte nella vita. In Iran, ad esempio, è noto come sigheh e negli ultimi anni ha subito un vero e proprio boom, diventando un business per decine agenzie specializzate nella ricerca di aspiranti sposi a termine. A scegliere questa formula sono soprattutto quei giovani, che non si sentono pronti per le nozze ma desiderano comunque avere rapporti sessuali, senza violare i dettami religiosi. Oppure uomini già sposati, che in questo modo possono giustificare relazioni con più donne, dando vita, talvolta, a delle forme di poligamia.
ADULTERIO. Il Corano vieta qualsiasi piacere carnale fuori del matrimonio. Compreso l'autoerotismo. È considerato peccato dalla Sharia. Ma più grave è l'infedeltà coniugale, reato in quasi tutti i codici penali dei paesi islamici. In molti casi punito con pene severissime. In Iran, ad esempio, ogni anno vengono lapidate a morte decine di donne. Anche in Arabia Saudita chi ha un rapporto sessuale, anche se frutto uno stupro, con un uomo diverso dal compagno rischia la condanna capitale. Discorso simile vale per alcune forme di trasgressione, come lo scambismo. In Egitto, ad esempio, una coppia alla ricerca di altri partner può finire in carcere.
CONTRACCEZIONE E ABORTO. Sono due terreni, in cui le norme coraniche lasciano ampie libertà. Ovviamente sempre restando nell'ambito del matrimonio. Sono ammessi sia l'uso del preservativo, sia quello della pillola. Mentre l’interruzione di gravidanza è lecita solo in alcuni casi: dopo uno stupro o un incesto, quando è a rischio la salute della donna, o quando i genitori non hanno i mezzi per mantenere il bambino. Tra i primi paesi islamici ad aver regolamentato l'aborto c'è la Tunisia, dove una donna può chiedere di interrompere la gravidanza in ospedale o in cliniche autorizzate, entro i primi 90 giorni.
DIVORZIO. Nei paesi più integralisti, come Arabia Saudita e Iran, si chiama talaq. Ossia, ripudio. È il diritto, riservato agli uomini, di interrompere il matrimonio all'improvviso e senza motivazioni, e di sposare un’altra donna. Le mogli invece possono chiedere lo scioglimento del legame solo se riescono a provare gravi mancanze del compagno. Il ripudio, da alcuni anni al centro di proteste e dibattiti tra conservatori e progressisti, è stato abolito in Algeria e in Tunisia. Mentre nel 2004 il Marocco ha approvato un nuovo codice, chiamato Mudawana, che punta a regolare diversi aspetti della vita familiare, tra cui anche le separazioni, parificando i diritti dell'uomo e della donna.
OMOSESSUALITÀ. Se in generale la sodomia è vietata anche tra uomo e donna, i rapporti tra persone dello stesso sesso sono perseguitati in gran parte del mondo musulmano. Secondo i dati di Amnesty International in sette paesi islamici, Arabia Saudita, Iran, Mauritania, Sudan e Yemen, Nigeria e Somalia, i gay rischiano la pena di morte. Nel migliore dei casi, come in Egitto e in Turchia, l’omosessualità non è considerata un crimine, ma resta comunque difficile per la comunità Lgbt vivere alla luce del sole.

Corriere 4.11.13
Le radici mitiche e sacre dei tre enigmi di Turandot
La tradizione antica in un’inedita interpretazione
di Paolo Isotta


