giovedì 7 novembre 2013

l’Unità 7.11.13
Epifani, appello ai candidati «Fermare il tesseramento»
Sulla proposta lanciata da Cuperlo l’ok di Renzi. Civati e Pittella per ora dicono no
di Maria Zegarelli


ROMA Il Partito democratico ancora una volta si avvita attorno a regole che prima decide e poi è costretto a modificare. La segreteria che si è svolta in due tempi causa lavori parlamentari ieri ha deciso all’unanimità il blocco del tesseramento a partire da lunedì prossimo. Soltanto i vecchi iscritti potranno rinnovare la tessera fino all’ultimo giorno, cioè l’8 dicembre. Per tutti gli altri c’è tempo fino a domenica, purché ci sia l’unanimità dei candidati. «La segreteria spiega Guglielmo Epifani è tutta d’accordo: abbiamo lavorato per rasserenare il clima, favorire la più ampia partecipazione e far sì che il giorno delle primarie ci sia il maggior numero di persone che vada a votare, e far emergere il confronto tra i candidati, poiché è finita la fase dei congressi territoriali».
Rasserenare il clima, avvelenato dal tesseramento gonfiato a dismisura in alcune federazioni, dai sospetti reciproci tra i candidati di aver messo insieme truppe cammellate ed evitare che il fenomeno continui anche in vista della vera partita che sta per iniziare il 10 novembre con le convenzioni. Ma se la segreteria ha cercato una via d’uscita indolore «in fondo si tratta di una piccola modifica dello statuto», dice il segretario, che ribadisce lo svolgimento corretto dei congressi territoriali nella stragrande maggioranza dei casi Pippo Civati e Gianni Pittella si oppongono al blocco delle iscrizioni. L’ok è arrivato soltanto da Gianni Cuperlo che ancora ieri mattina aveva lanciato un appello a fermare il tesseramento perché «angosciato» dai tanti casi sospetti, e da Matteo Renzi che ha consegnato a Facebook prima e a Epifani poi il suo via libera, senza rinunciare però al tono polemico: «Mi va benissimo qualsiasi decisione prendano Epifani e gli altri candidati. L’importante è che si parli di questioni serie e che l’8 dicembre alle primarie possano votare tutti i cittadini. Chiarito questo, possiamo tornare a fare politica? Grazie».
Cuperlo sceglie twitter: «Apprezzo scelta condivisa per stop tesseramento. Così si rispetta dignità iscritti». Civati i cronisti e le telecamere di Montecitorio: «Epifani, Cuperlo e Renzi sono d’accordo per fermare il tesseramento. Proposta tardiva e insufficiente». Ed elenca le irregolarità: non le sei o sette segnalate in mattinata da Davide Zoggia ma quelle, dice Civati, che riguardano trentaquattro federazioni su centodiciotto. Cita i casi più eclatanti di tesseramenti lievitati: Reggio Calabria 315,9%, Matera 304,3%, Napoli 303%, Campobasso 293,3% e Termoli 264,2%. Da qui la proposta: «Sanzionare il tesseramento selvaggio, senza penalizzare chi intende aderire al Partito democratico genuinamente e neppure le federazioni che si sono comportate correttamente» e permettere a tutti e quattro i candidati di arrivare alle primarie dell’8 dicembre. Poi, la stoccatga a Renzi: «Ha cambiato idea anche su questo, mi sorprende».
Per Pittella i «buoi sono usciti dalla stalla», il blocco si sarebbe dovuto fare venti giorni fa, «adesso è inutile. Si è scelta la strada più facile, quella del tutti colpevoli, tutti disonesti...». Un «no» il loro che sembra netto, ma Epifani, che intende parlarci personalmente, non dispera e punta a quell’unanimità necessaria per cambiare le regole in corsa. Secondo il segretario è un’ipotesi ragionevole, l’unica in grado di non inficiare l’immagine del partito. «Abbiamo avuto segnalazioni di situazioni abnormi. Per quello che mi riguarda, abbiamo dato indicazioni alla commissione di garanzia e alla commissione congresso (che si riuniranno oggi pomeriggio, ndr) di usare la massima severità», dice in conferenza stampa a mezzogiorno. Ci sono casi in cui non è escluso l’annullamento o lo spostamento dei congressi.
Eppure malgrado le roventi polemiche sul tesseramento gonfiato, le cifre raccontano tutt’altro che un boom. Antonello Giacomelli, vicecapogruppo alla Camera, dice che proprio questo è il dato politico più allarmante: il crollo degli iscritti rispetto al 2009. «Altro che partito solido e ditta...».
GUERRA DI CIFRE
I numeri li snocciola lo stesso segretario: 320mila gli iscritti che hanno votato nei circoli fino a oggi, che diventeranno circa 10 mila in più, mentre quelli che votarono nel 2009 furono 420mila. Seicentomila i tesserati attuali, 800mila quelli del 2009. Epifani sottolinea che sono stati rinnovati il 95% dei segretari, con un’età media «molto bassa», 15 le donne elette, 88 i congressi provinciali conclusi, 8 i ballottaggi. Ma è ancora guerra di cifre anche sui risultati dei congressi. Dal comitato pro-Cuperlo dicono che dai dati aggregati in loro posssesso «circa 250.000 persone hanno espresso il loro voto e si conferma che più del 50% ha espresso la propria fiducia a candidati che sostengono Gianni Cuperlo alla segreteria nazionale del Pd». Bilancio finale: 49 candidati segretari che sostengono Cuperlo, 35 che sostengono Renzi e un candidato che sostiene Civati. Sette quelli che non si sono schierati. Pronta la replica da fronte renziano: «Ma a chi giova dare dati falsi? Si aspetti il risultato definitivo e i dati veri». Renzi la definisce niente altro che una «conta fasulla», della serie, «sì, dai, facciamoci del male», ma dall’8 dicmebre «finalmente cambierà». Epifani prova a smorzare: «In questa fase non è facile attribuire a questo o a quello i segretari, perché non c'è rapporto con le future scelte per la segreteria nazionale». Cuperlo assicura che chiunque vincerà il congresso poi si lavorerà tutti insieme. Ugo Sposetti è tranchant: con le primarie aperte, potranno andare a votare «anche un delinquente, anche un evasore fiscale, un truffatore, un violentatore di minorenni. Con queste regole può votare il primo che passa». E ad avvantaggiarsene, aggiunge, è Renzi. «Desta preoccupazione che un dirigente del Pd come Sposetti possa aver definito in modo così pesante gli iscritti del Pd. Se si vuole trasformare il congresso in una rissa da saloon, noi non ci stiamo», replica un gruppo di senatori vicini al sindaco. Per Sergio D’Antoni l’errore è a monte: «Ma che senso ha lasciare aperte le iscrizioni fino all’8 dicembre? Quel giorno sarà possibile votare il segretario versando due euro. Vi pare che c’è chi ne verserà 15 per tesserarsi? Il tesseramento ha un senso fino alle convenzioni locali». Infatti è adesso che si corre con le truppe cammellate.

il Fatto 7.11.13
Il Pd “Blocchiamo le iscrizioni”
Ma serve l’unanimità: Civati e Pittella contrari
I falsi tesserati sono già dentro
di Wanda Marra


Quando è troppo tardi e i giochi (sporchi) sono fatti, la segreteria dei Democratici vorrebbe fermare le adesioni. Ma sono contrari due dei quattro candidati: Pittella e Civati (pronto al ricorso). Psicodramma a Lecce: risse tra i militanti, circoli chiusi, congressi sospesi. Uno spettacolo mai visto nella storia della sinistra italiana. Ma da Roma tutti minimizzano

Stop al tesseramento: la proposta della segreteria del Pd arriva dopo una doppia riunione, una in mattinata (aggiornata per incapacità di prendere una decisione), una nel pomeriggio. Una indicazione, che per diventare operativa dev’essere ratificata dalla Commissione congresso (che si riunisce stasera). Tra ricorsi, risse, tessere sospette, del congresso Pd in questi giorni non è rimasto altro.

“ABBIAMO come segreteria condiviso la riflessione di Epifani che ci possa essere uno stop del tesseramento in vista delle convenzioni. Uno dei paletti posti è che sabato e domenica i circoli restino aperti e l’altro è che tutti i candidati siano d’accordo. Il segretario farà in queste ore le verifiche del caso”, spiega il responsabile Organizzazione, Davide Zoggia. I congressi provinciali sono finiti, ora inizia il voto dei circoli per il segretario nazionale (che comunque sarà eletto da primarie aperte a tutti l’8 dicembre), e i Democratici pensano di ricorrere - per il secondo anno consecutivo - al “respingimento” degli aspiranti nuovi iscritti. Questa volta ai circoli, non ai seggi. Finirà che si annulleranno alcuni congressi (Zoggia cita a rischio Asti, Rovigo, Piacenza, Frosinone e Cosenza). Misure esemplari, e per il resto, quel che è imbarcato e imbarcato. Ricorsi in agguato. Tutto da verificare però: Pippo Civati e Gianni Pittella si dicono immediatamente in disaccordo. Civati, poi, solleva un altro problema: “Bloccare tra 3 o 4 giorni blocca quelli col pullman ma blocca anche la gente normale. Mi sembra una misura limitata, pericolosa e tardiva. I candidati che stanno indietro sono penalizzati. Allora, bisognerebbe ammettere tutti alle primarie e via”. A livello locale, ma non solo: “Se prendo il 4,99% il ricorso lo faccio io”. Mentre per Renzi e Cuperlo si tratta di una conta preliminare, chi sta indietro qualcosa si gioca. Secondo lo Statuto gli iscritti “selezionano” i candidati alle primarie: solo in tre sono ammessi e solo chi supera il 5%. Lo Statuto si cambia solo in Assemblea: un’opzione praticamente impossibile. E sempre Statuto alla mano non sarà così facile operare i suddetti “respingimenti”, perché per farlo la Commissione congresso si deve pronunciare all’unanimità. Se no si dovrebbe convocare la direzione. Per questo la svolta determinante - quella che arriva da Renzi via Facebook intorno all’ora di pranzo - è una cosiddetta mossa win-win, per dirla al-l’inglese. Ovvero, secondo i calcoli del super- favorito, vincente in ogni caso. Dopo che i suoi avevano proclamato per tutta la giornata di martedì che “non si cambiano le regole in corsa” opponendosi al blocco delle tessere chiesto a gran voce da Cuperlo, Renzi, tra una riunione della segreteria finita in stallo, e l’altra scrive: “Non sono intervenuto fino ad oggi, non lo farò adesso: quello che decide il segretario Epifani mi sta bene. Punto. Vogliono bloccare il tesseramento, come propone Cuperlo? Lo blocchino, nessun problema. Accetto le proposte altrui, le decisioni altrui, le regole altrui. L’importante è che finalmente il Pd torni a discutere di questioni concrete”. Visto che lui pensa di vincere in ogni modo, allora tanto vale dare un segnale di superiorità. E se alla fine la proposta Epifani non dovesse andare in porto, sarà qualcun altro a mettere la faccia sulla difesa di una situazione ormai ingestibile.
LA SEGRETERIA riconvocata per le 15 alla Camera (e non al Nazareno) va giù tutt’altro che liscia. Scazzottata verbale tra il bersanian-cuperliano, Alfredo D’Attorre e il veltronian-renziano, Antonio Funiciello. “Bisogna aggiungere nei materiali di comunicazione del congresso per cosa si fanno le primarie. Se no pare, che sono primarie per il candidato premier. E allora cade il governo”, argomenta D’Attorre. Replica piuttosto animata di Funiciello, che peraltro è uno dei responsabili delle primarie: “Chi vince è anche il candidato premier. Se volevate cambiare la norma per lo Statuto, lo potevate fare con Bersani. Non ci siete riusciti, ora ve lo tenete così”. Il comitato Cuperlo sul punto dichiara battaglia. Epifani imperterrito si dice ottimista: “Lo stop al tesseramento è una strada giusta, che conviene a tutti”. Il mediatore instancabile. Ma il tono della polemica è quello di Sposetti: “Anche un delinquente. Anche un evasore fiscale, un truffatore, un violentatore di minorenni. Con queste regole può votare il primo che passa. L’8 dicembre è una lotteria”, dice Sposetti a Klauscondicio. Indignazione renziana. E lui: “Erano gli esempi che faceva Klaus, io ho solo detto di sì”. La sceneggiata continua.

Giornalettismo 7.11.13
Pippo Civati spiega il suo no allo stop del tesseramento PD
di Stefania Carboni

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Repubblica Tv 6.11.13
Civati: ''Impediamo gli imbrogli e vinca chi ha più voti''
Se Cuperlo e Renzi avessero detto subito quello che dicevo io, forse non ci troveremmo ai pasticci di questi giorni sul tesseramento
Pippo Civati, candidato alle primarie del Pd, è contrario al blocco del tesseramento invocato da Cuperlo: ''Evitiamo le 'stronzate' e vinca chi ha più voti.''

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Repubblica 7.11.13
Renzi: Ma le primarie devono restare aperte
“Che pasticcio con gli iscritti ero contro certe regole folli ma ora voglio parlare dell’Italia”
Il sindaco: “La Cancellieri non mi ha convinto”
intervista di Goffredo De Marchis


Matteo Renzi, sindaco di Firenze, in corsa per la segreteria del Pd Ieri ha accettato di bloccare i tesseramenti
MATTEO Renzi non vuole infilarsi in un’altra discussione sulle regole. Tantomeno ci sta a passare per il nuovo signore delle tessere. «Il paradosso è che se la prendono con me. Ma come? Sono stato l’unico a dire: facciamo direttamente le primarie, lasciamo dopo la partita dei congressi locali e degli iscritti. Mi ero raccomandato. Ci sono posti dove il Pd non fa il tesseramento da due anni. Volete che non succedano pasticci?».
ORA lo accusano di cercare il caos. Di alimentare le file di immigrati ai circoli e, allo stesso tempo, di scommettere tutto sul voto degli elettori l’8 dicembre. Ugo Sposetti prevede: «Andranno ai gazebo delinquenti e pedofili». «Sposetti deve farsi vedere da uno bravo...», risponde Renzi. Poi sposta il bersaglio sul governo. «La vicenda parlamentare sembra chiusa, ma l’atteggiamento del ministro della Giustizia non mi ha convinto per niente».
Così il Pd non regge fino all’8 dicembre.
«Non è vero. Ma io che posso fare? Hanno detto: sospendiamo il tesseramento. Ho risposto: va bene. La prossima volta cosa mi chiederanno? Di ritirarmi? Non volevo questo calendario ma sembrava che avessi paura del voto degli iscritti e sono stato buono. Finché abbiamo tenuto il bandolo sui problemi veri, lavoro, fisco, legge elettorale, com’è avvenuto alla Leopolda, andava tutto bene. Poi, Cuperlo e Civati hanno cominciato a denunciare il caso degli iscritti. Sicuramente, ci sono situazioni di tesseramento gonfiato. Non ne so niente, non me ne sono mai occupato, ma alcuni sono evidenti. Sarebbe stato meglio intervenire sui singoli casi, e ce ne sono, piuttosto che sparare nel mucchio. Però non sarò io a preoccuparmi delle regole. Voglio parlare dell’Italia. L’importante è che si dica forte e chiaro: l’8 dicembre possono votare tutti, tesserati e non».
Se la partecipazione alle primarie fosse molto inferiore alle precedenti — i 4 milioni di Veltroni, i 3 di Bersani — ne uscirà un segretario dimezzato?
«Sui numeri sarei cauto. Non dimentichiamoci che le ultime primarie erano di coalizione. Partecipavano elettori di più partiti. Ma se vanno a votare due milioni di persone non cambia nulla per la legittimità del vincitore, chiunque egli sia. Io spero che siano tantissimi, cercherò di portare la gente alle urne parlando dei problemi veri e offrendo delle soluzioni».
Pensa che i suoi avversari puntino a una partecipazione ridotta?
«Non credo. Ma mi ha colpito l’atteggiamento del comitato Cuperlo. Hanno voluto mettere delle bandierine sui segretari provinciali. Una gara assurda. I segretari provinciali non sono collegati ai candidati nazionali. Io stesso ho votato a Firenze un candidato bravo e mio amico che alle primarie sceglierà Cuperlo. Che dovevo fare? Cambiare idea perché non sta con me? Queste ricostruzioni fasulle fanno male al Pd. Cari signori, qui c’è un Paese che ha più del 40 per cento di giovani disoccupato. Occupiamoci di loro».
I renziani sospettano la trappola- partecipazione per indebolirla.
«I renziani non esistono, sono una categoria dello spirito. Ma a chi si sente tale, chiedo di non gridare ai complotti. Si mettano a lavorare per fare delle iniziative e la gente verrà».
L’ex tesoriere dei Ds dice che gli iscritti vanno rispettati e che alle primarie aperte possono votare delinquenti e pedofili.
«Tra i cittadini votano milioni di persone perbene, normali, che vogliono bene all’Italia anche se non si tesserano col Pd. Se poi Sposetti, quando pensa ai cittadini non iscritti, li associa immediatamente alla pedofilia o alla criminalità, che posso dire? Mi spiace per lui. Forse deve farsi vedere da unobravo... «.
In un partito però non si può rivolgersi solo agli elettori facendo finta che gli iscritti non esistano.
«Non è vero che non mi interessa il voto degli iscritti. Ma si può dire che il meccanismo è un po’ arzigogolato? Da oggi fino al 17 novembre gli iscritti vengono chiamati a scegliere quale dei quattro candidati escludere dalle primarie. Uno deve uscire dalla casa. Ma così funziona il Grande fratello, mica una forza politica. Detto questo, continuo a pensare che la legittimazione di un segretario votato da milioni di persone sia superiore a quella di un leader votato da poca gente. Se vinco, il mio Pd non sarà mai un partito autoreferenziale».
Vuole trasformarlo in un comitatoelettorale?
«No. Mai ai teorici delle tessere faccio notare che stavolta sono andati nei circoli 350 mila iscritti mentre nel 2009, all’ultimo congresso, furono 500 mila. Significa il 30 per cento in meno ed è un segno importante su cui forse occorre una riflessione. Bersani teorizzava il Pd solido, ma quel Pd è evaporato. Quante volte sono stati coinvolti gli iscritti? Quante volte i sindaci? Nel modello di Partito democratico che abbiamo in testa noi, quando presenteremo delle proposte sul lavoro, domanderemo, attraverso la Rete, il contributo degli imprenditori, dei lavoratori. Questa è la rivoluzione. Sarà divertente smentire i professionisti della critica dimostrando che il Pd può essere un luogo di elaborazione politica e di formazione. E non perché ci sta a cuore il contenitore Pd, ma perché ci sta a cuore l’Italia ».
Il Pd ha assolto Annamaria Cancellieri. Ha fatto bene?
«La vicenda parlamentare sembra chiusa, ma l’atteggiamento del ministro non mi ha convinto per niente».

