domenica 10 novembre 2013

l’Unità 10.11.13
Bioetica, basta con il silenzio
di Carlo Flamigni


Di bioetica nessuno parla più, come se la crisi togliesse valore alla sofferenza di tanti cittadini e allo scempio della loro dignità.
DEL TUTTO RECENTEMENTE IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO HA NOMINATO IL NUOVO COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, destinato a restare in carica per quattro anni, e ho avuto la netta percezione che nessuno se ne sia accorto, a parte forse i Comitati di bioetica degli altri Paesi europei che hanno, per il nostro Cnb, un rispetto probabilmente immeritato ma che personalmente non mi dispiace. Mi viene in mente che durante l’ultima guerra mondiale c’erano, in tutti i bar, cartelli che avvisavano che «qui non si parla di politica né di alta strategia». Ebbene, adesso c’è un nuovo manifesto invisibile, sulle nostre teste, che dice che qui non si parla di etica. Si è così creata una situazione che, per usare un understatement, è per lo meno peculiare: il nostro Comitato ci consente di partecipare a tutti i tavoli che in campo internazionale si occupano di etica, di diritti dell’uomo e di altri argomenti altrettanto fondamentali, consente al nostro primo ministro di non doversi vergognare quando questi temi sono all’ordine del giorno in Europa, e intanto lo stesso primo ministro sta togliendo al Comitato tutto il personale che collabora alla sua funzionalità, in modo da renderlo del tutto inefficiente. Una volta questo si chiamava masochismo, con l’involgarimento della cultura probabilmente oggi si dovrebbe parlare di coglioneria. Ma lasciatemi continuare.
Debbo dire che nessuno in questo Paese si è accorto che il nostro Cnb, pur non essendo certamente un esempio assoluto di laicità, è più laico oggi di quanto non lo sia mai stato in passato, tanto che in molti documenti si è dotato di uno stile descrittivo e non prescrittivo: ciò significa che sembra aver perduto la vecchia abitudine di usare la sua inevitabile maggioranza cattolica per stabilire naturalmente a colpi di maggioranza la scelta morale più adatta da suggerire al governo per preparare le sue leggi e si è adattato a un lavoro molto più onesto, laico e democratico che consiste nella corretta esposizione delle varie teorie esistenti per lasciare poi alla politica il compito di mediare, scegliere e decidere. Nessuno si è nemmeno accorto che su un certo numero di temi che avevano a che fare con la bioetica e che sono stati recentemente oggetto di dibattito nel Paese, il Cnb aveva scritto documenti che meritavano (almeno) di essere letti: cito a memoria quelli sull’obiezione di coscienza dei medici nei confronti delle interruzioni volontarie di gravidanza, sullo stato di salute dei carcerati, sui suicidi dei detenuti nelle nostre malfamate prigioni, sulla sperimentazione dei farmaci, sulla cosiddetta pillola del giorno dopo e così via.
Ma la politica ha fatto di peggio, e qui mi permetto di togliere un dolorosissimo sasso che mi è finito in una scarpa: oltre a disinteressarsi completamente di quello che il nostro povero Cnb ha fatto e scritto, quei pochi partiti che hanno ritenuto necessario destinare qualcuno a occuparsi del problema «bioetica» hanno scelto persone della più straordinaria, ineffabile incompetenza.
Tutto ciò solo per dire che dei problemi di bioetica, dei quali un tempo si parlava almeno di tanto in tanto, oggi nessuno parla proprio più, come se il fatto di attraversare una crisi economica epocale togliesse significato e valore alla sofferenza di tanti cittadini e allo scempio della loro dignità: non conta l’angoscia dei malati terminali che vorrebbero poter disporre della propria esistenza e non essere invece costretti a vivere (si fa per dire) in un tunnel di dolore, paura e disperazione; non conta l’ansia di tante giovani donne, messe incinta da un compagno imbecille, che non vogliono rovinarsi la vita con una gravidanza non desiderata; non conta l’umiliazione delle molte persone che stanno pagando il loro debito con la società e che sono costrette a farlo in un carcere ricavato direttamente da una porcilaia; non conta la rabbia di chi vorrebbe evitare di mettere al mondo figli portatori di gravi malattie genetiche ed è costretto ad andare all’estero. Vorrei anche che i compagni che leggono queste righe non pensassero che si tratta di temi di nicchia, che possono benissimo aspettare tempi migliori: una delle parole che vengono usate con maggior frequenza nelle discussioni tra bioeticisti è «dignità», il riferimento è naturalmente alla dignità dell’uomo, quella sorta di cenestesi dello spirito la cui importanza ci risulta chiara solo quando qualcuno cerca di ferirla e umiliarla: per capire quanto questa parola sia attuale pensate al lavoro, che è la nostra maggior sorgente di dignità personale, quella che ci fa guadagnare il rispetto degli altri. Provate a considerare in questo modo il problema del lavoro, forse sarete costretti a rivalutare i problemi dell’etica.
Spero che ci sarà spazio in avvenire proprio su questo giornale per riprendere la discussione su questi temi, per parlare di salute e di malattia, di modelli di medicina e di dignità; e mi piacerebbe che si aprisse su di essi una franca discussione tra di noi, non importa se laici o cattolici, con una sola regola: non possono esistere, in una democrazia, temi intoccabili perché protetti da un dogma, la democrazia esige razionalità e logica, non accetta motivazioni metafisiche e «perchè sì». Qui, su questo giornale, perché questo giornale è il giornale storico della sinistra, chi altri potrebbe farsi carico di questi problemi? Se interrogate la gente della mia generazione, vecchi (proprio vecchi) laici, democratici, quasicomunisti, materialisti storici, su quale tipo di morte vorrebbero incontrare, avrete due risposte prevalenti: alcuni vi diranno che vorrebbero morire, a 90 anni, uccisi da un marito geloso; gli altri che vorrebbero essere uccisi a rivoltellate, alla stessa età, da un fascista ubriaco mentre vendono l’Unità per strada.

il Fatto 10.11.13
Lidia Ravera contro il sindaco sul cimitero dei feti


“GRUMI di materia” che non possono essere chiamati “bambino o bambina”. È polemica a Roma per le parole dell’assessore alla Cultura della Regione Lazio, Lidia Ravera in un post sul suo blog sull’huf  fingtonpost.it   dopo che il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha realizzato un cimitero dei feti. Le parole della Ravera, che ha parlato anche di “donne che, poiché il corpo ha le sue insondabili leggi, non sono riuscite a portare a termine il loro dovere di animali al servizio della specie” e di “una delle tante crociate del superfluo”, hanno innescato una serie di reazioni. Prima di tutto da parte del Vicariato che oggi, tramite un editoriale di Angelo Zema, responsabile del settimanale Roma Sette, periodico della diocesi di Roma in edicola con Avvenire , fa appello al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti perché intervenga. Ma anche in chi qualche anno fa aveva già realizzato qualcosa di simile a Roma e cioè l’amministrazione Alemanno e in particolare l’ex vicesindaco Sveva Belviso. Al cimitero Laurentino, infatti, è stato riservato uno spazio per il cimitero dei feti. Ieri Francesco Storace ha annunciato che “se non lo fa Zingaretti, formalizzeremo la richiesta di dimissioni di Ravera con una mozione in aula”.

l’Unità 10.11.13
Sindacati in sciopero contro la manovra
di L. V.


MILANO Se si dovesse sintetizzare in una battuta la freddezza con cui i sindacati confederali hanno accolto la legge di Stabilità presentata dal governo Letta, basterebbe citare Luigi Angeletti: «Abbiamo passato un anno a parlare dell’Imu e nel frattempo abbiamo perso molte centinaia di migliaia di posti di lavoro». La contrarietà di Cgil, Cisl e Uil alla manovra di bilancio è profonda, tale da giustificare la settimana di mobilitazione unitaria che da domani fino a venerdì le organizzazioni promuoveranno su tutto il territorio
nazionale. Un programma intenso, fatto di quattro ore di sciopero, con eccezioni anche di otto ore, che coinvolgerà i lavoratori di tutti i settori e che si articolerà a livello territoriale in decine di iniziative.
Nel frattempo, insieme alla protesta, i sindacati procederanno con la proposta, attraverso gli incontri che Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti avvieranno con i gruppi parlamentari dei diversi partiti (già in calendario quelli con il Pd, Sel e Fratelli d’Italia).
Le rivendicazioni alla base della mobilitazione mirano, in particolare, a colpire sprechi e rendite per dare più risorse ai lavoratori e ai pensionati: «I sindacati chiedono misure per diminuire le tasse sui lavoratori e sui pensionati, così come risorse per rivalutare le pensioni, insieme all’adozione di iniziative per affrontare i nodi irrisolti nella pubblica amministrazione e dare efficienza alla spesa pubblica. Il tutto attraverso un ventaglio di proposte che mira al taglio degli sprechi e dei costi della politica». Le proposte fra l'altro hanno come obiettivo il taglio degli sprechi e dei costi della politica. E puntano a cambiare radicalmente la legge di Stabilità, per dare quelle risposte necessarie a far ripartire il Paese.
Nessuno si nasconde la posta in gioco, ovvero la possibilità che l’Italia sia in grado di riprendere a crescere, di agganciare la ripresa per dare una mossa ad un mercato del lavoro praticamente fermo, e così affrontare le tante emergenze sociali sollevate ed aggravate in questi anni di recessione. Per questo Susanna Camusso sostiene che il varo della legge di Stabilità è «il banco di prova delle politiche del governo», il momento in cui si potrà valutare la maggiore importanza data ad alleggerire le tasse sul patrimonio immobiliare come l’Imu, oppure ad alleviare il peso fiscale che grava sulla parte produttiva del Paese, quella del lavoro e delle imprese. In poche parole, «se si danno risposte positive, oppure no».
Per il momento, anche il governo sembra rispondere con un cenno d’apertura attraverso le parole del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, secondo cui è giunto il momento «di fare scelte importanti per migliorare la qualità della vita di molte persone».
A concludere la settimana di protesta delle organizzazioni confederali sarà proprio il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che venerdì 15 novembre a Milano concluderà la manifestazione unitaria che prenderà il via in piazza della Scala a partire dalle 9,30.

