martedì 5 novembre 2013

l’Unità 5.11.13
Da Trapani a Rovigo: caos, insulti e denunce
Congressi sdoppiati, tessere gonfiate, persino attacchi omofobi
di Simone Collini


Ci sono state denunce per insulti omofobi, lettere con richiesta di intervento spedite a Guglielmo Epifani con firme dichiarate false dai diretti interessati, congressi svolti in due posti diversi che hanno portato all’elezione di due segretari diversi. E poi ricorsi presentati prima ancora che iniziassero discussione e votazioni, presidenti di commissioni regionali accusati di complicità con lo schieramento avversario, candidati ritirati lamentando la mancanza di trasparenza, iscritti che dichiarano di aver votato ma che non figurano nel registro dei votanti.
Anche nell’ultimo giorno utile per tenere i congressi provinciali non sono mancate le polemiche su tesseramenti gonfiati, impediti, contestati. Casi isolati, spiegano al quartier generale del Pd sottolineando tra l’altro il fatto che tutto questo parlare di iscrizioni di massa, last minute, sospette, mal si concilia con il dato definitivo dei tesserati al partito. Che, stando a quanto risulta in queste ore al Nazareno, per il 2013 non supereranno i 500 mila dello scorso anno (di questi avrebbero votato finora in circa 350 mila). E però quei «casi isolati» andranno affrontati in fretta dagli organismi appositi per evitare che strascichi di polemiche per ora circoscritte a livello territoriale abbiano ricadute negative anche sul piano nazionale.
Non sarà la segreteria convocata per questa mattina da Epifani ad affrontare la questione (all’ordine del giorno c’è la legge di Stabilità e il ruolo della ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri nel caso Ligresti), anche se la presenza in questo organismo di esponenti di tutte le anime del partito fa prevedere quantomeno una discussione a latere. Una prima valutazione dei casi sospetti la farà invece oggi la commissione congressuale. La commissione nazionale dei garanti, invece, interverrà soltanto in un secondo momento per decidere eventuali sanzioni, compreso l’annullamento di alcuni congressi (come fu per le primarie di Napoli e di Palermo negli anni passati). Sono alacremente all’opera invece le commissioni regionali, a cominciare da quelle del Piemonte per il caso di Asti (in poco tempo si sono tesserati oltre duecento albanesi) e quella del Veneto per Rovigo, dove da un lato sono stati denunciati tesseramenti di massa e dall’altro non compaiono nel registro dei votanti persone che dichiarano di aver votato. E non sono forse neanche i casi più eclatanti, considerato quanto accaduto ancora ieri.
A Trapani si sono svolti due congressi in due posti diversi e renziani da una parte, sostenitori di Cuperlo e di Civati dall’altra, praticamente hanno eletto due segretari diversi. A determinare questa situazione c’è uno scontro sulle modalità di tesseramento, con contestazioni incrociate su quale sia il vero dato di iscritti di cui tener conto.
A Cosenza l’area che sostiene Renzi ha presentato un ricorso alla commissione nazionale per il congresso in cui si denuncia che a Cetraro il segretario del circolo «ha impedito nuovi tesseramenti». L’area che sostiene Cuperlo ha ironizzato sul «ricorso preventivo», visto che il congresso si sarebbe dovuto svolgere diverse ore dopo l’invio della missiva. Sempre in provincia di Cosenza è successo anche questo: il vicesindaco di Aiello Calabro, Gaspare Perri, ha scritto a Epifani per smentire di aver firmato una lettera inviata al segretario del Pd da Franco Laratta, candidato renziano che si è ritirato denunciando violazioni regolamentari: «La firma del sottoscritto apparsa in calce alla missiva è falsa», si legge nella lettera arrivata a Roma.
Nella quale Roma è successo invece che Tommaso Giuntella ha denunciato pubblicamente alcuni sostenitori di Lionello Cosentino (i due vanno al ballottaggio, con il secondo in testa) per aver rivolto offese «di chiaro stampo omofobo» ad alcuni iscritti che sostengono la sua candidatura. Nella vicina Frosinone, dove il congresso è stato nei giorni scorsi a più riprese sospeso per accuse incrociate di scorrettezze, si attende il voto finale (domenica) e anche il pronunciamento della commissione nazionale per il congresso. Intanto un dato è certo: gli iscritti in questa provincia sono aumentati del 5% rispetto al passato.
In Puglia le critiche hanno coinvolto anche la presidente della commissione congressuale regionale Loredana Legrottaglie, accusata dai sostenitori di uno dei candidati a Lecce di aver offerto la sua «complicità» per uno «scellerato patto in extremis» per loro penalizzante al congresso cittadino di Gallipoli. Il clima è teso anche a Bari, dove ha vinto il renziano vicino a Michele Emiliano Ubaldo Pagano. Renziani sono anche i nuovi segretari di Taranto, Brindisi, Foggia e della provincia Barletta-Andria-Trani, sostenuto unitariamente anche dal fronte pro-Cuperlo. Il quale Cuperlo si dice «letteralemente angosciato» per queste situazioni «abbastanza circoscritte ma non meno allarmanti». E a Renzi, il quale ha fatto sapere che piuttosto che fermare ora le iscrizioni come proposto dall’avversario è preferibile sospendere le convenzioni (passaggio in cui gli iscritti votano il segretario nazionale) e andare direttamente alle primarie dell’8 dicembre, replica che si tratta di una proposta non convincente «perché vuol dire sottrarrare un diritto agli iscritti, quelli che montano i gazebo e che lavorano alle feste, un popolo che va rispettato».

il Fatto 5.11.13
Botte & brogli
Trapani, Pd no limits: i segretari sono due
di Luca De Carolis

qui

l’Unità 5.11.13
Renzi-Cuperlo, guerra dei voti
Scontro sui congressi provinciali. Il comitato Cuperlo: 49 a noi, 35 a Renzi, 1 a Civati
Lo staff del sindaco: dati falsi, noi a 47 loro a 38
Ancora polemiche sulle tessere gonfiate: oggi il caso al Nazareno
di Vladimiro Frulletti


Nel Pd è guerra sui congressi provinciali. Il comitato Cuperlo annuncia: siamo in vantaggio su Renzi 49 a 35, un segretario a Civati. Ma lo staff del sindaco ribatte: dati falsi, siamo avanti noi 47 a 38. Ancora polemiche sulle tessere fasulle. Oggi se ne occupa la commissione congressuale e forse la segreteria.

Un Renzi coi galloni da segretario c’è già. È Tiziano, babbo di Matteo, 62 anni, riconfermato alla guida del Pd di Rignano sull’Arno. Elezione scontata visto che era l’unico candidato in lizza. Per il resto la mappa dei nuovi segretari che sono usciti e stanno uscendo dai congressi di circolo del Pd è assai variegata. Al netto degli scontri e delle polemiche sul tesseramento, i dati non ancora ufficiali, ma sostanzialmente attendibili raccontano anche qui di una «guerra» dei numeri fra cuperliani e renziani. I sostenitori del deputato triestino parlano di un sostanzioso vantaggio per Cuperlo: 49 a 35. Mentre dalle parti del sindaco di Firenze (il coordinatore della campagna Stefano Bonaccini) vengono fornite cifre differenti: 47 segretari per Renzi, 38 per Cuperlo.
È vero che in teoria i numeri dovrebbero risultare uguale per tutti, ma la realtà è diversa. Perché ci sono anche candidati legati ad altri concorrenti alla segreteria: ad esempio a Cuneo il segretario uscente, Emanuele (Momo) Di Caro, legato a Pippo Civati è in testa sul renziano Gianpiero Piola. Perché ci sono candidati «indipendenti» come a Roma dove è in testa Lionello Cosentino (andrà al ballottaggio col cuperliano Giuntella) e Frosinone dove ha vinto (salvo interventi dei garanti) Costanzo. Entrambi legati a Bettini. E infine perché ci sono vari segretari cosiddetti «unitari», cioè concordati da renziani e cuperliani (o pezzi di renziani e pezzi di cuperliani) come nel caso di Bologna col confermato Donini, Firenze con Incatasciato, Prato con Bosi, Arezzo con Dindalini, Empoli con Sostegni, Napoli con Carpentieri e Salerno col segretario uscente Landolfi. In tutto sono poco meno di una ventina che sulle preferenze nazionali (Renzi o Cuperlo) si dividono quasi a metà. Ad esempio in Liguria con l’eccezione di Genova (dove il cuperliano Terrile s’è imposto sul renziano Malfatti) hanno vinto quattro candidature unitarie di cui tre (La Spezia, Savona e Imperia) renziane e una (Tigullio) cuperliana. Mentre gli «unitari» di Alessandria, Como, Lodi e Terni sono cuperliani.
Ecco, distribuendo anche questi neoeletti, i renziani dicono di essere in vantaggio di 9 segretari. I cuperliani di ben 14 pur non conteggiando i «7 segretari ancora non hanno ancora scelto chi sostenere a livello nazionale». È il caso di Ravenna dove il candidato unitario non s’è ancora schierato. «Dati falsi» ribatte il deputato renziano Luca Lotti che chiede allo staff di Cuperlo di tirare fuori oltre ai numeri anche i nomi. Insomma è in corso una nuova battaglia che avviene al netto dei segretari che saranno decisi in questi giorni ai ballottaggi nelle assemblee provinciali. Come a Milano dove ieri notte i circa 150 delegati sono stati chiamati a scegliere fra il renziano Pietro Bussolati e la cuperliana Arianna Cavicchioli. Ballottaggio tra renziani e cuperliani anche Varese e Mantova. A Brescia invece si decide sabato ma sarà una sfida tra due renziani.
Alla commissione per il congresso stanno ancora raccogliendo i dati, ma indicativamente dicono che fin qui hanno votato almeno 300mila iscritti sparsi in quasi 7mila circoli. Comunque dal fronte Renzi (che giovedì sera sarà da Santoro) fanno notare le affermazioni in Veneto (con la sola eccezione di Padova), Marche, Puglia (a Bari determinante il sindaco Michele Emiliano) e Campania. E quelle di Torino con Morri sostenuto dal sindaco Fassino, Vercelli (grazie a Luigi Bobba), Palermo, Pavia e Piacenza. In EmiliaRomagna ai renziani vanno anche Forlì, Ferrara (con Paolo Calvano) e Imola (dove lo scontro è tra renziani dell’ultim’ora sui renziani della prima ora), mentre Cuperlo è in vantaggio a Parma (ma ci sarà ballottaggio), Cesena e Modena. Intanto vince a Rimini. A Reggio-Emilia (dove era sindaco il ministro renziano Delrio) invece si va al ballottaggio e l’ago della bilancia saranno i civatiani. In Toscana sono con Cuperlo Pisa, Livorno, MassaCarrara, Grosseto e Piombino. Con Renzi Pistoia, Lucca e Siena. Va al ballottaggio la federazione della Versilia. Cuperlo è in netto vantaggio anche in Umbria, nel Molise (i renziani vincono solo a Termoli città) e Calabria e vengono sottolineati i successi di Bergamo e Monza in Lombardia.
Da giovedì gli iscritti saranno chiamati a votare per i candidati alla segreteria nazionale: Cuperlo, Civati, Pittella e Renzi. Uno sarà eliminato per le primarie dell’8 dicembre. Ma fare ora un’equazione esatta fra risultato di un segretario provinciale e il corrispondente candidato nazionale è complesso e a volte anche fuorviante. Tanti i fattori locali che incidono su una scelta che nell’idea di «partito da ricostruire dal basso» doveva tenere sganciati i due momenti. Tuttavia entrambi i fronti sono ottimisti. «Su 250mila votanti siamo sopra il 50%» fanno notare dalle parti di Cuperlo. «Loro hanno già fatto il pieno, noi sulle scelte locali eravamo un po’ divisi: renziani della prima ora, nuovi renziani, areadem. Ora non possiamo che crescere» ragionano nello staff del sindaco.

l’Unità 5.11.13
Orfini: ragionevole fermare subito il tesseramento
«Le regole in corsa le abbiamo cambiate. Per Renzi»
L’esponente dei giovani turchi: «Cuperlo ha fatto una proposta ragionevole
Chi rifiuta e poi si lamenta del tesseramento non appare proprio sincero»
intervista di Osvaldo Sabato


Un conto è la voglia di avere la tessera in tasca per scegliere direttamente il segretario del proprio circolo o della propria federazione del Pd. E per poter dire che bello, guardando a cosa succede dall’altra parte della barricata, nel Pdl. «Tanta gente si iscrive per partecipare a questa grande occasione democratica», osserva Matteo Orfini.
Poi però ci sono degli aspetti più inquietanti, che fanno discutere e non poco. «Cioè occasioni in cui c’è un tipo di tesseramento molto diverso, costruito da cordate di persone, truppe cammellate, che appaiono all’improvviso per prendere il possesso di un circolo o di una federazione. E naturalmente questo è preoccupante», aggiunge il parlamentare Pd, uno dei maggiori esponenti dei cosiddetti giovani turchi, insieme ad Andrea Orlando.
Per stoppare queste anomalie Cuperlo ha chiesto a Epifani di fermare il tesseramento il prima possibile.
«Credo che abbia fatto bene di fronte all’aumentare, negli ultimi giorni, di fatti di questo tipo, a proporre lo stop del tesseramento nella seconda fase. Non capisco perché gli altri candidati alla segreteria del Pd lo abbiano rifiutato».
Infatti Renzi dice che sui congressi non è possibile cambiare le regole in corsa. «A parte che lui cambia posizione a seconda delle proprie convenienze, perché le regole in corsa le abbiamo cambiate quando abbiamo dovuto farlo partecipare alle primarie dello scorso anno. In quel caso gli andava bene. Ma è chiaro che quella di Cuperlo è una proposta fatta agli altri candidati, se tutti fossero d’accordo si potrebbero cambiare le regole in corsa, tutti si sono lamentati degli eccessi del tesseramento e Cuperlo ha fatto una proposta ragionevole: finita questa fase, invece di replicare lo stesso meccanismo sull’elezione del segretario nazionale, fermiamoci, tanto poi ci saranno comunque le primarie aperte, per evitare il proliferare di meccanismi di questo tipo. Il fatto che gli altri candidati si siano rifiutati fa pensare abbastanza male sulle ragioni per cui hanno detto di no. Certo se dovesse continuare così non si potrebbero più lamentare».
Perché fa pensare male?
«Se ti lamenti del tesseramento, ti viene proposto di bloccarlo per evitare questi rischi e ti rifiuti, viene da dubitare sulla sincerità delle tue iniziali lamentele».
Ma non crede che tutta questa vicenda possa macchiare l’immagine del Pd? «Spero di no, spero che il partito e gli organismi che controllano la validità del congresso siano inflessibili nel punire fenomeni di questo tipo e nel proteggere, invece, i casi di tesseramento sano che sono la stragrande maggioranza. Bisogna tutelare il partito da comportamenti che rischiano di rovinare tutto».
Quindi per lei non è in gioco la reputazione del Pd?
«Dobbiamo lavorare per difenderla, perché il rischio obiettivamente c’è. Penso che la proposta di Cuperlo andasse in questa direzione: cercare di evitare che questa grande occasione democratica sia sporcata dalle prepotenze di pochi».
Prima ha parlato del rischio di truppe cammellate nelle varie realtà locali. A lei sono giunte segnalazioni di casi particolari?
«Sono quelli che abbiamo letto sui giornali in questi giorni. Mi riferisco ad alcuni episodi accaduti a Torino e ad Asti. Il fatto che ad Avellino sembra che si siano svolti alcuni congressi segreti di cui non erano conosciuti nemmeno il luogo e l’ora della convocazione. Sono tante le cose che in queste ore sono emerse. Sono quelle note ed è chiaro che di fronte a casi come questi bisogna che il partito centrale annulli quei congressi. A Frosinone ancora in queste ore sta accadendo di tutto, sono molti i casi su cui bisogna intervenire e sono sicuro che la commissione nazionale lo farà».
Beppe Fioroni invita Renzi a non minimizzare e si domanda: se con le tessere a pagamento nei congressi succede questo, alle primarie a basso costo che succederà?
«Non mi porrei questi dubbi perché con le primarie eleggi il segretario nazionale, quindi c’è una dinamica di voto anche di opinione, che produce numeri tali da non poter essere inquinati da comportamenti di questo tipo. Quando votano, come spero, tre milioni di persone qualora ci fossero fenomeni di questa natura diventerebbero residuali nella massa di quelli che voteranno. Mi sembra che da questo punto di vista la storia delle primarie è sempre rimasta abbastanza immune da fenomeni di questo tipo».
È la prima volta che il Pd deve fare i conti con il tesseramento gonfiato?
«In passato qualcosa era successo, questa volta il fenomeno mi sembra più eclatante. Ora bisogna vigilare ancora di più per garantire che non venga rovinato il risultato».
In ogni caso Renzi ritiene che a decidere il congresso saranno le primarie e non i congressi degli iscritti.
«Ad eleggere il segretario saranno sicuramente le primarie aperte. Però uno che si candida a guidare il Pd non dovrebbe parlare con questo disprezzo e disinteresse di chi quotidianamente tiene vivo questo partito nei circoli. Questa affermazione di Renzi mi ha stupito vedendo tanta gente nei circoli. Non si dovrebbe dire: tanto a me non interessa perché poi ci sono le primarie».

l’Unità 5.11.13
Cancellieri tra la legge e la coscienza
di Michele Ciliberto


Dispiace che la vicenda Cancellieri stia diventando un affaire politico, ma era prevedibile. Anche se era difficile immaginare fino a che punto sarebbero arrivati gli esponenti del Pdl.
Cioè, mettere sullo stesso piano la telefonata della Cancellieri e quella dell’allora capo del governo, Berlusconi, alla questura di Milano per intercedere a favore di Ruby. In entrambi i casi si sarebbe trattato, a loro parere, di gesti umanitari, anche se andrebbe precisato almeno questo i protagonisti delle due vicende avevano interessi evidentemente diversi. Vale dunque la pena di fare chiarezza, sottolineando alcuni punti elementari.
Il problema del rapporto tra diritto e morale, tra ciò che è «giusto» e ciò che è «buono», è assai antico, risale alla origini della riflessione filosofica. Ad esso sono state date differenti risposte, a seconda degli obiettivi che sono stati scelti e dichiarati primari. Nel Seicento, quando il problema essenziale è quello della sicurezza dello Stato, è teorizzato il prevalere del diritto, della potenza e anche della forza sulle istanze di ordine morale, sui diritti individuali, personali.
Ma è sempre stato così, anche in tempi più vicini a noi e in situazioni affini: quando negli anni Settanta c’è stata in Italia una sorte di «guerra civile», il problema della sicurezza dello Stato è diventato prioritario ed è prevalso sulla garanzia dei diritti individuali, generando anche lo spargimento di sangue innocente, che, ancora oggi, geme e si lamenta perché i «morti», a differenza dei «vivi», non possono dimenticare.
Oggi la situazione è assai diversa, e la difesa dei diritti individuali è considerata con ben altra attenzione di quanto accadesse alcuni decenni fa. Anzi, è stata generata una specifica legislazione che garantisca questa delicata zona del vivere umano, specie quando si tratta di persone collocate in una condizione di debolezza, di fragilità. Del resto, e va sottolineato con forza, sta qui il sigillo di civiltà di uno stato che abbia a cuore, oltre alla sicurezza, la pace e il «ben vivere» dei propri cittadini, specie quando sono emarginati o carcerati. Chiunque conosce, o intuisce, la situazione delle carceri italiane sa infatti che questo è il campo più complesso, più difficile, più bisognoso di interventi efficaci sul piano strettamente legislativo, come si è cominciato a fare. La «cura» dei deboli è la pietra di paragone di uno stato democratico, che anche per questo è il più «naturale», come diceva un grande filosofo moderno.
È stato dunque «giusto» e «buono» procedere nei confronti di Giulia Ligresti come è stato fatto, e di questo occorre compiacersi con i magistrati che hanno gestito, nel modo migliore, questa complessa vicenda. Né è possibile mettersi a fare i «moralisti», ricordando lo stato di grande agiatezza in cui ha vissuto lungamente: i cittadini sono tutti eguali di fronte alla legge e, prima ancora lo sono, di fronte alle sofferenze ultime, quelle che tendono a incrinare, e talvolta a spezzare, la parete che separa i vivi dai morti.
Non è dunque in questione l’operato della magistratura, su cui non si discute, mentre appare discutibile il comportamento del ministro. La domanda che, in genere, si pone è questa: la Cancellieri ha saputo distinguere tra pubblico e privato, tra la sua funzione pubblica e i suoi rapporti privati? Si è comportato allo stesso modo in situazioni analoghe? Tutte domande legittime, alle quali mi ministro deve rispondere. Qui però non intendo porre il problema della opportunità della telefonata della Cancellieri, né di un possibile conflitto di interesse per ragioni familiari. Sono personalmente convinto che il ministro sia in buona fede e sia un integro funzionario dello Stato. Voglio porre un problema che considero più grave, dal punto di vista del nostro vivere civile, repubblicano. Quando il ministro parla di «umanità», cui non intende venir meno, a cosa si riferisce con precisione?
È un temine coinvolgente ma difficile da delimitare e governare. In nome della «umanità» si può pensare di essere autorizzati a qualunque cosa, fino a sostituire il foro della propria «coscienza» intesa come principio fondamentale delle proprie azioni e dei comportamenti al piano della legge che è tale in quanto è, nei limiti del possibile, obiettiva e condivisa, e come tale base, e garanzia, del vivere civile democratico, fondato sulla eguaglianza senza cui non può esserci né repubblica, né democrazia.
Se stessi discutendo tra filosofi o teologi, direi che nel comportamento, e nelle dichiarazioni, della Cancellieri c’è, consapevole o inconsapevole, un elemento proprio della tradizione cristiana di tipo «agostiniano» imperniato sul primato della «coscienza» personale sullo «stato». A questo livello, la dimensione dello stato, del pubblico si dilegua, evapora, non c’è più, qualunque sia la propria intenzione. Ciò che si ritiene giusto nella interiorità della propria coscienza diviene infatti tale anche sul piano oggettivo, dei comportamenti pubblici, istituzionali, e come tale viene proposto e difeso.
Posizione, certo, assai dignitosa e basata su una tradizione così forte e lunga, da diventare una sorta di riflesso condizionato, pronto a scattare, e a rivelarsi, nel momento del pericolo, nelle situazioni di crisi. Ma lo stato moderno, ed anche la nostra Repubblica è fondata su altri fondamenti di ascendenza civile e laica da cui discende il principio, sancito dalla Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge, anche i ministri. Questo è dunque il punto in questione, di cui dovrebbe discutere anche il Parlamento, se ne fosse capace: il fondamento ultimo dello stato, della legge, della Repubblica.
In breve, nell’affaire Cancellieri sono coinvolti alcuni importanti questioni di principio concernenti le fondamenta del nostro vivere civile, che travalicano il problema delle dimissioni di un ministro, e su cui converrebbe confrontarsi in modo aperto specie in un momento di crisi dei «principi» repubblicani come quello che stiamo attraversando. Forse si innalzerebbe il livello della vita civile nel nostro Paese e si comincerebbe ad uscire dal fango in cui, come al solito, siamo precipitati.

il Fatto 5.11.13
Le “circolari” di Napolitano e la strada per il bis
La conferma di re Giorgio al Colle nella versione Geloni - Di Traglia (e Bersani) concordata con lo stesso Quirinale: le missive e i colloqui privati
di Wanda Marra

qui


Repubblica 5.11.13
“Ero pronto a candidare Barca premier”
Tra sogni e accuse i giorni amari di Bersani
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Poteva finire così. Poteva finire con Franco Marini al Colle e Fabrizio Barca premier. A svelare lo schema è Pierluigi Bersani, timoniere che perse la rotta con l’avvento delle larghe intese. È lui, l’ex segretario dem, a raccontare quel che poteva essere e non è stato: «Pensavo che togliere di mezzo Bersani - dice di se stesso - poteva aiutare qualcuno a cambiare idea senza perdere la faccia. Un nome che avrei fatto io poteva essere Letta. O Barca. Era una possibilità ».
L’infernale trappola nella quale si cacciò il Pd - i giorni maledetti del siluramento di Marini e Prodi - è il fulcro del libro “Giorni bugiardi”. L’hanno scritto Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, da anni al fianco dell’ex segretario. Fino allo schianto. Non rinnegano nulla, anzi difendono quella storia. Con qualche recriminazione autoassolutoria - «abbiamo avuto forse un eccesso di fiducia nella volontà di una parte importante degli italiani di uscire dall’inganno populista» - ma senza risparmiare pubblica denuncia di alcuni errori. Uno tormenta Bersani: «Dovevamo staccare la spina a Monti un minuto dopo Berlusconi».
È una cavalcata malinconica. Amara come il parricidio dei 101. E come Bersani, quando ammette: «Un altro nome al posto di Prodi? Segavano anche Papa Francesco». Non per questo si arresta l’“indagine” su chi affossò il Professore. «Chi ha un movente?», si chiedono gli autori. Che subito rispondono: «In nessun modo è possibile raggiungere la cifra di 101 senza includere i 41 renziani».
Si parte dal principio, da Massimo D’Alema che terrorizza Bersani: se accetti la sfida delle primarie di Renzi «arriverai terzo». Poi però il candidato premier e il sindaco lavorano insieme, con profitto: due comizi per le Politiche e addirittura a braccetto allo stadio per Fiorentina- Juve. Sotto di due gol, Renzi soffre: «Perché sono venuto qui, oggi?». Le elezioni sono un trauma, il sogno sfumato di Palazzo Chigi scivola tra le mani dell’allora segretario dem. «Avrei fatto così: avrei convocato il primo consiglio dei ministri dicendo a tutti: “Niente di che, è per conoscerci”. Al mattino dopo, però, le bozze per i provvedimenti dei primi cento giorni - cittadinanza, unioni civili, anticorruzione - sarebbero diventati legge. «Un governo di cambiamento? Sarebbe durato un anno, un anno e mezzo - sostiene Bersani - Ma dicevo: cadremo sul cambiamento».
C’è anche qualche frammento di storia che vale la pena conservare. E rivendicare. Bersani chiama Grasso: «“Fai il Presidente del Senato”. E lui: “Aspetta, fammi sedere. Ma sono in grado?”. “Imparerai” ». Spuntano anche dettagli sulla trattativa mai decollata con Grillo. Si tenta l’impossibile, cercando la mediazione di Renzo Piano e anche quella del dentista del leader pentastellato.
Tutto si incaglia sullo scambio proposto dal Pdl: Palazzo Chigi in cambio delColle. Napolitano, intanto, fa sapere con una lettera recapitata ai leader della maggioranza - le ragioni che impediscono la sua rielezione. La missiva è firmata “GN”. Bersani, nel frattempo, si avvicina al burrone dei 101. Tratta con Gianni Letta, lavora seriamente per Sergio Mattarella al Quirinale, incontra Silvio Berlusconi. Gli staff riescono a evitare che anche solo un’immagine arrivi ai media. Il Cavaliere, come al solito, scherza. Sulla condizione di neofidanzato con suocera, sull’allenatore del Milan: meglio Seedorf di Allegri, profetizza.
Poi tutto precipita. Salta Marini «avrebbe stupito tutti - giura Bersani ma qualcuno voleva rompere il giocattolo » - si infrange Prodi. In mezzo, secondo gli autori, si intravede qualche ambizione frustrata di D’Alema e la manovra dei nemici interni per evitare le primarie dei parlamentari sul Professore.
Spazio all’epilogo, dunque. Bersani si dimette e chiede a Napolitano di accettare il bis. Perché? «Serve uno choc. È in gioco il Pd». Il Presidente accetta, «forse» dopo il pressing di Mario Draghi, «forse anche» della Casa Bianca. Si vola verso le larghe intese. «Presidente - ammette sconsolato lo sconfitto al Colle - sono andato due volte sotto un treno».

l’Unità 5.11.13
La denuncia: «Medici-torturatori nelle carceri Cia»
Hanno collaborato agli interrogatori e all’alimentazione forzata a Guantanamo
di Sonia Renzini


Professionisti della sanità trasformati in agenti dei servizi segreti in nome della sicurezza nazionale. In barba all’etica medica e al giuramento di Ippocrate. Lo dice uno studio condotto dall’Institute on Medicine as a Profession e dalla Open Socity Foundation del finanziere George Soros.
Secondo il rapporto stilato da venti esperti della «Task-force per il mantenimento della professionalità medica nei centri di detenzione per la sicurezza nazionale», dopo gli attentati dell’11 settembre, medici e psicologi in servizio per l’esercito americano e la Cia hanno violato il codice etico della loro professione per partecipare a «torture e a trattamenti degradanti, crudeli e inumani» contro presunti terroristi. E si sono adoperati per fornire informazioni cliniche utili per gli interrogatori ai detenuti nelle prigioni americane in Afghanistan, a Guantanamo o nei siti segreti della Cia.
Certo, è necessario ricordare quel contesto storico e ricostruire quel clima da caccia alle streghe per capire come tutto questo possa essere avvenuto. Fu all’indomani della catastrofe dell’11 settembre 2001, quando cominciarono a venire catturati alcuni personaggi sospettati di appartenere ad Al Qaeda, che ai medici militari americani fu raccomandato di prendere parte a certe pratiche. Si trattava di un’emergenza, fu detto, di una questione di sicurezza nazionale, questa e non altro era la posta in gioco che fece violare il patto esistente tra la professione medica e la società, denuncia Gerald Thomson, uno degli autori del rapporto.
E i medici, decine, forse meno, finirono per spalleggiare interrogatori e trattamenti disumani dei prigionieri, dalla privazione del sonno all’alimentazione forzata, certo non in linea con i loro principi professionali. L’inchiesta, che va sotto il titolo «L’etica abbandonata: professionalità medica e abusi sui detenuti nella guerra contro il terrorismo», sollecita un’inchiesta della commissione sui servizi segreti del Senato Usa, comprese visite mediche dei detenuti e la verifica di stralci di interrogatorio.
Dura la reazione del dipartimento alla Difesa e dell’Agenzia centrale di intelligence, il primo ha definito i risultati del rapporto «assurdi», la seconda ha parlato di conclusioni «erronee». Per il direttore della comunicazione dell’agenzia di intelligence Dean Boyd «è importante sottolineare che la Cia non ha più prigionieri e che il presidente Obama ha messo fine al programma di detenzione e di interrogatorio con un decreto del 2009». Mentre il portavoce del Pentagono Todd Breasseale ci tiene a precisare che le accuse non sono nuove e che tali affermazioni sono state oggetto di numerose indagini negli ultimi anni senza produrre nessun riscontro.
È vero che le peggiori violazioni citate nella relazione si sono verificate prima del 2006, basti pensare che più di 100 detenuti sono morti tra il 2002 e il 2005 e ben 43 di questi casi sono stati classificati come omicidi. Ma è innegabile che l’alimentazione forzata a cui sono stati sottoposti i detenuti che hanno fatto lo sciopero della fame a Guantanamo Bay è in netto conflitto con le norme internazionali sul trattamento per i detenuti, sottolinea Thomson. In più di 100 hanno rifiutato il cibo in estate e almeno in 30 sono stati nutriti attraverso tubi spinti giù attraverso il naso nei loro stomaci, racconta ancora Thomson alla Cnn. E continua: «Quegli scioperi della fame sono in corso, è necessario cambiare le linee guida per i medici, in modo da non costringerli a violare l’etica medica». Secca la risposta di Breasseale: «Il programma di alimentazione punta esclusivamente a preservare la vita e la salute dei detenuti ed è in linea con le leggi degli Stati Uniti».

il Fatto 5.11.13
Addestratori da Roma, metodi libici sicurezza e orrore contro i migranti
di Stefano Pasta

qui
 

Repubblica 5.11.13
Fra i dannati del carcere di Herat dove la giustizia è un miraggio
Gli italiani hanno portato aiuti e attrezzature: ma non basta
di Adriano Sofri


HERAT IL CARCERE di Herat è terribile, e non fa niente per nasconderlo. Capienza 800, effettivi 3.500. «Non c’è spazio per la preghiera, per star seduti e per mangiare», dice, nell’ordine, il comandante. Per i bisogni c’è un secchio, l’impianto idrico è disastrato e le fogne intasate, si portano fuori – chissà dove, il carcere è in piena città – i bidoni.
GLI “arrestati”, non ancora giudicati, sono 490, gli altri condannati per omicidi, sequestri, traffico di droga, furti, e i Taliban, che dovrebbero essere separati, in un “blocco 6”, ma non si riesce. «Però non fanno proseliti, aglialtri detenuti non piacciono».
Stanno portando decine di detenuti ai processi, attaccati a una lunga catena. L’insieme è miserabile e, all’apparenza, non violento, come se anche la violenza fosse un lusso in una condizione simile. Nel fabbricato centrale c’è un piano sopraelevato «dagli italiani», ancora senza arredi — i letti a castello, cioè. Un agente prende 80 euro al mese. «Dopo due mesi se ne vanno». Settanta detenuti sono condannati all’impiccagione, l’ergastolo non esiste, la pena massima è di vent’anni.
Se al carcere maschile si prova la ripugnanza di sé e di tutto, che prende in certi zoo malmessi, al femminile si è sopraffatti dalla commozione. È stato costruito «dagli italiani», le detenute sono 171, i locali spogli ma decenti, i colori vivaci quanto erano castigati al maschile. Però ci sono i bambini, e ti corrono addosso, ti avvinghiano come se ti stessero aspettando e non ti lasciano più. Stanno con le madri fino ai sei anni, poi li passano all’orfanotrofio. Oggi sono 67, sembrano mille. Il delitto più comune per le donne è la “prostituzione”, da uno a 10 anni: che vuol dire l’adulterio, o l’aver fatto l’amore prima di sposarsi. Ci sono stanzoni di lavoro, grandi telai verticali per i tappeti, macchine da cucire antiche, parrucchieria. Nel cortile donne giovani e vecchie e bambini stanno accampate come a una fermata di corriera che non arriva.Le condannate per sequestri di persona sono nove, per spaccio due, per omicidio 49, hanno ammazzato «il marito, o la moglie del figlio». Direttrice, dottoresse e personale ispirano fiducia, non fanno che ringraziare e mostrare quello che serve con più urgenza. C’è una stanzetta per i parti, lascio che la racconti la fotografia.
Il comandante è un generale, Abdul Baghi Bessoudi, è arrivato da poco, il precedente è stato travolto da un lungo sciopero della fame. «I detenuti per spaccio sono pesci piccoli. La mafia della droga ha influenza molto in alto, ma qualcuno grosso lo prendiamo. A Kabul ne avevo sette o otto. Se un contadino coltiva il grano si paga un mese, col papavero tre anni. Lo spazio per un carcere rispettoso dei diritti umani lo troveremmo. Abbiamo 10 ettari, se ce li lasciassero vendere potremmo andare fuori città, con una struttura nuova. In alcuni distretti i giudici non vanno, perché hanno paura. A parte questo, la giustizia amministrata dagli anziani, l’omicidio compensato da un riscatto o dalla consegna di una ragazza, sta finendo: è un progresso necessario e anche una spiegazione del sovraffollamento. Senza gli italiani e la Croce Rossa non sapremmo come fare».
“Gli italiani” qui e altrove ripetuti per essere ringraziati e subito dopo richiesti di qualcos’altro di essenziale, sono il Prt, team di ricostruzione provinciale, ora guidato dal colonnello Vincenzo Grasso, che in sette anni ha impiegato 46 milioni di euro della Difesa per la provincia di Herat in progetti messi a concorso e gestiti dalle autorità locali, anche in comune con la Cooperazione, la Ue o le ong: ospedale pediatrico e ospedale per le tossicodipendenze, scuole, agricoltura. Ieri è stato inaugurato un centro per persone povere con gravi disabilità, che vivono in strada. Anche l’orfanotrofio, che ha 300 bambini e tre sedi: noi visitiamo quello per le 90 femminucce. Dovunque, bambine e bambini hanno imparato a dire «Ciao» e si divertono a ripeterlo all’infinito, e noi con loro, come si fa coi merli indiani, e i merliindiani siamo noi. Il programma del Prt finisce il prossimo 31 marzo. Che cosa succederà poi non si sa, e non solo per il Prt.
Mawlawi Khodadad, 65 anni, due mogli e 12 figli, dirige una scuola con 12mila studenti, 3mila ragazze, e detesta i «falsi Taliban» («il Corano non dice di tagliare la testa alla gente») ed è la più alta autorità religiosa sunnita di Herat. Dice seccamente: «Il nostro problema si chiama Pakistan e Iran. Appena le truppe internazionali saranno partite, l’Afghanistan ridiventerà il centro di Al Qaeda. Soldi e sacrifici buttati». Però una giovane graduata del Genio, reduce da un servizio di prima linea, mi ha detto: «Quando la gente comincia a mettere la freccia per curvare, è difficile che accetti di tornare indietro».

l’Unità 5.11.13
Scambi di terra, a gennaio il piano Usa per la Palestina
Le anticipazioni sul quotidiano israeliano Haaretz
Resta il nodo delle colonie
Il rapporto di Peace Now: insediamenti cresciuti del 70% in sei mesi
Il governo Netanyahu: «No a diktat»
di U. D. G.