Repubblica 7.11.13
Tessere. Quello strumento democratico usato nelle lotte per il potere
Moltiplicazioni istantanee degli iscritti, risultati contestati, caos organizzativo
Nelle consultazioni locali del Pd ritornano pratiche per conquistare i partiti che sembravano tramontate
di Guido Crainz


Lo scenario di questi giorni non viene da anni lontani ma è un frutto recente Segnala una dissoluzione senza regole e quasi priva di anticorpi
Si sono fossilizzati gruppi dirigenti di “micronotabili” nutriti di vecchie logiche e impegnati a fare qualunque cosa tranne che a costruire un progetto comune

TESSERE comprate e vendute, congressi falsati, risse: il degrado cui è giunta la vicenda del Pd (arrivato al punto di prendere in considerazione la sospensione del tesseramento) rischia di affossare la speranza stessa di una buona politica. Attraversa e devasta l’unico partito che ancora si richiama ad una tradizione di democrazia organizzata.
In realtà sembra scomparire proprio il partito, strumento collettivo di trasformazione, e rimane la tessera, frammento amorfo di un conflitto fra poteri. Forse è in discussione la sopravvivenza stessa di una forza riformatrice: e tutto questo avviene nel momento di maggior discredito della politica. Occorre dunque fare un grande sforzo per sollevarsi dalle singole miserie e cercare di capire come si è arrivati a questa liquefazione di speranze, nel sommarsi di mutazioni e guasti diversi.
La guerra delle iscrizioni fasulle non era nella tradizione del “partito solido” comunista, ha osservato Claudio Petruccioli: anche perché, ha aggiunto, quel che le sezioni dicevano non contava. Lo scenario di questi giorni evoca semmai la Dc o il Psi ma il male del Pd non è un retaggio degli ex democristiani o di qualche ex socialista (anche se qualcuno ricompare). Non è un residuo della prima Repubblica, è un frutto delle nebbie della seconda: quindi è molto più grave, segnala una dissoluzione senza regole e senza quasi anticorpi.
Colpisce per più versi la diversità dalla storia del vecchio Pci. Certo, terremoti epocali avevano via via squassato fondamenta che apparivano solide (e talora discutibili), e alcuni architravi portanti iniziavano a cedere già negli anni settanta. Negli anni ottanta poi, nei trionfi del neoliberismo, l’innovazione sembrò separarsi dal progressismo politico, il vento della modernizzazione e quello del progresso civile iniziarono a non soffiare più insieme. Era messo in discussione, insomma, il coniugarsi stesso della sinistra alla trasformazione mentre la sua “diversità” iniziava ad appartenere al passato. E non era solo italiana la crisi dei partiti basati sulla militanza e l’appartenenza. Era urgente mettere in campo nuove modalità e culture dell’agire collettivo ma l’afasia fu massima: di qui l’occasione mancata nel 1989, quando la svolta di Occhetto fu gestita con i vecchi metodi ed apparati. Difficile stupirsi se di lì a poco, nel crollo della prima Repubblica, la sinistra fu incapace di rinnovare radicalmente il proprio modo di essere. Ed apparve quindi a molti come l’ultima incarnazione del vecchio sistema politico: poco convincente anche quando l’illusorio“nuovo” del centrodestra rivelò la sua miseria. Prese avvio allora una deriva che alla lunga ha travolto anche i tentativi di invertire la tendenza e i soffi rigeneratori che pur vi sono stati.
La sfida era iniziata bene, nella stagione aperta dell’elezione diretta dei sindaci: sembrò possibile una nuova forza riformatrice, “partecipata” e plurale. Levittorie del centrosinistra alle amministrative del 1993 furono certo favorite dal crollo dei partiti di governo ma ebbero conferma nel 1997, nonostante le dure misure adottate di necessità dal governo dell’Ulivo guidato da Prodi. E nonostante il fuoco amico che iniziava a colpire la positiva esperienza dei sindaci: o dei cacicchi, comequalcuno ebbe a dire. In quello stesso 1997 Massimo D’Alema attaccava duramente anche il tentativo di fare dell’Ulivo una realtà nuova: «noi non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti. Non possiamo raccontarci queste storie tardosessantottesche ». Sotto questo manto trovò in realtà riparo e legittimazione l’incubazione di un “partito di micronotabili”, per dirla con Mauro Calise (Fuorigioco, Laterza 2013), e al tempo stesso la storia della sinistra diventò, per dirla ora con Gianni Cuperlo, un succedersi di “traslochi”, dal Pds ai Ds e poi al Pd (Basta zercar, Fazi, 2009). Traslochi in cui si smarrivano precedenti identità mentre nuove culture non nascevano e si fossilizzavano invece gruppi dirigenti impegnati in tutto tranne che nel costruire un progetto comune. Al prender corpo di un partito di micronotabili contribuiva a livello locale – perversa eterogenesi dei fini – il permanere della preferenza unica: nel deperire degli slanci ideali il primo competitore del candidato venne via via a collocarsi nel suo stesso campo, non in quello avverso. Alla crescente evanescenza del progetto e all’incapacità di riforma radicale della politica si accompagnò insomma la solidità crescente di micropotentati periferici nutri-ti di vecchie logiche. Si consolidò un “arcipelago di notabili di apparato” (ancora Calise): segmenti di nomenclatura capaci di condizionare in qualche modo “dal basso” – nel senso che si è detto – il modo di essere del partito, dai poteri locali alle vicende interne. Sotto la superficie si affermarono così logiche in qualche modo autonome:pronte ad emergere nei momenti di profonda crisi della leadership, come è puntualmente avvenuto. Non è stato un processo lineare. Nel 2005 la tendenza nazionale si inverte per un attimo grazie alle primarie che consacrano Romano Prodi candidato premier, ma a favorire antichi arroccamenti identitari contribuisce potentementepoi il Porcellum. Le liste bloccate ribadiscono il predominio dei vertici mentre l’abolizione dell’“uninominale di collegio” indebolisce l’appartenenza comune e rafforza il protagonismo dei singoli partiti. O meglio, di quel coacervo di partiti e di micropartiti che nel 2006 dà vita all’Unione. E il centrosinistra passa “dal governo al suicidio”, secondo l’impietosa testimonianza di Rodolfo Brancoli (Fine corsa, Garzanti 2009). Di qui alla situazione attuale il passo è breve, e le derive prevalgono anche sulla effimera stagione veltroniana: inutile soffermarsi poi sui suicidi successivi (a partire dagli sconosciuti 101 che affossano la candidatura di Prodi). O sui sussulti di vitalità che pur riaffiorano, costantemente frustrati.
Un disastro annunciato, eppure un così clamoroso deperire del partito come progetto a vantaggio della tessera (artificiale) non era prevedibile, in un panorama in cui gli iscritti reali si sono dimezzati in un anno. Che senso ha oggi chiedersi chi ha vinto nei congressi locali del Pd? E cosa accadrà se i loro risultati saranno in contrasto con la probabile elezione a segretario di Matteo Renzi (che già dovrà fare i conti con l’orientamento a lui ostile della maggioranza degli attuali gruppi parlamentari)? Domande non secondarie, ma è ancor più necessario chiedersi quanto siano profonde le deformazioni simboleggiate dalla non evangelica moltiplicazione delle tessere. Quanto essa abbia ulteriormente devastato l’immagine della politica anche in quei cittadini che ancora, con fatica, mantenevano una speranza.

il Fatto 7.11.13
In fila per votare, ma non sanno chi è il segretario
Ad Alessano, provincia di Lecce, in un pomeriggio arrivano in ottanta
A Gallipoli il congresso viene sospeso per 4 giorni
di Tiziana Colluto


Nel capoluogo salentino da 331 a 838 adesioni. A Corsano da 27 a 143. A Galatina da 96 a 375. A Nardò da 113 a 711

Lecce Si è presentato persino un noto sostenitore di Berlusconi. Roba da matti”. Fancesca Torsello allarga le braccia. Per lei, segretaria del Pd di Alessano, in provincia di Lecce, domenica 3 novembre è stata degna di una “sceneggiatura di Beckett”. Teatro dell’assurdo, la sede della segreteria politica della deputata Teresa Bellanova, da tempo trasformata in sezione. Minuscola, a due passi dalla chiesa matrice di questo comune del profondo Capo di Leuca. Uno dei più grandi: 6mila abitanti. È qui, tra la foto di Berlinguer e i manifesti del 25 aprile, che è stato celebrato uno dei congressi salentini della discordia. A seguire il dibattito, domenica sera, c’erano quaranta persone. Fuori, a voler ritirare la tessera, erano più del doppio. “C’era pure - racconta stupita la segretaria - un ex rappresentante di lista del Pdl. E c’erano ragazzini con venti o cinquanta euro già in mano. L’addetto all’Ufficio adesioni, a quel punto, ha chiesto a qualcuno se conoscesse almeno il nome del segretario nazionale del Pd. Quando gli ha risposto di no e che non gli interessava, siamo rimasti a bocca aperta”. Il congresso è stato stoppato per un’ora, per poi riprendere e sfornare numeri: rispetto alla media triennale di 115 tesserati, si è arrivati a quota 171. Non briciole in un paesino in cui le amministrative si vincono o si perdono per 13 voti.
QUALCHE chilometro più in là, a Gallipoli, la porta del circolo di via Andronico, tre metri per tre, è chiusa. “Non ci sono i soldi per pagare l’affitto e abbiamo disdetto il contratto”, dice Pina Cassino, segretaria fino a dieci giorni fa, poi commissariata mentre era in convalescenza. “La tensione del precongresso - sospira - mi ha fatto schizzare la pressione a 190, tanto da spedirmi in ospedale. In un’ora e mezzo, sabato 26 ottobre, ho visto arrivare cinquanta persone, tutte insieme. Tutti nuovi iscritti. Io, che in due mesi ero riuscita a portare a casa non più di 137 tesseramenti, non ci ho capito più nulla”. Sospesa tutta l’attività del Pd gallipolino per quattro giorni. “Emerge il ricorso ad una pratica di vero e proprio reclutamento di iscritti”, ha denunciato, in una lettera inviata a Roma, Alberto Maritati, a capo dei garanti leccesi. Il congresso si è tenuto lunedì: 263 tesserati, a fronte dei 135 dello scorso anno, e una sezione che non c’è.
SONO gli ossi di seppia che restano in un Salento in cui il congresso provinciale del Pd sta seminando più rancori che consensi. Ci sono le anomalie dei dati, alcune macroscopiche. Voli pindarici da 331 a 838 iscrizioni a Lecce, da 27 a 143 a Corsano, da 96 a 375 a Galatina, da 113 a 711 a Nardò. A macinare consensi è Salvatore Piconese, sostenuto dalla cordata Ernesto Abaterusso, Federico Massa (storici dalemiani di ferro), Loredana Capone, assessore regionale allo Sviluppo Economico. Ad arrancare è soprattutto Alfonso Rampino, supportato dai deputati Salvatore Capone e Teresa Bellanova, il primo a puntare l’indice contro le presunte alchimie congressuali. In mezzo, altri due candidati, tra cui un renziano. Gli altri tre indossano tutti la casacca cuperliana. Succede anche questo in un partito che a Lecce significa soprattutto Massimo D’Alema e che ha legato le sue fortune e le sue sfortune a quelle di Sandro Frisullo, l’ex vice di Vendola finito in manette per escort ed appalti. Il congresso s’è trasformato in una resa dei conti al vetriolo. Tranne alcuni casi isolati, le cifre raccontano di un Pd svuotato. Che però ha mandato anche un “osservatore” da Roma, Roberto Morassut. “Non sono mai arrivate 15mila tessere da distribuire, come s’è detto - chiosa Loredana Legrottaglie, a capo della commissione regionale di garanzia - Roma ne ha inviate 12.500, sulla base del dato del 2009, perché, dopo non è mai stata redatta un’anagrafe degli iscritti. Adesso, io vedo una provincia commissariata, con circoli chiusi e invelenita da uno scontro che ha amplificato un fenomeno inesistente. Lo dice la matematica: chiudiamo questo congresso non con i numeri paventati, ma con soli 6.850 tesserati. 2000 in più rispetto al 2012, ma la metà in confronto a 4 anni fa”.

La Stampa 7.11.13
Dopo le polemiche sul boom di iscritti provenienti dall’Albania
In Piemonte annullati i dieci congressi di Asti


La commissione regionale del Piemonte per il congresso del Pd ha deciso di annullare i dieci congressi di Asti, compreso quello nel circolo del capoluogo. Una scelta lacerante, maturata dopo una votazione che ha visto renziani ed ex bersaniani spaccarsi, cinque contro cinque, con il voto decisivo della presidente favorevole al reset. Si dovrà probabilmente rivotare, e Asti non sarà rappresentata da nessun delegato al congresso nazionale, almeno per il momento. La decisione è stata presa in seguito al ricorso della commissione provinciale, che aveva chiesto di sospendere quattro dei dieci congressi locali. I giorni scorsi erano stati segnati da forti polemiche, sedate nemmeno dalla straripante vittoria del candidato renziano, Giorgio Ferrero. Il motivo? L’inquinamento del voto denunciato dai sostenitori degli altri candidati, secondo cui il numero di iscritti al partito si era gonfiato all’inverosimile. Solo ad Asti i nuovi iscritti erano più di 200, per lo più albanesi. Le accuse si erano concentrate, oltre che su Ferrero, su tutta l’ala renziana. I ricorsi hanno però riguardato molti altri comuni, con alcuni casi eclatanti.

l’Unità 7.11.13usa il permesso auto del marito sindaco
 Moglie di Renzi in auto sulla preferenziale: «Chiedo scusa»

«Ero in ritardo per andare a scuola, ho preso una corsia preferenziale, ho sbagliato. Non risuccederà». Lo afferma la moglie di Matteo Renzi, Agnese Landini, in merito alle foto pubblicate dal sito del settimanale Panorama. «Mi scuso se ho offeso la sensibilità di qualcuno e mi spiace richiamare su di me e sul mio lavoro un’attenzione che non voglio. Stavo guidando la macchina privata di mio marito. D’ora in poi starò attentissima a togliere il tagliando del permesso del Comune di Firenze».

il Fatto 7.11.13
La moglie di Renzi usa il permesso auto del marito sindaco


PAPARAZZATA in auto, con il permesso del sindaco, suo marito, e nella corsia preferenziale. Le foto che imbarazzano la signora Agnese Landini in Renzi sono pubblicate su Panorama e risalgono al 31 ottobre. Il servizio è stato anticipato dal sito del settimanale: “Si vede la monovolume dei Renzi in vari punti del percorso tra l’abitazione di Pontassieve e Poggio Imperiale, dove insegna Agnese Landini. Percorre tutte le volte che può le corsie preferenziali grazie a un permesso in bella vista sul cruscotto che qualifica l’auto come impegnata in ‘servizio istituzionale”. Dopo l’annuncio sul sito, è arrivata la replica, con tanto di scuse, di Agnese Landini: “Ero in ritardo per andare a scuola, ho preso una corsia preferenziale, ho sbagliato. Non risuccederà. Mi scuso se ho offeso la sensibilità di qualcuno”. Ansa

il Fatto 7.11.13
Italianieuropei ospita Matteo


C’È UN MODO di fare le classifiche dei sindaci che si basa su quale sia il sindaco più amato. Sembra quasi la pubblicità di una cucina. In realtà la vera classifica dovrebbe essere fatta non sulla base di quanto un sindaco sia amato ma di quanto ami il proprio territorio. Puoi guidare un paese solo se lo ami”. È la ricetta del buon governo che Matteo Renzi offre in un editoriale su Italianieuropei, la rivista della fondazione presieduta da Massimo D’Alema. Un segnale interessante e contro corrente in un momento in cui i due sono impegnati in una battaglia congressuale che li vede acerrimi nemici. L’editoriale parla solo di Firenze: “Ha avuto anche grandi sindaci. Non si direbbe, pensando all’attualità, potrebbero ironizzare i più maliziosi lettori di Italianieuropei”. Che ammette: “Viviamo un tempo in cui il futuro sembra una minaccia. Il futuro evoca il pericolo. Nella mia città, invece, il futuro corre un rischio diverso: quello di sembrare inutile. Che ce ne facciamo del futuro, noi che abbiamo avuto tutto dal passato?”. Ma, “convincere i propri concittadini che il futuro non è inutile, questa è la prima sfida per chi occupa - pro tempore - la sala di Clemente VII in Palazzo Vecchio”.

l’Unità 7.11.13
Stefano Passigli
«Berlinguer si affidi a ex parlamentari o ex sindaci fuori dai giochi. Il caso nasce anche dalle primarie aperte: in tutto il mondo c’è il registro degli elettori»
«Commissari ad acta per verificare le irregolarità»
intervista di Osvaldo Sabato


Individuare dei commissari ad acta per indagare e verificare con una certa velocità la regolarità dei tesseramenti nel Pd. È il suggerimento di Stefano Passigli a Luigi Berlinguer, presidente della commissione di garanzia del Partito democratico, fatto con un sms qualche giorno fa. «Caro Luigi di fronte a queste situazioni, considera la possibilità di...» scrive Passigli nel suo messaggino telefonico. Poi la sua proposta. «Si potrebbero scegliere persone super partes, affidabili, che conoscono meglio le realtà locali» spiega il politologo ed ex senatore Ds «è molto meglio che avere un’istruttoria fatta da una commissione nazionale».
Nell’idea di Passigli ex parlamentari, sindaci ed esponenti del Pd fuori dai giochi congressuali potrebbero chiarire quei sospetti di irregolarità. «Con una piccola indagine si potrebbe verificare tutto» dice Passigli «per esempio, in tanti casi l’aumento degli iscritti può essere dipeso da tanta gente che ha semplicemente deciso di prendere la tessera del Pd».
Cosa dovrebbero fare i commissari ad acta nominati dalla commissione di garanzia?
«Potrebbero intervenire ovunque ci sia stata una segnalazione di uno dei candidati o dei loro comitati locali, se ritengono che ci siano state delle violazioni sul tesseramento e in ventiquattro ore possono fare una relazione».
In che modo?
«Andando a vedere quanti non erano iscritti, potrebbero fare un controllo a campione, anche telefonico, vedere come si sono presentati. Perché un conto è se si presenta uno per volta, un conto è se arriva un pulmino pieno di persone, magari accompagnate da qualcuno».
Ma perché nel Pd è scoppiato il bubbone del tesseramento gonfiato. Lei come se lo spiega?
«Succede quando si fanno primarie sostanzialmente aperte, anche se si pone il vincolo dell’iscrizione contestuale all’espressione del voto, e contemporaneamente si fa una competizione nazionale e per tutte le strutture del partito a livello locale è evidente che chiunque
abbia interesse può avere la tentazione di cambiare le carte in tavola. In qualsiasi tipo di elezioni, la regola della democrazia dice che il corpo elettorale è predefinito ed è noto. In tutti i sistemi chi ha diritto al voto è iscritto in un registro».
Il pensiero va alle primarie americane.
«In quelle primarie c’è il registro degli elettori democratici e quello degli elettori repubblicani. Non c’è possibilità di inquinamento».
È così anche nei partiti europei?
«Certamente. Nel caso inglese, nel partito Laburista, ci sono addirittura tre corpi elettorali diversi, ognuno dei quali conta un terzo. Il primo è determinato dai gruppi parlamentari nazionali ed europei, il secondo è determinato da tutte le cariche locali del partito, l’ultimo è formato dagli iscritti alle associazioni riconosciute vicine, nel caso dei laburisti, i sindacati».
Quindi la decisione del Pd di fare primarie aperte la ritiene un errore?
«Noi dovevamo lasciar fare una campagna di tesseramento in vista delle primarie, ma non lasciare un tempo ampio. Bisognava mettere un termine.
Per esempio, per chi voleva venire a votare alle primarie si sarebbe dovuto indicare una data precisa entro cui farsi la tessera, in questo modo non si sarebbe verificato il raddoppio degli iscritti in poche ore, che inserisce sempre un elemento di sospetto. In Spagna bisognava essere iscritto da sei mesi per poter votare il Partito socialista, poi ridotti a tre, però c’è sempre una certezza del corpo elettorale. Quando si dice venga chiunque, viene chiunque». Intanto la segretaria nazionale del Pd propone lo stop del tesseramento da lunedì. A patto che siano d’accordo Renzi, Cuperlo, Civati e Pittella.
«Ma la mia proposta è sempre valida là dove le elezioni sono già avvenute». Lei teme che anche le primarie dell’8 dicembre rischiano di essere inquinate. «Se si registra questo fenomeno a livello di elezioni, che hanno un peso politico infinitamente inferiore, il vero problema è come lo impediamo a livello nazionale. La proposta è dire che c’è tempo sufficiente per dire che chi vuole votare l’8 dicembre si iscriva e firmi l’impegno di adesione al partito con “ics” giorni di anticipo».

