venerdì 8 novembre 2013

l’Unità 8.11.13
Caos congressi, alt al tesseramento
Intesa tra i candidati: stop da domenica, oggi la ratifica della direzione
Annullato voto di Rovigo, rinvio per decine di altre assise
di Maria Zegarelli


ROMA Un’altra giornata di passione per il Pd alle prese con le regole e i ricorsi congressuali. Seduta fiume ieri finita in tarda serata per esaminare i casi di irregolarità anche pesanti, oltre che di errori procedurali nei congressi territoriali. Confermato lo stop al tesseramento a partire da domenica sera dopo che si è raggiunto l’accordo tra i quattro candidati. La decisione dovrà però essere suggellata dall’ok della direzione nazionale che avverà oggi in una forma inedita:
via email con la clausola del silenzio-assenso. L’unanimità dei quattro competitor è arrivata quando sono state garantite le condizioni poste soprattutto da Pippo Civati e Gianni Pittella che all’inizio avevano detto no al blocco del tesseramento: focus sui punti caldi, valutare l’anagrafe degli iscritti, sanzioni pesanti per le irregolarità, sanare le irregolarità.
Dopo aver esaminato decine e decine di casi la Commissione Garanzia ha preso alcune decisioni: si va verso l’annullamento del congresso di Rovigo; convocata la federazione di Asti (9 circoli) per lunedì; da rifare 36 congressi (su 80) a Frosinone, dove la commissione ha deciso di inviare Margherita Miotto come osservatrice; validi, invece, i risultati di Piacenza. Sotto esame Cosenza (a rischio i congressi di alcuni circoli), Lecce (è necessario un supplemento di indagini prima di effettuare i congressi). Le due commissioni, quella per il Congresso e quella di Garanzia, presieduta da Luigi Berlinguer, hanno lavorato parallelamente e alla fine hanno esaminato anche lo stop al tesseramento dopo che il segretario aveva parlato senza convincerli con i due candidati (Gianni Pittella e Pippo Civati) ostili al blocco del tesseramento a partire da lunedì.
Gianni Cuperlo, quando ha visto il numero uno del Nazareno gli ha ribadito che il blocco del tesseramento è necessario per mandare un segnale. «Sospendere il tesseramento spiega non vuol dire comprimere la partecipazione, ma evitare altri fenomeni che non fanno il bene del Pd. La partecipazione sarà garantita a tutti quelli che vorranno partecipare alle primarie dell’8 dicembre, ma ora valorizziamo gli iscritti, diamo un segnale a queste persone». E sulla questione anche Matteo Renzi si è detto d’accordo, tanto più che a mettersi di traverso ci sono gli altri due candidati e quindi per una volta la battaglia sulle regole la lascia fare ad altri. Il responsabile organizzazione del partito, Davide Zoggia, ha definito tutta questa vicenda riconducibile di qualche «ras di provincia». Ras di provincia e basta? Pippo Civati non ci sta a questa lettura. «È scandaloso dire così: o i nostri candidati sono dei deficienti, oppure dovrebbero conoscere i loro sostenitori a livello locale». Pittella (oggi sarà alle 17,30 al centro congressi Frentani, per la sua convention nazionale), ieri era più morbido sulla possibilità di chiudere il tesseramento domenica sera, ma al segretario ha chiesto massimo rigore e annullamento di tutti quei congressi che non si sono svolti regolarmente. «Il tesseramento si è concluso ha commentato perché il gonfiamento delle tessere è legato ai congressi dei circoli, che si sono conclusi. Prendere una decisione oggi è intempestivo. Sono regole da ospedale psichiatrico».
Di casi eclatanti ce ne sono parecchi, la commissione di Garanzia li ha passati al setaccio, ma i malumori sul territorio si sprecano. A Torino, per esempio, il neo segretario di circolo di Barriera di Milano è Vincenzo Iatì, che ha precedenti per furto e ricettazione, vicende del passato, certo, lui si difende dicendo: «non ho ucciso nessuno», ma i fatti li conoscono tutti.
«I partiti, il Pd, vanno rinnovati e rivoltati ma non cancellati. Questo e non altro è il senso della nostra preoccupazione. Ci rivolgiamo lancia intanto l’appello mentre le riunioni delle Commissioni sono in corso patrizio Mecacci, coordinatore del comitato Cuperlo a chi ha a cuore il partito e a chi pensa che non c’è sinistra senza una forma di organizzazione e radicamento nella società».
Renzi si smarca dal dibattito e in un’intervista a Repubblica dice: «Il paradosso è che se la prendono con me. Sono stato l’unico a dire: facciamo prima le primarie, lasciamo dopo la partita dei congressi locali e degli iscritti». Va bene anche lo stop al tesseramento, aggiunge, ma «la prossima volta cosa mi chiederanno? Di ritirarmi? Non volevo questo calendario ma sembrava che avessi paura del giudizio degli iscritti e sono stato buono». Quanto al rischio di un calo alle urne sgombra il campo: «Continuo a pensare che la legittimazione di un segretario votato da milioni di persone sia superiore a quella di un leader votato da poca gente» e «se vinco il mio Pd non sarà mai un partito autoreferenziato». E se Francesco Boccia, lettiano della prima ora, avverte Renzi, deciso a ricandidarsi anche alla carica di sindaco, «penso che quando scoprirà quanto sia intenso il lavoro del segretario, probabilmente deciderà di fare solo quello» e si augura che si candidi alle europee (auspicio legato alla speranza di vedere l’attuale premier,possa tornare a Palazzo Chigi con il voto degli italiani), Renzi non rinuncia ad una stoccata al governo, a Enrico Letta e a Guglielmo Epifani. Ospite di Michele Santoro, su La7, torna sulla vicenda della ministra Annamaria Cancellieri: «Credo che sia inaccettabile che sia andata a finire così, se io fossi stato il segretario del Pd non l’avrei difesa, se lei si fosse dimessa avrebbe reso un servizio al Paese. In Italia le dimissioni le chiedono tutti e non le dà nessuno. Letta non gliele ha chieste». Un’altra dichiarazione che non piacerà a Palazzo Chigi, né al Nazareno.
Cuperlo, invece, dice che se vincerà il suo primo atto pubblico sarà «una grande campagna di comunicazione contro la povertà minorile nel nostro Paese. Siamo la maglia nera in Europa: un minore su quattro vive una condizione di difficoltà. Ne farei una grande battaglia di progresso e civiltà».

La Stampa 8.11.13
Il caso tesseramenti. Lo scenario a un mese dalle primarie
Pd, a un passo dal caos totale
In gioco l’essenza del partito
Al centro nessuno si è occupato di smantellare molte reti di potere locali
Epifani amaro: “Non voglio chiudere il mio mandato così”
di Federico Geremicca


Come tutte le brutte faccende, anche il triste romanzo a puntate dei brogli nel tesseramento Pd può esser affrontato da diversi punti di vista.
C’è quello di Epifani, segretario-traghettatore, che ieri in un colloquio col candidato Civati ha confessato la sua grande amarezza. «Dopo tanti mesi di lavoro ha lamentato l’ex leader della Cgil non voglio chiudere il mio mandato così...». E c’è quello di chi osserva da tempo la faticosa evoluzione dei democratici: e non può far a meno di ricordare che, giusto un anno fa, di questi tempi, la faccenda era più o meno la stessa.
Nel novembre scorso l’incendio divampò intorno alle primarie per la scelta del candidato premier: Renzi in campo contro Bersani, e polemiche su chi poteva votare e chi invece no, veleni intorno all’apertura o meno del ballottaggio a chi non avesse partecipato al primo turno, insinuazioni sulla possibilità che elettori di centrodestra avrebbero potuto condizionare o addirittura determinare il risultato finale... È passato un anno, e quel che si può dire oggi è che la lezione non è servita: oppure, più semplicemente, che qualcuno l’ha dimenticata.
Sia come sia, oggi la situazione è questa: a un mese esatto dalle primarie per la scelta del nuovo segretario del Pd, il partito sembra viaggiare a fari spenti nella nebbia; non si sa ancora se e quali congressi (di circolo o provinciali) verranno annullati, non si sa ancora se i voti espressi in quelle sedi saranno cancellati diciamo così o se verranno comunque computati; non si sa quali e quanti dei candidati (quattro) accetteranno la proposta di chiusura del tesseramento entro domenica; e non si sa neppure cosa chiederanno in cambio per non ricorrere alle carte bollate, mandando in malora quello che viene orgogliosamente definito (e che ancora può confermarsi tale) «un grande esercizio di democrazia».
«Se continua così, se non fermiamo questo andazzo lamentava ieri Guglielmo Epifani rischiamo che alle primarie non venga a votare nessuno...». È certamente un problema: ma lo è, allo stesso modo, interrogarsi sul perché delle dilaganti degenerazioni: e darsi una risposta. Una delle chiavi di lettura possibili è il «doppio binario» che caratterizza i congressi da quando sono state introdotte le primarie. Un doppio binario ed un doppio livello, ad esser precisi: quello alto diciamo così dell’elezione del segretario da parte di milioni di cittadini; e quello basso dell’elezione dei gruppi dirigenti locali.
Immaginare che l’impegno e l’interesse dei militanti, degli iscritti e dei dirigenti periferici sia catalizzato esclusivamente o soprattutto dall’elezione del leader, significa non conoscere i meccanismi di funzionamento di un partito ancora ben strutturato sul territorio. Infatti, sono i livelli di direzione locale cioè i segretari di circolo, e quelli provinciali e regionali a gestire importanti «posizioni di potere» in assoluta autonomia da Roma: dai candidati alle cariche elettive locali e perfino alle elezioni nazionali, passando per la quantità di «poltrone» da assegnare tra consigli di amministrazione ed enti vari, è sul territorio che vengono effettuate una gran quantità di scelte importanti. Ed è sul territorio, dunque, che infuria la battaglia in occasione dei  Congressi.
È anche per questo che daqualche giorno in casa pd si attribuiscono a «ras locali» e non ai candidati alla segreteria nazionale le responsabilità di quel che va scandalosamente accadendo: non è un alibi, un tentare di scaricare altrove le colpe del Grande Pasticcio quanto piuttosto l’accendere i riflettori su un problema che andrebbe però affrontato con ben altro polso. Per quieto vivere o per incapacità (e talvolta perfino per corresponsabilità) si è finora preferito lasciar correre, stendere un velo: non è affatto una buona scelta, a giudicare dai risultati.
LE DUE VIE
Un partito-strutturato tipo la «ditta» di Bersani o liquido, alla Renzi?
Ma all’ombra dei brogli e dello sgomitare dei «ras locali» c’è un’altra battaglia che si combatte all’ombra di questo travagliatissimo congresso Pd: e cioè lo scontro tra il partito-strutturato (il partito-ditta, avrebbe detto Bersani) e il partito-liquido (il partito-comunità, direbbe Renzi). Ed è uno scontro che potrebbe assumere i contorni del «giudizio finale», se a vincere alla fine dovesse essere il sindaco di Firenze. Il bivio è chiaro: da una parte una forma partito così come oggi nota (il modello del secolo scorso, per capirsi), dall’altra una via del tutto nuova. Difficile dire quale può esser la strada migliore: facile affermare, invece, che i due modelli non possono coesistere. Come dimostrano i venefici intrecci di queste ore...

il Fatto 8.11.13
Ex Margherita Giuseppe Fioroni
“I capibastone? Sono carne della carne del Pd”
di Luca De Carolis


Colpa dei capibastone? Chi vuole guidare un partito deve conoscere i territori, la sua gente. Perché sono carne della sua carne”. Giuseppe Fioroni, deputato Pd, area popolari, parla di “grave sottovalutazione” del tesseramento gonfiato. Ma non vuole che si scarichi la colpa sui dirigenti locali: “La responsabilità è dei quattro candidati, e in particolare di Renzi, quello con più chance di vittoria nelle primarie”.
Onorevole, i congressi locali sembrano divorare il Pd, come un virus.
Innanzitutto ricordo che siamo l’unico partito italiano che ha le primarie: litighiamo e ci dividiamo, ma apriamo alla partecipazione della gente come nessun altro.
Ma il caso tessere è una bella rogna. Era prevedibile?
Avevo posto il tema delle regole sbagliate in tempi non sospetti. L’avevo detto che il tesseramento last minute si presta a degenerazioni. Ma la questione è stata gravemente sottovalutata dai quattro candidati. Dopo le prime avvisaglie, dovevano subito chiedere lo stop alle iscrizioni e norme aggiuntive.
E invece...
L’unico che chiede di fermare tutto da settimane, giustamente, è Cuperlo, che ha mostrato vero attaccamento alla sua gente.
Renzi ha accusato i comitati elettorali “per la discussione sulle false tessere”, ed è rimasto silente sino a due giorni fa.
Matteo sta sbagliando. Nessuno può dire “mi scanso”, come se questa vicenda non lo riguardasse. Il Pd è il suo partito, e lui ne fa parte a pieno titolo. Non si può girare dall’altra parte. Il suo mancato intervento è un grave errore, figlio di una logica da “noi” contro di “voi”.
Molti stanno salendo sul carro dell’ex rottamatore: anche dal Pdl.
Questo lo dice lei. Io le rispondo così: se in tanti salgono su un carro, chi lo guida deve saper tirare la “martinicchia”, ovvero il freno, come dicono dalle mie parti, nel Viterbese. Altrimenti finisce per andare a sbattere.
Secondo il responsabile organizzazione, Davide Zoggia, i candidati non hanno responsabilità in merito alle “anomalie”, perché non sanno quello che accade sul territorio. A suo dire, “è colpa di qualche ras di provincia”.
Chi si candida a segretario nazionale deve conoscere il territorio, deve amare i coordinatori di circolo, i segretari provinciali, i membri dell’assemblea, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta. Sono la sua gente, la carne della sua carne.
Ma i candidati controllano ancora i capibastone?
Magari ci fossero ancora i veri capibastone! Non esistono più.
Nei circoli se ne trovano, eccome.
Il problema viene sempre dalla mancanza di regole ben fatte. Queste regole sono state scritte assieme ai candidati: non è prova di autorevolezza e coerenza prendere le distanze da ciò che hanno condiviso.
Lei ha anche proposto un blog, infiltrati.primarie.it , dove denunciare anomalie.
È solo una provocazione per far sì che i controlli non vengano visti come respingimenti. Il rischio è molto alto.
Ai tempi della Dc e del Pci queste cose non succedevano: lo dicono in tanti.
Condivide?
A quei tempi la gente prendeva la tessera perché credeva in qualcosa. Poi, molto dopo, sceglieva qualcuno. Ora invece si punta sul leader e non più sui valori e sulle idee. I partiti stanno diventando comitati elettorali.
In diversi temono che Renzi acceleri il fenomeno.
Ho detto più volte che lui potrebbe essere un buon candidato. Ma il Pd non deve ammalarsi di berlusconite postuma, e in certi suoi discorsi rivedo il morbo. Matteo non deve tornare indietro al modello del presidente “operaio e padrone”. E deve evitare il populismo elastico di chi dice a ognuno quel che vuole sentirsi dire.