Barack Obama forza i tempi. E scopre un nuovo terreno di scontro con Netanyahu. «Gli americani vogliono passare dal coordinamento fra le due parti ad una fase di intervento attivo. Questo succederà a gennaio»: con queste parole, riferite al quotidiano israeliano Haaretz dalla leader del partito di sinistra Meretz, Zahava Gal On, si è diffusa la notizia secondo la quale l’amministrazione Obama avrebbe intenzione di presentare a gennaio 2014 il proprio piano per uno schema d’accordo su base permanente tra Israele e i palestinesi, basato su «uno scambio di terre concordato». Secondo la stessa fonte, il segretario di Stato americano John Kerry lo avrebbe illustrato al primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu durante il loro incontro di sette ore a Roma lo scorso 23 ottobre.
Il piano diplomatico secondo quanto riferito da Gal-On al quotidiano si svilupperà attraverso una «graduale tabella di marcia e si rivolgerà alla dimensione di una pace regionale, basata sull’iniziativa di pace araba». Vi sarà anche una parte economica con investimenti nei territori palestinesi (tre miliardi di dollari). I negoziati di pace tra israeliani e palestinesi sono ripresi lo scorso luglio e da allora ci sono stati 15 incontri tra le due parti. Fino ad oggi, sottolinea il quotidiano israeliano, non ci sono stati passi avanti sostanziali e le due parti rimangono distanti. Le rivelazioni di Haaretz sono accolte con fastidio dall’entourage del primo ministro. Netanyahu affida la sua risposta ad una nota, nella quale mette i paletti alla eventuale iniziativa Usa: «Siamo pronti a valutare qualsiasi ipotesi di pace ma non accetteremo alcun diktat», avverte.
Se le anticipazioni di Haaretz saranno confermate da Kerry, oggi in visita in Israele, ci troveremmo di fronte ad una svolta sostanziale, concordano gli analisti a Tel Aviv. Perché il piano americano si fonderebbe su un principio fondamentale: quello della reciprocità nella definizione dei confini dei due Stati: a cessione di territorio da parte palestinese corrisponderebbe un’analoga cessione da parte israeliana.
RAMALLAH ATTENDE
Di diverso tenore le prime valutazioni palestinesi. «Ascolteremo con attenzione quanto ci dirà il segretario di stato Usa afferma Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp -. A lui ribadiremo la nostra convinzione che occorra non solo accelerare i tempi del negoziato, ma anche ancorarlo ad una prospettiva chiara, che per noi resta quella di un accordo di pace fondato sul principio “due popoli, due Stati”». «Ma aggiunge Erekat le iniziative unilaterali portate avanti da Israele rischiano di vanificare questa prospettiva».
Il riferimento del capo negoziatore palestinese è all’annuncio da parte del governo israeliano del via libera per la costruzione di altre migliaia (almeno 5mila) unità abitative negli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme est. «È la negazione dei diritti dei palestinesi, un duro colpo agli accordi internazionali già firmati. È un fallimento che sta distruggendo gli sforzi degli Stati Uniti sostiene Ahmed Assaf, portavoce di al Fatah, il movimento palestinese di cui Abu Mazen è il leader -. Ciò di cui abbiamo bisogno ora è di sentire la reazione americana, abbiamo bisogno di una reazione chiara per impedire a Israele di portare a termine i suoi piani».
Una risposta indiretta da parte israeliana non si fa attendere. «I palestinesi sapevano che avremmo costruito nel corso dei negoziati» e stanno cercando di creare «una crisi artificiale». Così Netanyahu ha difeso la decisione dello Stato ebraico di avviare la costruzione di nuove case nelle aree che i palestinesi reclamano per il loro futuro Stato. Le dichiarazioni del premier sono state riportate ieri da un funzionario, rimasto anonimo, che ha partecipato all’incontro avuto l’altro ieri dal premier israeliano con alcuni membri del partito Likud. In un rapporto pubblicato il 17 ottobre, Peace Now, il movimento pacifista israeliano, ha rivelato che la costruzione negli insediamenti è aumentata del 70 per cento negli ultimi sei mesi, aggiungendo che per la maggior parte dei casi si è trattato di costruzioni avviate negli avamposti coloniali.

il Fatto 5.11.13
Moni Ovadia
“Comunità ebraica ufficio propaganda di Israele: vado via”
L’artista escluso dal festival organizzato a Milano: “Dico no alla colonizzazione dei territori palestinesi, qualcuno ha posto il veto su di me. Ma hanno per amici i La Russa: che importa se, col braccio teso, inneggiavano a chi ci ha sterminati?”
intervista di Silvia Truzzi

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il Fatto 5.11.13
Israele e le colonie: il messaggio al mondo
di Maurizio Chierici

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Corriere 5.11.13
La Cina verso il sorpasso sull’America
Nei prossimi mesi riviste le stime sul Pil a parità di potere d’acquisto
di Danilo Taino


La Cina è già la maggiore economia del mondo, o lo sta per diventare, in termini di parità di potere d’acquisto. È un secolo e mezzo di dominio americano che arriva alla fine. Non significa che gli Stati Uniti siano in un declino strutturale: il dinamismo e la capacità d’innovazione della loro economia rimangono incomparabili. Piuttosto vuole dire che gli equilibri nel mondo cambiano più velocemente di quello che si pensasse. Secondo calcoli condotti sulla base di una nuova elaborazione statistica effettuata da un organismo che lavora sotto l’egida della Banca mondiale, alla fine del 2013 il Prodotto interno lordo (Pil) cinese dovrebbe essere attorno ai 16.400 miliardi di dollari: quello degli Stati Uniti a poco meno di 16.200.
L’organismo in questione — l’International Comparison Program (Ipc) — è una partnership statistica internazionale che periodicamente effettua uno studio ponderoso sulle parità di potere d’acquisto: in sostanza conteggia beni e servizi prodotti in ogni Paese usando lo stesso prezzo, immaginando che un telefono cellulare o una manicure abbiano lo stesso valore in Cina, in Italia, in Brasile. Usare questo metodo «invece dei tassi di cambio di mercato — spiega l’Ipc — rende possibile paragonare la produzione delle economie e il welfare dei loro abitanti in termini reali (cioè controllando le differenze nei livelli di prezzo)».
Il problema è che a livello internazionale c’è una certa insoddisfazione per lo studio Ipc realizzato nel 2005, sul quale si basano le principali classifiche dei Pil: parecchi esperti sostengono che ha sopravvalutato il livello dei prezzi in Cina, con ciò abbassando il Pil del Paese di circa il 20% (nel caso di altre economie emergenti come India e Bangladesh anche del 40%). Ora, l’Ipc sta conducendo un nuovo studio che tiene conto di quelle critiche.
I risultati saranno presentati in dicembre. Branko Milanovic, un lead economist della Banca mondiale, sostiene che, sulla base dei risultati preliminari, «si ritiene che il nuovo round dell’Ipc rovescerà in una certa misura, per quel che riguarda la Cina, i risultati del 2005. Questo implica che il Pil della Cina può all’improvviso fare un balzo di qualcosa come il 20%». Significa che, con i nuovi numeri, il Pil cinese in termini di parità di potere d’acquisto del 2012 (dato Fondo monetario internazionale, Fmi) passerebbe dagli attuali 12.471 miliardi di dollari a 14.965. Che si confronta con quello americano di 15.685 miliardi di dollari. Se si suppone che quest’anno l’economia cinese cresca, sempre a parità di potere d’acquisto, del dieci per cento e quella americana del tre, risulta che Pechino potrà segnare sulla lavagna circa 16.460 miliardi di dollari di Pil, Washington qualcosa tra i 16.150 e i 16.200.
Le statistiche sul valore comparato dei Prodotti lordi internazionali variano parecchio proprio perché trovare dati paragonabili in tutti i Paesi è complicato. Classifiche usando il Pil di ogni Paese in valuta locale non si possono fare, essendo le unità di misura diverse. Quando invece i Pil vengono espressi in una sola valuta — di solito il dollaro — tutto viene distorto dai tassi di cambio, che possono anche avere variazioni consistenti di anno in anno. In più, non si tiene mai conto che un taglio di capelli o il famoso Big Mac hanno valori diversi in ciascun Paese. Con questo metodo, il Pil americano del 2012, per dire, sarebbe stato quasi doppio rispetto a quello cinese: 16.244 miliardi contro 8.221 (ancora dati Fmi). Confrontare i Pil sulla base della parità di potere d’acquisto sembra dunque più corretto, se si vuole avere un raffronto realistico della dimensione delle economie: in questo modo, le differenze sono differenze di volumi di beni e servizi.
Anche se la revisione che sta conducendo l’Ipc non avvenisse, il sorpasso della Cina all’America non sarebbe comunque lontano. Se ci si basa sulle tabelle dell’Fmi e sui ritmi di crescita previsti dal Fondo stesso, avverrebbe nel giro di un paio d’anni anche considerando i valori delle parità di potere d’acquisto calcolati nel 2005. Sulla base dei dati Penn World Tables della Pennsylvania University, invece, Milanovic ha calcolato che il sorpasso avverrebbe tra circa un anno. Secondo il Maddison Project, che cerca di ricostruire a ritroso i Pil mondiali (e non usa i valori Ipc del 2005) sarebbe addirittura già avvenuto nel 2009.
Messi in politica, i dati pongono una sfida non da poco a Washington. E una forse più grande, in termini di responsabilità globale, ai leader comunisti riuniti a discutere di economia nello smog da crescita di Pechino.

Corriere 5.11.13
Il leader Xi Jinping alla prova delle riforme Modello Andropov: perestrojka senza libertà
di Guido Santevecchi


PECHINO — Sono settimane che sulla stampa cinese si rincorrono titoli ed editoriali sulle «riforme che verranno». Il momento è arrivato. Sabato si apre a Pechino il Terzo Plenum del Comitato centrale del partito comunista: circa 370 dignitari ascolteranno il discorso del segretario generale Xi Jinping. Ci vorranno giorni, se non mesi per decifrarlo, sia all’estero sia in Cina. Dalle riunioni a porte chiuse è stato fatto filtrare che sarà lanciata una «riforma omnicomprensiva». Il numero 4 del Politburo ha assicurato che si tratterà di un progetto «senza precedenti».
Ma dietro gli annunci, tutti si chiedono se Xi Jinping sia un vero riformista o no. Il sessantenne Xi è arrivato al vertice un anno fa: i suoi primi slogan sono stati dedicati alla lotta contro la corruzione, mentre il nuovo premier Li Keqiang, 57 anni, prometteva una crescita più equilibrata, non più all’inseguimento di incrementi a due cifre del Prodotto interno lordo, ma diretta ad aumentare i consumi interni e incrementare il reddito della fascia più debole della popolazione (si calcola che ci siano ancora circa 100 milioni di cinesi sotto la soglia della povertà). Poi, negli ultimi mesi, Xi ha cominciato ad usare slogan e tattiche maoisti. Chi è dunque Xi?
«Certamente non è un Gorbaciov, piuttosto un nuovo Andropov», dice al Corriere una fonte che conosce il dibattito interno al partito comunista. E spiega: «Yuri Andropov, l’ultimo leader sovietico prima di Gorbaciov, era disposto a promuovere una perestrojka economica ma era deciso a chiudere ogni spiraglio di glasnost, trasparenza e apertura politica». Quindi, Xi non vuole correre il rischio di distruggere il sistema come fece Gorbaciov, che lanciò le due svolte insieme e perse insieme il potere, il partito e l’Unione Sovietica.
Un’altra tesi è che Xi stia «lanciando segnali alla sinistra maoista, ordinando arresti di blogger e liberi pensatori, parlando di «linea di massa», di «rettifica» di ogni pensiero deviante dall’ortodossia, ordinando sedute di autocritica che ricordano i sistemi brutali della Rivoluzione culturale per poi muovere verso destra: «Perché solo un leader forte può mettere mano alle riforme economiche».
In effetti, in Cina si dice che il segretario generale del partito, nonché capo dello Stato, prima viene «eletto» nel segreto di riunioni dominate da poche decine di persone, molte delle quali discendenti dei rivoluzionari della prima ora. Poi il nuovo leader deve «candidarsi» a guidare davvero il Paese, creandosi una base di consenso solida. Se, come sembra, Xi è riuscito ad elevarsi al di sopra dei suoi compagni del Politburo, dal discorso di sabato al Terzo Plenum ci si possono aspettare le direttive che guideranno la Cina per i prossimi cinque-dieci anni: per l’ammorbidimento dei monopoli delle industrie statali e a favore della concorrenza di mercato; liberalizzazione dei tassi d’interesse per mettere sotto controllo il debito; l’avvio del processo per la piena convertibilità dello yuan; forse svolte sociali come l’abbandono della politica del figlio unico. Ma tutto questo sarà avvolto dal linguaggio tradizionale del potere. E poi gli ordini dovranno essere messi in pratica dall’enorme burocrazia imperiale della Cina. Ci vorranno anni.

il Fatto 5.11.13
Il maestro Zubin Mehta
L’olocausto della cultura “Uccisa da questi politici”
intervista di Jesus Ruis Mantilla

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l’Unità 5.11.13
La riforma del Mibac
Ecco le linee guida per trasformare e riorganizzare i Beni Culturali in Italia
di Luca del Frà


Anticipiamo la relazione che verrà presentata oggi alla stampa: tra le novità suggerite dalla Commissione al ministro Bray ci sono la riduzione delle direzioni regionali con conseguente ridimensionamento dei compiti. Un capitolo dedicato anche a precari e sponsor

ROMA SONO OTTANTOTTO LE PAGINE CHE LA COMMISSIONE PER LA RIFORMA DEL MINISTERO PER I BENI, LE ATTIVITÀ CULTURALI E IL TURISMO (L’IMPRONUNCIABILE MIBACT) ha consegnato al ministro Massimo Bray: l’intero settore viene profondamente ridisegnato da una Relazione che tuttavia ha solo valore consultivo e oggi viene presentata alla stampa nella sede del Collegio Romano.
Per comprendere a fondo il documento occorre considerare che, tenendo fuori il turismo, il Mibac ha una struttura spesso definita abnorme, perché ubbidisce a logiche opposte: quella dello Stato, portata avanti dalle direzioni generali, e quella della riforma in senso federalista, che ha fatto esplodere il numero delle direzioni regionali, con la crescita esponenziale dei ruoli dirigenziali, ed effetti non sempre benefici.La Spending review impone a tutti i ministeri un taglio dei dirigenti: la Commissione suggerisce al Mibac di ridurre il numero delle direzioni regionali, accorpandole ma non precisandone il numero, e ridimensionandone anche il ruolo, puntando invece sulle direzioni generali, dunque sullo Stato, ma ridisegnandone profondamente le funzioni e riducendole.
Questo è un aspetto positivo che, qualora ben articolato all’atto pratico, potrebbe portare allo snellimento di molte incongrue sovrapposizioni, con le direzioni regionali che svolgerebbero un ruolo di semplice coordinamento, controllo amministrativo e raccordo con gli enti territoriali, ma sarebbero estromesse da quello tecnico scientifico –rilasciare permessi, fare tutela, e così via–, funzione che per la pressione degli interessi locali non sempre hanno svolto in maniera ineccepibile.
Sorprendete è invece come siano ridisegnate le direzioni generali: due, gemelle, si dovrebbero occupare una dell’innovazione, della digitalizzazione, dell’informatizzazione concessione ad argomenti cari al ministro -, l’altra del personale, con specifiche competenze sulla formazione. Una, va da sé, per il bilancio e l’amministrazione, con competenze specifiche in materia di bandi e appalti. Tre infine sono riservate alle funzioni proprie del ministero: una elefantiaca e detta al Patrimonio con competenze su tutti i beni culturali e del paesaggio (attualmente sono 2), la seconda, detta degli Istituti culturali, riservata alle biblioteche, gli archivi e i musei (sono 2 ma con i musei affidati ad altre direzioni), la terza allo spettacolo dal vivo e al cinema (oggi 2).
Scorporare i musei dalla direzione al Patrimonio potrebbe apparire contraddittorio, ma obbedisce a una logica che vuole renderli autonomi e con direzioni dotate di maggiori poteri decisionali nel nostro ordinamento i musei sono considerati poco più che uffici.
La relazione invita poi a creare una non meglio definita Unità di controllo, che dovrebbe vigilare sulla realizzazione delle direttive a tutti i livelli del Mibac sarebbe augurabile anche nei rapporti non sempre limpidissimi tra Mibac e privati. Meno chiara la Relazione sul Segretariato generale: potrebbe essere abolito, ma anche no. Qui la sovrapposizione è palese, o l’Unità di controllo o il segretariato Generale ma dopo vedremo perché.
La Commissione ha poi preso di petto alcuni nodi dolenti: primo fra tutti la presenza, in questi anni di blocco delle assunzioni pubbliche, di lavoratori atipici, con contratti professionali o a tempo determinato, che prestano servizio per il Mibac, cui si aggiungono quelli delle fin troppo numerose società «in house», vale a dire di cui il Mibac è proprietario e di cui si avvale per numerosi servizi e mansioni. Un modo evidente di eludere le regolari assunzioni per concorso, come sarebbe di legge nella pubblica amministrazione. La Commissione non fa mistero della singolare scarsità di dati messi a sua disposizione dal Mibac, raccomandando una ricognizione puntuale in un settore che, aggiungiamo, non di rado è caratterizzato da vaste praterie di nepotismi, raccomandazioni, funzionali a creare consenso.
Intriganti anche le pagine dedicate agli appalti e alle sponsorizzazioni: emerge una giungla legislativa forse volutamente confusa poiché da una parte permette al livello politico di operare in modo arbitrario, dall’altra incentiva i mille ricorsi ai tribunali amministrativi che, per usare le parole della relazione, «sono diventati una prassi» che costa cara alle casse dello Stato e alle tasche del contribuente. La commissione suggerisce la via francese, una forte deregolamentazione degli appalti, soprattutto se ad alto contenuto tecnico, cioè destinati al restauro, agli scavi o alla manutenzione, con una forte capacità decisionale del museo o della soprintendenza appaltante.
La Relazione contiene molti aspetti positivi, ricordiamo anche la creazione di una Scuola Nazionale del Patrimonio, e il ministro Bray ha molto materiale su cui meditare, tuttavia alcuni aspetti non appaiono del tutto lineari. La Commissione non mette in discussione la «Spending review», quando la sua applicazione al Mibac è stata piuttosto crudele a causa dell’allora ministro Ornaghi, senza considerare i precedenti tagli operati in epoca Bondi. Tra le due impostazioni del Ministero, regionale o statale, occorreva forse una scelta più univoca, invece si è optato per quella statale, mantenendo però le direzioni regionali invece di trasformarle in uffici. È il segno di una mediazione, una vocazione al compromesso che ritroviamo anche nell’incerto giudizio sulla sorte del Segretariato generale, e la creazione del suo doppio, l’Unità di controllo. Non sfugge come le direzioni generali oggi 8 di cui 6 a carattere tecnico scientifico, passino a 6 di cui solo 3 a carattere tecnico scientifico: non si rischia di trasformare un Ministero di competenze in un ministero di burocratico? L’autonomizzazione dei musei, in sé auspicabile, li scorpora dalle soprintendenze territoriali: un modello che il mondo ci invidia, nato dalla peculiarità italiana di avere nei luoghi espositivi materiale proveniente dal territorio. L’adozione di modelli museali stranieri dovrebbe partire da un profondo e creativo adattamento al nostro di modello, non da emulazione.

l’Unità 5.11.13
Salviamo la storia
Il museo della Liberazione di Roma in via Tasso è a rischio chiusura
di Stefania Miccolis


IL MUSEO STORICO DELLA LIBERAZIONE IN VIA TASSO A ROMA È IN SERIE DIFFICOLTÀ ECONOMICHE: «SE NON RIUSCIAMO AD APPROVARE IL BILANCIO PREVENTIVO DEL 2013 DICE IL PRESIDENTE ANTONIO PARISELLA IL MUSEO VERRÀ COMMISSARIATO». Nella legge istitutiva che risale al 1957, è scritto che il Museo deve rappresentare la lotta di liberazione a Roma dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944, «ma si occupa di totalitarismi, di lotte di Resistenza, di antifascismo; nella nostra biblioteca, nell’archivio, nella mediateca c’è materiale a tutto campo su tali argomenti, e comprende anche documentazione di paesi esteri: vi sono diari della campagna in Russia, fotografie sul fronte greco. Ha il compito di fornire, raccogliere e conservare materiale su tutta l’esperienza di antifascismo».
Numeroso è il pubblico che ogni anno lo visita, dalle 13mila alle 15mila persone, e sempre più crescente è quello straniero. Le scuole vengono in visita con le loro classi gratuitamente. Gli studenti universitari fanno ricerche per le loro tesi e studiosi italiani e stranieri usufruiscono della biblioteca e degli archivi. Per citare solo due casi: Mario Avagliano ne ha tratto il libro Il partigiano Montezemolo (Dalai editore, 2012) e Robert Katz vi scrisse Roma città aperta: Settembre 1943 Giugno 1944 (Il Saggiatore) presentato in anteprima al Museo in segno di gratitudine.
«Ma tutto questo e i progetti ancora da realizzare verrebbero vanificati se ci fosse il commissariamento prosegue Parisella -. Un commissario non può contare su quelle solidarietà che sono legate al nostro modo di essere: noi abbiamo relazioni di vertice e di base, non solo a Roma; abbiamo contatti con decine di gruppi, di associazioni di quartieri, centri sociali, centri per anziani, scuole, e collaborazioni con tutte le regioni italiane. E un commissario, per quanto bravo, non ci riuscirebbe: questa rete non si improvvisa! Anche il gruppo di volontari che lavora con noi di fronte a una situazione commissariale si troverebbe a disagio».
Diciotto sono i volontari di alta qualificazione, insegnanti in pensione, persone che si dedicano con grande passione, e ogni anno il gruppo si aggiorna anche con giovani. Poche le cifre simboliche date per incarichi di amministrazione, per l’archivio e la biblioteca; le risorse servono o per investimenti di ricerca o per il funzionamento della struttura.
«Due anni fa la Regione con una legge si impegnò con 25mila euro e il Comune con 12mila euro. Questi soldi erano stati messi in bilancio per il 2013, ma non sono stati erogati e le attuali amministrazioni, per le note vicende finanziarie, non sono in grado di fare fronte alle necessità entro il 31 dicembre». Il Museo deve trovare 37mila euro in poco più di un mese. Nel loro sito vi è una sottoscrizione aperta «e i nostri amici in Italia sono molti e si mobilitano sempre; ma se facessero una sottoscrizione fra i parlamentari e i consiglieri regionali del Lazio, il contributo sarebbe consistente, anche dal punto di vista morale: sarebbe un esempio».
Il presidente Parisella sa benissimo che in questo momento gli istituti non possono soccorrersi l’un l’altro con il poco che viene dato loro. Inoltre è difficile coinvolgere qualsiasi ufficio ministeriale o dell’amministrazione locale con i grossi problemi finanziari e politici che hanno. Spera che il governo rifaccia una legge di rifinanziamento del Museo per ottenere l’autonomia economica: «Abbiamo inviato una richiesta al Ministro della cultura per sistemare la situazione futura del Museo e per fare una legge che permetta almeno di stare tranquilli. Ma bisognerà aspettare».
Hanno un importante progetto da realizzare nel 2014 per conto della Presidenza del consiglio dei ministri: si chiama «museo diffuso della Resistenza italiana» e si tratta di «un coordinamento, tramite un portale, degli oltre 160 musei della Resistenza che esistono in Italia. Si realizzeranno collegamenti, percorsi, un modo di comunicare in Italia e all’estero». Hanno poi progetti di pubblicazioni: un album con testi e fotografie della mostra di donne R-esistenti, perché venga usato nelle scuole; e un volume con il diario della campagna in Russia e i documenti autobiografici sulla Resistenza, lasciati dall’ex direttore del Museo Arrigo Paladini. «Le risorse per il 2014 ci sono, ma non quelle per quest’anno».
Il Museo storico della Liberazione di Roma va salvato; Calderoli lo aveva barbaramente inserito nell’elenco degli enti inutili, ma è una preziosa fonte di storia, e non va né persa, né dimenticata.

l’Unità 5.11.13
Un investimento per il futuro
di Paolo Di Paolo


MENTRE CI AVVERTONO CHE LA RIPRESA È MENO FORTE DEL PREVISTO, CHE I TEMPI DI «COPERTA CORTA» non sono finiti, è sempre più difficile definire le urgenze. Ce ne sono di lampanti, le abbiamo sotto gli occhi, magari in casa o appena fuori. Quelle che riguardano la cultura vengono spesso rubricate come marginali o, nel peggiore dei casi, finiscono nel silenzio. Il fatto che il Museo della Liberazione di via Tasso a Roma rischi il commissariamento e non abbia più ossigeno economico, è un’urgenza. Ma quanti sono disposti a definirla tale? Soltanto gli storici, gli studiosi, gli ex partigiani? Il punto è che sta uscendo dalla mentalità collettiva la lunga crisi economica e una pseudo-cultura manageriale non hanno aiutato a trattenerla l’idea che la cultura sia un costo necessario. La difesa della cultura, della nostra memoria comune, del patrimonio storico e artistico sono un costo, una voce di spesa. Passa invece la cinica e ottusa convinzione che questo non sia il momento di spendere per la cultura, e che se qualcosa si vuole fare bene, lo si faccia gratis. D’altra parte è praticamente a costo zero che continuano a resistere molti enti culturali, affidandosi alla generosità e alla buona volontà dei singoli. Un «volontariato culturale», diffuso più di quanto si sappia.
Gente che tiene vivo qualcosa un progetto, una rassegna culturale, uno spazio, senza averne nessun vantaggio. Ed è raro che qualcuno, dalle istituzioni più in alto, gli dica almeno grazie. Forse qualunque assessore alla cultura da Milano a Roma a Palermo dovrebbe mandare di suo pugno una lettera a tutti coloro che nel proprio territorio continuano a fare qualcosa. Questa lettera dovrebbe dire semplicemente grazie: grazie perché non ci sono soldi, ne abbiamo spesi un mucchio per idiozie o per scandalosi benefici personali, non ci sono soldi, ma voi non vi fermate lo stesso, e talvolta li rimettete di tasca vostra. Grazie perché non dovreste essere lasciati soli, ma spesso lo siete, e nonostante questo non vi arrendete, per via della passione che vi anima. Grazie perché tenete in vita non il nostro passato, come molti credono, ma il nostro futuro.
Credo che sia qui il cuore del problema: se difendiamo e teniamo in piedi un museo storico come quello di via Tasso, non lo facciamo per il passato. Il passato è nelle cicatrici di chi l’ha vissuto. Il futuro, invece, se smettiamo di portare in salvo tracce, di custodire la verità, di tenere viva la memoria, rischia di essere una terra deserta. Uno spazio senza più punti di riferimento alle spalle, con un vuoto vertiginoso che inghiotte qualunque consapevolezza. È il terreno più arido di memoria che diventa quello fertile non solo per i negazionisti di turno la frangia più estrema degli idioti ma più in generale per individui che vivono come eterni sonnambuli, abitano solo l’istante e ne restano, senza saperlo, prigionieri. Prigionieri ciechi. Quei «granai dello spirito» che sono le biblioteche, gli archivi, i musei silenziosamente cooperano alla sopravvivenza non del passato, ma di un futuro che non sia, appunto, il deserto. La famosa frase dell’ex ministro Tremonti «con la cultura non si mangia» non è solo qualunquista e sbagliata, è peggio: è liquidar la necessità di investire sulla cultura e di intenderla, a ogni livello, come investimento. Di considerarla un costo necessario, non un orpello. Non possiamo permetterci lussi né sprechi, ma la cultura non è né un lusso né uno spreco. La sorte del museo di via Tasso ci riguarda e tanto più in vista di un tempo che sarà privo di testimoni diretti della Resistenza. Saranno piccole roccaforti come quelle a tenere il filo di una continuità fra noi e la storia che ci precede. Lasciarle morire nell’indifferenza sarà come sacrificare due volte chi ha lottato per la libertà di oggi, per la libertà con cui anche adesso posso scrivere.