l’Unità 10.11.13
Tessere o non tessere
di Luca Landò


C’È QUALCOSA DI NUOVO, ANZI D’ANTICO NEL MODO IN CUI IL PD INSISTE NEL FARSI DEL MALE, COME DIREBBE MORETTI. C’eravamo appena ripresi dalla carica dei 101, quando il partito riuscì in un colpo solo ad affondare la candidatura di Prodi e la segreteria di Bersani. Avevamo trovato un segretario, traghettatore quanto si vuole, ma dalle dichiarazioni nette e tutt’altro che ondivaghe. Eravamo entrati nel vivo della campagna elettorale per scegliere chi ne prenderà il posto trasformando il traghetto in nave.
Avevamo insomma dimostrato che il Pd, tra mille incertezze e inciampi, è vivo e lotta insieme a noi: e che succede? Ti plana sulla testa, per non dire altro come scriverebbero in Irlanda, lo scandalo dei congressi truccati e delle tessere gonfiate. Che saranno anche pochi casi, come hanno detto tutti a cominciare da Renzi, ma quei casi, in questo momento, pesano più del satellite piombato ieri sulla Terra. E se non fosse per i tavoli della Leopolda a Firenze o la kermesse di Cuperlo ieri a Milano, il danno sarebbe stato ancora maggiore.
Diciamola tutta: a un mese dall’elezione del nuovo segretario, dover parlare di iscrizioni all’ingrosso anziché di progetti per il partito e programmi per l’Italia è un clamoroso autogol. Perché è un devastante danno di immagine. E perché in questa clamorosa coincidenza si nasconde l’attuale debolezza del Pd. Un partito grande non è solo un grande partito, nel senso dei numeri: è un partito adulto, che sa dettare le regole e farle rispettare. E soprattutto riconosce, gestisce e affronta i pericoli. Li previene. Lo ha detto con la consueta schiettezza Emanuele Macaluso: «Nemmeno alla bocciofila ci si può iscrivere un minuto prima della gara. L’iscrizione a un partito, a una formazione politica, è il riconoscersi in esso e nei suoi valori. Qui si prende la tessera solo per sostenere questo o quel candidato».
Il paradosso è che l’effetto bocciofila non nasce dall’inesperienza di un partito troppo giovane, ma dall’incontro di due tradizioni politiche esperte e rodate. Per costruire una casa comune, i due vecchi inquilini hanno fatto della trattativa e della mediazione la regola aurea della loro convivenza, tanto che lo stesso metodo (trattare, mediare, accogliere le richieste di tutti) adottato dalle anime del Pd (Ds e Margherita e relativi antenati) viene applicato ancora oggi dai nuovi protagonisti. E i risultati, purtroppo, si vedono. Perché in nessun partito al mondo ci sono congressi di sezione riservati ai soli iscritti mentre il segretario nazionale può essere scelto da chiunque passi per strada. E in nessun Paese del mondo si sceglie un segretario che, in modo automatico, diventa il candidato premier del partito anche quando in carica, in quel momento, c’è un premier dello stesso partito. In politica si può fare tutto, lo sappiamo, però una cosa è rigorosamente vietata: lanciare messaggi contraddittori agli elettori.
Ma la vicenda delle tessere rivela un altro aspetto su cui il Pd non sembra porre la dovuta attenzione. Drew Western, uno studioso americano di comunicazione applicata alla politica, lo chiama «effetto framing»: è la tecnica che per decenni ha permesso ai repubblicani di battere i democratici nei duelli televisivi prima dell’era Obama. Consiste nel creare intorno al tuo avversario una gabbia verbale, una cornice («frame») di definizioni dalla quale il malcapitato non riesce più a uscire. Funziona così: lui parla di riforme intelligenti e progetti interessanti e tu gli dici che è un comunista, una toga rossa, un giustizialista. Poco importa che quelle definizioni non abbiano nulla a che fare con il contesto della discussione: alla fine passa il messaggio che quelle riforme e quelle proposte sono state avanzate da un comunista, una toga rossa, un giustizialista.
Le definizioni riportate non sono casuali: la tecnica del framing è stata copiata e applicata da Berlusconi in vent’anni di talk show, interviste e conferenze stampa, come ha detto lo stesso Drew Western a proposito del caso italiano. Per due lunghi decenni la sinistra si è lasciata incorniciare dalle definizioni e dagli epiteti berlusconiani: merito del Cavaliere, certo, ma anche colpa della sinistra che è stata lenta nel riconoscere e arginare quelle devastanti tecniche di comunicazione senza riuscire a imporre, con forza, un suo punto di vista nettamente diverso.
Il guaio è che questa volta siamo riusciti nel capolavoro, per nulla invidiabile, di finire incorniciati, non per mano di altri, ma per merito nostro. Il risultato è che a meno di un mese dal voto per il nuovo segretario, su giornali e tv non si parla delle proposte dei candidati ma dello stop al tesseramento, del congresso annullato di Rovigo, delle consultazioni da rifare a Frosinone e Cosenza, del senatore Stefano Esposito che si è autosospeso dal Pd dopo l’elezione a Torino di un segretario di circolo con precedenti penali, fino alle poco simpatiche battute sui pullman di cinesi pronti a iscriversi da qualche parte.
Non è così che si costruisce la comunicazione politica di un partito che aspira a guidare l’Italia nella difficile opera di risanamento economico e sociale. Al punto che, forse, varrebbe la pena lanciare ai candidati una proposta concreta e per nulla indecente. Da oggi mancano quattro settimane esatte al voto dell’8 dicembre: possiamo, d’ora in avanti, parlare solo di temi che riguardano l’Italia e gli italiani? Ne proponiamo quattro, uno per settimana: lavoro in generale, giovani in particolare, politiche per la crescita. Infine non sarebbe male avere una proposta chiara sulla riforma elettorale, di cui tanto si parla ma nulla si fa. È vero, ogni candidato ha scritto e presentato un programma in cui queste cose, in un modo o nell’altro, compaiono tutte. Ma è inutile girarci intorno: non è con i programmi e le mozioni che si costruisce la comunicazione quotidiana, quella che realmente arriva ai cittadini e ai possibili elettori. Anziché discutere di regole e congressi, non sarebbe meglio spiegare l’Italia che abbiamo in mente e che vogliamo? Tessere o non tessere, questo è il problema.

l’Unità 10.11.13
Pd, battaglia sulla sinistra
Cuperlo: «La sinistra vince se è se stessa, non saremo mai il volto buono della destra, non possiamo piacere a tutti»
L’affondo su Renzi: «Come si fa a dire che l’Italia è ridotta così per colpa di pensionati e sindacati?»
In chiusura cita Eduardo: «Per noi la notte sta per finire, è quasi mattina e noi siamo l’alba»
Epifani annuncia che il congresso Pse si terrà a Roma e Fioroni minaccia la scissione
Prodi: non voterò alle primarie
di Laura Matteucci


MILANO «Noi non siamo nati per correggere la sintassi della destra, non siamo il volto buono della destra, noi siamo la sinistra». Logica conseguenza: «Noi non possiamo piacere a tutti, dobbiamo parlare e rappresentare la maggioranza offesa dai pochi che contano, per questo serve un partito». Gianni Cuperlo riparte da qui, da uno dei passaggi chiave della sua campagna per il congresso: un partito con un’identità chiara e decisa, «perché dobbiamo dire chi siamo, e anche per chi siamo, per quali bisogni ci battiamo, sennò il rischio è che dietro di te non ci sia più un popolo». E la prima parola chiave è dignità, «quella cosa che rende umana l’esistenza».
Prima uscita pubblica milanese per il candidato alle primarie di dicembre, nello stesso teatro l’Elfo Puccini che un paio d’anni fa consacrò la vittoria di Giuliano Pisapia sul ventennio berlusconiano. Il sindaco è lì, seduto in prima fila in una sala stracolma tra Guglielmo Epifani, che intende partecipare a tutte le convention dei quattro candidati, e Gad Lerner, che invece è lì per partigianeria dichiarata. Quello di Pisapia no, non è un endorsement, non voterà nemmeno, e nel suo intervento auspica che «dopo l’8 dicembre si torni a costruire un percorso comune, per un centrosinistra esteso». All’Elfo arriva anche la notizia di un altro non votante di rilievo, Romano Prodi, «che ha il merito dell’esistenza stessa del Pd», come ricorda Cuperlo. «Immagino le ragioni di questa scelta commenta, alludendo ai voti mancati per l’elezione a Presidente della Repubblica Prodi è stato il protagonista, suo malgrado, di uno degli episodi più drammatici della vita del partito. A noi non tocca solo chiedergli di ripensarci, ma convincerlo che
il Pd ha capito i suoi errori».
E gli errori per Cuperlo riguardano anche il modo con cui il Pd ha affrontato l’economia, la finanza e la crisi infinita che dalle loro storture è derivata, l’aver smarrito il legame con il suo popolo. «Una crisi mai conosciuta prima la definisce Epifani in cui abbiamo perso 1 milione di posti di lavoro, un decimo del reddito, abbiamo ridotto drasticamente i consumi». Allora, «dobbiamo trovare la via d’uscita riprende Cuperlo Capendo come è stato possibile entrare in un cono d’ombra dove i poveri non hanno più fatto scandalo, né paura al potere, ai governi. E indicare le ragioni della riscossa civile, economica, culturale».
LA SCONFITTA DEL BLAIRISMO
Parla del «valore sociale del lavoro, a partire da giovani e donne, con un piano finanziato dalle risorse che potremo recuperare dai minori interessi sul debito e dai maggiori margini che sapremo trattare a livello europeo». Cita il nuovo sindaco di New York, «che ha vinto dicendo cose di sinistra», e poi Gramsci, Eddie Murphy, sul finire del suo discorso citerà anche Eduardo e la sua «Napoli milionaria», perché anche lì c’era una famiglia, una comunità, che aveva perso il senso della dignità, e vissuto a lungo convinta che tutto abbia un prezzo, e «per tutto il resto c’è Master Card» (citazione sua, pure questa, di «una bella pubblicità»). «Com’è accaduto chiede che la politica e la sinistra abbiano pensato di poter fare a meno del loro popolo, abbagliati dal potere?». L’altra parola chiave del suo intervento è redistribuzione: degli oneri, dei diritti, delle opportunità, delle ricchezze «abbiamo raddoppiato il numero di cittadini poveri, sono 5 milioni» di rapporti tra nord e sud del mondo, ma prima di tutto delle priorità: «Noi siamo il futuro se torniamo a tracciare il limite invalicabile tra ciò che è dell’economia, del mercato, e ciò che è della persona».
Il suo avversario più accreditato, Matteo Renzi, non lo nomina mai ma è quasi onnipresente. Quando torna sulla polemica della doppia poltrona, quella di sindaco e di segretario del partito, che Renzi vorrebbe per sé: «È una questione di principio, si fa bene un mestiere alla volta. Se ti candidi a cambiare tutto nella sinistra e nel Paese, non lo fai come secondo lavoro». Quando torna sui motivi della crisi: «Come si fa a dire che se l’Italia è ridotta così la colpa è di pensionati, sindacati, partiti? Non è una questione di garbo. È proprio l’idea che hai del Paese, della sua storia, ma soprattutto di quello che dovrai fare tu dopo». Per chiarire: «La sinistra che ha trovato la sua massima espressione nel blairismo non è stata in grado di evitare che il mondo si guastasse. Riprodurre quell’impianto, e rivendicarlo venti anni dopo, significa ripetere quel ventennio».
Cuperlo replica a Renzi anche quando torna sul capitolo che riguarda strettamente il Pd e il caos tesseramenti. «Non è certo un partito piccolo quello che voglio dice ma la soluzione non è abolire gli iscritti. Senza iscritti non c’è un partito e chi propone di azzerare le differenze tra iscritti ed elettori sta proponendo di sciogliere il Pd o comunque di farne qualcosa di diverso». Rivendica la propria idea di partito: «Non basta un leader solitario che sconfigga un altro leader solitario quanto lui. La forza della politica e della sinistra è pensare il mondo come lo vorresti che poi è la differenza che passa tra un istituto di sondaggi e l’identità di un partito».
«Ha da passà ‘a nuttata», diceva Eduardo alla fine della sua commedia. Per Cuperlo «è già quasi mattina. E noi siamo l’alba».

il Fatto 10.11.13
Pd, guerra continua. Ora lo scontro è sul Pse
Epifani: “Faremo il congresso a Roma”
Fioroni lo gela: “Mai decisa l’adesione ai socialisti europei, allora torniamo alla Margherita”
di Wanda Marra


“Non sa quello che fa...”. Qualcuno aveva commentato così la richiesta di Schulz – candidato alla presidenza della Commissione europea per il Pse – al Pd di organizzare a Roma in febbraio il congresso di partito per lanciare la campagna elettorale alle europee. Battuta profetica: e infatti anche stavolta il caos scoppia a orologeria. Guglielmo Epifani sceglie il palco della manifestazione per Cuperlo segretario a Milano per l’annuncio: “Tra febbraio e marzo avremo l'onore di organizzare a Roma, per la prima volta, il congresso del Pse”. Impegno che non passa inosservato, con Beppe Fioroni che dà immediatamente lo stop via Twitter: “Organizziamo il congresso del Pse perché siamo un’agenzia di grandi eventi? Chi lo ha deciso, quando e dove? È una mutazione”. Poi chiarisce: “Epifani sa che così viene meno l’atto fondativo del Pd, lo scioglimento della Margherita è annullato di fatto perché la non adesione al Pse era una clausola risolutiva”. E ammonisce: “È un blitz pericoloso e grave che annulla il partito di centrosinistra per farlo diventare di sinistra”. La parola scissione è di quelle che aleggiano come un fantasma nei dintorni del Nazareno a ondate successive. La questione Pse è uno dei nodi mai risolti: in molti tra i cattolici si pronunciarono contro. Pierluigi Castagnetti ieri ribadisce il suo no: “Con tutto il rispetto di Epifani che fa un lavoro difficilissimo: non mi pare che il Pd abbia mai deliberato di aderire al Pse”. E come lui il bindiano Gero Grassi e Enrico Gasbarra. Contrario in origine era anche Paolo Gentiloni, allora con Rutelli, ora con Renzi. Il quale Renzi a lungo ha taciuto sul tema e poi a luglio si è sbilanciato dicendosi favorevole all’adesione. Franceschini allora disse che era stato più netto di quanto sarebbe stato lui. Dopo “il silenzio assenso” via mail al blocco del tesseramento, la segreteria penserà anche a un silenzio assenso sul Pse? Il congresso avanza, il partito scricchiola paurosamente sempre di più. Ieri è arrivato l’annuncio ufficiale di Romano Prodi in un’intervista a Tele Reggio: “Non voterò alle primarie: ho deciso di ritirarmi dalla vita politica. Se voto alle primarie devo dire per chi, come e in che modo”. Già qualche tempo fa aveva fatto sapere di non aver preso la tessera del Pd. Ma si spinge oltre. “Mi auguro che in tanti vadano a votare, però io credo che sia un bene ormai, avendo fatto un passo indietro, che mi mantenga nella mia coerente posizione”. Non è esattamente una posizione neutra e indolore, quella del Professore, provenendo dal padre fondatore del Pd, lui stesso incoronato dai gazebo nel 2005. Quando a votare andarono in più di 4 milioni.
MA ORMAI il distacco di Prodi dal suo ex partito sembra conclamato e senza appello. La vicenda dei “101” traditori che fermarono la sua corsa al Quirinale nel segreto dell’urna ha lasciato il segno. Le cronache raccontano di una candidatura maturata confusamente dopo la bocciatura di Franco Marini, di una competizione prevista con Massimo D’Alema all’interno degli stessi Democratici, che non si fece mai, di un’ovazione che accolse il nome del Professore, presentato da Bersani al Capranica. E poi di una giornata di congiure, finita con la bocciatura di Prodi direttamente durante lo scrutinio. Subito dopo il candidato dichiarò la sua non disponibilità ulteriore a correre per il Quirinale.
In questo clima, Matteo Renzi ha un bel mandare lettere agli iscritti, firmate con “un sorriso”, difendendo “la dignità delle centinaia di migliaia di persone perbene che vanno a votare al congresso (solo i tesserati) e alle primarie (tutti)”. La presa di posizione di Prodi è l’ennesima doccia fredda. Ieri Epifani al sindaco non ha fatto mancare il contro-attacco sulla Cancellieri: “Abbiamo agito correttamente”. “Come si fa a dire che se l’Italia è ridotta così la colpa è dei pensionati, dei sindacati, dei partiti?”, la stoccata di Cuperlo.

