mercoledì 6 novembre 2013

l’Unità 6.11.13
Smuraglia, Anpi:
il 24 in piazza contro la modifica del 138


Il presidente nazionale dell'Anpi Carlo Smuraglia invita tutti i cittadini a mobilitarsi il 24 novembre, nelle piazze italiane, per opporsi alla riforma dell'art. 138 della Costituzione.
Smuraglia denuncia: «Si vuole togliere l'ultima parola ai cittadini su una norma di garanzia costituzionale» e che «In una situazione di diffusa indifferenza, ci si appresta a compiere uno strappo vero e proprio alla nostra Costituzione».
«Fra poco più di un mese - conclude -, la Camera voterà, in terza ed ultima lettura, le modifiche dell'art. 138 della Costituzione; e se lo farà con una maggioranza che superi i 2/3 non ci sarà la possibilità di promuovere un referendum».

l’Unità 6.11.13
Quattro ore di sciopero generale proclamate il 21 ottobre da Cgil, Cisl e Uil
Lo sciopero è pronto. L’Authority chiede garanzie
di Massimo Franchi


Nel giorno in cui arriva il calendario completo degli scioperi generali territoriali definiti, il garante bacchetta (su «un rischio paralisi nei servizi pubblici») i sindacati, che rispondo prontamente.
La gestione delle quattro ore di sciopero generale proclamate il 21 ottobre da Cgil, Cisl e Uil è stata demandata ai livelli territoriali dei sindacati. Così lungo la Penisola l’astensione dal lavoro e le manifestazioni si concentrano tra il 12 e il 15 novembre, ma con modalità spesso diverse da provincia a provincia. A metà mese poi si riuniranno i direttivi unitari dei confederali per fare il punto sugli esiti della mobilitazione e decidere altre eventuali forme di pressione.
I primi a scioperare saranno i lavoratori di Cosenza l’11 novembre, mentre per rimanere alle città più grandi a Roma si sciopererà il 13 novembre, a Milano il 15 novembre così come a Bologna, mentre tutta la Toscana sciopererà il 13, l’intera Campania il 15. Il calendario non è ancora completo, ma manca soprattutto la decisione ufficiale del settore dei lavoratori pubblici che dovrebbe decidere di raddoppiare le ore di sciopero portandole ad otto e dunque all’intera giornata.
Come anticipato, ieri poi il presidente dell’Autorità di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici, Roberto Alesse ha inviato una lettera ai segretari nazionali di Cgil, Cisl e Uil, sottolineando il «rischio paralisi nei servizi pubblici». L’oggetto del contendere è appunto quello delle «adesioni, a livello territoriale o di categoria, che estendono la durata dello sciopero a 8 ore, in contraddizione con quanto indicato dalle Confederazioni, integrando, in tal modo, la violazione della regola della rarefazione oggettiva (legge 146 del 1990 e successive modificazioni)», visto che ciò «è permesso solo nel momento di proclamazione dello sciopero». In più, continua Alesse, «lo sciopero generale ha un effetto annuncio del tutto particolare e gli utenti hanno diritto di conoscere in anticipo la durata dell’interruzione dei servizi pubblici», «mentre nei comparti scuola e Regioni autonomie locali, lo sciopero di durata inferiore all’intera giornata lavorativa deve essere limitato ad una sola ora e può essere effettuato solo nella prima o nell’ultima ora di lezione». La lettera si conclude ricordando che «in caso di inottemperanza, la commissione deve procedere alla valutazione del comportamento nei confronti dei soggetti sindacali che si rendono responsabili delle richiamate violazioni».
Passano poche ore e arriva la risposta unitaria di Cgil, Cisl e Uil. «Rassicuriamo il presidente della Commissione di garanzia, stiamo verificando la presenza di eventuali distonie, ma come sempre, anche in questa occasione garantiremo il pieno rispetto dei servizi pubblici essenziali, così come previsto dalla legge».

l’Unità 6.11.13
Congresso Pd, ancora scontro sui tesserati dell’ultimo minuto
Cuperlo rilancia la proposta di chiudere le iscrizioni. No di Renzi
Confronto televisivo tra gli sfidanti in campo la sera del 29 su Sky
di Simone Collini


ROMA Ci sarà un confronto televisivo, prima delle primarie dell’8 dicembre, e a trasmetterlo dovrebbe essere SkyTg24 la sera di venerdì 29 novembre. A dare l’ok alla proposta del canale satellitare (si erano fatte avanti anche Rai e tv private) sono stati tutti e quattro i candidati alla segreteria del Pd, anche se alla sfida ai gazebo dovrebbero arrivare soltanto i tre proclamati dalla convenzione del 24 novembre (lo statuto del partito prevede che siano ammessi «i tre candidati che abbiano ottenuto il consenso del maggior numero di iscritti purché abbiano ottenuto almeno il 5% e, in ogni caso, quelli che abbiano ottenuto almeno il 15% e la medesima percentuale in almeno cinque regioni»).
Già alla fine del primo round, però, la partita appare chiaramente come una corsa a due tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo, che tra l’altro sono gli unici due che rilanciano via Twitter lo slogan scelto dal Pd per queste primarie: «#iovotoperché se ci proviamo insieme possiamo finalmente #cambiareverso all’Italia», scrive il primo, «#iovotoperché dobbiamo ridare valore alla parola SEGRETARIO e costruire un Pd #BelloeDemocratico», scrive il secondo (tra l’altro al comitato Cuperlo non è piaciuto il fatto che la parola «segretario» non compaia nella campagna per le primarie, che servono proprio ad eleggere questa figura del partito).
BATTAGLIA SUI NUMERI
Intanto però continua la battaglia sui numeri. Chiusa la fase in cui si dovevano eleggere i segretari di federazione, i comitati dei due candidati continuano a intestarsi entrambi la vittoria e a sfornare cifre che vengono però reciprocamente smentite. In attesa che venga fatta chiarezza oggi, quando dopo aver riunito la segreteria Guglielmo Epifani incontrerà insieme a Davide Zoggia la stampa per illustrare la lista degli eletti e i prossimi passaggi congressuali, quel che è certo è che i nuovi segretari provinciali sono vicini o a Cuperlo o a Renzi, uno è vicino a Pippo Civati e nessuno a Gianni Pittella. Un equilibrio che difficilmente muterà, quando da domani al 17 gli iscritti voteranno per il segretario nazionale (lo statuto prevede infatti questo primo passaggio, prima delle primarie aperte).
Il nervosismo tra i due schieramenti sta crescendo e dopo la riunione di ieri sera della commissione congressuale dovrà essere la segreteria, questa mattina, a trovare il modo per riportare la calma attorno alle questioni del conteggio dei segretari provinciali e dei tesseramenti contestati. Epifani vuole togliere enfasi alla discussione sulle iscrizioni gonfiate, e farà un appello a tutte le anime del partito, presenti in segreteria, ad abbassare i toni. Non sarà però facile raggiungere l’obiettivo, a giudicare dallo scambio di battute delle ultime ventiquattr’ore. Il responsabile della campagna di Cuperlo, Patrizio Mecacci, dice che non vuole fare «guerre sui numeri» però ribadisce che tra i segretari di federazione sono nettamente di più quelli vicini al deputato triestino: «Sono dati pubblici e si possono consultare». La replica arriva per bocca del deputato renziano Francesco Bonifazi: «Se davvero pensa che sia finita 49 a 35 dica quali sono i 49 e quali sono i 35, altrimenti taccia perché con questo atteggiamento sta soltanto provando a rovinare il congresso».
Un’altra polemica innescata tra i due schieramenti riguarda il ruolo degli iscritti, che «non sono una nomenklatura chiusa» dice Mecacci. E Matteo Orfini: «Trovo sbagliatissimo che Renzi dica chissenefrega tanto ci sono le primarie, perché questo menefreghismo è rivolto a centinaia di migliaia di militanti che consentono la vita del Pd». Polemica infondata per i renziani, che replicano con David Ermini: «Chi ha mai detto chi se ne frega? Matteo ha tenuto un comportamento assolutamente responsabile e sereno e questo spirito prevarrà in tutto il percorso del congresso».
I due sfidanti si tengono fuori da queste schermaglie. Cuperlo però rilancia la proposta di non lasciare aperto il tesseramento fino all’ultimo momento utile per votare il segretario. «Sono preoccupato confessa dobbiamo avere a cuore gli iscritti e rinnovo l’appello a fermare il tesseramento almeno il giorno 7 novembre per evitare questi fenomeni». Renzi rimane però contrario.
I «fenomeni» a cui fa riferimento lo sfidante del sindaco sono quelli di cui da giorni si parla sui giornali, le denunce di tesseramenti gonfiati che stanno provocando ricorsi su ricorsi indirizzati da ogni parte d’Italia alla commissione congressuale e alla commissione dei garanti. Si tratta di casi isolati, spiegano al Nazareno sottolineando che alla fine gli iscritti non supereranno i 500 mila dello scorso anno e i votanti saranno compresi tra i 300 e i 350 mila. Dal territorio però continuano ad arrivare notizie di congressi revocati (come al Prenestino di Roma) o contestati dai renziani (come a Cosenza) o dai cuperliani (come quello di Asti, dove però i renziani insistono sul fatto che il boom di iscritti albanesi è fisiologico in una città dove è presente una comunità albanese di 7 mila persone che nella vita del partito «ha sempre avuto un ruolo attivo»). Casi (insieme a quelli di Rovigo, Ragusa, Crotone e altri) di cui si stanno per ora occupando le commissioni di garanzia regionali, prima che la pratica passi al nazionale.

Repubblica 6.11.13
Pd, allarme per il caos congressi
Sette segretari a rischio revoca
Epifani: così gli elettori scappano
E Bersani gela Letta: non ce la fa a rilanciare il Paese
di Giovanna Casadio


ROMA — «Vediamo di mettere ordine nei tesseramenti gonfiati e nei primi risultati dei circoli. Ma soprattutto non creiamo sfiducia negli elettori». La preoccupazione di Epifani è che la base del partito, i simpatizzanti, si allontanino dal Pd, piombato nel caos congressuale. L’inquinamento delle tessere è uno scandalo e soprattutto getta discredito in un partito già infragilito dalle larghe intese di governo e dalle spartizioni correntizie. Perciò ieri sera la commissione per il congresso ha discusso dei sette “casi” più inquietanti - tra cui Cosenza, Siracusa, Asti - per intervenire là dove ci siano state degenerazioni, anche annullando i congressi se occorre. E stamani la segreteria convocata da Epifani tenterà appunto di mettere pace.
Ma lo scontro tra Renzi e Cuperlo continua. Non solo su chi ha vinto e chi ha perso nei primi risultati congressuali, cioè nelle federazioni provinciali, ma anche sul tesseramento gonfiato. Il timore dei renziani è che si accentui un trend negativo alle primarie dell’8 dicembre. Dal 2005 in poi - calcola Antonio Funiciello - gli elettori ai gazebo sono andati diminuendo. Tuttavia è sullo stop ai tesseramenti che salgono le tensioni. A proporre la sospensione è Gianni Cuperlo, lo sfidante del sindaco “rottamatore” che è super favorito nella sfida per la segreteria. «Non vogliofare polemiche sui dati, piuttosto sono preoccupato del tesseramento. Dobbiamo avere a cuore gli iscritti, e rinnovo l’appello a fermare il tesseramento almeno il 7 novembre per evitare questi fenomeni», è la richiesta di Cuperlo. Niente da fare per Renzi. E intanto l’ex segretario Bersani critica il governo: «Non fa ripartire il paese, va bene per affrontare l’emergenza ma non ridà fiducia». Insomma una svolta è necessaria e comunque (è quanto afferma nel libro di Bruno Vespa) un esecutivo con i 5Stelle «non avrebbe fatto meno strada».
Sul tesseramento, Ettore Rosato, renziano, avverte che la decisione è stata presa nell’Assemblea del partito e non si può stracciare: «Cuperlo mira a fossilizzare il congresso agli iscritti del passato». Contrattacca Alfredo D’Attorre: «Non si capisce perché Renzi si presti al gioco dei tesseramenti gonfiati, invece di accettare un alt prima che si vada alla Convenzione». La Convenzione è il momento in cui gli iscritti sceglieranno i tre candidati (in corsa ora sono in quattro, con Pippo Civati e Gianni Pittella), che andranno alle primarie dell’8 dicembre. Sarà quello il primo dato politico del congresso, poiché gli sfidanti supereranno la prova con una percentualedi consensi che fotograferà il loro gradimento nel corpo vivo del partito. O almeno di quel che ne resta, se non si riescono a evitare gli inquinamenti dei finti tesseramenti.
Anche sui neo segretari provinciali il contenzioso è aperto. Irenziani dicono di avere vinto 47 a 38, dati non definitivi. I cuperliani l’esatto contrario. «Non mi piace questo gioco, perché le dinamiche territoriali sono diverse da quelle nazionali, ma se proprio si vuole almeno non si bari», si sfoga Lorenzo Guerini, ex sindaco di Lodi, renziano, che ricorda come a Lodi il segretario sia unitario e così a Cremona e a Como. «Stanno provando a rovinarci il congresso, ma non ci riusciranno», denuncia un altro renziano, Francesco Bonifazi. Mentre i cuperliani Nico Stumpo, Matteo Orfini parlano di un Renzi che «se ne frega dei militanti». Antonello Giacomelli rimbecca: «I segretari dei circoli rispondono a dinamiche locali». E i candidati alla segreteria il 29 novembre dovrebbero sfidarsi in tv, accettando l’invito diSky.
La campagna per le primarie sarà comunque all’insegna del risparmio. «Super low cost», la definisce Roberto Cuillo, segnalando che il tetto è stato fissato in 250 mila euro. Lo slogan è “Io voto perché”, già hashtag su twitter. Sia Renzi che Cuperlo twittano. «Io voto perché se ci proviamo insieme possiamo finalmente cambiare verso all’Italia» (Renzi); «Io voto perché dobbiamo ridare valore alla parola segretario e costruire un Pd bello e democratico». Sul web anche ironie perché il sindaco di Firenze ha lanciato in rete l’appello a cambiare verso alle cose che non vanno. Ciascuno si sbizzarrisce.

Corriere 6.11.13
Cuperlo-Renzi, un nuovo fronte
Sospetti sui cartelloni per le primarie
L’obiezione: la campagna non spiega che si vota il segretario e non il premier
di Monica Guerzoni


ROMA — È scontro sempre più aspro tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo. Si litiga sul numero di segretari provinciali conquistati, ci si azzuffa sul tesseramento gonfiato e adesso si apre un nuovo fronte polemico: perché la campagna del Pd per le primarie, presentata da Roberto Cuillo e Antonio Funiciello, non dice che l’8 dicembre si va ai gazebo solo per eleggere il nuovo segretario? Può sembrare una questione di lana caprina e invece, per i sostenitori del candidato ex ds, il tema è tutto politico. Cuperlo vi legge la conferma che Renzi stia correndo per conquistare Palazzo Chigi, e oggi chiederà a Epifani di correggere il tiro, di chiarire che i cittadini voteranno per il leader e non per il futuro premier. I renziani non ci stanno e si appellano allo Statuto. «Se non abbiamo fatto riferimento alla carica in gioco — spiega Funiciello — è perché con le primarie scegliamo il segretario, che è anche automaticamente il candidato alla presidenza del Consiglio». E quindi no, se Cuperlo vuole che slogan e manifesti vengano ritoccati dovrà vedersela con l’opposizione di Renzi...
Tra il sindaco e il candidato dell’ala sinistra è braccio di ferro anche sul tesseramento. Oggi Epifani annuncerà che hanno già votato 320 mila iscritti su circa 420 mila e, a colpi di dati, proverà a ridimensionare l’affaire della compravendita di tessere: a Nardò si registra un boom del 500% e a Crotone del 400%. Ma Gianni Cuperlo rilancia: «Io non mi arrendo. Con tutta la passione e l’affetto che ho per il Pd faccio appello ai candidati, perché riflettano sulla mia proposta di fermare il tesseramento il 7 novembre, giorno di inizio dei congressi di circolo». Per il giovane turco Matteo Orfini «Renzi sbaglia a dire “chissenefrega tanto ci sono le primarie”» e il ministro Andrea Orlando propone una moratoria delle iscrizioni: «Bisogna darsi una calmata».
Nel rimpallo di sospetti e accuse, la segreteria del Pd è stata rinviata ad oggi. Cuperlo chiede di annullare le assise ove venissero riscontrate irregolarità e, su questo punto, anche i renziani sono d’accordo. Per Funiciello il «tribunale» del Pd, presieduto da Luigi Berlinguer, in programma venerdì, dovrà sanzionare con un intervento «molto severo» i casi di degenerazione e, se necessario, «considerare l’ipotesi di annullare i congressi». I candidati si accusano l’un l’altro, in un braccio di ferro che nasconde la battaglia dei numeri. Chi ha conquistato più segretari provinciali? Chi vincerà nei circoli? I sostenitori di Cuperlo attaccano i renziani che avrebbero messo in giro «dati falsi» e gli amici del sindaco ribaltano le accuse, smentendo il pareggio e conteggiando in «una cinquantina» i segretari renziani, contro la quarantina dell’avversario. «È finita 49 a 35», giura il cuperliano Patrizio Mecacci. E il renziano Lorenzo Guerini si arrabbia: «Almeno non si bari!». Toccherà a Epifani, in segreteria, dirimere la querelle e provare a placare almeno un po’ le acque. Si parla di contatti tra gli sfidanti per trovare un accordo, ma Cuperlo smentisce: «Un ticket con Renzi? No, proprio no». E mentre si litiga nei circoli per gli iscritti prezzolati, da Roma a Cosenza, Sky si aggiudica per il 29 novembre il primo confronto tv tra i quattro aspiranti segretari.

Corriere 6.11.13
Nella sezione rossa tra urla, minacce e insulti omofobi
La faida al circolo pd di Casalbertone
di Ernesto Menicucci


ROMA — «Froci», «fascisti», «zozzi». Insulti, accuse, polemiche, contestazioni. Benvenuti a Casalbertone, periferia est della Capitale, zona popolare e universitaria, tra la Prenestina e la stazione Tiburtina. Qui, dove la sinistra vince da sempre, si consuma una delle lacerazioni più profonde del Pd nella corsa alle primarie. Renziani e cuperliani? No, non qui. La «faida» è ancora più interna, tutta interna ai «seguaci» del deputato triestino Gianni Cuperlo. Generazioni in lotta, giovani iscritti contro militanti di lungo corso, il tutto mixato e shakerato nel grande tritacarne di Facebook , strumento — quello sì — trasversale e per tutte le età.
Finisce a male parole, a denunce di frasi «omofobe» e «sessiste». Da una parte i sostenitori di Lionello Cosentino, 60 anni, ex assessore regionale, ex senatore, «portato» dal guru romano Goffredo Bettini. Dall’altra Tommaso Michea Giuntella, 30 anni, «bersaniano» doc (era uno dei quattro della famosa foto col pugno chiuso), papà giornalista (Paolo, quirinalista del Tg1 scomparso qualche anno fa), nonno (Vittorio Emanuele) reduce dai lager nazisti. Tutti e due, ironia della sorte, voteranno alla fine per Gianni Cuperlo, contro Matteo Renzi. Perché Casalbertone, che ha ospitato la prima sede romana dell’Ulivo prodiano, è così: qui la sinistra è ancora sinistra, qui il Pci-Pds-Ds-Pd ha maggioranze granitiche, che hanno prodotto oltre 15 anni di governo territoriale. Poi arrivano i congressi dei circoli, e c’è un mondo che va in frantumi.
Il circolo Pd è dietro una porticina nera, in ferro, su una via in salita intestata a Giuseppe Pianell, generale dell’esercito, già ministro della Guerra del Regno delle Due Sicilie durante lo sbarco dei Mille, poi comandante dell’unica divisione italiana che, a Custoza, non arretrò di fronte agli austriaci. Passato glorioso, targa sbagliata: Pianell morì nel 1892, e non nel 1902 come c’è scritto per strada. La zona è di quelle «ad alta tensione»: a cento metri c’è il circolo «Futurista» di CasaPound, il secondo polo dei «fascisti del terzo millennio» (definizione loro), poco più in là un paio di centri sociali, più la sezione del Pdl. Qualche volta, finisce in rissa: l’ultima, con bastoni, pietre e fumogeni, è di un anno e mezzo fa.
Anche stavolta vengono evocati «i fascisti», ma il contesto è un altro. Domenica pomeriggio, 3 dicembre. Il circolo Pd elegge il suo segretario e ad appoggiare i due principali candidati — Carlotta Paoluzzi con Giuntella, Domenico Perna con Cosentino — arrivano i big: Micaela Campana di qua, Michele Meta di là. Clima teso, elezione all’ultimo voto. La spunta la Paoluzzi: 67 voti contro 63. Vittoria non «piena», però: nei delegati, infatti, finisce 6 a 6. A sera, ci sono ancora urla, concitazione. Ad una giornalista di youdem, renziana, viene tolto il cellulare e impedito di fare riprese. I militanti tornano a casa, sia i giovani che gli «storici», con l’adrenalina in corpo. Così accendono il computer e si mettono sul grande «sfogatoio» di Fb. Tonino Cuozzo, uno degli iscritti della prima ora, attacca: «I fascisti del Pd hanno portato le truppe cammellate a votare Carlotta e Giuntella». Passa mezz’ora, e i «Giovani democratici» del Tiburtino III (dove Veltroni, con Benigni, lanciò la sua campagna nel 2008) replicano: «Diccelo tu Tony per chi dovevamo vota’! Quanti soldi j’avete dato a quelli di casapound per venire a votare in sezione? La foto con Berlinguer c’hai! ma vergognati zozzo! Fascista tua madre!». Cuozzo, a quel punto, non ci vede più: «Voi pure i froci che per un c... votano Carlotta miss de sto... ma non passerete a Casalbertone mantenuti da mister frega la neo eletta in parlamento ed assessore per spirito santo...». Una sequela d’insulti di rara eleganza, con «bersagli» precisi: Simone Barbieri, omosessuale, di Pd Rainbow; la Paoluzzi, la Campana ed un ex assessore (Maria Muto) del Municipio.
I sostenitori di Giuntella salvano lo screenshot con gli insulti, la polemica «monta» sulle agenzie: «Accuse omofobe e sessiste», dice Giulia Tempesta, consigliere comunale. «Se fosse vero, esprimerei la mia solidarietà», replica Cosentino. Ma i supporter dell’ex senatore ribaltano le accuse: «Hanno cominciato gli altri, mettendo su internet la foto di Meta e il commento: “I c... stanno coi c...”». E ancora: «Il tesseramento è stato gonfiato: da 70 iscritti siamo diventati 150». Perché alla fine, le presunte «truppe cammellate» di Casalbertone, sono qualche decina di unità.