La Stampa 5.11.13
Bobbio & Sartre
Quando la pagina erotica è un mezzo necessario
Nel 1947 l’edizione italiana del Muro fu denunciata per oltraggio al pudore
La memoria difensiva del filosofo torinese in sostegno del collega francese
di Bruno Quaranta

qui

Corriere 5.11.13
La storia si scrive sempre usando il tempo presente
Paolo Mieli a confronto con un tema caro a Croce
di Luciano Canfora


Sotto il titolo I conti con la storia. Per capire il nostro tempo , Paolo Mieli ha raccolto per Rizzoli gli interventi e i saggi pubblicati negli ultimi anni su questo giornale, come a suo tempo ne aveva selezionati altri in analoghi volumi (La storia, le storie e La goccia cinese ). Questa volta però ha voluto dare una cornice e far risaltare il filo conduttore, in una introduzione della quale qui diremo. Il filo conduttore è il tema formulato per primo esplicitamente e teoreticamente da Benedetto Croce: «Ogni vera storia è storia contemporanea». Con ciò intendendosi che lo sforzo — sempre in fieri — di comprensione del passato parte dalle nostre categorie e risponde a nostre esigenze attuali e, non da ultimo, per ciò che un fatto storico diviene contemporaneo nell’atto mio medesimo di pensarlo.
Chi abbia esperienza della storiografia sa che non vi è storico, di cui sia rimasta significativa memoria, che non abbia preso le mosse da un impulso o bisogno intellettuale radicato nel presente, nel suo presente etico-politico: da Erodoto a Giuseppe Flavio, da Livio a Eginardo, da Guicciardini a Gibbon, da Droysen a Croce medesimo, da Albert Mathiez a Evgenij Tarle. E si potrebbe seguitare con gli esempi includendovi, in dissenso rispetto ad una celebre partizione dovuta ad Arnaldo Momigliano, anche gli eruditi e gli antiquari, pur essi mossi — da Eusebio di Cesarea a Baronio ai Centuriatori di Magdeburgo — da fortissimi impulsi tratti dal presente.
Di questa fondamentale intuizione si possono dare diversi inveramenti. Lo stesso Croce ne intuisce un possibile uso strumentale in quella che chiama «storiografia di partito» (La storia come pensiero e come azione , 1938, parte V) e addita uno iato tra «gli scrittori di storia, disadattati o alieni alla politica» e gli uomini politici, i quali «ancorché ignorantissimi delle cose della storia, pur menano le cose del mondo».
Al contrario, chi dell’agire politico ebbe un’idea più alta e meno riduttiva poté ribaltare questa visione, pur partendo dalle stesse premesse. Mi riferisco alle considerazioni di metodo che Palmiro Togliatti premise alla sua lezione torinese (aprile 1962) su Le classi popolari nel Risorgimento , dove indicò appunto nel politico, distinto in ciò dallo storico professionale (e in ciò sbagliava), colui che invera il principio della ineluttabile contemporaneità della storia. E concludeva, forse intimidito dall’apparente neutralità degli storici di professione: «Soltanto per il politico ogni storia è sempre storia contemporanea» (ed. postuma in «Studi storici», settembre 1967).
Nel Croce del 1938 operava la forzata lontananza dalla politica e l’esperienza rattristante della qualità intellettuale dei politici di quel tempo; ma Croce stesso si tuffò nella politica già con l’avvio della Liberazione (si pensi al memorabile suo intervento al Congresso dei Cln di Bari all’inizio del 1944). E in Togliatti nel 1962 operava forse la soggezione verso l’apparente apoliticità del ceto accademico di quel tempo, ma soprattutto l’orgoglio di appartenere egli stesso alla specie, oggi quasi estinta, dei politici che erano anche grandissimi intellettuali e in quanto tali studiosi di storia.
Un’altra importante declinazione del tema della contemporaneità della storia è quella, cara a Paolo Mieli, della necessità del revisionismo, inteso — va da sé — non come banale paradosso, ma come costante ripensamento del passato (dei momenti soprattutto nodali del passato), che è frutto al tempo stesso dell’ampliarsi della documentazione e del nuovo presente in cui via via gli studiosi di storia si trovano a vivere e a pensare il passato.
Mieli parte, nelle pagine introduttive, dalla difesa del cardinale filoustascia Stepinac da parte di Alain Finkielkraut e sembra accogliere gli argomenti addotti da costui in favore della wojtyliana beatificazione del cardinale a suo tempo fatto arrestare da Tito con l’accusa di collaborazionismo. Mieli spiega il mutamento di giudizio intorno all’azione politica dell’ingombrante prelato con le parole di Finkielkraut, il quale rampogna «gli attuali difensori degli ebrei» cui «interessa soprattutto riflettersi al meglio nello specchio dell’antifascismo»; e commenta: «Per cinquant’anni, sotto il regime comunista (in Jugoslavia) il male era stato identificato col fascismo». La stessa considerazione però si può esprimere anche nel modo seguente: non sono cambiate retroattivamente le compromissioni di Stepinac con il regime filofascista degli ustascia, ma è il passato ustascia che è stato rivalutato, e con esso Stepinac, dalla Croazia di Tudjman (campione di razzismo antiserbo, antisloveno e antimusulmano: si pensi alla Costituzione croata del 1997 da lui voluta).
L’altro grande esempio che Mieli adduce del processo di revisione, frutto, come s’è detto, della incessante contemporaneità del passato, è il giudizio storico espresso da Norberto Bobbio, in uno scritto del 1986, su Stalin. Era una molto articolata lettera a Paolo Spriano, in cui Bobbio non solo respingeva «fermissimamente» l’insulso accostamento tra stalinismo e nazismo, ma invitava Spriano — richiamandosi al XVII capitolo del Principe — a considerare la grandezza «del vostro, e potrei dire anche nostro, Stalin», «venerando e terribile» al pari di Annibale, in quanto è lecito al Principe violare le regole della morale comune se fa «gran cose». E soggiungeva Bobbio: «La costruzione di una società socialista è gran cosa».
Machiavelli, formulando quell’aspro criterio di giudizio, evocava Annibale. Dunque non introduceva, accanto al criterio della grandezza, anche quello della durata. Machiavelli frequentava poco il greco e forse perciò non gli era presente il celebre giudizio di un grande storico greco, contemporaneo di Filippo il Macedone, creatore della Macedonia come grande potenza e percepito poi nella Germania dell’Ottocento come archetipo di Bismarck. Scriveva Teopompo che «Filippo fu il più grande uomo che l’Europa avesse generato» e contestualmente lo descriveva come violento, fedifrago, sopraffattore. Ciò sbandava il povero Polibio, ma questo non toglie valore all’intuizione di Teopompo.
A quasi un secolo dalla rivoluzione d’Ottobre, a sessant’anni dalla morte di Stalin, a ventidue anni dalla dissoluzione dell’Urss, il fenomeno Stalin è finalmente un grande problema storico, piuttosto che un veicolo di eccitazioni superficiali di vario segno. Il diagramma di come questo problema ci ha accompagnati ed è stato valutato nel tempo — cioè nei vari presenti del nostro passato — è un buon indicatore. Seguiamolo per sommi capi. Nel memorabile discorso al teatro Brancaccio di Roma (23 luglio 1944) Alcide De Gasperi, senza mai attenuare, in nessuna parte di quel discorso, la antitesi sua nei confronti del socialismo sovietico pur da lui definito «eminentemente cristiano», inneggiava al «genio di Giuseppe Stalin» e al «merito immenso, storico, secolare delle armate da lui organizzate» (Discorsi politici , ed. Cinque Lune 1956, p. 15). E di «genio politico» parlò Croce a proposito di Stalin su «La città libera» del 23 agosto 1945. Dell’opera sua come costruttore di uno Stato capace di reggere al micidiale attacco tedesco del giugno 1941 parlò su questo giornale Mario Missiroli nel fondo scritto in morte di Stalin (6 marzo 1953): «Quando suonò l’ora della prova suprema, l’uomo si mostrò pari a se stesso e ai grandi compiti che aveva cercato e che la storia gli aveva assegnato». E Pietro Nenni, commemorando Stalin alla Camera in quello stesso giorno, disse: «La guerra del 1941-45 fu, nel suo barbaro orrore, la prova suprema» e concludeva che, in quella terribile circostanza , «Stalin e il sistema ricevettero il collaudo della storia». E si potrebbe seguitare ricordando la biografia di Stalin scritta da un avversario acerrimo come Deutscher, culminante nel giudizio degno di attenzione: «Scacciò la barbarie dalla Russia con metodi barbari» (Stalin, una biografia , 1949). E Deutscher non aveva certo bisogno, per orientarsi, della drastica demolizione di Stalin attuata dalla parte alla fine vincente dei suoi successori nel XX e XXII Congresso del Pcus.
Poi vennero la crisi dell’Urss e la sua dissoluzione, avvenuta circa quarant’anni dopo la morte di Stalin. E la fine della sua costruzione comportò la revisione, il ridimensionamento e la rozza equiparazione con «gli altri dittatori». Ma le «gran cose» di cui diceva il Machiavelli vanno misurate col metro della durata? Forse no, se si pensa che l’impero creato da Filippo e Alessandro si sgretola neanche quindici anni dopo la morte di Filippo e poco dopo la morte di Alessandro. E lo stesso potrebbe dirsi di Tamerlano, che tanto aveva affascinato lo storico Ibn-Haldun, suo antagonista e ammiratore. Fu dunque l’ipotesi che quella storia novecentesca legata alla figura di Stalin fosse «finita nel nulla» (come scrisse, errando, François Furet nel Passato di un’illusione ) a suscitare non solo la insostenibile equazione Hitler/Stalin, ma più in generale il ridimensionamento di ciò che Bobbio ancora nell’86 definiva «grandi cose».
Ora però il punto di osservazione è cambiato ancora una volta. Gli ultimi vent’anni — di cui bene Mieli scrive che «sono già storia» — hanno imposto, soprattutto in Russia, una ulteriore revisione: una revisione che non può non interessare qualunque storico rifletta su quella vicenda, cioè sull’azione dello statista Stalin nei venticinque anni di potere assoluto (1927-1953) che avevano fatto della Russia una grande potenza rimasta tale anche dopo la fine dell’Urss. Lo segnalò subito, con la consueta sensibilità storica, Vittorio Strada su questo giornale (11 novembre 2004). E del ritorno di Stalin come grande figura della sua storia nazionale c’è ben poco da stupirsi, se si considera che si tratta dello statista al cui nome è legata l’unica guerra (e quale guerra!) vinta dalla Russia in tutta la sua storia, a partire dall’altra epopea, quella contro Bonaparte del 1812. Senza dimenticare la icastica sentenza di Deutscher che s’è prima ricordata.
Credo dunque che Mieli saprebbe ben riconoscersi nella sintetica diagnosi crociana: «Se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si suol chiamare non contemporanea». Altrimenti — scrisse Voltaire nella voce Histoire per l’Encyclopédie — cosa ci importerebbe che un tale sovrano è succeduto ad un altro sulle rive del fiume Oxos o dello Iaxarte?

Repubblica 5.11.13
La fantasia è al centro delle tracce delle prove “Cerchiamo di capire la vera identità dei candidati”
Creatività “Vorresti per papà un alieno o un robot?” il talento si scopre così
di Massimo Vincenzi


NEW YORK I dogmi sembrano muri impossibili da abbattere sino a quando si incrina la prima crepa che porta al crollo.
Così negli Stati Uniti inizia a sbriciolarsi la fede granitica nei test scolastici, una sorta di totem che accompagna (e terrorizza) gli studenti dalle elementari sino all’università. Hanno sigle e modalità diverse ma li unisce l’oggettività di giudizio e la garanzia di un livello di qualità alto, o almeno questo hanno sempre ripetuto i sostenitori ad oltranza del metodo. Ma adesso il clima sta cambiando. La rivista “The Atlantic” è tra le prime a porre il problema: siamo ancora sicuri che sia il modo giusto per valutare i ragazzi? E ancora: in un’epoca come la nostra sempre più complessa è davvero questa l’unica strada per realizzare la meritocrazia? Nel dibattito che segue i “no” sono una valanga inaspettata: i genitori e igiovani sono i primi a scagliarsi contro l’istituzione, ma anche molti professori si accodano.
Tanto che adesso molte università, vero tempio dei test, cominciano la retromarcia. A partire dalle “applications” le domande che gli studenti delle superiori mandano, in questo periodo dell’anno, ai college per farsi ammettere. Oltre al curriculum scolastico bisogna comporre una sorta di tema: in alcuni casi è libero in altri la traccia viene scelta dalla facoltà. Ed è qui che arrivano le sorprese. Le indicazioni suonano quanto meno strane: scrivi la tua barzelletta preferita senza rovinarne il finale, oppure preferiresti essere allevato da un robot, un alieno o un dinosauro? E ancora: se devi passare il prossimo anno nel passato e nel futuro dove vorresti andare e perché?
È una svolta storica: a motivarla la scoperta degli esperti che trovano sempre più spesso studenti brillanti ma scarsamente dotati di creatività, preparati ma poco inclini ad uscire dagli schemi. Da qui la necessità di introdurre dosi massicce di fantasia nel sistema: «Vogliamo valutare oltre all’intelligenza la capacità degli studenti di rischiare, di cercare risposte non standard ai problemi»: racconta al New York Times Andrew Flagel della Brandeis University e aggiunge: «Vogliamo che i nostri allievi abbiamo una forte identità personale».
E un professore spiega all’Huffington Post: «Quando chiedo una data di un evento storico si alza una selva di mani e le risposte sono quasi sempre puntuali. Ma se poi domando il perché quella cosa è accaduta e che conseguenze ha avuto la classe si zittisce ». Sempre il New York Times racconta che un gruppo di scuole materne della città sta pensando di abolire i test di ammissione: «Sono dannosi e provano inutili stress nelle famiglie e nei bambini ». Subito sul sito si accende la discussione. Un preside della Pennsylvania non ha dubbi: «Insegno da oltre trent’anni e sono costernato nel vedere come i test abbiano accresciuto la loro importanza sino a diventare l’unico metro di giudizio in qualsiasi grado del percorso scolastico. È un errore grave, si creano ragazzi meccanicizzati, lineari incapaci di elaborare un pensiero autonomo ». E Victoria Goldem, autrice di una guida agli istituti di New York, è ancora più netta: «Bisogna ritrovare un metro di giudizio soggettivo».
La fantasia, il coraggio, l’indipendenza di giudizio iniziano ad entrare nel vocabolario dei professori e la novità ricade sugli studenti che reagiscono a umori alterni. Alcuni postano sui social commenti ansiogeni: «Ma cosa vogliono adesso? Non basta più essere bravi e avere ottimi risultati per essere ammessi, adesso devo pure essere creativo: non è giusto».
Ma c’è anche chi, come Sam dall’Oklahoma, si entusiasma: «Nella mia domanda all’università di Chicago io ho scritto il tema sulla barzelletta: spero di averlo fatto bene. Sono felice che provino a misurare anche la mia creatività, penso che nel lavoro mi sarà utile».
Lo credono i professori: «Le sfide che aspettano questi ragazzi non sono più quelle di appena vent’anni fa, la situazione è cambiata in maniera drastica. Avere una voce originale, saper trovare una soluzione creativa ad un problema sono capacità fondamentali ». E così, come spesso accade, il muro crolla sotto i colpi della fantasia.

Repubblica 5.11.13
O la banca o la vita
Così la finanza parassitaria ci ha portati nella crisi
di Federico Fubini


Quando è arrivato Hibernia Atlantic, era da oltre dieci anni che non si osava prendere un’iniziativa del genere. Da quando la bolla della new economy era scoppiata al giro di boa del millennio, nessuno aveva più posato un cavo a fibre ottiche sul fondo dell’Atlantico. Poi nel 2011 è stato fatto, qualcuno ha depositato “ventimila leghe sotto i mari” Hibernia Atlantic: ma non era un cavo come gli altri, quelli percorribili da centinaia di milioni di persone che hanno qualcosa da comunicare da una sponda all’altra dell’oceano. No, quella era un’infrastruttura per pochi: per gli operatori del cosiddetto “high frequency trading”, gli scambi “ad alta frequenza” che puntano a registrare guadagni sul mercato azionario o sui cambi grazie alla rapidità delle operazioni misurata in millisecondi. Sono operazioni dietro le quali non c’è alcun calcolo razionale sulla qualità di una certa azienda, sui tassi d’interesse o la forza di un’economia o sul modo migliore di allocare il capitale in modo che sia più produttivo, crei più posti di lavoro, porti crescita per tutti. La sola cosa che conta è la velocità, a costo di perdere il controllo e destabilizzare l’intero listino principale di Wall Street come accadde per il 6 maggio 2010. E Hibernia Atlantic è un cavo che può far guadagnare “ben cinque millisecondi”, scrive Federico Rampini senza riuscire a trattenere il sarcasmo.
Corrispondente diRepubblica a New York, Rampini nel suo ultimo libro (Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale, Mondadori) racconta una gran quantità di storie come questa. Lo fa per guidarci fra i paradossi dell’Occidente sei anni dopo il giorno in cui qualcosa di spezzò per sempre con il fallimento di Lehman Brothers. «Se rinasco, in un’altra vita vorrei insegnare l’economia ai bambini – confessa l’autore – . Perché crescano armati degli utensili giusti, perché nessuno li possa ingannare con il linguaggio dei tecnocrati». E forseBanchieri non è un libro scritto nell’idea di farlo distribuire nelle scuole elementari o medie, ma fin dalle prime pagine si avverte il tentativo di parlare ai non addetti ai lavori. Il messaggio di fondo del libro, nello stile prima ancora che nei contenuti, è che non devono essere sempre e solo gli esperti a poter parlare con cognizione di causa delle assurdità del sistema finanziario globale. Tutti devono poter capire.
A sei anni dall’esplodere della crisi (“la Grande Contrazione”), Rampini non fa che trovare conferme di quella che per lui è la natura parassitaria delle banche. Ovunque getti lo sguardo, in Italia come negli Stati Uniti. A New York, nota come i banchieri di Wall Street siano diventati più arroganti e i loro istituti più esposti a rischi scriteriati dopo che la Federal Reserve e il governo americano sono intervenuti per salvarli. La sindrome del Too Big to Fail, “troppo grande per fallire” (o meglio: perché si possa lasciar fallire) è diventato la realtà finanziaria delle megabanche salvate nel 2008-2009 e implicito ricatto di Wall Street nei confronti di una nazione intera. Il bilancio di Lehman era di 637 miliardi di dollari quando la banca saltò. Quello di Jp Morgan oggi è di 2.300 miliardi, cresciuto a dismisura proprio perché i manager dell’istituto sanno che il governo americano dovrà comunque aiutarli in caso di difficoltà, pena un’altra detonazione nucleare ancora peggiore.
Neanche l’Italia sfugge alla critica. «Nel corso del 2012 le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi di euro di finanziamenti», constata Rampini. Quelle stesse case finanziarie, spesso dai nomi blasonati, hanno assorbito in silenzio la loro parte dei 500 miliardi netti – o mille miliardi lordi – di prestiti straordinari della Bce. «I banchieri si sono incamerati gli aiuti di Draghi – accusa l’autore – ma non hanno restituito nulla al paese. Hanno negato agli imprenditori veri le risorse indispensabili per produrre, esportare, assumere».
Non c’è però solo l’indignazione, nel discorso di Banchieri. C’è anche una buona dose di (amara) riflessione, per esempio sul ruolo sempre più scomodo che hanno dovuto assumere le banche centrali nelle società occidentali. Quando hanno sospeso tutte le cautele e si sono messe a stampare denaro, la Federal Reserve americana o la Bank of Japan hanno sì salvato il mondo avanzato da una spirale depressiva simile a quella degli anni ’30. Ma lo hanno fatto dopo aver mancato di vedere che si sarebbe arrivati a un punto di rottura e producendo nuove distorsioni e vantaggi per i più ricchi in seguito. La creazione di liquidità tiene a galla l’economia, ma lo fa premiando chi può investire di più nei mercati finanziari. Draghi alla Bce o Ben Bernanke alla Fed hanno assunto un ruolo che Rampini definisce di “onnipotenti”. Ma proprio l’aver bisogno di eroi del genere dà la misura della nostra fragilità. «Il culto della personalità – dice l’autore a questo proposito – può raggiungere talvolta delle vette imbarazzanti».
La terza vena che attraversa il libro, forse la più sentita, è quella personale. Più che un saggio, Banchieri è il diario di una vita vissuta attraverso la crisi. La moglie Stefania che abbandona la professione di trader a San Francisco a passa a contratti a tempo, anno dopo anno, a New York. Il fastidio all’apprendere che Kathy, l’insegnate di yoga kundalini, dia lezioni speciali per i banchieri di Goldman Sachs. Il frastuono di New York che ti insegue fino al 31 esimo piano, da cui si riesce a fuggire solo nei concerti di Bach in una chiesetta evangelica luterana vicino a Central Park. Anche questo forse èdownshifting,scalare alla marcia più bassa, odownsizing, ridimensionare il tenore di vita: espressioni passate di colpo dal gergo dei grandi gruppi industriali a quello delle famiglie. E se qualcuno alla fine chiedesse dov’è lapars construens, la via d’uscita, la risposta è pronta: «Insegnate l’economiaai bambini».

Il libro Banchieri di Federico Rampini (Mondadori pagg. 189 euro 16,50) In libreria da oggi

Repubblica 5.11.13
L’arte di Hitler
Da Michelangelo a Boklin, il bello secondo i nazisti
di Siegmund Ginzberg


A qualcuno di loro non dispiaceva affatto nemmeno quella che bollavano come “arte degenerata”: dall’“ebreo spagnolo” (sic!) Picasso, e dall’ebreo russo Chagall, alle “mostruosità” di Munch, Max Ernst, Klee e Kokoschka. Qualcosa bruciarono in piazza dopo averli esibiti al ludibrio, la maggior parte li misero da parte, per far cassa o scambiarli con arte più confacente ai gusti ufficiali del Reich nazista.
La cosa curiosa è che i gerarchi nazisti erano tutti collezionisti compulsivi. Di porcate kitsch, di simbolismi grevi, di propaganda insulsa. Ma anche di grande arte. Hitler, si sa, avendo cercato di fare il pittore da giovane, amava farsi passare per grande intenditore di arte. Adorava L’isola dei morti di Böcklin, di cui comprò un esemplare, nel 1933.
Quando la Wermacht occupò Parigi, si fece accompagnare al Louvre e fece un comizio sul genio di Michelangelo Buonarroti, ma nessuno ebbe ovviamente il coraggio di fargli notare che stava commentando un’opera di Michelangelo Merisi, detto Il Caravaggio. Goebbels, pare fosse un appassionato di arte moderna. Ma poi fu proprio lui a farsi venire l’idea del linciaggio pubblico dell’“arte degenerata”. Aveva evidentemente cambiato idea, per adeguarsi ai gusti del suo capo, Hitler.
Hermann Göring, il ministro degli Esteri Von Ribbentrop, il capo della Gioventù hitleriana Baldur Von Schirach, persino il capo delle SS Himmler erano tutti collezionisti d’arte accaniti. Facevano a gara ad accaparrarsi cose belle, e soprattutto cose di valore. Era una dimostrazione di status, di prestigio relativo nella nomenclatura, una questione di esibizione del proprio potere. Un po’ come esibire ville o amanti.
Lo sfizio se lo tolsero saccheggiando sistematicamente i musei e le proprietà degli ebrei. Prima in Germania, poi nei Paesi occupati dalle loro truppe. È vero, talvolta, per salvare le apparenze, facevano finta di comprarle. Ma con offerte irrisorie, che i destinatari «non potevano rifiutare». «Doveste decidere di non vendere, sarei costretto a ritirare la mia offerta, e le cose procederebbero per conto loro, senza che io possa fare nulla per impedire il corso degli eventi»: questa la lettera tipo che Göring indirizzava ai collezionisti presi di mira. Ma anche l’accettazione del ricatto spesso non impediva che seguissero arresto e persecuzione. Anzi, l’organizzazione meticolosa delle “acquisizioni” andava, specie all’Est, di pari passo con l’organizzazione scientifica del massacro.
Tra le collezioni più strepitose andrebbe ricordata quella esibita da Adolf Eichman all’hotel Majestic, la sua residenza a Budapest nel 1944. Tra i quadri esposti c’erano dei Velázquez, Goya, Renoir, Brueghel. Tutti quadri espropriati agli ebrei per i quali Eichmann aveva l’incarico di pianificare la “soluzione finale”. Gli portò via anche i capolavori dei “degenerati”. Ma questi finivano agli “specialisti”, perché ne curassero la vendita.
Per la gigantesca rapina furono usati bracci armati, come l’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (ERR), i commando speciali dell’ideologo dello sterminio di ebrei e slavi, ma anche i servizi di un gran numero di esperti d’arte, come il curatore Hans Posse incaricato di mettere in piedi a Linz il “museo personale” del führer, e di una caterva di altri specialisti, galleristi e mercanti d’arte, in Germania, nel resto d’Europa e, durante la guerra, soprattutto in Svizzera.
Uno di questi “tecnici” di alto livello era appunto Hildebrand Gurlitt. Quello nel cui appartamento a Monaco – poi ereditato dal figlio Cornelius – è stato trovato il tesoro favoloso che si riteneva perduto. Con una nonna ebrea, e per giunta inviso in quanto estimatore dell’arte “degenerata” Gurlitt padre era un collaboratore “improbabile” dei nazisti. Ma forse proprio per questo gli avevano affidato un lavoro sporco: piazzare il maltolto all’estero. Pare che sia stato il ministro della propaganda Goebbels in persona ad avere l’idea di conferirgli l’incarico. Ritenevano evidentemente che avesse i contatti giusti. Deve aver svolto questo compito con grande zelo e soddisfazione dei suoi datori di lavoro se ad un certo punto fu addirittura designato come futuro direttore del museo personale che Hitler voleva aprire a Linz.
L’intenzione era di imitare ciò che Napoleone aveva fatto per il Louvre. L’arte partorita da quelle che Hitler considerava “menti degenerate” non era destinata al museo. Ma Gurlitt si tenne anche gli esecrati Matisse, Marc, Dix, Kirchner. Perché sapeva benissimo quanto valevano. E forse anche perché i suoi gusti erano più raffinati.
La ricettazione avrebbe potuto continuare impunemente se Gurlitt figlio, vendendo di tanto in tanto qualcuna di quelle opere per le proprie spesucce, non si fosse tradito per un reato più banale: la frode fiscale. Ora le autorità tedesche dicono che faranno il possibile per individuare i legittimi proprietari. Ma una approfondita inchiesta condotta qualche mese fa dallo Spiegel indica che la cosa non è così evidente. Documentava per filo e per segno quanto continui ad andare a rilento persino il censimento dei beni rapinati dai nazisti ancora in possesso, non di un ricettatore privato, ma di musei e istituzioni. Per non dire della beffa per cui spesso tornano in possesso degli eredi dei rapinatori, anziché degli eredi dei rapinati.

Corriere 5.11.13
Il Matisse ritrovato di Anne Sinclair

Era a Monaco nel tesoro dei nazisti
L’ex moglie di Strauss-Kahn è la nipote del proprietario dell’opera
di Stefano Montefiori


PARIGI — Anne Sinclair è diventata celebre nel mondo come la donna che sosteneva con coraggio Dominique Strauss-Kahn nel momento della sua discesa agli inferi, la moglie che rimase al fianco dell’allora direttore del Fmi accusato di avere violentato una cameriera (salvo separarsi a vicenda giudiziaria conclusa). Ma se Sinclair, grande giornalista televisiva negli anni ‘80 e ora direttrice dell’Huffington Post francese, ha un posto nella storia d’Europa non è per lo scandalo che l’ha sfiorata suo malgrado due anni fa.
Suo nonno, Paul Rosenberg, è stato il più grande mercante d’arte del XX secolo, amico personale di Picasso, Braque, Matisse. Per festeggiare la firma del contratto che li legava (Biarritz, 1918), Picasso regalò a Rosenberg il ritratto della nonna di Anne Sinclair che teneva in braccio la madre. La vita della famiglia ebrea dei Rosenberg fu travolta dalle persecuzioni naziste, e ad Anne Sinclair capita negli ultimi anni di venire coinvolta — in qualità di erede — in vicende clamorose, come la scoperta delle 1500 opere d’arte trafugate dai nazisti e nascoste a casa dell’ottuagenario tedesco Cornelius Gurlitt: se ne è avuta notizia due giorni fa, si tratta del più importante ritrovamento di opere trafugate mai avvenuto, e tra i quadri c’è un «Ritratto di signora» di Henri Matisse appartenuto a Paul Rosenberg. Che spetta oggi ai suoi discendenti, tra i quali Anne Sinclair.
La storia di quel «Ritratto di signora» si intreccia con la tragedia di un continente. Henri Matisse potrebbe avere dipinto il quadro nel 1939, durante le prime settimane della drôle de guerre, quando Francia e Germania sembravano esitare a sferrare l’attacco. Matisse viveva a Nizza, e Paul Rosenberg lo andò a trovare, ripartendo con alcune tele sotto il braccio. «Vi ho trovato in splendida forma — scrisse Rosenberg a Matisse —, le vostre ultime opere sono tra le migliori. Quelle che ho portato con me le ho subito appese, alle 2 e mezza di notte, nel salone di casa», si legge nel libro «21 rue la Boétie» (edito in Italia da Skira) che Anne Sinclair ha scritto l’anno scorso intitolandolo con l’indirizzo della galleria parigina del nonno.
Casa, in quei giorni, era una proprietà nell’Ovest della Francia, il «Castel», vicino a Bordeaux, dove i Rosenberg si erano rifugiati alla dichiarazione di guerra, lasciando Parigi per timore dei bombardamenti. Lì Paul Rosenberg nascose in una cassaforte 160 opere, tra le quali i Matisse, un auto-ritratto di Van Gogh, dei Cézanne, Léger, Sisley, Picasso, Utrillo, Monet, Braque: il meglio di quella che i nazisti nella loro follia definivano «arte degenerata».
Il 5 settembre 1941, le truppe naziste arrivarono fino al «Castel», saccheggiando l’appartamento e la cassaforte dei Rosenberg con l’aiuto zelante dei Lédoux, i proprietari che abitavano al piano di sopra. Paul Rosenberg era riuscito ad abbandonare la Francia in tempo, nel giugno del 1940: scappò in Portogallo e poi a New York, dove cercò di mantenere i contatti con i suoi artisti. In Europa, intanto, l’orrore dilagava. Tra chi approfittò delle spoliazioni naziste ci fu il collezionista Hildebrand Gurlitt: sconfitto Hitler, si ritrovò in possesso di un tesoro che comprendeva anche il «Ritratto di signora» di Matisse sottratto a Rosenberg.
Nel ‘46 il nonno di Anne Sinclair compilò una lista di opere di sua proprietà finite in mano ai nazisti, e dedicò il resto della vita, fino al 1959, a ritrovarle. Tre anni prima della sua morte il «Ritratto di signora» era passato da Hildebrand Gurlitt (scomparso nel ‘56) al figlio Cornelius, che l’ha custodito assieme a tanti altri capolavori. Dopo il Matisse del museo di Seattle (1999) e il «Vestito blu su poltrona gialla» esposto all’Onstad Art Center vicino Oslo (a giugno), un altro capolavoro potrebbe tornare in famiglia.

Corriere 5.11.13
Il tedesco che viveva con l’arte «degenerata»
di Philippe Daverio


All’origine di questa funesta faccenda stanno due personaggi che lasciano riflettere con ansia sulle perversioni dell’umanità. L’uno è il tetro imbianchino austriaco che divenne il Führer del Terzo Reich, l’altro è un signore dal cognome apparentemente ebraico ma che con il mondo di Davide nulla aveva più a che fare, tale Alfred Rosenberg, teorico del partito nazista, pagano dichiarato al quale si deve parte delle tesi che portarono a dichiarare «degenerata» l’arte che non fosse banale e figurativa. Fu processato a Norimberga e impiccato. La storia ha talvolta riscontri inattesi, se si pensa che a Parigi Léonce Rosenberg, non parente del primo e invece fiero della sua origine ebraica, era stato il mercante di Picasso e di de Chirico. Le dittature vogliono uno stile unico e di consenso. Zdanov per conto di Stalin epurò l’arte russa sin dalla metà degli anni 20. Nel 1937, per dare una indicazione precisa all’estetica che il regno dei 1000 anni voleva plasmare e sotto la pressione dello stesso Hitler che si reputava buon pittore e formidabile urbanista, viene decisa una mostra dal titolo «Entartete Kunst», prima a Monaco e poi a Berlino, che avrà un potente successo di pubblico e alla quale verranno convogliate folle di truppe cammellate. È un riassunto del meglio delle avanguardie composto da confische presso privati, gallerie e musei. Le opere devono sparire. Ma siccome valgono già del danaro si decide di non bruciarle come s’era fatto con i libri ma di metterle discretamente in vendita. Qui entra in scena un personaggio equivoco, Hildebrand Gurlitt. Nato a Dresda, figlio dello storico dell’arte Cornelius Gurlitt, con un fratello musicologo Wilibald e un cugino mercante d’arte Wolfgang, si dedica all’antropologia e finisce direttore del museo di Zwickau, posto che perde già nel 1930 perché non considerato «ariano» certificato, a riprova che l’antisemitismo era nell’aria già prima della presa del potere di Hitler. Va a dirigere il Kunstverein di Amburgo ma perde anche lì il posto nel 1933 quando ormai il potere nazi è affermato. Non esce di scena: è diventato mercante d’arte e si offre come acquirente per le opere dell’arte degenerata. Le acquista per esportarle. Invece se le tiene e il figlio le ha conservate nascoste come un bottino nella sua casa di Monaco, come gli accumulatori di pattume nelle trasmissioni tv americane. 

lunedì 4 novembre 2013

Repubblica 4.11.13
Congressi caos, Epifani riunisce la segreteria Pd
Chiti: a Empoli tessere vendute a centinaia d’immigrati. Sul rinvio ora Cuperlo frena
di A. Cuz.


ROMA — Toccherà a Guglielmo Epifani, domani, dire quel che pensa della guerra di posizione che si sta combattendo sul tesseramento pd. La segreteria è convocata al Nazareno, dove si riunirà anche la commissione dei garanti guidata da Luigi Berlinguer. C’è da capire se le irregolarità denunciate durante i congressi provinciali sono diffuse o circoscritte. Se si può parlare di tesseramento falsato, o di problemi fisiologici legati alla fretta e all’avvicinarsi delle primarie dell’8 dicembre.
C’è da capire - soprattutto - se alcuni mentono quando dicono che gli avversari hanno truccato le carte per vincere. O se è vero che a Cosenza c’è un congresso falsato da dirigenti vicini all’area Cuperlo (e da garanti non imparziali), ad Asti da file di albanesi per Renzi, e così via in un incrocio di accuse riempite ogni giorno da nuovi particolari. Vannino Chiti denunciava ieri file sospette di immigrati al congresso provinciale di Empoli, e si lanciava contro «compravendite vergognose frutto di regole assurde». Quella di far votare ai gazebo delle primarie anche i non iscritti, quella di non chiudere il tesseramento mesi prima del congresso «per compiacere quanti non sopportano militanti che ogni giorno lavorano per il Pd, volendolo ridurre a comitato elettorale».
Pippo Civati, pur in disaccordo con l’idea di fermare il tesseramento, rivendica a SkyTg24: «Il problema l’avevo denunciato io 15 giorni fa e avevo chiesto agli altri candidati di schierarsi con me. È successo tutto puntualmente. Diamo l’immagine di un partito in cui la corsa per il potere è più importante del rispetto delle regole. Spero che si prendano provvedimenti e si annullino i congressi nelle situazioni più drammatiche». Parla di «coperture politiche», lo sfidante di Renzi e Cuperlo, ricorda: «Io l’ho detto ai miei, il primo che becco lo caccio a calci nel sedere».
Così, mentre i renziani continuano a dire - su mandato del sindaco - che di chiudere il tesseramento non se ne parla, che le commissioni di garanzia hanno il compito di verificare le irregolarità, ma non bisogna approfittare dei casi sospetti per bloccare la partecipazione, Gianni Cuperlo non demorde. Dopo un comunicato in cui il suo comitato garantiva che «le regole si possono cambiare quando c’è condivisione, non saremo certo noi a impuntarci o a chiedere forzature», il candidato da Ferrara - sembrava smentire: «Sul discorso tessere non mi arrendo, non è una polemica mossa nei confronti di qualcuno, è un fatto che riguarda tutti noi e ne va dell’autorevolezza e della dignità del partito».
Ma il Pd, in Emilia, ha problemi anche più grossi: il capogruppo in regione Marco Monari - finito nell’inchiesta sull’utilizzo improprio dei fondi dei gruppi insieme ai colleghi degli altri partiti - si è dimesso dopo le voci su sue presunte spese pazze. Oltre 1000 euro per due notti a Venezia, e 30mila consumate in diversi ristoranti della città nel giro di 19 mesi. «Troppe dichiarazioni disinformate quanto contraddittorie su indiscrezioni incontrollate e incontrollabili si difende - mi convincono che il mio senso di responsabilità, innanzi tutto nei confronti del partito, viene male inteso e interpretato come un tentativo di nascondere mie responsabilità personali che rivendico insussistenti». Per questo, «per il rispetto che devo a me stesso, unito all’affetto per ilpartito che ho contribuito a fondare, lascio la guida del gruppo regionale».