Corriere 10.11.13
Beppe Fioroni
«Niente blitz O ritornerà la Margherita»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA — È pronto a entrare nel Pse, onorevole Beppe Fioroni?
«Ho grande rispetto e stima per il lavoro fatto da Epifani in questa fase delicata. Ma con grande chiarezza e forza gli dico “non facciamo blitz”».
È un blitz che il Pd organizzi a Roma, a febbraio, il congresso del Pse?
«L’adesione del Pd sarebbe un blitz pericoloso e grave, sì. Metterebbe in discussione le ragioni fondative del partito. A meno che il Pd non sia diventata un’agenzia che organizza eventi... Non abbiamo mai deciso di aderire al Pse e non basta la dichiarazione di qualche candidato alla segreteria».
Ce l’ha con Matteo Renzi?
«Nessuno, neanche il mio amico Renzi, può pensare che il primo segno del nuovo partito possa essere la rinuncia alla sua pluralità di forza di centrosinistra per diventare il partito della sinistra italiana. Non si barattano i valori progettuali del Pd per un piatto di lenticchie. A Matteo ricordo che si è candidato alla segreteria del Pd e non alla guida di una succursale del Pse».
Nel merito, perché il Pd non può entrare nel Pse?
«Sarebbe una mutazione genetica, che trasformerebbe i democratici in un soggetto di sinistra e annullerebbe di fatto lo scioglimento della Margherita. Nelle clausole risolutive del patto fondativo del Pd era espressamente indicata la condizione di non iscriversi al Pse» .
Se dovesse accadere, sarebbe scissione?
«Spero che Epifani blocchi immediatamente questa affrettata decisione a mezzo stampa, presa non si sa dove e non si sa da chi. Non vorrei che suonasse come un avviso di sfratto verso quell’area culturale importante che sono i cattolici democratici».
Sta facendo i bagagli?
«Dovremmo far prevalere le ragioni dell’unità e della condivisione e non tornare alla storia di una sinistra datata. Su questo il Pd rischia la sua tenuta. Sarebbe un errore mortale comunicare agli italiani che noi rinunciamo alla scommessa di superare le vecchie famiglie europee, mettendo insieme moderati e riformisti».
Perché il Pd non può vincere, se entra nel Pse?
«La battaglia elettorale si vince nelle praterie lasciate libere da Berlusconi».
Ha paura di morire socialdemocratico?
«Qui il problema non è se qualcuno ha deciso di farci morire socialdemocratici, ma di far finire l’innovazione del Pd per riportarci in un’area circoscritta, che non è maggioranza nel Paese e che rischia di penalizzarci alle elezioni».

l’Unità 10.11.13
Pippo Civati
«Parlo di più ai giovani perché credo che se vogliamo cambiare l’Italia dobbiamo riprendere quella generazione che abbiamo perso tempo fa»
«Difendo il ruolo dei tesserati. E basta doppi incarichi»
intervista di Maria Zegarelli


ROMA «Abolire gli iscritti? Niente affatto, credo anzi che debbano contare di più, che possano dire la loro e avere un ruolo nella vita del partito». Pippo Civati difende il ruolo degli iscritti al partito e resta fermamente contrario al blocco del tesseramento. «Si doveva intervenire sulle irregolarità e farlo con celerità, bloccare tutto adesso è inutile». Civati, partiamo da qui. Dall’accusa di doppiogiochista che le ha lanciato Gianni Pittella, per aver cambiato idea sul blocco del tesseramento. Perché in commissione ha dato l’ok e poi in direzione ha votato contro?
«Questa è la versione di Pittella che io rifiuto. Chi ha cambiato posizione è lui, non io. Noi avevamo detto che se la decisione fosse avvenuta in commissione ci saremmo astenuti, ma dal momento che è diventata politica, in direzione, è cambiato il senso. La mia contrarietà rimane, è una operazione tardiva, limitata e parziale, eppure malgrado questo abbiamo consentito che si trovasse una soluzione ed il tentativo di Epifani è stato lodevole. Quello che è grave è quanto è accaduto fino al giorno prima di questa decisione: le tessere con la macchinetta io non le ho fatte e vorrei che anche gli altri candidati potessero dire la stessa cosa».
Epifani vi invita a concentrarvi sui temi concreti. Non teme che le polemiche sulle regole prima e lo scandalo del tesseramento poi, possano scoraggiare l’affluenza l’8 dicembre?
«Io da mesi parlo solo di cose concrete, tanto che la mia mozione è stata accusata di essere troppo lunga. Avrei dovuto fare come qualcun altro che non ci ha scritto nulla? Oggi sono a Vibo Valenzia, nel profondo Sud, ascolto operai, disoccupati, giovani e lo sto facendo in modo francescano perché la mia campagna elettorale alla fine costerà meno di tanti tesseramenti poco chiari. Non sono io a dover cambiare registro».
Terzo in classifica, il più apprezzato dai giovani secondo i sondaggi, ma Pittella dice che la supererà.
«Diciamo che i sondaggi mi piazzano al terzo posto e io per gentilezza ci credo, ma starei attento a dare tutto per scontato. È vero, parlo ai più giovani perché sono convinto che se vogliamo cambiare questo Paese dobbiamo riprendere quella generazione che abbiamo perduto tempo fa. I ragazzi e le ragazze negli ultimi anni hanno scelto qualcosa di diverso dal Pd quindi è a loro che mi rivolgo non chiedendo il voto ma promettendo di dargli rappresentanza nella proposta che faccio. Ma nei circoli io incontro anche persone di una certa età e i risultati ottenuti dai candidati a me vicini lasciano ben sperare».
Renzi, superfavorito nella corsa alla segreteria, dice che farà il segretario e il sindaco. Secondo lei riuscirà a tenere tutto insieme?
«Lo dico pensando a me stesso e non agli altri: quando si assume un incarico così difficile forse sarebbe meglio concentrarsi solo su quello. Già mi sembra molto difficile conciliare l’attività parlamentare con questa campagna elettorale, figurarsi la direzione di un partito complesso come il nostro».
Ultima polemica: l’adesione al Pse e il congresso organizzato a Roma. Fioroni è furibondo. Lei che dice, dove dovrà approdare il Pd?
«Penso che tutti i candidati alla segreteria siano dell’idea che il Pd debba aderire al Pse, io ci aggiungo una vicinanza alla tradizione verde continentale come interlocuzione. Chiedo a Fioroni, anche pensando all’Ulivo, dove allinea quello spirito, alla tradizione di Delors o a quella dei conservatori europei? Bisogna chiarirci perché il mondo non gira a nostro piacimento, in Europa il cattolicesimo democratico mi sembra possa approdare nel Pse, poi spetta a noi mantenere quel messaggio il più inclusivo possibile, alla Romano Prodi, per capirci».
A proposito di Romano Prodi, ha detto che non prenderà la tessera Pd e non parteciperà alle primarie.
«Ho sentito questa notizia e me ne dispiaccio, capisco che il suo è un disagio fortissimo, ho cercato di appellarmi a lui affinché prenda la prima tessera del 2014. Ma quella che si è consumata ad aprile è stata una follia».
Lo sfregio dei 101 traditori verrà mai ricucito?
«La cosa incredibile è che ne parlo solo io, altri ironizzano. L’altro giorno un renziano mi ha detto che parlo solo dei 101, gli ho risposto che il guaio è che non ne abbiamo mai parlato davvero. Quelle sono persone che hanno cambiato l’esito delle cose e ancora oggi non sappiamo chi sono, malgrado siano stati loro a vincere».
Renzi e Cuperlo si sono “spartiti” l’appoggio di quasi tutti i parlamentari. Lei non è riuscito a convincerli?
«Non è vero che stanno tutti con loro. Ne voglio citare due che appoggiano la mia mozione: Felice Casson e Davide Mattiello, che fanno della questione giustizia e legalità la loro battaglia politica e che io ho molto a cuore. Quello che è vero è che io non ho il sostegno di tutti quelli che c’erano prima e quindi se vinco io il rinnovamento sarà totale e nessun altro può dire la stessa cosa». A chi si riferisce, all’ex rottamatore?
«Il suo carro da vincitore sta diventando un trasporto eccezionale, di quelli che in autostrada girano scortati dalle macchine».

l’Unità 10.11.13
Prodi rottama i gazebo: non voto. Scontro sul congresso Pse a Roma
Sale la tensione nel Pd. Fioroni: «Così torna la Margherita»
Lettera di Renzi agli iscritti: «Basta intrighi»
Epifani replica al sindaco sul caso Cancellieri: «Abbiamo agito correttamente»
di Simone Collini


ROMA Prodi che fa sapere che non voterà alle primarie, Epifani che replica a Renzi sul caso Cancellieri e annuncia che si terrà a Roma il prossimo congresso del Pse facendo innervosire l’ala cattolica del partito, il sindaco di Firenze che scrive agli iscritti criticando chi sulla vicenda dei tesseramenti anomali ha «sparato nel mucchio» senza fare precisi nomi e cognomi. Tra quattro domeniche verrà eletto il nuovo segretario del Pd e la tensione tra i democratici sale. Nel giro di una manciata di ore arrivano a sorpresa una serie di azioni e dichiarazioni che accendono il dibattito su più fronti nel partito.
Si parte con Prodi, che già aveva deciso di non rinnovare la tessera del Pd ma ora annuncia che l’8 dicembre diserterà i gazebo. «Non voterò alle primarie spiega alle telecamere di TeleReggio mentre partecipa all’inaugurazione della nuova sede della tv di Reggio Emilia non per polemica, ma ho deciso di ritirarmi dalla vita politica. Non sono un uomo qualunque, se voto alle primarie devo dire per chi, come e in che modo». Spiega chi ha parlato con l’ex premier che la decisione non ha a che vedere con i 101 parlamentari che lo hanno impallinato alla corsa per il Quirinale. «Ha sempre detto che non si sta in mezzo al guado», ricorda Sandra Zampa parlando della decisione del Professore di ritirarsi dalla politica e raccontando tra l’altro che a ferirlo non è stato il fuoco dei franchi tiratori, ma il silenzio di tutto il gruppo dirigente del Pd quando Berlusconi da Bari disse che con Prodi al Colle sarebbe stato meglio andare tutti all’estero. La portavoce dell’ex premier, molto vicina alle posizioni di Pippo Civati (l’altro prodiano presente in Parlamento, Sandro Gozi, sostiene invece Renzi) insiste però sul fatto che la diserzione ai gazebo deriva soltanto dalla volontà di Prodi di rimanere fuori dalle vicende della politica italiana. «Mi auguro che in tanti vadano a votare ribadisce lo stesso Professore annunciando il suo forfait alle primarie dell’8 dicembre però io credo che sia un bene ormai, avendo fatto un passo indietro, che mi mantenga nella mia coerente posizione».
Non è il solo, Prodi, ad augurarsi che siano in tanti a votare ai gazebo. Però se Epifani si dice sicuro che «ci sarà una buona presenza», nel fronte pro-Renzi si teme che le polemiche sui casi di tesseramenti anomali possano creare un clima dannoso per la partecipazione. Non a caso il sindaco di Firenze, che pure in passato aveva mostrato un atteggiamento di maggiore attenzione per il popolo delle primarie rispetto agli iscritti, ha scritto una lettera a tutti quelli che hanno preso la tessera del Pd per motivarli e difenderli. «Il Pd è oggi l’unica vera grande speranza perché il cambiamento dell’Italia sia radicale, serio, profondo. Tocca a noi, nessuno si tiri indietro», si legge nella mail spedita a 450 mila indirizzi di posta elettronica (forniti dal Pd nazionale) tra iscritti e partecipanti alle ultime primarie. Renzi vuole «vincere» e «cambiare finalmente l’Italia», «senza gli intrighi del passato, dove quando abbiamo vinto abbiamo mandato a casa i nostri leader». E critica chi ha sparato «nel mucchio» sui tesseramenti: «Dovrebbe fare i nomi e i cognomi delle singole località. Altrimenti diamo l’impressione che 370 mila persone che vanno a votare sono 370 mila imbroglioni. Non è così. Se ci sono imbroglioni, si prendono e si cacciano. Ma non si fa di tutta l’erba un fascio».
Epifani difende la scelta di sospendere da domani il tesseramento («è un atto giusto») e da Milano replica anche alle parole di Renzi sul caso Cancellieri («abbiamo agito correttamente»). Da Milano però il segretario del Pd annuncia anche che tra febbraio e marzo il Pd organizza a Roma il congresso del Pse, «un segno di appartenenza che dice quali sono le nostre radici e i nostri legami». Parole che fanno infuriare gli ex-Popolari del partito, con Beppe Fioroni che minaccia: «Epifani sa che così viene meno l’atto fondativo del Pd, lo scioglimento della Margherita è annullato di fatto perché la non adesione al Pse era una clausola risolutiva». Anche Pierluigi Castagnetti polemizza («non mi pare che il Pd abbia mai deliberato di aderire al Pse») e pure un sostenitore di Cuperlo come Enrico Gasbarra si dice «molto perplesso» per l’affermazione che il Pd ha «le sue radici» nel Pse («no a un nostalgico ritorno al rosso antico»). Gianni Pittella dà del «provocatore» a Fioroni («ha la testa rivolta a vecchie o nuove Margherite e forse cerca solo un pretesto per uscire dal Pd»), e dal quartier generale del Pd spiegano che Epifani ha concordato con i quattro candidati alla segreteria il percorso verso il congresso del Pse, dal quale verrà lanciata la candidatura unitaria di Martin Schulz alla presidenza della Commissione Ue.