Corriere 8.11.13
Congressi, non fabbriche del voto
Il confronto politico da rivalutare
di Paolo Franchi


Polemiche furibonde sui numeri congressuali. Colpi sotto la cintola. Tesseramenti gonfiati. Pacchetti di deleghe in movimento. Di simili e altre analoghe sgradevolezze si nutre il tormentone quotidiano del Pd. Una novità inquietante? Fino a un certo punto. Per dire: correva l’anno 1965, e già dilagavano gli iscritti fantasma pescati a caso dagli elenchi telefonici, quando, alla Conferenza nazionale della Dc di Sorrento, Oscar Luigi Scalfaro suggerì sarcastico di celebrare la «festa del socio» il 2 novembre, giorno dei morti. Per dire: il vecchio Pci iscriveva, nelle regioni rosse, intere famiglie, consegnando al babbo le tessere di nonni, mogli e figlioli. Per dire: nel Psi degli anni Ottanta, il cui segretario Bettino Craxi veniva eletto direttamente dal congresso (a Verona, nel 1984, addirittura per acclamazione), nessuno avrebbe potuto indicare a quanto davvero ammontasse la sinistra interna, che veleggiava quasi per convenzione tra il 25 e il 30 per cento.
Ma c’è un ma. Nemmeno nelle loro stagioni più oscure a nessuno di questi partiti del passato (così come a nessun partito socialista o conservatore europeo del presente) sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di ridurre il congresso a una pura e semplice conta interna di voti, saltando a pie’ pari persino il simulacro di un confronto politico. Giovani cronisti, nei congressoni democristiani compulsavamo l’espertissimo Arturo Parisi perché ci aiutasse con i suoi dati precisi fin nei dettagli a venir fuori dal labirinto delle percentuali spesso truccate, sempre discordanti, che ci venivano offerte dai factotum delle correnti: alla tribuna, però, si succedevano i protagonisti, e i loro interventi, così come i loro accordi e i loro disaccordi, pesavano sull’esito politico del congresso più dei numeri, veri o falsi che fossero, esibiti in partenza dai mozzorecchi. Nel congressi del Pci la commissione elettorale, quella che molto autorevolmente proponeva all’assemblea i nuovi organi dirigenti, era la più ambita: ma il dibattito congressuale c’era, e la lotta politica pure, nonostante il centralismo democratico. Potremmo continuare, estendendo il discorso a tutti gli altri partiti italiani, ma ci fermiamo qui. E, per avvicinarci alla novità vera introdotta dal Pd, prendiamo in prestito le parole di uno che se ne intende, Goffredo Bettini: «Ho visto che ci sono state situazioni in cui l’ultimo giorno di voto gli iscritti sono zompati da 100 a 350, 400... Ho letto lettere agli iscritti dove erano indicati orari del voto e poi “eventuale discussione politica”». Forse era un ingenuo chi, all’indomani della sconfitta elettorale, invocava per il Pd (se non ora, quando?) un congresso finalmente “vero”. Ma la possibilità di un congresso in cui la discussione politica fosse retrocessa al rango di una eventualità, più o meno come un buffet o l’esibizione di un cantante, non l’aveva messa in conto nemmeno il più caustico degli osservatori.
Invece le cose sono andate, stanno andando, proprio come dice Bettini, e pure peggio. Può darsi, anche se non lo credo affatto, che un congresso ridotto a “votificio”, e un partito (ammesso che il Pd sia mai stato tale) trasformato in comitato elettorale, siano l’indotto, tanto sgradevole quanto inevitabile, della modernità, anzi, della post modernità politica. Ma è meglio stare ai fatti. Il Pd è stato a lungo rappresentato, per dolersene o per compiacersene, come l’ultima forza simile a un partito presente sul mercato politico. Bene, anzi, male, malissimo: questa rappresentazione forse era sbagliata già ieri, sicuramente lo è oggi. Quando il Pd si manifesta ormai quasi ufficialmente, seppure con delle sacche di resistenza, come un non-partito che si dilania attorno a un non-congresso. E quindi si dà le regole, o le non-regole, del caso. A cominciare dalla madre di tutte le follie, che prevede due platee elettorali diverse, la prima, ristretta, formata dagli iscritti (compresi quelli dell’ultimissima ora), chiamata a decidere sui dirigenti di base e intermedi, la seconda, potenzialmente infinita, chiamata a eleggere, attraverso le mai abbastanza lodate primarie, il segretario e magari pure il candidato premier. Fermo restando, naturalmente, che di politica, cioè di programmi, di valori, di alleanze, di idee di Paese, non discuta nessuna delle due.
PS. Il giovane e brillante neosegretario del circolo di Pd di una bella cittadina del Basso Senese mi ha spiegato, moderando il suo sconcerto con una buona dose di garbata ironia, che gli iscritti hanno un potere in più di quelli sopra sommariamente indicati: sulla base del loro voto si forma infatti, se ho capito bene, la terna dei candidati alle primarie, che al momento sono quattro. C’è da immaginare che questo significativo passo avanti della democrazia interna sarà salutato con il plauso che merita da tutti. A eccezione, naturalmente, dell’escluso.

Corriere 8.11.13
Il piano per «contenere» il sindaco
Lo sfogo con i suoi: pronti ad abbattere tutto per farmi la guerra
di Maria Teresa Meli


ROMA - È il vincitore annunciato. E scontato. Perciò non si può fare altro che sfregiarlo. Delegittimarlo. Arginarlo. Tentare di renderlo, se non innocuo (impresa improba, visto il personaggio), quanto meno un segretario ridimensionato. Magari votato da poco più di un milione di elettori. Quando quelli di Veltroni e, persino, di Bersani sono stati più di 3 milioni.
Meglio ancora se si riesce a sconfiggerlo almeno sul fronte delle elezioni dei delegati, che riguarda solo gli iscritti. Il fronte anti-Renzi si muove ormai senza remora alcuna: non importa se il Pd resterà ammaccato, quel che conta è che il futuro segretario non ottenga una vittoria indiscutibile. Quindi va bene tutto. Serve soprattutto la drammatizzazione delle tessere gonfiate, che è un ottimo respingente per le primarie che verranno. «Tutto serve per attenuare il successo di Matteo», ironizza Angelo Rughetti. E Antonio Funiciello, responsabile Comunicazione del Pd, richiama tutti all’ordine: «Ragazzi, avete capito bene come funziona il giochetto? Prima tentano di inquinare le primarie, dicendo che chiunque fa votare chiunque, dagli albanesi ai cinesi, persino nelle votazioni riservate agli iscritti, lasciando intendere che alle primarie, quando si presenteranno ai gazebo cittadini che non frequentano i circoli del Pd, può succedere di peggio. Poi tenteranno di sabotarle: meno gente vota meglio è, perché così sperano che Renzi conti di meno».
Il sindaco di Firenze sa bene a che gioco stanno giocando i suoi avversari, ma si rifiuta di sedersi a quel tavolo e non vuole nemmeno vedere quelle carte. «Noi — spiega ai fedelissimi — non ci dobbiamo immischiare in queste storie. Se ci facciamo tirare dentro queste beghe è peggio. Finiamo per sembrare come loro, come quelli che stiamo combattendo politicamente. E invece noi rappresentiamo, anzi, siamo il cambiamento». Il gioco degli avversari è chiaro a Renzi, ma il primo cittadino di Firenze non vuole cascarci, preferisce fare finta di niente, per quanto gli è possibile: «È chiaro che stanno alzando i toni, enfatizzando la storia delle tessere gonfiate perché vogliono che venga meno gente possibile a votare alle primarie. Così pensano che la percentuale di Cuperlo aumenti e che, soprattutto, io venga votato da molta meno gente dei miei predecessori. È una battaglia indecente quella di chi, per combattermi, ha scelto questo campo, e non sto parlando di Gianni, perché è una battaglia in cui si è pronti ad abbattere il Pd pur di farmi la guerra. Si vuole creare un clima per cui la gente pensi: che vado a votare a fare per un partito che fa schifo, che fa le tessere false? Meglio Grillo, meglio astenersi».
È amareggiato e stupito, il sindaco di Firenze, perché non si aspettava tutta questa furia. Eppure tutto di lui si può dire tranne che sia un ingenuo. I suoi sono sul piede di guerra. Lorenzo Guerrini è sicuro: «A questo punto dobbiamo vincere anche la battaglia sui circoli e i segretari provinciali, sennò è un casino». Ma intanto il tam tam per delegittimare le primarie continua indefesso: «Se per avere una gara pulita non valgono nemmeno i 15 euro che si pagano per comprare la tessera — spiega Beppe Fioroni — figuriamoci che competizione sporca si può avere con le primarie in cui bastano due euro per votare».
Già il leitmotiv degli avversari di Renzi è sempre lo stesso. Non riuscendo a batterlo, l’unica è inficiarne la vittoria. E, magari, immaginare una prospettiva diversa. Una scissione a destra, dei popolari di Fioroni, che potrebbero andare con gli «innovatori» del Pdl, nel caso in cui dicessero addio a Berlusconi. E una a sinistra, immagina qualcuno.
Ma da quelle parti tira aria diversa. E tutti guardano a D’Alema, convinti che l’ex premier dopo l’otto dicembre tenterà l’accordo con Renzi. Se non altro perché, come ha ammesso lo stesso Bersani agli amici, da qualche tempo in qua il rapporto di forza nel Pd è cambiato: «Prima era due terzi agli ex Ds e un terzo agli ex Margherita, ora è esattamente il contrario». E se non si vuole fare della sinistra una «bad company» bisognerà trattare con Renzi, assicura un dalemiano di lunghissimo corso. Il quale, forse, non sa qual è la parola d’ordine del sindaco di Firenze: «Se vogliono restare in politica vadano pure in Europa». Come a dire, chi non vuole ancora rinunciare alla politica si acconci a giocarci fuori dall’Italia.

Repubblica 8.11.13
“Contano gli iscritti non solo le primarie così i renziani fanno morire il partito”
Cuperlo: va bloccato tutto per dimostrare che siamo sani
I militanti sono un patrimonio di impegno civile. E attenti a non ridurre il segretario ad una caricatura
intervista di Giovanna Casadio


ROMA — «Attenti a non ridurre il segretario del Pd a una caricatura ». Gianni Cuperlo, lo sfidante di Renzi alla guida del partito, difende gli iscritti, «il radicamento del partito». Non le regole che i Democratici si sono dati. Anche se il congresso, dice, non è certo una discussione sulle regole, ma sul Paese, sulla giustizia sociale e i diritti. Sui tesseramenti gonfiati, non accusa i renziani, però rilancia: «Si blocchi tutto e si annullino i casi controversi».
Cuperlo, come si è arrivati dall’orgoglio dei tesseramenti alla vergogna delle tessere gonfiate, dei brogli nei circoli?
«Ho un rispetto profondo per gli iscritti al mio partito. Sono un tesoro di impegno civile e umanità. In questi anni si sono fatti carico di tutto, dal montaggio dei gazebo alle campagne elettorali. E’ un patrimonio di persone perbene con una forza di volontà e una passione che tolgono il respiro. Noi dobbiamo convincerli che il loro è un partito sano e trasparente e che i tesseramenti gonfiati, per quanto circoscritti, sono un oltraggio prima di tutto verso chi ha resistito all’invito martellante che vedeva il nostro partito e in generale i corpi sociali come un residuo da cancellare. È per questo che hosollevato il problema, perché ne va della nostra identità».
Sia Renzi che lei non potevate non sapere.
«Ho chiesto che si andasse fino in fondo, senza guardare a chi ne ha beneficiato. Perché nessuno può beneficiare di metodi che sono un danno per tutti. Da mesi io parlo del paese, di come rinnovare l’ambizione e la speranza di una sinistra vincente. Ma ritengo del tutto sbagliata l’idea che gli iscritti siano un ingombro, un sovrappiù rispetto all’appello diretto al popolo».
Renzi è un populista?
«Ho letto che il sindaco di Bari avrebbe detto “adesso aboliamo gli iscritti”. Mentre altri sostengono che vada abolita la convenzione con il voto degli iscritti per andare subito alle primarie perché solo il voto dell’8 dicembre conta».
Quanto appunto hanno sostenuto i renziani.
«Se si ragiona così muore il Pd. E non solo perché un partito senza iscritti è come una democrazia senza elezioni, non esiste in natura, ma perché i diritti di chi si iscrive sono una parte fondamentale della rivoluzione che dobbiamo fare».
Cos’è diventato il Pd, un votificio e un partito di oligarchie?
«No. Quando sento liquidare il voto di 330 mila iscritti come l’espressione degli apparati, penso che chi lo dice non sappia di cosa sta parlando. 330 mila persone non sono una oligarchia, sono una comunità».
Lei vuole un “partito pesante”, fatto di iscritti, di sezioni?
«Voglio una forza popolare e radicata nel paese. Penso a un partito- società, a un partito-movimento che si organizza sulla base di principi e traguardi che scuotano le coscienze. Voglio un partito che si opponga all’idea che ciascuno debba rimanere isolato nel suo rapporto con il potere perché in quel modo il potere, anche quando viziato, avrà sempre la meglio».
Diffidando delle primarie non si condivide il timore di Sposetti, per il quale ai gazebo potranno votare anche delinquenti e pedofili?
«La battuta di Sposetti è sbagliata. Non solo non diffido ma ho una grande fiducia nelle primarie e nella saggezza del popolo democratico. Però quelle primarie hanno bisogno di una forza alle spalle:il Pd non può ridursi a un comitato elettorale permanente».
Pensa di vincere le primarie?
«Penso che il nostro sia un congresso aperto e questi primi risultati hanno sorpreso anche me. È stato raccontato come un congresso scontato. Invece quella che emerge è una grande voglia di ricostruire una sinistra moderna, di reagire al pensiero unico e anche di ribellarsi alle scelte del circuito politico-mediatico».
Se vincesse Renzi sarebbe disposto a un ticket?
«Mi sono candidato a fare il segretario sulla base di un impianto culturale che non è quello di Renzi».
A norma di Statuto (che non siete riusciti a cambiare) il segretario diventa anche il candidato premier. Lei non pensa a palazzo Chigi?
«No, sono primarie per scegliere il segretario del Pd. Chiunque avrà questo compito vi si deve dedicare anima e corpo. È caricaturale l’idea che descrive il segretario del principale partito del centrosinistra rinchiuso nelle stanze del Nazareno a fare riunioni inutili. Il segretario del Pd dovrà percorrere questo Paese in lungo e in largo, tornare nei luoghi della sofferenza e anche dove si misura la risposta alla crisi. Se si vuole cambiare tutto nella sinistra e nel paese, ci si candida a guidare una alternativa vera. Ma questo non lo si fa come secondo lavoro».