Corriere 7.11.13
Prima orgoglio, ora imbarazzo La «decadenza» delle tessere
Dal Pci alla Dc erano simbolo (forte) di appartenenza
di Pierluigi Battista


Un tempo si andava orgogliosi per la “campagna di tesseramento” di un partito. Oggi la tessera di un partito rischia di diventare, se non il corpo del reato, il simbolo della degenerazione. Tessere gonfiate. Tessere comprate e vendute. Tessere scambiate. Il Pd viene sommerso di tessere false, farlocche, artefatte, contraffatte. Il Pdl non ha di questi problemi. Lì le tessere sono solo un pro forma: non le stampano neanche perché nel frattempo, nelle segrete stanze della corte, si decide di cambiare denominazione al partito. Tessere al macero. Una storia al macero.
La tessera aveva qualcosa di solenne, nella storia dei partiti della sinistra. Anche nella Dc, dove la tessera permetteva di entrare in uno dei partiti di cui si componeva il partito, detti anche “correnti”. La tessera era una, sempre con lo Scudo Crociato stilizzato. Ma le obbedienze erano diverse. Si era andreottiani più che democristiani, dorotei più che democristiani, morotei più che democristiani e così via. Eppure l’esito dei congressi nazionali non era mai scontato. Si lavorava nella penombra dei corridoi, per ottenere un risultato, e ogni corrente aveva il proprio emissario per sbrigare le faccende da trattare in luoghi appartati. Era una prassi abituale, nessuno si vergognava. È nel Pd che invece si è messo un meccanismo mostruoso di regole farraginose per evitare di essere troppo “partito” tradizionale. Hanno concepito un impianto cervellotico per adeguarsi ai princìpi della trasparenza e dell’apertura e hanno creato un ibrido in cui la compravendita delle tessere si accompagna al leaderismo sfrenato e “anti-partito” delle primarie. Con l’ossessione delle tessere, il grande corpaccione della Dc alla fine si dissolse. E prima che il partito tirasse le cuoia, ha ricordato Stefano Di Michele sul “Foglio”, il suo ultimo segretario, Mino Martinazzoli, si domandava che natura avesse una Democrazia cristiana «che passa le sue giornate a contare le tessere e le sue serate a commentare le encicliche». Magari: ora le tessere si contano a pacchetti. Ma le encicliche, chi le legge più, di giorno o di sera?
Le tessere dei partiti erano dei gioiellini della grafica. Nella sinistra tra socialisti, comunisti, psiuppini, marxisti-leninisti, gruppi della “nuova sinistra” e così via, era tutto un rincorrersi di figure della tradizione in cui ogni falce e martello aveva una forma particolare, e così il sol dell’avvenire, o il libro aperto sul futuro radioso della giustizia sociale. Per i militanti socialisti fu un trauma sostituire le vecchie tessere munitissime di falce e martello (retaggio del bolscevismo, amava ricordare Bettino Craxi) con quelle in cui campeggiava un più gentile garofano. Per quelli del Movimento sociale ogni volta era una sorpresa scoprire le dimensioni minacciose della Fiamma tricolore. Per le tessere del Pci ogni volta era una fatica grafica gravosissima quella di bilanciare il rosso del vessillo con il tricolore del partito “nazionale”, come Togliatti aveva voluto nel simbolo. Qualche volta la sagoma di Antonio Gramsci conferiva più umanità e meno retorica sovietica (bandiere che garriscono, muscolosi lavoratori che celebrano l’avanzata del socialismo, eccetera) a una tessera che era il santino laico che ogni buon militante doveva portarsi in tasca per dimostrare l’appartenenza alla grande e accogliente chiesa comunista di stampo nazional-popolare. A differenza della Dc, il Pci non conosceva guerra tra correnti e non ammetteva dissenso organizzato, secondo i ferrei princìpi del “centralismo democratico”. Dunque la tessera non era il voucher che consentiva di pesare nei congressi, non si pesava, ma consentiva l’ingresso nella collettività dei credenti. Era una forma di battesimo che mondava il neofita dai peccati contratti nella marcia società borghese e segnalava il marchio di una militanza in cui il personale si confondeva con il collettivo. O almeno, così avrebbe dovuto essere.
Perché con il tempo, diventati i partiti italiani macchine costose e tentacolari che occupavano ogni interstizio della vita civile e sociale, la tessera non era più solo il biglietto d’ingresso in un club privato, per quanto affollato. Era anche qualcosa che distingueva chi ce l’aveva da chi non ce l’aveva, da chi poteva dirsi affiliato a qualcosa di imponente e di importante e chi invece, inveterato cane sciolto, aveva optato per una non remunerativa solitudine. Nel ventennio della dittatura fascista, avere “la tessera” era tutto. Spalancava porte e opportunità e favori e cordate. Nella democrazia pluralistica, come aveva già notato Giuliano Amato suscitando oceani di polemiche, il primato del partito unico si è trasformato in quello dei partiti al plurale, lasciando però inalterato il meccanismo della “tessera” come chiave d’accesso altrimenti negato ai chi non ne può esibire alcuna. La tessera era il contrassegno della comunità dei credenti, ma anche la linea di demarcazione che divideva la comunità da chi ne restava fuori. Il partito “pesante”, appunto: con sezioni, apparati, federazioni. E potere. Oggi, dopo decenni di teorizzazione del partito leggero, la tessera o sparisce risucchiata nel culto del Capo (come nel Pdl, o nel movimento di Grillo) oppure viene svilita a chiavistello per forzare, persino con brogli e manipolazioni impudiche, la composizione di un partito molto scombinato, come il Partito democratico. Il leaderismo del partito leggero più il commercio delle tessere del partito pesante: l’Italia è sempre all’avanguardia.

Repubblica 7.11.13
I doveri della sinistra
di Nadia Urbinati


Come si può pensare di fare a meno della Sinistra in una società nella quale il tasso di disoccupazione ha superato il 12 per cento, la soglia di povertà è sempre più alta, e il senso di impotenza dei giovani e meno giovani ha effetti deprimenti sull’intera società? La domanda dovrebbe sembrare retorica e invece non lo è perché la Sinistra incontra difficoltà straordinarie a convincere i cittadini che di essa c’è bisogno. Non solo in Italia. L’ostacolo è prima di tutto ideologico; non dipende dal fatto che la Sinistra non può dimostrare di avere una storia di successo: la costruzione dello stato sociale è avvenuta anche grazie alla Sinistra ed è stata una storia di successo. Dopo di che, però, le idee che erano della Sinistra – la liberazione dal bisogno, la dignità e la libertà individuale, e perfino l’eguaglianza delle opportunità – sono state per anni rappresentate dalla Destra; e fino allo scoppio di questa crisi, sembravano meglio realizzate dal liberismo la cui potente ideologia – “meno stato più mercato” – ha convinto per anni le maggioranze politiche, un poco dovunque, che questa fosse la strada migliore per realizzare la promessa di libertà. Quella della Sinistra è stata una sconfitta ideologica dunque, che dura da molti anni. Aggravata dalla crisi di legittimità dei partiti politici che sta cambiando la faccia della democrazia rappresentativa e che alimenta l’insoddisfazione per la politica praticata la quale a sua volta dà ossigeno ai populismi e al mito della politica anti-partititica. Un mito che appartiene sia ai demagoghi sia agli esperti di economia che sognano di liberare la politica dall’ideologia e di portare la competenza tecnica al potere.
Se non che le sorti possono cambiare – questo ha detto il nuovo sindaco di New York, Bill de Blasio. Possono cambiare se sappiamo spiegare di chi sono le responsabilità di questa crisi devastante: sono della Destra non della Sinistra, del giacobinismo liberistico che ha conquistato il palazzo d’Inverno prima a Londra e a Washington per poi mettere al bando in pochi anni la social-democrazia del vecchio Continente e dimostrare che al benessere diffuso si arrivava meglio e prima scatenando il capitale invece di responsabilizzarlo e regolarlo. Si tratta ora di deviare da questo percorso: la sfida non è facile, ma non utopistica come la vittoria del progressista de Blasio dimostra. Certo, ci vuole coraggio. Ci vuole la determinazione a recuperare il linguaggio e gli ideali che danno senso a questa sfida, la giustificano e, soprattutto, richiedono un soggetto politico che operi nel solco della tradizione social-democratica.
Gli ideali sono gli stessi che erano alla base della costruzione delle democrazie europee nel secondo dopoguerra, e che la reazione neo-liberista ha sminuito; tre in particolare: 1) l’eguaglianza, non solo delle opportunità legali ma anche delle condizioni sociali che consentono ai cittadini di intraprendere le loro scelte di vita con responsabilità; 2) il senso di sé delle persone, la fiducia nelle proprie forze progettuali che nascedalla libertà dal bisogno; e 3) la dignità delle persone per ciò che sono, comunque esse siano.
Tre ideali sono contenuti nella nostra Costituzione e hanno spesso avuto come protagonisti attivi i cittadini che stanno ai margini, le minoranze morali e culturali appunto; coloro che hanno sperimentato e mostrato il valore del movimento e della partecipazione politica, spesso spontanea e non rappresentata dai partiti parlamentari: i movimenti femminili contro la violenza, per il lavoro e la non discriminazione nella carriera; quei cittadini che comprendono l’importanza di difendere beni comuni fondamentali, come la scuola e l’ambiente; gli omosessuali o chi ha differenze di stili di vita e di fede rispetto alla maggioranza – tutti questi protagonisti interpellano la collettività e la politica istituzionale nel nome di ciò che la democrazia promette: eguaglianza di considerazione e delle condizioni di partenza per poter esprimere se stessi; libertà dal bisogno che umilia la responsabilità individuale e rende passivi; libertà dall’offesa e dall’umiliazione che deriva dall’essere penalizzati per non appartenere alla parte giusta o alla maggioranza. Restituire alla Sinistra il significato progressista di emancipazione dalla servitù del bisogno – e per questo riportare al centro l’attenzione alle condizioni sociali della cittadinanza.
Il preambolo della nostra Costituzione rende perfettamente il significato di questi valori quando afferma che l’Italia è “una Repubblica fondata sul lavoro”. Ci dice infatti che la libertà politica (la repubblica) è possibile perché i cittadini sono socialmente autonomi, non soggetti al dispotismo degli amministratori delegati, ma nemmeno al paternalismo della carità pubblica. La cittadinanza lancia un progetto ambizioso contro la povertà perché la tratta come un male non da lenire ma da sradicare. Alla povertà, la democrazia sociale del dopoguerra ha dato un nome preciso: assenza di lavoro, disoccupazione. Perché questo sistema politico si regge sulla possibilità di ciascuno di pensare a se stesso e alla cura dei figli; di farlo con dignità e per mezzo di un’attività che non umilia: il lavoro in cambio di un salario dignitoso e di diritti ad esso associati, da quello alla scuola, alla salute e alla sicurezza sociale. Mettere il lavoro alla base del sistema politico comporta rivederne il significato, il valore, il senso: significa emanciparlo dallo stigma della sofferenza facendone una condizione di possibilità ed emancipazione. Un’impresa titanica che la democrazia moderna è riuscita a compiere solo molto parzialmente e quando si è legata alla tradizione socialista non quando se ne è distanziata. Perché lavoro dignitoso e fiducia nelle proprie capacità stanno insieme e possono decadere insieme, come vediamo oggi. La cultura politica di una Sinistra democratica dovrebbe riportare al centro la battaglia contro un’ideologia che ci ha inculcato l’abitudine a leggere gli squilibri di potere come malasorte o sfortuna, la diseguaglianza nelle condizioni sociali come meritata sconfitta.

Repubblica 7.11.13
Berlinguer ti volevo bene
Francesco Piccolo e la parabola triste di una sinistra perduta
Un viaggio esistenziale lungo vent’anni negli errori della politica
di Concita De Gregorio


Esce “Il desiderio di essere come tutti” dello scrittore e sceneggiatore

Il libro di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come TUTTI, è un’autobiografia personale e politica degli ultimi quarant’anni. Quelli della nostra generazione: né giovani né vecchi, la generazione di mezzo. Racconta le illusioni, le debolezze, i dubbi, le felicità di tanti di noi arrivati dalla provincia, da famiglie di gente semplice, pieni di passioni da mettere in campo, gli occhi sgranati a guardare come funziona il mondo. Racconta le cose che abbiamo visto, dice di quel perpetuo senso di estraneità che ci portiamo appresso — ero comunista per mio padre, troppo borghese e superficiale per quelli che avrei voluto fossero i miei amici, troppo impegnato per i miei amici, scrive Piccolo — quell’essere sempre ospite ovunque, sempre dentro a metà. Eravamo ragazzini quando hanno rapito Moro, ragazzi il giorno dei funerali di Berlinguer.
Sentivamo senza saperlo che saremmo diventati adulti nell’epoca dell’Ormai: quando ormai essere comunisti non era più possibile, diceva Occhetto, ormai il progresso e la modernità non appartenevano più alla sinistra ma a nuove spregiudicate bande di attempati festaioli, ormai si doveva assistere al levarsi di scudi, alle opposte trincee in cui si veniva a forza spinti dall’avanzata del pensiero binario, sei maschilista o femminista, forcaiolo o garantista, indiano o cowboy e pazienza per la scomparsa di quel che è complesso e impossibile da dire in 32 secondi in tv, pazienza per lo sparire dei forse, parliamone. Infine era Ormai il tempo, per la sinistra, della minorità triste: il benessere nemico dell’etica (fai il comunista e vai a sciare, sei comunista e ti piacciono le collane), la messa al bando della felicità, roba di destra. Ormai non ci si poteva più sentire a casa in nessun posto, se non a casa nostra.
Dunque mentre racconta i vent’anni decisivi della nostra vita, dalla metà dei Settanta alla metà dei Novanta, e parla di sua madre di sua zia e del terremoto e del colera, Piccolo riscrive la storia politica di questo paese e la parabola triste di una sinistra perduta. La storia grande vista da un luogo periferico, dove sembrava che la storia non dovesse passare mai e invece eccola, prende nota nel diario dei giorni: la lettura del libro di Camilla Cederna confidata sul letto allo zio Nino, la notizia del rapimento di Moro nello sguardo fiero della compagna di banco, il funerale di Berlinguer dalla porta chiusa della camera da letto del padre.
Momenti fissati da allora per sempre alla propria biografia, dunque al senso che per ciascuno di noi ha la storia. A quello che volevamo essere, a come siamo diventati. A come sono diventati gli altri tutto attorno a noi, quando e perché. I giornali, le sezioni, i circoli letterari e cinefili, per esempio, persino le piazze della sinistra che ammettono al loro interno solo propri simili, se possibile devoti e di qualcosa grati, non leali ma fedeli, voci e volti in grado di confermare, rispecchiare e ribadire l’opinione in quel momento dominante: la linea. Una sinistra così spaventata e spalle al mondo pullula di nemici, Piccolo è stato a lungo uno di loro e fa davvero sorridere il coro di lodi che oggi si leva all’autore da quegli stessi dirigenti di partito che fino a qualche anno fa, quando lo leggevano sull’Unità, protestavano indignati chiedendo la sua testa. D’altra parte così vanno le cose: bastava buttare un occhio giorni fa al parterre dell’ultima Leopolda di Renzi. Si cambia idea, no?, si sta dove conviene.
La caccia al nemico interno è stata del resto in questi anni il principale alleato della vocazione alla sconfitta, divenuta in qualche caso un auspicio. La sinistra «preferiva perdere», scrive Piccolo. A volte per astruso calcolo, altre per inerzia elitista: «Non bisognava trovare una soluzione ma tenere alta l’indignazione ». Lo dice usando il noi: noi, la sinistra. «Mai nessuno che metta in dubbio le idee, che si chieda se c’è qualcosa che non funziona, si domandi perché gli altri riescano a penetrare i desideri di una quantità di gente superiore alla nostra. Mai che andiamo a curiosare chi sono, cosa fanno, se nascondono una virtù che non abbiamo. Siamo assolutamente sicuri di aver ragione e che gli altri hanno torto, ma si ravvederanno».
È un libro, questo, che finge di tessere un elogio della superficialità — la vocazione al benessere che ti salva la vita, quel sentimento per cui tutto quello che succede nel mondo non sta succedendo proprio a te, puoi smettere la maschera del lutto, che sarà mai — mentre perora una causa impopolare e decisiva: quella della corresponsabilità. «Ho smesso di firmare qualsiasi appello così ho trovato il metodo concreto di ricordare a me stesso che io c’entro, che non sono innocente, che non posso tirarmi fuori. Che tutto quello che accade in Italia è anche un po’ colpa mia». E dunque non basta il sentimento etico e antipolitico da moralizzatori per sentirsi in salvo, non serve la presunzione di purezza e infine la violenza judoka di chi in perpetuo dice solo di no sottraendosi alle responsabilità della condivisione, guardatevi attorno e capirete di chi parla. Se è successo quel che è successo e siamo dove siamo è perché lo abbiamo lasciato succedere, perché non abbiamo offerto alternative credibili, perché abbiamo smesso i panni di Berlinguer quando diceva l’alternativa democratica è la condivisione dei rischi, è un compromesso ma è l’unica strada perché il progresso sia di tutti, di TUTTI, come diceva il titolo dell’Unità il giorno dei funerali di Berlinguer: dell’Italia intera non di una parte sola.
Mirabili le pagine sul sequestro Moro, sui guasti di fare pubblico ciò che è privato (a partire dalla lettera di Moro a Cossiga fino alle cronache e alle docufiction su Berlusconi) rendendo così inessenziale ciò che invece è decisivo. E poi, a cascata, il rinchiudersi a tutela della presunta purezza (Bertinotti che fa cadere Prodi), del potere come bene supremo (il governo di D’Alema con Cossiga, e il danno permanente che ne discende), il cinismo, la superiorità morale, il disprezzo degli altri, l’estraneità che ti fa sentire in salvo e invece ti «rende impermeabile alla conoscenza e senza conoscere le ragioni degli altri non si può combatterle». Ti rende migliore, pensi, e corresponsabile, invece. Al centro della scena sempre il circolo dei “giusti”, continuamente indotti ad estendere a chiunque il loro modo di pensare e probabilmente di agire. Qualunque cosa tu faccia è evidente che lo fai perché ti conviene: perché qualcuno ti paga, perché fai un favore a un amico, perché te ne verrà un tornaconto.
Poi ci sono zio Nino e zia Rosa, in questo libro. Vittorio Gassman nella Terrazza e quel racconto di Carver, Elena che ti ha lasciato il giorno di San Valentino perché le avevi regalato un peluche e Craxi del decreto di San Valentino, di nuovo, anche quella una fine, i fischi del palasport di Verona, la tracotanza di Craxi e Milan Kundera che, l’avesse saputo, parlava di Grillo. Ci sono un padre un po’ fascista e un soppalco un po’ abusivo, un po’ di Berlusconi dentro ciascuno: non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me. Ma poi siccome gli uomini delle caverne uscivano a rischiare la vita non solo per procacciarsi la carne da mangiare ma anche i coralli per fare le collane ecco, qual è il momento esatto in cui uscire a cercare coralli è diventato una colpa? Perché se la sinistra non sa fare entrambe le cose, procurarsi cibo per sopravvivere e coralli per essere felice, «diventa elitaria e dispregiativa». L’Italia diventa un paese da cui andarsene per salvarsi e Francesco Piccolo un corpo estraneo da eliminare. «Ma io invece resto qui. Perché non mi voglio salvare », scrive in epilogo. In mezzo c’è tutto il resto. Tutti, anzi TUT-TI quanti noi. Tutti quanti voi, persino quelli che col sopracciglio alzato pensano di no.
Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (Einaudi, pagg. 272 18 euro)