La Stampa 6.11.13
Pd, caos senza fine
Adesso si dividono anche i garanti
di Maurizio Tropeano

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La Stampa 6.11.13
«Chi ha sbagliato esca allo scoperto»
4 domande a Salvatore Buglio

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il Fatto 6.11.13
Congresso
Tessere false, Cuperlo e Renzi ai ferri corti: “Qui salta tutto”
Il dalemiano vuole bloccare le iscrizioni, il sindaco si oppone
di Wanda Marra


Rinviata la segreteria del partito da ieri a oggi per lo scontro interno. Epifani non sa che pesci pigliare fra le pressioni dei due contendenti. Contestazioni in tutta Italia, fra ricorsi e richieste di annullare le votazioni locali. Intanto il Rottamatore imbarca anche l’ex governatore calabrese Agazio Loiero

TESSERE E RICORSI, IL PD NON SA CHE PESCI PRENDERE
EPIFANI RINVIA LA SEGRETERIA A STAMATTINA. DEVE METTERE D’ACCORDO CUPERLO CHE VUOLE BLOCCARE LE ISCRIZIONI E I RENZIANI CHE SI OPPONGONO

Siamo in un vicolo cieco. Come fai, fai male. E se alla fine salta tutto?”. Il panico avanza, mentre i I candidati si scontrano a colpi di dati. “Abbiamo vinto i congressi locali 49 a 35”, va dicendo Cuperlo. E Luca Lotti, renziano, responsabile Enti locali: “Dati falsi, con noi abbiamo contati una cinquantina di segretari”. Ma in realtà, lo scontro si consuma sui pacchetti di tessere, lievitati in modo tutt’altro che trasparente, sui ricorsi. Sui congressi da sospendere e le iscrizioni da bloccare. Il candidato dalemian-bersaniano fa addirittura un appello: “Il tesseramento si blocchi il 7 novembre”. Ma i renziani si oppongono: “Non si cambiano le regole in corsa”. Ognuno pensa di difendere la propria convenienza: i cuperliani hanno cercato di fermare l’avanzata di Renzi, consegnandogli un partito ostile e bisogna vedere se ci sono riusciti. Infatti, molti segretari locali sono stati votati da entrambe le fazioni. Renzi da parte sua pensa che molti dei tesserati “onesti” del-l’ultima ora sono i suoi, e non vuole recedere. Il 7 non è data casuale. Da quel giorno gli iscritti cominceranno a votare il segretario nazionale: le percentuali finali non sono secondarie, seppure l’ultima parola è alle primarie.
“C’È MOLTO interesse a sporcare tutto, per complicare i processi decisionali. Ma io sono convinto che al di là di alcuni casi, il grosso è pulito”, dice il renziano in commissione congresso, Lorenzo Guerini. Ieri era prevista la segreteria. Ma alle 17:36 le agenzie battono la notizia: riunione rinviata a stamattina, causa “informativa” della Cancellieri (un renziano la definisce “cerimonia funebre”. Strani lapsus). Spiegano dallo staff del segretario che si parlerà “anche” del congresso, ma soprattutto della legge di stabilità. Nella perfetta tradizione, nel non saper che fare, si rimanda. Epifani è contrario a bloccare il tesseramento, ma propenso a sospendere qualche congresso. Ma ha il peso, alla scadenza del suo mandato, e con una segreteria spaccata, di imporre una linea? E allora, dallo staff si dice che “tocca alla commissione congresso decidere”. Commissione che s’è riunita ieri sera. E che ha deciso? “Niente, solo adempimenti burocratici”, è la sintesi di chi c’era. La motivazione ufficiale è che si aspetta che le commissioni locali (spesso più che parti in causa, visto che tra i membri ci sono anche i candidati) - convocate tra ieri e oggi - finiscano il loro lavoro. Se non riescono a risolvere le controversie, si passa al nazionale. L’ultima parola spetterebbe ai Garanti, che si incontrano venerdì: ma non è ancora chiaro il loro vero perimetro di competenze. Il solito sistema di scatole cinesi, per cui alla fine ognuno butta sugli altri la responsabilità e nessuno decide. “Anche nella Dc di una volta il tesseramento si chiudeva molto prima: perché i casi di inquinamento, brogli e quant’altro ci sono sempre stati, e così si aveva il tempo di risolverli. Noi prenderemo i provvedimenti necessari, ma non è con la Commissione di garanzia che si risolve il problema politico”, spiega uno dei componenti, Giovanni Bruno. Si racconta di decine e decine di ricorsi. Molti mettono nel mirino proprio la regola di consentire il tesseramento fino all’ultimo momento. “L’ha voluta l’ex responsabile Organizzazione Nico Stumpo - raccontano in molti - un po’ perché gli iscritti erano davvero pochi, un po’ per fare cassa”. E lui si difende: “Io avevo detto che le regole non si dovevano cambiare. L’hanno voluto i renziani. E allora, eccoci qui”.

il Fatto 6.11.13
Dentro il Circolo
Cinecittà: le truppe cammellate in fila, i militanti escono
di Enrico Fierro


Il sorriso dolce di Enrico Berlinguer, il volto duro e bello di Gigi Petroselli, il sindaco delle periferie di Roma. E poi lui, Palmiro Togliatti, il Migliore, accanto al Che, poco più in basso una foto triste di Aldo Moro. Per la serie c’era una volta la politica, quella fatta di campi, divisioni, idee e passioni. Ora ci sono i congressi e le sezioni del fu Pci, trasformato in Partito democratico, sono ridotte a “votifici”. Sezione, pardon, circolo che fa più moderno, del Pd di Roma Cinecittà, qui si vota per il segretario di Roma e per quello locale. Tutto doveva concludersi già una settimana fa, ma tra ricorsi e accuse reciproche di tessere gonfiate, è finito in caciara: voti annullati e congresso da ripetere.
DALLA FEDERAZIONE del partito è arrivato un garante, perché in questa Beirut della politica che è diventato il Pd nessuno si fida più degli altri. Ivana della Portella, giornalista, membro della segreteria regionale del partito, è iscritta qui e non nasconde la meraviglia: “Quante facce nuove, quanta gente mai vista”. C’è la fila per tesserarsi, ci si iscrive last-minute con venti euro, così si ha diritto ad una copia di Europa, una de l’Unità, e soprattutto si può votare. “Democratici e democratiche”, Fabiano Proietti, uno dei candidati alla segreteria del circolo (rito cuperliano), tenta di parlare. “Chiamace compagni”, gli fanno dalla sala. Intanto continua il via vai di gente che vuole la tessera. Il garante suda freddo. Prima di Fabiano interviene Salvatore Canalis. L’antropologia cambia di colpo. Salvatore si avvicina ai cinquanta, si vede che ha militato nel partito quando il circolo si chiamava sezione e fuori sventolava la bandiera rossa dei comunisti. “È un rito, qui non si parla di politica, il voto è la parte predominante di questo congresso”. Lo ascoltano in pochi. “Hanno fatto le larghe intese, il governo, stanno facendo leggi di stabilità e altro e noi non abbiamo avuto la possibilità di parlare con un deputato. Una volta chiamavi in federazione e ti mandavano un compagno onorevole. Oggi ti devi rivolgere a un capo corrente”.
QUALCUNO, dei pochi ancora vogliosi di ascoltare le parole della politica, fa cenno di sì con la testa. Ma intorno è tutto un via vai di tessere rinnovate, schede per votare, file che si ingrossano. Fuori un signore anziano traffica con una cartella gialla e si dà da fare col cellulare. “Aò, devi venì a votà, c’è tempo fino alle nove de sera”. Il cronista chiede spiegazioni al giovane segretario, contestato e attaccato da un gruppo di iscritti per come ha condotto la prima fase di questo strano congresso. Gianni Di Biase si era praticamente dichiarato vincitore accampando il controllo di 155 voti su 270. “La verità è che qui il Pd non è mai nato, c’è tanta rivalità tra ex comunisti ed ex della Margherita”. Gli chiediamo dei voti, delle tessere all’ultimo minuto. Minimizza. Ivana della Portella imbraccia il microfono e lancia un’accusa durissima: “Il garante ha detto che ci sono intere famiglie che stanno venendo a votare. Una di loro è venuta tutta intera, cinque persone, compreso il nonno di 91 anni”. Giudizio lapidario di un anziano iscritto: “È uno schifo”. Difficile dargli torto. Anche qui sono all’opera i signori delle tessere? Certamente. Ma il problema non è questo, è più grave. Basta saper leggere la delusione stampata sui volti degli anziani militanti, uomini e donne che negli anni passati hanno speso il loro tempo per la buona politica, si sono entusiasmati per le parole di Berlinguer, commossi per la fine di Aldo Moro, mobilitati per difendere la democrazia, il lavoro, i diritti. Questa gente oggi è offesa dal partito ridotto in un labirinto di correnti. I loro compagni dei circoli del Prenestino hanno gettato la spugna e revocato il congresso. “Aspettavamo con ansia questo momento sperando in una vera fase costituente. E invece non abbiamo mai visto una così totale assenza di dibattito e una così prevaricante invasione di tutto il resto. Siamo di fronte a un fenomeno di ‘ipertesseramento’ mosso da personali interessi di potere”. Iscritti dell’ultimo minuto e capi-corrente. La morte delle idee, degli entusiasmi e della buona politica.

il Fatto 6.11.13
Adesioni e sospetti
“Ma perché vi iscrivete solo ora?”
di Mario Natangelo


Come mai vi iscrivete all’ultimo momento?” chiede un ragazzo in camicia accogliendo i nuovi arrivati nella saletta del circolo Pd ‘Alberone’, a Roma. L’ultimo momento è quello utile per tesserarsi e votare al congresso: nelle sale interrate del circolo, infatti, i volontari stanno sistemando sedie e microfoni. È già pomeriggio inoltrato ed entro sera tutto deve essere pronto per la presentazione dei candidati e per il voto. “Ma siete della zona? Perché altrimenti c’è il circolo di via La Spezia” prova a dire, ma i nuovi tesserati restano, cercando di non impacciare il passaggio di sedie verso la sala principale. C’è un viavai tra iscritti storici e conoscenti che vengono per dare una mano o che soltanto salutano per poi uscire di nuovo. Il ragazzo in camicia rilascia delle dichiarazioni a una giornalista con telecamera al seguito, poi indica il gruppetto di persone in fila davanti a una porta: “Quelli credo che siano qui per tesserarsi”. La troupe plana sui nuovi iscritti per qualche domanda: “E come mai si iscrive all’ultimo momento?”. La fila per le nuove tessere scorre veloce: la breve attesa la si passa nello stretto corridoio a scansare le domande della troupe televisiva e, ancora, il trasporto delle sedie. Nello ‘stanzino delle tessere’ c’è un volontario con un vecchio pc sulla cui tastiera batte con i soli indici, borbottando che “c’è troppo da fare oggi per occuparsi delle iscrizioni”. Ma qualcuno deve pur farlo. E in fretta. Nome, cognome, data e luogo di nascita. Occupazione, codice fiscale e un contributo per la causa: “Il minimo è 20 euro”. Si fa confusione tra le schede compilate, per accelerare i tempi, in sincrono tra il volontario al pc – un dito alla volta sulla tastiera – e il nuovo tesserato che riempie una scheda con la penna. Tessera dopo tessera, inizia a diradarsi il passaggio delle sedie in corridoio. La procedura si conclude – finalmente – con la consegna di una scheda di carta infilata in una bustina di plastica. La durata è annuale, la firma è del ‘Segretario Pier Luigi Bersani’: benvenuti nel nuovo Pd.

l’Unità 6.11.13
Bettini: «Il tesseramento va chiuso prima»


«Sarebbe necessario, per evitare le truppe organizzate che alterano all'ultimo momento i risultati, chiudere le iscrizioni qualche giorno prima dello svolgimento dei congressi. Perché qui non parliamo di primarie aperte agli elettori, che è giusto far partecipare al voto fino all'ultimo. Qui parliamo di adesione al partito. E il segretario di un circolo ha il sacrosanto diritto di capire almeno un pò chi sta iscrivendo; di guardare in faccia e conoscere un nuovo membro della struttura che dirige».
È quanto sostiene Goffredo Bettini in un intervento pubblicato su Italia Lab, in cui parla dei congressi. Bettini spiega: «I congressi dei circoli del Pd e le primarie degli iscritti per l'elezione dei segretari di federazione sono un'ulteriore conferma delle necessità di un rinnovamento radicale della forma partito. Non vi è dubbio che rimane come risultato positivo la partecipazione di tante energie sane, generose e intelligenti. Anche nell'esame più criticamente spietato questo dato non va disperso. Tuttavia il peso del regime correntizio, dei personalismi e delle divisioni sul potere è stato grande». «Nella condizione attuale del partito spiega ancora l'esponente del Partito democratico frutto in particolare di questi ultimi quattro anni di gestione, anche le migliori intenzioni e i dirigenti più validi rischiano di contaminarsi».

Repubblica 6.11.13
Bettini: Pd alla corda, così vincono le truppe cammellate che stravolgono i risultati
“Che follia questo tesseramento ma adesso non si può bloccare”
intervista di G. C.


ROMA — «È una follia il tesseramento a ridosso dei congressi. Una cosa sbagliata. Favorisce l’organizzazione di truppe cammellate, del tutto estranee alla vita del Pd e dei suoi circoli, che stravolgono all’ultimo momento il risultato». Goffredo Bettini, ex coordinatore della segreteria di Veltroni e promotore di “Campo democratico”, lancia l’allarme: «Il partito è arrivato alla corda».
Bettini, questa regola è stata un errore?
«Sono fermamente convinto che gli elettori alle primarie aperte debbano votare per il segretario nazionale aderendo al seggio, cioè fino all’ultimo. Ma un’altra cosa sono le elezioni dei segretari di federazione, dove è previsto che solo gli iscritti votino. Un segretario in un circolo non può non conoscere chi aderisce alla struttura politica che lui dirige. Altrimenti c’è la possibilità di forme di inquinamento, di intrusione organizzata».
E quindi, lei cosa avrebbe voluto?
«Si doveva fermare il tesseramento 4 o 5 giorni prima dell’inizio dei congressi in modo da dare la possibilità di un minimo di valutazione serena alle varie strutture territoriali, evitando i conflitti durante la votazione e gli scontri che sono avvenuti. Alla fine tutto questo ha dato un tono di discredito verso un passaggio che tuttavia ha messo in moto le energie che ancora esistono nel Pd».
A questo punto occorre interrompere i tesseramenti?
«No. Mai in corso d’opera si cambiano le regole, sarebbe una decisione verticistica e oligarchica. E sprezzante delle persone che hanno partecipato civilmente».
Quali irregolarità l’hanno più colpita?
«Ho visto che ci sono state situazioni in cui l’ultimo giorno divoto gli iscritti sono zompati da 100 a 350, 400: non è credibile, se non attraverso uno sforzo organizzativo improprio. E questo votificio non è accompagnato da una discussione politica. Ho letto lettere agli iscritti dove erano indicati gli orari del voto e poi “...eventuale discussione politica”. Ma un congresso è il momento essenziale della discussione».
Verso dove va il Pd?
«È andato sempre più verso un partito-comitato elettorale, che è il contrario di quello ci serve. Il nostro regime interno è insopportabile, non solo in riferimento agliepisodi di tessere gonfiate che devono essere individuati, denunciati e colpiti, ma anche nella sua vita normale per le intercapedini correntizie che vanno stroncate».
Ma gli “inquinatori” chi sono, cuperliani o renziani?
«Cercare il principale responsabile è un esercizio in cattiva fede. È l’insieme del partito che nel corso degli ultimi anni è diventato questa roba qui: un Pd in cui contano correnti e sempre meno le persone e gli iscritti. Per questo ci vuole una rivoluzione dal basso e abbiamo proposto la piattaforma di idee “Campo democratico”».
Chi ha vinto per ora nei circoli, Renzi o Cuperlo?
«Discussione bizzarra. Si era deciso che i circoli fossero sganciati dalle candidature nazionali. Infatti i candidati segretari locali hanno raccolto in molte occasioni consensi trasversali. A Roma Cosentino ha detto che voterà Cuperlo. Ma molti che lo hanno preferito, faranno poi scelte diverse».
Chi vorrebbe vincesse?
«Non mi esprimo fino alla fine, compreso il giorno in cui andrò a votare. Vanificherei la mia battaglia».

l’Unità 6.11.13
Abolire gli iscritti? Al contrario bisogna dargli più diritti
di Pietro Folena


QUANDO MI SONO ISCRITTO ALLA FGCI NON VENIVO DA UNA FAMIGLIA COMUNISTA, E I MIEI FRATELLI ERANO PIÙ A SINISTRA DEL PCI -, HO CERCATO L’INDIRIZZO SULL’ELENCO TELEFONICO E, COL CUORE IN GOLA, HO SUONATO AL CAMPANELLO. Sono entrato in una comunità, una specie di famiglia, che ha accompagnato una parte importante della mia vita. Ci emozionava il Gramsci dell’Ordine Nuovo: «Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza».
La mia è l’esperienza di tante di tanti: che sentivano e vivevano l’iscrizione come un atto importante della propria vita, una scelta libera, di parte, impegnativa. Ancora con dolore lacerante ho lasciato la tessera dei Ds quando è stata fatta la scelta del Pd; così come la tessera del Pd, dopo anni vani di ricerca di strade nuove, l’ho fatta non a cuor leggero, pensando che come oggi può succedere questo debba diventare il nuovo grande partito della sinistra plurale.
Vedo già gli specialisti della «modernità» e del «nuovismo» alzare le spalle. Cose vecchie, ottocentesche. Michele Emiliano addirittura propone di abolire gli iscritti! Certamente: aver permesso l’iscrizione fino al momento della votazione, in un partito che elegge il suo segretario facendo votare chiunque passi per strada, in cambio di due euro, è già una scelta figlia della convinzione medesina che oggi esprime il simpatico sindaco di Bari, e che ha dominato in questi anni. A guardare la vergogna di alcuni spettacoli nelle ultime settimane, la voglia di abolire il tesseramento, questo tesseramento viene.
Ma dopo, domando, cos’è il Partito? Un tram affollato ai Congressi e deserto quando non si vota? Un popolo di teledipendenti che devono osannare il leader più «cool», scelto e appoggiato da gruppi economici ed editoriali che fanno e disfano le scelte politiche? Un nuova Baronia mediatica, simile alle vecchie baronie in cui si era servi, prima delle grandi rivoluzioni democratiche che hanno aperto l’epoca contemporanea?
Come in altri casi penso alla distruzione del diritto del lavoro, propugnata dai tardo-blairiani nostrani, o all’orazione anti-pensionati e anti-sindacati fatta dal maitre à penser della finanza virtuale Davide Serra la modernità che si propugna è in realtà molto arcaica e primitiva.
Non sarà che il problema è l’opposto? Quello di dare nuovo senso, nuovo potere, nuovi diritti e anche nuovi doveri a chi si iscrive al Partito, e quello di ricostruire una comunità di donne e uomini che faccia propri valori di gratuità, di amicizia, di comunità, e, perché no, di amore per l’Altro?
Si dice che bisogna fare come in Gran Bretagna, dove non ci si iscrive al Labour Party. Il Partito Laburista ha una struttura federale, che non prevede una forma di iscrizione personale dei suoi sostenitori al partito federale, ma l’adesione alle organizzazioni «affiliate»: i partiti laburisti locali, uno per circoscrizione elettorale (constituency Labour parties), i sindacati affiliati al partito, il Partito Parlamentare Laburista e le associazioni socialiste, come la Fabian Society, che hanno il diritto di inviare i propri rappresentanti ai congressi annuali del partito. Si vuole proporre questo modello? Sarebbe un’ipotesi seria, ben diversa dagli spettacoli visti in queste settimane, o dalla caricature del mondo anglosassone che i liberisti de noantri ci propongono un giorno sì e l’altro pure.
Ecco, vorrei che dalle polemiche di questi giorni scaturisse non tanto una valanga di ricorsi sul tavolo di Luigi Berlinguer, che guida i garanti del Pd, ma una seria riflessione sull’allarme suonato in questi giorni, e sul bisogno di scrivere in modo democratico e partecipato uno statuto degno del nome di questo partito. E, se è lecito, rispettoso della storia della partecipazione e della militanza politica di milioni di persone, che vengono dalle tante famiglie della sinistra italiana.

l’Espresso 4.11.13
Ecco chi è Marco Carrai, il Gianni Letta di Matteo Renzi
È il suo “gemello”. E il suo contrario. Schivo. Riservato. Invisibile. Eppure sempre presente
Ritratto ravvicinato del Gran Consigliere del sindaco di Firenze
di Marco Damilano

qui

l’Unità 6.11.13
Nei vecchi congressi del Psi votava solo chi era iscritto da due anni...
di Valdo Spini


Caro direttore, a proposito delle polemiche in atto a proposito del congresso Pd e del relativo tesseramento, se può essere utile, ricordo che nei vecchi congressi del Psi per potere votare occorreva essersi iscritti per due anni consecutivi. Si poteva rinnovare la seconda tessera anche al momento del voto in assemblea, ma si doveva avere dimostrato il proprio interesse al partito avendone già chiesta e ottenuta una nell’anno precedente. Credo che tutto avvenga perché si fa una grande confusione tra congressi dipartito e primarie. Le seconde possono e devono essere aperte, mentre i primi, i congressi, devono avere tutte le garanzie del caso.

l’articolo 67 della nostra Costituzione: «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»
Corriere 6.11.13
Il grillismo e la Costituzione
Una violazione macroscopica
di Giovanni Sartori


Beppe Beppe Grillo è un formidabile attore e demagogo. Probabilmente anche Masaniello lo era nella Napoli del suo tempo, del 1600. Ma Masaniello non aveva l’elettricità (intendi: microfoni, televisioni, Internet e bambini derivati). Masaniello arrivava a Napoli, Grillo arriva a tutta l’Italia. Poteva essere fermato? Può ancora essere fermato?
L’Italia pullula di giuristi e anche di giuristi davvero insigni. Eppure a nessuno di loro è venuto in mente, a quanto pare, l’articolo 67 della nostra Costituzione, per il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Questa disattenzione è spiegabile? Forse sì, perché le nostre facoltà di Giurisprudenza si sono chiuse in un «formalismo» così introverso da ignorare una norma inserita in tutte le costituzioni delle liberal democrazie europee sin da quando fu stabilita dalla Rivoluzione Francese.
Nelle nostre facoltà di Legge si insegna storia del diritto italiano (come è giusto che sia) ma non si insegna storia del costituzionalismo. Incredibile ma vero. Il risultato è che ai nostri costituzionalisti sfugge che il divieto del mandato imperativo istituisce la rappresentanza politica dei moderni. Perché la rappresentanza esisteva anche nel Medioevo e nell’antichità, ma era appunto una rappresentanza assoggettata al vincolo del mandato imperativo, e quindi di delegati o ambasciatori che presentavano al Sovrano le richieste dei loro mandanti. Il divieto del mandato imperativo è dunque vitale per un sistema di democrazia rappresentativa. Se togli questo divieto la uccidi. E il grillismo costituisce di fatto una violazione macroscopica di questo principio.
Non c’è dubbio che il grillismo sia un movimento politico; e, secondo la dottrina, un movimento che riesce a fare eleggere suoi candidati al Parlamento, è un partito politico. Ma questi eletti hanno titolo per entrare e votare in Parlamento? Secondo l’articolo 67 della Costituzione, no. Perché gli eletti del Movimento 5 Stelle sono appunto vincolati da un mandato imperativo di agire, parlare e votare solo su istruzioni di Grillo e del suo guru; una sudditanza che li obbliga, senza istruzioni, al silenzio o alla inazione.
Come ne usciamo? L’articolo 67 sopracitato suggerisce — mi pare — che questi eletti non possono essere accolti in Parlamento senza prima sottoscrivere uno ad uno il loro ripudio del mandato imperativo. So immaginare gli strilli e i «vaffa» dei grillini e di chi li vota. Il che non toglie che i giuristi della Corte costituzionale non possano ignorare il problema e nemmeno lo dovrebbe ignorare, mi sembra, il presidente della Repubblica. Perché Scalfari ha davvero ragione quando, su la Repubblica di domenica scorsa, dice di temere, con il grillismo, il definitivo sfascio di un Paese già sfasciatissimo.
Verrò ricoperto di «vaffa», ma poco male sarebbe un male minore. Non posso invece dargli ragione sul rimedio del federalismo europeo. È comprensibile che questa tesi sia cara a Barbara Spinelli, figlia di un padre illustre che ne è stato grande animatore. Ma non si è mai visto un sistema federale senza una lingua comune. Nemmeno l’India fa eccezione, perché l’élite che la domina parla l’inglese. Ma vorrei vedere un povero votante italiano al quale vengono sottoposti, per l’elezione federale, candidati finlandesi (dei quali non saprebbe nemmeno pronunziare il nome); e così per una diecina e passa di altri Paesi che parlano per noi un linguaggio indecifrabile. Il federalismo di Bossi per fortuna è morto; e potremmo senza danno (lo sussurro e basta) sopprimere anche le Regioni.
Ma lo dico di sfuggita. Una scarica di «vaffa» alla volta.

Corriere 6.11.13
Amici e fidanzati assistenti
Le senatrici M5S accusate: «Serviva gente di fiducia»
di Emanuele Buzzi


MILANO — «La mia assistente ha rinunciato al contratto stamattina, non vuole dare spazio alle polemiche, continuerà a supportarmi come semplice attivista. Ho un’altra persona che si occupa della mia comunicazione a Lecce, per ora va bene così», taglia corto Barbara Lezzi, ma l’assemblea sul caso Parentopoli ha lasciato il segno. Con lei, finita sulla graticola dei colleghi pentastellati, c’è la senatrice campana Vilma Moronese. Nel mirino la scelta di assumere come assistenti personali rispettivamente la figlia del proprio compagno e il fidanzato stesso. Stessa discussione, esiti per ora diversi. «Lui si è preso un anno di aspettativa, quando scadrà non so cosa succederà. Al momento non saprei scegliere qualcun altro che sappia darmi lo stesso contributo», spiega Moronese. Tra i Cinque Stelle la tensione, però, dopo i toni drammatici di lunedì, non si attenua. C’è chi come Mario Michele Giarrusso chiede una riunione congiunta di deputati e senatori per trattare il caso, ma la capogruppo a Palazzo Madama, Paola Taverna, si oppone. E anche Lezzi e Moronese si difendono. «Non c’è nessun caso Parentopoli. Abbiamo rispettato sia le regole del Senato sia il nostro codice di comportamento (è stato messo in discussione il criterio di meritocrazia, ndr )», attacca l’esponente pugliese. «I documenti sui nostri collaboratori sono stati passati al vaglio di Palazzo Madama», conferma Moronese. Secondo Lezzi «c’è una grossa incomprensione di fondo: i curricula li avevamo chiesti per i dipendenti dei gruppi parlamentari — quelli che curano gli aspetti tecnici — non per i nostri assistenti personali». Qual è la differenza? «I nostri collaboratori devono essere delle persone di fiducia, deleghiamo a loro cose estremamente personali come password, mail, persino bancomat».
«Ho scelto il mio fidanzato per via delle sue competenze — racconta la parlamentare campana —, si occupa di ambiente ed è anche un attivista della prima ora come me, candidato alle amministrative a Napoli». «Io invece volevo una persona giovane e di valore. La figlia del mio compagno è laureata in Economia ed è anche lei attivista», spiega invece la senatrice pugliese. Che aggiunge: «Avrei potuto scegliere anche altre persone, ma qui entra in gioco la fiducia, non si tratta solo di merito». Le polemiche con gli altri senatori? «Si tratta di una posizione minoritaria, sono sempre gli stessi 8-9», affermano. «Quando ho assunto il mio collaboratore abbiamo deciso di mettere in Rete la notizia nei meet-up di Napoli e Caserta, trovando l’appoggio della maggior parte degli attivisti — ricorda Moronese —. Lui, dipendente che ha anche una piccola attività in proprio nel settore della green economy, mi segue 24 ore al giorno. Tutti i giorni. Perché nel weekend noi siamo impegnati sul territorio. Ce la siamo presa come missione». Qualcuno, però, si è lamentato che ci sia una sottile differenza tra fidanzati e mogli o mariti: «Sarebbe opportuno fare questo tipo di distinzione quando si regolarizzeranno le coppie di fatto», ribatte Lezzi, che in assemblea aveva parlato anche di altri casi. E che puntualizza: «Tutti abbiamo assunto senza bandi pubblici. Magari c’è chi ha scelto un amico o il vicino di casa. Davanti a un caso del genere c’è la stessa considerazione che nel mio?”.