l’Unità 8.11.13
Ripensare la sinistra
di Alfredo Reichlin


LA SINISTRA È IN UN GRANDE TRAVAGLIO MA LA CRISI CHE LA ATTRAVERSA È TANTO PIÙ GRAVE PERCHÉ ESSA SEMBRA PRIVA DI UNA CHIARA IDEA DI SÉ E DEL SUO RUOLO. Non si vede un pensiero politico che abbia l’ambizione di leggere in modo autonomo e critico le cose nuove del mondo. Ma non è della contingenza politica che voglio parlare. Qui si vorrebbe riflettere sulla necessità di affermare una visione fondatamente critica, tanto più necessaria in rapporto a cambiamenti che non sto a ricordare.
Cambiamenti che si possono riassumere sotto il titolo di «fine della occidentalizzazione del mondo».
La situazione è paradossale. Da un lato è fallita l’idea che proclamava la fine della storia e di conseguenza l’accettazione di un pensiero unico non più discutibile (il liberismo) ma dall’altro permane un vuoto. Non si vede un pensiero diffuso capace di dare alla politica una diversa dimensione. Perché di questo si tratta: insieme a tante cose, è la dimensione stessa dell’uomo che sta cambiando. Cambia il suo rapporto, non solo con gli altri uomini, ma con la natura. (...) Non basta che i filosofi ci spieghino il mondo, occorre un nuovo soggetto su cui far leva se vogliamo cambiarlo. Ed è ciò che in effetti fece il socialismo storico. Esso dominò il Novecento non solo perché predicò la giustizia sociale ma perché fece leva su strumenti e pensieri capaci di farla valere. Inventò strumenti molto potenti che non esistevano prima: il sindacato, il partito di massa, il suffragio universale. Impose al capitalismo un compromesso democratico. Il lavoro restava una merce ma una merce speciale: per comprarla occorreva che la plebe si trasformasse in cittadini, armati di diritti e leggi uguali. I quali diritti si materializzavano in una nuova forma di Stato. Un potere. Lo Stato sociale. Insomma un «profeta armato». Ed è proprio questo il punto: questo «profeta» è stato «disarmato» alla svolta degli anni 70. Non solo in Italia. (...)
La sinistra si è divisa. Una parte di essa non si è nemmeno posta i problemi che Alain Tourane riassume così, in una sintesi estrema e forse estremista: «Tutte le categorie e le istituzione sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società (Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia) sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All’epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più alla realtà delle cose».
Io non sono così drastico. Però anch’io credo che non abbiamo valutato in tutta la sua portata la cosiddetta «rivoluzione conservatrice». Non finiva solo un modello economico ma qualcosa di più lungo periodo. Finiva quel grande compromesso reso possibile dall’esistenza di determinati poteri (Stati, leggi, culture, nuova soggettività delle masse, sistemi) che garantivano un determinato rapporto tra politica ed economia. Gli «spiriti animali» dell’avidità si legittimavano in quanto costretti a misurarsi con nuovi diritti di cittadinanza, conquiste di libertà, diffusione del benessere, perfino con le spinte verso una certa equità sociale.
Non pretendo di aggiungere nulla alle tante analisi. Misuro solo gli effetti dell’enorme squilibrio che si è creato non solo nella distribuzione della ricchezza ma nel rapporto di forza tra la potenza dell’oligarchia finanziaria globalizzata e la debolezza della politica localizzata.
Si è aperta in realtà una nuova grandissima «questione sociale», molto diversa da quella classica originata dal vecchio industrialismo. Essa non consiste più essenzialmente nella contrapposizione tra salario e profitto. È il valore del lavoro che è messo in discussione. Ciò apre una profonda contraddizione con il fatto che il lavoro è nonostante tutto il luogo della realizzazione di sé ed è il fondamento della cittadinanza. Perciò a me pare che il passaggio da costruire è realizzare una condizione di autonomia facendo molta leva sul superamento del lavoro come precariato, come residuo. E ciò in nome della necessità di creare una condizione umana segnata da una più forte conoscenza, responsabilità e partecipazione alle decisioni. Dovremmo smetterla con la futile polemica tra Stato e mercato. Il mercato non cessa affatto di avere il suo ruolo. Ciò che gli sviluppi del mondo moderno rendono sempre più chiaro è che il mercato di per sé non è in grado di sovra determinare lo sviluppo degli altri sistemi sociali. Desideri, comportamenti e valori stimolati proprio dalle economie post-industriali tendono a farsi valere e a condizionare a loro volta l’economia al punto da sovvertirne i meccanismi di funzionamento. È la cosa su cui aveva molto riflettuto Karl Polany. È diventato difficile perfino misurare con i parametri tradizionali il valore economico, il quale appare sempre più determinato dall’estensione delle reti e dalla velocità con cui esse consentono di scambiare idee, conoscenze e relazioni. È quindi venuto il momento di assumere una visione più ampia di ciò che significa creare «valore aggiunto» dal momento che questo si ottiene sempre più integrando conoscenza e socialità, investimenti in beni collettivi e intraprendenza personale. La verità è che, così come è decrepita la vecchia contrapposizione cara ai «liberal» tra Stato e mercato, è anche diventata meno significativa la vecchia contrapposizione «socialista» tra profitto e salario. Lo sfruttamento è ben altra cosa: riguarda il lavoro ma investe tutta la condizione umana: la vita, i modi di pensare, i territori.
Ecco perché direi che il problema che massimamente emerge è quello di guardare al di là delle cronache dei partiti per interpellare forze diverse, anche culturali, sulla necessità di pensare un nuovo pensiero. Una nuova soggettività. La capacità non solo di definire in astratto le grandi riforme che sono necessarie, ma il «con chi e contro chi» e anche il «come» farle. Astratte fantasie? Penso alla famosa osservazione di Antonio Gramsci relativa alla «concretezza», cioé il ruolo che in un determinato scenario storico-sociale assume la presenze o l’assenza di un soggetto portatore di una critica della realtà e di un progetto di cambiamento. Riesca o no a realizzare appieno la sua proposta, dice Gramsci, è l’esistenza stessa di questo punto di vista che fa parte del quadro e lo modifica.
Ecco. Io credo che la sinistra se vuole tornare a contare nel mondo nuovo deve porsi questo problema.
Il testo pubblicato è tratto dal discorso tenuto ieri da Alfredo Reichlin al convegno «Ripensare la cultura politica della sinistra».

l’Unità 8.11.13
«La sfida: ricostruire un punto di vista della sinistra»
Biasco, Urbinati, Pasquino, Pinelli, Rusconi, Galli, Tronti e Simone all’iniziativa con Reichlin «Superare la subalternità al liberalismo solidale»
«Uscire dal silenzio per rilanciare una soggettività sociale e anche un partito»
di Bruno Gravagnuolo


Una grande deriva. Globale. E il tentativo di reagire, tornando a nominare ciò che è andato disperso, va rinominato: la sinistra. Da questa percezione nasce il convegno «Ripensare la cultura politica della Sinistra», alla sala Capranichetta di Piazza Montecitorio, scaturito da un’idea dell’economista Salvatore Biasco e inaugurato ieri dalla relazione di Alfredo Reichlin, che oggi pubblichiamo su l’Unità. Reichlin stesso definisce il tema: «il silenzio della sinistra» e il tentativo di spiegare perché. Specie in un momento in cui era lecito attendersi il contrario.
Ovvero il rilancio di politiche di regolazione del ciclo economico, laddove il capitalismo finanziario ha mandato all’aria i margini residui del patto tra economia e democrazia. Precipitando il mondo euro-occidentale in recessione. Con attacco senza precedenti al lavoro e al welfare e sprigionamento, dagli spiriti animali liberisti, di altri temibili spiriti: populismo, fondamentalismi, destre radicali. Per Reichlin si tratta di rilanciare una «soggettività sociale della sinistra» e anche un partito. Un punto di vista insomma, su cui far leva per liberare “egemonicamente” i ceti subalterni (e cita il Gramsci delle crisi organiche del capitalismo). E il punto dibattuto resta: come ricostruirlo questo punto di vista generale in un mondo che rende invisibili i soggetti o li colonizza? Trasformando valori e istanze post-materiali in narcisismo e gregarismo consumista? Hanno provato in tanti a rispondere ieri, da Salvatore Biasco, a Nadia Urbinati, a Gianfranco Pasquino, a Cesare Pinelli e a Gian Enrico Rusconi. Fino alla Tavola rotonda conclusiva con Carlo Galli, Mario Tronti, Biasco stesso e Raffaele Simone. Mentre oggi si cimentano Mariuccia Salvati, Luigi Ferrajoli, Fabrizio Barca, Laura Pennacchi, Miguel Gotor, con le conclusioni di Walter Tocci (il convegno è organizzato dalle fondazioni ex Ds, con Ugo Sposetti in qualità di sponsor politico).
E allora vediamoli i modi di ridare voce alla sinistra, in un momento delicatissimo, perché nel Pd si profila una leadership “personale” che fuoriesce del tutto dall’alveo di quello che della sinistra fu il troncone principale: il movimento operaio. Ad esempi Biasco denuncia la smemoria di una comunità di destino e di interessi. Unita all’assenza di un «paradigma critico della società capitalista». Riprende il tema della soggettività di massa del partito e propone una «socialdemocrazia non nostalgica né statalista», ma che incarni il ruolo di regolatore e redistributore per il rilancio della domanda e la critica del capitalismo «così com’è». Biasco invoca un altro capitalismo: «sociale», lo definisce. Che incorpori dosi massicce di comunità e responsabilità. Dentro «compatibiltà sistemiche», da spingere in avanti e senza massimalismi. Nadia Urbinati invece rileva come la sinistra sia stata essa stessa causa del suo male. Mostrandosi subalterna al «liberalismo solidale». Di qui una vera e propria «afasia in economia», e il trionfo congiunto di populisti e tecnici, contro la politica organizzata. Per Urbinati è necessario attaccare il nodo del «capitalismo manageriale e monetarista»: invisibile e irresponsabile. Che depotenzia, come dice Habermas, le istituzioni, le leggi e la politica. Il set di valori da cui ricominciare? Eccolo: «dignità della persona, beni comuni, eguaglianza, partecipazione all’economia, diritti civili e laicità degli stili di vita».
Per Pasquino la socialdemocrazia resta attualissima, come pure il keynesismo. Al punto che il politologo stende un «breviario ideale del cittadino socialdemocratico». Un soggetto civico informato, che partecipa a un tessuto comune, non una tantum come ai gazebo. E che perciò esprime classi dirigenti dalle «sue» organizzazioni. Dal sindacato, al partito, alle associazioni collaterali. Come è stato e come è ancora nelle grandi socialdemocrazie, malgrado i segni dell’egemonia liberista e monetarista. Del resto, dice ancora Pasquino, cosa c’è di più socialista dell’articolo 3 della nostra Costituzione, che prescrive di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo personale e alla partecipazione economi-
ca? Dunque, ci vogliono partiti pedagogici e radicati, per contrastare le forze impersonali dell’economia.
Anche se, visti i vincoli internazionali, occorrerebbe «una rivoluzione permanente e socialdemocratica alla Trotzky, un Trotzky socialdemocratico...». Altri spunti: «l’attacco di Jp Morgan all’eccesso di partitismo e socialismo presente nelle istituzioni dei Paesi europei». Lo ricorda Cesare Pinelli, professore alla Sapienza: è la finanza a voler fare la riforma dello Stato, la stessa finanza che ha generato la catastrofe! Poi c’è l’analisi di Gian Enrico Rusconi, a modo suo drammatica. Dice: la Germania di Frau Merkel, nazional-monetarista e corporativa, «non sente ragioni». Esercita suo malgrado un’egemonia mercantilista, sulla base di regole che non intende mutare e che oggi la favoriscono. E «i tedeschi sono d’accordo, dagli operai agli imprenditori». Forse, conclude, meglio cercare di farle cambiare idea con il peso degli Stati nazionali, «più che con le utopie federaliste». Due batture infine sulla tavola rotonda. Con due parole al centro. «Emancipazione» (Galli) e «Liberazione» (Tronti). Sono diverse, ma convergono su un punto: occorre ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e dominati, e a favore dei secondi. Altrimenti non c’è sinistra.

Repubblica 8.11.13
“Il sindacato è morto se non cambia così grave crisi di rappresentanza”
Il leader della Fiom, Landini: i precari non ci riconoscono
di Roberto Mania


ROMA — «O questo sindacato cambia o è destinato a morire». Maurizio Landini è il segretario generale della Fiom, il più antico sindacato italiano, ancora il più prestigioso. Prima di lui sono stati segretari generali dei metalmeccanici della Cgil Luciano Lama, Vittorio Foa, Bruno Trentin. È un pezzo della storia sindacale italiana. Landini non parla il sindacalese, appartiene a una nuova generazione di dirigenti senza più tessere di partito che ha abbracciato l’idea del sindacatomovimento. In questa intervista ammette — forse è la prima volta per un sindacalista — che le grandi organizzazioni sindacali non sono più rappresentative tra i lavoratori, sia tra quelli tutelati, sia tra i precari, giovani ed anziani.
Landini, sta dicendo che lei guida un sindacato moribondo?
«Io dico che c’è una crisi di rappresentanza che riguarda tutto il sindacato, senza distinzioni. Penso che il sindacato vada ricostruito».
Rifondato?
«Non mi piace questa parola. Ma il sindacato è in grande difficoltà. Se vuole avere un futuro deve cominciare a fare i conti con il fatto che si trova all’interno di una profonda crisi di rappresentanza, che interessa anche la politica come le associazioni delle imprese. Perché se è vero che sempre più cittadini non vanno a votare, è anche vero che la maggior parte dei lavoratori non è iscritto ad alcun un sindacato. Ci sono milioni di precari, giovani ma non solo, che non vedono nelle organizzazioni sindacali un soggetto che li possa rappresentare ».
Se ne sta accorgendo un po’ in ritardo. Cosa ha fatto la Fiom per impedire questa tendenza?
«Intanto chi pensava (e noi non eravamo tra questi) che il caso Fiat fosse un episodio, ora è costretto a ricredersi con il blocco da otto anni dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, con gli accordi separati nel commercio, con la disdetta del contratto nazionale da parte delle banche. Ormai una larga parte dei lavoratori è senza il contratto nazionale. Noi ci siamo opposti a questo. Abbiamo difeso i diritti dei lavoratori in fabbrica e prospettato un’idea di società diversa. Lo considero un punto importante. E comunque: o si cambia oppure il modello Fiat porterà alla morte dei sindacato generale confederale e all’affermazione del sindacato aziendale. Bisogna avere il coraggio di voltare pagina».
Come?
«C’è bisogno di più democrazia nel sindacato. I lavoratori devono poter votare sempre sui contratti e gli accordi che li riguardano. Dobbiamo rappresentare i precari non solo a parole. Non possiamo continuare a scaricare su di loro il peso di molti accordi che facciamo».
In concreto cosa vuol dire?
«Che 280 contratti nazionali sono troppi. Che basterebbe un contratto e un sindacato dell’industria che preveda le stesse tutele e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni tra tutti i lavoratori. Dobbiamo puntare a ripristinare le pensioni di anzianità per il lavoro di fabbrica, per chi guida i treni, per gli infermieri... Non è un privilegio, ma un diritto».
Cosa rimprovera al segretario generale della Cgil Susanna Camusso?
«La Cgil sta avviando il suo congresso. Spero che si possa svolgere una discussione aperta, che valorizzi tutti i punti di vista. Più in generale credo che la crisi del sindacato nasca dal fatto che in questi anni non sia stato capace di tutelare le condizioni di chi lavora, c’è stato un secco arretramento. E se le persone stanno peggio vuol dire che anche noi abbiamo sbagliato. E poi: c’è stata una caduta di autonomia rispetto ai governi e alla politica. Non si può cambiare a seconda del governo e della maggioranza».