Repubblica 7.11.13
Un insulto a tutta l’Italia
di Adriano Prosperi


L’UOMO che per un ventennio ha dominato politica e affari, che è stato presidente del Consiglio e che oggi è il referente di un partito di governo, ha dichiarato che i suoi figli «si sentono come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germaniadurante il regime di Hitler».
È una frase che lascia a bocca aperta. Come si fa a spiegare a lui e soprattutto a chi lo ascolta la differenza che c’è tra le conseguenze di una condanna per evasione fiscale e lo sterminio di milioni e milioni di esseri umani? Non è possibile. Si è disarmati. Il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha detto giustamente che più che agli ebrei Berlusconi dovrebbe delle scuse a se stesso. E Renzo Gattegna, presidente dell’unione delle comunità ebraiche italiane, ha provato a spiegare la differenza che passa tra l’Italia democratica di oggi e la Germania nazista. Spiegare pacatamente perché quelle parole sono insensate è un buon esercizio: ma bisogna mettere in guardia chi prova a correggere e spiegare. Perché così facendo, assumendo che si possa discutere e dialogare con chi dice parole del genere, si rischia di renderlo pubblicamente credibile. Forse solo un disprezzo silenzioso può esprimere lo sconcerto e l’indignazione che proviamo, il senso di vergogna che ci sentiamo gravare addosso come italiani, anzi prima ancora come esseri umani.
Ma la cosa è accaduta. Quelle parole sono state dette e immediatamente rilanciate dai media. Siamo davanti a un fatto pubblico, non a una battuta di ubriachi al bar. Non mancheranno esegeti pronti a giustificarle come espressione di una sofferenza umana da meditare pensosamente, da usare come ricatto politico per chiedere una grazia presidenziale o un ennesimo sfregio alla giustizia. Bisogna dunque chiedersi perché sia stato possibile che accadesse; bisogna chiedersi anche e soprattutto come si deve reagire a un fatto come questo. Lo dobbiamo a noi stessi, a chi osserva le cose italiane e ci giudica per quello che vede. Lo dobbiamo anche e soprattutto a coloro che questo tempo chiameranno antico. Ci saranno in futuro storici che interrogheranno questo tempo nostro: avranno certamente strumenti più raffinati dei nostri. Saranno in grado di spiegare la malattia sociale italiana che ha preso il nome di quell’uomo individuandone le cause, così come noi siamo capaci di spiegare certe degenerazioni e follie del Medioevo perché sappiamo ad esempio quali allucinazioni potesse dare la segale cornuta del pane che mangiavano. Questo nostro modernissimo Medioevo che si nutre soprattutto di chiacchiere e immagini televisive, ci pone invece davanti a episodi come questo, dove l’indecenza privata si mescola con una forte componente di responsabilità collettive. Di indecente c’è la mancanza di pudore di un padre che tira in ballo i figli e se ne fa scudo: non solo, attribuisce loro pensieri e sentimenti che se fossero veramente da loro condivisi farebbero emergere un vuoto di cultura e di sensibilità tale da rendere urgente un ciclo di recupero scolastico e di alfabetizzazione elementare. C’è da chiedersi se quei figli accetteranno in silenzio l’attribuzione di quei pensieri: perché anche all’interno dei rapporti più intimi c’è un momento in cui ognuno deve tutelarsi e prendersi le sue responsabilità. Non abbiamo dimenticato che, prima ancora dell’avvio del processo Ruby, ci fu una lettera pubblica con cui la signora Veronica Lario rese noto lo scandalo di quelle che definì le vergini offerte al drago: lei lo fece in nome del rispetto dovuto a se stessa.
Quella frase ha espresso e addebitato a presunti pensieri dei figli una forma di grave, inaudito negazionismo. Da un lato le file sterminate di milioni e milioni di uomini, donne, bambini che entravano nelle camere a gas e finivano poi nei forni crematori, dall’altro come un piatto della stessa bilancia i figli di Berlusconi e il loro stato d’animo in seguito alla condanna del padre. Dovrebbe por mente a questo chi si è interrogato anche di recente su come si possa rendere giustizia alla memoria delle vittime e impedire quell’estrema, definitiva ingiustizia che è la negazione o la minimizzazione della Shoah. Si metta a prova su questo caso l’adeguatezza della misura penale di cui si parla nel paese e si dovrà discutere in Parlamento. Quale punizione spetterebbe a chi, per la sua posizione sociale, per i media che governa e i giornalisti che paga, per il numero di cittadini italiani che ancora pendono dalle sue labbra, ha messo in circolazione nel linguaggio pubblico non una semplice minimizzazione ma una vera e propria ridicolizzazione della più grande tragedia del nostro tempo? In casi come questi una amministrazione della giustizia meno torpida e priva di fantasia di quella che da noi è capace solo di misure carcerarie dovrebbe imporre forme di alfabetizzazione civile: per esempio corsi accelerati di storia contemporanea, servizio di assistenza ai visitatori della risiera di San Sabba, l’obbligo di imparare a memoria un congruo numero di pagine di «Se questo è un uomo».
Ma c’è un punto in cui il nodo delle responsabilità si aggroviglia, diventa un fatto di moralità pubblica e di responsabilità politica. Abbiamo sentito disquisire in questi giorni sul limite che divide privato e pubblico, sulle ragioni che dovrebbero impedire la permanenza al governo di un ministro non molto attento all’esistenza di quel limite. Ma si tratta di un fuscello rispetto alla trave che sta nell’occhio del Partito Democratico: una trave che si chiama alleanza di governo con Berlusconi e i suoidevoti.

La Stampa 7.11.13
Giovani e operai, il segreto del boom dei Cinque Stelle
Lo studio definitivo sulle elezioni 2013 nell’inchiesta pubblicata dal Mulino
Fabio Martini

Il più forte terremoto elettorale nella storia della Repubblica, quello delle Politiche 2013, è stato determinato da sommovimenti di opinione e sociali più profondi di quelli intuiti a caldo, come rivela il Rapporto sul comportamento e le motivazioni degli elettori elaborato dall’Istituto Itanes e pubblicato da «Il Mulino», da oggi in libreria. Tanto per cominciare, mai come stavolta si è determinato un voto così diverso tra generazioni. Tra i giovani il successo del Cinque Stelle si rivela torrenziale, molto più ampio di ogni ragionevole immaginazione: il 44,6% dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni ha votato per Grillo, mentre il Pd - che ripete di voler difendere la ragioni dei giovani - non è stato assolutamente creduto, raccogliendo in questa fascia d’età un modesto 16,6%. E tra i disoccupati in cerca di prima occupazione, il partito allora guidato da Pier Luigi Bersani, subisce una beffa: è superato persino dal Pdl. Ma se, per pura ipotesi, avessero votato soltanto i «sessantottini»? Allora sì, avrebbe vinto il Pd: nella generazione del Sessantotto, il partito democratico risulta il primo, col 29,3%, quasi cinque punti in più della media ottenuta alle elezioni. Tra i numerosi spunti offerti dallo studio Itanes, uno riguarda anche il futuro: in una ricerca concentrata sugli elettori del Pdl, si scopre chi non ha più votato per quel partito, lo ha fatto in larga parte per insofferenza nei confronti di Berlusconi. Con ciò dimostrando quanto sia stretta - ma non impraticabile - la strada per gli (eventuali) «scissionisti» alfaniani: chi ha rivotato Pdl, continua a stimare Berlusconi e all’88% è pronto a rifarlo, mentre chi lo ha lasciato, è perché ha dato un giudizio negativo sul Cavaliere e sul suo governo.
Dopo le tante analisi a caldo sulle motivazione elettorali degli italiani, la Itanes (Italian National Elections Studies) col contributo di diverse Università e dell’Istituto Cattaneo pubblica - come sempre dopo tutte le Politiche - un Rapporto intitolato questa volta «Voto amaro» e fondato su quasi diecimila interviste. Partendo dal primo dato eclatante di queste elezioni, la mobilità senza precedenti degli elettori, lo studio dimostra che dentro questo enorme frullatore, l’unica cosa che non si è mossa sono stati i voti dal centrodestra verso il centrosinistra e viceversa. Il tutto si riassume in un dato: il 50% degli elettori ha cambiato partito, ma soltanto il 3% ha passato le linee tra le due aree principali.
Una stagnazione che suona come un terribile atto di accusa per chi doveva vincerle le elezioni, il Pd, anche perché - a dispetto della mitizzata rimonta di Berlusconi il Pdl ha subito «un crollo eccezionale», 15 punti percentuali, più di sei milioni di voti, un collasso che «non ha pari nella storia repubblicana». Il Pd, a sua volta, ha perso tre milioni di voti: resta di gran lunga il primo partito tra i pensionati, tra gli impiegati esecutivi (con una percentuale addirittura del 41,4%) e anche nella generazione che è diventata maggiorenne intorno al 1968, ma perde un primato storico, quello tra gli insegnanti (20,5%) e soprattutto - il dato è clamoroso - tra gli operai: il 29,2% di loro ha votato per il Cinque Stelle, il 28,6% per il Pdl e appena al 21,5% per il Pd. Interessante il voto della «generazione Berlusconi», gli italiani diventati diciottenni tra il 1994 e il 2003: questi elettori che hanno assistito da giovani alle crescenti contorsioni del Pd, lo votano in pochi (appena il 18,2%), mentre dilaga il Cinque Stelle (35,5%) e il Pdl è sopra la sua media. E quanto al Pdl, interessante la notazione nel saggio di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto: col voto di febbraio il partito di Berlusconi «accentua la sua capacità di attrazione tra gli elettori meno istruiti», con «tratti di relativa marginalità sociale e culturale». Due dati eloquenti: il partito di Berlusconi è di gran lunga il più votato (38,3%) tra chi ha soltanto la licenza elementare e pochissimo (11,8%) tra chi ha una laurea.

l’Unità 7.11.13
I socialisti europei a Roma per lanciare la sfida elettorale
Il 28 febbraio e il primo marzo il congresso del Pse che lancerà la candidatura di Schulz a presidente della Commissione europea Filibeck: un successo del Pd
di Umberto De Giovannangeli


Roma crocevia dei progressisti europei. Il Pd come riferimento della famiglia socialista europea nell’anno cruciale per l’Europa: il 2014, l’anno delle elezioni per l’Europarlamento e del semestre di presidenza italiana dell’Ue. Sarà a Roma, il 28 febbraio e 1 marzo, il Congresso del Pse. Una scelta politica. Un investimento sui Democratici italiani. Il lancio ufficiale della candidatura di Martin Schulz, attuale presidente del Parlamento europeo, alla presidenza della Commissione europea. «Martin Schulz sarà il candidato del Pse alla presidenza della prossima commissione Europea. Guglielmo Epifani è stato tra i primi segretari di partito a sostenere questa candidatura, ma a tale decisione, di estrema rilevanza, se ne collega anche un`altra: la presidenza del Pse ha chiesto al Pd di ospitare a Roma il 28 febbraio e il 1marzo il congresso dello stesso Pse e il lancio della campagna elettorale comune per le elezioni europee di maggio 2014». Ad annunciarlo è Giacomo Filibeck, responsabile Esteri e relazioni internazionali del Pd. «Si tratta di un importante riconoscimento per il lavoro svolto dal Partito Democratico in questi anni e il ruolo che abbiamo giocato nel dibattito tra le forze progressiste europee nella promozione di una diversa idea di Unione Europea spiega Filibech -. È al tempo stesso un segno di profondo apprezzamento per la nostra delegazione al Parlamento europeo, che si è distinta in questo mandato per competenza e determinazione. La candidatura di Schulz è una grande opportunità per il Pd. In questo modo potrà partecipare a pieno titolo alla battaglia per il superamento dell’Europa dell’austerità e l’approdo a un`Europa della solidarietà e della crescita. Dal 28 febbraio al I marzo si aprirà a Roma una nuova stagione per coloro che vogliono e credono sia possibile passare dall’Europa incompiuta che tradisce oggi la sua stessa ragion d’essere com’è oggi, all’Europa come dovrebbe essere domani».
RICONOSCIMENTO
La scelta di Roma, rimarca ancora Filibeck, rappresenta «un importante riconoscimento per il lavoro svolto dal Partito Democratico in questi anni e il ruolo che abbiamo giocato nel dibattito tra le forze progressiste europee nella promozione di una diversa idea di Unione Europea. È al tempo stesso un segno di profondo apprezzamento per la nostra delegazione al Parlamento Europeo, che si è distinta in questo mandato per competenza e determinazione». Alla due giorni romana saranno presenti tutti i leader della famiglia progressista europea. «La decisione del Pse è anche un ottimo risultato ottenuto dal Partito Democratico, che sin dall’inizio ha sostenuto l’esponente dell’ Spd. Con gli altri partiti dei socialisti europei siamo sicuri condurremmo una campagna elettorale per disegnare una nuova Europa lontana da quella delle destre conservatrici», rimarca Enzo Amendola, capogruppo Pd in commissione Esteri alla Camera dei deputati.
SOSTEGNO A MARTIN
Sono 19 i partiti socialisti europei che hanno deciso di sostenere ufficialmente la candidatura di Martin Schulz alla Presidenza della Commissione Ue. Al centro del programma presentato dal leader del Pse c’è la necessità di sostenere la crescita quale prima condizione
per la creazione di posti di lavoro. L’attuale livello di disoccupazione giovanile «non è più accettabile», ha sottolineato Schulz nel suo discorso di investitura ieri a Bruxelles, «dare un’opportunità ai giovani è la sfida più importante». «Sono onorato e grato di ricevere la fiducia e il supporto del Pse», ha rimarcato Schulz in una conferenza stampa. L’esponente dell’Spd nel suo discorso ha tenuto a precisare: «È tempo di connettere le istituzioni con i cittadini dell’Ue ed è tempo di costruire un’Europa in cui la gente possa investire sapendo che essa investe in loro». «Credo sia raccomandabile che i grandi partiti europei presentino i loro candidati, perché spiega Schulz oggi una delle maggiori difficoltà dell’Unione europea è che anche i cittadini che sostengono l’idea dell’Ue hanno l’impressione che il loro voto non conti nulla». Il messaggio-sfida è rivolto anzitutto al Ppe. La formalizzazione della candidatura di Schulz come candidato unico del Pse e dei partiti della coalizione dei socilaisti, socialdemocratici e progressisti è prevista per il primo marzo. A Roma. In «casa» Pd.

l’Unità 7.11.13
Europa, sinistra batti un colpo
Va perseguito un New deal europeo che ci liberi dal mercantilismo che ha dominato i governi
di Laura Pennacchi


Le dure critiche in materia di politica economica che l’amministrazione Obama fa alla Germania della Merkel non sono estemporanee. Non a caso è più forte la denuncia secondo cui
le elevate esportazioni tedesche, combinate con gli effetti ultra restrittivi dell’austerità, aggravano le difficoltà nel rilanciare la crescita in tutti i Paesi europei.
Questa denuncia viene fatta da tempo dagli economisti eterodossi rispetto alla linea dominante in Europa. Se mai stupisce che la sinistra europea, e italiana, non faccia proprie a gran voce tali critiche rilanciando la propria immagine «progressista» dell’Europa, con il rischio di lasciare in campo, come dice Andriani, solo due posizioni di destra, l’una per l’appunto votata all’austerità, l’altra coltivante populismo antieuro e nazionalismo (nella quale confluiscono sia gli anatemi alla Berlusconi sia quelli alla Grillo). Eppure, l’associazione imposta dalla Germania tra «austerità» restrittiva e «riforme strutturali» si fonda su una visione mercantilistica che va attentamente soppesata, risalendo alle origini degli squilibri presenti nel continente europeo già agli inizi degli anni 90, quando venne tracciato il percorso che avrebbe dato vita all’euro. Il regime globale di accumulazione costruito negli anni 90 era intrinsecamente instabile, basato su global imbalances. All’Est, dopo la crisi asiatica del 1997-1998, la decisione di affrancarsi dalla dipendenza dai capitali occidentali e di difendere la propria sovranità aveva spinto i paesi, con la Cina in testa, a creare surplus delle bilance dei pagamenti mediante una crescita trainata dalle esportazioni, dando così vita ai giganteschi flussi di capitale verso gli Usa destinati a finanziare l’alimentazione locale del credito, attraverso le operazioni di «securitisation» e l’espansione dei derivati tramite le grandi banche. All’Ovest il recupero di un’alta profittabilità era stato imposto dall’approccio della shareholder value e alimentata con l’intensa pressione verso il basso sul lavoro e sui salari, mentre il dinamismo della domanda era stato assicurato con consumi finanziati a debito, sostenuto dall’espansione del credito e dai bassi tassi di interesse.
Ma specifici imbalances erano e sono presenti in Europa, tra paesi strutturalmente in deficit delle bilance commerciali e dei pagamenti e paesi strutturalmente in attivo. La Germania, dopo aver risposto ai costi della riunificazione per sostenere i quali impose a tutta l’Europa gli alti tassi di interesse che generarono l’implosione nel 1992 del Serpente Monetario Europeo con una ristrutturazione «mercantilistica» che portò alle stelle la sua competitività mentre manteneva repressa la domanda interna, con l’ingresso nell’Euro ha potuto beneficiare di un cambio sottovalutato rispetto al marco, accentuando la vocazione alle esportazioni. Contemporaneamente, proprio nella fase in cui i paesi del Sud-Est asiatico lanciavano l’offensiva commerciale volta a ridurre il peso del loro debito, il cambio fisso minò la profittabilità degli altri paesi europei, in alcuni dei quali, come la Spagna, l’atrofizzazione della base industriale veniva sollecitata dalla destinazione ad opera non in ultimo delle banche tedesche di enormi flussi finanziari nelle costruzioni e nelle bolle immobiliari. L’eterogeneità economica dell’Eurozona ne è risultata rafforzata, in particolare mediante accelerati fenomeni di deindustrializzazione nei paesi sudeuroepi. Paradossalmente oggi lo stesso meccanismo della moneta
unica accentua le divergenze: il tasso di cambio tende a risultare troppo alto per i paesi deboli e basso per quelli forti che ne traggono vantaggio, il che spiega le sbalorditive performance nel commercio estero di Germania e Olanda. Poiché gran parte dell’attivo della loro bilancia dei pagamenti corrisponde a passivi di altri paesi europei è chiaro che la Germania non è più la locomotiva di Europa: essa utilizza la domanda interna di altri paesi europei per la propria crescita.
Questa visione mercantilistica è l’altra faccia di una versione del neoliberismo, di matrice hayekiana, detta «ordoliberale», la quale associa alla dottrina dell’austerità attribuente solo al settore pubblico la possibilità di generare deficit cronici, riconoscendo, al contrario, ai mercati un’intrinseca capacità di rientrare dai propri eccessi (il che peraltro è stato drammaticamente contraddetto proprio dalla crisi globale) la teoria delle riforme strutturali, sostanzialmente riproponente una supply side economics gravitante su liberalizzazioni, concorrenza, privatizzazioni. L’imputata è sempre la spesa pubblica (specie sociale), ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare la crescita, anche se soltanto dopo moltissimi anni (come purtroppo accadrà in Italia). I problemi della domanda sono fuori dell’attenzione, il modello sociale europeo viene decretato defunto, gli investimenti pubblici non vengono nemmeno presi in considerazione, le sofferenze occupazionali che a lungo si debbono vivere sono viste come un male necessario.
È per invertire queste tendenze e combattere più efficacemente le divergenze di competitività e di produttività fra paesi che la linea dell’austerità in Europa va sottoposta a una rivoluzione e non a semplici aggiustamenti: va perseguito un New Deal europeo. Questa è la strada che propongono di percorrere sia il piano del lavoro della Cgil sia il Piano Marshall per l’Europa lanciato dalla Dgb tedesca, il quale ha al suo centro un piano di investimenti inter e intraeuropei per la trasformazione e la modernizzazione dell’ordinamento economico. Al mercantilismo obbediente al principio che l’obiettivo dei governi e delle loro politiche economiche non sia l’elevamento del benessere e della qualità della vita dei cittadini, ma incrementare le esportazioni per aumentare la competitività e la potenza del Paese, va opposta una diversa visione dell’economia e delle strutture che generano la crescita e, conseguentemente, una diversa visione della politica economica. Una visione «progressista» con l’obiettivo di combattere la disoccupazione e creare lavoro, ponendo le basi di un nuovo modello di sviluppo, considerando insieme domanda e offerta, privilegiando la domanda interna su quella estera, non sacrificando i consumi collettivi a quelli individuali, investendo primariamente sui beni pubblici, i beni comuni, i beni sociali.

l’Unità 7.11.13
«Arafat è stato avvelenato»
Gli specialisti svizzeri: avvelenato con il polonio. Israele: telenovela senza credibilità
di U.D.G.