Corriere 6.11.13
Bersani: al Paese serve una scossa questo esecutivo non è adatto


Il governo Letta non è idoneo ad affrontare i gravi problemi del Paese. È quello che viene fuori dalle dichiarazioni di Pier Luigi Bersani raccolte da Bruno Vespa per il libro Sale, zucchero e caffè. L’Italia che ho vissuto da nonna Aida alla Terza Repubblica in uscita venerdì 8 novembre da Mondadori-Rai Eri. «Non ho date, (per la caduta del governo, ndr ) — spiega l’ex segretario del Pd — ma il sistema politico non è a posto, occorre una svolta radicale e, prima o poi, questo discorso dovrà essere ripreso. Puoi dare la scossa da un lato o dall’altro, ma il Paese ne ha bisogno per ripartire, per ritrovare la fiducia. Io non credo che tale compito possa essere assolto dai governi di necessità, buoni per affrontare un’emergenza ma non per sanare una ferita come quella che abbiamo davanti». Allo scetticismo di Vespa su quanta strada avrebbe fatto un eventuale governo appoggiato da Grillo, risponde: «Certamente non meno di quella che sta facendo il governo di larghe intese. Ma se avesse fatto meno strada, avrebbe dato comunque un senso alla politica. Quello che ci rovina è il distacco dalla società. Il governo deve essere innovatore, se vogliamo ritrovare un po’ di fiducia. Sono i conservatori, semmai, che devono assumersi la responsabilità di farlo saltare». E ancora, sul suo tentativo, dopo il voto di febbraio, di formare una maggioranza con i 5 Stelle: «Io volevo smascherare l’impotenza grillina. O questi si chiariscono su quale mestiere vogliono fare, o devono pagare un prezzo. Se le trattative di governo con loro si fossero svolte con un presidente della Repubblica eletto che avesse avuto sul tavolo la pistola dello scioglimento delle Camere, il quadro e le conclusioni sarebbero state diverse. Con Prodi? Anche con Marini avrei fatto assolutamente lo stesso tentativo».

l’Unità 6.11.13
Luigi Guerra: «Una classe di soli migranti rischia di essere ghetto»
Per il pedagogista dell’Alma Mater «il caso bolognese è inaccettabile, la lingua non si impara così
Scuola e docenti sono senza colpe e vanno aiutati. Soprattutto servono fondi»
di Adriana Comaschi


È o no una classe ghetto, una prima media composta da una ventina di ragazzini di dieci diverse nazionalità, senza nessun compagno italiano? Il preside di Scienze della Formazione dell’ateneo bolognese, Luigi Guerra, traccia una linea netta: «Lo è sicuramente. Ma non ne hanno colpa aggiunge subito la scuola, né gli insegnanti».
Da due giorni Bologna si interroga e si spacca sulla «sperimentazione» in corso alle scuole Besta, prima periferia di Bologna in zona Fiera, in un quartiere tra i più multietnici della città. E infatti, queste medie hanno una certa esperienza in fatto di integrazione. Anche per questo, la segnalazione dei genitori del Consiglio di istituto è arrivata come un fulmine a ciel sereno, scatenando dibattiti sui social network e agitando la politica: Pdl e Lega invitano a fare di questa classe «un modello», Sel e alcuni esponenti Pd la bocciano, la Regione promette di «vigilare». Guerra, secondo il preside della scuola non c’è discriminazione perché la classe è aperta, «ponte» verso altre dopo alcuni mesi, non appena gli alunni stranieri avranno imparato un minimo di italiano. Che ne pensa?
«Voglio essere cauto, seguo la vicenda da lontano. Ma voglio anche dire con chiarezza che dal punto di vista pedagogico si tratta di un’esperienza del tutto inaccettabile. Chiarito ciò, vanno trovate delle altre soluzioni, insieme. Intendo dire che vanno trovati soprattutto investimenti, per permettere interventi più adeguati. Non si tratta insomma di tirare le pietre addosso ai docenti, ma di capire invece quali potrebbero essere le alternative. Altrimenti finiranno in un cul de sac, senza sapere come agire».
Si paventa l’effetto ghetto, in casi simili, è così?
«Certo, e si rischierebbe anche in classi con 15 alunni stranieri e 8 italiani. Classi con soli migranti poi non le accetto, su questo non c’è “se” né “ma”. Non si può mettere però sotto accusa i docenti, una soluzione in situazioni del genere non se la possono inventare le Besta da sole, il problema non può essere affrontato dal solo Collegio docenti che si ritrova questi ragazzi iscritti (ad agosto, dopo il ricongiungimento familiari, ndr) senza sapere come distribuirli. Sono altri i livelli che devono farsi carico dell’integrazione».
Per l’Ufficio scolastico regionale non ci sono «né ghetti né irregolarità», il dirigente anzi «ripeterebbe l’esperienza, se darà buoni risultati».
«Attenzione, è la proposta della cosiddetta mozione Cota, presentata dalla Lega anni fa: creare classi separate per stranieri, per dare loro una prima alfabetizzazione. La mia risposta però è no. Quanto successo alle Besta non può essere venduta come un’esperienza pilota».
Non è così insomma che alunni da poco in Italia possono superare il gap della lingua? In fondo è questa la ‘carta’ giocata dai sostenitori delle classi separate... «Deve essere chiaro che questi ragazzini non impareranno affatto l’italiano interagendo solo con gli insegnanti. Se questo è lo scopo, non è centrato».

Corriere 6.11.13
L’addio di Ovadia che divide gli ebrei milanesi
L’artista: censurato, me ne vado
di Gian Guido Vecchi

ROMA — Per capire il clima basterebbe il commento di Walker Meghnagi, presidente della comunità ebraica di Milano, «non mi pare una grande perdita, non credo che nessuno piangerà dopo queste parole incoscienti e pericolose». Moni Ovadia ha deciso di lasciare la comunità, cui era iscritto «per rispetto dei miei genitori», accusandola d’essere diventata «l’ufficio di propaganda» del governo israeliano. Intervistato dal Fatto quotidiano , ieri, ha parlato di «un veto» che «qualcuno» tra gli organizzatori avrebbe posto alla sua presenza nel festival di cultura ebraica Jewish and the city, che si è svolto a Milano dal 28 settembre all’1 ottobre. E questo «per le mie posizioni critiche del governo Netanyahu».
Parole durissime, quelle del grande attore e drammaturgo, che parla degli insulti («traditore», «nemico del popolo ebraico») ricevuti sul suo sito «in gran parte da ebrei», persone che «diventano i peggiori nazionalisti» perché «qualcuno ha sostituito la Torah con Israele». Ai vertici della comunità, tra l’altro guidata da una «grande coalizione», le reazioni sono altrettanto dure. E arrivano, sul sito Moked , anche da esponenti della sinistra come Daniele Nahum, consigliere della comunità: «L’intervista è piena di falsità, suona come una ripicca per il mancato ingaggio al festival. Noi rappresentiamo l’ebraismo milanese e non siamo l’agenzia di nessuno». Ovadia, tra l’altro, parla della «mancata presa di posizione» dei vertici alle frasi di Berlusconi (su Mussolini che «fece anche cose buone») nel giorno in cui si inaugurava il memoriale della Shoah alla stazione Centrale. Il presidente Meghnagi respinge l’accusa al mittente, «condannai quelle parole in un’intervista al Corriere». Ma intanto Ovadia rivela che anche Gad Lerner lasciò la comunità milanese in quell’occasione: «Non trovarono le parole necessarie a stigmatizzare quello sproloquio. Quella scelta era l’unico strumento che avevo per esprimere, con discrezione, la mia delusione: sono rimasto iscritto nella bellissima comunità di Casale Monferrato». Ma il problema denunciato da Ovadia esiste? «In quella forma così esasperata riguarda lui, c’è gente che esulta perché se ne è andato ed è un atteggiamento greve e autolesionista: si misconosce il grandissimo merito che ha avuto nella diffusione della cultura ebraica», dice Lerner.
Il regista Ruggero Gabbai, consigliere pd a Milano, premette: «Come ebreo di sinistra, non potrei immaginare di vivere in diaspora senza Israele, per noi è un’ancora di salvezza». Salvo aggiungere: «Temo che sia vera la storia degli insulti. Posso non essere d’accordo con le sue idee, ma Israele è una società pluralista e l’ebraismo ha sempre insegnato il confronto di idee: quella di Moni sarebbe una perdita grave». Più severo Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche : «Non mi pare che nel mondo ebraico italiano manchi il confronto, quelli che se ne vanno sbattendo la porta hanno sempre torto. E non abbiamo bisogno di un nuovo Grillo, anche se più colto». Emanuele Fiano, già presidente degli ebrei milanesi e ora deputato del Pd, lancia un appello: «Chiedo a Moni di riconsiderare la sua decisione. E vorrei una comunità capace di accogliere il dissenso».

l’Unità 6.11.13
La ricetta per i Beni Culturali
Riduzione delle direzioni e risorse ottimizzate
La relazione presentata dalla commissione presieduta dal giurista D’Alberti è stata accolta con favore dal ministro Bray
di Luca Del Fra


ROMA «UN’OTTIMA RELAZIONE»: PACATO COME SEMPRE NEL TONO DI VOCE, IL MINISTRO PER I BENI, LE ATTIVITÀ CULTURALI E IL TURISMO MASSIMO BRAY non ha nascosto la sua soddisfazione ieri mattina durante la presentazione del lavoro della Commissione per la Riforma del dicastero da lui retto.
È stata una conferenza stampa particolare, senza che ai giornalisti fosse fornito il testo della relazione ma solo dopo, via mail, un asciutto comunicato, mentre alcuni relatori che facevano parte della Commissione hanno illustrato a modo loro il contenuto delle proposte per rilanciare il Mibact: «Un lavoro di 2 mesi, con 29 audizioni, tra le quali quelle di molte associazioni, dei sindacati e anche del coordinamento dei precari e 8 riunioni ha spiegato il presidente della Commissione D’Alberti -. Abbiamo trovato grandi professionalità all’interno del ministero, ma anche dei limiti nella struttura centrale per la sovrapposizione di competenze e inefficienze».
Giurista e professore universitario considerato molto vicino a Salvatore Settis, D’Alberti è in certo senso il padre della Relazione e ha infatti spiegato come le direzioni generali e regionali possano scendere da 29 a 24, di cui circa una decina delle centrali dotate di maggiori poteri.
Il tutto in obbedienza alla Spending review e dunque al taglio di alcuni cospicui stipendi di direttore generale, ma anche con l’intenzione di rendere più efficiente la macchina ministeriale, e puntando anche sull’innovazione e sul personale e la sua formazione (che lascia perplessi considerando l’alta età media dei dipendenti), per cui verrebbero create due nuove direzioni generali, cui se ne aggiungerebbe un’altra per il bilancio. «Un’apposita direzione, dovrebbe poi occuparsi della tutela di tutto il patrimonio culturale e paesaggistico, che significa ha continuato D’Alberti anche valorizzazione. Si dovrebbero aggiungere una direzione per Archivi e Biblioteche, una che gestisca gli istituti periferici e i musei, una per lo Spettacolo e una o due per il Turismo. Accanto a queste ci sono le direzioni regionali, attualmente 17 ma che scenderebbero a 14».
Il che comporterebbe sia l’abolizione della direzione alla valorizzazione, voluta dall’allora ministro Bondi per Mario Resca e che tante polemiche ha causato, sia l’accorpamento di cinema e spettacolo dal vivo e infine una nuova sistemazione dei beni culturali e del paesaggio. Buona parte dei suggerimenti contenuti nella relazione potranno diventare operativi grazie a un semplice decreto legge, mentre per la riduzione delle direzioni regionali, che implica un intervento legislativo probabilmente verrà presentato un emendamento alla Legge di stabilità.
Paolo Baratta, presidente di Biennale e membro della commissione ha ricordato come la Relazione si muova in direzione della riforma della pubblica amministrazione «vigente in Italia dal ’93, quindi da vent’anni. Pur imperfetta questa Relazione, segna comunque un passaggio importante». E di questo si è detto convinto anche il ministro Bray, perché: «Tornare a mettere al centro del Mibact la tutela del patrimonio culturale come conoscenza e capacità di promuovere la cultura, non è compito solo del ministero ma del paese, perché è sul patrimonio che si può costruire un futuro differente».
Più delicate la situazione del Segretariato generale, potentissimo ufficio di coordinamento del Mibact, sulla cui sopravvivenza futura la Relazione lascia molti margini di dubbio, così come sulla creazione di una nuova ma non precisata Unità di controllo alle strette dipendenze del ministro.
I tempi sono stretti, il 31 dicembre scadono i termini per l’attuazione della Spending review, e a giorni Bray ha annunciato che presenterà la proposta di riforma in consiglio dei ministri. Non mancheranno scontri e polemiche, come peraltro già avvenuto durante le audizioni: tra gli argomenti caldi, la scorporazione dei musei dalle sovrintendenze in direzione di una maggiore autonomia è un abbandono? da realizzare però con il contratto per i dipendenti bloccato, nonché la maggior forza data alle direzioni generali centrali con il mantenimento delle direzioni regionali che, pur ridotte nel numero, appaiono un «instrumentum regni» irrinunciabile.

Corriere 6.11.13
Più autonomia alle biblioteche, digitalizzazione e legami stretti con il turismo
Scuole e musei sponsorizzati, la riforma di Bray
di Paolo Conti


ROMA — Il ministero dei Beni culturali si ripensa e guarda al futuro partendo dal nostro straordinario passato. Dice il ministro Massimo Bray: «Tornare a mettere al centro la tutela del patrimonio culturale come conoscenza e capacità di promuovere la cultura non è compito solo del ministero ma del Paese perché è sul patrimonio, con uno stretto collegamento con lo sviluppo del turismo, che si può costruire un futuro differente. Non vedo altre prospettive per i troppi giovani che progettano di costruire il loro futuro lontano da qui...»
Bray ha esposto ieri mattina il risultato del lavoro della Commissione per la riforma presieduta dal giurista Marco D’Alberti. Due mesi di analisi, una trentina di audizioni. Ed ecco il piano che entusiasma Bray il quale conta «molto presto» di sottoporlo al capo del governo Enrico Letta (per avviarlo non occorre una legge ma solo un decreto del presidente del Consiglio) insieme al decreto Turismo.
Passano da 29 a 24 le direzioni generali del ministero: quelle regionali scenderebbero da 17 a 14. Tre le nuove direzioni centrali proiettate verso l’innovazione. La prima per i sistemi informativi e la digitalizzazione del patrimonio; una seconda per il personale, quindi per la formazione di professionalità adeguate alle scommesse della contemporaneità; una terza per appalti e contratti, anch’essa con visioni innovative: dovrebbe definire l’ambito delle «convenzioni da stipularsi con i privati per una più efficace valorizzazione di istituti e luoghi di cultura». Bray ha escluso il varo di nuovi codici, per esempio, sull’affitto o l’uso di parti di musei o di luoghi culturali (alla base delle lunghe e note polemiche, per esempio, sui ricevimenti a pagamento nei luoghi d’arte organizzati dai privati). Ci sarà un Comitato che affronterà il tema in termini generali: troppo diverse tra loro le realtà locali per un solo strumento operativo.
Poi un’unica struttura centrale per la tutela e valorizzazione del patrimonio e del paesaggio, per snellire il lavoro. Un’altra per archivi e biblioteche. Una sola (ora sono due) per le attività dello spettacolo. Infine una per il turismo, finalmente collegato in modo strutturale e organizzativo all’universo del patrimonio. Infatti le direzioni regionali dei Beni culturali avrebbero compiti di raccordo con gli enti territoriali anche in materia di turismo.
Soprintendenze, musei, archivi e biblioteche avrebbero maggiore autonomia gestionale e organizzativa anche in materia di orari di apertura e di prezzi dei biglietti. Per Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia e membro della commissione, questa autonomia dovrebbe «consentire di svolgere le funzioni di tutela ma anche il ruolo di centri vivi di ricerca e conoscenza capaci, in particolare, di contrattare interventi di privati come supporti e interlocutori, certo non sostituti delle responsabilità pubbliche che non possono essere abdicate». Ribadendo così la centralità della tutela da parte dello Stato.
Tra i grandi progetti (questo sostenuto soprattutto al professor Tomaso Montanari, uno dei membri della commissione) la creazione di una Scuola Nazionale per il Patrimonio, che assicuri nuove leve con elevata formazione specialistica.
Sul rapporto pubblico-privato la commissione suggerisce di chiarire la disciplina degli appalti dei lavori («ora oscura e frammentata»), di dare più spazio a forme di project financing per la ristrutturazione e innovazione di musei, di assicurare maggiore snellezza alle procedure per le sponsorizzazioni. Infine sul turismo, soprattutto in vista dell’Expo 2015, Bray immagina «percorsi di senso e di significato» per chi arriverà in Italia e che non si riducano alla sola Lombardia ma si estendano per tutto il Paese .

l’Unità 6.11.13
Venezia, addio ai giganti del mare
Ma dall’anno prossimo
di S. G.


Le grandi navi da crociera non funesteranno più il delicato equilibrio di Venezia. È la decisione scaturita dall’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra il premier Enrico Letta, i ministri Lupi, Orlando, Bray, il presidente della Regione Veneto Zaia, il sindaco di Venezia Orsoni e il presidente dell’Autorità Portuale di Venezia, Costa. Alla riunione si è arrivati da posizioni contrapposte e si è usciti con la decisione di vietare il transito delle navi da crociera di stazza superiore a 96mila tonnellate dirette o in partenza da Venezia per il canale di Giudecca, attuando così il decreto Clini-Passera, e di prevedere una nuova via di accesso alla Stazione marittima nel canale Contorta Sant’Angelo, come diramazione del Canale Malamocco-Marghera.
Lo stop ai giganti del mare arriverà dal primo novembre 2014. Da allora dovrà essere «definitivamente precluso il transito delle navi crocieristiche superiori a 96mila tonnellate di stazza lorda». In particolare, «dal primo gennaio 2014 dovrà essere vietato il passaggio nello stesso Canale dei traghetti, con conseguente riduzione del 25% dei transiti davanti a San Marco e del 50% delle emissioni inquinanti; dal primo gennaio 2014 dovrà essere ridotto fino al 20% (sul 2012) il numero delle navi da crociera di stazza superiore alle 40mila tonnellate abilitate a transitare per il Canale della Giudecca». Dovrà essere poi assicurata «una riduzione dello stazionamento giornaliero massimo (non superiore a 5 navi di stazza superiore a 40mila tonnellate) e una contrazione dei passaggi residui nelle ore centrali della giornata». «Si è discusso molto e si è trovato l’accordo su una graduale riduzione del transito delle navi dal canale della Giudecca e da San Marco spiega Zaia -. Si lavorerà da subito anche alla soluzione alternativa del canale Contorta-Sant’Angelo». «Per la prima volta il Governo è intervenuto sulla questione delle grandi navi da crociera, già questo è un punto rilevante dice il sindaco Orsoni -. Oggi si è invertita la tendenza al gigantismo in Laguna». Di diverso avviso l’Associazione CruiseVenice: «È assurdo il limite alle navi superiori alle 96mila tonnellate e la perdita di 180 toccate/anno. Un limite irrazionale che poteva essere portato almeno a 110mila tonnellate e che finirà per mettere in ginocchio il porto di Venezia e ne segnerà la fine».

Repubblica Roma 5.11.13
Atac, una donna guida la protesta
"Ma voglio diventare psichiatra"
Micaela Quintavalle, 33 anni, è la capofila della mobilitazione contro gli straordinari imposti dall'azienda

"Ho sempre combattuto in azienda, ma questa battaglia è nata all'improvviso"
qui

l’Unità 6.11.13
Nel bus con la pasionaria: «Ce la faremo»
di Marco Bucciantini


Micaela ha la mani grandi per afferrare l’enorme volante o per palpare un addome. Fa questo e quello, tranviera e candidata dottoressa. Lei è la pasionaria dell’Atac, non è iscritta al sindacato ma è sindacalista per indole, per esuberanza e per frasario e si spaventa un po’ (e un po’ le piace) questo ruolo “importante” trovato per strada ma non per caso: intervenne all’assemblea dei sindacati, ci mise cuore e voce. Da allora raccoglie e organizza un po’ di rabbia e la porta all’azienda: eccoci qua, su Facebook il gruppo spontaneo ha radunato oltre 3mila delusi, c’è qualcosa che non torna. «I diritti più semplici, come riscuotere un premio di produzione previsto e guadagnato, o l’avere vetture che magari non vanno in fumo (con queste mani e con l’estintore ho spento un incendio, l’altro giorno). Magari anche i bagni al capolinea perché la sosta fra una corsa e l’altra è di tre minuti, se scappa un “bisogno” tocca andare al bar e si perde tempo». Il tempo perso, in questo mestiere, è come la palla di neve che diventa valanga. Si accumula, s’ingrandisce dell’irritazione dei passeggeri, che usano l’autista come un pugile usa il sacco: per sfogarsi. «Vedono una donna ma non si fanno scrupoli: l’altra sera un tizio mi ha chiesto se ero in ritardo perché mi ero fermata a fare i...». Capito, capito.
Il 780 è un downtown train che allaccia la Magliana a Piazza Venezia. Un giro lungo, la tabella di marcia obbliga la corsa dentro due ore (un’ora l’andata, un’ora il ritorno). Tre giri, un turno. Tre giri (e il rabbocco di strada per il rimessaggio) fanno 120 chilometri al giorno, 700 la settimana: quasi 40mila l’anno. È la vita da autista di questa donna che viaggia a doppio senso: «Faccio la tranviera, faccio la dottoressa». Cose distanti, passioni costrette a coabitare: lavorare per studiare. Micaela Quintavalle è al quarto anno di Medicina, alla Sapienza, e fa pratica al Policlinico. «Ho 33 anni, prima di guidare facevo la cameriera, rispondevo nei call center, davo ripetizioni di Latino. Avevo questa passione per le moto e per la guida, l’ho messa a profitto. Così ho trovato la serenità e i soldi per studiare. E con gli esami sono in regola, marcio spedita con la media del 29...». Il bus, invece, marcia a ostacoli, faticoso, grande, grosso, non trova mai spazio per accostare quando c’è da far salire (o scendere) la gente, perché c’è sempre quella macchina che ha invaso il posto, c’è sempre quel tizio in doppia fila, con le quattro frecce accese, con la sua emergenza, con il suo piccolo grande alibi per dimenticare il senso civico. Un bus che galleggia in mezzo alla strada ingombra, intasa: anche la piccola regola violata può diventare una valanga. In questa ricerca sulla cittadinanza c’è una resa clamorosa: alla prima fermata verso piazza Venezia si popolano i sedili. Alla seconda il corridoio s’affolla. Alla terza manca l’aria, la capienza indicata dalla targa (20 posti a sedere, 70 in piedi) è già raggiunta, alla quarta da terra guardano dentro con gli occhi delusi, indecisi se salire o aspettare la corsa successiva. Nei tratti del centro si viaggia così, stretti stretti, e il piede di Micaela dev’essere gentile, la frenata ben distribuita. La resa, allora: il bus è pieno e la macchina che oblitera il biglietto ha schioccato solo una volta per l’azione di un signore sbarbato, gli occhiali rettangolari e lo zaino sulle spalle. Due ragazze tengono i loro biglietti in mano, ansiose, si guardano attorno, cercano (ma non sperano) una divisa da controllore, e aspettano di capire se possono risparmiare il ticket per il prossimi giro. «Quando si vede il controllore alla fermata, pronto a salire, il bus si svuota. È una scena comica».
Esistono gli abbonamenti settimanali, mensili, annuali, esistono le esenzioni. Esiste la frode fiscale compiuta perché minima, un euro e mezzo, ché siamo indulgenti con i nostri peccati, li vediamo cuccioli, magari teneri, come il barboncino che sale a bordo assieme alla signora appesantita, rimasta indietro nella cura di sé. Un bus è anche un osservatorio ampio di stili e disagi, «questo mi piace, visto che vorrei specializzarmi in psichiatria...», scherza Quintavalle. Torniamo ai biglietti: nei mezzi sottoterra è più difficile eludere. Sui mezzi di superficie, la percentuale di evasione è dell’80%. Il conto totale per l’Atac è di milioni di euro l’anno. Quando si tira la riga di un bilancio, va tenuto presente anche questo.
È buio per le strade di Roma, il traffico si scioglie, il bus si distende e chiude il suo giro da 15 km/h, grossomodo la velocità della carrozza a cavalli, due secoli fa. Qualcuno lascia lì un complimento, finalmente: «Voi donne guidate meglio». Micaela cita un libro di Céline, Il dottor Semmelweis, che fu la tesi di laurea in Medicina dello scrittore. Racconta l’eroica e triste vicenda dello scienziato ungherese: scoprì le cause della febbre puerperale, l’infezione che uccideva le partorienti dell’800. Rivoluzionario, osteggiato, screditato, internato. Un genio morto al manicomio. Ne parliamo, mentre il bus borbotta e piano piano si zittisce.