Repubblica 10.11.13
Il retroscena
Il sindaco spiazzato dal Professore “Così Romano semina sfiducia”
Cresce la paura per l’affluenza flop ai gazebo dell’8 dicembre
di Goffredo De Marchis


MOLTI dubbi e la paura della tempesta finale. Come neutralizzare il clima di sfiducia verso la politica è il primo assillo di Matteo Renzi e tra poche settimane la sua missione sarà farlo attraverso la segreteria del Pd.
PER questo l’annuncio di Romano Prodi (non parteciperà alle primarie) lo ha spiazzato e viene vissuto come un pessimo segnale a Palazzo Vecchio. «Per carità, lo capisco», dice il sindaco di Firenze. Ma con i suoi collaboratori si sfoga. Vede il pericolo di una reazione negativa nell’elettorato del Pd. «Speravo che una dichiarazione del genere la facesse magari due giorni prima dell’8 dicembre. Ma è chiaro, si vuole vendicare per i 101 franchi tiratori. Ed è una vendetta fredda, calcolata, che andava organizzata per bene. Con i tempi giusti».
In questo modo, il Professore spara nel mucchio dei candidati. Peggio ancora, spara sul Partito democratico e può affondarlo. Non fa distinzione fra i sostenitori leali (tra loro Pippo Civati continua a invocare la lista di chi ha tradito) e gli sleali del voto segreto. Ma, è il rischio evocato da Renzi, può provocare un effetto a catena sulla partecipazione alle primarie, ossia sul dato decisivo per dare la forza necessaria al nuovo segretario. Secondo tutti i sondaggi, Renzi. Nessun commento ufficiale del sindaco alla mossa di Prodi. Molti invece i commenti preoccupati dei renziani. A Reggio Emilia, l’ex premier aveva incrociato Graziano Delrio. «Ci sentiamo fra un paio di giorni. Devodirti una cosa», aveva sussurrato al ministro degli Affari regionali. Poi, la “cosa” l’aveva detta alle telecamere appena uscito dall’appuntamento pubblico.
Non è un fulmine a ciel sereno, ma è una brutta partenza per l’ultimo mese di campagna delle primarie. Prodi resta il fondatore del Pd. Il suo impallinamento nelle votazioni per la presidenza della Repubblica, è ancora un chiodo fisso per gli elettori democratici e una domanda inevitabile per tutti i concorrenti alla segreteria nelle loro iniziative in giro per l’Italia. Spesso e volentieri, è in cima ai pensieri dei militanti: «Quando ci consegnate la testa dei 101?». Quindi, il gran rifiuto di Prodi “avvelena” il clima del congresso Pd, già abbastanza inquinato dalla vicenda dei tesseramenti falsi.
Il rischio-flop per l’affluenza dell’8 dicembre è molto concreto. Fatto di molti elementi: un Pd dipinto sempre nella bufera, l’esito della competizione che appare scontato, la sfiducia generale nel sistema che Renzi cerca di combattere muovendosi, a modo suo, sul terreno dell’antipolitica. Per presentarsi come una novità, da qualche giorno è tornato a insistere sui temi della rottamazione. Adesso si aggiunge l’affondo di Prodi. I renziani provano a esorcizzarlo così: «Noi puntiamo anche sul voto dei delusi del Pdl. A loro può far piacere se Romano si tira fuori». Paolo Gentiloni non è stupito per il gesto del Professore: «La ferità che il Pd gli ha inflitto la conoscono tutti. Detto questo, le primarie sono qualcosa di più diuna sfida. Per noi sono state anche una forma di mobilitazione. E non escludo sorprese sull’affluenza. Tra il 16 novembre, il giorno del Consiglio nazionale del Pdl, e il 27 quando verrà votata la decadenza di Berlusconi, il quadro di una crisi generale sarà più evidente. Questo rilancerà la partecipazione». Come dire: gli avvenimenti che metteranno in difficoltà il governo sono destinati a catalizzare l’attenzione sull’8 dicembre. Un appuntamento che non sarà, in quel caso, soltanto la scelta di un segretario ma di un possibile leader, di un possibile premier. Non a caso Gentiloni fa l’esempio delle primarie (4 milioni di votanti) che incoronarono proprio Prodi nel 2005. «Nessuno pensava che potesse perderle, non aveva avversari. Ma ci fu una reazione di popolo al berlusconismo». Però l’atmosfera interna non accenna a virare sul sereno. L’idea di organizzare a Roma il congresso del Partito socialista europeo (a febbraio) apre un altro fronte. Beppe Fioroni attacca: «Renzi non ci può vendere per un piatto di lenticchie. Il Pd non fa parte del Pse, non si capisce perché debba organizzare il congresso di un altro partito». Fioroni minaccia ritorni alla Margherita, dunque una scissione. Il punto è che l’atto fondativo dei democratici recita chiaramente: il Pd nonentra nei socialisti europei. «Invece Renzi ha già annunciato l’adesione. Se il capo degli innovatori diventa il capo della sinistra fa un danno a se stesso e al Pd», incalza Fioroni. Anche i renziani contestano il congresso romano del Pse. «Questa decisione riguarda la natura del Pd, non può essere presa senza consultare gli organismi dirigenti», twitta Pierluigi Castagnetti. E Gentiloni si dice stupito: «Non capisco. Non siamo nel Pse e gli organizziamo il congresso. Mi sembra assurdo». Può essere un altro frutto avvelenato in questa campagna delle primarie. E un altro ostacolo a una partecipazione ampia l’8 dicembre.

Repubblica 10.11.13
Matteo Renzi e Fabio Volo, somiglianze e differenze
di Eugenio Scalfari


COMINCERÒ con un tema inaspettato per i miei lettori della domenica. Una piccola sorpresa, un confronto o meglio un paragone che ritengo interessante tra due personaggi molto diversi tra loro ma con alcune somiglianze significative: Fabio Volo e Matteo Renzi. Volo è in testa alle classifiche di vendita di libri: dopo 15 giorni il suo libro La strada verso casa ha già venduto 120mila copie e continuerà con 30-40mila copie vendute ogni settimana. Specie in questo tempo di crisi della parola scritta, è un successo senza precedenti.
Renzi è in vetta ai sondaggi in vista delle primarie che avranno luogo per la conquista della carica di segretario del Partito democratico. Il numero degli elettori si prevede tra i 2 e i 3 milioni, ma questo è soltanto un primo obiettivo. Il secondo dovrebbe essere quello di guidare la competizione per vincere le elezioni politiche generali quando ci saranno, nella primavera del 2014 o al più tardi in quella del 2015. Per vincerle bisogna ottenere almeno 15 milioni di consensi e Renzi spera di farcela. Molti più voti dei lettori di Volo.
Lo scrittore avrà certo le sue idee politiche ma di politica non si è mai interessato. Renzi a sua volta ha certamente letto romanzi o saggi letterari ma non sappiamo quali e comunquedi letteratura non risulta che si interessi.
Tuttavia piacciono moltoentrambi.
Non nei salotti, come tutti e due affermano dando alla parola salotto un significato decisamente discriminatorio, ma al grosso della gente, giovani e anziani, uomini e donne, benestanti o disagiati; un libro costa poco, un voto non costa niente ed anzi si spera arrechi qualche beneficio.
Tutti e due hanno sicuramente talento. Fabio però non fa niente di speciale per vendere i suoi libri, li scrive, li pubblica e basta. La notorietà gli proviene dal fatto che ha successo anche alla radio e alla televisione come attore e conduttore.
Anche Renzi frequenta molto la televisione e il suo nome campeggia spesso sui giornali. Insomma sono due piacioni, come si dice in gergo. Volo non fa nulla di particolare per piacere, fa soltanto con grande impegno il suo lavoro. Ricorda Balzac quando esordì scrivendo feuilletonsui giornali popolari dell’epoca. Poi entrò in forza nella letteratura e ne fu uno dei massimi esponenti. Auguro a Volo di fare altrettanto.
Renzi dal canto suo è un grande venditore di se stesso, a livello del primo Berlusconi; oggi è in declino ma è ancora della partita. È rimasto celebre il suo esordio da Santoro un anno fa, quando spolverò col fazzoletto la poltrona dove si era seduto Travaglio prima di lui.
L’altro giorno anche Renzi è andato da Santoro ed ha avuto parole d’apertura verso tutti quelli che auspicano la rottamazione generale di un sistema, d’una generazione, dei personaggi che la rappresentano e delle istituzioni come sono attualmente. I maliziosi potrebbero pensare ad una sua somiglianza con Grillo e con Berlusconi seconda maniera. All’uscita dalla trasmissione Renzi ha ricevuto i complimenti sinceri di Santoro e di Travaglio. Ma in altre numerose e pubbliche occasioni aveva manifestato la massima considerazione anche a Letta, a Civati, a Prodi, a Pisapia e perfino a Bersani, a Rodotà, a D’Alema e naturalmente a Napolitano.
Vendere se stessi alla gente costa poco se c’è quel talento, ma conquistare il favore o almeno la neutralità dei “maggiorenti” per un generale rottamatore è assai meno facile e la fatica è tanta.
Personalmente non ho letto il libro di Volo, ma il personaggio mi piace. Ho invece letto con attenzione i documenti di Renzi e dei suoi collaboratori a ciò delegati ed ho seguito lesue variegate mosse di questi mesi. Il talento glielo riconosco ed è anche simpatico quando si ha l’occasione di incontrarlo, ma non credo che lo voterò alle primarie del Pd per la semplice ragione che, avendo promesso tutto, la sua eventuale riuscita politica rappresenta un’imprevedibile avventura e in politica le avventure possono giovare all’avventuriero ma quasi mai al paese che rappresenta. * * * Un altro personaggio che ha tenuto banco in questi giorni è Mario Draghi. Non è certo la prima volta: in tempi di crisi economica il presidente della Banca centrale europea occupa inevitabilmente la scena con le iniziative che prende e le parole che dice. Draghi di parole ne dice poche e non ha né la vocazione né il talento di piacere alla gente, ma di iniziative ne assume molte all’insegna dell’euro, cioè della moneta comune di gran parte dei paesi europei, che la Bce stampa e diffonde come è suo compito.
L’euro è la moneta che circola in una zona europea che, nonostante le apparenze e le sensazioni della gente, è una delle più ricche del mondo e dove le invenzioni tecnologiche, il commercio internazionale, il risparmio, le iniziative imprenditoriali sono ancora molto notevoli, specie se si considera l’intera Unione e non soltanto la zona Euro.
Draghi si batte da tre anni per gestire al meglio la moneta che stampa, la liquidità che eroga alle banche, il tasso di interesse che la Bce amministra. Il tasso del cambio estero con le altre monete deriva anche da questi elementi, ma non soltanto.
L’economia italiana è una delle principali tra quelle dell’Ue per i suoi pregi ed anche, purtroppo, per i suoi difetti e le sue anomalie. La nostra forza produttiva e inventiva non è più – da tempo – nelle grandi imprese ma nelle medio-piccole che costituiscono la maggior parte del sistema. Molte di loro sono in difficoltà, molte sono fallite o stanno per fallire, ma molte altre invece hanno aumentato i loro prodotti e le loro esportazioni. In mancanza d’una domanda interna calante, sono proprio quelle esportazioni a tenere in vita il sistema e lo sarebbero ancora di più se le banche fossero più attente e generose nel finanziarle a tassi di interesse ridotti.
Draghi ha fatto e continua a fare quanto può. L’anno scorso aprì alle banche una linea di credito di oltre mille miliardi a tassi bassissimi e della durata di tre anni; ha assunto l’impegno formale di non abbandonare mai l’euro e di finanziare un fondo europeo per i paesi in difficoltà che possono accedervi accettando una maggiore vigilanza da parte dell’Europa, della Bce e del Fondo monetario internazionale. Ha acquistato in notevole quantità sul mercato secondario titoli pubblici di vari paesi e in particolare di quelli in difficoltà, ha diminuito gradualmente il tasso ufficiale di sconto dall’1,5 quale era nel momento in cui diventò il presidente della Bce. L’ultimo taglio è avvenuto questa settimana: dal mezzo allo 0,25 senza escludere che in un futuro prossimo sia azzerato del tutto. Nel frattempo le nostre emissioni di Bot e di Btp sono andate benissimo sia per volume di collocazione sia per aumento del loro valore e quindi diminuzione dello “spread”.
Il recentissimo taglio del tasso di sconto è dovuto al rischio di deflazione che incombe sull’Europa e sull’Italia in particolare e cioè della caduta dell’indice dei prezzi dovuto alla diminuzione dei consumi interni. Questo rischio c’è, ma il suo eventuale attuarsi è ancora lontano. Purtroppo il tasso del cambio estero con il dollaro è nel frattempo cresciuto fino a sfiorare il livello di 1,40. Dopo il taglio del tasso di sconto il cambio col dollaro è sceso a 1,32. Si spera che scenda ancora. Ideale sarebbe che si attestasse nei dintorni dell’1,20, sarebbe un forte incoraggiamento alle esportazioni e ai relativi investimenti. È vero che un euro forte consente l’acquisto di petrolio e altre materie prime a prezzi più vantaggiosi ma le contropartite negative sono evidenti.
Venerdì scorso uno dei membri del direttorio della Bce ha fatto un affondo (ovviamente autorizzato da Draghi) sull’urgenza dell’Unione bancaria e della vigilanza sulle banche concentrata nella Bce. Dovrebbe avvenire in parte (la vigilanza) entro il 2014 e in parte (l’Unione vera e propria) nel ’15. La persona che ha fatto queste dichiarazioni in nome del direttorio è il tedesco Jorg Asmussen. Tedesco ma europeo poiché condirige la sola vera istituzione europea, così come è prima europeo e poi italiano Mario Draghi. Resta tuttavia il fatto che un membro del direttorio di nazionalità tedesca sostiene tesi essenziali per l’Europa ma odiate dalla Bundesbank, la banca centrale tedesca. Che cosa farà la Merkel quando nei prossimi vertici intergovernativi europei il problema dell’Unionebancaria sarà affrontato nel merito e nella tempistica?
Il vero tema di tutte queste riunioni sarà la nascita di uno Stato federale con cessioni di sovranità da parte dei governi nazionali per quanto riguarda il fisco, la politica economica, i debiti sovrani e, naturalmente, l’Unione bancaria. Riguarderà anche la Difesa, la politica estera, l’immigrazione.
Su questi temi, oltre a Napolitano, Letta, Draghi, alcune proposte concrete e importanti sono state fatte da Romano Prodi, che ha ampia conoscenza ed esperienza dell’Europa ed anche del resto del mondo e che, a mio avviso, dovrebbero entrare nei prossimi dibattiti europei e nel programma che Letta proporrà alla Ue nel semestre di presidenza italiana, nella seconda metà del 2014.
Barbara Spinelli, nel suo articolo di mercoledì scorso su questo giornale, ha sostenuto che per rifondare l’Europa bisogna abbattere l’architettura attuale e ricostruirla ex novo. Più o meno è quanto dice Grillo, il quale non esclude neppure un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro, magari per ritornarci più forte qualche anno dopo. Voglio sperare che la Spinelli non lo segua in queste farneticazioni, ma già il fatto di dargli ascolto mi sembra una pericolosa ingenuità.
Grillo, dopo avermi ampiamente insultato in un suo “blog” della scorsa settimana, ha auspicato che io mi ritiri su una panchina del Pincio per rievocare “i miei bei tempi antichi” in compagnia di Napolitano e di Carlo De Benedetti. È un’idea che mi seduce ma ancora non è attuale e non per i miei anni che sono già molti ma perché prima vorrei veder tornare Grillo a fare il comico nei teatri dopodiché mi ritirerò con sollievo sulla panchina del Pincio sperando anche d’essere in quella compagnia. * * * Concludo con un tema che vi sembrerà bizzarro in questo contesto e che invece è estremamente pertinente. Ricorrono esattamente cent’anni da quando l’editore Grasset pubblicò a Parigi il primo volume dellaRecherche du temps perdu di Marcel Proust. L’intera opera, completata nel ’28, fu poi pubblicata da Gallimard.
Con quel primo volume, intitolato
Du côté de chez Swann, ha inizio il grande finale della cultura moderna europea che ebbe come base l’introspezione del se stesso. Era stato anticipato di pochi anni dai russi e in particolare dal Dostoevskij di Delitto e Castigo, dei Demoni, dei Fratelli Karamazov e delle Memorie del sottosuolo; dal Gogol di Anime morte e da Cecov. In Francia da Flaubert e da Stendhal.
Ma Proust portò al suo culmine quella letteratura della quale negli stessi anni Freud fu l’indagatore scientifico e il terapeuta per i suoi aspetti di disturbo mentale ma anche di comportamenti sociali.
Dopo Proust, Joyce scrisse l’Ulisse creando il linguaggio modernissimo del flusso di coscienza. Rilke scrisse le
Elegie duinesi e iQuaderni di Malte Laurids Brigge e Pessoa ilLibro dell’inquietudine.
Infine Thomas Manne l’intera opera sua.
Siamo con questi nomi agli scrittori e poeti che hanno posto i cardini della cultura europea; tra i loro continuatori ricordo Montale e Calvino.
Il bravissimo Crozza mi ha l’altro ieri messo in burletta perché parlo troppo spesso di Calvino. È vero e Crozza fa bene a ricordarmelo. Posso rassicurarlo però che non ne ho mai parlato con papa Francesco. A proposito del quale plaudo alla sua recentissima invettiva contro la “Dea mazzetta”, la corruzione grande e piccola che ormai è prassi nefasta in tutto il mondo e in Italia in particolare. Ho scritto più volte che papa Francesco è un rivoluzionario nel senso positivo del termine. Confermo e ne sono felice.
La cultura europea, per tornare e chiudere su quel tema, esiste e non da oggi. Ora però è arrivato il momento di costruire l’Europa. Non c’è niente da buttar via ma molto da costruire cambiando. Ci vuole un motore che inneschi costruzione e cambiamento procedendo nel rispetto della libertà, della giustizia sociale, della fraternità e della partecipazione. La Germania dovrebbe essere quel motore. Occorre che se ne convinca perché ormai il momento della scelta è arrivato. Tutti quelli che consentono e conoscono i temi del problema facciano blocco per convincerla oppure mettano in gioco alternative con chi ci sta aspettando che i ritardatari si aggreghino. Due diverse velocità è rischioso ma è diventato ormai inevitabile. L’Italia dev’essere con l’avanguardia conservando e cambiando.
Per quanto mi riguarda sarò, nel mio piccolissimo, della partita, magari dalla panchina del Pincio: da lì si può pensare all’Europa guardando Roma. La prospettiva mi sembra eccellente.