Ora è ufficiale: Yasser Arafat morì per avvelenamento da polonio. Lo ha comunicato la vedova Suha, dopo aver ricevuto i risultati definitivi dell’indagine degli esperti svizzeri che hanno analizzato i vestiti dello storico leader palestinese morto l’11 novembre 2004. «Stiamo rivelando un vero crimine, un assassinio politico», ha detto Suha da Parigi. Già a metà ottobre gli esperti avevano anticipati che tracce del potente veleno erano state rilevate su diversi oggetti e capi d’abbigliamento di Arafat. «Stiamo rivelando un vero crimine, un assassinio politico», dichiara Suha Arafat. Questi risultati, ha aggiunto la vedova, «confermano i nostri dubbi. È scientificamente provato che la sua morte non fu dovuta a cause naturali e abbiamo le prove scientifiche che fu ucciso».
LA DENUNCIA
«Non avevo alcun dubbio sul fatto che fosse stato avvelenato le fa eco Nabil Shaath dell’Olp, già ministro degli Esteri dell’Autorità Palestinese commentando la notizia .Prima era stato accennato ora ne abbiamo le conferme». Shaath ha poi invocato un’inchiesta per stabilire «come e chi lo abbia avvelenato». «È stato ucciso ha aggiunto da chi lo voleva morto». No comment da Israele, che ha sempre negato qualsiasi responsabilità nella morte di «Mr.Palestine».
Gli studi condotti dagli esperti svizzeri hanno scoperto livelli di polonio almeno 18 volte superiori alla norma nelle costole e nel bacino di Yasser Arafat, nonchè nel terreno che ha accolto i suoi resti. A riportarlo è al Jazeera che ha ottenuto in esclusiva il rapporto di 108 pagine redatto da specialisti dell’università di Losanna precisando che secondo gli studiosi svizzeri questi dati sono compatibili con la teoria del presunto avvelenamento del leader palestinese, morto nel 2004 in un ospedale militare francese. «I nuovi esami tossicologici e radio-tossicologici hanno mostrato inaspettati alti livelli di polonio-210 e piombo-210 in molti dei campioni analizzati», si legge nel rapporto firmato da 10 esperti dell’università di Vaudois.
Arafat è morto in Francia l’11 novembre del 2004, ma i dottori non furono in grado di stabilire le cause del decesso. All’epoca, su richiesta della moglie, non venne effettuata l’autopsia, ma nel novembre del 2012 i suoi resti sono stati riesumati nel sospetto che il leader palestinese fosse stato ucciso dal polonio come la ex spia russa Alexander Litvinenko nel 2006. David Barclay, un medico legale che ha studiato la relazione svizzera, ha definito le conclusioni del rapporto una «prova evidente». Il mese scorso anche un rapporto di otto scienziati dell’istituto universitario specializzato di Losanna aveva confermato di aver trovato alte tracce di polonio nei vestiti usati dal leader palestinese. Il polonio 210 è uno dei killer più potenti in natura, e agisce già in quantità piccolissime, non rilevabili a occhio nudo.

I servizi segreti israeliani hanno sempre negato ogni coinvolgimento (invocando anche una promessa fatta dall’allora premier Ariel Sharon a Bill Clinton di «non attentare all’incolumità di Arafat») e ieri il governo ha parlato di «un’interminabile telenovela senza alcuna credibilità» da Repubblica

l’Unità 7.11.13
Inizia l’era De Blasio. Ora New York è la capitale liberal
È un trionfo per il democratico italo-americano
Con il 73% dei consensi il successore di Bloomberg sconfigge i repubblicani
Nel suo saluto ringrazia la moglie, i due figli e i parenti in Italia
Forte impegno per eliminare divisioni e ingiustizie nella grande metropoli
«Sarà la città di tutti non solo degli ultrabenestanti di Manhattan»
di Gabriel Bertinetto


Il successo è superiore alle più rosee aspettative. Bill De Blasio vola sino al 73% dei voti, tanto che l’avversario Joe Lhota non aspetta che un’ora per ammettere di aver perso. Il comune di New York dopo vent’anni di amministrazione repubblicana, torna in mano ai democratici. Ed è un esponente dell’ala «liberal» del partito il protagonista dell’exploit, macinando consensi con un programma di riforme radicali per fare di New York la città di tutti i newyorchesi e non solo la patria di una minoranza ultrabenestante concentrata in Manhattan.
Ai militanti in tripudio De Blasio ribadisce i concetti chiave della campagna elettorale. Non si nasconde che «affrontare il problema della disuguaglianza non è facile, non lo è mai stato, e mai lo sarà». I sostenitori sono radunati in una palestra di Park Slope, a Brooklyn. Sul palco campeggia una scritta, che è una parola d’ordine: «Progresso». Il vincitore abbraccia i figli Dante e Chiara, e la moglie Chirlane McGray, afroamericana, che tentò invano di respingerne la proposta di matrimonio rivelandogli di essere lesbica. De Blasio ricorda le origini italiane e dal palco saluta la comunità di Sant'Agata dei Goti, nel Sannio, da cui i nonni emigrarono verso gli Stati Uniti.
«La gente di questa città afferma De Blasio nell’ora del trionfo ha scelto una via progressista, lungo la quale oggi ci incamminiamo. Insieme, come un’unica città». Non ci saranno sbandamenti di carattere opportunistico. «Andremo avanti con le nostre idee. Più uguaglianza. Nessuno deve restare indietro». Stop alle agevolazioni fiscali per i costruttori edili. Via a tasse più alte per i redditi superiori al mezzo milione di dollari annui. Con il ricavato sarà garantito l’asilo nido a tutte le famiglie che sinora non se lo sono potuto permettere, e si spenderà di più per l’istruzione e la sanità.
Lo sviluppo economico si può coniugare alla solidarietà sociale. E alla sicurezza nuocciono gli abusi discriminatori a danno di alcune comunità sociali. Per questo alla polizia saranno imposti limiti nella pratica dello «stop and frisk», le perquisizioni lampo che gli agenti hanno facoltà di effettuare nelle strade di New York. Per la destra sono un deterrente contro la criminalità. Di fatto sono quasi unicamente neri e latinos a esserne oggetto.
IL LABORATORIO
Come scrive il Washington Post, l’amministrazione De Blasio costituirà una sorta di «laboratorio del moderno progressismo». Sarà messa alla prova «l’abilità di un attivista anti-establishment nel gestire in maniera efficace il governo di una città di grandi dimensioni, diminuendo le crescenti disuguaglianze fra ricchi e poveri». Passato insomma il tempo delle parole e dei programmi, inizia quello dei fatti e delle soluzioni. Con un bilancio di settanta miliardi di dollari da gestire.
A De Blasio sono arrivate le congratulazioni personali del presidente Obama. Non è stato il solo messaggio di felicitazioni partito ieri dai telefoni della Casa Bianca. Fra gli altri destinatari il neo-governatore della Virginia, Terry McAuliffe e il sindaco di Boston, Martin Walsh, con i quali Obama «si è impegnato a lavorare».
Il 5 novembre ha dato responsi elettorali importanti, anche al di là della larghissima vittoria del liberal De Blasio nella Grande Mela. Spicca la netta sconfitta dell’estremismo di marca Tea Party. Il partito Repubblicano ottiene buoni risultati solo dove mette in campo candidati moderati e pragmatici. È il caso del New Jersey, dove il governatore Chris Christie ottiene un secondo mandato facendo man bassa di voti femminili e ispanici e aprendo brecce profonde in seno all’elettorato nero e fra i giovani, tutte categorie che su scala nazionale sono prevalentemente orientate a favore dell’Asinello. Il segreto del successo di Christie è stata la concretezza delle proposte e lo spirito bipartisan. È anche stato uno che non ha esitato a definire «un gigantesco fallimento» la strategia imposta dal Tea Party al resto del partito, per provocare lo shutdown, la paralisi dell’amministrazione federale. Ora Christie è tra i più accreditati candidati dell’Elefante alle prossime presidenziali.
In Virginia invece, uno Stato governato dai repubblicani, passa il democratico Terry McAuliffe, a spese di Kenneth Cuccinelli, sostenuto dall’ala ultraconservatrice del Grand Old Party.
Cuccinelli è un beniamino del Tea Party, per essere stato uno dei ministri della Giustizia che in alcuni Stati dell’Unione hanno denunciato la presunta incostituzionalità della riforma sanitaria di Obama. Ha svolto una campagna all’insegna dell’ideologismo, credendo di guadagnare punti con gli insulti agli omosessuali, l’opposizione intransigente al diritto d’aborto, e il tentativo di screditare gli scienziati ecologisti. E ha finito con il consegnare la guida della Virginia alla parte avversa.

l’Unità 7.11.13
«Ora nessuno più resterà indietro»
di Bill De Blasio


MIEI COMPAGNI NEWYORKESI OGGI AVETE SCELTO FORTE E CHIARO UNA NUOVA DIREZIONE PER LA NOSTRA CITTÀ, uniti dalla convinzione che la nostra città non dovrebbe lasciare nessun newyorkese indietro. Ma voglio essere chiaro. Il nostro lavoro tutto il nostro lavoro è solo all’inizio. E non ci facciamo nessuna illusione sul compito che ci attende. La lotta contro la disuguaglianza non è facile, non lo è mai stata e mai lo sarà ed i problemi che abbiamo deciso di affrontare non saranno risolti durante la notte. Sono grato a molte persone che mi hanno aiutato in questa campagna, e a due in particolare, la mia compagna di vita, la mia migliore amica che è brillante, compassionevole e altrettanto dura. È l’amore della mia vita: Chirlane McCray! Di tutte le cose fortunate che ho quella che mi fa essere più felice è essere il padre di due figli straordinari: Chiara e Dante. Un ringraziamento speciale va alla mia famiglia italiana, agli amici di Roma, alla città natale di mio nonno di Sant'Agata dei Goti e alla città natale di mia nonna Grassano. A loro dico: grazie a tutti! Stasera, ho ricevuto una chiamata da Joe Lhota. Anche se abbiamo le nostre differenze, so che ama questa città tanto quanto me. A quelli che non mi hanno votato prometto che non smetterò di lavorare per guadagnare la loro fiducia. Ho parlato spesso di un racconto di due città. La disuguaglianza è la sfida che definisce il nostro tempo. Perché la disuguaglianza a New York non è qualcosa che minaccia solo coloro che stanno lottando. La posta in gioco è alta per ogni newyorkese. E assicurarsi che nessun figlio o figlia di New York rimanga indietro definisce la promessa della nostra città. New York è l’incarnazione più brillante dell’idea che sta dietro la grandezza americana: non importa dove sei nato, che aspetto hai, quale è la tua religione, o chi ami. Se hai cervello, cuore, coraggio e fede, questa città più di ogni altra al mondo ti offrirà la possibilità di una vita migliore. Per generazioni, New York ha significato opportunità. Questo è quello che è stato per tanti, e questo è ciò che deve tornare a essere. È come gli immigrati che sono arrivati a Ellis Island quelli che non avevano nulla se non un paio di borse e grandi speranze che hanno iniziato i loro business divenuti poi capisaldi di intere comunità. I newyorchesi sono forti, resistenti, e dal cuore grande. Sostenere quella grandezza e assicurarci giorni brillanti davanti a noi significa impegnarci con idee progressiste. Non sarà facile, ma è essenziale. I migliori e i più brillanti nascono in ogni quartiere e noi tutti abbiamo la responsabilità di assicurare che il loro destino sia forgiato da quanto duramente lavorano, dai loro grandi sogni e non dal loro codice fiscale. Chiedere ai ricchi di pagare un piccolo premio per finanziare gli asili pubblici e i doposcuola significa chiedere a chi ha fatto bene di assicurare ad ogni singolo bambino le stesse opportunità. La sicurezza pubblica è un requisito importante per i quartieri vitali che creano opportunità in questa città, lo stesso vale per il rispetto delle libertà civili e l’uno non esclude l’altro. Infatti dobbiamo avere entrambi. La strada sarà lunga, incontreremo molti ostacoli ma li supereremo.
A CURA DI SONIA RENZINI

l’Unità 7.11.13
Nadia Urbinati
Per la docente di Teoria politica alla Columbia University il successo di NY dovrebbe spingere anche i Democratici italiani a superare ogni timidezza
«È una vittoria che fa sperare La sinistra vince se ha coraggio»
intervista di Andrea Carugati


«Una vittoria straordinaria, un messaggio che va molto oltre New York. Ci dice moltissimo sulla necessità di ricostruire una cultura politica della sinistra». Nadia Urbinati, professoressa di Teoria politica alla Columbia University, sarà oggi a Roma per un convegno su come «Ripensare la cultura politica della sinistra», cui parteciperanno molti intellettuali, tra cui Alfredo Reichlin, Salvatore Biasco, Mario Tronti, Gianfranco Pasquino, Carlo Galli, Fabrizio Barca e Miguel Gotor. «Mi preme sottolineare l’utilizzo del termine “socialdemocrazia” nel discorso di ringraziamento del neosindaco De Blasio», spiega Urbinati. «Se lo Stato sociale si ritira, la democrazia non ce la fa: ha bisogno di Stato e di giustizia sociale. Per questo auspico che la sinistra, in particolare quella italiana, colga questa occasione per reagire, e uscire da una visione remissiva e fatalista del mondo».
Perché questa vittoria di un uomo di sinistra arriva proprio adesso, dopo 20 anni di sindaci repubblicani?
«New York ha una tradizione progressista. In questi vent’anni Manhattan è cambiata in meglio, è diventata più vivibile, ma nello stesso tempo c’è stato l’abbandono degli altri quartieri, con picchi di disoccupazione. Per questo De Blasio ha detto che due città devono tornare ad essere una, che bisogna fare qualcosa per quei cittadini che hanno lavorato per far crescere Manhattan senza avere quasi nulla in cambio» Non è un’eresia parlare di socialdemocrazia negli Usa?
«Sì, ma questa è una città diversa dal resto dell’America, qui l’acqua è davvero un bene pubblico, a differenza che in Italia, dove c’è stato un referendum totalmente ignorato. Per certi versi potremmo dire che New York è più “socialista” di tante città italiane. È un sentimento profondo che in certi tornanti della storia riemerge: ad esempio quando ci sono da affrontare temi come le scuole pubbliche in decadenza, o il dramma delle case che costano troppo per ampi strati sociali».
Che cosa insegna questa vittoria alla sinistra italiana?
«La sinistra ha accettato il Verbo neoliberista e ha rinunciato alle sue parole d’ordine come eguaglianza delle opportunità e dignità del lavoro. Proprio i temi e le parole che sono stati al centro della campagna del sindaco De Blasio. Una campagna socialista nel senso classico: lavoro, sanità, buone scuole, giustizia sociale. E soprattutto il tema della diseguaglianza come problema politico e non solo sociologico: livelli troppi alti sono insopportabili per una società democratica».
Può nascere un modello New York da esportazione?
«È chiaro che questa è solo una città, e non uno Stato sovrano. Però emerge con chiarezza un concetto: le responsabilità della crisi sono della destra neoliberista, non della sinistra. Nella campagna di De Blasio si coglie la voglia di un contrattacco. E colpisce il confronto con la timidezza della sinistra italiana». Perché parla di timidezza?
«Va chiarito una volta per tutte che all’origine della crisi non ci sono i servizi sociali e il welfare, ma una dottrina politica ed economica che ha pensato di opporre mercato e Stato, profitto e responsabilità sociale, di smantellare le regole e i servizi sociali in nome di una competizione selvaggia».
In questi ultimi anni lei non ha visto opposizione al paradigma liberista in Italia? «No. C’è stato sempre un tentativo di contenere le spese, senza nessuna idea alternativa di società. De Blasio invece ha detto che la politica ha il dovere civile di un surplus di coraggio».
Vede nel sindaco una sorta di “anti-Blair” quindici anni dopo? «Certamente emerge una nuova idea di sinistra. Quello di Blair è stato il tentativo di legare la sinistra al carro del neoliberalismo, per alleggerire il carico dello Stato. Ma non ha funzionato. Bisogna fare delle scelte: a New York ci sono 43mila ultramiliardari che finora hanno vissuto in una sorta di secessione dal resto della società. Un nuovo “patto sociale” prevede che ora siano loro a pagare di più in proporzione alla loro ricchezza».
Lei allude a un nuovo protagonismo del welfare. Ma in Italia i conti non lo consentono...
«Una della cause di questi conti disastrati è anche il ritiro dello Stato dai controlli sulla finanza. E l’assenza di una tassazione adeguata sui profitti del capitalismo finanziario. Bisogna tornare a parlare di patrimoniale. Su questo però serve un forte coordinamento tra gli Stati europei, altrimenti quelli più deboli saranno ulteriormente penalizzati».
In Italia qual è il soggetto che dovrebbe portare avanti queste battaglie? «Nell’opinione pubblica italiana vedo un immobilismo e un fatalismo incredibili. Per uscire da questa morta gora bisogna ricostruire un partito forte, per questo l’interlocutore non può che essere il Pd. Non intendo entrare nelle dinamiche congressuali, ma c’è bisogno di un contributo di idee».