Repubblica 8.11.13
I prigionieri dell’Imu e la Costituzione ferita
di Stefano Rodotà


ABBANDONATA alle distorte rappresentazioni della realtà fornite dai talk show televisivi, vittima di una sorta di ipnosi da “stabilità obbligata”, l’opinione pubblica stenta a cogliere quello che si presenta come il tratto più appariscente dell’attività del governo. Fin dai giorni delle trattative per la sua formazione, il governo è stato ossessivamente prigioniero della questione dell’Imu.
Della questione Imu sono ormai evidenti le conseguenze negative sulla politica economica e, più in generale, sul senso complessivo degli attuali equilibri politici.
Sappiamo che la richiesta perentoria dell’abolizione per tutti dell’imposta sulla prima casa corrisponde alla pretesa berlusconiana di vedere integralmente rispettata una sua promessa elettorale come condizione per il sostegno al governo. È sempre buona cosa che gli impegni presi con i cittadini non vengano dimenticati all’indomani delle elezioni. Ma è sempre necessario valutare poi la portata che assumono quando devono divenire parte di un programma comune di una maggioranza ed essere così collocati nel quadro complessivo dell’azione governativa. Questo elementare passaggio è stato omesso, l’Imu è stata trasformata nell’unica luce capace di illuminare l’intero modo d’essere del governo, innescando una quotidiana “verifica” della possibilità stessa della sopravvivenza del governo. Da mesi assistiamo ad una caccia quotidiana alle risorse necessarie per l’abolizione dell’Imu, con coperture talvolta acrobatiche e, comunque, con il sacrificio di finalità e bisogni assai più importanti, stabilendo una impropria graduatoria tra gli obiettivi da realizzare. Dal punto di vista strettamente politico, questa vicenda ha fatto sì che l’equilibrio sia stato nettamente spostato a favore del Popolo della libertà, poiché sono subito scomparse dall’orizzonte governativo promesse elettorali altrettanto impegnative fatte dal Pd. Una asimmetria che pesa, che alimenta sfiducia nella capacità del Pd di esprimere una azione politica coerente, rafforzando pure la convinzione, sempre più diffusa, che la politica sia ormai affare di interessi di parte, lontana da un’idea di interesse comune dei cittadini.
Ma questa vicenda fa emergere una questione più generale, che può essere definita come “l’ingannevole universalismo” dell’abolizione dell’Imu. La scomparsa generalizzata di questa imposta sulla prima casa, infatti, pesa sulla fiscalità generale, come accade, o dovrebbe accadere, per tutti i servizi resi dallo Stato ai cittadini in condizione di piena parità, mentre in questo caso si deve fare riferimento alla specifica situazione in cui si trova ogni persona. La scelta di abolire l’Imu sulla prima casa indipendentemente dalla condizione economica dei proprietari diviene così parte di una dinamica che si è venuta consolidando in questi anni, e che consiste nello smantellamento del principio della progressività dell’imposizione tributaria, specificamente prevista dall’articolo 53 della Costituzione. Vale la pena di rileggere integralmente questa norma: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Dio mio, dirà subito qualcuno, ecco l’inevitabile riferimento alla Costituzione da parte di chi, testardamente, si ostina a volerla sovrapporre alle esigenze ferrigne della politica. E invece non dobbiamo mai accettare che la politica possa non essere “politica costituzionale”, non perché si debba manifestare una cieca fedeltà ad un totem, ma perché solo seguendo la via maestra nitidamente tracciata da quel testo è possibile garantire in primo luogo l’eguaglianza tra i cittadini. È stato detto mille volte che era legittimo prendere in considerazione la condizione economica delle persone che, soprattutto in tempi di crisi, possono trovarsi in una situazione che rende per loro eccessivo, o addirittura pregiudizievole per una loro vita dignitosa, il pagamento dell’imposta sull’unica casa di loro proprietà. Ma questa sacrosanta considerazione non porta inevitabilmente con sé l’estensione di quel beneficio a chiunque, ad ogni proprietario, anche a quelli che hanno una situazione economica, e dunque una capacità contributiva, che li pone nella condizione di non subire un sacrificio dall’integrale pagamento dell’Imu. Qualcuno, all’interno stesso del governo, aveva osato dare qualche indicazione in questo senso, subito bollato come traditore, come reprobo, mentre si trattava semplicemente di persone consapevoli del fatto che quella esenzione generalizzata si traduceva in un regalo, in un indebito privilegio, a vantaggio di chi già è economicamente avvantaggiato e che, quindi, è il destinatario della regola della progressività dell’imposta, che significa appunto che chi più ha deve maggiormente contribuire alle spese pubbliche.
Davvero parole pronunciate vanamente in quel deserto di ascolto che è divenuta la politica ufficiale. E che sono una conferma ulteriore dell’assenza di sensibilità costituzionale nell’azione di governo, poiché si ignora non soltanto il principio della progressività dell’imposta, ma lo stesso principio di eguaglianza. Questo, infatti, non è violato esclusivamente quando vengono trattate in modo difforme situazioni identiche. Lo è anche quando si trattano in modo eguale situazioni tra loro diverse. E questo è proprio il caso dei proprietari delle abitazioni, che non costituiscono una categoria unificata dal titolo formale di proprietario di una prima casa, ma che devono essere considerati nelle loro molteplici e differenziate situazioni di contribuenti. Si sta così realizzando una indebita dissipazione di risorse pubbliche a vantaggio di contribuenti abbienti o ricchissimi, della rendita fondiaria, del sostegno a un mercato immobiliare in difficoltà. Risorse ben più cospicue di quelle che, con grande scandalo, si scoprono essere state destinate ai piaceri voluttuari di consiglieri regionali o comunali.
Mentre ci si incammina lungo i sentieri accidentati dell’ingannevole universalismo, si abbandonano i luoghi dove l’universalismo dovrebbe essere sempre praticato, quelli dove si insediano i diritti di cittadinanza: lavoro e istruzione, salute e abitazione. Appunto quelli sacrificati dalla prepotenza di chi, con toni ricattatori, ha chiuso l’orizzonte politico intorno all’Imu, mentre gli altri chinano la testa e si sbracciano nelle rassicurazioni.

Repubblica 8.11.13
Pd e Pdl nella torre di Babele
di Massimo L. Salvadori


Sempre più grande è il disordine sotto lo stellone della Repubblica. La crisi di sistema che colpisce le istituzioni e i partiti non solo non si ferma, ma si approfondisce. Il governo delle larghe intese retto dal Partito democratico e dal Popolo della libertà poggia in realtà su due partiti al cui interno le correnti che li compongono sembrano torri di Babele dove le lingue si confondono, non ci si capisce più l’un l’altro e si corre in direzioni opposte. Chi dunque dovrebbe intendersi a sostegno del governo del paese, non si intende affatto all’interno del proprio partito. Il che ha come necessario e inevitabile effetto di spargere a piene mani nel corpo elettorale una corrosiva sfiducia verso i partiti che puntellano l’esecutivo, di tenere assai alta la percentuale di quanti affermano in caso di voto di voler restare nella loro casa invece di entrare nella casa pubblica o depositare nell’urna un foglio bianco, e infine di alzare iltasso di felicità di Grillo. Mentre la riforma elettorale resta chiusa in una gabbia di cui nessuno mostra di avere la chiave, i due maggiori partiti offrono uno spettacolo penoso. Sono profondamente dilaniati, si confrontano su modelli di strutture che non prendono corpo, sono impegnati nell’affannosa e irrisolta ricerca di un leader riconosciuto che non si sa se, come e quando avrà esito. E tutti capiscono che sono nelle mani di oligarchie rissose. Il Pdl resta ancor sempre prigioniero di un Cavaliere che vaneggia, si impunta nel voler restare padrone assoluto ma non riesce più a esserlo al di là degli omaggi feudali e delle dichiarazioni di incrollabile fedeltà che gli prestano i suoi delfini che si combattono per la successione. Quanto al Pd, pare ave-re una vocazione a mostrare il peggio di sé. Godeva, fino a non molto tempo fa, di quella che possiamo definire una “rendita morale” presso quella parte dell’opinione pubblica ed elettorale che ad esso rivolgeva le sue aspettative e le sue speranze anzitutto perché lo considerava un partito prevalentemente di persone per bene, capaci nel governo dello Stato e degli enti locali di assicurare una buona e onesta amministrazione, il meno affetto dai mali tradizionali delle clientele, degli affarismi personalistici, delle pratiche corruttive alimentate dagli interessi di singoli e di corrente. Si poteva ben dissentire dalle sue linee politiche, essere anche molto insoddisfatti dei contrasti su temi cruciali come i diritti civili, la laicità, i modi di concepire la sinistra, la collocazione del partito nelle famiglie politiche europee, ecc. Ma quella rendita morale restava e contava. Oggi è corrosa, dispersa. Si è visto il partito direttamente coinvolto — e non è sufficiente consolazione che non lo sia quanto il Pdl — in pratiche di mala amministrazione e sordo a quelle di altri partiti. Ora però si è piombati nel pantano — proprio mentre il partito continua a dichiarare con un orgoglio dimezzato di essere l’unico impegnato a darsi un gruppo dirigente mediante un processo “democratico” dal basso — delle tessere comprate e vendute, al punto da far invocare la sospensione del tesseramento sfuggito di mano. Uno spettacolo umiliante. Non vi è quindi da stupirsi che si sentano tanti, in particolare tra i giovani, dire di non voler più saperne del Pd e di non sapere dove sbattere la testa.
Non basta. Come sopra notavo, sia nel Pdl sia nel Pd la corsa alla leadership del partito si presenta brutta. Nell’uno ci si accusa reciprocamente di tradimento; nel secondo quasi di incompatibilità, prima che politica, antropologica. Non sono certo pochi coloro che considerano il favorito Renzi (ma lo sarà davvero?) non già quale un legittimo competitore, ma un alieno, un estraneo, il cui proposito è di mutare il Dna del partito stesso. Basta in proposito ascoltare i commenti di numerosi iscritti al Pd e suoi simpatizzanti. Se le cose stanno così — e vorremmo che stessero altrimenti — allora il pericolo più grave non potrebbe essere. Persistendo il clima attuale, se Renzi diventasse il segretario e poi il candidato premier, si troverebbe indebolito in partenza in un partito allo sbando; se invece egli fosse sconfitto, il leader a lui alternativo, dopo aver prevalso su Renzi con ogni probabilità non avrebbe né la forza politica né il prestigio personale per vincere la sfida per il governo del paese. Nello specchio dei sondaggi cui si chiede chi sia il più bello del reame, il Pd risulta avanti di un punto o di qualche punto rispetto al Pdl, nonostante quest’ultimo ne abbia combinate di tutti i colori. Ciò dovrebbe suonare il più energico campanello d’allarme per il Pd, che sta dandosi da fare per non essere da meno.
Torniamo all’inizio del discorso. La crisi del sistema politico è pienamente in atto e si avvita sempre più su se stessa. Nel caso si dimostrassero incapaci, il Pdl di emarginare la cricca berlusconiana dei puri e duri e di costituirsi in una formazione di centrodestra rinnovata, e il Pd di chiudere la pagina nera che va scrivendo con le proprie mani, allora si salvi chi può, ma a salvarsi non sarebbe l’Italia. Che i reggitori del governo delle larghe intese — privi di intesa fra di loro ed entro i rispettivi partiti — non ci facciano, di grazia, il regalo di un Grillo trionfante.

Repubblica 8.11.13
Emilio Gentile: “Ma quella salma sotterrata di nascosto ci dice che non abbiamo fatto i conti col passato”
Lo storico: anche lui fece di tutto per non rivelare l’eccidio delle Fosse Ardeatine ma alla fine l’Italia è riuscita a compiere un atto di civiltà
intervista di Simonetta Fiori


Dopo settant’anni si teme ancora che il corpo morto del nazista possa suscitare entusiasmo, passione e pellegrinaggi
Il valore di una democrazia si misura anche nella capacità di trovare un cimitero a un criminale di guerra

ROMA — «Il valore di una democrazia si misura nella capacità di dare sepoltura a un criminale di guerra. Ma l’opacità che avvolge l’atto e il luogo della sepoltura mi appare un segno di grandissima debolezza». Tra gli studiosi italiani del fascismo e del nazismo, Emilio Gentile è tra i più conosciuti nella scena internazionale.
Professor Gentile, perché la segretezza è spia di fragilità? Non riusciamo a fare i conti con le tragedie del Novecento?
«La democrazia italiana si sente vulnerabile. Dopo settant’anni teme ancora che il corpo morto del nemico nazista possa suscitare entusiasmo, passione e pellegrinaggi. Questo significa che non è riuscita a vaccinare una parte dei suoi cittadini dal fascino torvo di queste mitologie. È mancata una sufficiente educazione civica».
Quindi non riesce a seppellire il cuore nero del XX secolo.
«Sì, non riesce a liquidare questo passato temendo che possa tornare. Teme soprattutto che possa esercitare fascino sulle nuove generazioni, in un momento storico segnato da profonda crisi delle istituzioni. La fragilità scaturisce da qui, dalla consapevolezza che è in gioco la credibilità stessa della democrazia».
Ma questo da cosa nasce? L’Italia ha liquidato troppo frettolosamente il capitolo nazifascista e i suoi fantasmi ancora resistono nella coscienza collettiva?
«Sì, sicuramente noi non abbiamo fatto i conti con quella storia. Nel dopoguerra la neonata Repubblica ha avuto bisogno di voltarsi da un’altra parte, rimuovendo o caricaturizzando la portata del fascismo italiano. Però questa spiegazione oggi non basta. Dopo settant’anni non possiamo continuare a dare la colpa ai fondatori repubblicani, a quella Italia che rinasceva alla democrazia nella rimozione. Questo rischia di diventare un buon alibi. La colpa va cercata altrove».
Di chi è la responsabilità?
«Delle classi dirigenti che sono venute dopo. Delle generazioni che non sono riuscite a rendere la nostra una democrazia forte. Della classe politica che non ha saputo trasformare la Costituzione in una pratica quotidiana. Ed è nel guscio vuoto della nostra democrazia che va cercata l’incapacità di chiudere con il Novecento. I fantasmi del nazismo sono in realtà il riflesso della nostra fragilità nazionale. In una democrazia davvero solida, in un paese che gode della piena fiducia dei cittadini nelle istituzioni, la sepoltura di Priebke sarebbe stata un atto quasi normale, magari oggetto di macabro folclorismo, ma non un pericolo nazionale ».
Però l’Italia non è venuta meno al gesto dovuto di dignitosa sepoltura.
«Questo sì, è stato un atto di dignità innanzitutto verso se stessa. E nella segretezza agisce come una sorta di nemesi rispetto alla morte procurata dallo stesso Priebke. Non dimentichiamoci che volle tenere segreto l’eccidio delle Fosse Ardeatine, scoperto soltanto dopo la liberazione di Roma».
Quei corpi poi non ebbero dignitosa sepoltura. Ed è anche qui la differenza tra dittatura e democrazia.
«Le modalità furono atroci. Venivano ammazzate cinque persone alla volta e i corpi finivano ammassati gli uni sopra gli altri, formando un magma spaventoso. L’attuale sepoltura di Priebke in un cimitero carcerario mi sembra corrispondere alla sua condanna all’ergastolo. Mi chiedo però perché l’Italia sia stata condannata a conservarlo anche dopo morto. E perché non sia stata la Germania a trovare una soluzione alla vicenda. In fondo Priebke è il figlio della sua storia».
Nessuno vuole il corpo del boia.
«Però Rudolf Hess ricevette sepoltura in Baviera in un cimitero religioso. E’ vero anche che si trasformò in luogo di pellegrinaggio e la chiesa evangelica che lo gestiva preferì riconsegnare la salma ai famigliari. I quali la cremarono e sparsero le ceneri in mare. Una soluzione più che dignitosa».
Pur con una storia ancora più terribile, i tedeschi hanno saputo fare i conti con il Novecento meglio di noi.
«La nostra democrazia non ha fiducia in se stessa e nella propria capacità di testimonianza. Ma non è nascondendo le salme o portando i negazionisti in tribunale che si renderà meno vulnerabile. La curava trovata in altro modo».