Corriere 4.11.13
Congressi, i primi risultati. I renziani: siamo in vantaggio
Caso tessere, boom di iscrizioni anche a Piacenza
di Ernesto Menicucci


ROMA — C’è la «guerra delle tessere», ma — adesso — c’è anche la battaglia sui voti. Chi ha vinto, al netto di ricorsi, polemiche, veleni, sospetti di brogli, tra Gianni Cuperlo e Matteo Renzi (indietro gli altri due sfidanti, Pippo Civati e Gianni Pittella) nei congressi provinciali Pd di tutta Italia? Le votazioni sono quasi concluse — ieri è toccato a Bari; il 10 parte, dopo mille problemi, Caserta — e adesso si cominciano a fare i conti.
Dal comitato di Cuperlo, qualche giorno fa, erano usciti i primi dati, favorevoli al deputato triestino: 49 segretari provinciali per lui, 25 per Renzi. Ora, però, dallo staff del sindaco di Firenze danno una versione molto diversa: «Finiremo 50 e 50...», dicevano gli uomini a lui più vicini. Secondo questi conteggi, al momento Renzi sarebbe addirittura in vantaggio: 45 (vinti o con previsione di vittoria) per lui, 41 per Cuperlo. Contando, da una parte e dall’altra, i candidati «unitari», quelli scelti di comune accordo sul territorio ma che poi si schiereranno di qua o di là per l’elezione del segretario nazionale. Mancano, all’appello, una quindicina di congressi: alcuni sono in corso, altri (come Roma) andranno al ballottaggio.
Ma, via via, alcune delle situazioni critiche si stanno risolvendo. A Caserta, come detto, la missione dei due «caschi blu» (un renziano e un cuperliano) è servita: domenica prossima si vota. A Torino dovrebbe bastare l’intervento di Giovanni Lunardon, a Lecce e Cosenza si stanno completando le operazioni. Non che manchino, ancora, le denunce. Proprio a Cosenza sono i renziani a scrivere ad Epifani: «Ti chiediamo di intervenire perché si ristabilisca la legalità statutaria». A Napoli, l’eurodeputato Andrea Cozzolino si sfoga sul suo blog: «Sono andato al circolo del Vomero per votare, mi hanno detto che l’elezione era già chiusa. Strano, la settimana scorsa le operazioni si erano bloccate, poi mi avevano detto che, verosimilmente, si sarebbe potuto votare sette giorni dopo...».
A Piacenza, dove si è registrato un vero boom di iscrizioni (iscritti raddoppiati da 900 a duemila, aumento del 117%), c’è il ricorso dei bersaniani (da Paola De Micheli al vicesindaco Francesco Cacciatore): «Cuperlo è informato della nostra iniziativa», dice la consigliera comunale Giulia Piroli, tra i promotori dell’esposto agli organi di garanzia del partito.
Lui, il candidato ex diessino alla segreteria, non vuole fermarsi: «Sul discorso tessere non mi arrendo. Non è una polemica mossa nei confronti di qualcuno, è un fatto che riguarda tutti noi e ne va dell’autorevolezza e della dignità del partito». Domani se ne parlerà alla segreteria e poi alla commissione congresso: lì verranno anche discussi i casi «sospetti», o dove ci sono ricorsi e contestazioni. Va all’attacco anche Vannino Chiti: «Le vergognose compravendite di tessere devono essere duramente sanzionate». E insiste: «Si vuole vincere senza badare ai mezzi, frutto di uno statuto sbagliato che consente non agli iscritti ma a chi l’8 dicembre si recherà ai gazebo di eleggere il segretario». Finita? Ancora no: «C’è chi non sopporta la sinistra nel Pd, e vuole ridurre il partito ad un comitato elettorale».

Repubblica 4.11.13
A Piacenza colpi bassi tra lettiani e renziani
“Voti comprati” “Non sapete perdere ”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — C’era una volta una tranquilla cittadina emiliana dove il Pd marciava unito dalla stessa parte. Era il 2007, il sindaco era l’imprenditore Roberto Reggi che aveva scelto Paola De Micheli come suo assessore al bilancio. Insieme sostenevano la corsa di Enrico Letta alle primarie contro Walter Veltroni.
Sei anni fa. Sembrano secoli. Perché nella Piacenza che ha dato i natali a Pier Luigi Bersani, così come a Reggi, De Micheli, Migliavacca, tutto è stato stravolto dalla corsa alla leadership di Matteo Renzi. Le strade dell’ex sindaco Reggi (coordinatore della campagna per le primarie del rottamatore) e degli altri tre illustri cittadini pd si sono divise drasticamente. E giù liti, baruffe, accuse, che a distanza di un anno dalle primarie si ripetono adesso, nel bel mezzo dei congressi provinciali e dei tesseramenti sospetti.
Così, la vicecapogruppo del Pd alla Camera, la lettiana di ferro Paola De Micheli, fa ricorso (insieme ad altri) alla commissione congresso per 4 casi di tesseramento gonfiato. E dice: «In questa settimana ce ne sono state anche altre, di crescite di tesseramento superiori alle percentuali consentite dalla circolare. Parliamo di un +177 per cento a Piacenza, +340 in Alta Val Trebbia. Nel Paese del candidato renziano gli iscritti sono aumentati del 1370 per cento!». Poi attacca: «Questa modalità di scalare il potere non ha nulla a che fare col Partito democratico. Vincere perdendo la faccia è peggio che perdere». I bersaniani in città narrano di scene mai viste da quelle parti: «C’è gente che ha detto “Mi han pagato la tessera, non mi costava niente venire”. Sono state portate ai seggi truppe cammellate di dipendenti spinti a votare dai loro datori di lavoro. Avevano disponibilità economiche, e le hanno usate».
Il regista di tutto questo è considerato proprio l’ex sindaco ed ex coordinatore renziano Roberto Reggi, che però dà una versione tutta diversa della storia. Intanto, il suo candidato, Gianluigi Molinari, sindaco di un paese di montagna al secondo mandato, ha vinto con il 53 per cento a livello provinciale. «Lo hanno sostenuto anche alcuni cuperliani e civatiani. Nulla è stato fatto contro le regole». Spiega, Reggi, che i suoi “nemici” «cercano solo di screditare un successo bello, pulito, di chi ha riportato a votare per il Pd una parte di coloro che lo avevano fatto l’anno scorso alle primarie». Perché «i numeri che dà la de Micheli si riferiscono alle tessere del 2012, quando gli iscritti erano crollati per la fallimentare gestione sua, di Bersani e Migliavacca. I numeri attuali sono del tutto in linea con il 2011. E ancora troppo al di sotto dei votanti delle primarie, che erano stati 17mila in provincia e 8mila nella sola Piacenza, mentre adesso abbiamo 2000 iscritti in provincia e 800 in città». E poi certo, «a Vernasca il sindaco ha vinto 145 a 1, ma quello è il suo comune!». Non ci sta, Reggi, a sentirsi accusare di illeciti: «Dicano i nomi perché io li ho visti con i miei occhi quelli che sono venuti. Le truppe cammellate, se ci sono state, non hanno certo votato per Molinari». Quanto alle accuse della deputata, di usare trucchi da prima Repubblica, la replica è ancora più dura: «Il vero vizio da prima Repubblica è quello di provare a delegittimare l’avversario politico, soprattutto quando vince con merito».
Insomma, a Piacenza non è più tempo di “tortelli magici”, nostalgiche pompe di benzina o cene tutti insieme in osteria. Se il buongiorno si vede dai congressi locali, alle primarie ci sarà da combattere.

Corriere 4.11.13
Alberghi e 30 mila euro in cene
Si dimette il capogruppo del Pd
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Cade la prima testa in quella da molti già ribattezzata «la grande abbuffata all’emiliana»: girandola di rimborsi, che definire «disinvolti» forse è poco, tra cene, hotel, qualche vestito, libri e perfino un gioiello comprato da Tiffany. Una bufera che squassa una delle Regioni «virtuose» per antonomasia, l’Emilia Romagna, dopo che la Procura della Repubblica ha indagato per peculato tutti i 9 capigruppo (dal Pd al Pdl, da Sel alla Lega, fino ai Cinque Stelle) dell’assemblea regionale.
Ad uscire di scena, rassegnando ieri sera le dimissioni, è Marco Monari, 52 anni, capogruppo in Regione del Pd, di cui è stato uno dei fondatori a livello regionale dopo una lunga militanza ai vertici della Margherita. Monari, che si è sfilato dalla carica di capogruppo, ma non da quella di consigliere regionale, sin dai primi momenti dell’inchiesta condotta dalla Finanza e poi sfociata nell’inchiesta della Procura sulla gestione dei rimborsi in Regione tra il giugno 2010 e il dicembre 2011, si è trovato in prima fila, esposto a tutti gli spifferi. A lui, stando a quanto emerso finora, vengono attribuiti rimborsi pari a 30 mila euro in 19 mesi per cene da 200 euro a testa in lussuosi locali di Bologna, e non solo. Tra i rimborsi chiesti dal capogruppo pd vi sarebbero anche alcuni pranzi per beneficenza. E, dato emerso negli ultimi due giorni, pure un soggiorno a Venezia: 2 notti in hotel per un totale di 1.100 euro (circostanza smentita perentoriamente dall’interessato, che non ha però chiarito chi avrebbe allora presentato il rimborso).
Monari, politico navigato, ha cercato fino all’ultimo di tenere duro, giurando di essere a posto «con la coscienza e con il diritto: non sono uno scialacquatore» e denunciando contro di lui «una gogna mediatica». Poi, incalzato dalla rabbia della base, che ha preso d’assalto a colpi di mail e fax la sede bolognese del Pd, ha cominciato a vacillare, prima dicendosi «pronto a un passo indietro», poi facendo slittare la decisione in un tempo indefinito («Prima voglio capire quali eventuali addebiti mi vengono contestati dai magistrati»).
Ieri sera invece, dopo che lo stesso sindaco di Bologna, Virginio Merola, lo aveva di fatto scaricato («Bisogna tener conto dello sdegno della base pd» le parole del primo cittadino), la resa: «In questa situazione — ha scritto Monari —, il rispetto che devo a me stesso, unito all’affetto per il Partito (la maiuscola è del capogruppo, ndr ) che ho contribuito a fondare, mi impone di lasciare immediatamente la guida del gruppo regionale». Un gesto, ha tenuto a sottolineare, che non intacca minimamente la sua linea difensiva: «Troppe dichiarazioni disinformate su indiscrezioni incontrollate mi convincono che il mio senso di responsabilità viene perfino interpretato come un tentativo di nascondere mie responsabilità personali che rivendico insussistenti».
Inchiesta in bilico tra indiscrezioni e sdegno popolare. I magistrati per ora non hanno notificato formalmente ai 9 capigruppo eventuali contestazioni sulla regolarità o meno dei rimborsi. Monari non è comunque solo in questa storia di spese «creative». Cene per circa 43 mila euro, con la carta di credito del gruppo, risultano rimborsate al capogruppo pdl Luigi Giuseppe Villani (arrestato nel 2013 a Parma per corruzione). E se si allarga il tiro a tutti i consiglieri regionali, si supera il mezzo milione di euro. Solo di cene.

«Letta blinda la Cancellieri “No alla sfiducia dei grillini” Ma il Pd: troppi buchi neri
E spunta l’ipotesi del rimpasto. Il Pdl: noi la difendiamo»
Repubblica 4.11.13
Pippo Civati attacca: “Con lo spauracchio della crisi si mette il silenziatore a qualunque diversità di opinione”
“Davvero tanti imbarazzi nel mio partito lei avrebbe dovuto rimettere il mandato”
intervista di Umberto Rosso


ROMA — «No, non mi è piaciuta l’autodifesa della Cancellieri. E nel mio partito, o sono troppo taciturni o troppo imbarazzati».
Eccesso di prudenza nel Pd, onorevole Civati?
«Ci sono quelli che se ne stanno zitti, per paura di interferire con il governo e metterlo nei guai. E quelli che, come Epifani o come il responsabile giustizia Leva, sollevano il caso ma senza trarne fino in fondo le conseguenze. Ma, se è grave, è grave. Bisogna prenderne atto. Senza traccheggiare, e con un’assunzione di responsabilità».
In che modo?
«Meglio avrebbe fatto il Guardasigilli a rimettere subito il suo incarico a disposizione del presidente del Consiglio. Poi, sarebbe stato Letta a decidere il da farsi. Come è avvenuto del resto con Josefa Idem, che abbiamo sacrificato sull’altare della legalità, giustamente».
Il governo difende la Cancellieri.
«Ci chiederà di salvarla, come è successo con Alfano. Ma io restomolto critico, con tanti dubbi sul comportamento del ministro, con troppe zone d’ombra e poco lineare. Prima e dopo: quando è intervenuta per la scarcerazione della Ligresti e adesso che la rivendica. Senza un briciolo, quanto meno, di umiltà e di ripensamento».
Voterà allora la mozione di sfiducia dei grillini?
«Materia incandescente, votare a favore di una richiesta che arriva dall’opposizione non è mai affare semplice. Mi pare quasi di sentirle già, le accuse: il solito Civati che spera di far cadere il governo sfruttando il caso Cancellieri».
Invece?
«Invece con lo spauracchio della crisi di governo si mette il silenziatore a qualunque diversità di opinione, diventa “sospetto” chiedere che un ministro coinvolto in una storia imbarazzante rassegni il mandato. Ma i nostri elettori la pensano in un altro modo».
Quale sarebbe?
«Io sono in corsa per la segreteria del partito, giro per l’Italia. Sento che la nostra gente è inferocita per la vicenda Cancellieri. Una storia che è lo specchio del solito rapporto privilegiato fra potenti, il paradigma del rapporto fra politica e società, e stavolta coinvolge un ministro di esecutivo targato anche Pd. Nel paese degli amici degli amici, del conflitto di interessi, della casta, la nostra base non giustifica i rapporti della Cancellieri con i Ligresti, personaggi al centro di inchieste giudiziarie, e il suo intervento in loro favore».
Dettato da ragioni umanitarie, ha spiegato il ministro.
«Per favore, basta con le ipocrisie. O lo fa per tutti o per nessuno. Siccome il numero di telefono del ministro è nell’agenda di pochi fortunati, e non certo delle centinaia di detenuti che soffrono in carcere, il bel gesto del Guardasigilli mi pare proprio mirato e amicale. Sarebbe stato imbarazzante pure in Svezia, figuriamoci in Italia. Con quelle frasi che saltano fuori nelle intercettazioni...».
A cosa si riferisce?
«Un ministro che parla di arresti disposti dalla magistratura come “la fine del mondo”, che si mette a disposizione dicendo “contate su di me”, non mi pare proprio faccia una bella figura».
Ce l’ha con la Cancellieri?
«Nessuna avversione personale da parte mia nei confronti del ministro, e nessun “secondo fine” per mettere in difficoltà il governo. Ma devo dire che mi ha deluso anche la sua autodifesa, il rivendicare con orgoglio quel che è successo e confermare che avrebbe tranquillamente rifatto tutto quanto. Un po’ di autocritica non farebbe male».

Repubblica 4.11.13
Se anche il carcere divide i ricchi dai poveri
di Chiara Saraceno


Forse a Giulia Ligresti non occorreva neppure l’interessamento della ministra della Giustizia Cancellieri perché il tribunale valutasse il suo stato di salute come troppo rischioso per la sua incolumità psico-fisica e quindi ne decidesse la scarcerazione. Bastava la sua condizione di persona ricca e privilegiata, non abituata quindi ai disagi. Secondo la perizia medica alla base della decisione del tribunale, infatti, proprio la sua condizione di persona abituata ai privilegi e agli agi l’ha resa particolarmente inadatta a sostenere l’esperienza carceraria. Secondo il perito, Giulia Ligresti soffriva “di un disturbo dell’adattamento, che è un evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima detenzione e in particolar modo per chi sia abituato a una vita particolarmente agiata, nella quale abbia avuto poche possibilità di formarsi in situazioni che possano, anche lontanamente, preparare alla condizione di restrizione della libertà e promiscuità correlate alla carcerazione».
Se ne deduce che invece chi non è abituato a una vita particolarmente agiata ha più facilità ad adattarsi alle condizioni di vita in carcere. Ne deriva, per seguire fino infondo la logica di questo ragionamento, che l’istituzione carceraria deve essere particolarmente attenta ai bisogni e alle difficoltà di chi arriva in carcere da una vita di privilegi. Una attenzione che invece non è necessaria nei confronti dei poveri cristi che ci arrivano da vite modeste. Le “difficoltà di adattamento” di questi ultimi, e più generalmente il loro malessere, devono essere molto più vistosi per avere una possibilità di essere presi in considerazione. E non sempre ciò basta, proprio perché mancano loro le conoscenze, il know how, per mobilitare perizie e richiamare l’attenzione. Se poi, oltre a non essere agiate, presentano anche qualche tipo di vulnerabilità sociale (piccoli precedenti, tossicodipendenza, segnalazione ai servizi sociali e simili), le loro condizioni di malessere rischiano di essere sistematicamente ignorate o sottovalutate — qualche volta fino alla morte, come è avvenuto per il povero Cucchi: prima picchiato da chi lo aveva arrestato, poi lasciato morire dai medici per carenza di assistenza medica e per mancanza di cibo e di liquidi.
La ministra Cancellieri afferma di essere intervenuta per motivi umanitari e di averlo fatto in un altro centinaio di casi rimasti sconosciuti e riguardanti sconosciuti. Sarà sicuramente vero. Ma proprio per questo preoccupante, soprattutto se messo insieme alle argomentazioni del perito del caso Ligresti. Segnala che, nel girone infernale delle carceri italiane, la possibilità che i detenuti continuino a essere considerati esseri umani con diritto alla dignità e integrità personale e alla cura è affidato — come nell’ancien régime — alla discrezionalità di chi ha il potere di accogliere una supplica o ai privilegi riconosciuti alla ricchezza e allo status sociale — incluso il privilegio di vedersi riconosciuto un plus di vulnerabilità e sofferenza. Quanti altri detenuti si trovano in condizioni di “disadattamento grave” alle condizioni carcerarie, ma non hanno modo di attirare l’attenzione della ministra, o non viene loro neppure in mente di poterlo fare, e non sono abbastanza agiati da sollecitare la comprensione di un perito? Se non affronta l’ineguale diritto all’umanità dei detenuti nelle carceri italiane, il diritto alla propria umanità rivendicato dalla ministra non è altro che la rivendicazione del diritto alla discrezionalità benevola in assenza di diritti e garanzie per tutti.

Corriere 4.11.13
Tra i dem la (vera) prova è sul sostegno al governo
di Alessandro Trocino


ROMA — «Nessuno strumentalizzi, neanche dentro il Pd». La frase di Danilo Leva, responsabile giustizia dei Democratici, esplicita quello che già si intuiva, e cioè che nel caso Cancellieri ha fatto irruzione la campagna congressuale. Se la linea ufficiale è quella di non condannare né assolvere, in attesa delle spiegazioni di domani alle Camere, monta sempre di più un’ala intransigente, nell’area di riferimento di Matteo Renzi (ma non solo), che chiede le dimissioni del ministro. Richiesta che all’ala che sostiene con più convinzione il governo delle larghe intese non sembra esente dal retropensiero di un indebolimento dell’esecutivo. Domani Guglielmo Epifani riunisce la segreteria, e si parlerà anche di questo, oltre che della questione tessere.
Significativo l’intervento di Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi: «È una vicenda molto seria ma non sono per il ‘fuori subito’, come sostengono altri. Non vorrei che si utilizzasse questo episodio per colpire il governo. Sarebbe scorretto». Paola De Micheli, il caos congressuale lo chiama «entropia»: «Un tasso di confusione crescente, che non aiuta. Ma io sono convinta della buona fede del ministro e se martedì confermerà le cose dette da Caselli, il caso sarà chiuso».
Può darsi. Ma le richieste di dimissioni sono già arrivate da esponenti di aree diverse: Pina Picierno, Ernesto Carbone, Pippo Civati, Felice Casson. Tra i renziani i toni si alzano. Antonio Funiciello, responsabile comunicazione e cultura del Pd, non fa sconti: «Vogliamo sapere da lei quando è intervenuta, per quali altri casi e in base a quali criteri. Ci deve dare spiegazioni convincenti». Certi paralleli non lo convincono: «Come si fa a paragonare una signora che ha commesso un gravissimo reato con un economista ucciso dalle Br, come Marco Biagi?».
Michele Anzaldi spiega che bisogna tenere conto anche della base, indignata: «Mi pare che la Cancellieri sia abbastanza indifendibile. Al Pdl forse la cosa non scandalizza, ma noi abbiamo un codice deontologico preciso. La Idem, per esempio, avrebbe potuto anche non dimettersi, ma invece ha fatto un passo indietro. Qui stiamo parlando di un ministero pesante, la Giustizia, e stiamo parlando di una famiglia che ha commesso una frode grave, che lascia il segno e che ha fatto sparire un’assicurazione, creando pesanti ripercussioni economiche. Certi paragoni che ho sentito non esistono: la Ligresti non è una vittima».
Naturalmente, lo schematismo delle correnti non funziona sempre. E così Dario Nardella, che pure è renziano, sostiene che il ministro ha già dato sufficienti spiegazioni e la difende. E Sandro Gozi, che da Marino si è avvicinato da tempo al sindaco di Firenze, è molto più morbido: «La Cancellieri ha tenuto un comportamento molto imprudente, ma non mi risulta che abbia fatto pressioni dirette su chi era deputato a decidere. La sua è un’imprudenza che non deve costare le dimissioni. Mi piacerebbe, invece, che questa indignazione generale accelerasse la riforma sulla custodia cautelare».

l’Unità 4.11.13
Noi e la Prima Repubblica: una storia capovolta
di Carlo Galli


Come si fa a non concordare con Galli della Loggia quando sostiene che non c’è politica se il partito su cui si regge il sistema italiano il Pd, dato che la destra pur socialmente fortissima è politicamente quasi inesistente non è capace di affrontare apertamente la complessità della storia repubblicana? Se, in altre parole, non si fa carico del compito di ripensare l’Italia, per rifarla?
C’è in questa tesi molto di buono: e in primo luogo c’è la percezione che la politica non è quell’attività ridicola, parassitaria, effimera, a cui oggi si è ridotta quando non è pura gestione tecnica -; che la politica non è ricerca di slogan, ma analisi della costituzione materiale di un Paese, individuazione delle dinamiche del presente, e delineazione di un realistico orizzonte di sviluppo. E che a questo scopo il partito è indispensabile (altro che partito leggero!), come sistema d’interpretazione accorta e partecipata come forza responsabile e ricca di sapere pratico, e anche di potere legittimo della storia, del presente e del futuro.
Certo, non si può essere d’accordo con Galli della Loggia quando riduce questo sapere pratico ad un atto d’ammenda che il Partito democratico in quanto erede della sinistra dovrebbe fare per le colpe passate della Prima repubblica, delle cui «scelte sbagliate» è corresponsabile. Ora, sulla responsabilità soggettiva c’è da avanzare una prima obiezione: il Pd non è l’erede del Pci (la sua componente cattolica è troppo forte per essere trascurata), e in ogni caso il Pci non ha mai avuto responsabilità dirette di governo, dopo il 1947 (altra cosa sono le responsabilità amministrative). Ciò non toglie, naturalmente, che la sinistra abbia esercitato una grande influenza sulla storia d’Italia, che ne sia parte e quindi anche (parzialmente) responsabile; ma certo maggior peso ebbe quella Dc di cui solo un settore, la sinistra, è confluita nel Pd, mentre il grosso delle sue file è divenuta la base (e anche il personale politico) di una destra che oggi è allo sbando ma che ha sulle spalle sia il ventennio berlusconiano sia larga parte delle disfunzioni della Prima repubblica.
Sulla stessa linea, va anche osservato che, per quanto si possa essere d’accordo sull’insufficienza dell’antiberlusconismo a sostenere e a legittimare una politica, non si possono tuttavia chiudere gli occhi davanti alle degenerazioni e alle patologie di cui Berlusconi è stato veicolo e promotore: insomma, il mea culpa non può riguardare solo la Prima repubblica, ma anche la seconda; non solo la sinistra ma anche la destra. Ma anche dal punto di vista oggettivo Galli della Loggia avanza tesi non del tutto condivisibili. Infatti, se il nostro passato democratico non è da lui identificato (giustamente) col crimine di Tangentopoli, lo è tuttavia (ingiustamente) con il clientelismo, il parassitismo, l’evasione fiscale di massa, il consociativismo, il debito pubblico. Ora, tutto ciò è la degenerazione della Prima repubblica, dalla morte di Moro (o forse anche da qualche anno prima) in poi; ed è vero che da quella degenerazione non ci siamo mai veramente ripresi, e che con essa non facciamo i conti se non nella sbrigativa vulgata neoliberista e neomonetarista che iscrive tutta la nostra storia passata nella rubrica dei peccati contro le sacrosante leggi dell’economia; ma anche in questo caso un’analisi non sommaria non può trascurare che il cuore della Prima repubblica, il suo significato storico, è stato avere promosso in Italia la prima democrazia civile e sociale della sua storia, fondata sull’antifascismo, sul ruolo dei partiti e dei sindacati, sulle libere istituzioni, e sul benessere diffuso grazie allo sviluppo dell’economia e all’espansione dello Stato sociale. La vera presa di coscienza collettiva necessaria alla rinascita del Paese una memoria affidata in primis, ma non esclusivamente, al Partito democratico non può dimenticare questo aspetto della storia d’Italia, e non può fare i conti soltanto con le sue degenerazioni. Né si può buttare l’acqua sporca della profonda corruzione della vita civile, che effettivamente ci tormenta, insieme al bambino della democrazia sociale, come ricordo di quanto abbiamo fatto e come orizzonte di quanto c’è ancora da fare. Senza la percezione della complessità non si fa né storia né politica, ma ideologia. E non vi è dubbio che di questa, nonostante le apparenze, ve ne sia oggi fin troppa: e tutta antipolitica, anti-istituzionale, anti-repubblicana. È proprio contro questa ideologia che devono combattere quanti giustamente sostengono che senza coscienza storica non c’è né politica né futuro.

Repubblica 4.11.13
Dal catto-comunismo all’odierno dialogo
di Mario Pirani


Con l’incontro epistolare fra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari una nuova stagione di riflessione ideologica reciproca si è aperta tra l’intellighentia laica e quella cattolica. È un evento di non poco momento che richiama vicende trascorse, destinate, foss’anche nella forma, ad un destino irripetibile. E in un certo senso lo sono, anche se i più anziani fra noi ricordano quell’intreccio di idee, di controversie, di passioni, messe continuamente alla prova, che dalla fine degli anni Cinquanta al Concilio Vaticano II tracciarono il profilo di quel rapporto fra cattolici e comunisti, unico in Europa, quasi intangibile da bordate devastanti, come la scomunica di Pio XII, l’ira di Cl, lo scontro politicamente predominante tra De Gasperi e Togliatti. Eppure quel rapporto da ogni cenere risorse, fino a quando non le maledizioni vaticane, ma il disgregarsi per ragioni endogene di quelle due “ecclesie” non ne dissolse l’empito dirompente. Si pensò allora che una Storia fosse esaurita e nuovi cammini si andassero approntando, in luogo di quel tracciato catto-comunista su cui per decenni quegli eserciti di popolo erano adusi a ricomporsi.
Oggi il parlare assieme e la sorprendente dimestichezza di un codice comune di comunicazione assume il carattere di una riscoperta e non parlo solo di epifanie giornalistiche, officiate da Francesco o dal fondatore diRepubblica ma da svariate iniziative che germogliano ovunque. Mentre a Milano studiosi di fede diversa intrecciano un dibattito su “Un’ economia a misura d’uomo”, a Roma l’Aspen, una fondazione internazionale radicata nel mondo anglo-sassone, riunisce a palazzo Lancillotti nella sua sede italiana un seminario presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi, con la partecipazione di uomini di impresa e studiosi laici di vario orientamento, da Giulio Tremonti a Luigi Bruni per affrontare il tema “Gratuità ed economia di mercato” sulla base di vari testi tra cui spiccavano recenti brani di Papa Francesco e di Benedetto XVI, del professor Stiglitz e del cardinale Turkson (“Per un’economia basata sulla logica del dono”), ecc.
L’originalità in confronto al passato sta nel fatto che un tempo i seguaci delle diverse dottrine avrebbero affrontato il dibattito ognuno nel proprio orto (ad esempio “Il pensiero sociale cattolico”), mentre giudizi e confronti si sarebbero incrociati all’esterno gli uni dagli altri. Ora, invece, l’elaborazione di un pensiero non solo economico profondamente rivisitato avviene all’interno di un unico crogiolo di passione e ricerca. Come rammenta Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, rifacendosi a un intervento del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni «dopo secoli di predicazione cristiana contro la “superstizione giudaica” e la vanità dell’attesa messianica, oggi la fedeltà ebraica diventa un modello per i cristiani e per l’umanità e questa è una svolta non improvvisa ma molto significativa, di cui anche gli ebrei dovranno prendere coscienza». Gli risponde il vescovo di Chieti: «L’altro non è minaccia ma ricchezza, non pericolo, ma possibile modello e dono. Gesù, ebreo di nascita e per sempre, non potrà non esser contento di questa parola di verità e di amore del Successore di Pietro. Gli odi fomentati dall’ideologia moderna, sono tragiche memorie del passato». È venuto ormai il tempo – scrive Francesco – e il Vaticano II ne ha inaugurato la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro con l’altro, con ogni altro».