Repubblica Roma 6.11.13
Micaela, leader della protesta “L’azienda calpesta i nostri diritti”
intervista di Giulia Cerasi


«GLI autisti hanno bisogno di urlare il loro disagio che va avanti da troppo tempo». Ha 33 anni, è bionda e il suo obiettivo è diventare psichiatra. «Ma finché sarò in azienda continuerò a battermi per i diritti dei lavoratori». Micaela Quintavalle è la leader della protesta dei conducenti Atac che da lunedì si rifiutano di fare i turni straordinari.
Perché questa contestazione?
«C’è forte carenza di autisti e noi siamo costretti a fare turni straordinari perché le assunzioni sono bloccate. Ma ora siamo stanchi, vogliamo far capire all’azienda cosa significa se noi ci fermiamo».
In che condizioni lavorate?
«Dopo sei ore ordinarie ne facciamo altre 2-3 di straordinari per coprire turni che altrimenti rimarrebbero scoperti. Poi c’è il problema delle ferie estive, solo 10 giorni imposti dall’azienda. Senza contare che siamo i capri espiatori dell’ira dei passeggeri».
Come è nata la protesta?
«È da luglio che aspettiamo un premio di produzione di 300 euro: ho visto padri piangere perché avevano fatto promesse ai figli senza poterle mantenere. Allora ho deciso di fare un gruppo segreto su Facebook che in pochi giorni è arrivato a oltre 3mila iscritti».
Poi?
«Nelle assemblee ho rilanciato l’idea del blocco degli straordinari, con adesioni impensate nonostante non sia stato organizzato dai sindacati. In questi anni non si sono mai occupati dei nostri interessi».
Quali sono le vostre richieste?
«Più diritti professionali, ricevere i soldi che ci spettano e il rispetto delle regole».

l’Unità 6.11.13
Profondo Atac
La crisi dei trasporti fa tremare Marino
di Jolanda Bufalini


I SINDACATI: IL SINDACO RISPETTI GLI IMPEGNI «GLI AUTISTI SONO IN PRIMA LINEA, SU DI LORO SI SCARICA LA RABBIA DEI CITTADINI»
Un altro giorno di tregenda per le strade di Roma: anche ieri la protesta spontanea degli autisti che rifiutano gli straordinari ha ridotto di circa il 12 per cento il servizio pubblico nella fascia fra le 11e 30 e le 12 e 30. Disagio che si aggiunge ai disagi ordinari di bus bloccati nel traffico, di corse che saltano, di attese alle fermate che, quando va bene, superano i venti minuti, di porte che non si aprono, di impianti di riscaldamento che vanno «a tutta callara» oppure, al contrario, trasformano il viaggio in un soggiorno in ghiacciaia. I sindacati Cgil, Cisl, Uil denunciano una situazione insostenibile e rischiosa e, con il sit in di oggi, chiamano direttamente in causa il sindaco Ignazio Marino. Sembra troppo lontano il tempo della campagna elettorale, quando lo sfidante di Alemanno candidato denunciava buste paga alla mano le ferie non godute, il monte ore straordinari pazzesco.
Fra allora e ora c’è di mezzo il buco lasciato da Alemanno di 867 milioni e c’è il bilancio da profondo rosso dell’Atac, una massa debitoria che supera i 700 milioni. Ma c’è pure l’annuncio che il Campidoglio, per far quadrare i conti 2013, taglia al sistema dei trasporti cittadino quasi 60 milioni di euro. Racconta Lionello Cosentino (prossimo segretario del Pd romano con il 46% circa dei consensi alle primarie), reduce dal congresso dell’Atac: «Sugli autisti si scarica il malcontento dei cittadini, da loro ho sentito una richiesta di miglioramento del servizio pubblico». Invece quel taglio deciso dalla giunta capitolina con il coltello alla gola si aggiunge a quelli «delle due ultime finanziarie che hanno massacrato i comuni su trasporto e sociale».
È una situazione che l’assesore Guido Improta definiva, a luglio, «a rischio per la stessa continuità aziendale», insomma si è sull’orlo della bancarotta e, infatti, anche le banche hanno stretto i cordoni della borsa. Però, dicono i sindacati, nella situazione che si è creata ad Atac c’è un’aggravante che la nuova giunta non può scaricare su altri: «Trasparenza, merito, curricula, discontinuità», scandisce Alessandro Capitani (Filt Cgil), «nulla di tutto questo è avvenuto».
L’«AGGRAVANTE» DEI DIRIGENTI
L’aggravante è che molti dirigenti che hanno portato l’azienda al collasso sono rimasti, niente discontinuità. Altri sono andati via ma «pagati profumatamente». I casi sono due sostiene il sindacalista «o quei dirigenti erano bravi e, allora, non si capisce perché sono stati mandati via, oppure non lo erano, e allora ci voleva un’azione di responsabilità nei loro confronti». «Le assemblee negli impianti racconta Capitani sono infuocate, ed è normale con 70 giorni di ferie pro capite non godute». Ma non basta: «Nell’accordo che abbiamo firmato il 30 novembre 2011 si prevedeva il taglio delle elargizioni ad personam, non sono pochi circa 2 milioni e mezzo di euro annui» ma soprattutto sono un segnale di iniquità verso chi è in prima linea a prendersi gli improperi di utenti furibondi per il degrado del servizio e che, unici in Italia, «non hanno avuto scatti di anzianità in ossequio alla spending review». L’accordo del 2011 prevedeva anche il risparmio di 80 milioni di euro su appalti e consulenze: «Non è stato fatto nulla», rincara Capitani. Nemmeno l’Agenzia unica comunale e regionale, perorata dallo stesso assessore Improta, nemmeno l’amministratore unico annunciato da Marino in campagna elettorale.
In azienda non negano le inefficienze ma sottolineano che solo una parte di responsabilità è loro quando, in Italia, il taglio al fondo dei trasporti ha prodotto un miliardo e mezzo di deficit nella spesa corrente. E qualche passo si sta facendo, «sono state cancellate venti caselle dirigenziali». È vero che parentopoli ha squilibrato il personale a favore degli amministrativi ma la verità è che «dal 2008 non ci sono state grandi assunzioni e il personale andato in pensione non è stato sostituito». Ci sono «250 amministrativi in più», chiosa Capitani, «a fronte di un 12% in meno fra autisti, verificatori, meccanici, macchinisti». «Ci stiamo provando a spostare gli amministrativi», dicono in azienda, «ma non possiamo mandarli a guidare gli autobus».
Sullo sfondo c’è la preoccupazione di un nuovo taglio ai chilometri che Atac deve servire. E, soprattutto, lo spettro di una privatizzazione in condizioni disastrose.

il Fatto 6.11.13
“Grand Tour Cavour”, portaerei per pubblicità
L’ammiraglia della flotta sta per partire per Paesi arabi e Africa
Missione: diffondere i prodotti del Belpaese in nuovi mercati
di Alessio Schiesari


Una fiera galleggiante del Made in Italy a bordo di quattro navi militari del valore complessivo di oltre 4 miliardi di euro. Questo è il progetto della campagna navale “il sistema Paese in movimento”, che prenderà il via il 12 novembre e sosterà in venti Paesi, circumnavigando la Penisola Araba e l’Africa. Sulle navi da guerra saranno allestiti gli stand promozionali di aziende pubbliche e private (Finmeccanica, Expo 2015, Pirelli, Piaggio Aereo, Beretta, Blackshape, FederlegnoArredo, Elt, Intermarine, Mermec Group, Mbda, Sitael). Prendiamo l’esempio di Federlegno: sulla portarei Cavour è prevista l’esposizione “‘Il cuore dell’abitare italiano/La nostra passione è la tua casa’ che occuperà una superficie di 150 metri quadrati”. Secondo il ministro Mauro “una straordinaria vetrina del sistema Paese”. Se è straordinaria per il Paese, figurarsi per le aziende partecipanti, tanto più che la fiera galleggiante sarà finanziata anche a spese dei contribuenti.
Secondo la Difesa, le aziende si accolleranno i 13 milioni necessari per il funzionamento della nave, mentre solo i 7 milioni per il personale saranno a carico dal ministero. I conti però non tornano. Ogni giorno di navigazione della sola Cavour costa 200 mila euro che, moltiplicati per i 147 giorni di viaggio, diventano quasi 30 milioni. A questi vanno aggiunte le spese per la revisione di fine viaggio, che costringerà ogni nave a sostare in porto per un anno e mezzo.
Anche i 7 milioni calcolati per pagare i militari sembrano pochi. L’equipaggio base delle quattro navi è di almeno 800 effettivi. Dividendo i 7 milioni per 147 giorni di navigazione, ne uscirebbe una paga di 60 euro lordi al giorno, indennità comprese. Inoltre, né la Difesa né le aziende hanno voluto specificare se gli spazi espositivi siano stati assegnati attraverso una gara pubblica.
Dal suo varo nel 2004 la portaerei Cavour non è mai stata impegnata in operazioni militari nonostante sia costata 3,5 miliardi di euro.
SECONDO LA DIFESA, l’investimento sarebbe stato ripagato dalle ricadute sul commercio: “Sta suscitando l’interesse di molti Paesi intenzionati a rivolgersi all’industria italiana per dotarsi di navi simili”, aveva dichiarato il capo di Stato maggiore della Marina, Sergio Biraghi, il giorno dell’inaugurazione. Da allora, nessuno si è rivolto all’Italia per acquistare una portaerei. L’occasione buona sembrava essere il terremoto di Haiti del 2010, fino ad oggi unica missione della Cavour. La portaerei venne impiegata per portare assistenza alla popolazione, anche se la stessa operazione fatta con aerei cargo sarebbe stata più economica e veloce. La scelta ricadde sulla portaerei perché, dopo la sosta umanitaria, era in programma una missione commerciale in Brasile. Lula voleva rinnovare la flotta, o almeno così credeva Fincantieri. Dopo tre anni, della commessa brasiliana non c’è traccia.
Negli anni seguenti va anche peggio: la portaerei è utilizzata come museo galleggiante per esporre i cimeli del Conte di Cavour; per un war game in cui si simula uno scontro “tra un Paese sotto un regime autoritario sospettato di violare i diritti e uno Stato democratico” (dichiarazione dell’ammiraglio Filippo Maria Foffi) e per testare, con Max Biaggi alla guida, nuovi pneumatici da moto Pirelli.

Repubblica 6.11.13
Europa

Lettere smarrite
di Barbara Spinelli


SONO d’accordo con l’auspicio espresso domenica da Eugenio Scalfari: che l’Europa federale nasca, e la moneta unica si salvi.
In caso contrario avremo, al posto dell’Unione, tanti staterelli senza lode ma non senza infamia, non amici ma più che mai vassalli della potenza Usa. Torneremo alla casella di partenza: vinti dai nostri nazionalismi come nelle guerre mondiali del ’900.
Sono meno d’accordo con il giudizio severo sui movimenti di protesta che ovunque nascono contro l’Europa come oggi è fatta, e ho un’opinione assai meno perentoria su 5 Stelle. Chi ascolti Grillo con cura sarà certo colpito dalle sue incongruenze; specie quando indulge alla xenofobia, procacciatrice di voti. Ma non s’imbatterà nel nazionalismo, né in vero antieuropeismo. Populismo è un’ingiuriosa parola acchiappatutto che non spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è sotterfugio autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in uno dei migliori saggi usciti in Europa sul populismo come spauracchio (Micromega 4-13). Serve a confondere l’effetto (la rabbia dei popoli, il suo uso) con la causa (l’Europa malfatta, malmessa). Letta fa la stessa confusione, nell’intervista alla Stampa di venerdì.
Qualche giorno fa Grillo ha detto sulla crisi dell’Unione cose sensate, che nessun nazionalista direbbe: un’Europa che si dotasse di strumenti finanziari (tra cui gli eurobond), e che mettesse in comune i debiti, potrebbe far molto per superare le difficoltà e salvare se stessa. Purtroppo c’è nel M5S chi propugna l’uscita dell’Italia dall’Euro, fantasticando di rimettere sul trono i re nazionali. Questo significa che Grillo esita a compiere scelte forti, quasi fosse già stanco all’idea di divenire un leader che educhi, unifichi. Non significa che i 5 Stelle siano assimilabili a Marine Le Pen, o ai neo-nazisti in Grecia e Ungheria. Anche se il protezionismo mentale li tenta, è difficile immaginare che un movimento nato dalla congiunzione di iniziative cittadine del tutto estranee al nazionalismo sfoci in destra estrema.
La questione di fondo è dunque un’altra. Non il nome interessa sapere, ma perché in Europa cresca un’umanità così infelice, disgustata. Chiamarla populista o reazionaria è fermarsi alle soglie del perché. La domanda sulle radici del grido è elusa. E la risposta è inservibile, se proteste e proposte tra loro tanto dissimili vengono espulse come grumo compatto che intasa chissà quale progresso.
Bollare un intrico di sdegni e rifiuti vuol dire ignorare che l’Europa di oggi distilla veleni cronici. Non basta dirla per farla, alla maniera performativa dei governi attuali. Vuol dire nascondere quel che pure è evidente: nazionalismo e conservazione sono vizi che affliggono i vertici stessi e le élite degli Stati dell’Unione. Anche qui vale la pena andare oltre le parole: se si esclude la Francia, Federazione non è più vocabolo tabù. Molti oggi l’invocano. Ma senza che al verbo seguano atti concreti: la messa in comune dei debiti, una crescita alimentata da eurobond e da risorse europee ben più consistenti di quelle odierne. E ancora: un Parlamento europeo con nuovi poteri, e una Costituzione comune che sia espressione dei cittadini. Un’Europa che sia per loro un rifugio in tempi di angoscia, e non il guscio che protegge un’endogamica oligarchia di potenti che si blindano a vicenda.
L’Europa così com’è non è minacciata dalla rabbia (di destra e sinistra) dei propri cittadini. È minacciata da governi restii a delegare sovranità nazionali non solo finte ma usurpate, visto che sovrani in democrazia sono i popoli. La crisi del 2007-2008 la tormenta smisuratamente a causa di tali storture. Un’austerità che accentua povertà e disuguaglianze, un Patto di stabilità (Fiscal Compact) che nessun Parlamento ha potuto discutere: l’Europa che si vuol ripulire dai populismi è questa. È la miseria greca; sono gli occhi che spiano il debole, come nei Salmi. È la corruzione dei governi, che si ciba di disuguaglianze e di falsa stabilità.
Il caso delle sinistre radicali in Grecia è esemplare. Il Syriza, una coalizione di movimenti cittadini egruppi di sinistra, fu bollato come antieuropeo e populista, nelle due elezioni del maggio-giugno 2012. Le cancellerie europee si mobilitarono, dipingendo Syriza come orco da abbattere. Berlino minacciò di chiudere i rubinetti degli aiuti. Ma né Syriza né Alexis Tsipras che lo guida sono antieuropei. Chiedono un’altra Europa, sì, e questo atterrisce l’establishment.
Il 20 settembre, presentando il proprio programma al Kreisky Forum di Vienna, Tsipras ha sorpreso chi l’aveva infangato. Ha detto che l’architettura dell’euro e i piani di salvataggio hanno sfasciato l’Unione, invece di bendarne le ferite. Ha ricordato la crisi del ’29, i dogmi neoliberisti con cui fu gestita. Proprio come accade oggi, «i governi negarono l’architettura aberrante dei loro disegni, insistendo sull’austerità e sul mero rilancio dell’export». Ne risultò miseria, «e l’ascesa del fascismo in Sud Europa, del nazismo in Europa centrale e del nord». È il motivo per cui l’Unione va fatta da capo. Riprendendo le idee dei sindacati tedeschi, Syriza propone un Piano Marshall per l’Europa, un’autentica unione bancaria, un debito pubblico gestito centralmente dalla Banca centrale europea, e un massiccio programma di investimenti pubblici lanciato dall’Unione.
Ma Tsipras dice qualcosa di più: c’è un nesso che va denunciato, tra la crisi europea e le corrotte democrazie di Atene e di tanti Paesi del Sud. «La nostra cleptocrazia ha stretto una solida alleanza con le élite europee», e il connubio si nutre di menzogne sulle colpe greche o italiane, sui salari troppo alti e lo Stato troppo soccorrevole. Le menzogne «servono a trasferire la colpa delle debolezze nazionali dalle spalle dei cleptocrati a quelle del popolo che lavora duramente».
È un’alleanza che non ha più opposizione da quando la sinistra classica ha adottato, negli anni ’90, i dogmi neoliberisti. Gran parte della popolazione è rimasta così senza rappresentanza: smarrita, dismessa, punita da manovre recessive che paiono esercitazioni militari. È questa parte (una maggioranza, se contiamo anche gli astensionisti) che protesta contro l’Europa: a volte sognando un irreale ritorno alle monete e alle sovranità nazionali; a volte chiedendo invece un’altra Europa, che non dimentichi il grido dei poveri come seppe fare tra il dopoguerra e la fine degli anni ’70. Questo dice Tsipras. Cose simili, anche se più caoticamente, dice Grillo.
Se nulla si muove l’Europa sarà non più riparo, ma luogo che ti espone, ti denuda. Tenuto in piedi da élite di consanguinei –che campano di favori personali fatti e ricevuti senza che dubbio li sfiori (è il caso Cancellieri); che annunciano una ripresa smentita dai fatti – l’edificio somiglia sempre più all’Ufficio delle Lettere morte custodito da Bartleby lo scrivano, nel racconto di Herman Melville.
È sfogliando e gettando al macero migliaia di lettere spedite e mai recapitate che Bartleby matura il suo impallidito rifiuto, che a un certo punto lo indurrà a rispondere «Preferirei di no», con cadaverica tranquillità, a qualsiasi ordine o domanda. Ecco, l’Europa è oggi quell’Ufficio che ha trasformato il suo impiegato in un infelice: «Lettere morte! (...) Talvolta dalle pieghe del foglio il pallido impiegato estrae un anello: e il dito cui era destinato forse già imputridisce nella tomba; una banconota inviata con la più tempestiva delle carità: e colui che ne avrebbe ricevuto giovamento ormai non mangia più, non soffre più la fame; un perdono per coloro che morirono nello scoraggiamento; una speranza per quelli che morirono senza sperare; buone notizie per quelli che morirono soffocati da non alleviate calamità. Messaggere di vita, queste lettere precipitano nella morte. O Bartleby! O umanità!».

l’Unità 6.11.13
Il fragile Mediterraneo che si fa spiare da lontano
di Umberto De Giovannangeli


IL MEDITERRANEO NON È SOLO IL «MARE DELLA MORTE», DEI BOAT PEOPLE AFFONDATI. IL «MARE NOSTRUM» È ANCHE UN «MARE DI SPIE». SPIE MADE IN ENGLAND E USA. È quanto emerge dall’inchiesta pubblicata da l’Espresso, a firma Nicky Hager e Stefania Maurizi. A Cipro, rivela l’Espresso, opera una base segreta per spiare tutte le comunicazioni che attraversano il Mediterraneo, creata dai servizi segreti britannici e gestita in accordo con quelli americani. Il ruolo della base cipriota assume particolare importanza alla luce del primato inglese nella sorveglianza dei cavi sottomarini in fibra ottica, dove oggi corrono tutte le comunicazioni, che si tratti di colloqui telefonici, email o traffico di dati Internet. I dossier di Edward Snowden, la «talpa» che ha portato alla luce il Datagate, hanno permesso alla Sueddeutsche Zeitung di rivelare che gli 007 di Sua Maestà controllano ben 14 cavi sottomarini a fibra ottica: le arterie fondamentali che uniscono America ed Europa con Asia e Africa. Nella lista delle autostrade sottomarine spiate dai britannici figurano tre cavi che, come ha rivelato l’Espresso in collaborazione con Suddeutsche Zeitung, hanno snodi in Italia e raccolgono le comunicazioni in entrata e uscita dal nostro Paese. Non è chiaro puntualizzano gli autori dell’inchiesta, se «Telecom Italia Sparkle», sia informata o collabori in qualche modo con il Gchq (Government Comunication Headquarters), l’agenzia britannica che conduce i programmi di intercettazione elettronica nelle intercettazioni di massa. Ottenere intelligence dai cavi sottomarini, di norma, richiede la cooperazione delle aziende di telecomunicazione. In Inghilterra, ad esempio, il Gchq ha avuto una relazione di lunga data con la «British Telecom», che ha consentito di progettare le infrastrutture a vantaggio degli intercettatori.
Una cosa è certa: nel Datagate, Londra ha avuto un ruolo attivo, e non solo di copertura politica dell’alleato americano. Una conferma viene da Berlino. Il Regno Unito avrebbe svolto attività di spionaggio nei confronti del governo tedesco da una centrale collocata sul tetto della sua ambasciata a Berlino. Lo scrive il quotidiano The Independent, citando nuove rivelazioni di Snowden. Nei giorni scorsi era emerso che anche dalla rappresentanza diplomatica usa veniva svolta una profonda attività di sorveglianza. Secondo i documenti, lo spionaggio condotto dall’ambasciata britannica si sarebbe concentrato sul Bundestag e gli uffici della cancelliera Angela Merkel. Dopo le rivelazioni del quotidiano londinese, l’ambasciatore britannico a Berlino, Simon McDonald, «è stato invitato per una discussione su iniziativa del ministro degli Esteri Guido Westerwelle», ha reso noto un portavoce del ministero degli Esteri tedesco.
Chiarezza: è quanto richiesto a più riprese anche dal premier italiano, Enrico Letta. Una chiarezza tutta da determinare. Il giornalista statunitense che custodisce i file della talpa Edward Snowen, Gleen Greenwald, ha rivelato, sempre a l’Espresso che «la Nsa porta avanti molte attività spionistiche anche sui governi europei, incluso quello italiano». Ma non sarebbe la sola. A quanto pare, a monitorare informazioni private del Belpaese sarebbe anche la Gran Bretagna. L’Italia, infatti, sarebbe coinvolta non solo nel sistema «Prism» gestito dagli Usa ma anche, in qualità di «vittima», in un programma parallelo e convergente denominato «Tempora» che farebbe invece capo all’intelligence britannica. Quest’ultima così avrebbe intercettato il traffico di telefonate, mail e internet trasferito tramite cavi di fibre ottiche e fatto arrivare poi le informazioni più importanti all’ente americano. «Il Grande fratello» parla anche british. E dal cuore del Mediterraneo, intercettava comunicazioni che riguardavano anche vicende particolarmente «calde», come l’atteggiamento di vari Paesi euromediterranei, tra cui l’Italia, nelle settimane che precedettero le operazioni di guerra contro al Libia di Muammar Gheddafi. Di come l’Italia si sia tenuta fuori da «Tempora», la rete di spionaggio di massa, telefonico e internet, messo in piedi da Francia, Spagna, Svezia e Germania, con la supervisione dei servizi britannici, ha parlato con Adnkronos il vice presidente del Copasir, Giuseppe Esposito. «Il nostro Comparto Intelligence, coordinato dal Dis di Giampiero Massolo dice ha assicurato che l’Italia non ha partecipato a questa pesca “a strascico”. Questo risulta anche dagli accertamenti del Copasir».
Ma risulta anche che i servizi italiani erano stati «sondati» dagli 007 di Sua Maestà. Sullo sfondo di questa «spy story» non c’è solo il violato diritto alla riservatezza. Ma ci sono anche interessi corposi, petroliferi, che riguardano le grandi corporation che operano nel Mediterraneo. Tra queste, Bp ed Eni. Una ragione in più per esigere chiarezza.

l’Unità 6.11.13
Protesta in cella. Spedita in Siberia Pussy Riot ribelle
La leader del gruppo condannato per una canzone anti-Putin aveva denunciato di aver subito minacce
Trasferita in un campo di lavoro a 4500 km da Mosca
Il marito: «È una punizione»
di Roberto Arduini


«Abbiam fatto a brandelli le corde di catrame con unghie spezzate e sanguinanti; abbiamo pulito le porte, lavato i pavimenti, lucidato le rotaie splendenti», scriveva oltre un secolo fa Oscar Wilde nella Ballata del carcere di Reading descrivendo le disumane condizioni in cui erano costretti a vivere i detenuti. Era il 1897, ma la situazione sembra la stessa di quella descritta in Russia da Nadezhda Tolokonnikova, una delle Pussy Riot condannate a due anni di prigione per una preghiera anti Putin.
«Le mani sono piene di piaghe e buchi fatti dagli aghi; il tavolo è coperto di sangue, ma dobbiamo continuare a cucire», era la denuncia di Nadia sulla vita quotidiana nella colonia correttiva numero 14 in Mordovia, a circa 400 km da Mosca. Di lei da ben due settimane si erano perse le tracce. Ora il marito Pyotr Verzilov, in un messaggio su Twitter ha fatto sapere che la leader delle Pussy Riot sarebbe destinata a un campo di lavoro in Siberia, nella regione di Krasnoiarsk. Si tratterebbe della colonia penale n° 50, nella città di Nizhny Ihash, lungo il percorso della Transiberiana, a quattro fusi orari di differenza con la capitale. «Essenzialmente ha aggiunto Verzilov è stata trasferita a 4.500 chilometri dalla Russia centrale, nel cuore della Siberia, come punizione per l’eco che ha avuto la sua lettera», in cui denunciava soprusi e violazioni dei diritti umani nella colonia penale.
Insieme alle compagne della band, Maria Alekhina ed Ekaterina Samutsevich, ad agosto 2012 Nadia Tolokonnikova era stata condannata a due anni di carcere con l’accusa di teppismo e incitamento all’odio religioso per aver cantato a febbraio 2012 una «preghiera punk» di 40 secondi contro il presidente Vladimir Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Nel processo d’appello Samutsevich fu scarcerata, ma il ricorso di Nadia è stato bocciato, nonostante il fatto che la donna sia madre di una bambina di 5 anni.
SENZA TRACCE
Tolokonnikova il 23 settembre aveva cominciato uno sciopero della fame per denunciare le condizioni di lavoro forzato nel carcere e per le costanti intimidazioni che erano arrivate dall’amministrazione del carcere. Ricoverata il 30 settembre in ospedale, il giorno successivo aveva interrotto la protesta, dopo la promessa che sarebbe stata trasferita. Il 18 ottobre scorso, riportata in colonia penale, aveva ripreso lo sciopero della fame perché gli impegni presi dalle autorità erano stati disattesi. Nella stessa giornata era arrivato l’annuncio del trasferimento. «Non sentiamo Nadezhda da molti giorni», aveva scritto il marito su Twitter giorni fa. «Crediamo che i servizi della prigione abbiano scelto questo metodo particolare per punirla», aggiungeva, denunciando il fatto che alle sue richieste l’amministrazione carceraria non aveva voluto rispondere. Il 21 ottobre si era saputo che i secondini avevano fatta salire Nadia su un treno. Il 24 ottobre un altro passeggero ha riferito che il convoglio era giunto a Chelyabinsk tra le montagne degli Urali.
«I legali della difesa di Tolokonnikova e i membri della ong per i diritti umani stanno cercando Nadezhda nelle strutture di Chelyabinsk», aveva detto Verzilov a Interfax. «Secondo le mie fonti Nadia è stata messa nella cella 190 del penitenziario numero 1 nel centro di Chelyabinsk il 24 ottobre», aveva riferito il marito. Un avvocato
della Tolokonnikova aveva visitato il carcere per verificare l’informazione. «Stamani, membri della Commissione dell’ombusdman della regione di Chelyabinsk hanno ispezionato il penitenziario numero 1, dove attendevano di trovare Nadezhda, ma non ne hanno trovato traccia» ha spiegato Verzilov. Poi finalmente, la certezza che Nadia è in viaggio in Siberia, verso la colonia penale n° 50, nella città di Nizhny Ihash, a 300 km dal capoluogo Krasnojarsk. Il Servizio penitenziario federale ha dichiarato che, secondo le regole, la famiglia della donna verrà informata entro 10 giorni dal suo arrivo. Ma ci potrebbero volere anche settimane. Certo se non si può dire che sarà un miglioramento: negli anni dello stalinismo, Krasnojarsk era sede di molti gulag, la città fino agli Novanta era conosciuta in Russia come «città proibita», per le sue fabbriche di armi e plutonio. La temperatura media a gennaio è di -20 °C, ma può scendere fino a -56 gradi sotto zero.

l’Unità 6.11.13
Missione low cost, l’India alla conquista di Marte
Tecnologia tutta indiana La rivincita dell’Asia dove vive il 40% degli scienziati del mondo
Decollato alle 14,38 locali il razzo per il pianeta rosso, costo dell’operazione: 73 milioni di dollari
di Pietro Greco