La Stampa 8.11.13
Camilliani, un altro scandalo
Milioni di euro dirottati all’estero Roma, uno dei preti sequestrati ammette: mi sono impossessato di quei soldi
Un’indagine sul riciclaggio ha messo gli investigatori sulle tracce della congregazione
di Guido Ruotolo


Parlano molto, e non sanno di essere intercettati, gli autisti del commercialista Paolo Oliverio, lo stratega dell’operazione del sequestro di due grandi elettori del Superiore generale dell’Ordine dei Camilliani, padre Rosario Messina e padre Antonio Puca, che sponsorizzavano un candidato alternativo a padre Renato Salvatore, complice di Oliverio.
Nelle ore in cui si consuma l’operazione della convocazione (falsa) da parte della Procura di Napoli dei due prelati, al Comando delle operazioni speciali della Finanza di Roma, per non farli votare facendo vincere per soli due voti (i loro) il candidato Salvatore, uno degli autisti dice all’altro: «Paolo (Oliverio, ndr) è andato a verificare la situazione economica contabile e c’è un milione tutto imbertato (nascosto, ndr) là... là... tu me intiendes?... da padre Rosario (Messina, ndr), come Scajola (l’ex ministro che si ritrovò un anonimo e sostanzioso contributo per l’acquisto di una casa al Colosseo, ndr)». L’altro autista sta al gioco: «un milione... due cucuzze del vecchio conio diciamo. Padre Rosario dirà “guarda devo fare delle opere di carità e quindi decido io quando e dove... allora avevo pensato di spostarli un attimo qua”». E nell’interrogatorio di garanzia padre Messina poi ammette tutto.
Milioni di euro dirottati su conti all’estero e prime conferme davanti ai magistrati, il giorno dopo la retata del Superiore generale dei Camilliani, Renato Salvatore, del commercialista Oliverio, dei suoi due autisti, e dei due pubblici ufficiali della Finanza, Alessandro di Marco e Mario Norgini.
Nello studio del commercialista Oliverio, gli uomini del Nucleo tributario della Finanza avrebbero trovato tracce di un flusso di 10 milioni di euro dirottati probabilmente in Svizzera. A casa di uno dei due finanzieri arrestati sono stati sequestrati 120 mila euro in contanti e 5 Rolex. Negli interrogatori di garanzia, qualche indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere, altri hanno ammesso le «malefatte», altri ancora hanno detto di non aver capito cosa stessero facendo.
Papa Francesco, comprensibilmente colpito per l’ennesimo scandalo che questa volta ha travolto un Ordine della
Chiesa, segue gli sviluppi della inchiesta della Procura di Roma. La Santa Sede ha concesso un termine all’Ordine dei Camilliani per il risanamento e il rinnovamento dei suoi vertici, pena il commissariamento dal momento che, filtra dal Vaticano, «è emerso un comportamento gravemente lesivo della credibilità dei vertici dell’Ordine», che dovrebbe prestare assistenza agli infermi, gestendo in tutto il mondo decine e decine di strutture sanitarie.
Il pm Giuseppe Cascini è titolare di una inchiesta sul riciclaggio. E nel corso dell’attività investigativa è emerso l’episodio della convocazione-sequestro dei due grandi elettori dell’Ordine dei Camilliani. Una parte delle indagini sarà destinata a essere trasferita per competenza territoriale alla Procura di Napoli. Sostengono gli inquirenti: «Le informazioni riservate sulla opaca se non palesemente illecita gestione amministrativa della Provincia Siculo-napoletana, parrebbero essere assolutamente fondate atteso che i due canonici raggirati non sono apparsi affatto sorpresi davanti alle contestazioni asseritamente mosse dalla Procura partenopea e, per tale motivo, si ritiene, sono risultati pronti a tutto per sistemare le cose».
In queste ore gli analisti del Tributario della Finanza stanno cercando di capire se gli «ammanchi» milionari hanno prosciugato le casse dell’Ordine dei Camilliani o quelle degli ospedali da loro amministrati. In pratica soldi pubblici, visto che solo per i lavori all’ospedale di Casoria avevano ottenuto 17 milioni dalla Regione Campania.
Padre Renato Salvatore, Superiore generale dell’Ordine, invece si dichiara «nullatenente». Naturalmente spetterà agli 007 della finanza setacciare i conti correnti e scovare sue eventuali disponibilità finanziarie. La sensazione è che l’inchiesta è solo agli inizi.

Corriere 8.11.13
È il momento della trasparenza anche per la sanità religiosa
di Sergio Harari


Troppo presa dal trascendente per curarsi degli umani bilanci, un parte della sanità religiosa cattolica del nostro Paese sembra ormai avviata a un inaccettabile degrado. Dopo il San Raffaele, gli scandali si succedono ormai in continuazione, ieri l’IdI (Istituto dermopatico dell’Immacolata), oggi i Camilliani. Dietro la regola dell’obbedienza si celano molti intrighi e umane debolezze, così la commistione di bilanci di opere e missioni (che non hanno l’obbligo di dover essere resi pubblici) diventa una opaca consuetudine che nasconde ben altri affari.
E se il disfacimento di alcune realtà è conseguenza diretta del malaffare, in altre sono la crisi di vocazioni, il mancato ricambio generazionale, le umane piccolezze a prevalere. Una visione più efficiente, manageriale e al passo con i tempi della sanità sembra impossibile per ordini con secoli di opere alle spalle, incapaci di far fronte alle difficoltà di un mondo che cambia rapidamente. Si va avanti, come fece don Verzé, confidando nella provvidenza e nel convincimento che in qualche modo comunque le cose si aggiusteranno, ma purtroppo le opere si rompono e basta. Alle difficoltà gestionale si sommano gli scandali che offuscano quello che di buono la sanità cattolica continua a fare, ed è molto, schiacciato dall’altrui fango, così da perdersi nella generale indifferenza.
Peccato, un patrimonio importante del nostro Paese rischia di andar sprecato. Per questo è arrivato il momento, prima che altri IdI o altri San Raffaele o altri scandali come quello dei Camilliani rimbalzino sulle pagine dei giornali , che qualcuno pensi a imporre trasparenza nei bilanci della sanità religiosa del nostro Paese, aiutando chi merita e denunciando chi invece ha usato la tonaca come scudo per il proprio personalissimo malaffare.
Se un futuro esiste per la sanità non profit in Italia molto dipenderà dalla sorte di quella cattolica, per questo il problema appartiene a tutti, laici e non credenti compresi e per questo è una battaglia che non può assolutamente essere persa.

Repubblica 8.11.13
“All’Atac un’associazione a delinquere”
Roma, la denuncia nell’inchiesta interna su fondi neri e biglietti clonati. Scoppia la polemica
di Daniele Autieri e Carlo Bonini


ROMA — Atac, l’azienda di trasporto pubblico di Roma, entra nella “tempesta perfetta”. L’inchiesta diRepubblica sulla doppia contabilità assicurata dalla truffa dei biglietti clonati (70 milioni di euro l’anno sottratti ai libri contabili) e il patto politico trasversale (sinistra e destra) che nel tempo (13 anni) l’avrebbe consentita in cambio di finanziamenti occulti assicurati proprio da quel “bilancio nero”, accende la rabbia della città, dei sindacati, delle associazioni di consumatori. Sollecita buona parte dell’arco politico consiliare in Campidoglio, dal Pd al Movimento 5 stelle a Sel, alla lista Marchini, alla Lista civica Marino, fino all’ex sindaco Alemanno (che di Atac è stato azionista unico fino a quattro mesi fa), a chiedere l’azzeramento dei vertici aziendali, a una «pulizia che stavolta sia davvero tale». Convince il presidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, a dare alla faccenda la dignità e il peso di una questione politica nazionale, chiedendo «un’inchiesta interna i cui risultati vengano resi noti in tempi rapidissimi all’opinione pubblica».
Tutti chiedono di scoperchiare il verminaio di un’azienda il cui dissesto è sotto gli occhi di tutti da molto tempo. Solo a volerlo vedere e non tollerare. Tutti - anche chi, come il Campidoglio, di Atac è proprietario unico da sempre - si interrogano ora su come sia stato possibile che Atac abbia gonfiato i propri organici oltre misura (12mila dipendenti), raggiunto un indebitamento di 1 miliardo 600 milioni di euro, perda 150 milioni di euro l’anno, per ritrovarsi senza un quattrino per pagare gli straordinari degli autisti e far circolare nelle strade un parco veicoli degno di questo nome.
L’amministratore delegato di Atac, Danilo Broggi (nominato da Marino nel luglio scorso), al termine di una giornata di infernale silenzio consegna alle agenzie di stampa una breve nota che conferma quanto riferito giovedì mattina da Repubblica. Che l’Atac sapeva cosa era accaduto e stava accadendo nei suoi uffici. Da almeno tre anni.
«La questione della truffa consumata sul sistema di bigliettazione Atac è nota all'azienda», si legge. «Atac ne ha fatto oggetto di documenti di indagine interna sin dal 2010. Tale attività ha condotto, nell’agosto del 2012, alla consegna alla Procura della Repubblica di un rapporto commissionato a uno studio legale esterno. Sin dal momento del mio insediamento, tuttavia, ho avviato ulteriori approfondimenti sui processi organizzativi per verificare se ci siano state o meno inerzie da parte aziendale. Per il resto, riconfermo la piena collaborazione al lavoro dei magistrati». Conviene dunque tornare proprio a quell’audit interno consegnato nell’estate 2012 alla Procura, di cuiRepubblica è in possesso e di cui ha già dato in parte conto ieri. Perché la lettura delle 374 pagine di quel rapporto consente di comprendere quanto e in che termini ultimativi l’azienda e il suo azionista (il Campidoglio) sapessero. «Diversa e più pericolosa - si legge a pagina 309 - si presenta la situazione nel caso di attacchi (alla sicurezza del sistema di bigliettazione,
ndr)che si originano in seno all’azienda, per cui si potrebbe affermare che il pericolo per Atac è se stessa!».
Già, «il pericolo per Atac è se stessa!». Il punto esclamativo è degli estensori dell’audit e suona come il grido disperato di chi non sa più come farsi ascoltare. Di chi vede qualcosa che lo spaventa. Scrive infatti delle possibili responsabilità in Atac lo studio legale Guidone di Napoli, il cui parere è allegato al dossier: «Non va sottaciuta la possibile sussistenza di un’associazione per delinquere».

Repubblica 8.11.13
La rabbia del sindaco “Hanno tradito la città ma ora si volta pagina”
Marino: peggio di Cosa nostra, chi sa parli
intervista di Giuseppe Cerasa


ROMA — «È una vigliaccata, una coltellata alle spalle di una città come Roma. Truffatori senza scrupoli che si nascondono tra le maglie della pubblica amministrazione, traditori del loro mandato, della loro funzione. E tutto a danno dei cittadini onesti. Vuole qualcosa di più forte? Bene, ascolti. La storia dei biglietti falsi, emessi da una centrale clandestina che opera dentro l’Atac, è più grave di una storia di mafia. Sì, è peggio di Cosa nostra...».
Sindaco, è vero che lei ha lavorato per anni a Palermo, è vero che si è trovato di fronte a pressioni e anche minacce della criminalità organizzata, feroce e spietata. Ma si rende conto di cosa sta dicendo?
Ignazio Marino è furibondo, non si ferma un minuto, sta in piedi, sa che questa è la sua prima vera rogna e vuole giocare all’attacco. Non ha tempo da perdere con le ritualità, non ha tempo né voglia di mostrare (come fa spesso anche in occasioni di incontri banali) il meraviglioso affaccio sui Fori imperiali. Non ha tempo per far notare che ha cambiato la disposizione del tavolo rispetto alle finestre o che l’arrivo di quadri recuperati dai sottoscala del Campidoglio e ora esposti in pubblico rendono più piacevole la sua residenza quotidiana. Oggi è fuori di sé. Vede che tutto quello che si è detto in campagna elettorale non vale nulla rispetto a questo scandalo dei ticket d’oro. Vede che tutte le chiacchiere sulla moralizzazione vanno ad infrangersi contro un clan del malaffare annidato dentro la macchina pubblica da anni. Una specie di zecca clandestina dispensatrice di milioni di euro. E allora va giù duro senza pietà.
«Si, so quello che dico. E sa perché penso che sia peggio della mafia? Perché almeno la mafia si conosce e si può combattere a viso aperto. Questa invece è una malattia infettiva che si estende in tutto il corpo e provoca la morte all’improvviso. Ecco perché io sarò durissimo, non guarderò in faccia nessuno, agirò con la mannaia facendo cadere tante teste.Glielo garantisco».
Sindaco lei capisce che questo scandalo arriva mentre lei è alle prese con i buchi di bilancio, mentre i cittadini romani sono chiamati a più sacrifici e meno servizi e mentre la Regione vi passa cento milioni di euro per ripianare le perdite dell’Atac, togliendoli magari dalla sanità.
«E per questo sono indignato. Roma è una capitale del G8, è pazzesco pensare che qui agisce una sorta di virus dell’Aids che distrugge le cellule sane della città. Ma in questo caso la cura c’è. Cioè bisogna mandare in carcere questi ladroni e buttare la chiave, senza guardare in faccia amici o eventuali colleghi di partito. La giustizia deve essere implacabile con tutti. Per questo noi ci costituiamo parte civile e chiediamo al procuratore Pignatone di fare in fretta, di scoprire tutta la verità. E facciamo un appello a chi ha carte e documenti: tirateli fuori, dateli ai giudici. Vogliamo sapere tutta la dinamica»
Ma c’è chi dice che voi finora con l’Atac non avete mostrato il volto così duro. Alcuni dirigenti strapagati sono stati appena spostati di stanza.
«E a lei sembra facile fare pulizia in quattro mesi? Abbiamo iniziato un processo cambiando amministratore delegato, abbiamo rimosso il direttore generale, sollevato il capo di Atac patrimonio, persone con stipendio superiore a 500mila euro all’anno».
La sensazione è che questa storia dei ticket fasulli nasconda un accordo bipartisan, destinato ad arricchimenti personali e a foraggiare in nero i partiti.
«Mi auguro che non sia così. Ma ripeto: chi ha i documenti per provarlo si faccia avanti, lo accompagnerò io stesso dal giudice, non in bicicletta, ma con la mia macchina di servizio. Del resto ci sono già delle inchieste che riguardano gli ultimi dieci anni. E ai magistrati dico: fate presto».
Si indaga anche sulla parentopoli dell’Atac, sull’assunzione di amanti, fidanzate, parenti, cubiste...
«Sono d’accordo. Questa è una azienda che da anni è in disfacimento. Si assumevano amministrativi e non gli autisti. Ma lei lo sa che su 164 tram la metà resta ferma per mancanza di personale? Lo sa che non avendo i controllori, il rapporto tra passeggeri e paganti è tra i più bassi d’Europa?».
Ma chi l’ha eletta chiede fatti. Chiede di voltare pagina.
«Saranno accontentati. Con i sindacati abbiamo deciso il trasferimento del 15% di personale per coprire i ruoli più strategici. Taglieremo del 20% gli stipendi più alti. Non più di quattro dirigenti arriveranno a 200mila euro all’anno: rispetto agli attuali 600mila euro è un atto di vera moralità. Ma voglio aggiungere questo: nessuno fermerà la voglia di pulizia dell’amministrazione. La nostra missione è cacciare i ladroni fuori dal tempio di Roma e sbatterli in galera. Le giuro che ci riusciremo».