Repubblica 4.11.13
Grillo sul blog attacca Scalfari: “Teme la nostra vittoria”


ROMA — «È iniziata l’invasione degli Ultrascalfari. La paura delle elezioni europee fa novanta e ogni colpo contro il M5S è lecito, meglio se sotto la cintura. Scalfari fa da apripista, da pennivendolo da sfondamento che con quell’età e quella barba può scrivere quello che vuole». Beppe Grillo attacca sul suo blog il fondatore di Repubblica che nel consueto editoriale domenicale, titolato “Se vince Grillo il paese va a rotoli”, ha criticato la campagna «di destra xenofoba e qualunquista» che i grillini stanno cavalcando in vista delle elezioni europee. «Si tratta di una campagna di destra, una destra xenofoba contro gli immigrati, qualunquista contro i partiti (tutti i partiti, nessuno escluso) e contro le istituzioni, dal capo dello Stato al presidente del Consiglio ai ministri (tutti ministri) e contro la magistratura e la Corte costituzionale», ha scritto Scalfari.

l’Unità 4.11.13
Il doppio no di Bersani al Cavaliere che chiuse la grande trattativa
In «Giorni bugiardi», da mercoledì in libreria, i collaboratori dell’ex segretario Pd raccontano la partita a scacchi col Pdl sulla formazione del governo e sul Quirinale
di Stefano Di Traglia e Chiara Geloni


La verità è che nemmeno nell’incontro col Pdl Bersani riscontra opposizioni rispetto alla legittimità del suo tentativo di formare un governo. Anzi, il centrodestra ritiene che spetti a lui e a nessun altro insediarsi a Palazzo Chigi. Non ci sono obiezioni, interpretazioni del risultato elettorale che giustifichino pareri diversi; ci sono solo due condizioni. Dice Bersani: «Berlusconi aveva chiaro molto più di tanti osservatori quale era stato il risultato elettorale. Sapeva benissimo quello su cui i numeri non lasciavano alcun dubbio, cioè di essere arrivato terzo. Sapeva che, al di là della propaganda, la famosa “rimonta” è stata nient’altro che un effetto ottico: un rimbalzo che ha avvicinato Pd e Pdl ma che è dovuto al fatto che il Movimento 5 Stelle ha tolto voti al Pd. Gli uomini del Pdl avevano capito molto bene di aver perso le elezioni, anche se certo non gli è dispiaciuto che tanti dei nostri enfatizzassero l’idea che le avevamo perse noi. Questo infatti ha rafforzato la loro vera battaglia, che nelle condizioni date aveva due obiettivi: ottenere la presidenza della Repubblica, o in subordine ottenere un governo di larghe intese. Noi purtroppo, con le nostre scelte successive, gli abbiamo consentito di portare a casa il secondo obiettivo e di lasciare per così dire in sospeso il primo».
«Noi», cioè il Pd. Ma non Bersani, che da premier incaricato aveva risposto no su entrambi i fronti. Naturalmente Berlusconi, noblesse oblige, alle consultazioni manda Alfano. (...) Bersani fa il solito cappello introduttivo, dichiara la sua intenzione, considerato il risultato elettorale, di cercare tra le forze politiche «il più alto grado di corresponsabilità che possa risultare credibile agli occhi del Paese». Significa, spiega, che un governo che veda insieme Pd e Pdl non sarebbe, a suo giudizio, una giusta interpretazione delle scelte degli elettori e apparirebbe una soluzione «politicista» e inadeguata alla richiesta di cambiamento. Al centrodestra Bersani propone dunque un «doppio binario»: da una parte, una comune assunzione di responsabilità e un reciproco riconoscimento tra tutte le forze politiche per dar vita a una convenzione costituzionale che consegni alle Camere, in tempi certi, un progetto di riforma istituzionale ed eventualmente della legge elettorale. Dall’altra, un governo che si occupi delle emergenze sociali, della moralizzazione della vita pubblica e della riforma della politica, «aperto alla partecipazione di figure indipendenti» rispetto al quale le forze politiche si assumano la responsabilità, a seconda di quanto ritengono, o di farlo nascere o di non impedirne la formazione. Bersani fa capire che la guida della Convenzione in questo caso potrebbe spettare a un esponente del centrodestra; e che nella scelta dei ministri lui terrebbe conto di tutte le sensibilità presenti in Parlamento.
Alfano dà atto al Pd e al suo segretario della coerenza della proposta, ma ritiene difficile da giustificare di fronte al suo elettorato un via libera al governo guidato da Bersani. Diverso sarebbe, ecco il punto, se Bersani fosse disponibile a governare insieme al centrodestra: in quel caso il sostegno al leader elettorale del centrosinistra non incontrerebbe alcun ostacolo. O in alternativa, le cose potrebbero cambiare se Bersani fosse disposto a condividere fin da subito un accordo sul nome del prossimo presidente della Repubblica: scelto nel campo del centrodestra, s’intende. Nomi nel colloquio ufficiale non ne vengono pronunciati, ma Bersani sa bene che quello che ha in mente Berlusconi è uno solo, ed è quello di Gianni Letta.
(...) Bersani ribatte che il governo di larghe intese favorirebbe il dilagare del consenso alle proposte più populiste. Inoltre, afferma che uno scambio Pd-Pdl tra presidenza del Consiglio e presidenza della Repubblica sarebbe semplicemente «non presentabile» all’opinione pubblica. Diverso è dire che le istituzioni appartengono a tutti e che è quindi necessario condividere la scelta dei vertici. (...)
Alle 19.49 sulle agenzie esce una dichiarazione di Alfano. È l’ultimo appello: «Bersani si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato. Sta a lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e può». Alle 20.12, l’Ansa batte una notizia di tre righe, una dichiarazione anonima che facciamo filtrare come “fonti del Nazareno”: «Se il Pdl vuole una trattativa sul Quirinale, noi non ci stiamo».
La mattina dopo nella Sala del cavaliere sono attese le delegazioni dei partiti della coalizione Italia bene comune. Siamo tra amici, il tentativo di formare il governo è sostanzialmente già saltato, si parla ormai di quello che succederà dopo. Bruno Tabacci e Giovanni Maria Flick, nell’incontro con il Centro democratico, fanno questa analisi: nessun governo può nascere in questa situazione parlamentare, finché non ci sarà un presidente della Repubblica con i pieni poteri, in particolare quello di scioglimento. Lasciano intendere che sarebbero opportune le dimissioni anticipate di Napolitano in modo che sia il suo successore a concludere la vicenda. Non sembra essere una critica al presidente in carica, che anzi tutti si dicono pronti a rieleggere, se solo volesse. Si parlerà a lungo di questo scenario nei giorni successivi, ma poi Napolitano deciderà diversamente: niente dimissioni anticipate, saranno nominati i “saggi” e l’incarico di Bersani resterà questione nelle mani del suo successore. Infine arrivano Roberto Speranza e Luigi Zanda. Il giovanissimo capogruppo alla Camera, alla fine del colloquio, quando è già in piedi per uscire, prende da parte il segretario e gli dice, a voce bassissima: «Fallo tu Pier Luigi il governo di larghe intese. Sarà più facile da gestire con la nostra gente. E poi sono in tanti, anche i più vicini a noi, che mi chiamano per dirmi di chiedertelo...». Il presidente incaricato gli mette un braccio sulla spalla. E gli dice che pensa ancora che il governissimo si possa evitare. E comunque la sua risposta a questa richiesta è ancora una volta quella di sempre: «No».

il Fatto 4.11.13
D’Alema, Renzi e il delitto (politico) di Bersani
Un libro ricostruisce gli ultimi giorni da leader dei democrat. E fa i nomi dei “mandanti”
di Wanda Marra


Come insegnano i grandi giallisti, per individuare l’assassino bisogna innanzitutto capire chi ha il movente”. Semplificando, l’assassinio (politico) è quello di Pier Luigi Bersani, i giallisti sono due fedelissimi dell’ex segretario del Pd, Stefano Di Traglia, ex portavoce e spin doctor, e Chiara Geloni, direttrice di You Dem e gli indiziati principali, oltre a un partito infido e assente, soprattutto due: Matteo Renzi e Massimo D’Alema. Giorni Bugiardi in libreria da dopodomani, è un resoconto dichiaratamente parziale che va dalle primarie 2012, alle elezioni, alla partita del Quirinale.
IL FILO ROSSO del racconto rimane uno: le gesta di Bersani sono state dettate sostanzialmente da lungimiranza e generosità politica, chi non è stato al-l’altezza delle aspettative è il Pd. Geloni e Di Traglia ricostruiscono comportamenti ambigui, disseminano indizi. Riflette Bersani: “È l’unanimità che carica la molla del tradimento. Si accumulano ammaccature e ombre, e alla prima occasione… Io ho avuto l’unanimità quasi sempre, pur non chiedendola mai: non so bene perché”. E allora, a proposito di unanimità, ecco la mattina del Capranica e l’ovazione con cui si arrivò alla candidatura di Prodi al Colle (mentre nelle intenzioni del segretario si sarebbe dovuta svolgere una conta tra lui e D’Alema), momento clou di una serie di eventi, che vanno dalla sera in cui venne proposto Marini a quella in cui si dimise Bersani. L’opposizione dell’ex Rottamatore alla candidatura di Marini viene così chiosata: “A tanto zelo antimariniano non corrisponde però un’analoga indignazione verso la possibilità che il nome su cui si finisca per convergere sia invece quella di un altro bersaglio storico della rottamazione…. Massimo D’Alema… Ma da tempo tra il sindaco e l’ex premier qualcosa sta cambiando”. Ecco riportate le considerazioni di Luigi Zanda poco prima che inizi la riunione al Capranica: “Ma se parte l’applauso quando tu dici…’. Bersani è irremovibile: ‘Si vota lo stesso’. ‘I renziani ci mandano emissari a dire che loro vogliono acclamare…’, insiste timidamente Zanda. Bersani scrolla le spalle”. Le primarie non si fanno perché i grandi elettori acclamano Prodi, con il renziano Marcucci “che si distingue per foga”. E D’Alema? Raccontano gli autori che il suo nome non venne mai fatto, nelle trattative con il Pdl, ma anche che lui era convinto che avrebbe avuto la maggioranza tra i grandi elettori. Altro passaggio chiave: “Perché i dalemiani non chiedono il voto segreto nell’assemblea che acclama Prodi? Perché alzano la mano a favore di Prodi quando Bersani chiede che ci sia almeno un voto palese Il motivo è forse lo stesso per il quale noi non sappiamo a chi fare queste domande: in tutta questa vicenda nessuno s’intesta la battaglia di D’Alema al Quirinale”. Il libro è un atto di accusa continuo: verso Sel, che si sfila appena può, verso Beppe Grillo, che si racconta inseguito nella fase del governo del cambiamento in tutti i modi possibili, incluso suo dentista come intermediario (“In Liguria si cercano contatti a tutto campo… anche Renzo Piano è della partita”), verso il Pd, verso i media, accusati di non capire e di non sostenere (Repubblica “il 27 febbraio mette letteralmente alla porta Bersani”). Non mancano ricostruzioni inedite. Come le lettere segrete in cui Napolitano avrebbe ribadito di non avere alcuna intenzione di accettare un reincarico. L’artefice della rielezione di Re Giorgio (dipinto non come un amico, ma neanche come un nemico) nel libro è ancora Bersani: “Io stasera mi dimetto e domattina vado da Napolitano a chiedergli di restare”, dice l’ex segretario un minuto prima di andarsene. Nessun veleno all’indirizzo di Enrico Letta.
SOLO UN ANEDDOTO in cui si sottolinea la sua vicinanza calcistica a Berlusconi: “Il Cavaliere durante le trattative per il Colle rivela a Bersani e Letta di essere sul punto di sostituire Seedorf….’ mi sembrò che Enrico fosse preoccupato’, rise Bersani”. Su tutte l’interpretazione di Migliavacca sui 101: “C’era chi voleva chiudere l’esperienza Bersani e c’era chi riteneva irrealistico il governo di cambiamento e voleva il governissimo”. In questo racconto di parte l’autocritica è al minimo, il rimpianto al massimo. Come in quell’immagine, rimasta nel mondo dei sogni: “Pochi giorni dopo questi fatti, il 12 maggio, si svolge a Piacenza il Raduno nazionale degli alpini: immaginiamo il palco d’onore col presidente della Repubblica, Franco Marini, la piuma sul cappello degli alpini di Barisciano e la pipa spenta, e accanto a lui il nuovo presidente del Consiglio, alla prima uscita pubblica, proprio nella sua città… Scherzi della fantasia, cose da non pensare”.

La Stampa 4.11.13
“Nei 101 contro Prodi c’erano anche i renziani”
In un libro dei due collaboratori di Bersani i retroscena su Colle e formazione
del governo. “Napolitano spiegò che la sua rielezione era una non soluzione”
di Fabio Martini

qui

Corriere 4.11.13
Bersani, trappole e congiura «Per parlare con Grillo chiese aiuto a un dentista»
I «fedelissimi» raccontano la caduta del leader
di Aldo Cazzullo


C’è Enrico Letta che, nel giorno della rielezione di Napolitano, confida ai presenti nella stanza di Bersani: «Sono stato a Pisa dai miei la scorsa settimana, mia madre mi ha detto: “Fate di tutto ma il governo con Berlusconi no…”». C’è Massimo D’Alema che non entra nella partita per il Quirinale — «nessuno lo propone mai, nessuno pronuncia il suo nome» — ma è sospettato («anche se non abbiamo prove») di essersi accordato con Matteo Renzi per «togliere di mezzo Bersani», anche affossando Prodi: «È convinzione comune di chi conosce la composizione dei gruppi parlamentari che in nessun modo sia possibile raggiungere la cifra di 101 o più grandi elettori dissenzienti, senza includere nel conteggio i 41 renziani che alla prima votazione avevano rifiutato di votare Marini e avevano scelto (dichiarandolo pubblicamente) Sergio Chiamparino».
Soprattutto, ci sono la fedeltà e l’ammirazione verso Pier Luigi Bersani al centro di «Giorni bugiardi» (Editori Riuniti), il libro che Stefano Di Traglia, portavoce dell’ex segretario Pd, e Chiara Geloni, direttore di Youdem Tv, mandano dopodomani in libreria. Una lealtà che induce talora a qualche forzatura (chi scrive è convinto che la gran parte dei renziani abbia votato Prodi). Ma non c’è dubbio, a leggere le bozze, che il libro sia destinato a far discutere, oltre ad arricchire di notizie e dettagli inediti i mesi decisivi tra le primarie dell’autunno 2012 e la nascita del governo Letta.
«Arriverai terzo» manda dire D’Alema a Bersani. Anche Letta, Franceschini, Bindi, Finocchiaro cercano di dissuaderlo dalla scelta di indire le primarie per la candidatura a Palazzo Chigi, con un’argomentazione che lo stesso Bersani riassume così nel libro: «Il partito non è tuo, non puoi esporlo a un tale rischio, ci porti al disastro». La Bindi in particolare insiste: «La verità è che tu non hai voglia di andarci, a Palazzo Chigi». «Oggi — conclude l’ex segretario — rifletto anche sul fatto che è l’unanimità che carica la molla del tradimento».
Dopo la vittoria dimezzata alle elezioni, Bersani ottiene l’incarico di formare il governo e avvia le consultazioni. Tenta invano di incontrare anche Grillo, gli fa sapere di essere disposto a raggiungerlo a Genova; nella mediazione vengono coinvolti pure Renzo Piano e il dentista dell’ex comico. Alfano propone un accordo — Quirinale al Pdl e Palazzo Chigi a Bersani; in second’ordine, Bersani premier di un governo di larghe intese — ma riceve due no. Per definire la partita del Colle, Bersani vede pure Berlusconi (definito da Di Traglia e Geloni «bravissimo a fare politica»), che si abbandona a confidenze sui guai giudiziari, sul fidanzamento «con relativa suocera» e sul Milan, annunciando di voler cacciare Allegri per sostituirlo con Seedorf. I soli nomi con cui si ragiona sono Amato, Mattarella e Marini; alla fine il Pdl indica il terzo.
Le drammatiche notti in cui naufragano prima la candidatura di Marini poi quella di Prodi sono raccontate nei dettagli. Napolitano scrive una serie di lettere riservate in cui spiega i motivi per cui rifiuta di essere rieletto, e cambierà idea solo dopo le sollecitazioni ricevute dai presidenti di Regione (compresi i leghisti Maroni e Zaia), «forse» da Mario Draghi e «forse anche» dalla Casa Bianca. D’Alema preme su Bersani perché i grandi elettori del centrosinistra decidano in una sorta di primarie la candidatura comune, Bersani gli risponde: va bene, «ma io dico per chi voto», cioè per Prodi. Allora, si chiedono gli autori, «perché i dalemiani non chiedono il voto segreto nell’assemblea che acclama Prodi? Perché alzano la mano a favore di Prodi quando Bersani chiede che ci sia almeno un voto palese?». Ancora una volta l’unanimità si rivela una trappola per il segretario.
Bersani è raccontato come un uomo lasciato solo dai suoi nel contrastare l’onda dell’antipolitica, dando segnali di coraggio che distinguano il Pd dagli altri partiti. C’è anche qualche metafora inedita e di non immediata comprensione — «quelli che hanno le volpi sotto l’ascella», «le smerluzzate che si prendeva Stefano Fassina» —, e una citazione che Bersani, scrivono con affettuosa ironia gli autori, «giura essere di Richelieu»: «Ho rincorso il mio obiettivo di spalle, come fanno i vogatori». E ci sono pagine malinconiche che raccontano quel che poteva essere e non è stato: il ritrovamento negli scatoloni dei traslochi di «200 schede dettagliatissime» sui provvedimenti che avrebbe preso il governo di cambiamento, dalle unioni gay allo ius soli al divorzio breve; e il «sogno» degli autori di vedere alla festa degli alpini, convocata proprio a Piacenza all’indomani delle votazioni per il Quirinale, il presidente Marini con il cappello piumato accanto al suo neopremier Bersani.

Corriere 4.11.13
Diritto d’asilo, uno sportello in Africa
di Luigi Manconi

Presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato

Caro direttore, la strage di Lampedusa del 3 ottobre impedirà forse di chiudere ancora gli occhi davanti a un dato di realtà che non può più essere rimosso. Nel corso di un quarto di secolo, ogni giorno in quel mare sono morti mediamente 6-7 fuggiaschi che cercavano di raggiungere il continente europeo. Quel tratto di mare è ormai un cimitero, una tomba liquida e una trappola mortale. Dunque, è proprio lì che bisogna guardare per evitare che quella macabra contabilità di morti si perpetui. Qualche giorno fa, insieme al Sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini ho presentato al Capo dello Stato un piano per la «ammissione umanitaria». Il progetto è semplicissimo, anche se di ardua realizzabilità, e si fonda su un dispositivo elementare: se il principale attentato all’incolumità è rappresentato da quei viaggi illegali nel Mediterraneo, va fatto in modo che quel tragitto possa realizzarsi in condizioni di sicurezza. Dunque, va anticipato geograficamente il momento e il luogo in cui è possibile chiedere all’Italia e ai Paesi europei una misura di protezione temporanea. Deve essere possibile, cioè, formulare quella richiesta e indirizzarla all’Unione Europea già nei Paesi di partenza o in quelli di transito. Si tratta, in sostanza, di ricorrere a un piano di reinsediamento, come già si fa per i profughi siriani, e al riconoscimento di una forma di protezione, a partire da un territorio precedente la traversata del Mediterraneo. Quest’ultimo progetto è previsto (direttiva Ue 2001) in presenza di un «afflusso massiccio di sfollati», ovvero di persone che hanno dovuto abbandonare la propria terra a causa di una persistente situazione di guerra o di violazione dei diritti umani.
Una volta riconosciuta la sussistenza delle condizioni per la protezione temporanea, l’Unione Europea definirà le quote di accoglienza per ciascuno Stato membro.
La procedura per il riconoscimento di quella protezione deve avvenire — questo è il punto fondamentale — direttamente nei Paesi rivieraschi della sponda sud del Mediterraneo e deve attuarsi attraverso il Servizio europeo per l’azione esterna e la rete delle ambasciate e dei consolati degli Stati membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali. Questo comporta la realizzazione di presidi dell’Ue, così che in quei Paesi — Egitto, Giordania, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco e, se ve ne sono le condizioni, Libia — si possa avviare la procedura di concessione della protezione temporanea. A questo punto, l’arrivo in Europa per quei profughi potrebbe avvenire con mezzi legali e sicuri, direttamente dal presidio internazionale al Paese di destinazione, individuato tenendo conto del regolamento Dublino III che considera l’eventuale presenza di familiari.
Ovviamente, la misura di protezione temporanea non precluderebbe la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato nei singoli Paesi. Tutto ciò ricorrendo al Fondo europeo per i Rifugiati e a quello per la Protezione civile.
Conosco bene l’obiezione: questo piano potrebbe funzionare se l’Europa lo condividesse. Appunto. Ma non c’è alternativa: o l’Unione Europea prende in considerazione un simile progetto o qualcosa che gli assomigli, oppure l’intera responsabilità di quel flusso di profughi ricadrà ancora sull’Italia. Dunque, questa è l’occasione e questo è il piano (o uno con le stesse finalità) in grado di verificare quanto l’Unione Europea sia davvero propensa ad accettare la «condivisione» alla quale l’Italia la sollecita e alla quale dice di essere disponibile. Se uno spiraglio si aprisse, è proprio lì, in quei Paesi dell’Africa, prima che inizi quella traversata maledetta, che una politica europea di accoglienza può fare le sue prove. Non avremo eliminato il traffico di esseri umani, ma certamente avremo ridotto le dimensioni di quella ecatombe marina.

Repubblica 4.11.13
Il Paese che perde i suoi giovani
di Ilvo Diamanti


LA FUGA dei cervelli. È la formula usata per evocare la migrazione di tanti giovani italiani, ad alto profilo professionale e scientifico, verso altri Paesi. Non solo europei. Dove trovano occupazione e riconoscimento. Fuga dei cervelli. È un’espressione che non mi piace. Perché i cervelli, nei Paesi liberi, sono liberi. E oggi possono sconfinare ovunque, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione. L’unica gabbia che possa imprigionarli è il loro corpo.
Se i “cervelli” se ne vanno dall’Italia è perché fuggono dal loro “corpo”. Troppo vecchio per permettere loro di esprimersi. O almeno: di “operare”. Di utilizzare la loro opera. L’Italia è un Paese vecchio (dati Istat, 2012). Il più vecchio d’Europa. Dopo la Germania, che, però, può permettersi di invecchiare perché attira i giovani migliori dagli altri Paesi. Compreso il nostro. Il problema è che noi non ci accorgiamo di invecchiare. Perché siamo sempre più vecchi. Così ci immaginiamo giovani, sempre più a lungo. Fino a 40 anni. E rifiutiamo di invecchiare. Secondo gli italiani — come ho già scritto altre volte — per dirsi vecchi occorre aver superato 84 anni (indagini Demos). Considerata la durata media della vita, dunque, in Italia si accetta di essere vecchi solo dopo la morte. I giovani, in Italia, sono sempre di meno. Come i figli. Il tasso di fecondità per donna è 1,4. Fra i più bassi al mondo. Se il nostro declino demografico si è interrotto, da qualche anno, è per il contributo fornito dagli immigrati. Che, tuttavia, non hanno modificato la nostra auto-percezione. Perché Noi continuiamo a invecchiare e a far pochi figli, mentre Loro sono giovani e fecondi. In altri termini, abbiamo riprodotto i confini al nostro interno nei confronti degli Altri. Gli immigrati, infatti, restano Stranieri, anche quando sono italiani, da più generazioni. Anche quando diventano ministri… Così invecchiamo senza accorgercene e senza accettarlo. Investiamo le nostre risorse nell’assistenza e nella sanità, com’è giusto. Molto meno nella scuola, nella formazione, nell’università (da qualche tempo ho cominciato a scriverla con l’iniziale minuscola). Cioè, nei giovani. Nei figli. Nel futuro. A loro — ai figli e ai giovani — ci pensano gli adulti. In fondo, quasi 8 italiani su 10 fra 18 e 38 anni (e quasi 3, fra 30 e 34 anni) risiedono con i genitori (Istat, 2011). Sottolineo: non “vivono” ma “risiedono”. Cioè: fanno riferimento a un’abitazione e a una famiglia, per affrontare una biografia sempre più precaria e intermittente. I dati, a questo proposito, sono espliciti e crudi. L’Italia è il Paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile in Europa. Oltre il 40% (fra 15 e 24 anni), in ulteriore crescita nel 2013. Nelle regioni del Mezzogiorno raggiunge quasi il 50%. Non solo, l’Italia è anche il Paese dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Circa 2 milioni: il dato peggiore, nei paesi dell’Ocse, dopo il Messico. I giovani: una generazione precaria e disoccupata. Sono pochi e non scendono più in piazza, come un tempo. Così, non hanno peso politico. I genitori, sempre più anziani, si incazzano, per questi figli senza futuro. Ma in fondo, anche se in modo inconsapevole, non ne sono del tutto dispiaciuti. Perché, senza di loro, i figli non potrebbero affrontare un percorso tanto precario. Ma se i figli (unici) si staccassero dalla famiglia troppo presto e in modo definitivo, loro — i genitori — resterebbero soli.
Così, i giovani, peraltro sempre più adulti (la sociologia delle generazioni ha coniato il neologismo (quasi un ossimoro) “giovani adulti” per definire coloro che hanno 30-35 e perfino 40 anni), emigrano. Se ne vanno altrove. Di certo, non debbono affrontare l’esodo drammatico dei disperati che partono dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, stipati nei barconi. Per fuggire dalla guerra e dalla povertà. I “nostri” giovani se ne vanno con il sostegno delle famiglie. Addestrati da periodi di studio all’estero (Master, Erasmus), trascorsi durante e dopo l’università. Cercano e spesso trovano occupazione. In alcuni casi, di livello elevato. Perché i “giovani cervelli”, in Italia, sono formati da un sistema scolastico e universitario che, nonostante gli sforzi per logorarlo, ancora resiste. E produce laureati e post-laureati di qualità. Apprezzati. Fuori dall’Italia. Così si spiega la crescita continua degli italiani che si trasferiscono all’estero. Quasi 80 mila, nel 2012, secondo le stime ufficiali (dati Aire elaborati da Radio 24). Di fatto, circa il doppio. Al loro interno, i giovani — più o meno adulti — sono in aumento e pesano per circa il 45%. Se ne vanno, prevalentemente, in Europa (Germania e Gran Bretagna, anzitutto), ma anche in America Latina e negli Usa. Non è una fuga, ma la ricerca di lavoro e di esperienza, in un mondo dove i confini sono sempre più aperti — per chi non proviene dai Paesi poveri. E i “cervelli” sono sempre ben accolti. Questo è il problema, per l’Italia. Non che i nostri “cervelli” se ne vadano. Ma che non ritornino. E poco si faccia per farli rientrare. O per attirarne altri, di eguale qualità. Perché noi importiamo lavoratori a bassa qualificazione. Ed esportiamo i nostri figli. Perdiamo i giovani e i cervelli. Perché siamo incapaci di offrire loro un destino coerente con le loro attese e le loro competenze. Così è comprensibile, perfino conseguente, che quasi tutti i giovani (8 su 10, dati Demos) siano convinti che, per fare carriera, occorra partire. Dall’Italia. Un Paese vecchio. Che maschera l’età e le rughe in modo artefatto — e un po’ patetico. E lascia partire i giovani, senza farli tornare. Illudendosi di fermare il tempo. Di non invecchiare. Mentre, così, nasconde soltanto il futuro.

Corriere 4.11.13
Senza affetti e solidarietà le radici del disagio giovanile
I ragazzi non trovano risposte in famiglia e si chiudono nella Rete
di Dacia Maraini


Il Premio Goliarda Sapienza è dedicato ai minorenni condannati a pene di detenzione. Un ennesimo premio, si dirà, a che serve? E invece — sembra incredibile — così come il cinema e il teatro praticato dai reclusi hanno funzionato portando una ventata di aria fresca nelle carceri, l’invito a scrivere racconti ha coagulato attorno al premio molte energie giovanili.
Messi di fronte alla scrittura, i ragazzi hanno cominciato a riflettere, a farsi domande che non si erano mai poste, a crearsi un piccolo mondo di immaginazione che precede di poco una idea di doveri e di diritti. Ecco l’importanza riconoscibile della lettura e della scrittura. La parola chiama pensieri, i pensieri chiamano affetti, memorie e un bisogno di logica. La logica chiama, vuole, esige un sistema, anche piccolo di valori. Da qui l’importanza di iniziative creative dentro i luoghi di detenzione e prigionia.
In occasione del premio si è svolto a Roma, per volere di una donna tenace e coraggiosa, Antonella Ferrera, un convegno nella sede del Burcardo, messo a disposizione dalla Siae. Tema: «Il disagio giovanile». Argomento amplissimo alla cui, anche minima, discussione quattro ore sono sembrate pochi minuti. Ma pure è stato importante cercare di sviscerarlo. E alcune novità sono venute fuori. Per esempio il cambiamento delle «motivazioni a delinquere» usando la terminologia legale.
«I reati dei minori», ha chiarito subito Caterina Chinnici, capodipartimento Giustizia minorile, «non derivano solo da disagio economico o sociale ma da un disagio di relazione». E a tutti è sembrato un punto focale. È infatti molto probabile che la differenza fra una visione dickensiana della illegalità giovanile e quella, diciamo camusiana, stia proprio nello spostamento delle ragioni che portano a prevaricare e malversare. Il delinquente ottocentesco affondava le sue radici nel degrado sociale, quello di oggi ha allungato le radici e ha trovato qualcosa di più profondo e inaspettato: l’inaffettività, coltivata da un immaginario comune che circola sempre più rapido e disperante, con il contributo della tecnologia. Uno strumento apparentemente democratico e alla portata di tutti, ma anche devastante per la sua incapacità di regolarsi.
«Spesso la psicanalisi ha favorito l’assoluzione personale, attribuendo la colpa all’esterno. C’è sempre qualcun altro, fuori di noi, che ci porta sulla mala strada: il padre, la madre, la società, il denaro, il potere , la politica». Detto da uno psicanalista, Raffaele Bracalenti, non è male. Quello che si sta perdendo, continua il presidente psicanalitico per le ricerche sociali, è il senso della responsabilità personale. Soprattutto quando si sommano le irresponsabilità creando il branco, la gang. «I ragazzi di via Paal, tanto per fare un esempio, si mettevano insieme per stornare le leggi della piccola società provinciale, ma fra di loro c’era un valore a cui credevano: la solidarietà». Nelle bande di oggi non c’è né amicizia né solidarietà, ma solo il potere di chi sta sopra su chi sta sotto e ubbidisce. I padri hanno perso la capacità di stabilire norme, ma non sanno nemmeno piu darle a se stessi. Insomma il rifiuto delle regole porta allo sfascio?
La risposta sembra proprio questa: troppe regole e stabilite in anticipo dall’alto, strangolano l’individuo; ma la mancanza di regole stabilite, anziché condurre trionfalmente alla libertà, trascina all’arbitrio e alla dittatura del più forte sul più debole. «Secondo Freud le masse sono per loro natura irresponsabili e tendono all’autodistruzione. Una guida non è solo auspicabile, ma necessaria».
C’è una colpevolezza della stampa in tutto questo? E qui vengono le dolenti note che riguardano la rappresentazione che noi stessi ci diamo. Lo specchio in cui ci riflettiamo risulta sempre più deformato e deformante. La stampa e la televisione, ma soprattutto la televisione, con il corollario dei fumetti, dei videogiochi, tende a eroicizzare i violenti. Le narrazioni sono sempre dalla parte del vincente, anche se apparentemente lo si condanna. Le storie dei delitti sono per lo più raccontate, con indulgenza spettacolare, dalla parte degli assassini. Le vittime vengono dimenticate facilmente. O vengono enfiate come voluminosi fantasmi enigmatici, incapaci di suscitare sentimenti di solidarietà.
Marco Polillo, presidente della Confindustria cultura Italia non è molto d’accordo. La televisione e i videogiochi sono intrattenimenti, non insegnamenti. È la famiglia che deve formare l’individuo. Purtroppo la famiglia è frammentata, disgregata. La rissa ha prevalso sul ragionamento. Abbiamo anche la presenza pubblica di cattivi maestri che non aiuta a crescere. I ragazzi, non trovando risposte in famiglia, tendono a chiudersi nel loro piccolo e grande mondo della rete. «Ormai tutto è social net-work. I genitori si sentono in colpa perché non sanno crescerli e finiscono per accontentarli in tutto. Oppure promettono grandi punizioni, che poi vengono smentite subito dopo». «Oggi gli esempi virtuosi che ci vengono presentati in tv sono i cuochi e i grandi sarti. Eppure la nostra cultura è il miglior biglietto da visita del mondo. Ma noi, volendoci male, chiudiamo, cancelliamo, distruggiamo le nostre piu grandi ricchezze». E ricorda che nel nostro Paese il 54% delle persone non legge neanche un libro l’anno. E secondo l’Ocse è l’ultimo Paese capace di intendere la matematica e capace di esprimersi nella propria lingua.
Anche Alberto Contri, presidente della Pubblicità Progresso, se la prende con il nucleo familiare. «L’imprinting avviene in famiglia. È lì che si forma il carattere, la disposizione ad affrontare il mondo. Ma con le madri che lavorano fuori casa, il tempo che diventa sempre più corto e stretto, i ragazzi perdono la capacità di concentrazione. La deficienza del linguaggio esprime e rivela una deficienza della struttura del pensiero». E allora, che fare? La risposta è una bella metafora: «Per navigare su una barca bisogna avere una conoscenza del mare e del legno su cui ci si trova. Per navigare su internet non c’è bisogno di nessuna preparazione e questo porta a cadere in preda ai marosi».
Ma la stampa quotidiana ha delle responsabilità? «Direi proprio di sì», risponde Marida Lombardo Pijola, giornalista del Messaggero , «troppo spesso si raccontano con tono falsamente indignato storie truculente, insistendo sull’aspetto piu spettacolare e morboso». E questo crea abitudine alla mistificazione. La sessualità poi viene presentata sempre di più come prestazione e non come incontro e piacere. Preda e predatore sono faccia a faccia e sembra che tra i due non possa crearsi altro rapporto. «I giornali troppo spesso portano l’esempio di giovanissimi che vendendo il proprio corpo hanno ottenuto denaro, successo, potere, le cose più ambite, date come fondamentali per districarsi in questo mondo». Il branco sostituisce l’adulto e si divide in vincenti e perdenti. Il successo si misura sul consumo e sul dominio dell’altro. «Le femmine nell’immaginario collettivo sono destinate, quasi per natura, allo stupro. I maschi sono tenuti sotto la pressione tremenda della sfida a chi si mostra più duro, piu insensibile, piu crudele». Insomma sembrerebbe che il maschilismo cacciato dalla porta, stia rientrando dalla finestra.
«Eppure cambiare si può», asserisce Serenella Pesarin, direttore generale del Dipartimento giustizia giovanile, che si alza in piedi per dichiararlo con energia. Le sue piccole mani di donna generosa e determinata si sollevano a cacciare via un senso di disperazione e di sfiducia che si sta creando nella sala. «Ogni società ha le sue crisi. Ma vanno superate. Si può farlo. Basta volerlo». E spiega come dalle ultime ricerche sia risultato che la legge della recidiva stia cambiando. La preoccupazione per il rilascio dei ragazzi, nonostante la riluttanza a tenerli chiusi dentro carceri inadeguate e troppo affollate, era basata proprio sul principio della recidiva: vedrete quanti torneranno, piu violenti di prima. E invece no: «Da noi, nel circuito criminale minorile, la recidiva è molto bassa, piu bassa che in tutti gli altri Paesi europei. Da noi Caino può diventare Abele. Ma bisogna crederci e infondere in loro la fiducia nel cambiamento. Purtroppo il villaggio globale è poco solidale. C’è una grande povertà pedagogica. Forse perché non ci si crede. Fatto sta che molti ragazzi, rinchiusi, tentano il suicidio».
Alla fine, quando si parla con questi ragazzi, gli addetti debbono constatare che si tratta sempre di una carenza di relazione. «Qualcuno ancora interpreta il malessere come mancanza di beni. Ma non è così. Sono le relazioni che mancano. Bisognerebbe recuperare lo spirito del ‘68. Non per abbattere l’autorità, di cui abbiamo bisogno, ma l’autoritarismo. La scuola dovrebbe essere un luogo in cui si impara la pratica delle relazioni, ma purtroppo ne siamo lontani». La pratica delle relazioni, per esperienza, porta a una maggiore attenzione verso la meritocrazia. «Noi ci crediamo. E facciamo quello che possiamo. I ragazzi hanno capacità straordinarie di ripresa e di metamorfosi».
Insomma: meno celle di detenzione, meno metodi arcaici di penalizzazione e più fiducia nella rieducazione, nella trasformazione. Largo uso della cultura come strumento di conoscenza di sé e del mondo. La crudeltà della pena non aiuta né chi la applica né chi la subisce. Sono la fiducia, il buon esempio, lo stimolo alla creatività, al lavoro, all’analisi e al giudizio a fare la differenza. Speriamo che qualcuno se ne renda conto.
Dacia Maraini

Repubblica 4.11.13
Pretty baby
Gli amori disperati delle bambine mascherate da donne
di Concita De Gregorio


Dai conflitti a casa agli show in Rete. Chi sono le studentesse squillo dei Parioli: bambine-adulte, sicure di poter gestire il gioco
Due ragazzine spavalde, cresciute senza padri, diventano grandi troppo in fretta.
Poi sprofondano nell’abisso della prostituzione, ma rifiutano di considerarsi vittime.
Perché loro, “le baby squillo dei Parioli”, si credono vincitrici: padrone degli uomini che pagano per i loro corpi