La Mars Orbiter Mission, chiamata familiarmente «Mangalyaan», è iniziata ieri con pieno successo alle 14,38 ore locali presso l’Indian Space Research Organisation’s Satish Dhawan Space Centre di Sriharikota.
Stiamo parlando del centro spaziale che si trova sulle coste orientali del subcontinente indiano che affacciano sul Mare del Bengala. L’astronave punta decisa su Marte, dove conta di arrivare per il 21 settembre del 2014 dopo aver viaggiato per 200 milioni di chilometri.
Ma non ha fatto in tempo a partire, che Mangalyaan ha già battuto un paio di record. Con un costo di appena 73 milioni di dollari, è la missione interplanetaria più economica della storia. Per fare altrettanto gli americani o gli europei spendono anche dieci volte tanto. Inoltre, dopo il fallimento di un tentativo esperito dalla Cina nel 2011 (l’astronave era montata su un missile russo) e del tentativo fatto dal Giappone nel 1998, l’India è il primo paese asiatico il quarto in assoluto, dopo Usa, Urss/ Russia ed Europa a inviare una sonda verso il pianeta rosso.
Gli obiettivi scientifici, dicono i critici, sono modesti: misurare con buona accuratezza la presenza di metano nella tenue atmosfera del pianeta rosso. Ma questi analisti pelosi non tengono in considerazione che l’obiettivo principale era (ed è ancora) verificare se l’India è capace di progettare, avviare e portare a termine una missione interplanetaria completamente da sola. Tutto indiano è, infatti, il razzo che ha portato fuori dall’orbita terrestre la sonda. Tutta indiana è la sonda. Tutti indiani gli strumenti scientifici a bordo.
Inoltre i cinquecento scienziati e i tecnici spaziali indiani che dal centro Isro (Indian Space Research Organisation) di Bangalore seguono Mangalyaan ricordano che nel 2008 la missione Chandrayaan, inviata con pochi mezzi sulla Luna, è sta la prima a dimostrare in maniera inoppugnabile che c’è acqua sul nostro satellite naturale.
Ma, a prescindere dal fatto che la Mars Orbiter Mission riuscirà davvero ad agganciare l’orbita marziana e a misurare la presenza di metano nell’atmosfera del pianeta, la navicella ha già restituito qualcosa alla più grande democrazia del mondo che l’ha voluta e finanziata, sfidando le critiche di chi sostiene che il Paese è ancora troppo povero per potersi permettere il lusso di un programma spaziale autoctono così ambizioso.
UN GRANDE PAESE
Mangalyaan che sfreccia nello spazio è la dimostrazione che un Paese grande si sta affermando come un grande Paese. Che l’India sta uscendo definitivamente dal novero dei Paesi in via di sviluppo e che è una potenza emergente. Capace di schierare centinaia di migliaia di scienziati (tra cui molti matematici e informatici, tra i più bravi al mondo) e di portare avanti, in proprio, magari in austerità, programmi tecno-scientifici di valore assoluto. Non c’è dubbio che i programmi spaziali hanno un interesse anche militare. E che l’India è una potenza nucleare che vuole mostrare i muscoli ai suoi vicini (Pakistan, Cina). Ma è anche vero che Mangalyaan è qualcosa di più. È il grido d’orgoglio di un Paese che si appresta a diventare il più popoloso del mondo.
È anche un investimento nel futuro. Perché, contrariamente a quanto dicono i critici, le spese in progetti scientifici e di alta tecnologia hanno quasi sempre una ricaduta enorme. E non solo in termini psicologici. Ma anche in termini economici. Sono motori dell’innovazione.
Ma Mangalyaan non appartiene solo all’India. È la sonda di un intero continente. Il più grande e, oggi, più dinamico del pianeta: l’Asia. È la plastica dimostrazione che è lì, in Oriente, che si sta costruendo il futuro in maniera più rapida ed efficace che in ogni altra parte del mondo. D’altra parte è già lì, in Asia, che risiede la maggioranza degli scienziati del mondo (il 40%). Ed lì, di qui a qualche anno, che risiederà la maggioranza assoluta dei ricercatori.
Ciò non toglie che Mangalyaan segni una novità nella speciale competizione tra i due giganti asiatici, l’India e la Cina. Il paese di Confucio negli ultimi decenni è sempre arrivato prima del Paese che ha dato i natali a Buddha. I cinesi crescono di più e da più tempo in economia. Sono arrivati prima sulla Luna. Sono arrivati primi nello spazio, primi sulla Luna, primi a mandare un loro uomo nello spazio (gli indiani non ci sono ancora riusciti). Con Mangalyaan è la prima volta che l’India batte la Cina nella competizione spaziale. E questo vorrà pur significare qualcosa, dicono gli occhi lucidi per l’orgoglio a New Delhi.

l’Unità 6.11.13
Restituitemi casa mia
«Noi palestinesi, un popolo di espropriati»
Suad Amiry racconta il nuovo romanzo «Golda ha dormito qui» e dice: siamo invisibili come gli indiani d’America
La domanda è che cosa possiamo fare ora, nel presente, per farci «vedere» per essere un popolo che ha una Terra
intervista di Umberto De Giovannangeli


ROMA LA CASA COME METAFORA STRUGGENTE DI UNA IDENTITÀ NEGATA. ORGOGLIO, DOLORE, SPERANZA. SONO I SENTIMENTI CHE PERMEANO «GOLDA HA DORMITO QUI» (FELTRINELLI), l’ultima produzione letterariaria di Suad Amiry, la più conosciuta tra le scrittrici palestinesi conteporanee. In Italia per presentare il suo libro, l’Unità l’ha intervistata.
Cosa significa vivere e pensarsi come un «popolo di espropriati»?
«È esattamente il tema principale di questo nuovo libro. Perché poche persone sono consapevoli del fatto che i palestinesi che vivono in Palestina sono considerati “assenti” dagli israeliani. Quando si parla di palestinesi rifugiati, generalmente si pensa o si fa riferimento a persone sparse per il mondo, mentre in realtà sono tutti a Gaza o in Cisgiordania, nei territori occupati, parliamo di milioni di persone che pure se fisicamente presenti in Palestina, sono considerati da Israele “assenti”. Sappiamo che questo fatto dell’essere “invisibili” agli occhi degli occupanti, è un meccanismo tipico della colonizzazione che non è caratteristico solamente del caso d’Israele nei confronti della Palestina, ma è tipico di tutti gli Stati colonizzatori. È il caso, ad esempio, del territorio americano, in cui gli americani dichiaravano di non aver visto, di non aver preso consapevolezza della presenza degli “indiani” d’America; è lo stesso è avvenuto in Algeria, nei Paesi arabi sotto la Francia. Tutto questo non è un fatto casuale, bensì scientificamente pianificato. Tornando a noi, è dal primo giorno, dalla prima dichiarazione che Israele ha sancito che il popolo palestinese non esisteva, benché ci fossero sui Territori in quel momento più di un milione di persone. E questo è un processo che continua, che non riguarda solo il 1948, ma che continua ancora oggi sempre con questa logica dell’alibi della non espropriazione a fronte di un popolo che, secondo loro, non esiste. Emblematico di questo modo di viversi, è quanto ebbe a dire Golda Meir (la Golda del titolo, ndr), riguardo la Palestina e il popolo ebraico: “Un popolo senza terra, per una terra senza popolo”».
Nel libro la casa è un po’ come un ancoraggio materiale e, al tempo stesso, spirituale, alla propria identità personale, familiare, nazionale. Nel libro, c’è un passaggio in cui Huda, una delle protagoniste del romanzo, «non potè fare a meno di ripensare al funzionario israeliano che l’aveva interrogata solo qualche settimana prima». Il funzionario le si rivolge così: «Smettila di vivere nel passato. È il vostro problema. Voi arabi continuate a vivere nel passato». E ancora: «Svegliati, siamo nel 2011, non nel 1948. Khalas Huda, khalas, è tutto finito». È così? Si può immaginare un futuro rimanendo prigionieri del passato? «Questo paragrafo è molto indicativo di questo fatto curioso, cioè che i palestinesi non hanno, secondo Israele, il permesso di ricordare quello che è successo 65 anni fa. Ma d’altro canto, Israele si riallaccia a quello che è successo in questa terra, la Palestina, duemila anni fa. È proprio una questione di “doppio standard”: noi dovremmo dimenticare, mentre loro tendono a giustificare la loro presenza lì proprio dalla storia e dalla memoria. Io ho scritto questo libro non solo per parlare di questa ferita non cicatrizzata, ma anche per dichiarare che per fare pace, perché ci possa essere pace fra Israele e Palestina, è necessario che Israele prenda atto della nostra identità, e di questa nostra memoria, che è una memoria recente. La casa di cui parlo nel libro, è la casa di mio padre, non è la casa di otto generazioni fa, quindi è parte integrante della mia identità. Non è pensabile una pace che possa prescindere dal riconoscimento di questa nostra identità, dal riconoscimento, reciproco, dell’altro da sé. La soluzione dei “due Stati”, è una soluzione che prevede l’accettazione di moltissimo dolore, e per lenirlo almeno in parte, è necessario comunque questa forma di riconoscimento della nostra identità. Possiamo accettare tutto il doloro che fa parte di questa soluzione, ma non possiamo prescindere dal riconoscimento di questa nostra identità. È sempre necessario mettersi nei panni dell’altro. Quando si parla di un “popolo espropriato” delle proprie case, della propria terra, si parla sempre del ‘48, ma questi sono fatti che continuano ancora oggi, quotidianamente, negli insediamenti, a Gerusalemme, in tutti i Territori. La mia domanda, che è una domanda molto concreta, non un mero esercizio intellettuale, è: che cosa possiamo fare ora, nel presente, per fermare questa espropriazione che continua tutti i giorni».
Una risposta la dà Hudna. Nel difendere la casa da cui era stata scacciata la sua famiglia, Hudna preferisce testardamente la cella alla condanna di non poter rientrare nella casa dei genitori. È una sfida o un segno di sconfitta?
«Ne romanzo mi focalizzo su quattro personaggi, tra cui ci sono io stessa e la mia famosa suocera, Umm Salim (protagonista del libro Sharon e mia suocera, Feltrinelli, 2003, ndr). Ognuno di noi fa i conti con la perdita in modo diverso. Per quanto mi riguarda, io non vado a vedere la casa della mia famiglia, perché per me è una emozione troppo forte che preferisco non affrontare. L’altro personaggio, Andoni, che è un architetto, un intellettuale, decide di adottare le vie legali, e prova attraverso un tribunale israeliano di riprendere possesso della sua casa. Huda è una persona di “pancia”, e quindi gestisce e reagisce a questa perdita in maniera molto viscerale, istintiva. I mezzi diversi che i vari personaggi e persone scelgono di usare, sono un modo per fare i conti con questa perdita. Mia sorella che è una psicanalista, dice, per l’appunto, che se hai paura di qualche cosa, bisogna affrontarla, guardarla in faccia. Huda ha sposato questo tipo di atteggiamento. E lo ha fatto anche perché ha visto suo padre che piangeva ripensando a quella casa da cui era stato scacciato, il ricordo del cane che abbaiava. Huda è stata così segnata dall’esperienza traumatica del padre, che dice se io non posso tornare in questa casa, nessuno potrà abitarla in pace».

il Fatto 6.11.13
Il “Gigante buono” d’America che vuole risollevare la Grande Mela
Oggi i risultati dell’elezione per il sindaco di New York
De Blasio super favorito rappresenta la nuova speranza “bianco-nera”
di Furio Colombo


Eccolo il nuovo sindaco di New York, un imponente uomo bianco (“il gigante buono”) che stringe da un lato una sottile donna nera che quasi senti scricchiolare sotto l'abbraccio e dall'altra due figli adolescenti un po’ da cinema, che lo guardano adoranti, e che hanno fatto accanitamente campagna elettorale per lui. Intorno, a perdita d'occhio, la folla di New York. Da tempo tutti predicono che i cittadini andranno a votare in massa e voteranno per lui, per come ride, per le cose che dice (“a me importano gli ospedali, la scuola pubblica, i quartieri abbandonati, la gente sola”), per la moglie che era leader del fronte delle donne lesbiche nere d'America e spiega: “Poi mi sono innamorata di lui, e l'amore è l'amore”.
E PER I DUE ragazzini, Dante e Chiara – lui con la pettinatura afro degli anni ‘60 – che gli sono sempre stati accanto mostly for fun (perché il papà li fa ridere) e la campagna elettorale “wasreally cool”, che è il massimo degli elogi che puoi avere dai figli, oggi, in America.
Quanto agli elettori, i newyorchesi camminano in fretta, percorrendo le strade e le avenue, e hai sempre l'impressione che tutti si dirigano a un grande incontro con qualcosa che cambia la vita, fervidi, intensi, non proprio allegri ma su di giri, come qualcuno (ma sono milioni, tutti per la strada) che ha un compito e non può tardare. A giudicare da persone, traffico, auto, negozi e ristoranti, la ripresa è alla grande. Ma, prima ancora di ascoltare uno dei comizi-marea di Bill De Blasio, una cosa la sai, una cosa che in queste elezioni conterà moltissimo: la spaccatura fra alto e basso della vita, fra prezzi e sopravvivenza, fra impegno e premio, fra fatica e compenso, si è fatta, con la ripresa, molto più grande. Obama cerca di gettare il suo ponte (le cure mediche gratuite per tutti), ma in tanti, potenti e pieni di risorse, la lavorano ad allontanare le sponde e non sei sicuro che il presidente nero di tutti i bianchi e di tutti i neri riesca a farcela.
E ALLORA si presenta, a New York, proprio vicino a Wall Street, l'uomo bianco che parla ai neri, che era americano e diventa italiano, che ha i figli afro e la moglie nera e poeta, che gli stanno intorno e non lo lasciano mai. I sondaggi si sono rivelati esatti. Dicono che il 60% dei cittadini di New York daranno lo stesso voto che la famiglia dà a Bill. Perché New York è bella e ingiusta, è troppo alta (il suo orgoglio), ma anche troppo bassa (il suo dramma), è troppo ricca (appartamenti da 30 milioni di dollari) e troppo povera (molti adesso lavorano, ma non hanno una casa, perché non c'è per loro alcun affitto possibile), ha scuole da premio Nobel e scuole della violenza. E puoi ancora, mentre discutono a Washington, essere cacciato da un ospedale se non versi, al momento del ricovero, dollari 500.000.
I ragazzini afro di Bill De Blasio, il gigante buono, fanno notare che ci sono fiori e sculture lungo i 10 chilometri della Park Avenue, il centro del centro della più bella città del mondo (parole loro). Ma non ci sono fiori, ma solo erbacce nei giardini del Bronx o a Queens, ad Harlem o Staten Island. E pochi anche a Brooklyn, benché Brooklyn insegua da tempo Manhattan nell'esibire il benessere.
Ma c'è un complice per Bill De Blasio, un altro nuovo, e anche lui misterioso cittadino della Grande Mela: è Banksy, il “writer” di graffiti cercato più dai galleristi che dalla polizia, perché ciò che dipinge sui muri la notte viene stimato dagli esperti d'arte milioni di dollari. Si può dire che i due siano arrivati insieme a una improvvisa e improbabile celebrità, tutti e due per strade che, secondo i prudenti e i giudiziosi, non avrebbero dovuto portare lontano. Banksy vale almeno quanto Basquiat, il grande artista nero scoperto da Andy Warhol negli anni Ottanta. Come Basquiat è in fuga, ma lascia tracce grandissime. C'è chi tenta di imbiancarle e chi mette subito un cancello davanti al graffito per impedire che sia asportato (è successo a Londra, provocando una rivolta di quartiere). Tutti si chiedono chi sia Banksy, e vorrebbero ciò che disegna sui muri. Tutti si chiedono chi sia De Blasio e lo voteranno.
Come tutti, non so dire di più di Banksy. Ma qualcosa di insolito, una vera sorpresa, sappiamo del nuovo sindaco. Sappiamo che, nel certificato di nascita, risulta chiamarsi Warren Wilhelm jr. C'è un nome più IvyLeague di così, adatto a una promettente carriera e buona accoglienza a New York?
CON UN GESTO bizzarro come la segretezza di Banksy, Warren Wilhelm cambia subito nome, da ragazzino. Lo rifiuta appena il padre lascia la famiglia. Chi resta è la madre, e i nonni di Benevento. E lui si chiamerà come loro, de Blasio (concedendosi il de minuscolo, “riesce bene nei biglietti da visita”) Ma il tempo del matrimonio segna l'altra svolta insolita. Una giovane donna nera, poetessa e leader lesbica, afferma che quel che conta è l'amore, e lei si è innamorata del gigante “italiano”. E quei figli teenager svelti, afro e simpatici, che si chiamano Dante e Chiara, sono un buon simbolo per New York, Conta 426 etnie e per questo, con il multiculturalismo che tanti temono o disprezzano, è diventata New York. Anche per chi non sa chi è Dante e chi è Chiara, Bill de Blasio è già un modello, specialmente per quelli della lunga marcia dal basso. È una bella giornata oggi a New York. Su un muro di Brooklyn c'è un nuovo Banksy (Graham Avenue, angolo Cook Street) un'ombra che i grandi galleristi del mondo già si contendono. A City Hall (il Municipio) sta arrivando Bill de Blasio, con Chirlane McCray, la poetessa nera, con Dante e con Chiara, insieme ai tantissimi newyorchesi che l'hanno votato. E che vogliono tutto.

La Stampa 6.11.13
Nella Brooklyn di de Blasio il ghetto è diventato radical chic
Da quartiere di immigrati a zona trendy che contende il fascino a Manhattan
di Paolo Mastrolilli

qui

Repubblica 6.11.13
Il sindaco rosso che espugna la città dei ricchi
di Federico Rampini


COMUNISTA. Sandinista.
Istigatore della lotta di classe. Marito di un’ex-lesbica. Papà di due adolescenti così orgogliosi della loro identità afro-italoamericana, da sembrare i nipotini di Jimi Hendrix e Angela Davis. Gliele hanno dette tutte a Bill de Blasio. Contro di lui hanno usato la sua giovinezza marxista, i viaggi in Urss, Cuba e Nicaragua. La famiglia multietnica e atipica. Di certo colui che si è candidato a guidare una mega-azienda come New York City (8,6 milioni di abitanti, 300.000 dipendenti municipali, 70 miliardi di budget annuo) non ha fatto la carriera del top manager. Come ex Public Advocate, difensore dei cittadini contro abusi e disservizi dell’amministrazione locale, il suo profilo è a metà strada fra il magistrato e il politico di professione. È una storia lontana anni luce dall’imprenditore miliardario Michael Bloomberg (quest’ultimo peraltro un self-made man, non l’erede dinastico di fortune altrui).
Con la sua piattaforma radicale, all’insegna della lotta alle diseguaglianze, De Blasio ha voluto sfidare il dogma per cui un democratico vince solo facendo campagna al centro: fu quello il teorema di Bill Clinton, in parte seguito da Barack Obama, anche se i tentativi di intese bipartisan dell’attuale presidente sono stati regolarmente respinti da una destra oltranzista.
La rivoluzione de Blasio si misura per contrasto. Perchè New York, pur essendo una città solidamente democratica (vota sempre a sinistra nelle elezioni presidenziali e congressuali), da 20 anni non eleggeva un sindaco progressista? Prima ci furono i due mandati di Rudolph Giuliani, repubblicano, poi i tre mandati di Michael Bloomberg, indipendente. Due grandi sindaci, che hanno impresso il loro segno nellarinascita di questa metropoli. Pur molto diversi tra loro, Giuliani e Bloomberg hanno proposto lo stesso contratto sociale alla città. Un equilibrio fatto di ordine pubblico (“tolleranza zero” verso la criminalità grande o piccola; crollo degli omicidi dai 2.245 del 1990 ai 418 dell’annoscorso), liberismo economico, atteggiamento “liberal” sui temi valoriali. Bloomberg piaceva a sinistra perché favorevole ai matrimoni gay,impegnato nel salutismo e nella difesa dell’ambiente (verde pubblico, piste ciclabili, aree pedonali, campagne contro il junk-food), attivo nella promozione della cultura (nuovi poli universitari e museali), coraggiosamente mobilitato contro la lobby delle armi. Ma Bloomberg non ha mai detto o fatto nulla che potesse disturbare i poteri forti del capitalismo, da Wall Street ai grandi costruttori edili. Il risultato è una metropoli tornata a risplendere, con un rinnovamento urbanistico stupefacente: 40.000 nuovi grattacieli, un ritmo di trasformazione più consono alle megalopoli delle nazioni emergenti. E 50.000 senzatetto, molti dei quali non sono disoccupati bensì lavoratori dipendenti dal reddito insufficiente per pagare un canone di affitto.
Dopo vent’anni di quel contratto sociale, la Grande Mela racchiude tutto il meglio e il peggio del modello americano. Nei suoi “boroughs” (Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island) abitano ben 400.000 milionari, la più fantastica concentrazione di ricchezze del pianeta. Ma il 48,5% dei residenti vivono sotto la soglia della povertà (fissata a 30.000 dollari di reddito annuo per una famiglia di quattro persone) o nell’area della “quasi-povertà” che per il costo della vita locale si misura sotto i 46.000 dollari a nucleo familiare.
De Blasio vuole un contratto sociale diverso. Nel suo programma c’è la costruzione di 200.000 alloggi popolari per contrastare la “gentrification” che sta trasformando perfino Harlem e Brooklyn in quartieri alto-borghesi. Asilinido e dopo-scuola per tutti. Un sostegno alla scuola pubblica contro i costosissimi istituti privati. Un salario “vitale” obbligatorio di 11,75 dollari l’ora, contro un minimo attuale di soli 7,25. Il tutto finanziato con un aumento delle imposte sui ricchi, compresa ovviamente la tassa sulla casa. Poiché già oggi New York contende a San Francisco la palma della città a più alta pressione fiscale degli Stati Uniti, la destra agita lo spettro di… Gerard Depardieu. Cioè una fuga dei ricchi che impoverirebbe tutti. Ma se la Grande Mela e la Silicon Valley californiana sono diventate quel che sono oggi, non è in virtù di un’attrattiva fiscale. La loro forza sta nell’essere dei formidabili bacini di talenti umani, sta nelle “sinergie culturali” che offrono un habitat favorevole all’innovazione. Sembrano averlo capito quei ceti medio- alti che hanno accolto con simpatia la sfida di de Blasio, convinti che un nuovo patto sociale è indispensabile per uscire da questa crisi. New York è un laboratorio multietnico unico al mondo: solo 33% dei residenti sono bianchi, il 29% ispanici, 23% afroamericani, 13% asiatici. È un caso estremo e tuttavia indica la direzione verso la quale si evolve l’America intera. A questa trasformazione si può rispondere, come il Tea Party, con una rivolta anti- Stato che è anche una psicosi da fortino assediato della minoranza bianca. De Blasio è certo che un’altra risposta è quella vincente.