Roma Today 6.11.13
Video. La Pasionaria Micaela Quintavalle umilia i sindacati
qui segnalazione di Nuccio Russo

qui

l’Unità 8.11.13
Era come le altre
Olivetti, fine del mito Si moriva di amianto
3,7 i milioni di tonnellate di amianto prodotti in Italia. Siamo secondi in Europa
69% La percentuale dei casi di mesotelioma dovuta a un’esposizione professionale
di Adriana Comaschi


È l’ultimo schiaffo, e si rivela mortale. Il rimpianto per la dispersione di una grande storia industriale diventa choc ora che la Procura di Ivrea mette sotto accusa la Olivetti per una ventina di casi di tumori, contratti da ex dipendenti a contatto con l’amianto in alcuni dei suoi stabilimenti piemontesi. Tra i 24 indagati ci sarebbero anche nomi prestigiosi come Carlo De Benedetti che subito si dice «totalmente estraneo ai fatti» e l’ex ministro Corrado Passera, in qualità di Ad e di coamministratore delegato. Per tutti gli indagati l’accusa è di omicidio colposo e lesioni colpose plurime.
Un’indagine complessa, avviata un anno e mezzo fa sulla scia delle segnalazioni dell’Ausl di Torino 4, quando ha cominciato a registrare diversi casi di mesotelioma pleurico. Due parole che valgono una condanna a morte, ormai associate in modo inequivocabile all’esposizione ad amianto come la terribile vicenda dell’Eternit di Casale Monferrato ha insegnato. Passando al setaccio la vita lavorativa di chi ormai era in pensione da anni che la Procura si è imbattuta nell’Olivetti: gli ammalati erano impiegati a Scarmagno, Agliè, S.Bernardo, in diversi reparti, tra la fine degli anni 70 e i 90. Qui hanno respirato polveri fatali, qui hanno maneggiato materiale contaminato. Senza alcuna protezione, «nessun sistema di aspirazione delle polveri, niente maschere e guanti, nessuna informazione» certifica l’avvocato Laura D’Amico che segue due dei casi di questa prima inchiesta collettiva. E così si riaffaccia l’incubo Eternit: morire di lavoro, a distanza anche di decenni, quando ormai magari si è appesa la tuta blu a un chiodo. Morire per il solo fatto di avere un’occupazione, inconsapevoli dei rischi corsi fino all’ultimo. Questo sarebbe successo anche ai dipendenti della “fabbrica modello”, che tale è rimasta nell’immaginario collettivo ben oltre la morte di Adriano Olivetti, nel 1960.
«Questa inchiesta ci riporta con i piedi per terra riassume amaro il segretario Fiom di Torino Federico Bellono -: l’Olivetti era una fabbrica, che mirava a fare profitto e in cui sono forse accadute anche vicende di morte, dovute magari a mancati controlli». Una fabbrica come tante, troppe altre insomma. Un sospetto che prende piede già anni fa, quando davanti ai giudici compare Lucia Delaurenti. Malata di mesotelioma, prima di morire nel 2005 testimonia sulle condizioni di lavoro nello stabilimento di Agliè, dove come «allenatrice» contribuiva al montaggio di parti in gomma nelle macchine da scrivere.
LE TESTIMONIANZE DELLA PRIMA SENTENZA
Racconta di quella polvere utilizzata per rendere più scorrevole il montaggio, di cui «erano piene le scatole da cui venivano tolti i pezzi ricorda D’Amico -, tanto che questi erano come “infarinati”». Quella polvere conteneva tremolite, tipo di amianto cancerogeno. Nel 2010 il tribunale di Ivrea riconosce colpevole di «non avere tutelato l’integrità dei lavoratori» l’ad di Olivetti negli anni (tra il 72 e il 76) in cui la donna è stata più esposta all’amianto, ovvero Ottorino Beltrami. Condanna confermata in Appello a Torino a fine 2012. Colpisce un passaggio della sentenza di primo grado: la responsabile del laboratorio di analisi chimiche della ditta riferisce di avere analizzato la polvere in questione, di avere trovato l’amianto e «di avere suggerito di non usarlo più». Uno dei periti citati spiega poi che la sua pericolosità era già nota all’epoca e che «vi era la possibilità di usare un talco non contaminato». Beltrami ricorre in Cassazione, ma nel frattempo muore.
Si apre un secondo dibattimento per una dipendente deceduta nel 2007. Ma le segnalazioni crescono e la Procura di Ivrea apre il fascicolo di cui si parla oggi. Tra gli indagati anche gli amministratori che si sono succeduti nel tempo, tra cui appunto l’ex banchiere Passera (coamministratore tra il 92 e il 96) e il presidente del gruppo l’Espresso, a capo della società dal ‘78 al ‘96: «Nel rispetto degli operai e delle loro famiglie precisa una nota di De Benedetti attendo fiducioso l’esito delle indagini, nella certezza della mia totale estraneità ai fatti contestati. La realizzazione delle strutture oggetto di indagine precede infatti di diversi anni l’inizio della mia gestione. Nel periodo della mia permanenza in azienda inoltre l’Olivetti ha sempre prestato attenzione a salute e sicurezza dei lavoratori, con misure adeguate alle norme e conoscenze scientifiche dell’epoca». L’inchiesta si dovrebbe concludere entro l’anno. E rischia di ampliarsi. Il sindacato si muove, consapevole che questa storia «potrebbe essere solo all’inizio». «Stiamo cercando di ricostruire quando e dove si sono svolte le lavorazioni a rischio, della tremonite a quei tempi non si sapeva nulla spiega Giuseppe Capella della Fiom di Ivrea -. Dal 12 novembre poi attiviamo nella nostra sede Cgil uno sportello di informazioni e assistenza legale a ex dipendenti Olivetti».

il Fatto 8.11.13
Roma, l’ultima ruota del Festival
Si apre oggi l’ottava edizione della “Festa” del cinema
di Federico Pontiggia


UN’EDIZIONE “SCHIZOFRENICA” PER DIRLA CON IL DIRETTORE MARCO MÜLLER: POCHE ANTEPRIME E NON MOLTE STAR INTERNAZIONALI. A FAR RUMORE SONO SOPRATTUTTO GLI ESCLUSI

Il destino nel nome. Anzi, nel titolo: Roma anno VIII apre con L’ultima ruota del carro. Il regista Giovanni Veronesi non ce ne voglia, sulla carta il tentativo di ritornare ai fasti della commedia all’italiana con il tuttofare Elio Germano merita, ma il titolo suona sintomatico di un’intera kermesse, diretta per il secondo anno da Marco Müller. Indietro tutta, direbbe Arbore, e più di un sipario è già calato sull’Auditorium, dove oggi inaugura un’edizione paradossale: “schizofrenica”, l’ha definita Müller, chiosando il passaggio da festival a festa, ovvero il ritorno al futuro. Problema, e se la festa originariamente intesa da Veltroni e Bettini fosse già finita? Sponsor in fuga, budget “decurtato” – una bestemmia, in tempi di crisi – a 7 milioni di euro, la fregola di riempire a ogni costo il red carpet e l’ennesimo lasciapassare offerto alla politica, che qui ha fatto sempre il brutto e cattivo tempo. Dalla veltroniana grandeur de ‘noantri al tandem Alemanno-Polverini, e la loro ostinata predilezione per il sinologo Müller, che suo malgrado continua a pagare il peccato originale: lo sventurato rispose, sì. Forse, è il suo ultimo anno, forse, tornerà a Locarno o dirotterà sull’Asia, quel che non cambierà è l’ingerenza del Palazzo: gli assessori Lidia Ravera (Regione) e Flavia Barca (Comune) a tracciare il sentiero luminoso della kermesse, stigmatizzando le mancanze della politica, meglio, delle politiche dei predecessori. Tra mille omaggi, Il Gattopardo restaurato non è in cartellone, il suo adagio sì: “Cambiare tutto per non cambiare nulla”.
SE UNA RICERCA certifica che in Francia il mondo della cultura pesa più dell’industria automobilistica (61 contro 59 miliardi di euro, non è una favola), noi si prova una Conferenza nazionale del cinema, e nel mentre si continua la guerra di quartiere (non di poveri, solo perché il budget di Roma non lo è): il festival capitolino chiude il 17 novembre, il 22 apre quello di Torino, diretto da Paolo Virzì con 2,4 milioni di budget. Quattro soli giorni di distanza, manco fossimo il Bengodi della cultura, manco le sale – eccezione per il campione Checco Zalone, che non fa primavera – traboccassero, manco le librerie godessero e i lettori prolificassero.
No, il campanilismo la fa ancora da padrone, la concorrenza perde lealtà, i fuochi d’artificio sono fatui: è qui la festa, come no. Dunque, schizofrenia creativa: forzosamente abrogato l’imperativo delle anteprime mondiali, conditio sine qua non per avere la stampa internazionale sul Tevere (ma le cortesie per gli ospiti rimangono), dovrebbe aprirsi una corsia preferenziale per il grande pubblico, con cinefilia democratica e le stelle messe al tappeto. Sì, ma quante? Pochine, Joaquin Phoenix, Scarlett Johansson e il regista Spike Jonze per Her, Jennifer Lawrence per Hunger Games – La ragazza di fuoco, Rooney Mara, Jared Leto, John Hurt, Sophie Turner, gli italiani Elio Germano, Filippo Timi, Valeria Golino e un tot di divi orientali. Basteranno per richiamare nel non-luogo di Renzo Piano le folle? Dubitare è lecito, perseverare nella revisione della formula festival-festa diabolico.
EPPURE, alcune garanzie ci sono: gli incontri con Hurt, Jonathan Demme (porta un nuovo doc, Fear of Falling), Jonze e Zalone, il serbatoio del reale di Prospettive Doc Italia e le diversioni creative di CinemaXXI, che qualche piacevole sorpresa si trova sempre.
Gli italiani non stanno a guardare , tre quelli in lizza per il Marc’Aurelio d’Oro: Tir, l’on the road filosofico di Alberto Fasulo; Take Five di Guido Lombardi, che nei bassi napoletani rintraccia la progenie delle Iene tarantiniane (degli stessi produttori FiglidelBronx, non perdete Ritratti abusivi, sui fuorilegge del Parco Saraceno); I corpi estranei di Mirko Locatelli, con papà Timi e il figlio malato. Per ora, hanno fatto più rumore gli esclusi: Schiavi di Stefano Mencherini, sull’odissea dei migranti verso l’Italia; Something Good di Luca Barbareschi, thriller sulle sofisticazioni alimentari che avrebbe dovuto pre-aprire; soprattutto, Tortora, una ferita italiana di Ambrogio Crespi, che dopo il rifiuto di Müller avrà una proiezione riparatrice alla Camera dei deputati. Per questo “politico” festival, la pena del contrappasso…

Corriere 8.11.13
La rabbia di Suha Arafat: «Ucciso in modo vigliacco da un traditore nel Palazzo»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — «Il crimine è stato commesso dentro la Muqata, è dentro la Muqata che bisogna indagare». Suha Arafat denuncia la congiura di palazzo anche se il palazzo nove anni fa era ridotto a poche stanze circondate dalle macerie. Il leader palestinese viveva sotto assedio da ventiquattro mesi, circondato dai carrarmati israeliani e attorniato dai suoi fedelissimi. Che gli preparavano il mangiare, gli versavano il té o il caffé, lo aiutavano a lavarsi.
La vedova ha ricevuto da un paio di giorni il rapporto dei medici dell’ospedale universitario di Losanna, 108 pagine per provare a spiegare le cause della morte, un dossier che i patologi svizzeri esitano a definire conclusivo. Rivelano di aver trovato tracce di polonio 210 diciotto volte superiori alla norma nei frammenti di ossa ma ammettono: «Possiamo escludere il polonio come responsabile del decesso? La risposta è chiaramente no. Possiamo affermare con certezza che il polonio ne sia il responsabile? La risposta è purtroppo no». La squadra incaricata da Suha di riesumare il corpo un anno fa dal mausoleo a Ramallah considera comunque l’ipotesi dell’avvelenamento la «più coerente».
Per Suha non è un’ipotesi. Da Losanna e Parigi sta tornando sull’isola di Malta dove vive con la figlia Zahwa, che in luglio è diventata maggiorenne. «È un omicidio politico — commenta al telefono —, è stato ucciso in modo vigliacco. Se fosse morto in battaglia, sarebbe stato diverso. Così è ancora più scioccante, questa scoperta mi ha fatto ritornare in lutto». Racconta: «Il criminologo britannico David Barclay non mi ha lasciato dubbi. Il polonio deve essere stato somministrato a Yasser da qualcuno molto vicino a lui, che gliel’ha messo nel té, nel caffé o nella cena».
L’isotopo radioattivo è lo stesso rilevato nel corpo di Alexander Litvinenko, l’ex colonnello dei servizi segreti russi che aveva denunciato le trame cecene ed era morto avvelenato a Londra nel 2006. È un elemento molto raro, che gli scienziati definiscono «esotico». A Suha gli esperti hanno spiegato che «viene realizzato all’interno di un reattore nucleare»: «Con questo non voglio dire che uno Stato sia per forza coinvolto nel complotto, il polonio potrebbe essere stato acquistato al mercato nero».
Ad accusare uno Stato sono invece i nuovi capi palestinesi, che chiedono un’inchiesta internazionale («come per l’assassinio del premier libanese Rafiq Hariri», pretende Wassel Abu Yussef) e fanno capire che l’eliminazione del raìs era nell’interesse degli israeliani.
Dov Weisglass, all’epoca consigliere del premier Ariel Sharon, smentisce che il governo vedesse vantaggi nella scomparsa del presidente palestinese: «A quel punto era isolato e senza potere», commenta all’agenzia Associated Press . Raanan Gissin, un altro assistente di Sharon, ricorda: «Il primo ministro non voleva aver niente a che fare con la morte di Arafat, è per quello che ha dato il permesso per il trasferimento all’ospedale militare a Parigi». Silvan Shalom, ministro degli Esteri nel 2004, assicura: «Non abbiamo mai approvato la decisione di colpirlo fisicamente».
Oggi a Ramallah la commissione d’inchiesta palestinese presenta i risultati delle analisi sui resti del leader effettuate dall’istituto forense di Mosca. Suha non ci sarà, sono anni che non torna, in questi giorni non ha parlato con nessuno dei successori del marito. «Il presidente Abu Mazen ha permesso la riesumazione del corpo, per questo lo ringrazio. Adesso deve garantire che i colpevoli vengano trovati».

il Fatto 8.11.13
Occupy Antenna. Ad Atene sgombero forzato dei reporter
Dopo il licenziamento a giugno di tutti i 2.700 dipendenti di Ert, un gruppo di lavoratori aveva occupato la sede
Lacrimogeni e arresti per portarli via
di Roberta Zunini


Non stavamo occupando illegalmente. Quando a giugno eravamo stati licenziati, avevamo ricevuto una lettera dall'incaricato del governo, Tikas Manalis, in cui ci informava che avremmo dovuto prenderci cura dei macchinari e delle infrastrutture senza specificare fino a quando”. Eleftheria Papoutsaki, per sei anni ha curato il montaggio delle news di Ert, l'emittente radiotelevisiva pubblica greca, che cinque mesi fa è stata chiusa, senza alcun preavviso, dal governo perché divenuta troppo costosa a causa della crisi finanziaria.
CON UN'ALTRA cinquantina di colleghi, ieri mattina all'alba, era all'interno della sede di Ert dove la polizia ha fatto irruzione dopo aver forzato le serrature. “Ci hanno dato pochi minuti per evacuare la sede, poi una squadra di agenti antisommossa è entrata correndo, come se avessero dovuto sgominare una banda di rapinatori asserragliati in una banca”, spiega al Fatto la montatrice, ancora frastornata.
Nella sede dell'ex tv di Stato, nella periferia di Atene, dal giorno della chiusura, il personale licenziato ha rispettato la richiesta del governo ma ha anche continuato a realizzare servizi e documentari, trasmessi, ovviamente, solo online. “Ogni giorno e ogni notte, dal giorno della chiusura, ci siamo dati i turni per non lasciare vuota la sede. Certo sospettavamo che prima o poi sarebbe successo qualcosa, visto che non ci eravamo limitati a fare la manutenzione dei macchinari, ma non con queste modalità”, aggiunge.
Davanti alla sede dell'emittente si sono tenute manifestazioni di protesta, disperse dalla polizia con lacrimogeni e bombe assordanti. Tra i manifestanti non c'erano solo molti dei 1500 dipendenti licenziati su un totale di 2700. Studenti, gente comune, esponenti di Syriza, il partito di sinistra all'opposizione, si sono radunati per mostrare la loro solidarietà con gli ex dipendenti.
   Durante il raid, i poliziotti avevano arrestato quattro persone tra le quali un membro del sindacato Pospert, Nikos Tsimbidas, rilasciati dopo qualche ora. “I dipendenti avevano il diritto di rimanere nella sede e a fare il loro lavoro dal momento che il loro licenziamento è incostituzionale e dunque illegale. Inoltre confermo che nella lettera spedita da Manalis erano stati incaricati di occuparsi delle infrastrutture”, spiega Katerina Sigeniotou, avvocato di alcuni giornalisti e tecnici del-l 'Ert. Che da questo mese non avranno più lo stipendio perché il governo aveva garantito solo quattro mensilità.
I giornalisti poco tempo dopo il licenziamento avevano denunciato anche le modalità con cui circa 1200 loro colleghi erano stati riassunti per l'emittente pubblica che ha sostituito Ert.
Il blocco di sinistra Syriza ha annunciato una mozione di sfiducia contro il governo “che ha scritto una pagina nera nella storia della libertà di stampa e della democrazia nel Paese”. Lo stesso commento è arrivato dalla Federazione Nazionale della Stampa italiana.
Il governo greco, che ha ribadito la legalità dell'evacuazione, avvenuta alla presenza di un magistrato, in questi giorni sta negoziando per l'ennesima volta con gli ispettori della troika arrivati nella capitale per chiedere nuovi tagli e licenziamenti. La tensione nel Paese resta altissima anche per gli omicidi politici delle scorse settimane.