Repubblica 7.11.13
La promessa di Bill il rosso: New York città degli eguali
di Vittorio Zucconi


PROPRIO nel momento della vergogna per il caso Datagate, l’America estrae dal cilindro della propria democrazia vivente uno sconosciuto sindaco di New York che riaccende ammirazione, entusiasmi e speranze. Bill de Blasio, l’ex funzionario del Comune addetto alle lagnanze dei cittadini.
SEGUE A PAGINA 43 FLORES D’ARCAIS MONDA E VINCENZI ALLE PAGINE 12 E 13
Il figlio di quella Brooklyn guardata per generazioni come la sorella minore della superba Manhattan nato oltre il ponte del potere, ripropone tutto quello che il mondo invidia a New York e che l’Europa non riesce a imitare: la capacità di rinnovarsi.
Tre mesi or sono, all’inizio della campagna elettorale per sostituire il miliardario Bloomberg, appena due newyorkesi su dieci conoscevano il nome di de Blasio e la sua corsa alla massima poltrona della città appariva poco più che velleitaria. Martedì sera, quel voto di tre elettori su quattro, il 73,8%, quasi cinquanta punti percentuali più della vittima sacrificale repubblicana, ha sbalordito persino i suoi sondaggisti che pure lo davano come sicuro vincitore. Neppure l’Obama trionfale del 2008 aveva saputo fare altrettanto e si deve tornare al mitico Fiorello La Guardia per ritrovare un plebiscito così massiccio.
Il vento tumultuoso che ha spinto questo figlio di un padre tedesco che preferì l’identità e il nome italiani della madre, che ha scelto il graffiante «rap» bianco dei Beasty Boys come colonna sonora della vittoria, è quello che periodicamente si alza nelle democrazie dove il sistema elettorale non imbriglia, ma intercetta, addirittura impone il cambiamento. Che cosa farà, chi sarà il de Blasio sindaco di una città che gli lascia due miliardi di dollari di debito ed è già fra le più tassate degli Stati Uniti è ovviamente impossibile dire. Le sue promesse sono state molte a tutti e l’esperienza fatta con Barack Obama ha insegnato a distinguere fra la storia personale e le realizzazioni, a diffidare dei simboli in attesa della sostanza.
Governare New York è come governare un mondo, se non il mondo. Non esiste problema che non si riversi su questa città delle città e de Blasio rappresenta oggi tutto quello che i newyorkesi vorrebbero essere e quello che vogliono sentirsi dire da chi li dovrà guidare. È il prodotto di unamultietnicità, di un meticciato, che è la sostanza, la natura stessa di New York, non una debolezza. È il democratico classico, vintage, di sinistra, che vuole più eguaglianza, più giustizia per i dimenticati e per gli ultimi, dunque più distribuzione della ricchezza raggrumata nei castelli del potere finanziario a Times Square e nelle rocche di Park Avenue e della East Side. È però anche il newyorkese «no nonsense», poche storie, che prima solidarizza con i manifestanti di Occupy Wall Street per lamentare la concentrazione di danaro nei pochi rapaci e poi si affretta a chiarire che «Wall Street è la principale industria della nostra città», apparentemente contraddicendosi. Uno che sa bene da che parte è imburrata la fetta del pane e da che parte sarebbe tempo di spalmare più burro.
Ma New York è la mela che fiorisce e matura nella contraddizione, la metropoli che vive perennemente sospesa nella formula dickensiana del «migliore dei tempi e del peggiori dei tempi » e anche i suoi elettori, che vanno dalla sinistra più rumorosa ai finanzieri che hanno alimentato la suacampagna, lo sanno benissimo. Quello che importa ai residenti di una città che neppure chi rase al suolo i suoi monumenti più orgogliosi riuscì ad abbattere perché confuse il cemento con la gente, è che le acque si muovano. Che la ruota della politica giri, che la palude non ristagni nella soffocante stabilità di altre nazioni immobili.
New York elegge, dopo il lungo regno, di un conservatore moderato e illuminato come Bloomberg, il suo opposto in Bill de Blasio non perché gli elettori siano improvvisamente divenuti rivoluzionari dopo essere stati reazionari. Ma perché sente di dover mutare pelle.
Sempre grazie al sistema elettorale del maggioritario secco, dove un solo vincitore deve emergere da subito, la apparente rivoluzione di New York è soltanto la conferma della propria natura e della intuizione di fondo che sta alla base della propria fortuna: la necessità vitale dell’alternanza. C’è, direbbe l’Ecclesiaste, un tempo per fare soldi e un tempo per distribuirli, un tempo per diventare ricchi e un tempo per prendersi cura dei poveri, un tempo per i finanzieri bancarottieri di Wall Street e un tempo per i sindacati che chiedono aumenti di paga. E se anche Bill de Blasio, il gigante italiano delle speranze, dovesse fallire – come già New York è fallita, e ha fatto fallire, più volte nella propria storia – se ne eleggerà un altro, uno completamente diverso. Perché è il cambiamento quello che tiene viva la città di tutte le città.

Repubblica 7.11.13
Auster festeggia il “suo” vincitore “È un simbolo vivente di questa città”
Lo scrittore: “Ha una volontà sfacciata di cambiare le cose”
intervista di Antonio Monda


NEW YORK — Paul Auster è stato un sostenitore di Bill de Blasio sin dal momento in cui il nuovo sindaco ha deciso di candidarsi, e ora Auster esulta per una vittoria agognata che tuttavia non è mai stata in discussione.
Si è scritto molto dell’ascesa irresistibile di questo gigante (è alto quasi due metri) di origine italiana, delle posizioni radicali della sua gioventù, della famiglia multirazziale, del passato omosessuale della moglie, e di una piattaforma politica che ha spaventato i conservatori e inorridito i reazionari. Però, tutti questi elementi, che hanno sedotto irreversibilmente i liberalnewyorchesi, sono da valutare insieme ad una personalità che riesce ad essere nello stesso tempo empatica e rivoluzionaria.
«È la caratteristica più affascinante di de Blasio», racconta Paul Auster nello studio non lontano dalla sua casa di Brooklyn. «Basta incontrarlo per riconoscerne il calore e l’intelligenza, mista a una volontà coraggiosa, quasi sfacciata, di cambiare le cose».
Che eredità lasciano Giuliani e Bloomberg, i sindaci precedenti?
«Giuliani non mi è mai piaciuto: per molti versi era un fascista e anche i risultati più sbandierati, come la diminuzione dei crimini, sono stati ottenuti con metodi per me inaccettabili. C’è poi da riflettere sul fatto che in quegli anni si sono sentiti gli effetti della Roe vs Wade, la sentenza della Corte suprema che ha legalizzato gli aborti: molti figli non voluti non sono diventati delinquenti».
Ammetterà che questa è una teoria discutibile.
«Credo che sia un dato valido quanto la soppressione violenta messa in atto da Giuliani. Per tornare ai sindaci, nessuno dei due ha parlato a tutta la città, nemmeno Bloomberg, che è stato un politico decisamente più interessante».
De Blasio ha dichiarato che sarà il sindaco del 99 per cento dei newyorchesi.
«È una battuta, ma nasconde una verità: ci sarà sempre una fascia molto ricca con cui lui sarà incompatibile. Ma mi lasci dire che sono entusiasta: è la prima volta che vince un mio candidato dopo cinque elezioni in cui ho votato lo sconfitto».
Come mai una città estremamente liberal come New York ha avuto per più di vent’anni sindaci non democratici?
«Dinkins, l’ultimo sindaco democratico, era un uomo per bene ma non aveva il polso per guidare una città così complicata. E gestì in maniera molto debole gli scontri razziali del 1991 a Crown Heights. Giuliani lucrò su quella vicenda, promettendo sicurezza e tolleranza zero. Poi, alla fine del suo mandato, ci fu l’11 settembre e prevalse un indipendente abile e miliardario come Bloomberg, che cambiò le regole per rimanere sindaco per tre mandati. C’è da dire anche che i candidati della sinistra non sempre sono stati all’altezza».
Quale sono le cose che più le piacciono di de Blasio?
«Il fatto che non abbia paura di essere molto liberal e di essere un simbolo vivente della New York odierna».
Quali saranno le sfide più grandi?
«Oltre alle normali, enormi difficoltà della metropoli, credo che tra le prima sfide ci sia quella di portare a termine il rinnovo del contratto di lavoro, trovando un accordo con i sindacati. Bloomberg non ce l’ha fatta e sarà un elemento che segnerà il suo mandato».
La destra imputa a de Blasio di non avere alcuna esperienza.
«Ha lavorato per Dinkins e Hillary Clinton: conosce dall’interno la politica. Non voglio sbilanciarmi sul suo futuro e per ora mi limito solo ad apprezzare l’ottimismo della sua volontà».
Ormai a New York solo un terzo della popolazione è bianca.
«Questo è uno dei fattori che ha segnato maggiormente questo grande successo elettorale. La città è in perenne cambiamento e de Blasio lo interpreta in prima persona. Sono sbalordito da come i repubblicani non comprendano come il mondo stia cambiando e tendano ad arroccarsi sempre di più su posizioni estremiste ed inquietanti».
Quanto è importante ancora l’identità italiana?
«Io espanderei la domanda a qualunque tipo d’identità: non credo che cambierebbe molto se de Blasio fosse greco o polacco, anche se gli italiani in città sono più numerosi. A volte ci illudiamo che le nostre radici scompaiano, e riteniamo di diventare qualcosa di altro, ma in realtà credo che il rapporto con l’identità sia sempre più forte di quanto possiamo immaginare. Non le sarà sfuggito che ieri lui abbia ringraziato anche in italiano».

La Stampa 7.11.13
Cina scossa dagli attentati
Bombe alla sede del Partito
di Ilaria Maria Sala


Xi Jingping rischia di arrivare con un «problema terrorismo» all’apertura, fra tre giorni, del Terzo Plenum del 18° Comitato del Partito comunista. Prima l’attentato (matrice islamica e dito - con tanto di arresti - puntato sugli uiguri, la versione di Pechino), poi, ieri, la serie di deflagrazioni, forse sette, proprio davanti alla sede del Partito Comunista di Taiyuan, nello Shanxi (Cina centrale), alle 7,40 di sera. Nessuna vittima (a piazza Tiananmen la scorsa settimana furono 5), qualche ferito e pochi danni, stando a sentire i media ufficiali. Il web, più rapido e meno filtrato, ha un’altra narrazione, parla dell’arrivo di diverse ambulanze e lascia intuire che forse la faccenda è più grave di quanto i bollettini e le voci ufficiali dicano. Silenzio invece sulla matrice, il gesto di qualche oppositore o di un disperato.
Al di là di bilanci e conta dei danni, sono tempi e luogo dell’esplosione a colpire. La Cina vive infatti un periodo più che delicato, fra tre giorni apre il super summit del Partito guardato da tutti con attenzione dato che dovrebbe essere annunciata la piattaforma dalla quale il Xi Jinping annuncerà le riforme economiche e finanziarie che intende introdurre in Cina.
Le scorse assemblee del Partito, infatti, hanno portato a cambiamenti fondamentali – uno per tutti, quello del 1978, in cui Deng Xiaoping annunciò il cambiamento radicale di rotta per il Paese, introducendo le riforme economiche che hanno condotto all’incredibile crescita cinese delle ultime decadi. Quello del 1993, in modo simile, introdusse grosse novità per quanto riguardava il settore statale, dando il via a una serie di riforme che hanno rivoluzionato l’industria cinese, e creato alcuni colossi nazionali, pur facendo chiudere e ristrutturare centinaia di piccole e medie imprese.
Nei prossimi giorni non ci si aspetta nulla di altrettanto epocale: in parte perché oggi le cose sono molto diverse, e i cambiamenti necessari più sottili, in parte anche perché l’economia cinese attraversa una fase di instabilità, e nessuno vuole correre rischi. Le aree che saranno toccate dai probabili nuovi annunci dovrebbero riguardare più che altro la finanza e la riforma monetaria. Gli osservatori ipotizzano iniziative tese a rispondere ad alcune delle tensioni sociali più sentite, come nel settore della sanità e dell’educazione, con maggiori finanziamenti pubblici. Altre riforme che potrebbero essere foriere di grossi cambiamenti riguardano alcune delle problematiche più stridenti legate alla gestione della politica e dei fondi pubblici dei governi locali - uno dei bersagli preferiti della «campagna contro la corruzione» attualmente in corso.
Il nuovo clima di austerity e sobrietà potrebbe dunque essere sancito in modo più definitivo nel documento che sarà reso pubblico nel corso del Plenum, cercando di fissare quale sia il comportamento consentito ai quadri di Partito locali, e di arginarne le folli spese e la corruzione, per contenere il cinismo popolare al riguardo. Di solito il Terzo Plenum presenta un documento che offre indicazioni di linea – e che viene applicato con un certo pragmatismo: e cioè, «attraversando il fiume esplorando man mano i sassi con il piede», come disse Deng Xiaoping a proposito del metodo con cui intendeva applicare le sue riforme economiche.
Xi Jingping rischia di arrivare con un «problema terrorismo» all’apertura, fra tre giorni, del Terzo Plenum del 18° Comitato del Partito comunista. Prima l’attentato (matrice islamica e dito - con tanto di arresti - puntato sugli uiguri, la versione di Pechino), poi, ieri, la serie di deflagrazioni, forse sette, proprio davanti alla sede del Partito Comunista di Taiyuan, nello Shanxi (Cina centrale), alle 7,40 di sera. Nessuna vittima (a piazza Tiananmen la scorsa settimana furono 5), qualche ferito e pochi danni, stando a sentire i media ufficiali. Il web, più rapido e meno filtrato, ha un’altra narrazione, parla dell’arrivo di diverse ambulanze e lascia intuire che forse la faccenda è più grave di quanto i bollettini e le voci ufficiali dicano. Silenzio invece sulla matrice, il gesto di qualche oppositore o di un disperato.
Al di là di bilanci e conta dei danni, sono tempi e luogo dell’esplosione a colpire. La Cina vive infatti un periodo più che delicato, fra tre giorni apre il super summit del Partito guardato da tutti con attenzione dato che dovrebbe essere annunciata la piattaforma dalla quale il Xi Jinping annuncerà le riforme economiche e finanziarie che intende introdurre in Cina.
Le scorse assemblee del Partito, infatti, hanno portato a cambiamenti fondamentali – uno per tutti, quello del 1978, in cui Deng Xiaoping annunciò il cambiamento radicale di rotta per il Paese, introducendo le riforme economiche che hanno condotto all’incredibile crescita cinese delle ultime decadi. Quello del 1993, in modo simile, introdusse grosse novità per quanto riguardava il settore statale, dando il via a una serie di riforme che hanno rivoluzionato l’industria cinese, e creato alcuni colossi nazionali, pur facendo chiudere e ristrutturare centinaia di piccole e medie imprese.
Nei prossimi giorni non ci si aspetta nulla di altrettanto epocale: in parte perché oggi le cose sono molto diverse, e i cambiamenti necessari più sottili, in parte anche perché l’economia cinese attraversa una fase di instabilità, e nessuno vuole correre rischi. Le aree che saranno toccate dai probabili nuovi annunci dovrebbero riguardare più che altro la finanza e la riforma monetaria. Gli osservatori ipotizzano iniziative tese a rispondere ad alcune delle tensioni sociali più sentite, come nel settore della sanità e dell’educazione, con maggiori finanziamenti pubblici. Altre riforme che potrebbero essere foriere di grossi cambiamenti riguardano alcune delle problematiche più stridenti legate alla gestione della politica e dei fondi pubblici dei governi locali - uno dei bersagli preferiti della «campagna contro la corruzione» attualmente in corso.
Il nuovo clima di austerity e sobrietà potrebbe dunque essere sancito in modo più definitivo nel documento che sarà reso pubblico nel corso del Plenum, cercando di fissare quale sia il comportamento consentito ai quadri di Partito locali, e di arginarne le folli spese e la corruzione, per contenere il cinismo popolare al riguardo. Di solito il Terzo Plenum presenta un documento che offre indicazioni di linea – e che viene applicato con un certo pragmatismo: e cioè, «attraversando il fiume esplorando man mano i sassi con il piede», come disse Deng Xiaoping a proposito del metodo con cui intendeva applicare le sue riforme economiche.

il Fatto 7.11.13
Pompei crolla, ci pensa l’uomo di Patroni Griffi
In arrivo un supermanager Unicredit, ex funzionario della Farnesina
di Elisabetta Ambrosi


L’abbondanza di soldi europei non spesi, abbondanza di crolli. A Pompei i muri continuano a cadere – l’ultimo pochi giorni fa da un edificio in Via dell’Abbondanza, appunto – nonostante ci siano 105 milioni di fondi europei da utilizzare entro il 2015 (ma il progetto va consegnato entro fine dicembre). Per spenderli, però, serve un Direttore Generale, a tutt’oggi mancante. Perché, nonostante il decreto Valore Cultura, voluto dal ministro Massimo Bray e approvato dalla Camera in ottobre, affidi la complessa gestione di Pompei a un dipendente della Pubblica Amministrazione, la querelle tra il partito degli interni e il partito dei “manager-salva-tutto” è ancora aperta. Da un lato, c’è chi si schiera per la nomina di una figura con competenze in ambito artistico-archeologico. Dall’altro, chi grida contro i “mandarini di stato”: ultimo in ordine di tempo, Il Mattino di Napoli, di proprietà Caltagirone, che ieri, con un pezzo a firma di Antonio Galdo, ha tuonato contro “la selva oscura i cui tentacoli sono noti a chi conosce il sistema corporativo e opaco della gestione del nostro patrimonio culturale”.
PECCATO CHE i nomi dei presunti boiardi di Stato in odore di direzione generale, che secondo il quotidiano avrebbero avuto la benedizione di Bray, sono platealmente sbagliati. Trattasi non di Luca Maggi e Carlo Birozzi, infatti, ma di Gino Famiglietti, attuale direttore generale dei Beni culturali e paesaggistici del Molise, ex vicecapo dell’Ufficio legislativo del ministero poi dirottato in Molise, autore del codice dei Beni culturali e di una battaglia contro l’eolico selvaggio nella regione. E di Fabrizio Magani, direttore generale dell’Abruzzo che dopo quattro anni di immobilismo sta ricostruendo il patrimonio artistico dell’Aquila . Due professionalità sul campo, che forse, dopo il dejavu dei city manager – in perenne conflitto con gli archeologi – e della gestione Bertolaso (con il suo vice e allora Commissario straordinario Marcello Fiori, poi indagato per truffa e frode per i lavori di restauro degli scavi di Pompei) potrebbe valere la pena sperimentare, visto che i risultati delle gestioni precedenti sono sotto gli occhi di tutti.
Il giornale di Caltagirone allude a un braccio di ferro, smentito ieri dallo stesso Letta, tra il presidente del Consiglio e Bray, e di una forte resistenza del ministro a scegliere il super manager che salverebbe Pompei dal degrado. Ma chi potrebbe essere questo fantomatico deus ex machina? Un nome appare tra le righe del quotidiano Il Sole 24 ore: Giuseppe Scognamiglio (secondo indiscrezioni uomo vicino a Filippo Patroni Griffi), responsabile Pubblic affairs del gruppo Unicredit. Non sembrerebbe proprio essere un dipendente pubblico. E invece sì. Perché il Min. Plen. Scognamiglio è in realtà un funzionario diplomatico del ministero della Esteri, che grazie alla legge sulla mobilità tra settore pubblico e privato fatta dal governo Berlusconi nel 2002, è stato distaccato dalla Farnesina a Unicredit nel lontano settembre 2003. Laurea in Legge, editorialista di politica estera, Consigliere Diplomatico dei ministri del Commercio Estero dal 1999 al 2001, Responsabile della politica di sostegno all’internazionalizzazione del sistema economico italiano, promotore della Fondazione della Camera di commercio italo-turca, membro del direttivo dell’Abi, di Save The Children, infine presidente della società editoriale “Europeye” (controllata al 90% da Unicredit), occhio geopolitico sull’Europa, grazie alla rivista “East”. Un curriculum invidiabile. C’è da chiedersi però che c’azzecchi con la complessa gestione del parco archeologico che conta oltre 600 persone tra dipendenti dell’area archeologica e del sito, e che richiede anche una forte attenzione agli aspetti sociali che lo legano al territorio.
IN OGNI CASO, chiunque sarà eletto dovrebbe accontentarsi di uno stipendio di soli 100mila euro, visto che, in perfetto spirito da larghe intese, in un secondo tempo è stata introdotta anche la figura del vicepresidente, e il compenso è stato diviso. In attesa della decisione, i dubbi restano molti, ma uno di sicuro è fugato: ammesso e non concesso che senza l’aiuto del privato il pubblico non riesca ad autogestirsi, difficile che Pompei abbia bisogno dell’ennesima figura calata dall’alto. E che magari sommi cariche pubbliche e private, secondo un’usanza tutta italiana. Questa sì davvero incrollabile.
IN MACERIE Il sito archeologico di Pompei, uno dei più grandi al mondo, cade a pezzi. Ci sono 105 milioni di fondi europei da utilizzare entro il 2015 ma manca un Direttore generale LaPresse

Corriere 7.11.13
A Pompei c’è di tutto tranne ciò che serve
Il caso dell’ex diplomatico a Pompei
di Gian Antonio Stella


Tre anni sono passati, dal crollo della Scuola dei gladiatori di Pompei che finì su tutte le prime pagine del mondo. E le rovine sono ancora lì, abbandonate, sotto il cellophane. Mentre infuria, sommando ritardi a ritardi, un altro combattimento. Tutto politico: chi gestirà i 105 milioni del megaprogetto per risanare il malandato tesoro archeologico campano? Certo, gli sfidanti di oggi non usano gladi, reti, lance, tridenti o pugnali. Le loro armi sono più silenziose. Non aprono squarci e non fanno buttar sangue, se non metaforicamente. Ma lo scontro è durissimo.