Al Teatro dell’Opera di Roma è andata in scena in questi giorni la Turandot , l’ultima e incompiuta Opera di Giacomo Puccini.
L’allestimento, originariamente del Teatro Petruzzelli di Bari, si deve, sulle scene meravigliose di Nicola Rubertelli e coi costumi meravigliosi di Odette Nicoletti, al grande compositore Roberto De Simone per la regia. Questi detta un preziosissimo saggio di carattere mitologico, egli essendo anche un mitologo e storico della mitologia e autore di un volume su Virgilio. La Fiaba di Carlo Gozzi, tradotta in tedesco da Federico Schiller e ritradotta in italiano da Andrea Maffei, l’amico di Verdi, è la fonte ultima di Adami e Simoni, i peritissimi poeti che stesero a Puccini il Dramma da lui musicato; ma De Simone risale alle fonti e si spinge fino ai tempi preistorici pei quali la Fiaba «affonda le sue radici in arcaici miti cosmogonici che riguardano il Sole e la Luna nel loro continuo alternarsi ciclico di vita, morte, rinascita. Il tema riguardante gli enigmi rimanda a lontani riti iniziatici nei quali rientra il noto episodio della Sfinge che pone a Edipo una medesima prova da superare per potere sposare la regina Giocasta. L’elemento del nome da indovinare si connette alla sacralità del nome nascosto, di un mantra, di una divinità, di un eroe e non al reale nome assunto comunemente da tale eroe o da un dio. Conoscere il nome misterico di un’entità celeste o infera equivale ad avere in proprio potere l’essenza, l’anima dell’eroe o del dio stesso».
Quest’allestimento è uno dei più belli che si siano mai visti, non della Turandot , dico, in assoluto. Le porte della reggia son poste al sommo d’un’alta scalinata e su di essa è il fatale gong che il principe Calaf percote per sacrarsi alla morte o alla vittoria. La scena è occupata anche da simulacri di soldati in terracotta. Turandot appare la prima volta, invisibile quasi, circonfusa di luce e d’incenso. Sincretismi vedici e buddhisti arricchiscono l’allestimento caratterizzato da un minuzioso ritualismo avvolgente anche l’esecuzione al I atto del Principe di Persia.
Sul podio il maestro Pinchas Steinberg. Egli rifinisce straordinariamente la concertazione rendendola una festa timbrica ma al tempo stesso prosciuga i ritmi senza sottolinearne abusivamente la modernità e domina l’insieme con eccezionale autorità. Per trovare una Turandot altrettanto ben diretta debbo andare con la memoria agli anni Settanta e a uno dei più grandi musicisti che abbia in vita mia conosciuti, nonché uno dei più preziosi amici, il pianista, compositore e direttore d’orchestra Franco Mannino.
La compagnia di canto è eccezionalmente assortita. La protagonista, autentico soprano drammatico che ricorda Gina Cigna, è Evelyn Herlitzius, ossia l’indimenticabile Ortruda del Lohengrin datosi alla Scala il 7 dicembre scorso; e che nell’attuale stagione sarà Elettra. Calaf è l’ottimo tenore Marcello Giordani. Carmela Remigio interpreta molto bene Liù. Il meraviglioso basso Roberto Tagliavini è Timur. Chris Merritt, tenore qualche decennio fa temerario nell’affrontare ruoli a lui vietati, è Altoum e qui è perfetto per aver egli voce di «monaca vecchia». Simone Del Savio, Saverio Fiore e Gregory Bonfatti sono il terzetto delle Maschere, equilibrato come poche volte s’è visto. Gianfranco Montresor è il Mandarino degli annunci («Popolo di Pechino!»)
Tutti sanno, per averlo io scritto molte volte, che di quest’Opera esiste un Finale convenzionale, dovuto a Franco Alfano, che Toscanini abusivamente ridusse fino a stravolgerne la linea compositiva. Ma l’autentico Finale-Alfano adesso è disponibile e io mi batto da quando lo è affinché venga eseguito. Questa volta la Turandot è rappresentata senza «alcun» Finale, arrestandosi essa al Mi bemolle dell’ottavino, ultima nota scritta dall’Autore. (Ricordo in via incidentale non esser vero che l’Opera sia incompiuta per il subentrare della morte di Puccini: egli morì senza esser riuscito a scrivere un Finale.) Alle mie rimostranze il maestro Alessio Vlad, Direttore Artistico, ha obbiettato: esser Alfano il più grande compositore italiano del Novecento; il suo Finale esser un tale capolavoro compositivo da dover essere eseguito a sé in forma di concerto. E io non finisco mai d’imparare.