il Fatto 10.11.13
Il dopo-Priebke ad Albano: “Via i lefebvriani da qui”


ALBANO È ANTIFASCISTA: via i lefebvriani dalla città”. A quasi un mese di distanza dagli scontri per il tentativo di celebrare nella comunità di San Pio X i funerali di Erich Priebke, la città in provincia di Roma è tornata in piazza per dire no al neonazismo esprimendo ancora una volta lo sdegno “per la ferita inflitta al nostro tessuto sociale il 15 ottobre”, come ha spiegato il sindaco Nicola Marini. Oltre all’attacco nei confronti della comunità integralista cattolica, nel mirino il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, che secondo il segretario dell’Anpi di Albano, Ennio Moriggi, dovrebbe dimettersi perché “non ha tenuto conto dell’ordinanza del sindaco che aveva bloccato il funerale” mettendo a rischio la collettività.

l’Unità 10.11.13
L’intellettuale non è un profeta
di Paolo Di Paolo


«È possibile, oggi, porre in modi nuovi il problema degli intellettuali senza affermazioni di tipo moralistico? Ce ne sono le condizioni?» si è chiesto sull’Unità di domenica scorsa Michele Ciliberto.
Per quanto sia difficile rispondere, occorre continuare a interrogarsi. Tanto più che la parola stessa, «intellettuale», sembra quasi fare paura. Sul Corriere della Sera, rispondendo a un lettore, Sergio Romano, senza perifrasi, ha liquidato il problema: «L’Italia ha bisogno di scienziati, filosofi, pittori, scultori, romanzieri, poeti, studiosi ed esperti delle più diverse discipline, non di intellettuali». Che cosa vuol dire? L’editore Giuseppe Laterza gli ha fatto notare che la sua casa editrice «ha pubblicato i libri di molti autori che non saprei come definire se non “intellettuali”». Il punto sono davvero le competenze specifiche? Si parla pubblicamente solo in virtù di quelle? Il legittimo fastidio nei confronti degli intellettuali nasce oltre che da generiche spinte anti-caste da un lungo passato di ipocrisie, trasformismi, eccessi ideologici.
E nel presente? La mappatura più completa è nel recente Intellettuali del piffero (Marsilio) di Luca Mastrantonio: documentatissimo, il giornalista trentaquattrenne ha puntato il dito contro quei protagonisti del mondo culturale che diventano «pifferai»: sciamani, showmen televisivi, firmaioli, sentenziosi, spesso in realtà conformisti e contraddittori. Ma Mastrantonio non si ferma a denunciare, non ripiega sulla conclusione che gli intellettuali non servono più. Rilancia, piuttosto: come nell’auspicio di Ciliberto. Si può pensare uno spazio al riparo da rabbie ideologiche e dall’ansia del consenso a tutti i costi? Uno spazio in cui sia possibile testimoniare verità amare, senza cercare di «incantare» una platea? Sì, si può, se sono anche e soprattutto le nuove generazioni a farsene carico. Se, in assenza di una dialettica generazionale, riescono a compiere un parricidio liberatorio; a non cercare più l’approvazione di chi, esaltando a parole i giovani e il nuovo, resta ancorato al proprio piccolo o grande posto, ovvero potere. Per fare questo, occorrerebbe una solidarietà generazionale che non c’è: un riconoscersi tra coetanei che produca incontri, scontri, ma non intruppamenti o patetici manifesti. Mirare a una responsabilità nuova, condivisa, prima che a una individuale, narcisistica «rispettabilità».
Tutt’altro che facile, a maggior ragione se poi si tratta di scendere sul concreto. Chi può aiutarci? Le parole di Camus, di cui si è appena ricordato il centenario della nascita, sono un buon viatico: «Reggetevi sulle vostre gambe e cercate di trovare ogni giorno, fra le vostre proprie contraddizioni e le contraddizioni che la vita vi oppone, un movimento». «Reggetevi sulle vostre gambe»: in un’intervista pubblicata in appendice a L’estate e altri saggi solari (Bompiani), Camus rifiuta l’idea di essere un
maestro o un modello. Non ho da offrire certezze, spiega: «Tutto ciò che posso dire, è che c’è un certo degrado a cui dirò sempre no. Questo, credo che i giovani lo sentano. Coloro che fanno affidamento in me sanno che mai mentirò loro. Quanto a quei giovani che chiedono ad altri di pensare per loro, bisogna rispondere no nel modo più netto. È tutto». È tutto, sì, è davvero tutto. Ed è immensamente difficile: reggersi sulle proprie gambe, trovare il coraggio di dire no (Il coraggio di dire no è il titolo di una bella raccolta di scritti di Mario Rigoni Stern appena uscita per Einaudi). Avere il coraggio della solitudine, senza arrivare all’isolamento.
Si può essere intellettuali senza diventare oracoli o profeti, e non è vero come pensa Romano che essi siano interessanti solo quando parlano di «studi e competenze professionali». Quali sono le competenze professionali di Camus? E di Pasolini? E tuttavia la loro testimonianza è stata essenziale per produrre dibattiti, aprire prospettive, porre temi, esporci anche a posizioni sgradevoli, talvolta contraddittorie. La forza di un uomo di cultura non sempre è legata alla sua competenza, o almeno non esclusivamente: ciò che alla collettività può essere utile accanto e oltre alla competenza è uno sguardo. La profondità, l’originalità, l’emozione, l’acutezza, talvolta la visionarietà e il radicalismo di quello sguardo. Dialogando con la politica e in genere con la società, quello sguardo contribuisce a una visione, se non perde di vista ciò che sfugge ad altri. Se alimenta il dubbio anziché le certezze. Se vuol dire tenere occhi aperti dove altri li tengono chiusi. Senza per questo fare o firmare proclami, cercare consenso, incantare.

l’Unità 10.11.13
La prostituzione infelice delle ragazzine
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Da Roma a Milano. Dai 14 ai 16 anni, ragazze che si prostituiscono in cambio di soldi o di oggetti di consumo. Decise, spavalde, pronte a tutto. Nel nome di che o di che cosa? In quale clima culturale? Che abbiamo fatto noi delle generazioni precedenti per trovarci di fronte a dei ragazzi così?
ANNA BLASI

L'elemento che più colpisce nel caso delle minori che si prostituivano ai Parioli e nel liceo di Milano è la mancanza assoluta di ogni crisi personale. Di ogni forma di pentimento. Da parte degli adulti, anche se in fondo è naturale che chi non esita ad avere rapporti sessuali a pagamento con una ragazzina di 14 o di 15 sia cinico e arrogante quel che serve per non correre il rischio di una rivisitazione critica di ciò che ha fatto. Sulla stessa linea si muovono, tuttavia, anche le ragazze che parlano con una sorprendente tranquillità di comportamenti di cui non sembrano né pentite ne traumatizzate. Come se per loro fosse scontata e naturale l'idea, così diffusa nella nostra cultura di oggi, per cui non c'è alcun rapporto necessario fra il fare sesso ed il provare dei sentimenti ma come se, soprattutto, non ci fosse per loro, strumento diverso dalla bellezza provocante del corpo per affermarsi. Per vincere. Per primeggiare all'interno della grande competizione in cui troppi adulti spaventati e infelici pensano di dover immettere gli adolescenti di oggi. Puntando solo sui loro punti di forza. Chiedendo loro, forse, i successi che loro non hanno avuto. Una generazione preparando di ragazzi narcisisti, infelici e sempre più in difficoltà nel dare e nel ricevere amore. L’amore che quegli adulti hanno dato loro in un modo così sbagliato.