Corriere 8.11.13
Il degrado culturale della Grecia che fa temere una nuova Weimar
di Antonio Ferrari


Il titolo del Financial Times è duro e forte, sicuramente più ruvido dell’analisi del professor Aristides Hatzis. Sostenere, come si legge nel titolo, che la «Grecia può essere la nuova Weimar», è improprio. Però sono tanti i segnali che annunciano pericolosi scollamenti, con un governo avvitato su un piano di riforme che non si vedono; con un’opposizione sempre più demagogica e confusa (in particolare la coalizione di sinistra Syriza), nella quale convivono europeismo e anti-europeismo, maoisti ed ecologisti: un gruppo eterogeneo che non è in grado di offrire un’omogenea piattaforma politica. E poi ci sono i temuti neonazisti di Alba dorata, che non sono in crescita di consensi, ma neppure sono crollati dopo gli ultimi gravi episodi di violenza. Gli arresti e i provvedimenti contro i parlamentari del partito, che si presenta come seguace di Hitler, hanno comunque colpito e umiliato un popolo che è nazionalista ma non fascista.
È verissima la paurosa crisi che sta coinvolgendo l’istruzione superiore. I corsi universitari, in un Paese che vive nel culto dello studio di «qualità», non sono ancora cominciati. Il personale amministrativo, infatti, è in sciopero da settimane e impedisce lo svolgimento del lavoro accademico. Le ragioni dello sciopero sono comprensibili. I tagli nel settore pubblico sono infatti mostruosi. Nella sola Università centrale di Atene, su 1300 impiegati amministrativi ne vogliono cancellare oltre 500. Corsi ed esami, di conseguenza, subiranno altri esiziali ritardi, con il rischio di rendere incompleto l’anno accademico e di ferire la cultura.
Il professor Hatzis sul FT scrive che chi arriva ad Atene non vede quel che il titolo del giornale lascia immaginare. È proprio così: le manifestazioni sono contenute. Tutti, insomma, sembrano osservare il degrado senza mostrare particolari reazioni. O meglio, più che la rabbia si respira una crescente rassegnazione. Però sarebbe ingiusto non considerare la speranza, nella quale molti fortunatamente si rifugiano, che presto si possa individuare un raggio di luce, che indichi l’uscita dal tunnel.

il Fatto 8.11.13
Tra razzismo e risorsa
La ricchezza britannica? L’immigrazione
di Caterina Soffici


Londra La battaglia è sugli immigrati. E quindi alla fine, anche sulla società multiculturale, vanto e orgoglio del Regno Unito. Davvero gli immigrati adesso fanno paura? Davvero l’isola non è più in grado di assorbire e integrare nuovi flussi? Ieri l’istituto di statistica ha detto che nei prossimi 25 anni, da qui al 2037, la popolazione del Regno Unito aumenterà di 10 milioni e il 60 per cento è dovuto all’immigrazione.
Su questi sentimenti di paura fanno leva movimenti razzisti come la English Defence League: arrabbiati, violenti, teste calde oltre che rasate, ce l’hanno con tutti gli stranieri, ma principalmente contro gli islamici. Ma soprattutto su questo terreno cresce la popolarità dell’Ukip, il partito indipendentista e anti-europeista di Nigel Farage, che continua a salire nei sondaggi e costringe i conservatori a spostarsi a destra per non perdere voti.
Quindi, mentre i giornali vicini ai Tory strillano ogni giorno che il turismo della salute minaccia i conti del Servizio Sanitario Nazionale (Nhs), che dietro ogni angolo c’è uno straniero pronto a fregare il lavoro a un nativo inglese e che dal primo di gennaio l’isola sarà invasa da orde di bulgari e romeni in cerca solo di case popolari e assistenza gratuita, i dati fotografano una realtà completamente opposta. Due studi indipendenti, pubblicati dal Financial Times, arrivano alle stesse conclusioni e confermano che i migranti sono un bene per l’economia britannica .
“Gli immigrati di ultima generazione sono più istruiti, pagano più tasse e chiedono meno aiuti statali rispetto ai nativi britannici”, si legge in una ricerca del Centro di Ricerca e Analisi delle Migrazioni dell’University College London.
LO STESSO SOSTIENE il rapporto dell’Istituto Nazionale per la Ricerca Economica e Sociale, secondo cui “le industrie con quote elevate di lavoratori migranti hanno avuto maggiore produttività del lavoro. Ogni nuovo immigrato porta a un aumento della produttività del lavoro dello 0,06-0,07 per cento”. Secondo la Ucl tra il 1995 e il 2011, gli immigrati provenienti dall’Ue hanno contribuito per 8,8 miliardi di sterline in più di quanto hanno ricevuto in benefici, mentre il salasso viene principalmente dai britannici, che hanno pesato sulle finanze pubbliche (in sussidi e altro) per 604,5 miliardi.
Per gli extracomunitari il contributo è più modesto: hanno immesso nel sistema fiscale britannico solo il 2 per cento in più di quanto hanno preso, ma il saldo rimane positivo. Nello stesso periodo invece, i nativi britannici hanno succhiato più di quanto hanno versato, coprendo solo l’89% di quanto costano.
Questi sono i dati. Ma ieri il Daily Express continuava a raccogliere firme per limitare il numero degli accessi di stranieri.

Corriere 8.11.13
Chi può temere la pace iraniana
di Sergio Romano


Sullo stato reale delle trattative fra l’Iran e i «Cinque più uno» (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza e la Germania) non sappiamo quasi niente. Le ultime dichiarazioni ufficiali sono generalmente vaghe e accompagnate dai soliti caveat con cui un buon negoziatore attenua in una frase quello che ha appena affermato nella frase precedente. Persino le parole pronunciate domenica scorsa dal Leader supremo, l’Ayatollah Khamenei, possono essere lette e interpretate in modi totalmente diversi. Ma sembra ormai chiaro che tutti i Paesi coinvolti vogliano creare intorno alle trattative un clima di reciproca fiducia e di benevole aspettative. Non esiste ancora un accordo, ma esiste il desiderio di evitare che tutto finisca rapidamente su un binario morto. I due principali negoziatori — Teheran e Washington — sembrano avere capito che questo nuovo esercizio diplomatico non può correre il rischio di trasformarsi in una trattativa infinita. O si arriva abbastanza rapidamente a qualche concreto risultato o la mancanza di una intesa, in queste particolari circostanze, equivarrebbe al fallimento: una prospettiva che non sembra piacere né a Barack Obama né a Hassan Rouhani. Il segnale più promettente sarebbe un alleggerimento delle sanzioni (vi sono 50 miliardi di dollari, da qualche parte nel mondo, che l’Iran non riesce a incassare) contro una temporanea sospensione del programma nucleare di Teheran. Il negoziato, da quel momento, diverrebbe più disteso e promettente.
Esiste un altro fattore che sembra confermare, indirettamente, la possibilità di un accordo: il malumore di coloro che lo considerano come una minaccia ai loro interessi. È preoccupata l’Arabia Saudita che vede nel grande Stato sciita un potenziale nemico e già tratta gli Stati Uniti, da qualche settimana, con ostentata freddezza. Sono preoccupati i piccoli regni sunniti della regione, dove vivono forti comunità sciite di cui l’Iran diverrebbe il protettore. È preoccupato Israele che non smette di lanciare ammonimenti sulla pericolosità e l’inaffidabilità del regime iraniano. Ed è rabbiosamente ostile negli Stati Uniti una parte influente del partito repubblicano. Non è altrettanto preoccupata invece l’Unione europea per cui un accordo con l’Iran sarebbe il solo segnale di pace proveniente da una regione in cui soffiano, dalla Siria al Pakistan, soltanto venti di guerra.
Se mai verrà raggiunto, l’accordo cambierebbe la carta politica del Grande Medio Oriente. L’Iran diverrebbe una legittima potenza regionale, ufficialmente riconosciuta e rispettata. Avrebbe un posto al tavolo dei negoziati sulla Siria e diverrebbe un interlocutore necessario nelle questioni che concernono l’Afghanistan, l’Iraq, il Libano, alcune vecchie repubbliche sovietiche del Caspio e del Caucaso. Non sappiamo se agirebbe responsabilmente, ma Barack Obama sembra disposto a riporre in Rouhani una certa fiducia. L’accordo, d’altro canto, segnalerebbe una svolta della politica estera americana. Confermerebbe che gli Stati Uniti, dopo le brutte esperienze dell’ultimo decennio, non vogliono essere il gendarme del mondo e che il loro patto di ferro con i sauditi non è più indispensabile (anche grazie alle rocce scistiche, che contengono depositi di gas più vicini alla superficie terrestre, resi accessibili dalle nuove tecnologie). Forse è arrivato il momento in cui gli alleati europei degli Stati Uniti dovrebbero cominciare a interrogarsi sul modo di badare a se stessi quando l’America avrà meno bisogno della Nato o la userà soltanto se le sarà utile.

Corriere 8.11.13
Come giunsero in occidente le notizie sull’Olocausto
risponde Sergio Romano


Mi capita spesso di sentirmi domandare da giovani, se le persone della nostra generazione abbiano saputo magari dai genitori, qualcuno anche impegnato politicamente ai tempi della promulgazione delle «leggi razziali», della deportazione e dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. A me personalmente non è mai successo, però ho tentato di documentarmi attraverso testimonianze storiche, apprendendo che la prima denuncia ufficiale della tragedia sarebbe stata diffusa da parte dei governi delle Nazioni Unite, il 17 dicembre 1942 e passata sotto silenzio da molte eminenti personalità internazionali, ivi compreso papa Pio XII. Non solo ma risulterebbe anche che Franklin. D. Roosevelt non volle prestar fede alla testimonianza dei misfatti in corso in Polonia, portatagli in occasione di un colloquio di circa un’ora nel luglio 1943, dal militante cattolico della resistenza polacca, Jan Karski. Gradirei conoscere il suo pensiero in proposito.
Costanzo Ajello

Caro Ajello,
Occorre fare una distinzione. Che gli ebrei fossero perseguitati era universalmente noto. Sin dalla sua vittoria elettorale, nel gennaio 1933, il governo di Hitler prese provvedimenti che ricalcavano per certi aspetti quelli annunciati da un famoso procuratore del Sinodo russo alla fine dell’Ottocento. Konstantin Pobedononoscev aveva dichiarato che l’unico modo per risolvere il problema degli ebrei in Russia era quello di ucciderne un terzo, espellerne un terzo, convertirne un terzo. La formula nazista, per qualche anno, fu quella di consentire la loro partenza, dopo la totale confisca dei beni, o imprigionarli in un campo di concentramento.
Sull’esistenza dei campi e sulla brutalità del trattamento a cui i prigionieri erano sottoposti, non vi erano dubbi. Nel 1933 apparve ad Amsterdam, in tedesco, un libro del romanziere Lion Feuchtwanger intitolato I fratelli Oppenheim (nelle edizioni successive I fratelli Opperland ), in cui erano narrate le vicende di una famiglia ebraica berlinese e la detenzione in un lager del protagonista. Mondadori ne comprò i diritti e si apprestava a pubblicarlo verso la metà degli anni Trenta, ma dovette rinunciare quando i rapporti italo-tedeschi cominciarono a prefigurare l’alleanza che sarebbe stata formalmente stipulata nel 1939. La situazione era ben conosciuta anche da un comitato americano, creato a New York dopo l’invasione tedesca della Francia per aiutare artisti e scrittori anti-nazisti (fra cui molti ebrei e lo stesso Feuchtwanger) a raggiungere Lisbona e di lì gli Stati Uniti o il Messico. L’uomo che da Marsiglia diresse l’operazione fu un giornalista americano, Varian Fry, e le sue memorie sono apparse recentemente presso l’editore Sellerio (Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941. Artisti, dissidenti, ebrei in fuga dai nazisti , a cura di Valentino Parlato, Palermo 2013).
Altre notizie sulla sorte riservata agli ebrei dell’Europa centro-orientale giungevano in Vaticano grazie alle comunicazioni che i sacerdoti polacchi inviavano a Roma per il tramite del nunzio della Santa Sede a Berlino. Ma il primo testimone oculare della politica di sterminio che la Germania adottò dopo la conferenza di Wannsee (gennaio 1942) fu probabilmente il singolare personaggio citato nella sua lettera. Incaricato dalla Resistenza polacca di una missione segreta in Occidente, Jan Karski volle riferire al governo britannico e a quello degli Stati Uniti ciò che egli stesso era riuscito a constatare di persona. Con l’aiuto degli esponenti della comunità ebraica visitò due volte il ghetto di Varsavia e riuscì, con l’uniforme di un poliziotto ucraino, a entrare in un lager nei pressi di Lublino dove assistette al massacro di parecchie centinaia di ebrei. Furono rinchiusi in un treno dove il pavimento era stato cosparso di calce viva e vennero bruciati e soffocati dalle esalazioni della calce al contatto con i loro corpi. Il racconto di Karski non cambiò la strategia degli Alleati. La loro priorità era la sconfitta della Germania e la causa degli ebrei dovette sembrare in quel momento secondaria.

il Fatto 8.11.13
Razzie di guerra. Storia di Rodolfo Siviero
Lo 007 dell’Arte che salvò i capolavori dalle SS
di Marco Filoni