ROMA Questa è una storia normale. Una storia di ragazzine spavalde, cresciute in famiglie normalmente complicate in un quartiere né bello né brutto, né alto né basso. «Due belle ragazze, sembrano molto più grandi della loro età. Imbronciate, aggressive. La più grande, durante l’interrogatorio, ha pianto solo quando le hanno detto che le avrebbero tolto il cellulare». Ragazze andate a scuola nelle scuole pubbliche, buone scuole anni fa all’avanguardia didattica, quando l’educazione primaria era un valore protetto e condiviso, e ancora oggi comunque scuole consigliabili e consigliate, di quelle in cui si fanno i mercatini e gli scambi internazionali, la preside è brava, gli psicologi a disposizione, in certe sezioni gli insegnanti bravissimi. Una storia di bambine diventate donne presto, come sempre più spesso succede: il seno esploso dentro le magliette in prima media, il trucco in classe, il telefonino sotto il banco, i compagni maschi, bambini di undici anni, spaventati e attratti da quelle ragazze di mezzo metro più alte di loro che hanno subito smesso diandare alle loro feste di compleanno perché hanno altro di meglio da fare il pomeriggio che stare coi bimbetti, hanno i ragazzi con la moto che le aspettano fuori. Se avete figli alle medie sapete di cosa stiamo parlando. Se avete figlie femmine lo sapete anche meglio. «Alla madre, quando le hanno comunicato che non sarebbe tornata a casa, sarebbe andata direttamente in comunità, la ragazza si è rivolta col tono di dare ordini: vai a prendermi i pantaloni e il giubbotto, almeno. La madre ha eseguito».
Dunque la storia delle “baby prostitute dei Parioli”, come è stata etichettata con la segreta ansia di renderla estrema e dunque estranea, bisogna raccontarla da capo cominciando da qui: dal dire quello che non è. Non è una storia dei Parioli, quartieri alti di Roma che è facile immaginare popolati da ragazzi annoiati, viziati, figli di genitori ricchi e distratti per quanto neanche questo sia sempre del tutto vero. No, ai Parioli c’era solo l’appartamento dove le due ragazzine incontravano i clienti: un posto preso in affitto da uno degli uomini, ora in galera, che organizzava per loro gli incontri.
Le due ragazze, oggi 15 la piccola e 16 compiuti da poco la grande, sono state bambine e sono cresciute nel quartiere Trieste, fra villa Torlonia via Salaria e via Nomentana, un triangolo soffocato dal traffico di auto e bus in corsia preferenziale, bar botteghe e studi medici di media fama e medio prezzo, vecchie scuole ospitate in edifici di mattoni rossi e bandiere italiche, media e piccola borghesia del commercio e degli uffici. Nelle scuole medie di quartiere dove le due bambine sono state in classe insieme, molti ragazzi della zona di piazza Bologna, un passo dalla Tangenziale est, molti arrivati in treno a Termini dai paesi della cintura. Qualcuno dai Parioli,sì,certo,anche.Ambiente «molto misto», lo definisce uno dei prof. Molto misto.
È Il triangolo fra l’istituto Alfieri, il liceo Giulio Cesare, il Maria Ausiliatrice che è gestito dalle suore, sì, ma i professori sono laici e non costa tanto la retta, è abbordabile, una famiglia di impiegati se la può permettere. Ci mandano i figli che hanno ripetuto un anno, magari, per provare a farli recuperare. O anche solo perché siano seguiti con più rigore, i genitori pensano questo. Le due ragazzine, compagne di classe alle medie, sono state separate alle superiori:entrambe al liceo classico ma due scuole diverse. Una pubblica e una privata. I genitori della più grande, che aveva ripetuto un anno, hanno deciso di separarla dall’amica e di riservarle un ambiente “protetto”: «È stata una tragedia. Essere separata dalla sua amica è stato vissuto da lei come una violenza terribile. Ci sono state liti tremende a casa. Era già molto aggressiva, feroce col nuovo compagno della madre,è diventata totalmente ostile», racconta una persona che le vuole bene e l’ha seguita. Famiglia in ansia, in grande difficoltà con questa figlia sofferente chiusa e ribelle, vedremo tra poco quanto.
Quindi non sono i Parioli e loro due, hanno detto a chi le interrogava e le assisteva nell’interrogatorio, non vogliono essere chiamate né bambine né prostitute: non si sentono né l’una né l’altra. Gli psicologi forensi hanno scritto nelle loro relazioni, dopo i colloqui, più o meno così: «L’idea di sé di queste ragazze corrisponde ad un’età molto maggiore di quella anagrafica. Anche l’aspetto – l’abbigliamento, gli accessori, i tatuaggi, il trucco - tradisce l’ansia di apparire adulte. In ogni caso non si percepiscono come vittime di violenza sessuale, hanno al contrario l’impressione di dominare la situazione. Sono loro che tengono in pugno le persone che incontrano e a cui chiedono denaro, pensano. Sono loro che decidono che cosa fare e con chi percepiscono gli uomini come deboli, ne parlano con disprezzo e sarcasmo, non attribuiscono al fatto di cedere il corpo in cambio di denaro nessun disvalore. Considerano anzi il fatto di suscitare desiderio una forma di potere». È un potere, suscitare desiderio. Una delle due, la piccola, dice al magnaccia che la rimprovera di non essere andata a un appuntamento: «Ma che ti credi che mi puoi dire tu cosa devo fare? Mettiamo che io ho altro da fare, che cazzo vuoi?». Poi, subito, posta su Facebook un messaggio all’amica: noi due insieme per sempre. Sorrisi, cuoricini, labbra che baciano l’autoscatto, appuntamento la sera al solito posto. Waiting dawn, aspettando l’alba. Collezionista di attimi. Società che “organizzano eventi”, si chiamano così. I fatti, allora. Le due bambine sono compagne di classe, a periodi di banco. Fioriscono splendide. Entrambe non hanno il padre. La madre della più grande, quella che anni dopo farà seguire la figlia da un investigatore privato dopo averla denunciata ai servizi sociali per aggressione, dopo le denunce per furto, dopo aver cercato aiuto come poteva – la madre “buona” dicono i giornali - è impiegata in un ufficio. Ha un nuovo compagno, che non è il padre di sua figlia: medico di bel nome, grandi ospedali. Chissà come vanno le cose a casa. La madre della più piccola, una bambina di spettacolare bellezza, ha un bar nella zona bassa del quartiere che naviga in pessime acque, molti problemi di soldi, un figlio minore ammalato. Le due bambine si coalizzano. Vivono in grande conflitto con le loro famiglie, l’adolescenza è alle porte. Le femmine fanno banda contro i maschi, alle elementari. Sono gli anni, quelli, in cui in una scuola di zona un gruppo di bambine di otto nove anni forma una banda per accedere alla quale bisogna superare alcune prove di iniziazione: una di queste consiste nell’inserirsi una matita, una penna, un oggetto nei genitali. Alcuni genitori capiscono,denunciano, diventa un caso,intervengono gli psicologi, la bambina considerata capo banda fa da capro espiatorio, viene portata via dalla scuola. Fine della questione. Si passa alle medie, attigue al liceo. Scoppia un altro scandalo, tenuto legittimamente riservatissimo. Alcune quattordici-quindicenni organizzano a ricreazione un torneo che si svolge nei bagni della scuola. Le ragazzine stanno nel bagno, offrono una prestazione di sesso orale ai maschi che per iscriversi al torneo devono pagare cinque euro. La gara è a chi conclude più rapporti, a chi fa scemare la fila più presto. La fila è lunga, ogni aspirante paga cinque euro. Si paga comunque, il rischio da correre è che arrivi il tuo turno o non arrivi. Il certamen è pubblico, la vincitrice accolta da applausi. Comunque le gareggianti portano a casa cinquanta euro, anche di più, ad ogni prova. Si fanno soldi, così. Soldi che a casa non ci sono o non ti danno, soldi per pagare la ricarica del cellullare e per pagarsi la birra e presto qualcos’altro, la sera. Di nuovo qualche genitore denuncia, di nuovo intervengono gli psicologi. Da una relazione del tempo: «Sgomenta l’assenza di pudicizia, di senso della riservatezza e dell’intimità. Il commercio del corpo considerato la norma, nessuna censura corre tra i coetanei, solo la presa d’atto di un’abilità».
Gli adulti non trovano il varco,non capiscono cosa stia succedendo ai loro figli. Le più abili tra le figlie diventano celebri nella scuola, e fuori. Spesso le performances sono filmate coi telefonini, e condivise. Chi è più fragile soccombe, a volte tragicamente. Chi è più forte avanza.
Tutti sono su Facebook. La vita di relazione virtuale è reale. Le due ragazzine decidono insieme di farsi dei tatuaggi senza dirlo ai genitori, vita reale, li esibiscono nei profili, la cosa più importante, virtuale e reale insieme, per loro. Si mettono in vetrina. Una si fa scrivere sul fianco una scritta in latino, del resto ormai lo studiano. L’altra si fa disegnare un drago che parla di amore disperato. I maschi della classe, tredici-quattordicenni, chiedono amicizia, tollerati come bambini. Entrano a visitare il profilo giovani universitari conosciuti il sabato sera alle feste di zona, una importante università privata è dietro l’angolo, gli studenti vengono da fuori Roma, hanno amici più grandi, più soldi, diversi orizzonti. La violenza, a casa, è la norma. La grande detesta sua madre, sopporta malissimo il nuovo compagno di lei. La piccola soffre la mancanza di soldi, non c’è mai un euro per uscire la sera. Dalla relazione psicologica: «L’aggressività, la violenza, il sesso diventano esperienze più virtuali che reali. L’adolescenza chiama al compito della sessualità. Attraverso la sessualità, si può esercitare un potere, persino un dominio. Il corpo diventa uno strumento neutro, un utensile da utilizzare per accedere a ciò che si desidera». Le ricariche. Il corpo un utensile. Le ragazzine imparano che puoi dare baci e qualcosa di più, puoi dare quello che ti chiedono e che non ti costa concedere, in apparenza, in cambio di ricariche al cellulare, indispensabili per postare i tuoi filmati su Fb. «Mangi all’Hitlon sei ricco, pagami la ricarica almeno, stronzo», si legge nelle intercettazioni. Si filmano di continuo, si fotografano ogni minuto. Vivono sul profilo, dalla vita reale traggono linfa per alimentarlo. Si tatuano insieme, odiano le famiglie insieme, si fotografano atteggiate a donne, insieme. Trovano su Internet, il posto dove passano i giorni chiuse in camera a casa, un luogo: si chiama Bakeca incontri. Dice che devi essere maggiorenne per mettere la tua offerta di sesso online ma non c’è nessun filtro nessun controllo reale. Entrano. Si offrono. Ottengono, certo, immediato successo. Uomini di età le cercano. Loro si scambiano messaggi che dicono «fico, è facile». Qualcuno furbo, criminale, le intercetta. Vede dietro i seni prorompenti, le labbra color rubino, vede nelle calze di pizzo nero dentro le scarpe da tennis due ragazzine. I tatuaggi,le promesse di dannazione e reciproco amore per sempre.
Arrivano i maschi adulti. Mirko Ieni, autista che lavora per quell’università privata del quartiere, uno che nel suo profilo Facebook ha un catalogo di “amiche” studentesse, aspiranti pr, animatrici di eventi. Le aggancia, ma loro sono convinte di agganciare lui. «Va bene vengo, ma l’albergo non mi piace», scrive la piccola. Lui mette a disposizione una stanza in una casa ai Parioli. «A quel panzone chiediamogli duecento piotte», scrive una delle ragazze. I clienti sono uomini adulti, cinquantenni che si fanno chiamare papi, commercialisti, professionisti. «Mi ha detto che sono troppo piccola», dice lei una volta. «Mi ha fatto un film quello stronzo», racconta un’altra volta all’amica, comincia la spirale dei ricatti. «Vai tu che io oggi non posso non mi fanno uscire». «Queste due mi fanno guadagnare 600 euro al giorno», esulta Mirko l’autista. I suoi amici su Fb, gli amici di Mirko, gli dicono bravo. «Chi cazzo ti credi di essere, io faccio come mi pare», lo mette a posto, crede, la ragazzina che intanto porta a casa ogni giorno tre, quattrocento euro. E li dà alla madre che non ha soldi, il bar non va più e il fratello malato ha bisogno di cure. Dicono le cronache che la madre “cattiva” sfruttava la figlia, la faceva prostituire. Dice la madre, ora a Regina Coeli, che lei non sapeva come la figlia guadagnasse quei soldi che erano comunque benedetti. Non voleva saperlo. Forse spacciava, aveva pensato. Che sarà mai. Non certo che si facesse pagare dagli uomini, questo no: comunque non ha domandato. Le indagini sono in corso, le responsabilità degli adulti tutte da accertare. Tutte già scritte, ma nulla di questo si può per ora con certezza ancora dire. Di certo c’è un elenco lungo così, nei tabulati delle due adolescenti, di “cliente 1 Adriano” “cliente2Federico”.Di certo ci sono uomini spregiudicati e criminali, consapevoli, che hanno approfittato della fragilità mascherata da onnipotenza di due quindicenni, e chissà se solo di loro due. Diciamo i nomi. Riccardo Sbarra, commercialista, cliente. Nunzio Pizzacalla, militare, sfruttatore. Mario detto Michael di Quattro, commerciante, ricattatore. Mirko Ieni, autista e organizzatore di eventi, quello di «guadagno 600 euro al giorno», nel giro della prostituzione si direbbe un pappone, quello che mette i locali e organizza il traffico. Salvo che le ragazzine, quelle che la cronaca chiama baby prostitute, lo sbertucciavano: ma chi ti credi di essere,pensi di essere tu il padrone? Le padrone siamo noi, sei un poveraccio.
L’inchiesta è in corso. Nei tabulati dei cellulari delle ragazze c’è un elenco lungo così di clienti. Tremano, i pedofili che hanno pagato le quindicenni. Commercianti, professionisti, consulenti d’immagine. Avranno di certo famiglia, i clienti delle due quindicenni: avranno mogli e figli. Sulla pagina Fb d Mirko Ieni c’è un rosario di solidarietà, «non so cosa sia successo e non ci credo, sei er mejo». I profili delle due ragazze, invece, si sono congelati una settimana fa. Quando la grande ha pianto, in tribunale, per il fatto che le toglievano il telefono: la sua identità. La piccola ora è coi nonni, le grande in una comunità. Hanno tolto loro i cellulari, sì. Di questo e solo per questo si sono disperate.
Una delle due madri è in galera accusata di aver sfruttato la figlia, o nel migliore dei casi di non aver indagato da dove venivano i pacchi di soldi che vedeva arrivare e la incitava a continuare a procacciare. L’altra delle due madri tace, assistita da avvocati avveduti e comunque asserragliata nel dolore di non aver saputo, nonostante le denunce, varcare la soglia della porta chiusa di una ragazzina ostile, violenta, incazzata nera, una bambina mascherata da donna nemica di sua madre. Una dark lady dominatrice, quindicenne tatuata in scarpe da ginnastica. Innamorata dei “Diluvio”, il gruppo musicale da cui rubava le citazioni nei suoi post, “lasciali fare, lasciali dire”. Baci scarlatti. Amori disperati. Spade tatuate, serpenti. Non si possono “tenere due piedi in una Jordan” e chissà cosa avrà voluto dire tua figlia, cosa avrà voluto dirti quando si è fotografata le scarpe e ti ha lasciata nella tua casa del quartiere Trieste, senza una parola, ti ha lasciata così.

Repubblica 4.11.13
Via dalla strada, ora prevalgono gli annunci mascherati sui siti
Minorenni in vendita sul web è il nuovo sfruttamento 2.0
di Vladimiro Polchi


«Giovanissima, disinibita. Tante curve e fantasie». L’annuncio, intitolato “80 voglia”, fa bella mostra di sé sul sito roma.bakecaincontrii.com. Impossibile risalire all’età della ragazza, anche se dalla foto pare più una ragazzina. È il pianeta sommerso delle baby-squillo, il regno dello sfruttamento 2.0. Perché oggi i “pezzi” più pregiati, sul mercato dei corpi in vendita, sono le minorenni. Le più giovani? Le trovi in Calabria, Marche, Abruzzo, Veneto, Campania e Lazio.
«Il web ha un potenziale lesivo enorme – conferma Elvira D’Amato, vicequestore aggiunto del centro nazionale per il contrasto alla pedopornografia on line della Polizia postale e delle comunicazioni – la rete è senza confini, per questo abbiamo un centro nazionale che raccoglie tutte le informazioni provenienti da internet. La prostituzione minorile e il suo sfruttamento può avvalersi della rete, anche se il nostro lavoro non parte da qui: parte dalla pedopornografia, cioè dall’adescamento on line, che poi può pure sfociare in forme di prostituzione». L’escalation classica è la seguente: «Il pedofilo conquista la fiducia del minore sui social network con piccoli regali, come le ricariche telefoniche, e in cambio chiede foto. Il processo di fidelizzazione prosegue con i video e il sesso via webcam. Quindi può scattare il ricatto: “Se non ci incontriamo pubblico le foto su internet”». Da qui il passo a un rapporto sessuale è breve e si può arrivare anche allo sfruttamento della prostituzione. «Con la rete tutti i passaggi sono velocissimi e l’esposizione al pericolo dei minori cresce. Per questo – precisa D’Amato – è importante la prevenzione: filtriamo i siti con contenuti pedofili e forniamo ai provider una black list per la navigazione protetta». Un altro fronte è «quello dei siti con foto professionali di bambini in abiti sexy e atteggiamenti ammiccanti: nulla di incriminabile, ma, dietro la promessa di un book da modella, le indagini hanno portato alla luce anche forme di sfruttamento sessuale».
Quante sono le baby-prostitute in Italia nessuno lo so. Si va dalle stime prudenti del consorzio Parsec (45mila prostitute, 7% minorenni), a quelle del gruppo Abele: 70mila sex workers, 20% minorenni. Non tutte sono sfruttate e non tutte si vendono per “fame”. Pino Gulia, vicepresidente di Slaves no more onlus, ricorda una vecchia ricerca dell’Istituto di epidemiologia della Regione Lazio sulla prostituzione, «dove emergeva un sorprendente numero di giovani, che si vendevano nei quartieri della Roma bene». Oggi questo mercato si affida al passaparola o ai siti di annunci economici, dove nascondere l’inserzione di un minore è più facile, rispetto ai tradizionali portali di escort.
La prostituzione minorile ha anche a che fare con la tratta dei migranti. Stando al dossier “Piccoli schiavi invisibili” di Save the Children, 21.795 vittime di tratta (1.171 minori) sono state assistite in Italia dal 2000 al 2012. Principali paesi di origine? Nigeria e Romania. La maggioranza delle ragazze vittime di sfruttamento sessuale ha un’età compresa tra i 16 e i 18 anni. Ma in Calabria, Marche, Abruzzo, Veneto, Campania e Lazio si segnala anche la presenza di ragazze tra i 14 e i 16 anni. Quelle molto piccole, sotto i 14 anni, sono raramente presenti su strada. I luoghi di sfruttamento si sono infatti moltiplicati, come denuncia il rapporto Caritas-Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza. Oggi chi si prostituisce (soprattutto i minori) lo trovi non solo su strada e nei classici luoghi al chiuso (appartamenti, night club), ma anche in aree di grande transito: stazioni ferroviarie e centri commerciali.

l’Unità 4.11.13
Snowden: «La verità non è un crimine»
Manifesto della talpa del Datagate sullo Spiegel: «Abbiamo il dovere di tutelare i nostri diritti»
di U.D.G.


Ora anche Edward Snowden ha il suo manifesto. Niente meno che il «Manifesto per la verità». «Le richieste di più controlli sui servizi di intelligence dimostrano che avevo ragione nel rivelare i metodi e gli obiettivi dei servizi segreti Usa». Edward Snowden torna a parlare e lo fa attraverso il settimanale tedesco Der Spiegel pubblicando ieri un «Manifesto per la verità».
«Invece di causare danni, l’utilità della nuova conoscenza per la società è molto chiara in quanto suggerisce una riforma alla supervisione della politica e delle leggi», scrive il 30enne ex impiegato della Cia e analista informatico della National Security Agency (Nsa). «I cittadini devono combattere contro la soppressione di informazioni su questioni di importanza fondamentale per il pubblico. Quelli che dicono la verità non stanno commettendo un crimine». Nel Manifesto, Snowden sostiene che la sorveglianza di massa è un problema globale che necessita di soluzioni globali; inoltre, aggiunge, «i programmi di sorveglianza dei criminali da parte dei servizi segreti» compromettono la privacy individuale, la libertà di opinione e le società. L’esistenza delle tecnologie di spionaggio non dovrebbe determinare la politica. «Abbiamo un dovere morale di assicurare che le nostre leggi e valori limitino i programmi di sorveglianza e proteggano i diritti umani».
SFIDA GLOBALE
Secondo Snowden, alcuni governi che si sentivano «smascherati» dalle sue rivelazioni hanno provato a fermarlo «con una campagna persecutoria senza precedenti», ma non sono riusciti a impedire l’avvio di un dibattito internazionale sullo spionaggio americano. E l’apertura di questo dibattito è per Snowden un segno di speranza e di vitalità: «In gioco sostiene è il futuro stesso della democrazia». Quanto al suo di futuro, una risposta viene dagli Usa. Ed è una risposta non certo rassicurante per la «talpa»
del Nsagate. La Casa Bianca e i capi delle commissioni intelligence di Camera e Senato degli Stati Uniti respingono la richiesta di clemenza di Snowden. Il consigliere della Casa Bianca Dan Pfeiffer, intervenendo al programma «This week» del canale Abc, ha affermato che Snowden dovrebbe tornare negli Stati Uniti e affrontare le accuse a suo carico, tra cui quella di avere rivelato informazioni classificate. Opinione condivisa anche dal deputato repubblicano Mike Rogers e dalla senatrice democratica Dianne Feinstein, entrambi comparsi nel programma «Face the nation» su Cbs. Il primo ha detto che l’ipotesi della clemenza per Snowden è «un’idea terribile», mentre la seconda ha ribadito che la talpa ha infranto la legge mentre avrebbe potuto fare le sue rivelazioni privatamente alla commissione intelligence.

La Stampa 4.11.13
Su «Der Spiegel»  Germania,  appello dei vip
“Diamo asilo  a Snowden”


Intellettuali, politici, imprenditori e rappresentanti del mondo sportivo  tedesco in campo per Edward Snowden. In un articolo apparso su «Der Spiegel» decine di vip si sono  espressi a favore della concessione dell’asilo politico  in Germania all’ex analista  della Nsa, attualmente in  Russia. Tra gli appelli illustri quello dell’ex segretario della Cdu Heinen Geissler che ha sottolineato come «Snowden abbia reso  all’Occidente un grande  servizio». In campo anche  il presidente della Lega  calcio, Reinhard Rauballe,  e lo scrittore Hans-Magnus Enzensberger.

Repubblica 4.11.13
Il filosofo Michael Walzer: “Anche il Congresso si sta svegliando e chiede un’inchiesta. Ci vogliono limiti precisi al programma di sorveglianza”
“La talpa del Datagate è un eroe negli Usa la democrazia è a rischio”
intervista di Alix Van Buren


«IN ogni governo, da sempre, esistono tendenze autoritarie: l’inclinazione ad accumulare potere, a usarlo nel segreto, in particolare negli Stati moderni. Il sistema di sorveglianza della Nsa ne è un esempio perfetto. Un refrain americano recita così: “L’eterna vigilanza è il prezzo della libertà”. Ecco, quell’adagio è più valido che mai». Esaurito il preambolo, Michael Walzer, filosofo e saggista di etica politica, sbotta in una sonora risata: «C’è un lato comico in tutto questo. Al pensiero che l’America ascolti le conversazioni private dei leader europei, o 50 milioni di telefonate in Italia e Spagna, io mi chiedo cosa frulli per la testa dei responsabili. Se fanno tanto in Europa, figuriamoci in Cina? E quanti alla Nsa parlano il cinese? È una storia inverosimile, davvero».
Professore Walzer, la Nsa sostiene che il programma serva a salvare vite umane, a proteggere l’America. Controllare il telefonino di Angela Merkel, la cancelliera tedesca, o del francese Sarkozy fa parte della missione?
«Impossibile! non ha alcuna utilità nella lotta contro il terrorismo. Regala forse un vantaggio nelle trattative commerciali.Piuttosto, siamo davanti a un’agenzia tecnologica impazzita: ha le capacità, una tecnologia superlativa, e le impiega a dismisura. È un po’ come la storia dei droni: fantastici sotto il profilo tecnologico, vengono usati sempre più spesso solo perché sono disponibili. Finché qualcuno “spiffera” gli eccessi, e Obama interviene».
Un brutto imbarazzo per Obama, se è vero che il presidente era all’oscuro delle intercettazioni dei leader europei. Lei lo crede?
«Sì, che lo credo. È rimasto senza parole, come me. Per cinque anni non ha nemmeno conosciuto la portata del programma disorveglianza».
La Nsa è un corpo separato, sottratta al controllo degli organi politici e giudiziari?
«Per capire la Nsa bisogna tornare alla sua nascita, alla presidenza Bush; chiedersi se lo stesso Bush ne fosse al corrente: lo era più probabilmente il vicepresidente Cheney. Da allora la Nsa ha seguito il suo corso e non ha ritenuto necessario informare Obama: qualcuno forse non si fidava di lui».
Lei vede una minaccia alla democrazia americana?
«Il rischio è evidente: considerata la natura delle nuove tecnologie, basta chiedersi cosa sarebbe successo se alla Casa Bianca fosse insediato un governo peggiore di Obama, ad esempio la destra radicale. È una prospettiva dabrivido».
Obama ha promesso un freno. Lei se l’aspetta?
«È ovvio: anche il Congresso sta svegliandosi e pretende un’inchiesta. Vogliamo sapere l’intera portata di quel che è stato fatto finora, scoprire quel che è ancora nascosto, e decidere in maniera democratica come procedere nel futuro, ponendo limiti rigorosi. C’è poi un altro aspetto».
Quale?
«È l’aspetto pratico. Visto dal contribuente, il programma della Nsa non ha senso. Pensi ai costi esorbitanti e allo spreco di personale che esso richiede: decine di migliaia di impiegati. E poi: come gestire quei miliardi di dati? Se tutto questo fosse stato ragionevole, non avrebbe suscitato tanto scandalo. Invece, è incredibile».
E le libertà degli europei, calpestate? Pensate anche a questo? Alla Nsa basta l’ingiunzione di una Corte americana per accedere ai contenuti di telefonate, email, ricerche Internet di cittadini europei. Germania e Francia vogliono trattare un codice di condotta.
«Merkel e Hollande hanno ragione. Però, il codice dovrà tutelare il mondo intero, non solo amici ed alleati. È impensabile che l’America decida sulla privacy di un cittadino straniero: la scelta spetta ai rispettivi governi».
Il Datagate ha spalancato un nuovo capitolo nell’evoluzione delle democrazie occidentali?
«Può ben dirlo. Dobbiamo tutto a un giovane di nome Edward Snowden. Quello “spifferatore” si è rivelato un eroe. Grazie a lui oggi scopriamo quale pericolo ci sia stato nascosto. E quanti altri, forse, restino da rivelare».

Repubblica 4.11.13
Visioni del sottosuolo
“L’inganno è sempre in superficie”: la profezia di Hugh Howey
Incontro con l’autore di “Wool”
Un caso clamoroso nato in Rete che ha conquistato anche Ridley Scott
di Pierdomenico Baccalario


Immaginate un’intera comunità di persone che vive all’interno di un gigantesco silo sotterraneo: cento piani collegati tra loro da un’interminabile scala a chiocciola. Ci si sposta solo così: a piedi, su e giù dai gradini della scala sociale. Ai piani inferiori vivono i meccanici, ci sono le macchine e le pompe che estraggono petrolio e producono energia elettrica. Sopra di loro i contadini, gli allevamenti di animali e gli orti idroponici. Nei piani alti i programmatori informatici, con i server e i computer che controllano ogni aspetto della vita dentro al silo. E dove il silo si avvicina alla superficie vi è un grande cinema, dove si può osservare la Vista: ciò che le telecamere riprendono del mondo esterno, uno sterminato paesaggio brullo, devastato da un’antica quanto misteriosa guerra. Ogni volta che qualcuno degli abitanti del silo trasgredisce una regola, viene condannato a “uscire”: gli viene cucita addosso una tuta che si sgretolerà nell’atmosfera acida e consegnato uno straccio di lana. Perché tutti i condannati, un volta fuori, un attimo prima di morire ripetono lo stesso gesto: puliscono, con un panno di lana, le telecamere. E perché lo fanno?
La soluzione del mistero è il filo conduttore di uno dei più formidabili libri dell’anno: si intitola Wool. Il suo autore, Hugh Howey, lo ha pubblicato in cinque puntate sulla piattaforma di self-publishing di Amazon, dove, da qualche anno, è saldamente in cima alle classifiche di download. Oggi esce in versione cartacea (Howey si è tenuto i diritti digitali) in più di venticinque paesi (in Italia lo pubblica Fabbri editori) e Ridley Scott, il regista di Blade Runner, ne ha acquistato i diritti per farne un film. Un clamoroso successo di pubblico, ma questa volta anche di critica: perché dietro alla storia intrigante, questa volta, c’è anche uno scrittore.
Incontriamo Howey a Francoforte, chiedendogli se è finalmente arrivato il momento del ritorno della grande narrativa di fantascienza. «Non bisogna parlare di fantascienza.
Wool, come PlayerOne (di Ernest Cline, Isbn Edizioni), sono storie e basta. La gente le legge perché parlano di noi, del nostro mondo, della dipendenza dai computer. Non di battaglie spaziali». Howey ha 38 anni, e ne ha trascorsi sei su una barca, con un generatore di corrente a vento, un dissalatore e una schiera di pannelli solari. «Quando sei in mezzo al mare, è come se fossi nello spazio. L’unica differenza è che puoi respirare». E proprio in mezzo al mare gli è venuta l’idea del mondo dentro a un silo, con gli abitanti come “raccolto per l’inverno”. «Dopo giorni e giorni da solo, riuscii finalmente a captare il segnale radio di alcuni telegiornali. Ma anziché confortarmi, ne fui terrorizzato: erano solo notizie terribili».
Secondo Howey, il terrore informativo è un modo per tenerci sotto controllo. Per togliere il coraggio di viaggia-re ed esplorare. E di scoprirlo. L’informazione, i server, lo stesso Internet, può anche essere una grande menzogna collettiva. E come nel romanzo culto La penultima verità di Philip K. Dick (Fanucci), il mistero e l’inganno non si trovano nel sottosuolo. Ma in superficie. O, meglio, nell’immagine della superficie. «Quando iniziai a scrivere, avevo solo pensato al perché quelle telecamere fossero così importanti. E perché dovessero essere pulite», confessa, «ma quando mi accorsi che avevo così tanti lettori, e che loro stessi si ponevano decine di domande sulle regole del silo, sentii su di me la responsabilità di tutte le loro aspettative».
Howey ha cercato di evitare l’“Effetto Lost”, e cioè i telefilm che, con la loro mancata pianificazione nella risoluzione dei misteri, hanno finito per deludere milioni dispettatori in tutto il mondo. Si è quindi fermato e ha costruito con attenzione l’intero universo narrativo, anche apportando modifiche a quanto aveva già fatto: «Il libro che è appena uscito ha un capitolo che inizialmente non esisteva, il numero tredici. Ma che, d’accordo con il mio editor alla Simon & Schuster, ho aggiunto per anticipare la comparsa di alcuni personaggi». Il risultato cartaceo è quello di un romanzo godibile, claustrofobico, popolato da personaggi che vivono inconsapevoli di tutto ciò che c’è intorno a loro e si affidano alle istruzioni ricevute sui computer, dove la carta è più a buon mercato delle email (un quarto di buono pasto) e dove la verità su quanto è successo è contenuta in un vecchio libro, nascosto dentro un finto computer. Scoprire il mistero dei programmatori e del panno di lana con cui i condannati a morte puliscono le telecamere sarà il compito di Juliette, la protagonista, una meccanica di trentaquattro anni (di cui si innamora Lukas, un ragazzo di dieci anni più giovane) e che ricorda, in quanto a determinazione, la Ripley di Alien. «Juliette è una pericolosa, perché fa sempre cose nel migliore dei modi», spiega Howey. E una che fa gruppo. «Ci tengono tutti insieme, ma separati, ignari gli uni degli altri, in modo da non infettare i vicini se dovessimo ammalarci».
Wool è diventato un libro di culto grazie alla rete, ma al suo interno i programmatori dell’information technology fanno la figura dei grandi truffatori. A questa domanda lui sorride, guarda il suo libro e risponde: «Non mi risulta che nessun server abbia mai nutrito qualcuno, salvato una vita umana o rammendato un paio di pantaloni. Le macchine sono importanti, certo», conclude Howey, «ma solo perché siamo importanti noi». Tanto perché lo sappiate, le telecamere fuori dal silo non mentono. Sarebbe troppo facile: là fuori è davvero impossibile vivere. Per sapere dove si nasconde l’inganno, dovete essere più sottili. Come un foglio di carta.