Repubblica 11.6.13
“Dio non benedica l’America” L’ultima battaglia di atei e laici
La preghiera più amata finisce davanti alla Corte suprema
di Vittorio Zucconi


C’È un’America stanca di benedizioni, che vuole espellere Dio dalle stanze del potere politico, ammesso che ci sia mai davvero entrato. Un’America laica, atea, laicista, non cristiana che chiede alla Corte Suprema di proibire il canto di quell’inno mistico che invoca, dai campi di baseball alle aule del Congresso, la “benedizione divina”.
La nenia composta un secolo fa da Irving Berlin che deputati e senatori, credenti o atei, intonano sotto la cupola del Campidoglio, la canzone dolce e melensa che i tifosi di baseball come i bambini sui campi sportivi cantano per chiedere che “God Bless America”, che Dio benedica l’America violerebbe la Costituzione, secondo i querelanti che hanno ottenuto udienza dalla massima Corte. E la decisione dei nove “Supremes”, come scherzosamente sono soprannominati i nove sommi magistrati ricordando un famoso trio canoro femminile degli anni ‘60, che ha accettato fra decine di migliaia di casi di discutere e di deliberare sull’inno, dimostra che la questione esiste ed è aperta.
La formula che chiude questo pezzo musicale, divenuto da tempo il “secondo inno” ufficioso degli Stati Uniti dietro al formale “Star Spangled Banner”, la bandiera a stelle e strisce, è ormai molto più del refrain musicato dal grande Irving Berlin nelle trincee della Grande Guerra e poi da lui riadattato nel ‘39, alla vigilia del Secondo Conflitto. L’idea che Dio possa “benedire l’America”, che per essa abbia un occhio di riguardo, è la conclusione inevitabile dei discorsi presidenziali sullo Stato dell’Unione. Un atto di fede. Ed è l’invocazione, tragicamente disperata, che deputati e senatori nel panico spontaneamente cantarono, insieme con milioni di americani, sui gradini del Campidoglio, nel pomeriggio dell’11 settembre 2001. Nel giorno in cui Dio, o almeno il loro Dio, era parso scordarsi della “sua” America.
Ed è proprio quello che due donne, due abitanti di Greece, cittadina di 14 mila persone nel nord dello Stato di New York, non vogliono più sentire. Susan Galloway e Linda Stephens, una di religione ebraica, l’altra atea, avevano fatto causa al consiglio comunale che da dieci anni apriva le riunioni con la benedizione di un pastore cristiano e con il canto dell’inno. Dopo avere vinto e perso processi, ricorsi e appelli, le due donne si sono rivolte alla Corte Suprema per stabilire, una volta per tutte, se quella giaculatoria violi la separazione fra Stato e Chiesa che la Costituzione sancisce quando vieta a ogni organismo legislativo di fare norme che privilegino e stabiliscano culti.
La controversia sulla laicità obbligatoria dello Stato esiste e continua da 222 anni, da quando il Primo Emendamento della Costituzione proibì la creazione di una “religione di Stato” e più tardi — ma non nella lettera della Carta — Thomas Jefferson e James Madison affermarono il principio della separazione fra Stato e Chiesa. Una paratia stagna, secondo le intenzioni dei Padri Fondatori che i laici, gli atei, i non cristiani hanno visto con paura farsi negli anni sempre più porosa.
Senza mai una decisione formale, una sentenza, una legge, il Dio cristiano è entrato nelle parole, se non necessariamente nell’anima, di generazioni di leader po-litici, non passando mai dalla porta principale della Costituzione, sbarrata, ma dalle finestre socchiuse dell’opportunismo politico. Fu, un po’ a sorpresa, Ronald Reagan a raccontare nel suo discorso d’addio gli Usa come «lacittà luminosa sulla collina», un’espressione ripresa dal Vangelo secondo Matteo per descrivere il Regno di Dio. E dopo una certa trascuratezza da parte di Bill Clinton, distratto da cure più umane, il misticismo rientrò prepotentemente con George W Bush: «L’America è la terra prescelta e prediletta dal Signore» proclamò in un discorso elettorale del 2000.
Ben prima della benedizione formale di Bush jr, il canto si era diffuso nella quotidianità della vita politica e collettiva, anche oltre la “Cintura della Bibbia”, la catena di stati fondamentalisti del Sud. La benedizione di Dio è invocata dagli spettatori del baseball, esausti alla fine del settimo inning quando ancora ne mancano due. E’ intonata prima della partite di football e nelle aule di scuole private, da giocatori, insegnanti, alunni, costringendo spesso i non credenti o i seguaci di altre divinità a restare seduti o a bocca chiusa, con imbarazzo.
Nessuno vuole, neppure le due implacabili signore della cittadini di Greece che questa dolce nenia, perfetta per i momenti di commozione postuma nei luoghi di massacri a fucilate e tragedie, sia bandita. Alle minoranze laiche o atee, ai non cristiani che vedono in quel Dio benedicente un Dio che loro non riconoscono, preme evitare che il salmo composto da Berlin, ebreo, soltanto per invocare la pace, diventi il sotto inno degli Stati Uniti.
Ma sono minoranza. I sei uomini e le tre donne della Corte Suprema lo sanno, come lo sa Barack Obama, sempre attento ai profumi del vento politico, che già si è espresso per mantenere l’invocazione nelle aule del Parlamento delle assemblee che lo desiderino. Lo sanno naturalmente anche i devoti e i mistici, già accampati come sempre nei momenti delle sentenze storiche, davanti al palazzo della Corte Suprema. Nella loro veglia, intonano il “God Bless America”.

il Fatto 6.11.13
“God bless America” è uno spot per Dio?
di Angela Vitaliano


New York I LORO NOMI non sono famosi come quello di Bill de Blasio ma, oggi, mentre la città saluta il suo nuovo sindaco, Linda Stephens e Susan Galloway, aspetteranno con ansia un’altra decisione che riguarda il futuro della cittadina di Greece, nello Stato di New York. Le due donne, un’ ebrea e un’atea, hanno fatto causa al comune per protesta contro la “tradizione” ormai consolidata di aprire i lavori del consiglio comunale con una preghiera che, peraltro, per undici anni è stata improntata alla fede cristiana.
Oggi a decidere se la “procedura” che viene messa in atto anche al Congresso e in altri luoghi istituzionali, sia legale o violi le norme di separazione fra lo Stato e la Chiesa, sarà la Corte Suprema che dovrà confermare o rigettare la decisione della corte d’appello federale dello Stato di New York che ha già stabilito che la procedura della città di Greece “ha violato la Costituzione, rappresentando un sostegno di fatto del comune alla religione”.
Se la Corte Suprema dovesse confermare l’orientamento espresso dalla Corte d’appello, si aprirebbe la stagione per una vera e propria “rivoluzione” dei rituali istituzionali che potrebbe toccare persino la famosissima “God bless America” recitata alla fine di ogni discorso politico da candidati e presidenti di qualsiasi orientamento.
Già nel 1983 la Corte Suprema era intervenuta in un caso simile relativo al Nebraska e aveva mantenuto il diritto di preghiera ad apertura dei lavori istituzionali il che può far pensare ad una decisione simile. Le due donne e i loro legali, tuttavia, la pensano diversamente e sperano che oggi la sentenza possa dargli ragione.

il Fatto 6.11.13
Il passato che torna
Attori e poeti, la lista nera dei nemici dei golpisti argentini
di Alessandro Oppes


Madrid Le liste nere degli anni della Guerra Sporca di Videla e soci erano conservate in due casseforti, due armadi e alcuni scaffali negli scantinati del Edificio Cóndor, sede della Fuerza Aérea argentina. A rivelarne l'esistenza, quando manca un mese al 30° anniversario della fine della dittatura, è stato il ministro della Difesa del governo di Cristina Kirchner, Agustín Rossi, che ha definito “di enorme valore storico” le 1500 cartelle d'archivio in cui sono contenuti, tra l'altro, 280 resoconti ufficiali e “segreti” delle riunioni delle giunte militari succedutesi a Buenos Aires tra il 24 marzo 1976, giorno del pronunciamiento contro la presidente costituzionale Isabelita Perón, fino al 10 dicembre ‘83.
In quelle carte - rimaste intatte nonostante il capo dell'ultima giunta golpista, Reynaldo Bignone, avesse ordinato la distruzione di tutti i documenti compromettenti - ci sono gli elenchi di centinaia di personalità del mondo della cultura considerate come pericolose dal regime: musicisti e cantanti come Mercedes Sosa, Víctor Heredia, Marilina Ross e Horacio Guarany, gli scrittori Julio Cortázar, Rogelio García Lupo e María Elena Walsh, gli attori Héctor Alterio, Federico Luppi, Haydee Padilla e Norma Aleandro. Ma ci sono anche numerosi altri elementi di interesse. A partire dai piani di governo a lunga scadenza elaborati dalla giunta, che prevedeva un periodo fondativo sino agli anni 90 e una fase successiva identificata come “nuova repubblica ” con la quale si sarebbero dovuti mantenere al potere almeno sino al 2000.
Non mancano, poi, le istruzioni sul tipo di spiegazioni che si sarebbero dovute fornire agli organismi internazionali sul tema dei desaparecidos. I documenti provano anche che la giunta puntava a far fallire il lodo arbitrale nella contesa territoriale con il Cile sul Canale del Beagle. E in effetti, nel 1978 si arrivò sull'orlo della guerra, prima che partisse la mediazione vaticana voluta da papa Giovanni Paolo II.

Repubblica 6.11.13
Argentina, trovate le “liste nere” di Videla
Da uno scantinato dell’Aeronautica i dossier su 300 nemici della giunta, da Cortázar a Sosa
di Omero Ciai


C’È anche la lettera che Hebe de Bonafini, una delle leader delle “Madri di Plaza de Mayo”, scrisse per sollecitare informazioni sui suoi due figli scomparsi nei lager della dittatura. Ci sono i report delle “liste nere” sugli artisti e gli intellettuali, come lo scrittore Julio Cortázar e la cantante Mercedes Sosa, considerati pericolosi dai militari. I programmi per governare fino al Duemila e, perfino, le istruzioni su come controbattere alle accuse degli organismi internazionali dei diritti umani sui “desaparecidos”. È un piccolo tesoro di documenti inediti e segreti sulla giunta militare (1976-83) quello ritrovato la settimana scorsa negli scantinati dell’edificio Condor, il palazzo dell’Aeronautica militare a Buenos Aires. Soprattutto perché è la prima volta, ad oltre trent’anni dai fatti, che vengono rinvenuti, e consegnati al potere politico dai militari, archivi originali del periodo della dittatura.
Alla fine del 1983, prima della caduta del regime, l’ultimo dittatore militare, Reynaldo Bignone, ordinò la distruzione di tutti i documenti che riguardavano gli anni della dittatura per nascondere le azioni illegali e gli omicidi commessi nel timore che, con il ritorno della democrazia, i generali responsabili rischiassero di essere giudicati. Tanto che, ancora oggi, il numero delle persone torturate e uccise nel corso della “Guerra sporca” organizzata dai militari contro gli oppositori politici è ignoto, non esiste alcun registro degli arresti, degli interrogatori, delle condanne a morte illegali, e solo calcoli per approssimazione fissano in circa 30mila i “desaparecidos”.
Gli archivi segreti ritrovati sono più di 1500 e vanno dal 24 marzo 1976, il giorno del golpe, al 10 dicembre 1983 quando, con l’inizio della presidenza di Raul Alfonsin, venne ristabilita la democrazia. Nelle “liste nere” ci sono oltre trecento nomi di intellettuali fra i quali scrittori, come Cortázar, il famoso autore di Rayuela(Il gioco del mondo), che all’epoca viveva da tempo a Parigi; cantanti come Mercedes Sosa che venne prima censurata, poi imprigionata ed infine nel 1979 costretta all’esilio dai militari; ma anche attori come Hector Alterio, pianisti come Osvaldo Pugliese, e giornalisti.
Tutto il materiale è ordinato in modo sia cronologico che tematico e ci sono anche gli atti di numerose riunioni della Giunta militare. Dai documenti risulta anche evidente che i militari pensavano di governare almeno fino alle soglie del Duemila (caddero invece dopo la guerra persa contro la Gran Bretagna per le isole Falkland/ Malvinas), ed avevano diviso il loro regime in due parti: quella fondativa che arrivava fino all’inizio degli anni Novanta e quella della “Nuova Repubblica”.
«Un’ottima notizia che potrà accedere un po’ di luce», è stato il commento di Estela de Carlotto, presidente delle “Abuelas”. Fra le carte ci sono infatti anche annotazioni e appunti che riguardano casi oscuri nella storia della dittatura. Uno in particolare è il dossier sulla vendita di “Papel Prensa”, la cartiera argentina, che in quegli anni passò, per volontà dei militari, dai proprietari, la famiglia Gravier, ad alcune aziende editoriali (La Nacion e Clarin). Vicenda sulla quale ancora oggi indaga la magistratura.
Al di là del loro valore storico, il ministro della Difesa argentino, Agustin Rossi, che ha rivelato il ritrovamento, spera che gli archivi segreti possano essere utili nelle cause giudiziarie. Dal 2006 quando l’Argentina ha cancellato le leggi sull’impunità e l’amnistia a favore dei militari responsabili di violazioni dei diritti umani sono state già emesse un centinaio di sentenze contro criminali del regime militare ma molte altri processi sono ancora in corso.

La Stampa 6.11.13
Pakistan
“Sono Nabila, la bambina sopravvissuta ai droni-killer”
di Maurizio Molinari

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Repubblica 6.11.13
Inquinamento Il cielo nero sopra Pechino
Una bambina di otto anni si è ammalata di cancro ai polmoni e lotta per la vita
“Ha respirato per troppo tempo polveri sottili”, dice il suo medico
E ora anche la Cina scopre i danni all’ambiente causati dallo sviluppo selvaggio
di Giampaolo Visetti


PECHINO La Cina aggiunge un altro record alla prodigiosa serie dei primati bruciati negli ultimi trent’anni, ma questa volta nessuno inorgoglisce. Al contrario, i cinesi inorridiscono e per la prima volta, anche nelle metropoli-missile della crescita economica, si consolida l’opinione che se il prezzo della libertà di shopping è la vita, non ne vale la pena. La notizia, a sorpresa, è stata diffusa ieri in primo piano sia dalla Xinhua,l’agenzia ufficiale, che dalla Cctv, la tivù di Stato controllata dalla censura del partito comunista. Una bambina di 8 anni si è ammalata di cancro ai polmoni a causa dello smog e lotta per non morire nel reparto oncologico dell’ospedale di Nanchino. Il medico che tenta di salvarla, il dottor Jie Fengdong, si è mostrato sconvolto alle telecamere. «Per troppo tempo — ha detto — ha respirato polveri sottili e sostanze tossiche prodotte da automobili e industrie. Il tumore ha colpito un solo polmone, ma gli effetti sono impressionanti. Se non verranno adottate misure rapide per depurare l’aria, la medicina non potrà fermare una strage».Secondo i dati dell’Accademia delle scienze di Pechino, si tratta dell’essere umano più giovane mai aggredito da un cancro all’apparato respiratorio. Fino ad oggi l’età media delle vittime di questo genere di morte delle cellule è di 70 anni. La bambina cinese si è scoperta improvvisamente vecchia per un errore fatale: la sua famiglia abita lungo una strada super-trafficata di una città industriale dello Jiangsu, la regione costiera subito a nord di Shanghai. Uscendo di casa per giocare e per andare a scuola, la piccola in pochi anni ha inalato una concentrazione di pm 2,5, le microparticelle emesse dai gas di scarico, troppo alta per essere tollerata.
La storia di questa tragedia sta colpendo l’intera popolazione e in poche ore il web, rigidamente controllato dal partito, è stato intasato da migliaia di reazioni di gente sotto shock. I cinesi temono che se il governo ha concesso la diffusione di una simile notizia, consapevole di far scattare l’allarme, è perché la realtà è assai peggiore di quanto i dati ufficiali non ammettano e nuovi leader hanno paura di essere travolti dall’esigenza popolare di una vita sostenibile. A spaventare è però anche la consapevolezza di essere ormai tutti sulla stessa barca: gli operai che lavorano nelle fabbriche senza depuratori, i contadini che coltivano terreni tossici, i residenti nei villaggi costretti a bere acqua inquinata e le centinaia di milioni di abitanti nelle metropoli, dove lo smog cancella il sole per mesi. Il 21 ottobre un altro record aveva scosso la nazione, facendo il giro del mondo: Harbin, capoluogo della Manciuria noto in passato per il lindore dei suoi ghiacci invernali, è stata la prima città della storia chiusa per eccesso di smog. Nel primo giorno di accensione dei riscaldamenti, le particelle di carbone rendevano invisibile perfino la porta di casa e gli automobilisti non riuscivano a vedere i semafori. Un anno fa l’agonia di Pechino era tale che le autorità, dopo che nei negozi risultavano esaurite garze per la bocca e maschere anti-gas, si spinsero fino a vietare di cuocere carne alla griglia per le strade.
Ieri, mentre il dramma della bambina di Nanchino si trasformava in problema politico anche per una super-potenza fondata sull’autoritarismo, il governo centrale è stato costretto a istituire «una squadra di scienziati» con una missione senza precedenti: studiare un sistema capace di evitare che le telecamere di sorveglianza attive ad ogni angolo del Paese vengano oscurate dall’inquinamento. Lo smog, da killer collettivo, per i nuovi leader rossi ormai può mutare in minaccia diretta alla sicurezza nazionale, favorendo un attacco terroristico. «Se la visibilità scende sotto i tre metri — ha rivelato l’ingegner Kong Zilong, esperto di tecnologia della videosorveglianza — anche la più sofisticata delle telecamere a raggi infrarossi risulta inutile. Possiamo vedere nel buio e nella nebbia, ma lo smog è troppo solido, riflette le riprese e impone l’uso di un radar». L’attacco kamikaze del 28 ottobre in piazza Tienanmen, alla vigilia di un plenum decisivo del comitato centrale del partito, fa salire la tensione oltre il ragionevole.
Inconsuete isterie anche tra i vertici del potere confermano però che l’emergenza inquinamento, assieme a un livello di corruzione che gli stessi funzionari definiscono «disperato», ha superato il limite che anche una popolazione rassegnata, a cui è vietato esprimersi liberamente, può sopportare prima di ribellarsi. In dieci anni a Pechino i decessi per tumore ai polmoni sono aumentati del 56% e un cancro su cinque è polmonare. La stessa patologia è pure la più diffusa in Asia, l’inquinamento cinese in due giorni raggiunge la vetta del monte Fuji, in Giappone e nelle metropoli della Cina, solo nel 2012, i morti da smog sono stati oltre 8.500. L’Organizzazione mondiale della sanità avverte che nel 2010 le vittime globali del-l’inquinamento hanno superato quota 1,2 milioni e che il cancro ai polmoni uccide 223 mila persone all’anno. Cifre che ai cinesi non servono più, per consolarsi. Domenica l’edizione inglese del Quotidiano del popolo, rompendo un ventennale silenzio, ha raccontato che mentre il governo è impegnato nella «grande urbanizzazione», per creare una classe media di consumatori, milioni di neourbanizzati sono già in fuga dalle città. I giovani cinesi non vogliono far crescere l’unico figlio concesso dallo Stato in un ambiente che minaccia di ucciderlo. I colletti bianchi cominciano a temere davvero di morire prima di essere diventati ricchi e chiedono di essere trasferiti nei centri di seconda e terza fascia: «Ci saranno meno opportunità di carriera — ha detto al giornale il manager di una banca pubblica — ma almeno si può respirare in pace». In Cina simili dichiarazioni non sono ovvie, come in apparenza suonano in Occidente, e in queste ore sommano pericolosamente la lotta della bambina colpita di cancro ai polmoni ad un altro scandalo. Sulla Rete, nonostante una censura maniacale, cominciano ad apparire i nomi di milionari e alti dirigenti del partito che per fuggire dalla nuvola nera che avvolge il Paese si trasferiscono all’estero, o nelle regioni del Sud. Qualcuno sposta solo la famiglia, altri delocalizzano l’azienda, altri vendono tutto e se ne vanno, almeno nei più rischiosi mesi invernali. Inghilterra, Spagna, Nuova Zelanda, ma anche Indonesia, oppure Hainan, l’isola tropicale che Pechino cerca di trasformare nei “Caraibi dell’Oriente”. La nomenclatura cinese, asfissiata la nazione, gestirebbe i suoi affari da lontano, comprandosi un cielo azzurro, oltre che esportando i capitali accumulati prima di finire nel mirino dei clan vincitori dell’ultimo congresso del partito. L’esercito dei censori del governo non riesce più a cancellare tutti rumours sui privilegi anti-smog delle autorità: dagli speciali depuratori in casa e ufficio agli alimenti biologici importati dall’estero, fino alle ville in montagna per disintossicarsi nei weekend. Psicosi che contagia anche la crescente comunità degli stranieri che, per fare soldi, lasciano Europa e Usa per scommettere sulla Cina. Il dato è del ministero degli Interni di Pechino: fino a due anni fa prevalevano i visti-famiglia, ora gli individuali, mentre coniugi e figli rientrano nelle nazioni di origine. Sabato, quando si aprirà il terzo plenum del partito, che si annuncia concentrato sulle non rinviabili riforme economiche, il cataclisma ambientale che sconvolge la Cina non figura nell’ordine del giorno. L’impatto sociale di smog e inquinamento, secondo la logica, potrebbe anzi disturbare i piani di «storica riconversione dalla produzione al consumo» fatti trapelare dai vertici. La logica però, quando le dosi di veleno nell’aria sono «40 volte superiori a quanto un essere umano può sopportare», non funziona più nemmeno dentro la Città Proibita. A salvare la Cina, e con lei il resto del mondo, potrebbero non essere i tecnocrati eredi di Mao, ma una bambina di 8 anni dello Jiangsu che aveva il vizio di respirare troppo quando usciva di casa. Ai primi, i cinesi non credono più: nella seconda, commossi per il suo sacrificio, da ieri confidano.

La Stampa 6.11.13
Gerhard Schröder: “L’austerità è un’ideologia
Così l’Europa rischia la fine”
L’ex Cancelliere: giusto sforare il Patto di stabilità se si fanno le riforme
intervista di Tonia Mastrobuoni

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l’Unità 6.11.13
Albert Camus ancora straniero
A cent’anni dalla nascita lo scrittore rimane scomodo
La Francia non gli ha riservato nessuna celebrazione degna del suo spessore
Il suo nichilismo
non dispensa l’uomo dal difficile compito di vivere e di morire con dignità
di Anna Tito


CHI È
Nato in Algeria, partigiano, morì in un incidente d’auto
Fra i più noti e celebrati autori francesi, scrittore, drammaturgo, filosofo francese, Albert Camus (1913 1960) nacque a Mondovì, in Algeria, da una famiglia di «pieds noirs». Iniziò l’attività giornalistica per «Alger républicain», sulle cui colonne denunciò le condizioni di miseria in cui viveva la popolazione in Cabilia, per poi trasferirsi in Francia nel 1940 e prendere parte alla Resistenza. Amico di Sartre, se ne distaccò nel 1952 quando pubblicò «L’uomo in rivolta». Vinse nel 1957 il Nobel. Tra le sue opere: «Lo straniero» (1942), «Caligola» (1944), «Il mito di Sisifo» (1951), «La peste» (1947), «La caduta» (1956), «Il primo uomo» (1994), romanzo postumo autobiografico. Sempre combatté la violenza colonialista e si schierò in favore della libertà del popolo algerino.

STUPISCE CHE, A CENT’ANNI DALLA NASCITA, IL 7 NOVEMBRE 1913, e a cinquanta e più dalla scomparsa, avvenuta il 4 gennaio del 1960 nella Facel Vega guidata dall’amico ed editore Michel Gallimard tragico epilogo di una «vita governata dall’assurdo», per dirla con Albert Camus stesso, poiché prevedeva di rientrare a Parigi in treno la gloria dell’autore Principe dell’Assurdo, per l’appunto, lo scrittore più tradotto al’estero, rimanga poco riconosciuta e in qualche maniera elemento di disturbo in patria, eppure inalterata. Una spiegazione la diede forse Eugenio Montale, a proposito del fascino di Camus che risiede in una geniale, apparente contraddizione, poiché «il suo nichilismo non esclude la speranza, non dispensa l’uomo dal difficile compito di vivere e di morire con dignità». Alcuna esposizione degna di questo nome è mai stata organizzata dalla Bibliothèque Nationale de France, che pure ne ha dedicate a Jean-Paul Sartre, a Donatien de Sade, a Antonin Artaud, Boris Vian, Casanova, per dirne soltanto alcune degli ultimi anni.
Rimane tuttora scomodo, l’autore di Lo straniero e di L’uomo in rivolta. È in corso, fino al 4 gennaio nella Cité du Livre di Aix-en-Provence, la retrospettiva Albert Camus, citoyen du monde: vi si trovano manoscritti, copie con dedica, ritagli di stampa, fotografie. Nessun elemento che possa creare qualche fastidio, e coabitano sotto vetro la guerra fredda e la guerra d’Algeria, entrambe ricordate in poche frasi. Prevista nel 2009, l’esposizione iniziale, dal titolo Albert Camus. Uno straniero che ci assomiglia, che doveva tenersi nell’ambito del progetto Marseille-Provence 2013 e inizialmente affidata allo storico della guerra d’Algeria Benjamin Stora, ha fatto storcere il naso ai nostalgici dell’Algeria francese, ben quarantamila sui centoquarantamila abitanti della cittadina provenzale. Su pressione del sindaco «matrona locale della destra popolare» la ministra socialista della cultura, Aurélie Filippetti ha dovuto pertanto ritirare i fondi previsti per la mostra evocando le arcinote ristrettezze di bilancio.
LA RIVALITÀ CON SARTRE
E ancora, nel 2010, in occasione del cinquantenario della scomparsa, una «carovana Camus» avrebbe dovuto attraversare l’Algeria per presentarne l’opera, ma il progetto non ha avuto seguito, anche perché ostacolato dagli ambienti conservatori algerini, preoccupati che la memoria dello scrittore potesse far risorgere qualche movimento antinazionalista. Insomma, la guerra d’Algeria permane una ferita eternamente aperta per la memoria dello scrittore, che nel gennaio del 1956, allorché redasse La tregua civile, per il settimanale L’Express, non si limitò a scrivere l’articolo, ma si recò ad Algeri, per proporre una tregua civile appunto, ovvero che si evitasse la morte dei civili in ambedue i campi. Tenne una conferenza nella casbah, con gli ultrà francesi che urlavano «Camus al muro!» Era ben consapevole del fatto che, se si fosse costruita un’Algeria con un partito unico e una religione di Stato, le prime vittime sarebbero state gli algerini. Quando vediamo quanto accaduto in seguito, non possiamo dargli del tutto torto.
Eppure Albert Camus è onnipresente, perché «ha vinto», secondo i giornali d’Oltralpe, e non si contano le opere inediti e non che affollano gli scaffali delle librerie. Appare più un pensatore del nostro tempo di quanto lo sia stato del suo: sono crollate le grandi ideologie e abbiamo assistito al rinnegamento dei maîtres-à-penser. È l’antimodello, non intende fare il filosofo, e respinge qualsiasi prêt-à-penser, non propone alcuna certezza religiosa o ideologica. Se Jean-Paul Sartre dà delle risposte, Camus pone degli interrogativi. Il primo vuole costruire un sistema di pensiero, mentre il secondo afferma «mi interessa sapere come ci si deve comportare». Si presenta come l’anti-Sartre, in controtendenza alla propria epoca affascinata dalla filosofia della storia e dalla violenza che ha costretto l’uomo a subire; esalta la rivolta della coscienza di fronte al determinismo storico che alimenta i totalitarismi; si «autopresenta» come l’uomo della tragedia.
Fu fra i primi a lanciare l’allarme, da subito, per le drammatiche conseguenze dello sganciamento della bomba atomica su Hisroshima e Nagasaki: «La civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie», e «dinanzi alle terrificanti prospettive che si aprono per l’umanità, ci convinciamo sempre di più che quella per la pace è l’unica battaglia che valga la pena di combattere».
Prese parte alle feste, ai balli, alle bevute che animavamo la Parigi del dopoguerra a Saint Germain-des-Prés, ma sempre sentendosi estraneo, in quanto mediterraneo, e non avendo frequentato frequentato l’Ecole Normale. Si era impegnato attivamente nel movimento della Resistenza di Combat, vide i suoi amici furono deportati e arrestati, alcuni di questi non tornarono mai. Perciò non voleva venire decorato della medaglia della Resistenza. E allorché gli fu conferita, suo malgrado, chiese «Chi mi ha denunciato?».
«Non l’ha certo rubato», ironizzò secondo i detrattori -Jean-Paul Sartre quando Camus ricevette il Premio Nobel, dileggiando così il suo classicismo, la sua supposta frivolezza politica, quell’«umanesimo testardo, ristretto e puro», che poi evocò nella sua celebre orazione funebre. Ancora oggi la gloria di Camus rimane senza eguali, ha raggiunto il mito: una silhouette alla Humphrey Bogart, la passione per le donne, per il teatro, per il gioco del calcio, per il sole. Eccolo anche in procinto di venire trasferito, dal cimitero di Lourmarin, dove riposa in un paesaggio sublime,a suo tempo su iniziativa di Nicolas Sarkozy politique oblige, nella gelida cripta del Pantheon dei grandi uomini.
Con L’uomo in rivolta, nel 1951, smontò un tabù: all’epoca, era vietato criticare l’Unione Sovietica, quando tutti erano al corrente dell’esistenza dei gulag. Si diceva che si taceva per una buona causa. Lui decise di parlare, e ciò non piacque. E racconta la figlia Catherine: «Trovai mio padre seduto nel salotto, con la testa china. Gli chiesi: sei triste papà? Lui alzò la testa e guardandomi dritto negli occhi mi rispose: “No, sono solo”. Non l’ho mai dimenticato. Non sapevo come spiegargli che con me, che avevo allora sei anni, non sarebbe mai stato solo».