A vederlo, nulla tradiva il suo reale lavoro. Come una vocazione nascosta, il mestiere di spia era celato con grazia. Sembrava un professore: il portamento elegante, la fronte alta, l’incedere distinto e l’eloquenza gentile. Non assomigliava allo stereotipo degli 007, focosi amanti e novelli avventurieri, che si stava costruendo in quegli anni. Eppure Rodolfo Siviero è stato proprio questo: un agente segreto, baldanzoso, che con nonchalance e agio si muoveva fra le fila dei nemici. E quei nemici erano le SS dell’occupazione nazista in Italia, in particolare il Kunstschutz, il reparto militare tedesco voluto da Göring che con la scusa di proteggere le opere d’arte dai bombardamenti alleati requisiva il nostro patrimonio. Del resto ancora oggi si scoprono, inaspettate, tracce di quelle razzie.
Rodolfo Siviero era nato in provincia di Pisa, nel 1911. Figlio di un sottufficiale dei carabinieri, si era formato a Firenze fra gli ambienti artistici e letterari dell’epoca. E come ogni giovane di buone promesse che si rispetti, coltivava ambizioni poetiche e culturali. Ciò non toglie che già nel ’34 entra a far parte dei servizi segreti militari. Gli viene affidato un compito congeniale: una borsa di studio in storia dell’arte in modo che, sotto copertura, possa trasferirsi in Germania e raccogliere informazioni sui progetti d’invasione dell’Austria. Siviero è allora un convinto fascista: crede che il regime porterà al miglioramento e allo sviluppo del paese.
COSÌ SERVE fedelmente il regime. Ma l’agente segreto non è un bieco esecutore: la sua avversione al fascismo (documentata dalle pagine del suo diario) cresce man mano che questo mostra la sua faccia più ripugnante, raggiungendo l’apice con l’avvento delle leggi razziali, che Siviero considera infami. Ecco allora che passa a lavorare con gli alleati: raccoglie informazioni e fa da tramite con la Resistenza fiorentina. È in questo momento, fra il ’43 e il ’45, che diventa il salvatore dei nostri capolavori: si mette di traverso ai progetti nazisti di far incetta dei tesori d’Italia per compiacere volgari collezionisti della domenica. Ecco allora che questo elegante signore, che conosce le opere d’arte come un critico raffinato, inizia rocambolesche operazioni di salvataggio: fughe con quadri sottobraccio, improbabili travestimenti da frate per nasconder sotto il saio tele di valore inestimabile e altre centinaia di azioni degne d’un romanzo d’avventura.
Ognuna meriterebbe d’esser raccontata. Come quella per salvare i quadri di Giorgio De Chirico nella sua villa di Fiesole, abbandonata per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi: Siviero si traveste da ufficiale della polizia e va a portar via i quadri sotto gli occhi, incoscienti e ignoranti, dei militari tedeschi. Ma forse il salvataggio più importante è quello dell’Annunciazione del Beato Angelico, che Göring voleva per la sua collezione: Siviero, carpita l’informazione, con due frati va al convento di Piazza Savonarola di Firenze e porta via il dipinto un giorno prima dell’arrivo dei tedeschi. L’attività dello 007 dell’arte (come sarà soprannominato) è tale che, alla fine della guerra, De Gasperi lo incarica ministro plenipotenziario per il recupero delle opere d’arte. È così che riporta a casa centinaia di opere. Ma alcune ancora mancano. Perciò il James Bond dell’arte inizia a tessere una fitta rete di informatori, antiquari accondiscendenti, belle donne da sedurre: con estrema abilità e un’elevata dose di spregiudicatezza scova e recupera opere come la Danae di Tiziano, che Göring si era fatto regalare per il compleanno per abbellire la sua camera da letto; o anche l’Apollo di Pompei che Hitler teneva in casa; per finire con il discobolo Lancellotti, la straordinaria copia romana del Discobolo di Mirone. E poi Bruegel, Tiziano, Raffaello, il Parmigianino e molti altri.
SIVIERO muore nel 1983, lasciando alla regione la sua casa come museo. Negli ultimi anni aveva denunciato sempre più la cecità della classe politica rispetto ai beni culturali. Oggi bisognerebbe ricordarsi di più di Siviero e domandarsi se davvero possiamo permetterci che il suo immenso lavoro risulti inutile. Perché questo sta succedendo: Siviero ha difeso le nostre opere dai nazisti ma nulla ha potuto e può contro il loro più acerrimo nemico: l’incuranza di chi dovrebbe averne cura.

Repubblica 8.11.13
Scienziati superstar
Il Nobel ai tempi dei mass-media conta più la fama della ricerca
L’allarme dall’Università di Washington “I media premiano troppo visibilità e personalizzazione”
di Massimiano Bucchi


«Papà, i nostri compagni di scuola pensano che tu sia un fico!». Così i figli di Peter Agre accolsero il padre allorché si diffuse la notizia che gli era stato assegnato il premio Nobel per la Chimica 2003. «Prima di allora non si erano mai interessati al mio lavoro», commentò stupito lo scienziato, comprendendo di aver varcato quella soglia oltre cui la notorietà sul piano scientifico si trasforma in visibilità mediatica e perfino in celebrità.
La presenza di “scienziati visibili” caratterizza gran parte della storia della scienza. Le conferenze di Natale di Michael Faraday alla Royal Institution nel primo Ottocento richiamavano un pubblico numeroso ed entusiasta. Agli inizi del secolo successivo, la popolarità di figure come Thomas Edison e Nikola Tesla era tale che nel 1915 la Reuters e numerosi quotidiani annunciarono erroneamente che i due avevano ricevuto il premio Nobel per la fisica. Prima ancora di essere premiato a Stoccolma, Guglielmo Marconi era già una figura nota al grande pubblico: i supplementi illustrati davano ampio spazio alle sue invenzioni e alle sue vicende private e in un solo anno (1903) ilCorriere della Sera arrivò a dedicargli ben 67 articoli; la stampa svedese lo seguì minuto per minuto durante la sua visita a Stoccolma. Alcuni studiosi collocano simili processi nel contesto di una crescita della società dei consumi e dell’industria dell’intrattenimento, che contribuirono a definire una nuova “cultura della personalità” in cui esponenti del mondo della cultura, della scienza e dello spettacolo avevano sempre più spazio a discapito di figure dal mondo dell’impresa e della politica.
Ma la celebrità scientifica per eccellenza del secolo scorso fu indubbiamente Albert Einstein. Dopo che i maggiori quotidiani internazionali annunciarono in prima pagina i risultati che confermavano la teoria della relatività, ogni suo viaggio e conferenza divenne un evento di rilevanza pubblica. Nel 1923, la folla raccolta per accoglierlo a Tokyo paralizzò la stazione; «alla sagra del crisantemo » scrisse un quotidiano «né il principe reggente né i principi imperiali erano al centro dell’attenzione: tutto ruotava intorno ad Einstein». L’immagine in cui mostra la lingua, ritagliata da una foto scattatagli in auto in occasione del suo 72esimo compleanno, è divenuta un’icona globale da poster e da T-shirt.
Dopo la seconda guerra mondiale, la visibilità scientifica fece un nuovo salto di scala grazie alla crescente presenza di temi scientifici nei media e soprattutto alla diffusione della televisione. L’astro-nomo e divulgatore Carl Sagan divenne una figura familiare al pubblico americano grazie alla sua partecipazione al Johnny Carson Show e a serie televisive di grande successo come Cosmos – il libro tratto dalla serie restò in classifica per 70 settimane e ogni cena al ristorante divenne l’occasione per un assedio da parte dei fan.
Oggi lo scienziato che su scala internazionale più incarna il concetto di celebrità è probabilmente il fisico Stephen Hawking. Autore del bestseller planetario Dal Big Bang ai buchi neri,Hawking è comparso tra l’altro in vari episodi dei Simpson, in un episodio diStar Trek e la sua voce computerizzata è stata inserita in una canzone dei Pink Floyd. Hawking evidenzia anche la fusione di dimensione pubblica e privata che sempre più caratterizza l’immagine pubblica degli scienziati più visibili. Testate come Vanity
Fair hanno dato ampio risalto alla sue tormentate vicende sentimentali; in occasione del suo settantesimo compleanno i media di tutto il mondo hanno rilanciato le sue considerazioni sulla scienza, l’Universo, e su quale tema occupi maggiormente i suoi pensieri («Le donne. Sono un completo mistero»).
Secondo Declan Fahy dell’American University di Washington, il fenomeno delle celebrità scientifiche va compreso nel quadro di una «crescente mediatizzazione della scienza che ha reso il mondo della ricerca sempre più permeabile alle logiche della visibilità e comunicazione pubblica».
Le celebrità scientifiche offrono infatti ai media la possibilità di personalizzare temi e argomenti complessi ed astratti, oltre che di ancorare e nobilitare gli argomenti più disparati grazie al prestigio pressoché indiscusso di figure come i premi Nobel.
Non scontato è che la presenza mediatica di una celebrità contribuisca a diffondere e valorizzare contributi scientifici. Quando nel 1999 il premio Nobel Renato Dulbecco partecipò al Festival di Sanremo, uno studio rivelò che una quota rilevante del pubblico non era in grado di riconoscerne correttamente l’area disciplinare, e talvolta neppure di qualificarlo come scienziato; nemmeno l’aver seguito il Festival migliorava significativamente l’accuratezza delle risposte.
Difficile, anzi difficilissimo diventare una celebrità scientifica. Ma una volta acquisita, la celebrità si autoalimenta secondo quello che il sociologo Robert Merton definì “Effetto San Matteo”, dal passo dell’omonimo Vangelo in cui si dice: «a chi ha, verrà dato, e sarà nell’abbondanza: ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha» (Matteo, 25:29). Coloro che già si trovano in posizioni di visibilità e prestigio avranno accesso privilegiato ad altre risorse e posizioni di visibilità, e così via. Nelle parole di un premio Nobel per la fisica, «il mondo tende a dar credito alle persone già famose». Di qui non solo la tendenza a far esprimere le celebrità su argomenti spesso ben distanti dalle loro competenze specifiche, ma la capacità della popolarità mediatica di riverberarsi sulla stessa comunità scientifica. Il fisico Jeremy Dunning-Davies, ad esempio, si lamenta del fatto che «gli articoli scientifici che mettono in discussione le teorie di Hawking non hanno successo perché la sua reputazione è andata ben oltre la dimensione puramente scientifica».
Einstein, che aveva sperimentato tutta l’ambivalenza della condizione di celebrità scientifica, riassunse la sua esperienza con la consueta ironia: «Per punirmi del mio disprezzo per l’autorità, il destino ha fatto di me stesso un’autorità».

Repubblica 8.11.13
Depressione? Arriva il neurobiologo
Una serie di studi analizzano la patologia e propongono nuove diagnosi
di Massimo Ammaniti


Il tema della mente umana ha sempre affascinato filosofi, psicoanalisti, ma anche neurobiologi come è testimoniato da un articolo di Eric Kandel, premio Nobel per la medicina e la fisiologia, pubblicato dal New York Times. È vero che Kandel, prima di intraprendere i suoi studi sui meccanismi cerebrali della memoria e dell’apprendimento, avrebbe voluto diventare psicoanalista. Ma proprio in quegli stessi anni Kandel iniziò a staccarsi dal lavoro clinico mostrando un interesse crescente per la ricerca neurobiologica di base. Erano anni nei quali si privilegiava, soprattutto negli Stati Uniti, la clinica psicoanalitica e psichiatrica legata al rapporto diretto col paziente, anche se si cominciava ad avvertire l’insufficienza di un approccio che non prendesse in considerazione la ricerca, soprattutto quella sul cervello. Abbandonate le discussioni cliniche sulle dinamiche della mente, Kandel concentrò la sua ricerca, in modo potremmo dire riduzionistico, sui meccanismi cerebrali dell’Aplysia, una lumaca di mare che presenta un corredo neuronale molto semplice.
Pur studiando un organismo biologico così semplice, Kandel è giunto a conclusioni più generali sull’influenza dell’apprendimento sull’efficienza delle preesistenti connessioni sinaptiche fra neuroni che possono favorire la comparsa di nuovi schemi comportamentali. Trasferendo queste osservazioni al campo umano, quando ad esempio avvengono scambi verbali e visivi fra due persone, non solo si verifica una reciproca condivisione a livello psicologico, ma anche a livello dei reciproci circuiti cerebrali che ne vengono modificati.
L’articolo di Kandel, «La nuova scienza della mente», ripropone gli interrogativi sul rapporto fra mente e cervello. In un periodo nel quale lo studio neurobiologico va spesso alla ricerca delle aree e delle localizzazioni cerebrali per spiegare il comportamento umano, Kandel ci mette in guardia dal pericolo di un approccio riduzionistico che non può in nessun modo spiegare la complessità dei processi mentali umani più elevati. Per questo motivo i disturbi psichiatrici non possono essere omologati semplicisticamente ai disturbi della sfera corporea. Tuttavia nello studio dei disturbi psichici si stanno verificando passi incoraggianti, ad esempio nella comprensione della biologia della depressione e dei circuiti cerebrali implicati in questo disturbo. Varie aree cerebrali sarebbero implicate nella depressione, come quelle che mediano le risposte inconsce e motorie allo stress oppure la consapevolezza di sé e degli altri. Ma anche altre aree sono coinvolte, come quelle che intervengono nel sonno, nell’appetito o nella libido oppure con il riconoscimento della salienza emozionale delle esperienze. Come si vede il funzionamento del cervello è interessato nella sua globalità e media i comportamenti e gli stati d’animo tipici della depressione.
Ma quali sono le implicazioni di questi studi neurobiologici? Kandel ritiene che queste osservazioni neurobiologiche possano aiutarci a distinguere forme diverse di depressione, che invece sono difficili da distinguere prendendo soltanto in considerazione il piano dei sintomi, per esempio alla base delle categorie diagnostiche proposte dal recente Manuale Diagnostico americano DSM-5 che include ogni forma di depressione persistente nella categoria generale della distimia. E queste distinzioni neurobiologiche, come nota anche Kandel, possono essere anche utili sul piano terapeutico perché si possono riconoscere forme cliniche che rispondono meglio alla psicoterapia da quelle che invece migliorano con i farmaci antidepressivi. Ma ci sono altre annotazioni rilevanti: in primo luogo che l’interessamento cerebrale nella depressione non è univoco, ma ha sfaccettature complesse come la stessa esperienza personale di chi soffre di depressione. Inoltre la psicoterapia è «una terapia del cervello » che produce cambiamenti riconoscibili nel cervello, come avviene con l’apprendimento, e infine gli effetti della psicoterapia possono essere studiati e documentati.
Kandel afferma che la nuova scienza della mente definisce l’inseparabilità della mente e del cervello, anche se è opportuno ricordare la distinzione fra cause prossimali e distali fatta dal grande biologo evoluzionista Ernst Mayr, le cui lezioni furono seguite da Kandel. Nel caso della depressione le cause prossimali sono rappresentate dalle disfunzioni cerebrali, mentre quelle distali, possiamo dire quelle decisive, da esperienze personali di perdita o di deprivazione oppure traumatiche che incidono profondamente nel proprio sé e nelle relazioni con gli altri, creando un vissuto di depressione e di rinuncia.

Repubblica 8.11.13
Repubblica anche a settembre prima nelle vendite


ANCHE a settembre Repubblica si conferma primo quotidiano in edicola con 297.092 copie. Seguono Il Corriere della Sera con 287.474, e La Gazzetta dello Sport, edizione del lunedì, con 255.245. La Stampa di Torino si ferma a 182.186, seguono poi Il Corriere dello Sport Stadio, edizione del lunedì, con 175.477 eIl Sole24Ore con 120.779 vendute in edicola. Si tratta dei dati ADS (Accertamenti diffusione stampa).
Tra i quotidiani locali del Gruppo Editoriale L’Espresso spiccano i dati di vendita in edicola della Tribuna di Treviso (70.429 copie), Il Tirreno (57.772),La Nuova Sardegna
(45.956) e Messaggero Veneto (43.853).
Bene i settimanali del Gruppo, a cominciare dalVenerdìdi Repubblicache a settembre totalizza 446.995 copie tra diffusione cartacea e digitale. Seguono D La Repubblica delle Donne con un totale di 348.393 copie, e L’Espresso 239.525 copie.