Da una parte il ministro dei Beni culturali Massimo Bray e dall’altra chi vorrebbe «amabilmente suggerirgli» (guai a usare il verbo imporre) questo o quel candidato. Magari del tutto estraneo al mondo della cultura e più ancora dell’archeologia.
Fosse una poltrona come un’altra, chi se ne importa. Al di là dei nomi, sono talmente tanti gli uomini sbagliati nel posto sbagliato piazzati in questi anni dai partiti che uno più o uno meno... Il punto è che Pompei è qualcosa di speciale. Tanto da fare scrivere a Michael Day sull’Independent , davanti alle macerie della «Schola Armaturarum», le seguenti parole: «I crolli nel sito di Pompei sottolineano ciò che gli esperti hanno segnalato per anni: l’inestimabile patrimonio culturale italiano si sta lentamente ma ineluttabilmente disintegrando, e il declino del famoso sito archeologico è una metafora della nazione». Concetto identico sul New York Times : «I crolli a Pompei sono diventati una metafora dell’instabilità politica e dell’incapacità dell’Italia di prendersi cura del suo patrimonio culturale» . E ancora su Le Monde : «Pompei crolla, simbolo di un’Italia in stato di catastrofe culturale».
Insomma, se c’è un luogo in cui l’Italia si gioca ciò che le resta di una reputazione internazionale ammaccata, è Pompei. Perché reportage come quello di Carolyn Lyons del Financial Times sono una coltellata al cuore per ogni italiano: «Sono rimasta esterrefatta. Le strutture cadevano a pezzi, i soffitti perdevano e le pareti erano irrimediabilmente danneggiate...».
La stessa «amorevole» interferenza da parte dei tedeschi del Fraunhofer (il maggiore centro di ricerca tecnica d’Europa: un colosso con 22 mila dipendenti) e della Technische Universität di Monaco di Baviera, decisi a irrompere tra gli scavi con 10 milioni di euro e centinaia di ricercatori conferma la gravità della situazione e la diffidenza straniera verso chi se ne occupa. Perché mai, altrimenti, dovrebbero sventolare l’obiettivo di «sottrarre Pompei alla seconda rovina»?
Diciamocelo: troppo spesso non abbiamo fiato per rispondere a certe critiche fastidiosissime davanti all’immobilità, all’insipienza, alla sciatteria con cui «non» ci prendiamo cura delle meravigliose rovine vesuviane che incantarono Wolfgang Goethe. Basti ricordare che perfino il mosaico col molosso davanti alla Domus del Poeta Tragico, uno dei più celebri del pianeta, è in condizioni così penose, senza uno straccio di manutenzione quotidiana, che non si legge neppure più la scritta «Cave canem».
Come possiamo, oggi, non essere in ansia? Il direttore degli scavi archeologici Antonio Varone, il 3 ottobre 2010, giurava all’Ansa : «Il degrado del quale sia parla è quanto di più lontano dalla realtà attuale di Pompei» grazie soprattutto «alla messa in sicurezza di gran parte dei suoi tesori alla quale è stata destinata, grazie al commissariamento, il 90% dei finanziamenti». Trentatré giorni dopo, la scuola dei gladiatori veniva giù «per colpa della troppa pioggia» che per i periti aveva gonfiato il terrapieno che sovrasta la meravigliosa via dell’Abbondanza facendolo smontare. Terrapieno che, denuncia il presidente dell’Osservatorio Beni Culturali Antonio Irlando, «è rimasto esattamente come allora». Esposto, Dio non voglia, a nuove frane.
Conosciamo l’obiezione: purtroppo i giudici per l’inchiesta hanno sequestrato la «Schola Armaturarum» rallentando ogni intervento. Tesi che il procuratore di Torre Annunziata Alessandro Pennasilico respinge: «Ogni volta che la sovrintendenza ci ha chiesto di intervenire abbiamo dato il via libera».
È in questo contesto che tre mesi fa il governo Letta, per uscire dall’immobilismo dopo troppi pensamenti e ripensamenti, varò il decreto «Valore Cultura». Dove veniva spiegata la costituzione di una Sovrintendenza specifica per i beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Di più: «al fine di accelerare la realizzazione del Grande Progetto Pompei», il decreto prevedeva «la nomina di un direttore generale di progetto, cui spetterà, fra l’altro, definire e approvare i progetti degli interventi di messa in sicurezza, restauro e valorizzazione, assicurare l’efficace e tempestivo svolgimento delle procedure di gara per l’affidamento dei lavori e l’appalto dei servizi e delle forniture, nonché seguire la fase di attuazione ed esecuzione dei relativi contratti».
Una specie di commissario. Ma chiamato in maniera diversa dopo le polemiche sulla gestione dell’ultimo plenipotenziario, Marcello Fiori, accusato tra l’altro di avere speso 218 euro (il doppio della monumentale edizione extralusso dei disegni di Fellini) per ogni copia del «piano degli interventi e relazione sulle iniziative adottate dal commissario delegato», 55.000 per mille bottiglie di vino etichettate «Villa dei Misteri», 102.963 euro per censire 55 cani randagi...
A farla corta: va scelto il meglio del meglio, stavolta, per quel ruolo vitale per la nostra reputazione. Ed è lì che divampa la guerra sotterranea. Intorno al nome, soprattutto, di Giuseppe Scognamiglio, un diplomatico distaccato da anni a Unicredit che dalle parti di Pompei nessuno ricorda. Magari è un fenomeno, dicono i perplessi, ma dopo i disastri di questi anni è il caso di mettere lì un altro paracadutato dall’alto? Piuttosto me ne vado io, avrebbe minacciato Massimo Bray ricevendo la comprensione dello stesso Letta. Non bastasse, una certa politica avrebbe imposto l’aggiunta, per gestire quei soldi dell’intervento straordinario, di un direttore generale vicario. Uno alla destra, uno alla sinistra. Pari e patta. E mentre si avvicinano l’inverno, le piogge, il fango, le minacce di nuovi crolli stanno lì a litigare sui nomi coi soldi fermi e i cantieri da aprire...
Gian Antonio Stella

Corriere 7.11.13
Tesoro nazista, sfida internazionale per riavere le opere
Gli eredi dei proprietari le reclamano
di Paolo Lepri


BERLINO — I nomi dei colpevoli — da Hitler a Goebbels, il teorico della lotta contro l’arte «degenerata» — sono già scritti nei libri di storia. Il caso dell’incredibile tesoro scoperto a Monaco aspetta ora le soluzioni. Il rischio è che diventi, come sta in realtà già iniziando ad accadere, un giallo internazionale destinato a trascinarsi per decenni. Le organizzazioni del mondo ebraico e gli eredi dei possibili proprietari chiedono un forte impegno alle autorità tedesche. Si moltiplicano gli appelli perché venga fornita una precisa descrizione degli oltre 1.400 dipinti, acquerelli e disegni nascosti nell’appartamento di Cornelius Gurlitt,il figlio ottantenne dello studioso e mercante che sostenne di avere perso la sua collezione nel bombardamento di Dresda.
I risvolti politico-legali della vicenda sono talmente complessi che il portavoce della cancelliera tedesca, Steffen Seibert, è dovuto intervenire nuovamente ieri. «Siamo favorevoli — ha detto — alla pubblicazione di informazioni su queste opere d’arte laddove esistano già indicazioni che possano essere state confiscate a persone perseguitate dai nazisti». Un primo passo, forse, per superare l’eccessiva prudenza dimostrata dai responsabili dell’inchiesta. «La timidezza degli sforzi compiuti fino ad oggi è gigantesca», ha scritto il quotidiano Münchner Merkur . «Si sono preoccupati solo di mantenere il segreto», ha osservato a Bonn il General Anzeiger . In effetti, anche il governo Merkel, informato del caso da diversi mesi, non ha fatto niente, in questo lasso di tempo, per cercare di entrare in contatto con i possibili proprietari.
E intanto nuovi misteri si aggiungono, come quello rivelato ieri dalla Süddeutsche Zeitung . Subito dopo la guerra gli alleati tennero in custodia a Wiesbaden, in Assia, un centinaio di opere d’arte, tra cui i due sconosciuti capolavori di Otto Dix e Marc Chagall ritrovati dalla polizia nel febbraio dell’anno scorso. Ma Hildebrand Gurlitt — che dopo essere stato estromesso da due incarichi negli anni trenta per avere una nonna ebrea, era entrato nelle grazie di Goebbels diventando il suo uomo di fiducia per le vendite all’estero delle opere di arte «degenerata» sequestrate dal regime hitleriano — riuscì a rientrare in possesso della sua collezione privata convincendo gli anglo-americani che era stata acquistata legalmente. Quei cento pezzi erano solo una parte del tesoro poi custodito dal figlio. Nessuno è in grado di spiegare come lo studioso tedesco, morto in un incidente stradale nel 1956, avesse potuto accumulare un patrimonio tanto ingente, costituito per la gran parte da opere confiscate o acquistate a prezzi irrisori da ebrei in fuga. E che dire poi di quella sorta di omertà che ha sempre circondato le sporadiche vendite compiute più recentemente da Cornelius nel mercato dei collezionisti? «Gli veniva aperta occasionalmente la porta, ma nessuno faceva domande», ha scritto Die Welt .
Quel silenzio è durato troppo a lungo e sono in molti a chiedere adesso interventi decisi, anche sulla base della Dichiarazione di Washington, firmata nel 1988 da Germania e Stati Uniti, che stabilisce una serie di principi per facilitare la restituzione di opere d’arte sequestrate o acquistate illegalmente. «La situazione giudiziaria per quello che se ne può sapere è che Cornelius Gurlitt dovrebbe essere il legittimo proprietario di una grande parte delle opere in questione, anche se ciò appare discutibile da un punto di vista etico» ha detto alla Reuters Uwe Hartmann, responsabile dell’agenzia statale che si occupa delle ricerche sulla provenienza delle proprietà delle collezioni pubbliche. Uno scontro, insomma, tra diritto e morale.
L’ex ministro della cultura Michael Naumann ha sostenuto comunque che sarebbe assurdo lasciare nelle mani di Gurlitt un patrimonio sottratto ad ebrei che cercavano di sfuggire alle persecuzioni. Un eccesso di garantismo nei confronti del misterioso affittuario dell’appartamento di Schwabing — del quale si ignorano tutti i movimenti più recenti — viene visto negativamente, per fare solo un esempio, dalla Jewish Claims Conference, l’organizzazione che fornisce assistenza alle vittime del nazismo impegnate nelle battaglie per gli indennizzi. «Bisogna mettere all’asta — si legge in una dichiarazione — i dipinti dei quali non si trovano gli eredi e utilizzare il ricavato in iniziative benefiche legate alla memoria dell’Olocausto». La battaglia è appena all’inizio. E il governo tedesco deve riuscire a sbrogliare una situazione molto complicata.

Corriere 7.11.13
«La Germania renda pubblica la lista dei quadri»
Parla l’avvocato di 40 famiglie ebree «Dovere morale e legale dei tedeschi»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Se le autorità tedesche si rifiuteranno di rendere nota la lista dei capolavori razziati durante il nazismo e ora riemersi a Monaco, diversi studi legali newyorchesi oltre al mio sono pronti ad intentare una class action in nome degli eredi dei legittimi proprietari».
Parla David Rowland, l’avvocato newyorchese che rappresenta una quarantina di famiglie ebree il cui patrimonio artistico, defraudato dai nazisti, potrebbe essere finito tra le oltre 1.400 opere rinvenute a casa dell’ottantenne Cornelius Gurlitt, figlio di Hildebrand, mercante d’arte noto e attivo nel Terzo Reich. «Abbiamo chiesto alla Germania di rendere pubblica la lista del tesoro — spiega al Corriere Rowland, artefice di alcune delle più clamorose restituzioni degli ultimi anni — le autorità debbono pubblicare online le foto di ciascuna opera, fronte e retro, col nome dell’artista, luogo di origine ed eventuali passaggi intermedi».
Le autorità hanno già risposto che non lo faranno, invitando gli interessati a rivolgersi alla procura.
«Il metodo che propongono è il meno efficiente del mondo. Le persone rapinate dal nazismo sono centinaia di migliaia: dovrebbero forse scrivere tutte alla procura di Monaco che non possiede di certo uno staff in grado di gestire tale oceanica richiesta? Perché complicare tanto una faccenda così semplice?».
Forse per tenere a bada eventuali imbroglioni che potrebbero farsi avanti?
«A garantire la veridicità di ogni reclamo ci penserà come sempre un piccolo esercito di addetti ai lavori: storici dell’arte e curatori museali il cui verdetto è al di sopra di ogni sospetto».
Il procuratore di Monaco si è trincerato dietro le rigide leggi tedesche sulla privacy visto che è in corso un’indagine per evasione fiscale.
«Mi sembra solo una scusa. Mi deve spiegare come l’identificazione di quei quadri possa interferire con un’indagine di frode fiscale. I tedeschi hanno il dovere morale e legale di mettere in rete quelle informazioni».
Perché parla di dovere legale?
«Il documento approvato il 3 dicembre 1998 in occasione della “Washington Conference on Holocaust-Era Assets” crea un precedente giuridico importante perché in esso tutte le nazioni firmatarie, inclusa la Germania, si impegnano ad aiutare le vittime del nazismo nel loro sforzo per recuperare le opere d’arte confiscate dai nazisti».
Un giornale ebraico ieri ha accusato le autorità tedesche di complicità morale. E’ d’accordo?
«No. Dopo anni di lavoro nel campo della restituzione posso affermare che la maggior parte delle autorità tedesche hanno fatto un lavoro straordinario in questo campo. Ogni tanto ci si imbatte in uno scoglio burocratico, dovuto a incompetenza a livello locale. E’ il caso di Monaco».
Quei quadri potrebbero avere proprietari italiani?
«Certo, ma non lo sapremo finché non usciranno le liste complete. Non dimentichiamoci che dopo la guerra molti collezionisti lasciarono la Germania e l’Europa sparpagliandosi un po’ ovunque per il mondo».
Molti sono stati trucidati dai nazisti o sono morti.
«In quei casi la Conferenza di Washington prevede soluzioni “giuste ed eque”. Anche se non vinci una causa legale puoi sempre raggiungere un accordo extragiudiziario prima che quelle opere vengano reimmesse nel mercato. Perché nessuno è interessato a comperare un quadro che rechi tale indelebile macchia».
Potrebbero emergere altri tesori nascosti in futuro?
«Lo spero proprio. Si parla da tempo di vere e proprie collezioni segrete in Svizzera. Altre potrebbero trovarsi in Sud America.

Corriere 7.11.13
Aura, ovvero il sacro nell’arte
Per Walter Benjamin l’autenticità era un retaggio religioso
di Gillo Dorfles


Fino a che punto l’opera d’arte si può considerare unica? E quanto incide il fatto che sia invece un’imitazione? In altre parole il fatto d’essere irripetibile è davvero alla base della sua natura ed efficacia?
Queste sono solo alcune interrogazioni che creano lo scheletro del celeberrimo saggio di Walter Benjamin: «Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit», «L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica», del 1936.
Oggi, questo primo lavoro viene riproposto con l’aggiunta di moltissimi altri sui problemi della creatività e della interpretazione dell’opera (Walter Benjamin, Aura e choc , con un notevole elenco di saggi di Benjamin che si allargano alla fotografia, al teatro, al cinema, all’architettura, alla letteratura e che hanno sempre come base il problema di quanto l’arte possa o non possa essere imitata o riprodotta). Naturalmente il fatto di riprodurre un’opera d’arte non è soltanto legato a questioni di ordine tecnico, ma al fatto che un’opera di cui esistano vari esemplari più o meno simili o in qualche senso riassunti o adulterati, possa significare la scomparsa della loro efficacia. La differenza tra un’opera che sia «lecitamente riprodotta o riproducibile» e quella che invece lo sia per contraffazione o per altre ragioni improprie, costituisce una diversità notevole; e tuttavia, all’epoca attuale dove i mezzi elettronici hanno concesso l’assoluta riproducibilità di un’opera, le cose sono cambiate perché non è più possibile un’assoluta differenziazione tra capolavoro e riproduzione tecnicamente indiscutibile.
C’è tuttavia un elemento che dovrebbe essere la vera spia a determinare una irripetibilità — per quanto perfetta sia stata realizzata — ed è la presenza di quella particolare caratteristica che viene definita dall’autore come «aura». L’aura come afferma l’autore è: «Un singolare intreccio di spazio e tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina». Il concetto di aura parte da premesse relative alla nostra percezione e preparazione culturale; tuttavia si può affermare come appunto sostiene l’autore: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è la sua aura.
Naturalmente a questo punto una distinzione va fatta tra una copia di capolavori artistici e la volontaria esecuzione di nuove creazioni tematiche realizzate tuttavia con lo stile e la tecnica di quelle passate. Un caso tipico è quello dell’artista fiammingo Han van Meegeren, il quale ebbe a destare non solo scandalo per aver riprodotto i grandi maestri del suo paese, ma per aver creato ex novo delle opere figurative la cui tecnica e il cui stile — del tutto identici a quelli del passato — gli permisero di far «spacciare» addirittura alcune di queste opere come autentiche con l’approvazione e la giustificazione dei maggiori critici storici locali. Questo è ben diverso del famoso episodio dei falsi Modigliani, ritenuti autentici da alcuni dei più noti critici nostrani; comunque i due episodi dimostrano che una cosa è la riproducibilità dell’opera e un’altra è la sua vera e propria essenza.
Ed è qui che si innesta il problema molto discusso da Walter Benjamin, ossia la presenza di un’«aura» che costituisce o costituirebbe il vero carattere distintivo tra l’opera d’arte autentica e la sua imitazione o contraffazione. Che cosa sia l’aura, lo definisce Benjamin e si può senz’altro accettare la sua indicazione per quanto sia estremamente arduo precisare dove si trovino i confini che determinano la presenza o l’assenza di questa particolare condizione.
A questo punto sarebbe facile sostenere che il concetto di aura sia in un certo senso compromesso da insoliti modi di vedere e recepire un’opera d’arte: l’esistenza di un fattore magico è senza dubbio invocabile e sappiamo quante opere pittoriche e plastiche sono state «adorate» e venerate quali elementi sacrali o religiosi proprio per l’indefinibile qualità di una loro presenza auratica. Ma sconfinare nel campo della magia sarebbe scontato anche se la presenza di tante iconografie religiose e sacrali, di tante immagini del cristianesimo invocate e sublimate, non permettesse di attribuire a questi capolavori una proprietà trascendente, probabilmente dovuta non già alla qualità del dipinto, quanto alla condizione psicologica e addirittura psicotica dell’osservatore. Non sappiamo ancora se la qualità auratica presente in alcuni capolavori dell’antichità più remota e anche di quella abbastanza recente possa estendersi ai dipinti, alle sculture della contemporaneità; per ora non mi sembra che un Picasso o un Mondrian siano stati presi come forieri di funzioni metapsichiche e credo che la divinità del denaro abbia certamente soffocato l’eventuale presenza di una qualità trascendente che facesse capolino tra le pennellate dell’artista.
Il dilemma tra arte antica e moderna, tra sacralità e magia, tra superstizione e malocchio, ha sempre accompagnato numerose opere del passato e del presente; forse un’ aura malefica è più facile da consolidarsi che un’aura benefica; comunque il fatto di ammettere che un capolavoro del passato e anche dei nostri giorni possa avere un’influenza non solo mercantile ma anche morale e umorale, non può che essere accettata se non altro per condiscendenza, senza dimenticare che la presenza di un feticcio quale corrispettivo — positivo o negativo — di un’opera d’arte è stato da sempre una delle convinzioni o delle suggestioni dell’uomo.