Corriere 10.11.13Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, psicoterapeuta dell’adolescenza
«Eravamo adolescenti diversi, non li capiamo»
intervista di Paolo Conti

Pietropolli Charmet: la sessualità non è più legata all’amore, può essere solo un collaudo di sé «Quando mi ritrovo davanti a genitori e ragazzi che si sono relazionalmente “persi”, la prima misura che adotto è aiutare padri e madri ad aggiornare il loro ruolo: smetterla di sentirsi genitori dell’infanzia e gestire la nuova, inevitabile, enorme distanza antropologica, culturale e relazionale che si crea con l’adolescenza. E bisogna mettere subito nel conto che se prima, nell’infanzia, il genitore arrivava sempre e comunque “prima” di qualsiasi avvenimento, nell’adolescenza è fatalmente destinato al “dopo”. Lì comincia per i ragazzi il lungo e faticoso viaggio verso il gruppo, la coppia, il collaudo della propria autonomia... ».
Il professor Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, psicoterapeuta dell’adolescenza, da trent’anni anima a Milano il Consultorio gratuito per adolescenti e genitori della cooperativa sociale «Minotauro».
Quindi sa bene quanto sia complesso, come scriveva ieri il nostro vicedirettore Barbara Stefanelli nel suo editoriale, affrontare da genitori quell’«universo sconosciuto che è l’adolescenza inspiegabile» dei nostri giorni. I figli sembrano «stranieri, in casa».
Cosa può fare, professore, un genitore di fronte a ciò che può apparire un muro di silenzio? «Prima di tutto non bisogna vivere il passaggio come se fosse una tragedia. Non c’è nulla di più accattivante che assistere alla fioritura adolescenziale di un figlio o di una figlia». Però questo lavoro sembra sempre più duro e complicato. Proprio Barbara Stefanelli si chiede: «E’ stato così anche quando noi eravamo nella stanza del figlio?».
Qui il professore è molto netto: «Un genitore dei nostri giorni non può assolutamente ricorrere all’esperienza della propria adolescenza per affrontare il problema. E’ essenziale capirlo. Tutto è troppo, e rapidamente, cambiato per poter “lavorare” con quegli strumenti. Una giusta prospettiva educativa è, per i genitori, mettersi a cercare, a capire, senza presumere di sapere già. Cioè tentare di comprendere mode e culture. Anche proponendo domande dirette: “Ma quale valore attribuite all’abuso dell’alcol?”, per fare un esempio. E poi studiare, documentarsi, analizzare».
In questi giorni le cronache dei giornali sono pieni di storie angoscianti, prima tra tutte la prostituzione all’alba dell’adolescenza... «Indubbiamente sono frange, anche se molti genitori vivono nel terrore che tutto questo possa accadere ai propri figli. Ed è normale. Bisogna partire da una premessa. La sessualità degli adolescenti è uscita dall’etica. Nessun genitore pensa che la verginità dei propri figli sia un valore da tutelare. Semmai si augurano che il loro incontro con la sessualità avvenga serenamente e senza senso di colpa, in ambiente protetto, persino in casa per senso di protezione. Però un adolescente di oggi non abbina necessariamente la sessualità alla costruzione di una relazione, di un amore, o allo stesso piacere».
Quindi di cosa si tratta? «Può anche essere un semplice “collaudo” di se stessi e della corporeità. La verifica del proprio fascino, della capacità di sedurre. Insomma, del proprio potere. Ed è qui che deve concentrarsi il grosso lavoro educativo dei genitori e degli stessi insegnanti».
La domanda è sempre la stessa, ma inevitabile. Come può comportarsi un genitore? «Mi ripeto, ma l’adulto deve studiare e capire. Per esempio sostituire alla vecchia morale sessuofobica una nuova etica affettiva. Oggi i ragazzi non vedono più i genitori come repressori. Non ne hanno più “paura”. Per parlare chiaro: vogliono un padre e una madre competenti e informati con cui discutere, per esempio, sull’uso delle sostanze stupefacenti senza che qualcuno si metta a urlare chiamando il medico o un’ambulanza. E bisognerebbe anche evitare che i ragazzi possano sentirsi deplorevoli agli occhi dei genitori. Quindi oggetto di sdegno, non più di punizioni. E’ quasi peggio». Ma non si chiede troppo ai padri e alle madri di oggi? «Un periodo di trasgressione, di sfida del limite, di fuga dall’autorità va gestito e messo nel conto».
Infine c’è il nodo della rete, della sessualità on line e degli incontri che magari si realizzano solo virtualmente...
«I genitori vedono la casa come un ambiente protetto. Invece, magari di là, nell’altra stanza, l’amata figlioletta si sta “prostituendo virtualmente” tra le quattro mura domestiche. È il frutto di una sottocultura prodotta dalla società fluida, dal narcisismo: abbiamo sostituito l’etica con l’estetica. Gli adolescenti di oggi quasi ignorano le angosce edipiche o la paura della castrazione. Conoscono solo la vergogna di non avere fascino. Infatti questo problema è alla base di tanti suicidi e di tanti disturbi alimentari. Ed è proprio qui che bisogna lavorare, puntando sulla “bellezza complessiva” della persona. Perché la vergogna di “non essere belli”, nell’universo degli adolescenti di oggi, purtroppo, è una bruttissima bestia... ».

il Fatto 10.11.13
Specializzazione “breve”: la protesta dei 25mila medici
La legge di stabilità riduce la durata dei corsi. “È contraria alle leggi Ue”
di Marcello Longo


Riforma delle scuole di specializzazione, meritocrazia e risorse. La lista delle rivendicazioni dei giovani specializzandi in Medicina (quasi 25 mila) è lunga. Il rischio di un taglio alla durata delle scuole per la formazione specialistica, motivo di polemiche nelle ultime settimane, resta un punto insoluto e pieno di incertezza.
LA SOLUZIONE dovrebbe arrivare dal decreto Carrozza (n.104 del 2013) “in materia di istruzione, università e ricerca”, convertito in legge il 7 novembre in Senato. “Il decreto – si legge in una nota del Segretariato italiano dei giovani medici (Sigm) – interviene preventivamente a mettere dei paletti al tentativo del ministero dell’Economia di effettuare un taglio lineare della durata dei corsi”. Il riferimento è a un articolo della legge di Stabilità 2014 che prevede un ritocco alla durata da cinque anni (in alcuni casi sei) a quattro. Le misure del decreto Carrozza puntano a riformare le classi di specializzazione – in Italia ne esistono 57, in Francia meno della metà – con lo scopo di operare tagli “chirurgici”, riducendo la durata di alcuni corsi. Su questo punto, i giovani specializzandi rimproverano al ministro di non aver reso “opzionale il passaggio al percorso abbreviato di studi”. E attendono, per conoscere i dettagli, il 31 marzo prossimo, quando il ministero dell’Università e della Ricerca sarà chiamato a riformulare tipologie e durata dei corsi, tenendo contro dei vincoli imposti dalla normativa europea. Una vittoria più netta per gli specializzandi arriva sul terreno della meritocrazia. Nel mese di maggio, a Roma, gli aspiranti medici sono scesi in piazza per chiedere il “superamento della discrezionalità nella selezione degli specializzandi” e hanno ottenuto, con il decreto (ora legge ) del ministro Maria Chiara Carrozza, l’istituzione di una graduatoria unica nazionale a partire dal 2014. Tuttavia, i problemi sollevati non finiscono qui. Il 7 novembre, mentre il Senato convertiva in legge il decreto del ministro dell’Istruzione, tremila aspiranti medici di Simg e Feder specializzandi manifestavano a Roma.
AL CENTRO della protesta, i fondi necessari a garantire i contratti e le borse di studio per la formazione specialistica. “Servono almeno cinquemila contratti per l’anno accademico 2013/2014 – spiegano gli organizzatori – ma la previsione del Ministero si aggira attorno a quota 2500”.
Nel mirino anche l’assenza di una politica di programmazione: “Ogni anno entrano a Medicina circa 10 mila matricole , ma poi l’accesso alla formazione dei neolaureati è possibile soltanto per 4500 specializzandi e 900 corsisti di medicina generale”. Un disallineamento fra immatricolazioni e offerta post laurea su cui gravano, quest’anno, duemila iscritti in più ammessi dopo essere stati penalizzati dalla sospensione del “bonus maturità”.

Corriere La Lettura 10.11.13
Democrazie in prognosi riservata
di Sergio Romano


Il 10 aprile 1939 gli austriaci furono chiamati alle urne e trovarono nei loro seggi un bollettino di voto che recava in alto la scritta «Referendum e Parlamento (Reichstag) della Grande Germania», e al centro «Riunione dell’Austria con il Reich tedesco». L’elettore doveva rispondere alla domanda: «Approvi la riunificazione dell’Austria con il Reich tedesco e voti per la lista del nostro Führer Adolf Hitler?». Per consentire al cittadino austriaco di fare la sua scelta, la scheda gli offriva un grande cerchio in cui avrebbe potuto scrivere la parola «sì» e un minuscolo cerchio, nell’angolo destro, in cui avrebbe potuto, a suo rischio e pericolo, scrivere «no». I voti a favore, secondo i dati diffusi il giorno dopo dalle autorità tedesche, furono il 99,75% del totale: una percentuale di poco superiore a quella (98,4%) con cui gli italiani, nel marzo 1929, avevano approvato il plebiscito organizzato dal regime fascista per la prima elezione della Camera dei deputati dopo quella del 1924. Più tardi troveremo percentuali analoghe nelle elezioni del Soviet Supremo dell’Unione Sovietica e in quelle delle assemblee parlamentari degli Stati «socialisti» tra la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del muro di Berlino.
Pochi cittadini britannici o americani avrebbero considerato quelle elezioni «democratiche». Ma erano pur sempre numerosi, in Europa e nelle Americhe, anche quelli per cui i referendum e i plebisciti dei regimi totalitari potevano esprimere la volontà popolare meglio delle vecchie elezioni borghesi. In Occidente questa divergenza fra due sistemi politici venne arbitrata dalla vittoria delle democrazie nella Seconda guerra mondiale e dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica alla fine della guerra fredda. La democrazia rappresentativa, nelle sue diverse formulazioni, divenne da quel momento il modello virtuoso per gli Stati emersi dal ghiacciaio comunista o sorti dalla decolonizzazione.
Vi furono importanti eccezioni, ma il modello pressoché indiscusso restava quello della democrazia rappresentativa: un sistema politico in cui i governi sono scelti dagli elettori e soggetti ai ritmi dell’alternanza fra forze politiche che recitano, a turno, il ruolo dell’opposizione. Sapevamo che le democrazie sono tutte insidiate da due minacce permanenti: la corruzione e la demagogia. Ma era generalmente diffusa la convinzione che uno Stato democratico avesse la capacità di correggere continuamente i propri errori. Vedevamo gli scandali, i brogli elettorali, il ricorso alla spesa pubblica e alle guerre per intorpidire il colpo elettorale e creare consenso. Ma ci consolavamo ripetendo a noi stessi che quello praticato dall’Occidente era nonostante tutto, secondo la famosa formula di Churchill, il meno peggio dei sistemi possibili. Per alcuni l’esportazione della democrazia divenne addirittura una missione a cui i grandi Stati democratici, fra cui soprattutto gli Stati Uniti, non potevamo sottrarsi.
Sembra che il giudizio sulla democrazia stia cambiando. Nel «Financial Times» del 26-27 ottobre, Mark Mazower, storico della Columbia University, ha pubblicato un lungo articolo a proposito di tre libri apparsi recentemente. Il primo è The Confidence Trap («La trappola della fiducia», Princeton University Press, £ 19,95, pp. 408) ed è stato scritto da David Runciman, docente di Scienze politiche all’Università di Cambridge, autore di un saggio sulla ipocrisia politica e nipote di un grande storico delle crociate (Steven Runciman). Il secondo è Nation of Devils. Democratic Leadership and the Problem of Obedience («Nazione di diavoli. La leadership democratica e il problema dell’obbedienza», Yale University Press, £ 20, pp. 264) ed è stato scritto da un sociologo norvergese, Stein Ringen, docente all’Università di Oxford. Il terzo è The Last Vote. The Threats to Western Democracy («L’ultimo voto. Le minacce alla democrazia occidentale», Allen Lane, £ 20, pp. 320) ed è stato scritto da Philip Coggan, giornalista dell’«Economist», noto sinora soprattutto per un libro sulle origini della crisi finanziaria intitolato Money, Debt and the New World Order («Il denaro, il debito e il nuovo ordine mondiale»). Un politologo, un sociologo e un economista diagnosticano da tre diversi punti di vista i mali delle democrazie e firmano bollettini sanitari alquanto preoccupati, se non addirittura pessimistici.
Non ne sono sorpreso. Per due volte, negli scorsi mesi, la grande democrazia americana è stata paralizzata da una partita a poker sull’entità del debito nazionale in cui ciascuno dei due giocatori voleva la sconfitta dell’avversario sino al punto di rendere impossibile il funzionamento dello Stato. In Gran Bretagna lo scandalo scoppiato nel gruppo editoriale di Rupert Murdoch non è grave soltanto per l’esistenza di poliziotti corrotti che fornivano notizie a «News of the World». È grave soprattutto per i rapporti di eccessiva familiarità che legavano i dirigenti della redazione al vertice politico del Paese. In Francia le ultime elezioni presidenziali sono state un duello fra un candidato detestato e un candidato indesiderato. Una larga parte dell’elettorato ha votato Hollande per sbarrare la strada a Sarkozy e ha voltato le spalle al vincitore non appena ha messo piede al palazzo dell’Eliseo.
Nei Paesi in cui la democrazia avrebbe dovuto affermarsi progressivamente, il quadro non è più rassicurante. In Cina il metodo migliore per mettere fuori gioco un pericoloso guastafeste politico è sempre quello di condannarlo all’ergastolo. In Russia l’opposizione è ancora «dissenso», con il significato che la parola aveva assunto in epoca sovietica. In Turchia i militari avevano poteri esorbitanti ed era giusto restituirli alle loro caserme; ma i demo-musulmani di Recep Tayyip Erdogan hanno preferito metterli in prigione. In Egitto i militari hanno messo in prigione la Fratellanza musulmana. In Afghanistan e in Iraq la transizione alla democrazia ha prodotto una truce, sanguinosa guerra civile.
Torniamo all’Europa, dove la democrazia ha radici più antiche e maggiori possibilità di sopravvivere. Tralascio l’Italia, su cui siamo tutti sufficientemente informati, e mi limito a due constatazioni. Un terzo dell’elettorato occidentale non va alle urne perché non crede all’utilità del suo voto e un terzo è composto da persone che detestano, insieme alla loro classe dirigente, politica ed economica, anche coloro che hanno un diverso colore della pelle o un diverso credo religioso. Qui la maggiore minaccia alla democrazia è la pretesa di un voto continuo rabbiosamente gettato, in ogni momento della giornata, nell’urna dei social network. Può darsi che questo clima sia aggravato dalla lunga recessione in cui siamo precipitati dopo il crack del 2007 e che sia destinato a migliorare non appena saremo riusciti a tirare una boccata di respiro. Ma è anche possibile che le democrazie soffrano di mali meno facilmente guaribili e che occorra prepararsi a una lunga crisi, dagli esiti difficilmente prevedibili.