Wool (Fabbri editori, traduzione di Giulio Lupieri pagg. 560 euro 14,90)

l’Unità 4.11.13
«Più tasse per i ricchi» De Blasio strega New York
Il democratico italo-americano favorito alle elezioni di domani per la poltrona di sindaco
Da vent’anni i repubblicani governano la Grande Mela
di Gabriel Bertinetto


Senza avere virato al centro per un solo giorno in dodici mesi di campagna elettorale, Bill De Blasio, 52 anni, si appresta a diventare sindaco di New York. I cittadini della Grande Mela vanno alle urne domani per scegliere il successore di Michael Bloomberg, e i pronostici sono tutti a favore dell’italo-americano, candidato della sinistra liberal democratica. Tramontano vent’anni di ininterrotto dominio repubblicano, prima con Rudy Giuliani e poi con Michael Bloomberg. L’avversario di De Blasio, Joseph Lhota, avrebbe bisogno di un miracolo per ribaltare il distacco di 45 punti percentuali fotografato dagli ultimi sondaggi. Lhota, che qualche commentatore ha definito «uomo senza carisma», è accreditato di un misero 23%, a fronte del 68% intenzionati a votare per il rivale.Lhota può ringraziare i suoi colleghi parlamentari di Washington per avergli inflitto il colpo di grazia con l’intransigenza mostrata con lo shutdown, il blocco delle finanze federali.
Il candidato democratico ha riproposto sino all’ultimo con coerenza i suoi programmi progressisti per riunificare «le due città», geograficamente contigue ma socialmente agli antipodi: Wall Street, l’alta finanza, i grandi capitali immobiliari da una parte, e all’altra estremità il 21 % degli abitanti che vivono sotto la soglia di povertà. De Blasio è rimasto fedele ai suoi progetti innovatori, tanto quanto i repubblicani, Lhota compreso, rimanevano condizionati dagli estremismi ideologici del Tea Party. Due modi radicalmente diversi di sottrarsi al destino che accomuna spesso i politici di opposte tendenze: la virata al centro.
Naturalmente molti si chiedono se la fermezza programmatica di De Blasio resisterà al confronto con la complessità dei problemi che si troverà ad affrontare a partire dal giorno successivo al probabile successo elettorale. Il primo ostacolo che gli si parerà davanti sarà la prevista riluttanza del governatore Andrew Cuomo ad assecondare l’aumento delle tasse a carico dei super-ricchi per finanziare asili nido e altre iniziative a vantaggio dei ceti meno abbienti. Nel mirino di De Blasio sono i redditi familiari superiori al mezzo milione di dollari all’anno, con un prelievo aggiuntivo che va dai mille ai 180mila dollari, per chi ha entrate superiori ai 10 milioni.
SUPER-PRELIEVO
Cuomo teme la fuga dei Paperoni non solo dalla città di New York, ma anche dallo Stato omonimo. Basta attraversare il fiume Hudson e si mette piede in New Jersey, dove il fisco è quanto mai gentile verso gli ultraprivilegiati. Per non parlare del vicino Connecticut, mecca degli Hedge Funds e altri istituti finanziari ad alto tasso speculativo. Cuomo ha facoltà di porre il veto alle leggi del sindaco in materia fiscale, e se De Blasio le presentasse nella forma annunciata in campagna elettorale, molti ritengono che sarebbero respinte. Qualche cedimento moderato, evitato nei comizi, potrebbe essere imposto insomma dalla necessità di trattenere a Manhattan e dintorni il grosso di quegli imprenditori, immobiliaristi, banchieri, che garantiscono con le loro attività una parte considerevole delle risorse cittadine. Il solo settore finanziario dà lavoro a 185mila persone e contribuisce per l’8,5% ai 45 miliardi di dollari che ogni anno entrano nelle casse comunali attraverso le imposte. Si profila insomma uno scontro tutto interno a New York, al partito Democratico (cui appartengono sia Cuomo che De Blasio), e alla comunità italoamericana.
De Blasio miete consensi tra i neri e gli ispanici, avendo chiarito l’intenzione di attenuare lo strapotere poliziesco, di cui proprio quelle due comunità sono le vittime preferite. La legislazione antiterrorismo consente agli uomini in divisa di fermare e perquisire chiunque e in qualunque circostanza. Si chiama «stop and brisk» ed è considerata dai suoi promotori come un ottimo meccanismo di deterrenza e prevenzione del crimine. Dovrebbe essere applicata in maniera casuale, ma di fatto ne fanno le spese soprattutto gli afroamericani e i latinos. Il candidato democratico vuole impedirne l’uso eccessivo e discriminatorio.
Liberal in politica come nella vita privata, De Blasio è sposato con una poetessa nera, dichiaratamente lesbica. Chirlane McCray, 58 anni cercò invano di dissuaderlo dal corteggiamento mostrandogli una copia di Essence, una rivista in cui lei raccontava le sue esperienze omosessuali. Dal matrimonio sono nati Chiara e Dante, di 18 e 16 anni. Frequentano scuole pubbliche. Dante ha partecipato attivamente alla campagna in favore del padre.

l’Unità 4.11.13
Tawakkul Karman
Prima donna araba premio Nobel per la pace critica il dopo-Morsi
E sulla Siria dice: «Il posto di Assad è davanti alla Corte dell’Aja»
«L’Egitto in divisa ha tradito la sua Primavera»
intervista di Umberto De Giovannangeli


È stata la prima donna araba a ricevere il premio Nobel per la Pace. È la più giovane donna in assoluto ad essere stata insignita di questa prestigiosa onoreficenza: Tawakkul Karman, 34 anni, yemenita, premio Nobel per la Pace 2011, è la donna simbolo della sollevazione non violenta contro il regime di Ali Abdullah Saleh. Musulmana, Karman è profondamente convinta che «Islam e democrazia non siano tra loro inconciliabili» e che il dialogo tra «Islam e Occidente non sia solo necessario, ma possibile, a patto che sia un vero dialogo tra pari, senza alcuna presunzione, da nessuna delle due parti, di essere depositari di una verità assoluta da brandire contro il “Male assoluto”».
Il senso del suo impegno politico e professionale (è giornalista), è racchiuso in una frase che Karman ribadisce anche in questa intervista: «Pace non significa fermare la guerra, ma fermare l’oppressione e l’ingiustizia».
Da araba e musulmana, la Nobel per la pace, leader del principale partito islamico yemenita Islah, anima della primavera yemenita, prende posizione sugli avvenimenti che marchiano a sangue due tra i più importanti Paesi arabi: Egitto e Siria. Quanto alla difficile transizione che investe il suo Paese, lo Yemen, la Nobel per la pace lancia un appello agli Stati Uniti: «Chiediamo solo che voi, rispettiate le regole internazionali sui diritti umani e i diritti del popolo yemenita alla libertà e alla giustizia dice Tawakkul Karman -. A nome di molti dei giovani coinvolti nella rivoluzione dello Yemen, io assicuro il popolo americano che siamo pronti a partecipare a un’autentica partnership. Insieme, possiamo eliminare le cause dell’estremismo e la cultura del terrorismo mediante un rafforzamento della società civile e l’incoraggiamento dello sviluppo e della stabilità».
In Egitto oggi si apre il processo contro la leadership dei Fratelli musulmani. Lei è stata accusata di essersi schierata apertamente con la Fratellanza.
«Io non ho preso posizione per i Fratelli musulmani, io ho preso anzitutto posizione contro il colpo di Stato dei militari. Un colpo di Stato che non solo ha messo in discussione la presidenza di un uomo (Mohamed Morsi) liberamente eletto dal popolo egiziano, ma quel golpe guidato dal generale al-Sissi rappresenta anche una sfida alla rivoluzione egiziana e alla Primavera araba».
Resta il fatto che la presidenza Morsi aveva fallito molti degli obiettivi che aveva enunciato.
«Ma questo non giustifica affatto il colpo di Stato e la messa fuorilegge di un movimento che, piaccia o no, è fortemente radicato nella società egiziana, come hanno dimostrato sia il voto a Morsi che il referendum costituzionale. Non sarò io a ergermi a giudice dei successi e dei fallimenti, non ho titoli per farlo, ma ciò che mi preme sottolineare è che in nessun caso la repressione di piazza, l’arresto in massa di dirigenti e attivisti della Fratellanza, lo scioglimento d’imperio del Parlamento, possono essere giudicati un passo in avanti in direzione della democrazia. Quello che il colpo di Stato dei militari ha cancellato è lo spirito di Piazza Tahrir».
Il generale al-Sissi replicherebbe che l’intervento dei militari è stato giustificato proprio dalla difesa di quello «spirito» minacciato dalla Fratellanza.
«Questa è una giustificazione a cui non credono più neanche quei movimenti che pure avevano fortemente contestato la presidenza Morsi. E poi, non è che la riconciliazione nazionale possa fondarsi sulla criminalizzazione di una parte in causa. Così si fa solo il gioco di chi, anche in campo islamista, punta alla radicalizzazione e allo scontro violento. Ma forse è proprio questo l’obiettivo del generale al-Sissi. Vorrei mettere in chiaro una cosa...».
Quale?
«Ho fatto riferimento a quei movimenti, come Tamarrod (Ribelli) che prima del golpe del 3 luglio avevano guidato la protesta pacifica contro la presidenza Morsi. Ebbene, all’inizio io ho sostenuto quella protesta, e l’ho fatto perché speravo che portasse alla fine della spaccatura all’interno della società egiziana, e alla costruzione di un Paese fondato sulla collaborazione piuttosto che sulla regola della maggioranza ristretta che ambisce a tutto. Ma questa aspettativa è venuta meno con il colpo di mano dei militari e con tutto ciò che ne è seguito, migliaia tra morti e feriti e le carceri riempite di attivisti contrari alla destituzione di Morsi. La democrazia non veste la divisa. E insisto nel dire che il golpe egiziano rappresenta una minaccia per la “Primavera araba”: perché quella “Primavera” aveva come obiettivo quello di costruire la democrazia. Il golpe dei militari ne è l’antitesi. Il golpe mina ogni cosa. Il generale al-Sissi ha ripetuto più volte che i militari sono al servizio del popolo. Ma una parte di quel popolo è stata brutalmente repressa e incarcerata. Mi si lasci almeno dubitare della loro conclamata volontà di servizio. Così come è innegabile che il governo posto in essere dai militari stia tornando ai metodi autocratici del passato. La verità è che l’attuale regime egiziano ha spodestato il primo presidente eletto liberamente nella storia del Paese, ha sospeso una costituzione che aveva ottenuto il 60% dei consensi in un referendum, e ha completamente escluso i Fratelli musulmani e il Partito della Giustizia e Libertà (il braccio politico della Fratellanza, ndr) dalla vita politica. Non ci sono opzioni limitate per quelli di noi che hanno a cuore il futuro dell’Egitto: possiamo scegliere di stare o con i valori civili, o con il governo militare, e la loro tirannia, e coercizione».
Un altro scenario insanguinato è quello siriano. Lei ha usato parole durissime contro il presidente Bashar al-Assad. «Parole inadeguate a dar conto delle sofferenze che quel dittatore ha inflitto al popolo siriano. Il posto giusto per Assad non è a un tavolo della pace ma sul banco degli imputati davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja dove dovrebbe rispondere dei crimini di guerra e contro l’umanità di cui si è macchiato. In una Siria davvero libero e pacificata non può esserci posto per lui. Assad resta un satrapo sanguinario, con o senza le armi chimiche».

Corriere 4.11.13
La politica estera turca colpita dalle rivolte arabe
risponde Sergio Romano


Dove sta andando la Turchia? La domanda appare in qualche modo inevitabile se si guarda  a quanto accade. Questo  Paese, uno dei pilastri della Nato, ha infatti scelto un’azienda cinese per la fornitura di un importante sistema missilistico di difesa aerea. Quasi un sacrilegio, prontamente criticato dagli Stati Uniti e dalla  stessa Alleanza atlantica per le conseguenze pratiche che tale decisione comporterà. In realtà, la mossa rappresenta l’ennesimo segnale di una qualche intraprendenza di Ankara sul piano internazionale e, al contempo, di un certo allontanamento dall’Occidente, tanto che, per esempio, l’adesione all’Ue appare sempre più remota. Se a ciò si aggiunge la crescente islamizzazione sul piano interno, accompagnata dal ridimensionamento di quei militari custodi della laicità voluta dal padre della Turchia Atatürk, il quadro si può definire completo e un (poco) preoccupante.
Giovanni Martinelli

Caro Martinelli,
Una singola fornitura militare non è necessariamente un segnale decisivo. Il vero problema mi sembra essere piuttosto la crisi della politica estera turca. Quando il partito AK (Giustizia e sviluppo) conquistò il potere nel 2007, il suo leader, Cerep Tayyip Erdogan, volle al ministero degli Esteri Ahmet Davotoglu, studioso di politica internazionale, uomo di buona cultura e di chiare intuizioni. Sotto la sua guida, la diplomazia turca avrebbe approfittato della fine della Guerra fredda e della scomparsa dell’Urss per garantire a se stessa un più importante ruolo regionale.
Si parlò allora, con una certa esagerazione, di una politica neoottomana. Ma la Turchia voleva soprattutto esercitare una leadership culturale, nel senso più largo della parola. Avrebbe cercato di avere buoni rapporti con tutti gli Stati arabo-musulmani della regione e persino, nei limiti del possibile, con la Repubblica d’Armenia. Avrebbe dimostrato a tutti i suoi vicini che l’osservanza dell’Islam non era incompatibile con il progresso civile ed economico. Si sarebbe imposta come modello politico e potenza economica. Avrebbe anche continuato a desiderare l’adesione all’Unione Europea per conseguire due vantaggi: l’appartenenza a una grande e moderna area economica e sociale, la possibilità di attribuire alle insistenze dell’Ue quel ridimensionamento della casta militare turca, nella gestione dello Stato, che fu l’obiettivo più caro a Erdogan sin dall’inizio del suo primo governo, ma cominciò a delinearsi con maggiore chiarezza soltanto negli anni seguenti. Più tardi, gli screzi con Israele incrinarono una vecchia solidarietà, ma rafforzarono l’immagine della Turchia agli occhi del mondo musulmano.
Quando alcuni Paesi europei (Francia, Austria, Paesi Bassi, Germania) presero posizione contro l’ingresso di Ankara nell’Unione, i negoziati di Bruxelles vennero di fatto interrotti. Ma il castello della politica estera turca cominciò a traballare soltanto dopo le rivolte arabe. Erdogan e Davotoglu cercarono di pilotare il declino dei tiranni e l’avvento della democrazia, ma si scontrarono con difficoltà insormontabili e, in Siria, con la forte resistenza di Bashar Al Assad. Da quel momento Erdogan, forse per ragioni prevalentemente caratteriali, finì dentro la mischia e il suo governo divenne obiettivamente il protettore della Fratellanza musulmana in Egitto, il fornitore di armi e altri servizi ad alcune delle formazioni sunnite combattenti in Siria, l’oggettivo alleato dell’Arabia Saudita e del Qatar. Non era questa la politica che Davotoglu voleva perseguire per il suo Paese. E non è questo il Paese che l’Unione Europea desidera avere tra i suoi membri.
Come spiegare allora il fatto che negli scorsi giorni sia stato deciso di riprendere il negoziato interrotto per l’adesione di Ankara all’Ue? A Bruxelles non si è perduta la speranza di trattenere la Turchia nel mondo occidentale. Ad Ankara si è deciso che l’ancoraggio all’Europa, nel momento in cui il Paese sta perdendo pezzi di politica estera, non può essere buttato via.

La Stampa 4.11.13
E Netanyahu prepara un muro sul Giordano
La barriera isolerà i territori palestinesi dalla Giordania
Trattative a rischio


Celebre per la sua potenza  evocativa per i fedeli cristiani ed ebrei, il fiume  Giordano è destinato a  cambiare fisionomia. Sulla  sua sponda occidentale sarà costruita una barriera:  un lungo reticolato, ricco di  sensori e di strumenti ottici  sofisticati concepiti per segnalare tempestivamente  presenze reputate minacciose, o comunque sgradite.  Anche in futuri accordi  di pace, ha detto ieri il premier Benyamin Netanyahu,  «il Giordano deve restare il  nostro confine di sicurezza». In Cisgiordania, ha lasciato intendere, c’è spazio  per un compromesso con  Abu Mazen. Ma la valle del  Giordano, sprofondata in  una ripida depressione con  1000 metri di dislivello rispetto a Gerusalemme,  mantiene un significato importante per gli strateghi  israeliani.  In primo luogo la Barriera  servirà a scongiurare il pericolo che centinaia di migliaia  di siriani, sfollati in Giordania, possano incamminarsi  verso la Cisgiordania. Il fiume  Giordano è scarso di acque:  per bloccarli occorre dunque  un ostacolo fisico più serio.  Ma quella Barriera avrà anche un chiaro valore politico.  Segnalerà ai palestinesi la determinazione israeliana a impedire che assumano il controllo del confine orientale del  futuro Stato indipendente. Ad  impedire cioè che un giorno  spalanchino la porta a forze  ostili allo Stato ebraico. «Cosi’  - ha concluso Netanyahu - difenderemo non solo Israele,  ma anche la pace».  Per ora ci sono solo progetti  preliminari. La costruzione  vera e propria della barriera  nella Valle del Giordano comincerà dopo il completamento della Barriera sul Golan e di  quella al confine del Sinai, a ridosso di Eilat.

Corriere 4.11.13
Una statua per l’ammiraglio Horthy: così si favorisce l’antisemitismo
di Maria Serena Natale


Stelle di David e svastiche sotto la pioggia, centinaia di manifestanti, due cortei contrapposti, scene dal Novecento nel centro di Budapest. Tutto per una statua dell’ammiraglio Miklos Horthy, reggente d’Ungheria dal 1920 al 1944, inaugurata ieri a poca distanza dalla sede del Parlamento in una cerimonia promossa dal partito di estrema destra oggi terza forza politica, Jobbik.
La tempistica era studiata sul 75° anniversario del Primo arbitrato di Vienna con il quale, dopo l’Accordo di Monaco del 1938, i nazifascisti costrinsero la Cecoslovacchia a cedere ampi territori all’Ungheria mutilata dal Trattato del Trianon del ’20: occasione ideale per esaltare quell’intreccio di miti nazionali e sentimenti revanscisti sul quale Jobbik ha costruito la propria piattaforma programmatica, assecondando pulsioni xenofobe e antisemite mai così forti dal Dopoguerra in un Paese che accoglie una tra le più antiche ed estese comunità ebraiche d’Europa.
Circa 437 mila ebrei deportati in 56 giorni: accadeva nel 1944 sotto la reggenza dell’ammiraglio alleato di Hitler. Gli ebrei ungheresi vittime dell’Olocausto furono oltre mezzo milione. Rendere omaggio al leader di quei tempi bui, nell’Ungheria che non ha ancora un giudizio storico condiviso su Horthy e che come il resto del Centro-Est europeo guarda al periodo nazista attraverso la lente deformata dell’oppressione sovietica, significa concedere ulteriore terreno a un partito che in questi anni ha portato in Parlamento una retorica pericolosamente aggressiva nei confronti delle minoranze.
Ieri le preoccupazioni dei politici locali e del partito conservatore di governo, la Fidesz del premier Viktor Orbán, si sono limitate al potenziale danno d’immagine per il Paese e alle attese reazioni della «stampa occidentale di sinistra». Ma le tensioni alimentate da Jobbik sotto la copertura del dibattito storiografico scavano nel profondo, soprattutto in tempi di recessione e vicine elezioni, quando è più forte la tentazione di trovare bersagli alla rabbia e alla paura.

Corriere 4.11.13
La barbarie al potere e i furti del Reich
di Hans Tuzzi


La notizia del ritrovamento in Germania di millecinquecento importanti quadri razziati dai nazisti in tutta Europa può stupire, ma non sorprendere.
Hitler e i suoi, infatti, alla parola «cultura» mettevano mano alla pistola, ma per accumulare tesori spogliando privati e pubbliche istituzioni, a cominciare dagli ebrei tedeschi per finire con l’Italia «traditrice». Hitler sognava di creare a Linz il più grande e splendido museo del mondo, Göring accumulava con vorace ingordigia (suo l’ordine di depredare Montecassino) e Goebbels, pragmatico, sino al 1939 finanziò il Reich vendendo all’estero l’arte «degenerata». È dalla miniera di sale di Altaussee, in Stiria, che nel 1947 emergono, coperte di fango, migliaia e migliaia di opere d’arte. Fra quelle trafugate all’Italia, ricordiamo 262 quadri dei fiorentini Uffizi, la Venere e la Danae di Tiziano, l’Apollo di Pompei, che Hitler teneva in casa, la Madonna di Bruges di Michelangelo, l’Agnello mistico di Jan van Eyck, gli ori del Museo archeologico di Napoli. La «tutela» nazionalsocialista dei beni culturali italiani ebbe inizio il 30 settembre 1943 con l’incendio dell’Archivio storico di Napoli su ordine del comando tedesco. Per pura barbarie? Perché l’ordine era distruggere quel che non si poteva portare in Germania. Dunque sì, per pura barbarie. Lo aveva scritto, il 30 gennaio 1933, Hitler eletto cancelliere, Joseph Roth a Stefan Zweig: «Si è riusciti a far governare la barbarie». Il primo italiano a seguire le piste delle opere trafugate fu Rodolfo Siviero: in occasione del trentennale della morte Castelvecchi e Skira lo ricordano con due libri. Del 1971 è la creazione del Comando carabinieri tutela patrimonio artistico: non gli mancherà il lavoro, a Monaco, nei prossimi mesi.

Repubblica 4.11.13
Trovato il tesoro segreto di Hitler 1500 opere da Picasso a Matisse
Sequestrati a un gallerista quadri per un valore di oltre un miliardo
di Andrea Tarquini


BERLINO — Era il tesoro segreto del Terzo Reich, quasi un’eventuale seconda riserva aurea della tirannide dopo quella della Reichsbank sperperata fino all’orlo della bancarotta per finanziare guerre e crimini contro l’umanità: oltre millecinquecento opere d’arte, dipinti dei massimi maestri dell’arte moderna, confiscati dai nazisti come “arte degenerata” o semplicemente rubata agli ebrei prima perseguitati costretti a lasciare la Germania dopo la “Notte dei cristalli”, poi finiti vittima della Shoah, il loro genocidio organizzato su base industriale. E solo adesso si viene a sapere che il tesoro è riemerso per caso, in un blitz del febbraio 2011 della dogana bavarese a casa di un anziano signore, ambiguo ma inosservato. È un evento sensazionale: l’arte e la cultura del mondo riprendono possesso di quelle opere, dal valore stimato di oltre un miliardo di euro, che dal 1945 erano state classificate come disperse per sempre.
Quadri di Pablo Picasso e Henri Matisse, Marc Chagall e Emil Nolde, Franz Marc, Max Beckmann, Paul Klee, Oskar Kokoschka, Ernst Ludwig Kirchner e Max Liebermann. Per decenni e decenni, dopo l’8 maggio 1945 quando il Reich fu costretto dagli Alleati alla resa incondizionata, del Tesoro di Hitler non si era saputo più nulla. Molti sopravvissuti alla Shoah, o i loro discendenti, per decenni chiesero ai governi del mondo ogni sforzo per ritrovarli, ma invano. Tutti si erano ormai rassegnati, tutti pensavano che i millecinquecento quadri fossero andati distrutti nei bombardamenti dei Lancaster e dei B-17 alleati, o a Berlino nei combattimenti tra tank, “carri armati volanti” e soldati di Zhukov e vecchi donne e bimbi arruolati a forza dal Fuehrer nel Volkssturm.
Solo ora si viene a sapere che tutto è stato ritrovato due anni fa.
Millecinquecento quadri di grandi autori sono una parte davvero non piccola del patrimonio culturale mondiale. Tutto era nascosto nell’appartamento lussuoso ma polveroso e decaduto di un anziano abitante di Schwabing, uno dei quartieri più chic della ricca capitale bavarese. Sotto il letto o negli armadi, li teneva nascosti il taciturno, schivo Herr Cornelius Gurlitt. Suo padre, il mercante d’arte Hildebrand Gurlitt, fu uno dei tanti “ariani doc” che seppero profittare del nazismo. Negli anni Trenta e Quaranta aveva acquistato quelle opere dai nazisti. Non si sa bene se doveva custodirle per loro come accadde a opere d’arte rubate e celate dai gerarchi nei forzieri di compiacenti banche elvetiche, o se ne fosse divenuto proprietario a pieno titolo. In ogni caso,sia lui sia il regime avevano fatto un buon affare. Herr Gurlitt senior nascose subito il tesoro nella bella casa di Schwabing, e per sua fortuna Monaco fu ben meno bombardata rispetto ad altre città del Reich.
«Almeno trecento dei millecinquecento quadri appartengono all’arte condannata e vietata dai nazisti come “degenerata” (astratta, surrealista ecc). Altre furono confiscate semplicemente per il loro valore», dice a
Focus,il giornale tedesco che rivela la storia nel numero in edicola oggi, la storica dell’arte berlinese Meike Hoffmann. Dopo la guerra, tutto restò in mano a Cornelius Gurlitt, appunto figlio di Hildebrand. Cornelius ereditò almeno un po’ di quadri in più dei 1.500 ritrovati. A lungo visse vendendo ora una tela ora un’altra, senza mai dichiarare nulla al fisco. Per questo finì indagato dalla magistratura, col sospetto di evasione fiscale. Riuscì a farla franca finché un giorno di settembre del 2010 si fece cogliere in flagrante dai doganieri, su un treno tra Monaco e la Svizzera, con in tasca forti somme di denaro contante. Fu ordinata una perquisizione nella casa di Schwabing, e venne effettuata nella primavera del 2011. Da allora, la dogana bavarese è in possesso del tesoro, custodito nel bunker di massima sicurezza a Garching, non lontano dal reattore atomico sperimentale.
Finora, le autorità avevano tenuto tutto sotto segreto. Anche il fatto che, dopo la perquisizione, Cornelius Gurlitt riuscì a intascare 864mila euro vendendo con l’aiuto di complici un quadro di Max Beckmann.
La memoria d’Europa,schiacciata in quei decenni dalle dittature, si risveglia. Nel tesoro di Herr Gurlitt c’era anche un quadro di Matisse, proprietà del collezionista ebreo francese Paul Rosenberg. Il quale fuggendo prima dell’occupazione nazista di Parigi lasciò là la sua collezione. Sua nipote Anne Sinclair (sì, proprio lei, l’ex moglie del controverso Dominique Strauss-Kahn) lottava da anni per ottenere la restituzione dei quadri del nonno. Ma di quel ritratto di donna di Matisse non sapeva nulla.

Repubblica 4.11.13
Anna Foa: “Hanno cancellato non solo milioni di vite, ma una parte della nostra storia e del pensiero europeo”
“È il genocidio culturale del Terzo Reich”
intervista di Alessandra Baduel


«IL numero dei morti della Shoah sovrasta il ricordo, il concetto stesso del genocidio culturale operato dal nazismo, fra opere sparite e possibilità di sviluppo del pensiero in ogni campo. Nei primi decenni del Novecento la creatività ebraica ha influenzato tutta la produzione, artistica e non solo: c’è un intero pezzo di cultura che manca, nella nostra storia, cancellato dai nazisti». La storica Anna Foa, grande esperta di ebraismo, accoglie la notizia del ritrovamento con le parole di chi da tempo riflette anche su questo, il «genocidio dell’arte», come lei lo definisce.
Secondo le stime, nella sola Francia i tedeschi saccheggiarono dalle case degli ebrei circa centomila fra dipinti, arazzi, sculture e altri oggetti d’antiquariato.
«E il paradosso ulteriore è che la chiamavano arte “degenerata”, per poi nasconderla nei caveau e mostrarla agli amici, ben consci del suo valore. L’“ideale” hitleriano, in privato non valeva. Ma poi, penso a tutta l’arte finita con i suoi autori nei campi di sterminio. Un nome solo, Charlotte Salomon, morta ad Auschwitz a 26 anni, lasciandoci alcuni ottimi dipinti autobiografici. Cos’altro avrebbe potuto fare, per la cultura di tutti noi? E ci sono i musicisti. Continuavano a scrivere note sulla carta igienica, c’è un italiano, Francesco Lotoro, che sta recuperando quei foglietti, per farci finalmente sentire quelle note».
Come possiamo guardarli, oggi, quei quadri ritrovati?
«Sono opere che nessuno in questi decenni ha potuto studiare, meditare, godere. Quando potremo di nuovo guardarle, bisognerà tenere conto di quel che è successo. Di dove sono state nascoste, fra barattoli di fagioli scaduti, nella polvere. Bisognerà capire quel che ha rappresentato la loro perdita per il mondo. E magari da lì riuscire a ripartire».

l’Unità 4.11.13
Camarade Antonio Gramsci
Anche la Francia lo riscopre ne parla il filosofo Andrè Tosel
di Stefania Miccolis


LA FILOSOFIA ITALIANA DEL ‘900 È RICCA E DI GRANDISSIMO VALORE, MA PURTROPPO OGGI È POCO NOTA. Ma è come un fiume carsico, le cose interessanti sono sottoterra e poi all’improvviso risorgono». Così André Tosel, filosofo, docente all’Università di Nizza, specialista del pensiero di Marx e del marxismo italiano, elogia la nostra cultura mentre passeggia ammirando il «patrimonio straordinario» di Roma. «L’Italia è piena di fascino e incanto, mi preoccupa però la volgarità in cui è caduta», dice. Senza nascondere, poi, il suo pessimismo nell’analizzare il presente in cui «la globalizzazione capitalista ha creato disuguaglianze così forti e ingiustizie insormontabili e ingiustificabili». Insomma, il nostro è un mondo guasto, Un monde en abîme, come il titolo di uno dei suoi saggi, (edito da Kimé nel 2008). E la filosofia può aiutarci a comprendere... La formula di Hegel per trasformare il mondo bisogna capirlo è alla base del pensiero di Tosel: «Io voglio capire il mondo nelle sue articolazioni, potenzialità, contraddizioni e opposizioni spiega -. La domanda importante è: quale mondo per quale gente? Le solidarietà di un tempo sono perdute e l’individualismo è giusto solo se concepito come individualismo dell’uguaglianza, il partager (ovvero la condivisione) e non come individualismo solitario.
Il sistema è riuscito a neutralizzare l’uomo in quanto massa compatta. All’individualismo come libertà di pensiero non si può rinunciare, è un diritto, ma al tempo stesso è molto ambiguo perché permette anche a determinate forze di agire incontrastate. Il popolo è stato soggiogato dall’idea imperante del consumo, e gli individui sono infelici perché non potranno mai soddisfare i loro desideri, non solo perché i fenomeni economici non vanno loro incontro, ma perché è lo stesso desiderio ad essere un’illusione».
Viviamo in un mondo paradossale, ripete Tosel, e si «aggrappa» al pensiero gramsciano, ne fa il faro della sua analisi: «l’ideale antropologico di Gramsci era quello di un uomo lavoratore serio, rigoroso, modello soppiantato dal liberismo capitalista. I limiti sono enormi e l’individualismo è diventato una religione. Non si può uscire da questa situazione se non si è capaci di produrre rispetto per il mondo, rispetto del bene comune. Gramsci, Hegel, Marx, in questo senso, sono strumenti di cui fare una intelligente rilettura».
Partiamo da Gramsci, che Tosel considera l’esponente più importante del marxismo del ‘900: «È poco studiato in Francia dice il filosofo ma in Italia è un po’ più vivo, perché vi sono ancora storici e filosofi che si interessano a lui e c’è un Istituto molto valido. A differenza dell’Italia la Francia non ha avuto una grande tradizione filosofica marxista, non abbiamo avuto Antonio Labriola, una discussione approfondita su Marx, ma solo una conoscenza frammentata, secca, dogmatica e schematica».
Labriola viene pubblicato in Francia grazie a Sorel: nella rivista Le Devenir Social appare il primo dei tre Saggi sul materialismo storico; il secondo e il terzo sono tradotti in francese nel 1897 e nel 1899. Il terzo, Discorrendo di socialismo e di filosofia, era scritto in forma di lettere indirizzate a Sorel; ma la fortuna di Labriola in Francia subisce una battuta d’arresto anche per l’ accoglienza negativa del grande sociologo Emile Durkheim. Tosel ricorda ciò che scrive Stefano Miccolis: «I Saggi erano la prima, meditata e originale interpretazione europea del pensiero di Marx; e avrebbero contribuito a produrre grazie anche alla loro immediata discussione, che coinvolse Croce e Gentile quel rinnovamento e rinvigorimento della filosofia italiana, che caratterizzò i primi decenni del Novecento». «E Gramsci secondo Tosel ha saputo analizzare con profondità molti aspetti della struttura del mondo moderno ed oggi assume un ruolo di interlocutore critico. Ha sempre avuto la speranza in una egemonia dei subalterni». Sottolinea quanto Gramsci abbia compreso la modificazione della concezione del lavoro, la correlazione fra struttura economica e forme politiche, quanto si sia soffermato sulla cultura dei linguaggi, sugli apparati egemonici e non solo, sull’unità linguista e sul folclore (importanti tra l’altro per l’antropologia culturale di oggi). «Ha riflettuto sul modo di unificare tutti questi aspetti in un modello di lavoro teoretico e politico. La sua è una analisi immane. È il solo marxista del secolo ad aver fatto questo. Ha saputo fare una sorta di mappa molto articolata, e le tesi generali sono basate su analisi precise. Ha cercato di unire la riflessione generale, concettuale dentro l’analisi dei fenomeni più concreti; questa è la forza del pensiero di Gramsci».
Ma adesso Tosel conviene che le sue analisi non possono essere riprese alla lettera, devono essere rivisitate: la punta avanzata dell’industrializzazione non è più l’industria pesante, ma quella della comunicazione.
Anche le forme politiche sono cambiate: «abbiamo delle forme ademocratiche, la democrazia parlamentare è divenuta non democratica perché è lontana dai bisogni e dalle aspettative della gente, è divenuta una specie di classe corporativa che da sola pretende di dirigere un paese che di fatto è sensibile soprattutto agli interessi economici più forti. C’è un blocco economico politico che regge tutto. Questa è una forma politica che Gramsci ancora non poteva conoscere in cui è la figura del popolo ad essere svanita. Il vero problema adesso è sapere se l’idea di una egemonia delle masse subalterne abbia ancora senso».
Tosel spiega come oggi l’epicentro della cultura gramsciana sia anglo-americano e come Gramsci sia stato rivalutato in America latina dove ha avuto un ruolo importante nei movimenti social-democratici che si sono affermati. Ma anche in India antropologi e sociologi analizzano i ceti subalterni attraverso il suo pensiero. «Gramsci aveva capito in anticipo l’importanza di queste categorie e la necessità di far nascere in loro una cultura propria ma combinata con i punti avanzati della cultura moderna».
Tosel nel 1991, a Besançon, organizzò lui stesso un importante e grande convegno sul fondatore del partito comunista. Oggi l’Istituto Gramsci gli dà la possibilità di curare il volume Gramsci in Francia dove riunirà i testi noti e poco noti sull’intellettuale marxista usciti in Francia.
Un progetto importante già cominciato e che continuerà in altri paesi «per mantenere vivo il pensiero gramsciano nel mondo e attualizzarlo, perché non possiamo dimenticare lo sforzo fatto dal marxismo nel secolo passato per capire il mondo e cercare di trasformarlo».