Il libro: Walter Benjamin, «Aura e choc», Saggi sulla teoria dei media a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Piccola Biblioteca Einaudi, pagine 429, e 25

Corriere 7.11.13
Pirandello, scrutatore dell’anima
Una collana dedicata all’autore simbolo del ‘900 Si inizia oggi con «Uno, nessuno e centomila»
di Matteo Collura


Il Novecento europeo ha il volto e la cifra stilistica di alcuni scrittori che hanno saputo interpretarlo già al suo manifestarsi. Kafka, Musil, Mann, Céline, Svevo, Pirandello, solo per citarne alcuni. Tra questi è l’autore agrigentino a mostrare maggiore «precocità» nel decifrare il secolo in cui l’intera umanità verrà coinvolta in due guerre definite — mai successo prima — mondiali. Distaccandosi dal racconto d’ambiente e dal verismo di gusto ottocentesco, con Il fu Mattia Pascal (1904), Luigi Pirandello concepisce il romanzo «nuovo», specchio certo inquietante e paradossale, ma prodigiosamente rappresentativo del secolo appena iniziato. La metafora dello strappo nel cielo di carta di un teatrino, contenuta in quel romanzo, segnerà un prima e un dopo nella letteratura, soprattutto teatrale.
Colpisce il salto d’ispirazione e di resa narrativa in un libro pubblicato in seguito da Pirandello, ma il cui contenuto egli aveva certo maturato dagli anni della grande «illusione risorgimentale»: vecchi e i giovani . Di questo romanzo l’anno che si avvia a conclusione segnala il centenario (già apparso in una rivista nel 1909, fu pubblicato in volume nel 1913). Un’occasione da non perdere, questa, per ricordare un’opera importante, l’unica d’impianto storico dello scrittore premio Nobel, frutto del suo completo, nauseato distacco dalla politica, con il conseguente disinteresse per quella che viene definita letteratura d’impegno civile.
Scritto nel periodo più buio della sua vita coniugale, la moglie avviata al suo infelice destino, che la vedrà rinchiusa in una clinica per malati di mente, questo romanzo potrebbe spiegare perché Pirandello arrivò a fare — lui, nemico dichiarato della politica — una scelta di cui, se fosse vissuto oltre il 1936, forse si sarebbe pentito. Viene certamente da lì, I vecchi e i giovani , da quel grumo che gli era rimasto dentro dopo avere assistito al fallimento delle speranze del Risorgimento; e forse viene da quella stessa delusione la sua ostentata adesione al fascismo, proprio nel momento in cui il partito di Mussolini, a causa del delitto Matteotti, viveva l’ultima sua crisi prima della completa stabilizzazione.
Nato e cresciuto in una famiglia d’idee risorgimentali, dopo la laurea ottenuta a Bonn, come tanti altri meridionali del suo tempo, Pirandello approdò a Roma carico di speranze; per sé e per l’avvenire della neonata nazione che l’epopea garibaldina sembrava aver preparato. Ma si era ricreduto presto; e difatti con quel romanzo in cui sia la vecchia generazione sia la nuova tradivano le aspettative patriottiche, aveva inteso denunciare quella che in una lettera egli definì «la crisi di crescenza dell’Italia nostra».
Roma, che con Agrigento mostra due differenti ma complementari volti dell’Italia di allora, in I vecchi e i giovani è la capitale dove si consuma il dramma di una nazione nata dal sangue di uomini generosi quanto illusi. Già con Il fu Mattia Pascal , Pirandello era stato durissimo con la città eterna: «I papi ne avevano fatto — a modo loro, s’intende — un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa dà».
Emblema del disastro morale dell’intera nazione è lo scandalo della Banca Romana (1892), un ripugnante garbuglio politico-giudiziario in cui si trovano coinvolti sia esponenti della destra sia della sinistra storica. Tutti i potenti di allora — e le denunce in Parlamento di Napoleone Colajanni ne danno puntuale contezza — risultano invischiati negli illeciti della banca che era appartenuta allo Stato Pontificio. Tutti, da Giovanni Giolitti a Francesco Crispi, a Umberto I, sovrano d’Italia. E tutto viene insabbiato, i documenti fatti sparire.
Nel romanzo, lo scrittore sembra dare forma ai suoi incubi di cittadino tradito nelle legittime aspettative: «Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia… Certo, lo sdegno del paese nel veder così bruttati di fango alcuni uomini pubblici che nei begli anni dell’eroico riscatto avevano prestato il braccio alla patria, si rivoltava acerrimo, adesso, contro la gloria della Rivoluzione, scopriva fango pur lì… Era la bancarotta del patriottismo, perdio!».
Ma con I vecchi e i giovani l’autore regola i conti anche con la città in cui aveva preso moglie, segnando la sua infelicità. Girgenti (così si chiamò Agrigento fino al 1927), è il luogo che l’ha visto nascere e assorbire una perniciosa visione della vita. È il luogo dove spadroneggia il suocero, rude imprenditore e uomo accecato da una feroce gelosia. E Girgenti (e dunque la Sicilia) è anche il contraltare di quanto accade a Roma: nella capitale il fango dello scandalo, nell’isola la repressione di ogni speranza, con la proclamazione dello stato d’assedio da parte di Crispi e la sconfitta dei Fasci dei lavoratori.
«Paese morto», scrive Pirandello di Girgenti. «Tanto vero — dicevano i maligni — che vi regnavano i corvi, cioè i preti. L’accidia, tanto di far bene quanto di far male, era radicata nella più profonda sconfidenza della sorte, nel concetto che nulla potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose». In quella realtà cercava rifugio sua moglie, fuggendo da lui e lasciandolo solo a Roma. Erano i giorni in cui Antonietta Portolano assurdamente accusava il marito di rapporti incestuosi con la figlia Lietta. Come venir fuori da quel labirinto di orrori? La scrittura divenne la sua salvezza.
Da quell’inferno familiare presero corpo personaggi che resteranno eterni: Mattia Pascal; la signora Frola e il signor Ponza di Così è (se vi pare) ; il padre, la madre, la figliastra e madama Pace dei Sei personaggi in cerca d’autore ; Enrico IV; l’Uomo dal fiore in bocca ; Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila ; gli Scalognati, la contessa Else e il mago Cotrone dei Giganti della montagna … Tutta una galleria di simbolici interpreti del suo personale dramma, unica sua patria, ormai, l’arte (e Marta Abba, che agli occhi del Maestro ne è la più degna custode e interprete).
Era come un anestetico, per lui, scrivere; una liberazione, uno sfiatatoio indispensabile per l’accumulo di ansie, rabbie, impotenza. La moglie lo credeva un mostro. E forse Pirandello, a modo suo, lo era. Come tutti i veri grandi geni.

L’autore dell’articolo, Matteo Collura, è anche autore del romanzo biografico di Pirandello, «Il gioco delle parti», edito da Longanesi nel 2010


Repubblica 7.11.13
Albert Camus
Il filosofo della libertà dagli ipocriti
Lo scrittore avrebbe compiuto oggi cent’anni
Nelle sue opere si rintracciano un programma etico-politico una diagnosi impietosa dell’oggi e un’autentica idea del futuro
di Paolo Flores D’Arcais


PUBBLICHIAMO parte dell’intervento che Paolo Flores d’Arcais ha pronunciato ieri a una conferenza organizzata dalla città di Bellinzona con la Radio televisione della Svizzera italiana. Il testo integrale dell’intervento sarà disponibile da domani sul sito www.micromega.net. in formato ebook (al costo di euro 2,99). Nello stesso ebook è presente l'intervista alla figlia di Camus, Catherine, Mio padre, solitarie, solidaire. Per celebrare il centenario, dalla mezzanotte del 6 novembre alla mezzanotte del 7 novembre, tutti i 'navigatori' del sito possono scaricare gratuitamente l’ebook.

Considero Camus uno dei rarissimi 'filosofi del futuro', la cui impostazione di pensiero e il cui programma eticopolitico possano costituire un vero e proprio promemoria per una 'filosofia dell'avvenire' che provi a realizzare, all'insegna di un autentico realismo esistenziale, tanto Feuerbach («Io sono, anche quando penso, anche in quanto filosofo, un uomo insieme con altri uomini» e «la vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l'io e il tu») che Marx («I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo»).
Provo a trasmettere questa convinzione con qualche rapsodica citazione accompagnata da glosse amargine. (...) La scelta etico-politica di Camus nasce come indignazione di fronte a due evidenze intollerabili e concrete che in termini tradizionali potremmo definire una materiale e una spirituale. Cominciamo da quest'ultima: «Il grande peccato della società borghese è stato di fare di questa parola [libertà] una mistificazione senza contenuto».
L'ipocrisia, questo il peccato inespiabile della società borghese.Le promesse non mantenute, le parole tradite. I borghesi sono i farisei, i sepolcri imbiancati della nostra epoca. Quelli che ammantano le Costituzioni delle parole che incantano, che mobilitano, che guidano le rivoluzioni, che spingono fin al sacrificio della vita, o all'esilio, alla prigione, alla tortura (...), ma che immediatamente dopo calpestano nella vita politica quotidiana, nei gesti e nelle iniquità del potere, i valori con cui avevano 'rovesciatoil mondo'. C'è un dipinto/icona nella grande arte francese moderna, La libertà che guida i popolidi Delacroix, quella bellissima donna fiera e a seno nudo, che resta il 'J'accuse' contro ogni potere che l'ha infangata e umiliata. Del resto, gli editoriali di Camus suCombatcostituiscono la testimonianza e la cronaca giornaliera, talvolta ora per ora, dell'ultimo grande tradimento, quello delle speranze sollevate dalla Liberazione.
Dunque, la lotta contro l'ipocrisia, per la realizzazione dei valori scritti nelle parole umiliate e offese. Il carattere attualissimo di questa strategia politica che sembra poggiare su una modestissima istanza etica, recentemente lo si è potuto constatare due volte: nella lotta dei dissidenti contro i regimi comunisti dell'est, quando, a partire dalla lucida intuizione dei polacchi Kuron Modzelewski e Michnik, e con Havel in Cecoslovacchia, e via via amacchia d'olio, ci si limita a pretendere l'applicazione della legge che 'loro' hanno imposto, e che in teoria garantisce le più grandi libertà ai lavoratori nei 'paradisi' in fieri del 'socialismo'. Inchiodando così i regimi alla loro contraddizione, facendo delle parole del regime l'arma sovversiva e libertaria contro le sue pratiche totalitarie di potere.
Oggi, in condizioni meno drammatiche e soprattutto meno visibili, più anestetizzate, la stessa cosa accade nelle società occidentali. Le Costituzioni contro il potere, le Costituzioni come programma politico di cambiamento radicale. Del resto, cosa c'è di più estremista della triade 'Libertà, eguaglianza, fratellanza', dove ogni valore successivo è l'interprete autentico di quello precedente? Scolpito a lettere d'oro in tutti gli edifici pubblici e calpestato senza ritegno nelle politiche sostantive del privilegio e della menzogna? Della nostra Costituzione repubblicana non aggiungo, poiché lo hanno già fatto i cittadini scendendo in piazza qualche settimana fa per chiederne la realizzazione.
E veniamo all'intollerabile evidenza materiale: «La cupidigia, l'egoismo infinito, la cecità soddisfatta, i bassi privilegi delle nostre classi dirigenti» condannano «la viltà della società borghese». Camus scrive queste righe nel periodo dell'immediato dopoguerra, quando i sacrifici della ricostruzione non venivano ripartiti secondo 'equità' se non nelle retoriche dei politici e della stampa conservatrici. Eppure quelle diseguaglianze, che negli anni sessanta e settanta avrebbero visto significative limitazioni, grazie al combinarsi del boom economico e dell'onda lunga del sessantotto, sono ingiustizie da dilettanti rispetto al loro disfrenarsi incontrollato e spudorato che sta travolgendo le democrazie della crisi finanziaria.(...) Tiriamo allora la prima somma: per Camus, rifiutare l'ipocrisia e volere la democrazia significa automaticamente essere di sinistra. «Sono nato in una famiglia, la sinistra, nella quale morirò». Di questa famiglia, tuttavia, gli è «difficile non vedere il decadimento». Ancor più difficile non considerare questeparole come una diagnosi impietosa dell'oggi. Perché la sinistra di cui era «difficile non vedere il decadimento » era ai tempi di Camus quella comunista. Quella di una minacciata rivoluzione, che però tradiva già nel suo progettarsi, perché «anche e soprattutto quando si dichiara materialista, è solo una smisurata crociata metafisica». Che all'inizio si manifesta attraverso i suoi martiri, e perciò si confonde con la rivolta autentica, ben presto, però, «sopraggiungono i preti e i bigotti». Contro quella sinistra Camus appoggerà ogni dissenso nell'est, e nel 1956 sintetizzerà così il dovere di una sinistra autentica «L'Ungheria sarà per noi ciò che fu la Spagna vent'anni fa».
Ma la sinistra di oggi, il cui 'decadimento' è peggio che tracollo, e per la quale le parole di Camus contro l'ipocrisia borghese sarebbero a malapena sufficienti, è ormai diventata parte integrante dell'intreccio politico-finanziario-corruttivo (con crescenti 'dependance' mafiose) che caratterizza, in dosaggi diversi, ogni establishment occidentale. (...) Camus militante di sinistra, senza se e senza ma, e dunque senza nessuna accondiscendenza per chi i valori della rivolta tradisce, infanga, dimentica. Il primo di quei valori è il rifiuto della menzogna. «La libertà consiste in primo luogo a non mentire». La menzogna, infatti, distrugge «la complicità e la comunicazione scoperte attraverso la rivolta ». Perfino profetico, infine, il Camus che vede il tradimento comunista della rivolta e l'ipocrisiaborghese contro la democrazia condividere un cinismo morale che sembra rendere possibile una «fusione della società poliziesca con la società mercantile». (...) Ma l'intransigenza etica e la dirittura politica, irrinunciabili, non hanno in Camus mai la iattanza della certezza, anzi. «È possibile fare il partito di quelli che non sono sicuri di avere ragione? Sarebbe il mio». In totale consonanza con un verso del suo grande amico René Char, tra i più grandi poeti del secolo, e 'capitaine Alexandre' nella Resistenza: «Il dubbio si trova all'origine di ogni grandezza». Ecco perché, allora «la misura non è il contrario della rivolta». Anzi, «se la rivolta potesse fondare una filosofia, sarebbe una filosofia dei limiti, dell'ignoranza calcolata e del rischio». L'uomo incerto, l'uomo del relativo, e che perciò si impegna. Poiché nulla è garantito, poiché tutto è esposto allo scacco, e dunque ciascuno è responsabile di quel poco di senso - fragile, parziale, definitivamente provvisorio - che possiamo consegnare all'esistenza.

Repubblica 7.11.13
Quel finto attentato organizzato dal Kgb
Un libro rilancia una tesi senza riscontri: l’autore della “Peste” fu ucciso
di Giuseppe Dierna


È imbarazzante dover difendere il Kgb, ma ci sono troppe cose – be’, diciamo: tutte - che non quadrano nel volume di Giovanni CatelliCamus deve morire,per credere davvero che il feroce apparato sovietico possa aver organizzato l'incidente automobilistico in cui il 4 gennaio 1960 è morto Albert Camus insieme al suo editore Michel Gallimard, mentre moglie e figlia di quest'ultimo ne uscivano quasi illese.
Qual era (qual è) la tesi sostenuta? Sulla base di una quindicina di righe annotate nel 1980 nel proprio diario dal poeta e traduttore ceco Jan Zábrana (che dice di aver avuto l'informazione da «un uomo che conosce parecchie cose »), Catelli sostiene che un intervento di Camus suFranc-Tireur del marzo 1957 in difesa degli insorti ungheresi e di condanna del cruento intervento sovietico aveva indotto l'allora ministro Dmitrij Šepilov – esplicitamente chiamato in causa – a ordinare la sua eliminazione fisica.
È chiaro che Zábrana va a memoria, e anche maldestramente. Šepilov viene infatti da lui definito ministrodegli Interni,mentre era agli Esteri, ma soprattutto sia lui che Catelli (che corregge senza dir nulla l'errore e parla di 'esattezza assoluta') sembrano ignorare il successivo destino del presunto carnefice di premi Nobel che, accusato di aver ordito - insieme al più noto Molotov - un tentativo di colpo di Stato, viene destituito già nel luglio del '57 e spedito come ambasciatore in Mongolia. E gli era andata anche bene che le destituzioni non passassero più per il plotone d'esecuzione, ma sembra lo stesso poco probabile che dall'impervia Mongolia egli potesse gestire stragi di cittadini francesi. Del resto gli interventi pubblici di Camus sull'Ungheria erano finiti nell'ottobre del '57 (con un'appendice nel dicembre '58), e il filosofo era ormai interamente assorbito dal turbolento evolversi della situazione nella sua Algeria. Nel '60 erano scomparsi entrambi dalla scena, e la vendetta inutile e tardiva.
E come sarebbe stato compiuto l'attentato? Scrive Zábrana: «pare avessero danneggiato un pneumatico dell'auto, utilizzando un marchingegno che con l'alta velocità lo aveva tranciato o perforato». Il suo informatore sembra più un assiduo frequentatore dei film di James Bond, e certo gli dev'essere rimasta impressa la nota sequenza inMissione Goldfinger, lì dove Bond fa uscire dalla ruota della sua Aston Martin dei coltellini rotanti che squarciano i copertoni della sua inseguitrice, anche se nel caso di Camus viene non meno fantasiosamente prospettato un meccanismo che blocchi o faccia scoppiare la gomma dall'interno.
Con pericolosa reazione a catena, già un paio di anni fa la notizia (diciamo: la farlocca congettura) era lievitata in rete, per cui lo scrittore Catelli diventava, in pochi passaggi, uno 'slavista', e infine un più affidabile 'universitario', mentre la fonte di Zábrana, lo sconosciuto «che conosce parecchie cose», si trasformava con delirante automatismo prima in un 'agente sovietico' e infine in uno che frequenta i piani alti del Potere. Dal canto loro, i maggiori biografi di Camus (Olivier Todd, Herbert Lottman, Michel Onfray) avevano all'unisono bollato come priva di fondamento tale ipotesi.
Ma torniamo a questo fantomatico informatore che – annota Zábrana - «si era rifiutato di dirmi come aveva ottenuto l'informazione, ma sosteneva che era del tutto sicura e che lui sapeva con assoluta certezza che era andata proprio così». Informatore e garante allo stesso tempo. Per chi in quegli anni ha frequentato i paesi dell'Est, l'uomo 'informato su fatti segreti' era una figura ricorrente. Giovanotti ben informati assicuravano che Jaroslav Hašek, quand'era in Russia sul finire della Guerra Mondiale, aveva ordinato fucilazioni in massa di suoi connazionali. Per capire l'epoca e il tipo di circolazione delle notizie basta d'altronde leggere, nel diario in questione, poche pagine prima, lo “scoop” di un amico che confida a Zábrana – da fonti certe – che il Pulitzer quell'anno l'avrebbe avuto Milan Kundera. Ma il Pulitzer è un premio per americani.
Insomma, il diario di Jan Zábrana, ricco peraltro di interessanti notazioni, era uscito a Praga nel 1992 (poi di nuovo nel 2001), e lì in questi vent'anni nessuno – conoscendo bene l'epoca, ansiosa e un po' paranoica, che le aveva generate – mai aveva pensato di prendere sul serio le 15 righe sul 'delitto Camus'. E che poi queste – come subdolamente lamenta Catelli - manchino nella versione francese e italiana (uscita col titoloTutta una vitapresso la :duepunti edizioni) non stupisce affatto, avendo il curatore Patrik Ourednik scelto solo un centinaio delle originarie millecento pagine. Quelle credibili.