Repubblica 10.11.13
Unit 8200
Israele reparto cyberwar
di Fabio Scuto


TEL AVIV Hanno tra i 19 e i 23 anni, sono i cervelli più brillanti della gioventù israeliana e si trasformano nei migliori cyberwarriors del mondo. Per entrare nella Unit 8200 devono superare una selezione durissima alla fine delle scuole superiori. Per tre anni lavorano in un palazzo in una località segreta nella periferia di Tel Aviv. Poi potranno ri-vendersi le competenze acquisite e i software brevettati nel mercato civile, diventando in qualche caso milionari. La loro divisa è quella classica verde oliva, ma il loro reparto, oggi il più numeroso dell’esercito israeliano, è molto, molto speciale: non sono comandati da un “generale” qualsiasi, bensì da un “capo dipartimento per la preservazione della follia” (Head of the Department of the Law for Preserving Madness); il primo ordine che viene loro impartito è “state fuori dagli schemi”; un quinto dell’orario di servizio è libero, purché speso a pensare e inventare. Una disciplina da Silicon Valley, certo non da caserma. Militari creativi, e parecchio.
Un tempo soltanto il fatto di nominarla in pubblico avrebbe potuto provocare l’arresto per rivelazione di segreto militare, ma adesso la Unit 8200 — quella che si occupa della guerra elettronica: è suo il virus Stuxnet che ha fatto impazzire il sistema informatico che gestisce le centrifughe proibite in Iran — ha superato i muri della censura, è diventato un marchio e attrae un numero crescente di giovani per le grandi opportunità che offre anche dopo la leva. Due volte a settimana duecento studenti delle scuole superiori — scelti per capacità — frequentano seminari in diverse zone del Paese per essere ammessi, dopo un’ulteriore scrematura, a un corso tenuto da ex ufficiali addetti alla cyberwar. Ma i diplomati in questi corsi non ottengono automaticamente l’ingresso nella Unit 8200. Devono superare ancora i test rigorosissimi che l’Idf (Israeli Defence Forces, l’esercito) impone agli aspiranti.
Se questi ragazzi rappresentano l’avanguardia di tutti i cyber warriors del mondo è perché Israele è già dentro una cyberwar. Le sue reti governative sono tra le maggiormente attaccate, con aggressioni quotidiane che superano le decine di migliaia fino alle centomila nei periodi più caldi. Durante la guerra di Gaza, un anno fa, mentre i caccia israeliani bombardavano Hamas i tecnici informatici civili hanno respinto milioni di tentativi di attacco sui siti web governativi. «Una guerra invisibile ma che si avverte e si avvertirà sempre di più», dice il premier Benjamin Netanyahu quando parla degli attacchi che le reti civili subiscono ogni giorno, dalla El Al, la compagnia aerea di bandiera, alla Banca centrale, alla Borsa, ai sistemi di comunicazione da parte di hacker islamisti o per conto di governi stranieri. Negli anni, l’8200 è diventata la più grande unità dell’esercito israeliano, con diverse migliaia di militari impiegati. Ed è paragonabile nella sua funzione, e nella sua efficienza, alla Nsa americana. È divisa in due dipartimenti: la ricerca di nuove soluzioni informatiche da utilizzare in azione o in preparazione dei soldati e la raccolta di informazioni dalla sua base centrale nel deserto del Negev, dove si trova una delle più grandi stazioni di ascolto del mondo in grado di monitorare le chiamate telefoniche, le e-mail e altre comunicazioni in tutto il Medio Oriente, l’Europa, l’Asia e l’Africa, così come rilevare le rotte delle navi e le loro comunicazioni.
Il sistema di lavoro dei “creativi” è del tutto simile a quello delle grandi aziende informatiche come Google, Intel, Microsoft, Samsung, che non a caso hanno aperto grandi filiali in Israele in cerca di talenti. “Stay hungry, stay foolish”, prima di Steve Jobs l’avevano già pensato quelli dell’Idf. I due responsabili dell’unità non possono essere nominati permotivi di sicurezza, ma i loro titoli rivelano abbastanza. Il tenente-colonnello K. è Chief Technology Officer — un titolo che si trova solo nelle aziende hi-tech — e il comandante T. è il capo dipartimento per la preservazione della follia di cui sopra. È lui il responsabile dell’innovazione strategica del team. T. assicura che le idee del gruppo siano quelle giuste mentre K. si occupa del loro sviluppo e della loro esecuzione. «Ci sono casi in cui bisogna saper adottare rapidamente nuove tecnologie e ci sono casi in cui non ci sono e bisogna inventarle», spiega l’ufficiale K.: «In questo settore non c’è quasi nessuno che possiamo emulare, siamo i primi e quindi dobbiamo produrre innovazione da soli». A trecentosessanta gradi.
Davvero in pochi, per esempio, potrebbero collegare la divisa verde dell’esercito israeliano con l’ambiente della moda. Così come la maggior parte degli utenti diStylit.com — un sito dove un personal stylist virtuale vi aiuta a scegliere i vestiti secondo il vostro gusto e budget, usato negli Usa dalle grandi griffe del prêt-à-porter — non sa di adoperare una tecnologia i cui algoritmi sono stati sviluppati per monitorare e prevenire attacchi kamikaze. Bene. Yaniv Nissim, l’inventore di Stylit, è un veterano della Unit 8200, uno di quelli che ha partecipato al programma che aiuta gli ex militari dell’unità a commercializzare le loro invenzioni sul mercato civile, un programma che ha generato più milionari in Israele delle scuole di Business Administration. Sono invenzioni israeliane l’istant messaging, la chiavetta Usb, i firewall e i collegamenti sicuri che consentono la maggior parte delle operazioni bancarie, così come la metà delle app dell’iPhone. Aziende israeliane leader in tutto il mondo come Nizza, Comverse, Check Point sono state create tutte da ex soldati della Unit 8200 su tecnologia sviluppata mentre erano arruolati. Nuove startup come Stylit sperano di emulare il successo di Waze, il navigatore social-network sviluppato da un ex cybersoldier e acquistato da Google due mesi fa per più di un miliardo di dollari. Grandi algoritmi sviluppati per prevenire attacchi nemici sono alla base di Any.Do, una delle applicazioni per smartphone più popolari del mondo, e Rompr, una app mobile attraverso la quale i genitori possono condividere informazioni sulle attività dei più piccoli, e non, della famiglia: l’amministratore delegato Noa Levy e le altre tre co-fondatrici hanno tutte servito nell’unità hi-tech dell’esercito israeliano.
Il colonnello Nir Lempert, ex vice-comandante dell’Unit 8200 e presidente dell’associazione dei suoi ex soldati, racconta come quei ragazzi siano addestrati a risolvere i problemi in team multidisciplinari, basati su metodi aziendali. Sono incoraggiati a pensare in modo diverso. «La missione centrale del gruppo è quella di salvare vite, prevenendo attacchi terroristici e di altro tipo», dice Lempert. «Insegniamo alla nostra gente che la missione è così importante che non c’è alcuna possibilità di fallimento». Perché «il cyberspazio », aggiunge Amos Yadlin, ex capo dei servizi segreti militari e ora rettore dell’Istituto di studi strategici di Herzliya, «concede a piccoli Stati e ai singoli individui un potere che finora era appannaggio solo delle superpotenze. La cyberwar ha la stessa portata innovativa che ebbe l’Aeronautica nelle guerre del XX Secolo».

il Fatto 10.11.13
JFK 50 anni dopo non è ancora morto
di Furio Colombo


La prima scena non l'ha dimenticata nessuno. Chi era vivo e presente in America ricorda con esattezza dov'era e che cosa faceva. Tutti gli altri, dovunque, ne hanno una memoria precisa: alcuni colpi, all'improvviso, hanno fatto esplodere una testa e un mondo. John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas da colpi sparati dall'alto mentre salutava la folla di Dallas (e accanto a lui c'erano la moglie Jacqueline e il governatore Connally) era molto più di se stesso. Per uno strano evento che neppure i biografi più affettuosi e attendibili hanno saputo spiegare, Kennedy portava con sé la Storia e, con il suo stare al centro della scena, cambiava la Storia. Bisognava mettere uno stop a questo cambiamento che minacciava di dilagare. È stato fatto. Alcuni anni dopo, mentre seguivo di tappa in tappa le elezioni primarie di Bob Kennedy, e c'era l'abitudine delle passeggiate serali con il suo cane, prima o dopo l'ultimo discorso della giornata, ho potuto notare che Bob usava sempre lo stesso modo di parlare dell'uccisione del fratello. Diceva, per esempio, “When they killed my brother...” “the day they killed my brother...” (“quando hanno ucciso mio fratello...” ) e non ho mai tentato di chiedergli “They who?”. Perché usava il plurale? Diciamo meglio: non ho osato. Perché mi ero accorto che nessuno dei Kennedy (non solo Bob, che pure era un leader appassionato e capace di dire cose durissime, ma anche Ted, fedele al suo ruolo ininterrotto di senatore, ma anche Jean Kennedy Smith, grande attivista del volontariato ma anche nella politica, poi ambasciatrice americana di Clinton a Dublino, e alle sorelle più presenti e più socialmente attive, Eunice e Pat) ha mai, una sola volta, voluto parlare del delitto o accennarne.
C'è stato un solo momento grande e alto in cui Bob Kennedy ha parlato in pubblico del delitto, l'unica volta in cui ha aperto e condotto il discorso su quel massacro (i pezzi di testa sparsi nel fondo azzurrissimo del cielo) di un uomo solo che occupava lo spazio di una generazione. Avevano appena ucciso Martin Luther King, Washington era in fiamme, nella morsa di una disperata rivolta nera.
Bob Kennedy, arrampicato prima sul cofano di una macchina, poi alla rete di un campo da gioco, con la luce da sotto di un unico faro, ha detto al microfono che uno di noi gli teneva alto: “A Dallas hanno ucciso mio fratello. A Memphis hanno ucciso un altro fratello, mio e vostro. Noi siamo travolti dal dolore. Voi conoscete il mio. Io conosco il vostro. Ma non è una ragione per uccidere. Non qui. E neppure quando facciamo i guardiani del mondo”.
La folla – prima i più giovani, tra cui molti bambini – comincia a gridare il suo nome e a ripetere “Stay here, Stay here” ( non te ne andare). E lo tenevano alto, sopra la folla. Avevano capito che in quelle parole c'erano il senso e il contesto del delitto di Dallas e del delitto di Memphis. E questo sarebbe stato, fra poco, il senso e il contesto del delitto dell'Hotel Ambassador di Los Angeles (appena due mesi dopo).