Corriere 4.11.13
San Francesco, uomo nuovo a imitazione fedele di Cristo
Le stimmate, le visioni e le parole supreme del religioso
di Pietro Citati


Credo che la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio (La letteratura francescana vol. IV, La leggenda di Francesco , a cura di Claudio Leonardi, traduzione di Mauro Donnini, commento di Daniele Solvi, pp. XXI-440, Fondazione Lorenzo Valla — Mondadori, e 30) sia la più bella vita di santo conosciuta dalla tradizione cristiana. Come nella vita di Tommaso da Celano (La letteratura francescana , vol. II, Le vite antiche di san Francesco , pp. 614 e 30), san Francesco, quest’uomo piccolo, mite, umile, poverissimo, è l’uomo assolutamente nuovo: mai si giunse così lontano, nella febbrile rincorsa spirituale del futuro.
Più Francesco è nuovo, più affonda nell’antico: imita l’antico; non è altro che l’incessante novità dell’antico. Come l’arcobaleno nella Bibbia, Francesco è il segno della nuova alleanza stabilita tra Dio e gli uomini: è Mosè, Giobbe, Giovanni, Battista, Gesù Cristo, un angelo dell’Apocalisse. In primo luogo, è Cristo: «O uomo veramente cristianissimo — scrive Bonaventura —, che, con perfetta imitazione, si prodigò, per essere confuso, da vivo, al Cristo vivo, da morente, al Cristo morente, da morto, al Cristo morto».
Se leggiamo Bonaventura, e attraverso di lui risaliamo ai Vangeli, e a tutti gli eventi e le parole che stanno prima dei Vangeli, abbiamo l’acutissima sensazione di essere avvolti nel loro profumo e nella loro musica. Mentre Francesco parla, Gesù Cristo torna a parlargli e a parlarci. Non una parola è inesatta, non una parola è sbagliata: tutto ciò che Gesù — Francesco dice, «penetra nelle parti più profonde del cuore, al punto da suscitare un intenso stupore in chi lo ascolta». Gesù Francesco dice e Francesco ripete: «Non portate nulla durante il viaggio»; «Chi vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Così anche noi siamo tentati di rinnegare noi stessi e di prendere la nostra croce, seguendo durante il viaggio chi, duemila anni or sono, aveva percorso, con leggerezza, dolore e un piccolissimo viatico, le strade e le acque di Palestina.
La Legenda maior non è la prima vita di san Francesco. Bonaventura era stato incaricato di scrivere la vita definitiva di Francesco nel Capitolo generale di Narbona del 1260: la sua opera venne approvata nel Capitolo di Pisa del 1263; e nel Capitolo di Parigi del 1266 fu presa la decisione, come era abitudine nel medioevo, di distruggere tutte le biografie precedenti, sebbene la decisione non venisse applicata alla lettera. Mi piacerebbe sapere cosa i francescani trovassero di nuovo nella prosa sublime della Legenda maior . Rispetto a Tommaso da Celano, a Giuliano di Spira, alla Lettera dei tre compagni e agli altri antichi testi anonimi, credo che essi vi ritrovassero una voce perennemente estatica: una mirabile ebbrezza mistica: lacrime e gioia: preghiera ininterrotta: la conoscenza di tutti gli animi umani e delle cose celesti, ottenuta non attraverso la cultura dei libri ma l’immediata rivelazione di Dio; in una parola, come scriveva Bonaventura, «il carbone ardente», il «fulgore eterno» di Cristo. Mi scuso se parlerò soltanto di un episodio della Legenda maior : le pagine dedicate alle stimmate di Francesco.
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Probabilmente nel settembre 1224, due anni prima di morire, Francesco si reca «in un luogo eccelso e solitario», il Monte della Verna, dove rimane quaranta giorni: esso gli richiama alla memoria tre altri monti, il Sinai, dove Mosè aveva ricevuto le tavole della legge, e i due altri monti dove Gesù aveva conosciuto la tentazione e la trasfigurazione. Francesco ama e ricerca i segreti della solitudine e della quiete: vi si dedica liberamente a Dio, «così da ripulirsi se gli era rimasto attaccato un qualsiasi granello di polvere, proveniente dalla vita cogli uomini». In quei giorni viene inondato dalla dolcezza della contemplazione divina, e infiammato ardentemente dal fuoco dei desideri celesti.
Un giorno, Dio gli ispira la lettura del Vangelo. Francesco prende il libro: lo fa aprire tre volte da un compagno; e tutte le volte il Vangelo gli rivela un episodio della passione di Cristo. Allora, Francesco comprende che, se per tutta l’esistenza aveva imitato la vita di Gesù, ora , giunto presso la morte, deve essere «conforme al Signore» nelle sofferenze e nei dolori della passione. È stanco e debole: marchiato dai segni visibili e invisibili della croce: ma non ha nessuna paura, perché egli ha cercato da sempre il martirio, «le fiaccole di fuoco e di fiamme», «l’insuperabile incendio dell’amore di Cristo». La dolcezza della compassione lo trasforma nel suo Signore: senza che nulla accada in apparenza, egli è già spiritualmente crocifisso, con le mani e i piedi forati dai chiodi, e il fianco destro trapassato dalla lancia.
Qualche giorno dopo, di mattina, Francesco ha una visione: come sia Tommaso da Celano sia Bonaventura ripetono. Della visione, esistono due versioni. Tommaso racconta che Francesco, presso il Monte della Verna, vede un uomo «simile a un serafino con sei ali, inchiodato a una croce, con le braccia distese e i piedi uniti»; due ali sono spiegate sopra il capo, due protese per volare, e le due ultime velano tutto il corpo. Tommaso non dice che l’uomo-serafino inchiodato alla croce sia il Cristo: lo pensa certamente e lo ripete più tardi, perché altrimenti la storia delle stimmate non avrebbe avuto significato; ma cela, con una nube di pudore e di discrezione, il nome prodigioso del Signore. Quanto al serafino con sei ali, qualsiasi lettore della Bibbia lo aveva incontrato in Isaia (e in Ezechiele ). I serafini con sei ali, gli incandescenti, erano creature angeliche che si avvicinavano al «carbone ardente» di Dio, senza scorgerlo. Nella letteratura cristiana, il serafino diventò Cristo.
La visione di Bonaventura è completamente diversa: egli non ha nessuno ritegno a pronunciare il nome Signore, anzi lo ripete. Perché, in quella mattina, presso il Monte della Verna, Francesco conosce, secondo Bonaventura, due visioni del Cristo, separate tra loro. Il primo è un serafino con sei ali, «tanto infuocate quanto splendenti», che scende dal cielo in volo rapidissimo: esso è la «sublime similitudine del serafino», avvicinato e opposto «all’umile effige di Cristo». La seconda visione, che appare in mezzo alle ali, vicinissima alle ali, sino quasi a confondersi con esse, è il crocifisso che salì sulla croce nei Vangeli, e ancor ora, nel cielo della Verna, «ha le mani e i piedi confitti a una croce». Il rapporto tra le due figure è «inscrutabile»: possiamo soltanto dire che il Cristo-serafino non sopporta la sofferenza della passione, perché il suo spirito non può accordarsi con essa. Come chiamarlo? Forse potremmo dire, come scrisse Francesco, che il figlio di Dio è per natura «immortale, invisibile, ineffabile, incomprensibile, inaccessibile»: Cristo immortale e ineffabile è il serafino, e a rigore non soffre né patisce, sebbene appaia nella sua paradossale forma angelica. Con queste due figure, Bonaventura esprime mirabilmente l’infinita complessità teologica della sua visione del Figlio.
In Tommaso da Celano, il silenzio avvolgeva il misterioso serafino inchiodato alla croce. In Bonaventura, la prima visione di Cristo, il serafino infuocato e rapidissimo, parla. Non sappiamo cosa dica, ma parla: secondo Francesco, disse «alcune cose che per tutta la vita egli non avrebbe dovuto rivelare a nessuno». «Senza dubbio è da credere — aggiunge Bonaventura — che le parole di quel santo serafino siano state così ineffabili, che forse non era lecito agli uomini proferirle». Qui raggiungiamo la vetta della rivelazione: queste parole taciute rappresentano il culmine ineffabile e incomprensibile, che né Francesco né Bonaventura osano rivelare. Mentre il serafino parla, sorride a Francesco: il suo sorriso è pieno di amabilità e di ammirazione; e Francesco prova letizia davanti a questa gioia sovrannaturale che lo avvolge.
Dopo il radioso sorriso celeste, il racconto si capovolge. La visione, che finora aveva riempito lo spirito di Francesco con le immagini del serafino e del crocifisso, scompare: la mente del santo resta vuota. Qualcuno potrebbe credere che, a causa di questa scomparsa e di questa assenza, egli perda il suo ardore e la sua gioia: forse, la sua stessa fede; mentre, al contrario, la visione, scomparendo, lascia nel cuore «un mirabile ardore».
In questo preciso momento, avvengono le stimmate : parola usata solo da Paolo; vale a dire l’imitazione di Cristo, che ora accade per la prima volta nella storia cristiana. Gesù aveva conosciuto il «martirio della carne»: i chiodi di ferro nelle mani e nei piedi: il colpo di lancia nel fianco, che aveva versato sangue e acqua (solo sangue, secondo Bonaventura). Sopra e attorno a lui, c’erano Dio, i fedeli timorosi, e i soldati che lo torturavano. Nel caso di Francesco, non c’è nulla di esterno: non ci sono fedeli né soldati, e nemmeno un Dio che agisca nel mondo reale. Tutto avviene, a poco a poco, con evidente lentezza, nello spirito, nel cuore e nel corpo di Francesco: la visione incendia lo spirito; la carne, a sua volta incendiata, imita i segni lasciati nel crocifisso, che un momento prima era apparso, presso il Monte della Verna, tra le ali del serafino.
Qualche pagina più tardi, avviandosi alla conclusione della Legenda maior , Bonaventura ci spiega che, in quel momento, presso il Monte della Verna, Dio lavora sul corpo del suo amatissimo santo, come uno scultore-pittore nel più sublime degli atelier. Egli trasforma la carne di Francesco: escrescenze, simili a teste di chiodi di ferro, rotonde e nere, fuoriescono nella parte interna delle mani e in quella superiore dei piedi; mentre le punte dei chiodi di carne, allungate, ritorte e ribattute, si ripiegano sulla parte opposta della ferita.
Qui Bonaventura riprende, quasi alla lettera, una pagina di Tommaso da Celano: tutto è minuziosissimo e dettagliatissimo; mentre, poco prima, aveva rivelato con oscura rapidità i segreti più profondi della sua cristologia. Questa minuzia visiva non deve stupirci. Le stimmate sono anche un’opera d’arte: un capolavoro d’arte divina; quei chiodi rotondi e neri come il ferro, che imprimono il loro nero nella carne bianchissima di Francesco, quella ferita del fianco che rosseggia come il fiore rotondo della rosa primaverile, suscitano «piacere e ammirazione» in tutti coloro che contemplano il corpo vivo e morto di Francesco.
«Siccome è cosa buona tenere nascosto il segreto del Re», Francesco vuole celare le stimmate: specialmente la ferita del fianco, che per lui, come per il Vangelo e la prima lettera di Giovanni, possiede un importantissimo valore simbolico. Dio vuole che le stimmate vengano rivelate: Bonaventura obbedisce al volere di Dio; e racconta, specie nell’appendice della Legenda , una serie di miracoli che mostrano la forza prodigiosa dei segni sacri. Una sola cosa resta nascosta: le parole pronunciate dal serafino con sei ali, presso il Monte della Verna. Proprio perché esse sono assolute parole del Cristo supremo, e contengono probabilmente il segreto della Legenda , Francesco e Bonaventura pensano che «non sia lecito agli uomini di proferirle».

l’Unità 4.11.13
I falsari della ricerca
di Pietro Greco


«How science goes wrong». Il coloratissimo titolo dominava la prima pagina della più nota e diffusa rivista economica del mondo, The Economist, sulla prima pagina. Annunciando un dossier, piuttosto lungo, sul «come la scienza sbaglia».
O, meglio ancora, su «come la scienza funziona male».
L’intervento ha scatenato una miriade di reazioni, anche sui media italiani. E, anche se il tema non è nuovo, giunge più che mai opportuno. Per due motivi. Il primo è che la copertina di The Economist, ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza occupa un ruolo decisivo nella società e nell’economia del mondo. E che il suo funzionamento interno non è questione da tecnici, ma può ben occupare la copertina di una delle poche riviste globali. Per dirla in una battuta, The Economist ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza è questione troppo seria per lasciarla ai (soli) scienziati. Il secondo motivo che torna a merito di The Economist è di averci ricordato come la scienza o meglio, la comunità scientifica mondiale, con le sue prassi e i suoi valori è nel bel mezzo di una transizione epocale. Anche se, bisogna dire, gli estensori del dossier non hanno colto tutta la dimensione del cambiamenti. E, di conseguenza, non hanno colto tutte le ragioni che inducono (che sembrano indurre) la comunità scientifica a sbagliare più che in passato e le prassi scientifiche a funzionare peggio che in passato.
Il succo dell’analisi di The Economist, fondata su alcune recenti ricerche scientifiche (e già, la scienza sa indagare su se stessa senza indulgenza), è che molti degli articoli scientifici pubblicati su alcune decine di migliaia di riviste in tutto il mondo sono piene di errori, metodologici e di contenuto, e presentano risultati né verificati né verificabili. Questa situazione costituisce un pericolo sia per il corretto funzionamento della scienza, sia per la sua credibilità. Ma, soprattutto, costituisce uno spreco di denaro, spesso pubblico, e un danno per l’umanità. Perché procedure più corrette consentirebbero di migliorare la qualità della spesa e di produrre risultati migliori a beneficio dei cittadini del pianeta. È vero che anche in passato, riconosce The Economist, non sono certo mancati gli errori e persino le frodi scientifiche. Ma ora la patologia sta diventando più estesa e diffusa.
Le cause individuate dai redattori della rivista sono essenzialmente tre. Una è che gli scienziati sono chiamati a confrontarsi con una massa crescente di dati e non hanno ancora acquisito una matura cultura statistica per gestirli. Una seconda ragione è che sta crescendo la competitività scientifica a livello globale e il «public or perish» (pubblica o altrimenti muori), induce, appunto, a pubblicare qualsiasi cosa, anche non rigorosa, anche talvolta falsa. Terzo, è che né le riviste né le istituzioni scientifiche hanno interesse a verificare se le metodologie sono corrette e i risultati pubblicati verificabili. La situazione fotografata da The Economist è reale. E certamente le tre cause indicate colgono parti di verità. Ma, appunto, solo una parte della verità. E, dunque, ci danno un’informazione un po’ deformata sulla ricerca scientifica. Che, come dicevamo, è nel bel mezzo di una trasformazione epocale. Per tre motivi. Mai la ricerca scientifica ha avuto così tante risorse: il 2% del Prodotto interno lordo mondiale, pari a quasi 1.500 miliardi di dollari nel 2012. Con queste risorse possono lavorare oltre 7 milioni di ricercatori: cento volte di più che un secolo fa. I ricercatori di oggi sono superiori alla somma di tutti gli scienziati vissuti nelle epoche precedenti. Con tante risorse, finanziarie e umane, le vecchie e consolidate procedure funzionano necessariamente meno bene.
La seconda trasformazione riguarda la scienza finanziate dalle imprese private. I due terzi degli investimenti in ricerca nel mondo (circa 1.000 miliardi di dollari) sono a opera di privati. Tutto questo sta modificando la griglia di valori di una parte della comunità scientifica (quella finanziata con fondi privati). E pone spesso in conflitto l’interesse privato (il segreto, il profitto) con quello pubblico (la trasparenza, il beneficio per tutti). La terza trasformazione riguarda l’internazionalizzazione. Fino a cinquanta anni fa, tre scienziati su quattro vivevano o in Europa o in Nord America: un mondo culturalmente omogeneo. Oggi più della metà degli scienziati vive in Asia. L’universo culturale è cambiato e si è differenziato. Difficile che le regole e i valori che vigevano in Europa e in quell’estensione dell’Europa che è il Nord America possano funzionare senza incrinature in una comunità finalmente globale. In definitiva, la scienza è in piena crisi di crescita. Come potrebbe non avere problemi? A tutto ciò si aggiunga il fatto che la ricerca scientifica costituisce il motore dell’economia di gran parte del pianeta (Italia, ahinoi esclusa): dei Paesi di antica industrializzazione e dei Paesi a economia emergente. Per cui sui ricercatori, pubblici e privati, si esercitano pressioni enormi, del tutto sconosciute in passato.
Per questo un acuto osservatore della società scientifica, il fisico teorico John Ziman, sosteneva che la scienza vive una nuova fase storica, post-accademica, profondamente interpenetrata con il resto della società. Diversa dalla fase accademica vigente fino alla seconda guerra mondiale, quando gli scienziati vivevano e si sentivano isolati e ben protetti in una «torre d’avorio». Ma al netto di tutto ci sono ancora due considerazioni da fare. La prima è che quella scientifica, per quanto cresciuta e globalizzata, è una comunità che ha una capacità senza pari di indagare se stessa, di scoprire dove sbaglia e di autocorreggersi. Ne ha dato prova nei mesi scorsi l’esperimento Opera, che aveva rivelato presso il Gran Sasso dei neutrini che sembravano viaggiare a velocità superiore a quella della luce. Ha diffuso questi risultati che, se veri, avrebbero costituito una pietra miliare nella storia della fisica. Ma lo ha fatto con prudenza. E, soprattutto, si è messo alla ricerca di un possibile errore. La ha trovato. E, anche se era un errore banale, non ha avuto paura di metterci la faccia e di riconoscerlo. Quale altra comunità avrebbe fatto altrettanto?
Ma, al di là dell’onesta individuale che, sia detto per inciso, tra gli scienziati è in media superiore di gran lunga alla media c’è un altro fattore che ci deve far continuare ad avere fiducia nella scienza. La storia della ricerca è piena zeppa di errori o di studi irrilevanti. Ma le conoscenze più solide e profonde sopravvivono per selezione naturale, e indipendentemente dai comportamenti dei ricercatori. La selezione non è deterministica, ma è efficiente. Tant’è che la scienza, pur con i suoi difetti, è la forma di conoscenza umana più produttiva e solida che si conosca.

il Fatto 4.11.13
“Le donne saranno la salvezza”
di Rania di Giordania
*

"La crisi finanziaria ha lasciato un'ombra, che incombe su di noi. Sono andati persi migliaia di posti di lavoro. E migliaia di miliardi sono stati spesi per salvare l'economica globale. Cosa può contribuire a invertire la rotta? A cancellare lo spettro della crisi finanziaria dalla nostra vita, e a tornare un mondo sostenibile? Una sola parola: le donne. Per anni nella cittadella della teoria economica, le donne sono state cittadine di seconda classe. La gente ha semplicemente accettato che gli uomini controllassero il denaro, dai fondi per la casa, alle finanze nazionali. Ma i tempi stanno cambiando. Secondo le previsioni, le donne possono dare la più forte spinta all'economia globale nella storia dell'umanità: un'espansione più potente della crescita di Cina e India messe assieme. Sì, le donne sono in ascesa. Ma c'è un altro lato di questa storia. Mentre sempre più donne guadagnano salari alti e raggiungono posizioni elevate, altre milioni di ragazze rimangono tagliate fuori dal lavoro. Viene negata loro la possibilità di esprimere il loro potenziale. Nel mondo arabo, le nostre donne sono fin troppo abituate a questo. Il loro tasso di partecipazione nel mondo del lavoro è uno dei più bassi al mondo. Il loro potenziale è sprecato. I loro talenti sono sprecati. Questa ingiustizia è globale. In altre parole, le donne oggi rappresentano due lati del mondo: essi sono il volto della ripresa globale e insieme il volto della povertà globale. Il problema è complesso, ma la soluzione è più semplice di quanto si possa pensare: istruzione. Non possiamo permetterci di continuare a buttare via così tanto potenziale umano".
   Tratto dal discorso della regina di Giordania, Rania Al Abdullah, pronunciato a Roma il 22 ottobre 2009, in occasione del Premio Marisa Bellisario.

il Fatto 4.11.13
Uomo donna e dio
Islam, tutto è concesso nei confini del matrimonio
di Giulia Zaccariello


Il filo rosso che non va mai oltrepassato si chiama nikah: il matrimonio islamico tra un uomo e una donna. Dentro quel confine, una coppia musulmana può abbandonarsi a ogni piacere del corpo. Con l'unica eccezione della sodomia, nella vita sessuale degli sposi il Corano concede quasi tutto, dalla contraccezione ai giochi erotici. In una visione dell'amore che appaga i sensi e non obbliga al concepimento. Ma è fuori dalle mura di casa, dove termina il legame coniugale, che si alzano i divieti, si cancellano i diritti, si allargano le disuguaglianze tra i generi. E che sui costumi si stringono le maglie della morale e quelle delle leggi. In una continua ricerca di equilibrio tra tradizione e modernità, tra passato e presente.
MATRIMONIO. Non c'è solo quello classico, quello del “fino a che morte non vi separi”. Nella tradizione sciita esiste anche il mut'a, ossia il matrimonio di piacere, una sorta di unione a tempo determinato che può durare, a seconda delle esigenze, 1 giorno o 10 anni. Non ha bisogno di riti o cerimonie, può essere stipulato con un accordo verbale davanti a due testimoni ed è ripetibile più volte nella vita. In Iran, ad esempio, è noto come sigheh e negli ultimi anni ha subito un vero e proprio boom, diventando un business per decine agenzie specializzate nella ricerca di aspiranti sposi a termine. A scegliere questa formula sono soprattutto quei giovani, che non si sentono pronti per le nozze ma desiderano comunque avere rapporti sessuali, senza violare i dettami religiosi. Oppure uomini già sposati, che in questo modo possono giustificare relazioni con più donne, dando vita, talvolta, a delle forme di poligamia.
ADULTERIO. Il Corano vieta qualsiasi piacere carnale fuori del matrimonio. Compreso l'autoerotismo. È considerato peccato dalla Sharia. Ma più grave è l'infedeltà coniugale, reato in quasi tutti i codici penali dei paesi islamici. In molti casi punito con pene severissime. In Iran, ad esempio, ogni anno vengono lapidate a morte decine di donne. Anche in Arabia Saudita chi ha un rapporto sessuale, anche se frutto uno stupro, con un uomo diverso dal compagno rischia la condanna capitale. Discorso simile vale per alcune forme di trasgressione, come lo scambismo. In Egitto, ad esempio, una coppia alla ricerca di altri partner può finire in carcere.
CONTRACCEZIONE E ABORTO. Sono due terreni, in cui le norme coraniche lasciano ampie libertà. Ovviamente sempre restando nell'ambito del matrimonio. Sono ammessi sia l'uso del preservativo, sia quello della pillola. Mentre l’interruzione di gravidanza è lecita solo in alcuni casi: dopo uno stupro o un incesto, quando è a rischio la salute della donna, o quando i genitori non hanno i mezzi per mantenere il bambino. Tra i primi paesi islamici ad aver regolamentato l'aborto c'è la Tunisia, dove una donna può chiedere di interrompere la gravidanza in ospedale o in cliniche autorizzate, entro i primi 90 giorni.
DIVORZIO. Nei paesi più integralisti, come Arabia Saudita e Iran, si chiama talaq. Ossia, ripudio. È il diritto, riservato agli uomini, di interrompere il matrimonio all'improvviso e senza motivazioni, e di sposare un’altra donna. Le mogli invece possono chiedere lo scioglimento del legame solo se riescono a provare gravi mancanze del compagno. Il ripudio, da alcuni anni al centro di proteste e dibattiti tra conservatori e progressisti, è stato abolito in Algeria e in Tunisia. Mentre nel 2004 il Marocco ha approvato un nuovo codice, chiamato Mudawana, che punta a regolare diversi aspetti della vita familiare, tra cui anche le separazioni, parificando i diritti dell'uomo e della donna.
OMOSESSUALITÀ. Se in generale la sodomia è vietata anche tra uomo e donna, i rapporti tra persone dello stesso sesso sono perseguitati in gran parte del mondo musulmano. Secondo i dati di Amnesty International in sette paesi islamici, Arabia Saudita, Iran, Mauritania, Sudan e Yemen, Nigeria e Somalia, i gay rischiano la pena di morte. Nel migliore dei casi, come in Egitto e in Turchia, l’omosessualità non è considerata un crimine, ma resta comunque difficile per la comunità Lgbt vivere alla luce del sole.

Corriere 4.11.13
Le radici mitiche e sacre dei tre enigmi di Turandot
La tradizione antica in un’inedita interpretazione
di Paolo Isotta


Al Teatro dell’Opera di Roma è andata in scena in questi giorni la Turandot , l’ultima e incompiuta Opera di Giacomo Puccini.
L’allestimento, originariamente del Teatro Petruzzelli di Bari, si deve, sulle scene meravigliose di Nicola Rubertelli e coi costumi meravigliosi di Odette Nicoletti, al grande compositore Roberto De Simone per la regia. Questi detta un preziosissimo saggio di carattere mitologico, egli essendo anche un mitologo e storico della mitologia e autore di un volume su Virgilio. La Fiaba di Carlo Gozzi, tradotta in tedesco da Federico Schiller e ritradotta in italiano da Andrea Maffei, l’amico di Verdi, è la fonte ultima di Adami e Simoni, i peritissimi poeti che stesero a Puccini il Dramma da lui musicato; ma De Simone risale alle fonti e si spinge fino ai tempi preistorici pei quali la Fiaba «affonda le sue radici in arcaici miti cosmogonici che riguardano il Sole e la Luna nel loro continuo alternarsi ciclico di vita, morte, rinascita. Il tema riguardante gli enigmi rimanda a lontani riti iniziatici nei quali rientra il noto episodio della Sfinge che pone a Edipo una medesima prova da superare per potere sposare la regina Giocasta. L’elemento del nome da indovinare si connette alla sacralità del nome nascosto, di un mantra, di una divinità, di un eroe e non al reale nome assunto comunemente da tale eroe o da un dio. Conoscere il nome misterico di un’entità celeste o infera equivale ad avere in proprio potere l’essenza, l’anima dell’eroe o del dio stesso».
Quest’allestimento è uno dei più belli che si siano mai visti, non della Turandot , dico, in assoluto. Le porte della reggia son poste al sommo d’un’alta scalinata e su di essa è il fatale gong che il principe Calaf percote per sacrarsi alla morte o alla vittoria. La scena è occupata anche da simulacri di soldati in terracotta. Turandot appare la prima volta, invisibile quasi, circonfusa di luce e d’incenso. Sincretismi vedici e buddhisti arricchiscono l’allestimento caratterizzato da un minuzioso ritualismo avvolgente anche l’esecuzione al I atto del Principe di Persia.
Sul podio il maestro Pinchas Steinberg. Egli rifinisce straordinariamente la concertazione rendendola una festa timbrica ma al tempo stesso prosciuga i ritmi senza sottolinearne abusivamente la modernità e domina l’insieme con eccezionale autorità. Per trovare una Turandot altrettanto ben diretta debbo andare con la memoria agli anni Settanta e a uno dei più grandi musicisti che abbia in vita mia conosciuti, nonché uno dei più preziosi amici, il pianista, compositore e direttore d’orchestra Franco Mannino.
La compagnia di canto è eccezionalmente assortita. La protagonista, autentico soprano drammatico che ricorda Gina Cigna, è Evelyn Herlitzius, ossia l’indimenticabile Ortruda del Lohengrin datosi alla Scala il 7 dicembre scorso; e che nell’attuale stagione sarà Elettra. Calaf è l’ottimo tenore Marcello Giordani. Carmela Remigio interpreta molto bene Liù. Il meraviglioso basso Roberto Tagliavini è Timur. Chris Merritt, tenore qualche decennio fa temerario nell’affrontare ruoli a lui vietati, è Altoum e qui è perfetto per aver egli voce di «monaca vecchia». Simone Del Savio, Saverio Fiore e Gregory Bonfatti sono il terzetto delle Maschere, equilibrato come poche volte s’è visto. Gianfranco Montresor è il Mandarino degli annunci («Popolo di Pechino!»)
Tutti sanno, per averlo io scritto molte volte, che di quest’Opera esiste un Finale convenzionale, dovuto a Franco Alfano, che Toscanini abusivamente ridusse fino a stravolgerne la linea compositiva. Ma l’autentico Finale-Alfano adesso è disponibile e io mi batto da quando lo è affinché venga eseguito. Questa volta la Turandot è rappresentata senza «alcun» Finale, arrestandosi essa al Mi bemolle dell’ottavino, ultima nota scritta dall’Autore. (Ricordo in via incidentale non esser vero che l’Opera sia incompiuta per il subentrare della morte di Puccini: egli morì senza esser riuscito a scrivere un Finale.) Alle mie rimostranze il maestro Alessio Vlad, Direttore Artistico, ha obbiettato: esser Alfano il più grande compositore italiano del Novecento; il suo Finale esser un tale capolavoro compositivo da dover essere eseguito a sé in forma di concerto. E io non finisco mai d’imparare.

Corriere 4.11.13
La poesia della fisica
di Sandro Modeo


Come molti altri libri disponibili sull’argomento, anche quello del Nobel Leon Lederman e di Christopher Hill privilegia fin dal titolo «Fisica quantistica per poeti» (Bollati Boringhieri, pagine 328, e 24) gli scarti controintuitivi e le suggestioni estetiche di una teoria contrastata dallo stesso Einstein — che pure aveva contribuito a generarla — per la sua «apparenza sovrannaturale». Lederman e Hill si caratterizzano, però, sia per la concretezza metaforica (vedi il bicchiere pieno d’acqua o di sabbia fine per distinguere il «continuo» dal «discreto», l’onda dalla particella), sia per una cautela estesa dal livello astratto-speculativo (la teoria delle stringhe) a quello applicativo (la crittografia e i computer quantistici). In questo modo, anche le implicazioni filosofiche (gli «abissi dei fondamenti» intesi come i rapporti tra la «pesantezza» della fisica classica e la «spettralità» di quella subatomica) evitano facili tentazioni da metafisica new age. Poesia sì, ma sempre al confine con la prosa.

il Fatto 4.11.13
Un nuovo libro di Aldo Cazzullo
Basta piangere, possiamo ancora farcela
di Furio Colombo


Lo leggi volentieri un libro di Aldo Cazzullo, perchè, da buon giornalista con grande seguito, quasi sempre a metà strada tra il reporting e la riflessione, ti racconta in modo preciso cose che sa.
In altre parole, Cazzullo non rovescia il mondo. Lo prende così com’è e lo spiega. E non guasta la gentilezza un po’ pedagogica con cui l’autore si rivolge al lettore. L’ho letto volentieri e vorrei spiegare perché, a momenti, con dissenso.
Il libro è Basta piangere, Storia di un’Italia che non si lamentava (Mondadori, Strade Blu). Il titolo dice bene: c’era una volta un Paese che ha affrontato e superato durissime prove, sempre con una gran voglia di fare, molta fatica, molto talento, alcuni colpi di genio, un diffuso coraggio, misto a ostinazione e alla persuasione di farcela.
Sono in grado, da testimone e partecipe della incredibile stagione italiana della ricostruzione, del “boom” e poi dell’Italia benestante che è sorta quasi per incanto su rovine e povertà, di dare atto a Cazzullo, tanto più giovane e dunque informato più da libri e da film che da esperienza diretta di quegli anni, che la sua narrazione è del tutto attendibile, ben documentata e ben narrata. Ma c’è, a volte implicito, a volte apertamente proclamato, un ammonimento che non sono sicuro di condividere: adesso, invece, ci troviamo in una Italia che si piange addosso tutto il tempo, per ragioni serie e per ragioni futili, e che non sa più ritrovare il polso fermo, la determinazione, la forza, con cui questo Paese è risorto da qualcosa di molto peggiore di una pur grave crisi economica e politica. Leggendo, mi sono ricordato di un viaggio ad Haiti, molti decenni fa, quando in quella sfortunata isola c’era ancora la dittatura di Papa Doc.
L’AUTISTA DEL TAXI che avevo noleggiato per alcuni giorni all’aeroporto, mi appariva sempre molto triste. Un giorno gli ho chiesto come mai. “Signore - mi ha risposto - le assicuro che non ho alcuna ragione per essere felice”. È stata l'unica frase della nostra conversazione. Ha scritto quasi la stessa storia il commentatore del New York Times, Frank Bruni (26 ottobre), in un articolo dedicato all’Italia: “Sono abituato, in questo Paese, a un pessimismo teatrale, a un certo diffuso compiacimento di dire male di se stessi. Questa volta è diverso”. Lo spiega in tre paragrafi: Berlusconi e il suo ridicolo disastro; i governi tentennanti che non trovano una via d'uscita; l’impressione diffusa di avere perso il futuro. “Basta piangersi” è un invito giusto e legittimo. Come l’autista di Haiti, il giornalista americano, dopo il suo giro nella penisola, si è convinto che per noi sarà un po’ difficile. Temo che abbia ragione.

La Stampa 4.11.13
Quando Annibale mangiava ananas in America
Secondo lo storico della scienza Lucio Russo il Nuovo Mondo sarebbe stato scoperto già nell’antichità, forse dai Cartaginesi
Una tesi fondata su ragioni di metodo, con qualche punto debole
di Alessandro Barbero

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