Repubblica 6.11.13
Generazione orizzontale
“Mio figlio, questo sconosciuto” autoritratto di un papà disperato
Preferiscono la tv alla natura, vivono in un mondo dove tutto rimane acceso comprano più di ciò che gli serve
I ragazzi di oggi visti da un genitore tra humour, senso di impotenza e tenerezza
È il nuovo libro di Michele Serra
Il silenzio dei padri di fronte ai figli sdraiati sul divano
di Massimo Recalcati


Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come dire che l’insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all’esercizio della genitorialità. Tutt’altro. E’ da queste due notizie che trae linfaGli sdraiati, il nuovo, imperdibile, libro di Michele Serra che racconta la sua testimonianza singolare di padre. Se nella nostra cultura il tema della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre nell’epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi, che può definire dall’alto il senso Assoluto del bene e del male, della vita e della morte?
Il padre di cui ci parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto la paradossale “fragilità materna”, la schizofrenica incarnazione dell’autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento interno, abitato, come quello di tutti — come ricordava giustamente Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta — , da reazionari che invocano il ristabilimento repressivo dell’ordine. Questo nuovo padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina d’autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la mattina nei loro letti anziché unirsi ai “vecchi”. «Non si era mai visto prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono». Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati,avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell’Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove «tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso». Eccoli i consumisti perfetti, «il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l’illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa».
Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, «è l’evoluzione della specie», come commenta suo figlio.
GliSdraiati è un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura. Come quando descrive l’orizzonte metafisico delle Langhe o la resistenza commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla terrazza della casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con stupore la scoperta dell’abitudine del figlio ipertecnologico di raggiungere il tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo descrive stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato che «contiene il suo addio agli anni dell’innocenza», o come quando, ancora, osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino infondo.
La giovinezza si palesa innanzitutto nell’odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l’odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell’età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l’odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio. In Pastorale americana di Philip Roth l’impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli sdraiati di Serra. Il figlio non sceglie la via dell’opposizione ideologica, della lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta. Egli sembra piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo padre. Senza giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie generazioni a porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta — in una atmosfera oniroide alla Blade Runner — come uno scontro epico tra la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani.
Il condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza, guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo. Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover vincere la guerra perché è «la bellezza che deve vincere la guerra. La natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi giovani dovete vincere la guerra». Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. E non dispererei che le portulache che sono state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del mare — «la cura del mondo è una abitudine che si eredita», scrive Serra — possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile.

IL LIBRO Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli pagg. 108 euro 12)

l’Unità 6.11.13
Nuove rivelazioni da Monaco
Anche uno Chagall sconosciuto nel «tesoro di Hitler»


C’è anche un dipinto sconosciuto di Marc Chagall tra i quadri del «tesoro di Hitler» ritrovati in un appartamento di Monaco, un’opera giudicata «di valore storico e artistico particolarmente alto». Lo ha reso noto Meike Hoffmann, lo storico dell’arte che sta collaborando con la polizia tedesca nelle indagini sui capolavori trafugati dai nazisti e rimasti nascosti per oltre mezzo secolo. Il quadro di Chagall, una scena allegorica, è datato intorno al 1920. Tra i capolavori non conosciuti, anche un’opera di Otto Dix, un raro autoritratto dell’artista dipinto nel 1919, nonchè opere di Picasso e Matisse. Hoffmann ha tenuto ieri una conferenza stampa alla procura generale di Augusta, mostrando diapositive dei dipinti, ritrovati a casa dell’eccentrico anziano: Cornelius Gurlitt, figlio di Hildebrand, un noto gallerista dell’epoca nazista. Il procuratore di Augusta, Reinhard Nemetz, ha fornito i numeri esatti delle opere: 1.285 dipinti senza cornice, 121 dipinti incorniciati, schizzi e stampe, alcune risalenti al XVI secolo. Hildebrand Gurlitt era stato uno degli esperti d’arte a cui i nazisti affidarono il compito di vendere il tesoro: opere trafugate ai collezionisti ebrei, a volte comprate a prezzi irrisori da ebrei in fuga che così pagavano il prezzo della loro libertà o sequestrato agli artisti dell’avanguardia considerati «degenerati». Le opere, che molti pensavano fossero andate distrutte, sono state ritrovate all’interno di un dimesso appartamento di Monaco di Baviera, in stanze in disordine e polverose, in mezzo a scatole di cibo andato a male. Gurlitt figlio li ha tenuti nascosti per anni, vendendone uno ogni tanto. Cornelius era stato però fermato dalla polizia finanziaria tedesca nel 2011 e scoperto in possesso di un’ingente somma in contanti; e da lì è cominciata l’indagine.

Repubblica 6.11.13
Tesoro di Hitler ecco i capolavori di Chagall e Dix mai visti prima
Opere completamente ignote di giganti dell’arte emergono tra le 1500 tele trafugate dai nazisti scoperte a Monaco
Ci sono Matisse, Courbet e persino un Canaletto. Ma è polemica: perché il ritrovamento è stato tenuto segreto?
di Andrea Tarquini


BERLINO Ci sono capolavori eccezionali, e in parte finora sconosciuti al mondo, nel “tesoro di Hitler” ritrovato a Monaco nella casa d’un trafficante d’arte figlio d’un complice di Goebbels. Centoventuno quadri incorniciati e 1285 senza cornice, tutti ben conservati. Ma la collezione straordinaria non sarà resa pubblica dalle autorità, che di fatto, finché dureranno le indagini, la confiscano un’altra volta. Guardiamo i massimi capolavori, tra i pochi dipinti illustrati ieri dalla magistratura: ecco i due cavalieri sulla spiaggia di Max Libermann, che sfuggì alle persecuzioni antisemite lasciando la Germania. Ecco la fanciulla con capretta di Gustave Courbet. E ancora, un autoritratto di Otto Dix che si dipinge mentre fuma la pipa, finora sconosciuto. O la donna seduta attribuita a Henri Matisse, o una scena allegorica opera di Marc Chagall, anch’essa finora non catalogata tra le sue opere. Per non parlare di uno schizzo del Canaletto o persino di opere di Dürer. «Tutte opere assolutamente autentiche, lo certifico», ha detto l’esperta d’Arte dottoressa Meike Hoffmann, della Freie Universität di Berlino, aggiungendo: «Vedere un simile tesoro suscita meraviglia, stupore: è una gioia indescrivibile».
Arte confiscata, cioè rubata dai nazisti ai legittimi proprietari ebrei, all’inizio delle persecuzioni che poi portarono alla Shoah. Finita in mano a mercanti senza scrupoli che per conto di Goebbels vendevano quei quadri ovunque nel mondo: il Reich quasi in bancarotta aveva fame di contanti. Arte nascosta per decenni dai figli dei mercanti, e oggi custodita dalla Dogana in un luogo segreto.
L’incredibile vicenda della scoperta del “tesoro di Hitler”, notava ieri mattina la prudente
Frankfurter Allgemeine, acquista sempre più il volto di un evento mostruoso. Non si aspettino, pubblico e critici d’arte del mondo intero, di vedere presto immagini di tutti i capolavori, a parte i pochi, di valore forse inestimabile, magari oltre il miliardo delle prime dichiarazioni ufficiali, mostrati ieri. È stato un susseguirsi di sorprese sconcertanti, una dopo l’altra, la conferenza stampa tenuta ieri ad Augsburg (l’antica Augusta) dal procuratore Reinhard Nemetz. Maappunto il tesoro sarà mostrato solo dopo la fine delle indagini, perché «vale il segreto fiscale in un’indagine di presunta evasione». Il garantismo a protezione d’una famiglia di spacciatori d’arte al servizio prima dei nazisti poi di se stessi sembra far premio su ogni accordo internazionale.
Secondo: il blitz dei doganieri a casa di Cornelius Gurlitt, lo ammettono solo ora, «non fu un caso». Avvenne nel febbraio 2012, perché Gurlitt scoperto a bordo d’un intercity Zurigo-Monaco con 9000 euro in tasca fu subito ritenuto sospetto. Ma in uno Stato di diritto ciò non basta per legittimare una perquisizione. I veri sospetti su Gurlitt nacquero dalla sua vendita all’asta, nell’autunno 2011 presso la casa d’incanto Lemperz, di un quadro, Il domatore di leoni, di Max Beckmann. Inchiesta lenta, perquisizione solo dopo che magari Gurlitt aveva venduto altro ancora. Già, ma il silenzio totale sul caso dal febbraio 2012 a domenica, fino allo scoop diFocus, la dice tristemente lunga sull’idea che élites e magistratura di qui hanno del dovere d’informare l’opinione pubblica mondiale.
Per decenni, dopo la disfatta nazista dell’8 maggio 1945, dice Julia Voss della Frankfurter,mercanti d’arte senza scrupoli come i Gurlitt hanno continuato a vivere di vendite d’arte rubata e di menzogne. Solo adesso decenni di menzogne prima di papà Hildebrand poi sue investono Cornelius. Ma non lo travolgono: «Non c’è pericolo di fuga, quindi non c’è motivo di arrestarlo, c’è solo un’indagine fiscale, ora non ci serve nemmeno sapere dove si trovi». Spaventosamente comodo, un bel colpo di spugna sul passato. Sulla Notte dei Cristalli, sulla Shoah e sull’occupazione di quasi tuttal’Europa oppressa, ma anche derubata dei suoi tesori.
Nemetz e il suo team sono impassibili, qua e là un no comment devia le domande imbarazzanti. Non importa che Gurlitt fosse in possesso non solo di “arte degenerata” bensì anche di opere molto più antiche, da incisioni di Canaletto a quadri di Dürer. Non pesa nemmeno il sospetto che Gurlitt possa aver avuto altri nascondigli, a casa a Salisburgo o dalla sorella in Svizzera. «Non abbiamo finora ritenuto di contattare le autorità austriache ed elvetiche», ha precisato il procuratore.

Repubblica 6.11.13
L’edizione in audiolibro di “Se questo è un uomo”
Primo Levi
Quel capolavoro che ha rischiato di non essere creduto
di Roberto Saviano


Il mio rapporto personale con Se questo è un uomo è un rapporto viscerale. Se questo è un uomo è uno di quei libri da cui, una volta che ci entri dentro, non ne esci più. Non sei più uguale e non è semplicemente perché ti rende più giusto o migliore, ma perché ti cambia. Cambia il tuo modo di sentire, di vedere, ti costringe ad avere un’altra mente e un’altra sensibilità. È un cataclisma che non ha mai smesso di muoversi e attraversarmi.
Il mio rapporto con Se questo è un uomo è talmente stretto che mi sembra quasi che Levi sia per me un maestro conosciuto, che mi giudica in maniera severa e sa confortarmi quando subisco ingiustizie.
Si tratta di un rapporto carnale. Mi stupisco ogni volta di incontrare qualcuno che non abbia letto il libro. Mi stupisco quando ne racconto un episodio, e chi mi ascolta non ne ha mai sentito parlare: mi sembra incredibile. Le pagine sono divenute carne propria, conosciute riga per riga tanto che mi sembra impossibile che si possa vivere senza aver lettoSe questo è un uomo; non una semplice seppur grande testimonianza – ci sono splendidi libri di testimonianze –, ma un capolavoro della letteratura. Un libro sull’uomo, le sue immonde azioni e le sue eroiche resistenze. Levi è un grande scrittore che usa la potenza della parola per raccontare e fare memoria. Ma non gli interessa solo costruire la bella pagina, riesce piuttosto a coniugare gli strumenti dell’uomo colto con la necessità di comunicare quello che è stato.
Se questo è un uomo è sicuramente il libro che più di ogni altro ha determinato la mia visione della letteratura. Cito la risposta che Philip Roth dà quando gli si chiede quale sia stato per lui il libro più importante. Roth risponde Primo Levi. Risponde Se questo è un uomo perché, dice, dopo averlo letto non vieni semplicemente a sapere che è esistito l’orrore di Auschwitz, no. Dopo averlo letto non puoi più dire di non esserci stato ad Auschwitz. Non vieni soltanto a conoscenza di quello che è successo, ma sei lì e hai la certezza che la tua vita non possa più andare avanti senza metabolizzare quella esperienza.
È la potenza della letteratura: non veicola semplicemente informazioni, benché necessarie e importanti, ma ti dà più vita o ti toglie vita.Se questo è un uomo è il manifesto di questa potenza.
E poi c’è la scrittura, e quella di Primo Levi è un modello. È innanzitutto la scrittura di un chimico. Il dettaglio e il meccanismo in cui quel dettaglio è contemplato, non sono per lui una quinta del racconto, ma l’oggetto vero del racconto stesso. Primo Levi non fa un libro sul campo di concentramento ma un libro sull’uomo. Sull’uomo in quelle particolari condizioni, travolto da tutto ciò che accade. Descrive il suo uomo da chimico e da filosofo, ne fa sistema. In questo è sicuramente uno degli scrittori più creativi in assoluto.
Può sembrare un’esagerazione o una provocazione, ma mi piace parlare di Primo Levi come creativo, perché arriva a raccontare il lager attraverso diverse strade: da come si conserva una scodella a come si conserva la dignità, da come Dante possa salvarti la vita se ti ricordi i suoi versi al momento giusto, a come il latino possa servire a comunicare con un prete che non parla la tua lingua. La sua versatilità letteraria è quindi infinita. Ci sono diversi registri nelle sue pagine: c’è quello naturalista, quello positivista, persino quello fantastico, quello teologico. Insomma Levi è un mondo e stare in questo mondo mi ha fatto sentire a mio agio. La sua scrittura del resto mi ha profondamente influenzato: in molti casi ho cercato di aderire alla sua tecnica narrativa a metà tra il reportage e la scelta di mettere dentro le sue pagine molto di sé. Il suo modo di affrontare il dettaglio e allo stesso tempo la descrizione dei grandi meccanismi che hanno portato quel dettaglio ad accadere, a verificarsi.
Primo Levi ha saputo mediare tra una timidezza fuori dal comune e l’ossessione quasi militante per la memoria. In quegli anni, Levi, mettendo a dura prova la sua naturale ritrosia e la diffidenza della società intellettuale, spesso scelse la televisione per condividere queste storie perché l’obiettivo era far conoscere. Io devo molta della mia formazione a Primo Levi, del mio modo di essere scrittore spurio, bastardo, quasi figlio di un dio minore che decide di dare spazio alle telecamere e al web perché l’obiettivo è far conoscere, l’obiettivo è mettere a disposizione del maggior numero di persone possibile ciò che accade in terre dimenticate. Di cui ci si ricorda solo quando muoiono innocenti.
E poi c’è l’incubo ricorrente, quello di tornare a casa, di voler raccontare e non essere creduto: il tema dei temi. Anche in questo Levi mi ha molto aiutato, come ti aiuta un terapeuta, un amico, una madre, una persona che ti ama. Un aiuto vero, “tecnico” e carnale insieme. Perché chi scrive di mafia è spesso non creduto e soprattutto è spesso malvisto. Mostra una ferita e, facendolo, immediatamente assurge a un ruolo di coraggio, e chi ha coraggio talvolta è insopportabile alla vista. Allo stesso tempo ti senti smarrito: ti domandi come sia possibile che non vengano viste dinamiche tanto palesi e che raccontare, scegliere di raccontare, di fare bene il proprio lavoro, ti porti a essere bersaglio delle critiche più aspre, spesso scorrette, subdole. Tutto ciò ti toglie punti di riferimento, ti lascia smarrito. Poi comprendi che molti di coloro che ti insultano con la bava alla bocca lo fanno perché hai visibilità e allora pensi a quanto sei stato ingenuo a pensare che gli addetti ai lavori – o come spesso li definisco “ai livori” – non si sarebbero fermati a guardare il dito. Ti scopri assolutamente inadeguato a interpretare il mondo, se pensavi che a interessare potessero essere le tue storie e non chi le racconta. Se davvero pensavi che il tuo racconto avrebbe solo portato ad approfondire dei temi cruciali e non ad attaccare chi ne parla. Ma poi pensi a chi ha vissuto l’inferno in terra e per molto tempo non è stato creduto. Se questo è un uomo non fu immediatamente recepito come un libro di verità. Lo si considerò un po’ esagerato, inattuale, in un tempo in cui si stava ricostruendo il paese materialmente ma anche e forse soprattutto moralmente. Ma Se questo è un uomo era avvertito come esagerato e inattuale perché disturbava.
Il non essere creduto di cui scrive nelle sue pagine Levi – per esempio nel sogno del ritorno a casa: mentre si sta a tavola e si mangia molto, a un certo punto inizia a raccontare quello che è successo e le persone sedute invece di ascoltare si alzano, motteggiano, scherzano e non ci credono affatto – è il pensiero con cui apre il libro nei versi messi in esergo. Versi che sembrano quasi un’accusa, un monito. Su questo Levi è severissimo: che tu possa essere maledetto, che la tua vita possa andare in malora se non racconti tutto ciò che ho descritto, perché non raccontandolo staresti negando. Questa è l’accusa di un uomo che pone la memoria di ciò che è stato al centro di tutto, come motivo di vita. Il non essere creduti di fronte alla tragedia, l’essere colpevolmente fraintesi, è come essere condannati a morte, è come perdere la propria dignità.
Levi insegna ad avere fiducia nella parola e quindi ti insegna a difenderla, a starci dentro e sopportare. Come se la parola stessa, alla fine di tutto, fosse la ricompensa naturale, la cosa di cui più ritenersi soddisfatti. L’unica ricompensa è la parola.

Repubblica 6.11.13
Un rapporto scientifico su come si moriva con il gas
Pubblicata la relazione in cui lo scrittore nel ’45 svelò l’orrore di Auschwitz
di Massimo Novelli


«Attraverso i documenti fotografici e le oramai numerose relazioni fornite da ex-internati nei diversi Campi di concentramento creati dai tedeschi per l’annientamento degli Ebrei d’Europa, forse non v’è più alcuno che ignori ancora che cosa siano stati quei luoghi di sterminio e quali nefandezze vi siano state compiute». Allo scopo «di far meglio conoscere gli orrori», però, «crediamo utile rendere pubblica in Italia una relazione, che abbiamo presentata al Governo dell’U.R.S.S., su richiesta del Comando Russo del Campo di concentramento di Kattowitz per Italiani ex prigionieri». Comincia così ilRapporto sulla organizzazione igienicosanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz (Auschwitz- Alta Slesia),che Primo Levi e il medico Leonardo De Benedetti, compagno di prigionia, scrissero dopo la liberazione nei primi mesi del 1945, e pubblicarono il 24 novembre del 1946 sul numero 47 della rivista scientifica torinese Minerva Medica.Ritenuto un avantesto diSe questo è un uomo, il primo libro di Levi uscito nel 1947 da De Silva su interessamento di Franco Antonicelli, ilRapporto venne poi accantonato. Soltanto diversi anni dopo, nel 1991, se ne ritornò a parlare in due convegni, dove Alberto Cavaglion lo presentò al pubblico. Nel 1997 fu inserito da Marco Belpoliti nelle opere di Levi edite da Einaudi.
Per iniziativa del Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino e della medesima Einaudi, che ne ha stampate 400 copie per sostenere l’ente culturale, ora la relazione sui lager nazisti vede la luce in una versione autonoma. IlRapporto, pubblicato con una postfazione di Fabio Levi, direttore del centro studi, viene presentato oggi a Torino, alle 17.30, al Museo nazionale del Cinema.
Composto in qualche decina di pagine da un “medico-chirurgo” e da un “chimico”, la definizione scelta allora da Levi, il testo del 1945 si presenta, sottolinea Fabio Levi, con una «intonazione impersonale e generalizzante». Ma proprio per i toni scarni, oggettivi, con cui vengono raccontati lo sterminio, le malattie degli internati e il funzionamento delle camere a gas, testimoniato più esplicitamente che inSe questo è un uomo,conserva una grande efficacia. Basta un frammento per rendersene conto: «Entrate tutte le persone nella camera a gas, le porte venivano chiuse (esse erano a tenuta d’aria) e veniva lanciata, attraverso le valvole del soffitto, una preparazione chimica in forma di povere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di latta; queste portavano un’etichetta con la scritta “Zyclon B”».
Eppure quando Levi, ritornato a Torino, ne consegnò una copia all’Ufficio storico del Comitato di Liberazione, ilRapporto venne archiviato tra i documenti sulle generiche «atrocità fasciste». Dello sterminio, nota Fabio Levi, non si seppe cogliere al tempo «né la specificità né la reale dimensione».

La Stampa 6.11.13
Primo Levi la grammatica del genocidio
Anteponendo l’identità ebraica all’esperienza partigiana ha anticipato la scoperta storiografica della Shoah
di Anna Bravo

qui

La Stampa 6.11.13
Schrödinger, il fisico seduttore che mise il gatto in scatola
Una biografia dello scienziato Nobel nel 1933
Passionale e dongiovanni ideò un esperimento mentale che scosse le basi della meccanica quantistica
di Piero Bianucci

qui

magistrato, catto-comunista “marxista ratzingereiano”. Con Tronti e Vacca
Corriere 6.11.13
Pietro Barcellona pensatore inquieto
di Emanuele Severtino


In occasione dei funerali di Pietro Barcellona, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio di cordoglio che tra l’altro diceva: «La sua forte ed originale intelligenza e cifra culturale, la sua serietà di studioso, la sua passione politica ricca di valenze utopiche ne hanno fatto un protagonista di rilievo della vita culturale italiana e della dialettica di posizioni ideali caratteristica della sinistra, e segnatamente del Partito comunista italiano».
Pietro è morto la sera del 6 settembre scorso: aveva 77 anni. Membro del Consiglio superiore della magistratura e deputato del Partito comunista italiano, aveva diretto, succedendo a Pietro Ingrao, il Centro per la riforma dello Stato, quel Centro che, ha detto Napolitano nel suo messaggio, era stato la sua «casa». E sin da giovanissimo era stato professore ordinario di Diritto privato e di Filosofia del diritto in diverse università. Napolitano ricorda la «particolare sensibilità e mitezza umana» di Pietro; io ricordo anche il suo energico spirito ironico e la sua penetrante intelligenza. Un esempio ben visibile, lo scorso anno, un suo formidabile intervento alla trasmissione televisiva Otto e mezzo .
A fine maggio mi aveva scritto di essere ricoverato in ospedale in seguito ad un intervento d’urgenza. Sperava di essere in via di guarigione e che nel frattempo io avessi ricevuto Parolepotere — il suo penultimo libro, bellissimo (Castelvecchi, pagine 184, e 22). «Come sai — mi diceva affettuosamente — ci tengo molto alla tua opinione. Ti allego un testo, che ho preparato sulla base della relazione del convegno dello scorso anno, in cui ancora una volta mi confronto con il tuo pensiero. Spero tu possa gradirlo». Questo testo (da lui intitolato Severino: gli abitatori del tempo ), è uscito nello scorso agosto col titolo L’Occidente tra libertà e tecnica (Saletta dell’Uva, pagine 63, e 10). Il suo ultimo libro.
In esso, Pietro non sviluppa soltanto quanto egli aveva detto in quel convegno, che l’Università di Venezia mi aveva dedicato, ma anche la «lunga e intensa conversazione» che in quel periodo avevamo avuto a casa mia a Brescia. «Ho sempre vissuto i nostri incontri — scrive — come una decisiva messa alla prova della mia capacità di contenere le domande sulle cose ultime della nostra esistenza».
Eppure mi sembra che in queste sue ultime pagine egli sia riuscito a liberarsi — sia pure sul piano psicologico, emozionale (al quale egli dava però molta importanza) — dall’inquietudine che le mie pagine gli procuravano, come anche Cacciari ha recentemente ricordato illustrando la complessità delle prospettive culturali del nostro comune amico.
Mi riferisco alla sua «conversione» al cristianesimo. La quale non ha per niente intaccato, ma anzi rafforzato la sua critica al capitalismo e allo scientismo. E infatti, in un articolo sull’«Unità» lo scorso anno, aveva scritto che «solo il discorso di Cristo si può opporre al “nichilismo biologico” dello scientismo che cerca di cancellare ogni specificità della condizione umana» — lo scientismo, come l’individualismo della società capitalistica. E proprio il suo ultimo libro è tutto volto a sostenere che, nonostante le differenze, il mio discorso filosofico può essere ricondotto al nichilismo e al determinismo fatalistico delle neuroscienze, ossia a quella dimensione sulla quale Cristo gli era apparso indubitabilmente vittorioso.
Non è questo il luogo dove prolungare la nostra discussione. Anzi, mi è caro pensare che, con queste sue convinzioni, Pietro si fosse un po’ liberato dall’inquietudine, peraltro fecondissima, che lo aveva sempre accompagnato — mentre l’Immenso che lui non sospettava stava attendendolo; come attende ogni uomo.