Corriere 4.11.13
La poesia della fisica
di Sandro Modeo


Come molti altri libri disponibili sull’argomento, anche quello del Nobel Leon Lederman e di Christopher Hill privilegia fin dal titolo «Fisica quantistica per poeti» (Bollati Boringhieri, pagine 328, e 24) gli scarti controintuitivi e le suggestioni estetiche di una teoria contrastata dallo stesso Einstein — che pure aveva contribuito a generarla — per la sua «apparenza sovrannaturale». Lederman e Hill si caratterizzano, però, sia per la concretezza metaforica (vedi il bicchiere pieno d’acqua o di sabbia fine per distinguere il «continuo» dal «discreto», l’onda dalla particella), sia per una cautela estesa dal livello astratto-speculativo (la teoria delle stringhe) a quello applicativo (la crittografia e i computer quantistici). In questo modo, anche le implicazioni filosofiche (gli «abissi dei fondamenti» intesi come i rapporti tra la «pesantezza» della fisica classica e la «spettralità» di quella subatomica) evitano facili tentazioni da metafisica new age. Poesia sì, ma sempre al confine con la prosa.

il Fatto 4.11.13
Un nuovo libro di Aldo Cazzullo
Basta piangere, possiamo ancora farcela
di Furio Colombo


Lo leggi volentieri un libro di Aldo Cazzullo, perchè, da buon giornalista con grande seguito, quasi sempre a metà strada tra il reporting e la riflessione, ti racconta in modo preciso cose che sa.
In altre parole, Cazzullo non rovescia il mondo. Lo prende così com’è e lo spiega. E non guasta la gentilezza un po’ pedagogica con cui l’autore si rivolge al lettore. L’ho letto volentieri e vorrei spiegare perché, a momenti, con dissenso.
Il libro è Basta piangere, Storia di un’Italia che non si lamentava (Mondadori, Strade Blu). Il titolo dice bene: c’era una volta un Paese che ha affrontato e superato durissime prove, sempre con una gran voglia di fare, molta fatica, molto talento, alcuni colpi di genio, un diffuso coraggio, misto a ostinazione e alla persuasione di farcela.
Sono in grado, da testimone e partecipe della incredibile stagione italiana della ricostruzione, del “boom” e poi dell’Italia benestante che è sorta quasi per incanto su rovine e povertà, di dare atto a Cazzullo, tanto più giovane e dunque informato più da libri e da film che da esperienza diretta di quegli anni, che la sua narrazione è del tutto attendibile, ben documentata e ben narrata. Ma c’è, a volte implicito, a volte apertamente proclamato, un ammonimento che non sono sicuro di condividere: adesso, invece, ci troviamo in una Italia che si piange addosso tutto il tempo, per ragioni serie e per ragioni futili, e che non sa più ritrovare il polso fermo, la determinazione, la forza, con cui questo Paese è risorto da qualcosa di molto peggiore di una pur grave crisi economica e politica. Leggendo, mi sono ricordato di un viaggio ad Haiti, molti decenni fa, quando in quella sfortunata isola c’era ancora la dittatura di Papa Doc.
L’AUTISTA DEL TAXI che avevo noleggiato per alcuni giorni all’aeroporto, mi appariva sempre molto triste. Un giorno gli ho chiesto come mai. “Signore - mi ha risposto - le assicuro che non ho alcuna ragione per essere felice”. È stata l'unica frase della nostra conversazione. Ha scritto quasi la stessa storia il commentatore del New York Times, Frank Bruni (26 ottobre), in un articolo dedicato all’Italia: “Sono abituato, in questo Paese, a un pessimismo teatrale, a un certo diffuso compiacimento di dire male di se stessi. Questa volta è diverso”. Lo spiega in tre paragrafi: Berlusconi e il suo ridicolo disastro; i governi tentennanti che non trovano una via d'uscita; l’impressione diffusa di avere perso il futuro. “Basta piangersi” è un invito giusto e legittimo. Come l’autista di Haiti, il giornalista americano, dopo il suo giro nella penisola, si è convinto che per noi sarà un po’ difficile. Temo che abbia ragione.

La Stampa 4.11.13
Quando Annibale mangiava ananas in America
Secondo lo storico della scienza Lucio Russo il Nuovo Mondo sarebbe stato scoperto già nell’antichità, forse dai Cartaginesi
Una tesi fondata su ragioni di metodo, con qualche punto debole
di Alessandro Barbero

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