La Stampa 6.11.13
Edward Munch in mostra a Genova
Un anarchico in rivolta contro il passato
Il curatore Marc Restellini: “Stupefacente l’audacia nello sperimentare tecniche e supporti”
di Francesco Poli

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La Stampa 6.11.13
Non solo angoscia nei suoi dipinti
120 opere tra incisioni e tele ripercorrono la carriera e la vita del genio norvegese a 150 anni dalla nascita
di Fiorella Minervino

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Corriere 6.11.13
Munch
Sussurri e grida
Non solo tormento, ma intimi ritratti, quiete e vedute I temi a lui più cari

di Francesca Montorfano

Nella sua vita Edvard Munch ha prodotto un impressionante numero di opere, centinaia e centinaia di dipinti, migliaia di lavori grafici. Eppure a legarsi indissolubilmente al suo nome, a dargli notorietà planetaria, è stato un capolavoro in particolare, quell’«Urlo» assurto a emblema dell’angoscia del mondo, ma poco rappresentativo dell’insieme della sua arte, cliché troppo facile, troppo scontato, che cela la dimensione più profonda, più autenticamente all’avanguardia del suo messaggio.
Sicuramente la vita del grande pittore norvegese è stata segnata da sofferenze, da lutti e tragedie, la perdita della madre a soli cinque anni, l’agonia della sorella consumata dalla tubercolosi, le proprie ossessioni, a cui si aggiungeranno le suggestioni culturali della letteratura nordica dell’epoca, i drammi di Ibsen e di Strindberg, la filosofia esistenzialista di Kierkegaard, le nuove ricerche psicoanalitiche di Freud che indagheranno le pulsioni più oscure dell’uomo. «La malattia, la follia e la morte sono gli angeli neri che hanno vegliato sulla mia culla», scriverà. Eppure la sua arte è andata oltre, è stata molto di più, anche quiete e silenzio, anche limpide vedute norvegesi e paesaggi al chiaro di luna, anche case rosse e giardini o ritratti colti nella loro essenza più intima.
«I miei quadri sono i miei diari», amava dire. E così oggi a celebrarne i 150 anni dalla nascita, a raccontarne un volto forse meno noto, ma certo più sfaccettato, più vero, è l’importante rassegna di Genova, curata da Marc Restellini, direttore della Pinacothèque de Paris. «È un’insolita autobiografia per immagini quella che ci accoglierà nelle sale di Palazzo Ducale, un percorso che toccherà tutti i temi più cari all’artista, mettendone in luce la capacità di rivoluzionare ogni forma espressiva, di rompere con ogni convenzione o movimento artistico, segnando il passaggio da un naturalismo ancora impressionista a una pittura nuova, audace, che saprà dar vita alla realtà interiore dell’uomo, aprendo la strada all’espressionismo e ai nuovi traguardi del Novecento», spiega Restellini.
«Pittore, ma soprattutto grande sperimentatore, Munch ha voluto confrontarsi anche con la litografia, la xilografia, l’illustrazione e il collage, superando i confini tra tecniche e supporti. Autentico innovatore, è stato tra i primi a intuire le possibilità della fotografia e del cinema nell’arte, trasferendo le proprie ricerche alle incisioni e ai dipinti, inserendovi foto e fotogrammi di film muti, mostrando un’attenzione nuova anche alla resa del movimento». Le opere in mostra, quasi tutte provenienti da collezioni private, sono tra le più «sentite, amate e sofferte» dell’artista. Quelle che aveva sottoposto per mesi alla sua famosa «cura da cavallo», alla pioggia, alla neve e al gelo degli inverni norvegesi e che avevano superato la prova, dimostrando come anche le intemperie facessero parte del processo creativo, ne fossero anzi la fase finale.
A lungo la pittura di Munch è stata incompresa. A Parigi, dove si reca nel 1885 e guarda con interesse a Gauguin, a Van Gogh o Toulouse-Lautrec, la sua prima mostra si rivela un insuccesso. E così quella berlinese del 1892, che scandalizza a tal punto l’opinione pubblica per i colori contrastati e irreali, le allusioni erotiche, le figure dai lineamenti stravolti dall’angoscia, da venir chiusa dopo una settimana. Bisognerà aspettare i primi anni del Novecento perché la sua opera venga accettata, anche se la fama, le committenze e i riconoscimenti sempre più prestigiosi non gli eviteranno un ricovero in una clinica per malattie nervose e lunghi anni di solitudine nella tenuta di Ekely, dove si ritira, prendendo le distanze dal mondo, ma continuando a dipingere e a sperimentare, a rielaborare in un numero infinito di varianti quelle inquietudini, quelle passioni impossibili che sono state il leit-motiv della sua vita.
A parlare di Munch saranno così «The Sick Child» («La bambina malata»), inesausta immagine della memoria e matrice stessa della sua arte, «Bathing Boys», con i primi, sofferti turbamenti della pubertà, o «Jealousy II», con la sua livida atmosfera, ma soprattutto quelle sue figure femminili sensuali e provocanti, angeli e demoni insieme, che rivelano tutta l’impotenza dell’uomo in bilico tra pulsione sessuale e distruzione, la «Madonna» del 1896 con il mistero del concepimento e della nascita e il suo opposto, quel «Vampire II» assetato di sangue. Ma altre ancora sono le tessere che andranno a completare il mosaico. Quelle opere dove la sua tavolozza si fa più chiara e luminosa, dove gli incubi appaiono lontani, i paesaggi con la cascata, il sereno ritratto di Inger, le decorazioni per la casa di Max Linde, le tre fanciulle sul ponte.

Corriere 6.11.13
Le mie tele esposte a sole e neve giusto che soffrano come me
Che tensione in quelle crepe che la caseina provoca nella pittura
di Francesca Bonazzoli


Ormai non desidero nulla. L’unico mio interesse è da tempo la pittura. Ho reciso i legami con la vita e l’arte è la mia sola esperienza. Dipingo quadri perché è quello che mi è stato chiesto. Nietzsche ha scritto che l’artista non è che uno strumento di Dio, come l’archetto nelle mani di un violinista. Il mio compito è dunque quello di essere uno strumento efficiente e malleabile nelle mani del grande Artista. In cambio delle tele che dipingo mi è stato chiesto di rinunciare alla vita, all’amore e alla gioia. Ne proverò solo lo struggente desiderio, ma non potrò mai viverle: questo è il patto che Dio ha stretto con me. Ma non è una serie di quadri che sono stato chiamato a dipingere; piuttosto, la richiesta riguarda il come li dipingerò. Per essere l’archetto di Dio dovrò cercare i suoni più adatti affinché la Sua creazione si compia.
Anni fa avevo appena finito di dipingere La bambina malata, un quadro dove avevo rievocato dalla memoria tutto il dolore per la morte di mia sorella Sophie, e sono certo che difficilmente un altro pittore ha provato fino all’ultima goccia il dolore del proprio soggetto come è successo a me. Fu allora che presi un coltello e cominciai a ferire la tela. Grattai via il colore che avevo steso, volevo arrivare a graffiare la tela fino a renderla uguale al mio cuore. Ho inflitto alla tela le stesse torture che Dio infligge a me. Avevo solo quattordici anni quando vidi la mia amata sorella cominciare a deperire, diventare ogni giorno più pallida e stanca fino a che, una mattina, la trovai morta. Tubercolosi: la stessa malattia che aveva portato via anche mia madre, quando avevo cinque anni. Io chiamo il nostro tempo l’«epoca dei cuscini» perché in ogni casa si trovano bambini malati, sorretti da bianchi cuscini. Ognuno di noi ha avuto un padre, una madre o un fratellino malato di tubercolosi. E cosa fa questa malattia? Come un insetto scava profonde caverne dentro i polmoni, li smangia poco per volta e i malati, con la tosse, ne tirano fuori il sangue. E chi permette che così tanti bambini rimangano esposti, inermi, a questo sterminio? Se è Dio colui che ci ha dato il sole, il sorriso e la gioia perché non dovrebbe essere lo stesso Dio che ci ha dato la tubercolosi? Ecco, io ho capito che dovevo fare lo stesso con le Sue pitture. Io lascio le tele che dipingo accatastate l’una sull’altra nello studio, lascio che chiunque le calpesti; le butto fuori, inermi, all’aria aperta, sotto il sole o sotto la neve, la pioggia, gli escrementi di uccelli. Gli insetti le mangiano e le bucano per scavarci una tana come la tubercolosi nei polmoni. Io penso con sadismo che questo trattamento possa fare loro del bene. Un buon quadro deve sopportare molte cose. Come noi. E spero che queste tele, sballottate qua e là, siano come un veliero in avaria che finalmente, dopo trent’anni di vita vagabonda, con metà dell’attrezzatura strappata dai marosi, raggiunge una qualche specie di porto. Quando sono insoddisfatto di un lavoro, lo lascio per settimane fuori, esposto alle intemperie perché così Dio fa con me. Dio non ci ha forse dato le tempeste nei mari, la siccità e i ghiacciai eterni, il dolore, la gelosia, la solitudine di chi ama? Un po’ di sole, di sporco, di pioggia e qualche buco non possono che far del bene alle mie tele. La superficie liscia della pittura a olio mi irrita, così come il colore lucido delle vernici. Non è un’esistenza patinata quella che io vivo. Molti collezionisti, anche i più intelligenti, mi rimandano indietro i quadri dicendo che hanno dei buchi o che sono sporchi. Altri, addirittura, li verniciano per proteggerli dalla patina del tempo. Io inorridisco e se è per questo non vorrei nemmeno mai separarmi dalle mie tele: sono pezzi della mia carne, non della mia psiche. Siccome io sono l’archetto di Dio e attraverso l’attrito dei miei crini tesi sulle corde di budello Lui produce la Sua musica, quei quadri sono realizzati tendendo la mia carne come il violinista gira la vite dell’archetto per tirare i crini. Senza paura e malattia, la mia vita sarebbe una barca senza remi e io devo essere fedele a questo dolore, come il musicista allo spartito del compositore. Per ottenere le Sue immagini dolorose, asciutte e opache, ho provato anche con la caseina: quando si asciuga, sulla superficie della tela si crea una tensione così forte che il colore si fessura in mille crepe. Ho provato con l’olio molto diluito nella trementina e ho ottenuto un pigmento così liquefatto che sgocciolava lungo la tela, senza controllo, proprio come l’angoscia. Altre volte ho spruzzato il colore direttamente sulla tela.
Mi sono anche fatto aiutare da un anestesista e da un chirurgo per trovare un legante con cui mescolare i pigmenti in modo da renderli simili alla mia devastazione. Ho eliminato l’imprimitura e alla fine, dopo mille violenze, ho capito che l’aiuto mi sarebbe venuto abbandonandomi alla Natura. Sarebbe giunto direttamente dalla pioggia, dal sole, dalla neve, dal ghiaccio, dalle tempeste, dallo sterco degli uccelli, dai buchi degli insetti. Dalla stessa violenza degli elementi cui noi uomini siamo sottoposti. Attraverso l’intimo intreccio tra artista e Natura: è così che Dio fa suonare il suo archetto.

Corriere 6.11.13
«Noi, il popolo che rende poetica la solitudine»
di Roberta Scorranese


«Curioso: è stato un italiano a rivelarmi uno degli aspetti più interessanti dello spirito norvegese». Già: nel 1988, guardando in tv un documentario sulla Norvegia firmato da Giorgio Manganelli, Siri Nergaard (docente della lingua di Oslo all’università di Firenze e ormai da 25 anni in Italia), rimase colpita da un’osservazione dello scrittore. «Lui parlò di noi come di un popolo alla continua, costante, ricerca della solitudine. Non di paura, dunque, ma di amore per la solitudine, come se avessimo il dono di riconoscere valore in questo stato d’animo spesso demonizzato dalla cultura mediterranea».
Che fosse questo uno dei tratti più sottili e impenetrabili di Munch e della cultura scandinava in generale? Che fosse questo l’istinto che condusse il pittore a realizzare quell’«urlo che attraversava la natura» udito all’improvviso, in tutta la sua forza? «Riflettiamo — afferma Nergaard —: il mio Paese incarna una profonda concezione dell’uguaglianza. Derivante dalle convinzioni protestanti: siamo tutti uguali davanti a Dio, quindi siamo tutti uguali davanti all’assoluto, alle grandi domande. Poi però ci sono queste scelte individuali, molto soggettive, come, appunto, l’Urlo». Più vicino allo svedese Bergman (specie quello di «Persona»), dunque, che a Ibsen (drammaturgo in cui l’interazione sociale è molto importante, in cui i personaggi si rapportano continuamente con l’alterità). «Anche scendendo nel dettaglio pratico — ricorda Nergaard — in Norvegia e nei Paesi del nord la ricerca di una casa isolata, al mare o in montagna, è una prassi comune. La solitudine non è vista come una cosa negativa, ma un’occasione: per stare da soli davanti all’immenso e non guardarlo con gli altri».
Si spiega così un altro aspetto importantissimo nella poetica munchiana e, dunque, anche dei suoi compatrioti: l’amore per i viaggi, per l’allontanarsi come medicina contro l’immobilismo e il terrore di restare inchiodati in un posto, costretti in uno spazio (i suoi problemi psichici hanno spesso indotto il pittore a sottoporsi a cure drastiche). Forse è anche per questa propensione alla ricerca interiore, a un silenzio velato di pudore che il Paese è rimasto attonito davanti alla tragedia di Oslo, quando, il 22 luglio 2011, Anders Breivik compì due feroci attentati contro civili.
«Non si era mai vista una cosa simile nel nostro Paese — dice Nergaard —: è stato come perdere l’innocenza. Non è un linguaggio che ci appartiene: la nostra è una cultura in fondo semplice, rigorosa, fatta di silenzi, come le nostre pianure. Scoprire che siamo capaci di parlare questa lingua è stato un trauma». Come se in un Paese attentissimo all’aspetto sociale (la Norvegia è il miglior posto al mondo dove essere madri, stando al Mothers’ Index di Save the Children e possiede un ramificato sistema di tutela dei minori) si fosse scoperto un baco.
«Noi siamo come le nostre terre: poco popolate ma gelose di un equilibrio segreto — continua la professoressa —. A tal proposito è molto importante il nostro rapporto con la natura: anche qui siamo senza mediazioni di fronte a essa. Caratteristica che si ritrova in autori contemporanei come il premio Nobel Hamsun o in Tarjei Vesaas».
E, ancora una volta, è un autore italiano che Nergaard cita quando pensa alle influenze di Munch sulla cultura mediterranea: «Mi ricorda Gianni Celati — conclude — con queste pianure infinite, questo rapporto stretto con gli elementi e una certa solitudine popolata , come se fossimo soli, sì, ma sempre in compagnia di un mondo nascosto».

Corriere 6.11.13
Il nostro «urlo» e quel parapetto che ci sostiene
di Giovanni Montanaro


La storia la racconta Munch. È il 1892, si fa sera, il pittore cammina con degli amici su un ponte di Oslo. Il tramonto è rosso, luminoso. Chiacchierano, scherzano, organizzano una bevuta. Poi gli succede qualcosa, una vertigine. È stanco, si appoggia al parapetto. Vede fuoco, sulle case e nell’acqua, e sangue, che piove dalle nuvole. E, soprattutto, sente; improvviso, sonoro, un urlo. Munch ne è sconvolto, cerca di raccontare quel boato; ne fa una figura umana, le dà un confine, anima e ossa di pasta gialla, ma lo sfondo viene spazzato dal suono, diventa onda che propaga. Tutto è urlo. Non è solo un’immagine, per lui. È una presenza costante, un’ossessione; riprende quel soggetto quattro volte, ne fa decine di litografie. Quel che si può dipingere, raccontare, dire, ha un volto, si può combattere.
Che quel fantasma sia diventato un’icona del Novecento, è ovvio. Che sia andato da Andy Warhol a Homer Simpson, dalle magliette ai gadget, è un’altra forma di esorcismo. L’abisso lo tappa solo il gioco, l’ironia. È che ognuno ha il suo urlo, e spesso ha anche quello di qualcun altro, e qualche volta non l’ha sentito in tempo. Ma quell’immagine ha dentro tutto, non solo i destini singoli: ci sono le maschere a gas delle guerre e i lutti che ci portiamo da soli negli autobus, le notti in cui ci ha svegliato il terremoto e quelle in cui l’ansia non fa dormire, i disastri nucleari e la violenza di cui non pensavamo di essere capaci, gli amori che si rompono, i dolori che straripano, il vuoto che lasciano spesso i ricordi, i bambini che vogliamo proteggere.
Ma siamo vivi. E così è giusto farne un portachiavi o incollare su un poster la faccia di un amico. No, non ci fa paura, la paura. E, per essere onesti, se si osserva bene quella bocca spalancata, quelle mani che fanno da cassa armonica, viene da pensare che un urlo così forte noi non l’abbiamo mai fatto. E se è accaduto, una volta o due nella vita, ce ne siamo pentiti, o, anzi, per una volta ci siamo sfogati. Ma, anche se non l’abbiamo mai fatto, quell’urlo ce l’abbiamo dentro, risale per la gola, si ferma dietro le labbra, tante volte sembra l’unica cosa sensata da dire. Eppure, poi, non esce. Perché? Nella tela di Munch, l’unica cosa dritta, che il suono non storce, è il parapetto del ponte, lì dove il pittore si è appoggiato; se non ci fosse stato quello, sarebbe caduto. Sì, ci viene spesso voglia di urlare, mollare tutto, ma poi sappiamo che, da qualche parte, c’è qualcosa, qualcuno, c’è il nostro parapetto.

Repubblica 6.11.13
Munch
La vera arte di dipingere l’abisso (e basta Urlo)
Al Palazzo Ducale di Genova 80 opere del pittore norvegese a 150 anni dalla nascita
Lo scopo è di presentare un aspetto inedito e più intimo del maestro con lavori poco noti
di Lea Mattarella


GENOVA «L’uomo che vi presentiamo oggi non è quello che credete». È con questa affermazione del curatore Marc Restellini che va visitata la mostra Edvard Munchaperta a Genova a Palazzo Ducale da oggi al 27 aprile 2014.
Una frase che rivela l’anima di questa esposizione: presentare un aspetto inedito e più intimo del pittore norvegese, icona di una pittura vissuta nel segno del dolore, dell’angoscia, dell’Urlo, interprete di un’«arte che si nutre del sangue dell’artista», per dirla con le sue parole. Questa rassegna si presenta proprio come “Anti-urlo”, come già era stata quella curata da Restellini alla Pinacoteque de Paris nel 2009. Mira a rompere quel processo di identificazione avvenuto nel corso del tempo tra Munch e il suo quadro più celebre. Tra le 80 opere raccolte in quest’occasione l’Urlo non c’è, se non nella versione che ne dà Andy Warhol, protagonista di una piccola mostra nella mostra. E il visitatore è pregato di distrarsi da quella figura che grida sul ponte coprendosi le orecchie con le mani, per un viaggio alla scoperta di dipinti e lavori grafici di Munch, in gran parte poco conosciuti al pubblico perché conservati in collezioni private. Un esempio è quello dell’inedita raccolta Linde, l’oculista che ospitò il tormentato pittore a Lubecca nel 1904.
Questo Munch segreto e autentico ci viene raccontato in otto sezioni che attraversano la sua storia pittorica che è anche storia esistenziale («i miei quadri sono i miei diari»). Ne emerge un pittore profondamente innovativo, capace di sperimentare tecniche e soluzioni formali sempre differenti, pur nella continuità di temi che spesso sono una vera e propria ossessione. Sono innumerevoli le versioni che realizza delle sue opere più celebri. Le dipinge, le disegna, le incide. «Se riprendo più volte un tema – ha detto – è per calarmici dentro più profondamente. Un’immagine non si esaurisce in un unico dipinto. Ogni versione rappresenta un contributo al sentimento della mia impressione». Nascono così i fantasmi che popolano i suoi quadri, gli spettri di una psiche difficile da governare che ha uno stretto legame con i personaggi letterari di Strindberg e di Ibsen e, se vogliamo riconoscergli uno sguardo sul futuro, con il mondo nordico di Ingmar Bergman.
«Nella mia casa d’infanzia – ha scritto Munch – abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora... Così vissi coi morti». Ed ecco nelle prime sale i suoi esordi da pittore, quando esce da quell’abitazione in cui erano scomparsi la mamma e la sorellina di tisi, un fratello per annegamento e dove una delle sorelle soffriva di crisi psichiche, per dipingere il paesaggio. Inizialmente lo fa in maniera naturalistica ma, quasi immediatamente, gli è chiaro che deve abbandonare la pittura oggettiva per far entrare nel quadro prepotentemente la soggettività del suo vedere e del suo sentire. «Scrivi la tua vita», era stata l’esortazione dello scrittore anarchico Hans Jaeger, animatore della bohème di Christiana (l’attuale Oslo), città dove Munch si era trasferito con la sua famiglia nel 1864, un anno dopo la nascita. Legato a questo mondo di artisti e letterati Munch inizia così la sua vertiginosa discesa dentro se stesso. E dalGiardino con casa rossa,dai dipinti influenzati dall’impressionismo, grazie a due soggiorni in Francia nel 1889 e nel 1892, si giunge alla sala che raccoglie le “Incisioni dell’anima”. E va ricordato che la grafica era un’espressione fondamentale per Munch che a volte viveva il quadro come una preparazione alle sue stampe.
L’Autoritratto del 1895 è già una dichiarazione di poetica: Munch si scruta, si indaga, si mette a nudo. «La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere». Tutta la sua pittura va letta quindi in chiave esistenzialista. Ecco le
Madonne, iVampiri. Sono la sua lettura del femminile: figure che succhiano il sangue, il cui abbraccio è una morsa che risucchia l’uomo in un nulla senza scampo. Una di questeMadonne, Jaeger l’aveva appesa nella sua cella del carcere quando fu arrestato per la spudoratezza del suo romanzo autobiografico. È un’opera che mette in scena la profondità del rapporto tra il piacere e il dolore, tra la vita e la morte. «La donna che offre se stessa e raggiunge la bellezza dolorosa di una madonna – Tutta la mistica dell’evoluzione concentrata in un solo essere – La donna nella sua multilateralità è un mistero per l’uomo – La donna che è una e contemporaneamente è una santa e una puttana, una creatura infelice e abbandonata». Questo era il suo pensiero, la sua idea della donna e dell’eros che lo attraeva e lo spaventava. Sempre con quel chiodo fisso che il suo patrimonio genetico fosse minato da malattia e morte e quindi senza la possibilità di unirsi per sempre a qualcuno per creare una discendenza. La tragica fine della sua relazione con Tulla Larsen con un colpo di pistola che gli causa la parziale perdita di un dito è la metafora dell’impossibilità di Munch di completarsi con l’altro da sé. Le sue Madonne sono circondate da spermatozoi e da embrioni che hanno già la morte stampata sul corpo ancora in formazione. Nelle sale dedicate all’universo femminile c’è un mondo di attrazione, gelosia, chiome «come pioggia di sangue versato a torrenti sull’insensato che cerca la divina sventura di essere amato».
Ma la mostra ci conduce anche alla scoperta della natura vista con gli occhi di chi la considerava «un mezzo e non un fine», luoghi in cui può capitare, magari solo per un attimo, anche di essere felici. La natura è mezzo anche pittorico. Munch appendeva i suoi quadri agli alberi, li lasciava nella neve, diceva che il colore aveva bisogno di sole, di sporco, di pioggia. Così li faceva partecipare al corso della vita, li vedeva invecchiare come fossero persone. Ci sono anche le sue fotografie, scatti sfuocati, senza centro, un’ulteriore indagine per arrivare alla verità. Lui le chiamava “fotografie fatali”. E poi ci sono i suoi superbi ritratti che scavano l’anima del personaggio. «La seconda condizione per un ritratto è che esso non somigli al modello, la prima è che l’arte è arte».

Repubblica 6.11.13
Il teatro dell’anima all’incrocio dei secoli
Strindberg e Ibsen, Kierkegaard e Nietzsche: così sì è formato un grande artista
di Franco Marcoaldi


Come una mela tagliata a metà, la vita di Edvard Munch si divide tra gli ultimi quarant’anni dell’Ottocento e i primi quaranta del Novecento (1863-1944). Dei due secoli in cui vive, l’artista condensa in sé lo spirito in modo esemplare: nasce naturalista, salvo incrociare ben presto il simbolismo; segue le tracce impressioniste, per farsi poiantesignano del modernismo espressionista.
Certo, le tragiche vicende familiari offrono un timbro indelebile alla sua arte: a cinque anni Edvard perde la madre e a dodici la sorella maggiore Sophie (variamente raffigurata in celebri quadri), mentre un’altra sorella (Lara) è affetta da una grave depressione. Lui stesso, del resto, grande consumatore di alcol e soggetto a reiterati stati di allucinazione, conosce la malattia mentale e la paranoia, al punto che nel 1908 è costretto a una degenza di otto mesi nella clinica psichiatrica del dottor Jacobsen, a Copenaghen.
Eppure, il cliché dell’artista maledetto non gli si attaglia. Munch, tanto per dirne una, è quanto mai accorto nel rapporto con i mercanti e gestisce con oculatezza il suo patrimonio artistico. Così, se è vero che la sua vita può sembrare quella di un uomo braccato, affetto da misoginia e capace di collere inaudite che lo spingono a rotture improvvise e a successivi, lunghi periodi di isolamento, è altrettanto vero che Edvard viaggerà molto e conoscerà molte persone. Forse, allora, bisognerebbe provare a rovesciare la prospettiva: riconoscendo che se la cifra principale della sua arte resta quella dell’inquietudine, dell’angoscia, del fantasmatico, essa risulta tanto più efficace perché il “teatro dell’anima” a cui dà vita nasce sì da un’esperienza soggettiva e incarnata, ma si incrocia in modo quanto mai fertile con la temperie culturale circostante. Il poeta danese Emanuel Goldstein apprezza la sua opera e lo introduce al simbolismo, mentre Edvard familiarizza con il pensiero di Swedenborg e Schopenahuer. L’amico Hans Jaeger gli fa conoscere l’opera di Kierkegaard; e sempre per restare in ambito filosofico, nel 1905 dipingerà un famoso ritratto di Nietzsche, al cui pensiero è fortemente interessato quel Frederick Delius,compositore inglese, che il pittore norvegese aveva frequentato con profitto nel soggiorno parigino del 1896. «Si è detto che bisognerebbe comporre musica sulla pittura di Munch per interpretarla adeguatamente», riconosce Strindberg in un breve e fulminante scritto pubblicato in occasione della mostra tenuta alla galleria Art Noveau di Parigi.
E giusto a proposito di Strindberg, come dimenticare la fertilissima collaborazione di Munch con la grande drammaturgia nordica? Con il nuovo teatro da camera di Max Reinhardt, fondatore del Berliner Kammerspiele? Non si tratta soltanto di pur importanti scenografie, a partire da quella per gli Spettri di Ibsen. Il riflesso pittorico di un’idea teatrale volta a favorire l’intimità con lo spettatore è immediatamente riscontrabile in altrettante tele raccolte in spazi chiusi ritmati da una precisa drammaturgia (basti, per tutti, il celebreLa morte nella camera della malata). Senza contare, via via che passano gli anni, l’uso deformante del grandangolo fotografico e l’avvicinamento al cinema, nella convinzione di dover imprimere alla propria pittura un ulteriore cambio di passo, in direzione di un dinamismo talmente irruente da spingere il soggetto fuori dalla tela. A contatto diretto con l’osservatore.
Se si mettono assieme tutti questi elementi, e si aggiunge poi la pratica del quadro “non finito”, il ritorno ossessivo sullo stesso soggetto, il confronto con i nuovi media (radio, cinema, riviste illustrate, cartoline postali), si finisce per riconoscere nella lunga battaglia interiore di Munch, nello sfiancante corpo a corpo intrapreso con la propria anima, un’eco quanto mai significativa del più generale tragitto artistico, letterario e filosofico otto- novecentesco.