il Fatto 10.11.13
I silenzi del fratello Bob
Durante la sua campagna elettorale (finita con il suo assassinio a Los Angeles) Robert si è sempre riferito alla sua fine parlando del “giorno in cui uccisero mio fratello...”)
di Furio Colombo


Non ho mai chiesto (adesso direi: non ho fatto in tempo a chiedere) a Bob Kennedy il perché di quel plurale quando parlava dei colpi che hanno centrato e distrutto la testa del presidente. Avrebbe potuto dirmi che, nel parlato americano, il plurale sta per l'impersonale. Dire “il giorno in cui hanno ucciso mio fratello...” non significa far pensare se quel giorno, in quel luogo, lo sparatore accusato era davvero il colpevole e non era solo. Di certo non ho mai sentito, in decenni, il nome di Oswald in conversazioni con qualcuno dei Kennedy. Probabilmente è per questo che mi sono sempre tenuto lontano dalle teorie del complotto.
Perché sono plausibili e impossibili da provare, come la versione ufficiale (il Rapporto Warren), come l'uccisione di Martin Luther King (di cui non era certo colpevole James Earl Ray, tanto che i figli di King ne hanno chiesto la scarcerazione, anni dopo). L'assassinio di Robert Kennedy, mentre aveva vinto tutte le primarie e stava per essere eletto presidente degli Stati Uniti (con la sua tenue e mai discussa verità del patriota palestinese) è diventata il chiodo che blocca le altre bare: questa è la loro morte.
SAPPIAMO TUTTO DELLE CONSEGUENZE, e della regolarità a cui è tornato il mondo, non solo il mondo americano, dopo l'uccisione esemplare di John, di Bob e di Martin Luther King. Ma non sappiamo nulla di quello o quelli che hanno portato la morte, e la giostra può continuare a girare. L'impressione è questa: più gira e più porta lontano. Mi ha aiutato a schivare le teorie del complotto la conversazione durata 30 anni con Arthur Schlesinger, amico da prima e amico per sempre nel dopo. Devo a lui quello che so e che ho capito e che cerco adesso di condividere. Chi ha preso la decisione di togliere di mezzo quel presidente aveva capito bene che John Kennedy provocava di per sé un cambiamento che non era un suo piano, ma era la conseguenza naturale del suo arrivo e del suo stare alla Casa Bianca. L'eroismo non sta in John Kennedy, ma nello strano e misterioso rapporto che si era formato fra Kennedy e i suoi cittadini (non tutti, di certo, ma una parte viva e attiva di essi) e che “faceva nascere nel vecchio giardino un grande albero nuovo”. John Kennedy, in apparenza (e certo in principio) meno deliberatamente innovatore di Roosevelt, seguiva però, con una certa agile intuizione, sentieri radicalmente nuovi.
UNO ERA IL RAPPORTO CON LA CULTURA, che mai, prima o dopo, è arrivata in forze alla Casa Bianca. Si pensi, per capire, che per un certo periodo, si erano trasferiti da Harvard a Washington sia Schlesinger sia Kissinger (anche se il periodo kennediano di Kissinger è restato poco noto). Sia McGeorge Bundy (preside della School of Art and Science di Harvard) sia lo scienziato Jerome Wiesner , non solo star del Mit, ma anche pacifista dichiarato. E Walter Rostow, forse il più noto economista del mondo accademico americano in quegli anni. Ma c'era anche la presenza ferma, benevola, priva di intonazioni tragiche (spesso un espediente della politica) e rassicurante come una garanzia. L'altro fatto nuovo era il rapporto, naturale, istintivo con le persone giovani, a cui portava la felice intuizione della “nuova frontiera” che è certo, ha contato molto nella nascita di tutta la parte mitica degli anni 60, da Camelot a Bob Dylan.

il Fatto e The New York Times 10.11.13
Il presidente sfuggente
di Jill Abramson

direttore del New York Times

New York A cinquant’anni dal suo assassinio sono ancora molte le ombre attorno alla figura di John F. Kennedy e la ragione principale va individuata proprio nel suo martirio. Per una generazione di americani, tuttora, la sua morte rappresenta l’evento pubblico più traumatico della loro vita, malgrado la tragedia dell’11 settembre. E la sua morte è stata capace di oscurare l’uomo e ciò che ha fatto in vita. Kennedy è stato un grande presidente, come molti continuano a credere, o una sconsiderata e affascinante celebrità? In quale misura i suoi fallimenti personali, ampiamente documentati, offuscano o minano i suoi successi politici? E quanti di questi successi – nel campo dei diritti civili e della lotta alla povertà, due dei temi affrontati dalla sua Amministrazione – sono in realtà da ascrivere all’azione del suo successore, Lyndon B. Johnson? Persino le circostanze della sua morte sono ancora oggetto di polemiche furibonde. Sembra che tutti gli storici abbiano finito per accettare la versione dell’assassino solitario, Lee Harvey Oswald, ma abbondano le teorie del complotto che coinvolgono, di volta in volta, Johnson, la Cia, la Mafia, Fidel Castro o tutti insieme. Molte di queste teorie circolano da decenni e hanno trovato nuova vita in Internet e sui siti dove si rincorrono opinioni prive di qualsiasi verifica e fondamento. Ovviamente l’ossessione nei confronti del personaggio Kennedy non è monopolio della rete. Si calcola che dal giorno della sua morte siano stati pubblicati circa 40mila volumi. Eppure passando in rassegna l’enorme letteratura su Kennedy si resta colpiti non da quello che si trova, ma da quello che manca. “Il Paese è enormemente interessato al 50° anniversario della morte di Kennedy, ma non è uscito nessun libro degno di nota su Kennedy”, si lagnava Robert Caro quando parlai con lui. “La situazione è ancor più strana – ha aggiunto – se consideriamo che la vita e la morte di Kennedy costituiscono una delle grandi storie dell’America”.
I GRAVI PROBLEMI DI SALUTE CHE LA SUA CERCHIA HA SEMPRE TENUTO NASCOSTI
Robert Dallek, autore di Una vita incompiuta, probabilmente la migliore biografia di Kennedy, insinua il sospetto che sia proprio in quell’aura mistica che circonda e forse soffoca, l’uomo in carne e ossa, che va individuata la ragione per cui pochi sono i buoni libri sul presidente Kennedy. “La cultura di massa ha trasformato Kennedy in una celebrità e di conseguenza gli storici non sono particolarmente colpiti dal presidente Kennedy”, mi ha detto Dallek. “Gli storici lo ritengono per lo più una celebrità che non ha fatto molto di concreto”. Dallek ha indicato un secondo ostacolo che induce gli autori alla ricerca di sensazionali novità ogni volta che scrivono di Kennedy. Anche il libro di Dallek, per non smentire questa affermazione, contiene moltissime informazioni fino ad allora sconosciute sui gravi problemi di salute di Kennedy e sul fatto che queste informazioni fossero gelosamente custodite dai suoi più intimi collaboratori. E non di meno, Dallek riesce a evitare che queste rivelazioni oscurino il quadro generale della vita di Kennedy. Dallek è anche bravissimo nel raccontare gli aspetti favolistici della famiglia Kennedy ed esamina con attenzione e scrupolo come andavano realmente le cose alla Casa Bianca. Un aspetto, quest’ultimo, che lo ha affascinato al punto da indurlo a scrivere un seguito, Camelot’s Court, che tratteggia un fedele profilo dei membri del famoso brain trust di John Kennedy, uscito in coincidenza con il 50° anniversario dell’assassinio. Ben poche però sono le novità.
E qui sorge un altro interrogativo: quanto resta ancora da dire sulla presidenza Kennedy? I disegni di legge che Kennedy e i suoi consiglieri avevano in mente per cambiare il Paese furono approvati solo dopo la sua morte. C’è poi il mistero Vietnam. Taluni continuano a sostenere che, se non fosse morto prematuramente, Kennedy avrebbe impedito l’escalation militare che invece venne favorita da Johnson. Ma la convinzione che Kennedy avrebbe limitato la presenza americana in Vietnam, lungi dall’essere sostenuta da documenti storici, appare più come speranza, una sorta di “come sarebbero andate le cose se…”.
Quel che colpisce è che questo stato d’animo aleggia sulla gran parte di quanto è stato scritto su Kennedy.
In vista del 22 novembre, giunge in libreria un testo intitolato: If Kennedy lived. The first and second terms of president John F. Kennedy: An Alternative History. L’autore è il commentatore televisivo Jeff Greenfield, che immagina come sarebbero andate le cose se Kennedy avesse portato a termine il primo e il secondo mandato. Greenfield non è nuovo a imprese di questo tipo. In passato ha scritto un altro libro in stile “come sarebbe andata se” su Bob Kennedy. Si intitola Then everything changed. Anche Thurston Clarke, autore di due libri sui Kennedy, cede alla tentazione di affidarsi alla fantasia nel suo JFK’s Last Hundred Days avanzando l’ipotesi secondo cui la morte dell’ultimogenito Patrick, avrebbe riavvicinato il presidente alla moglie e proprio quel dolore avrebbe potuto metter fine alla sua carriera di impenitente donnaiolo. E c’è di più: Clarke compie una gigantesca (e poco verosimile) sterzata sulle qualità di leader del presidente Kennedy, affermando che negli ultimi cento giorni si stava avviando a diventare un grande presidente. Un esempio, secondo Clarke, era l’aver persuaso il repubblicano conservatore Charles Halleck, capogruppo alla Camera dei Rappresentanti, ed Everett Dirksen, capogruppo repubblicano al Senato, a votare la legge su diritti civili.
C’è poi chi si spertica in lodi sdolcinate o in false rappresentazioni: David Greenberg, che ha definito JFK “intellettuale illuminato”, così spiega questa tendenza: “Un modo per accrescere la reputazione di scrittori, fare soldi ovviamente, ed esprimere alcune idee, per quanto vaghe, allo scopo principalmente di fare in modo che gli autori restino sotto le luci della ribalta”. Campione in questa specialità è Bill O’Reilly, che ha sfruttato il filone dell’assassinio di Kennedy con grande abilità. L’ultimo contributo di O’Reilly, Kennedy’s Last Days, è una rimasticatura illustrata per bambini del suo best-seller Killing Kennedy. Una prosa infantile e impacciata, corredata da molte illustrazioni. Quella che preferisco ritrae gli animali domestici della famiglia Kennedy, compresi alcuni cuccioli e un pony.
Non debbono sorprenderci poi i pessimi libri scritti da autori celebri anche quando il tema è un presidente americano. Per alcuni il problema è da ricondurre nell’idolatria. Arthur Schlesinger Jr., che ha scritto tre libri magistrali su Franklin Roosevelt e il New Deal, ha fatto un analogo tentativo con I mille giorni di John F. Kennedy alla Casa Bianca. Pubblicato nel 1965 ha il vantaggio dell’immediatezza in quanto Schlesinger, compagno di studi di Kennedy ad Harvard, aveva fatto parte dello staff della Casa Bianca come storico di corte. Di conseguenza era stato testimone di molti dei fatti che racconta nel libro. Ma la sua eccessiva ammirazione per Kennedy non gli permette di fornire una visione obiettiva della presidenza Kennedy. Nel 1993, il giornalista politico Richard Reeves fa di meglio. President Kennedy: Profile of Power è una cronaca dettagliatissima della Casa Bianca durante la presidenza Kennedy. Si tratta di un testo fondamentale e affascinante per capire in che modo Kennedy prendeva le decisioni – come quella sul-l’invasione della Baia dei Porci e relative alla crisi missilistica a Cuba –. Manca però un ritratto più personale su Kennedy, anche se accenna a una Marilyn Monroe in un aderentissimo abito color pelle dal costo di 5.000 dollari per cantare al Madison Square Garden in occasione del compleanno di Kennedy nel 1962.
A controbilanciare la claque di Kennedy ci sono poi coloro che lo odiano come Seymour M. Hersch e Garry Wills. In The Dark Side of Camelot (Il Lato Oscuro di Camelot), Hersh allude ai legami tra i Kennedy e la mafia, mentre Wills nel suo The Kennedy Imprisonment, pur offrendo al lettore alcune brillanti rivelazioni su Kennedy e sul suo circolo di cortigiani, si occupa prevalentemente delle scappatelle dei fratelli e del padre di Kennedy. Il risultato è che tra gli opposti schieramenti che si fanno la guerra si è creato una sorta di vuoto.
John Kennedy è tuttora alla ricerca di un biografo serio e ufficiale. Come mai? Forse perché Kennedy superava in abilità e astuzia anche le menti più brillanti, analitiche e intuitive del suo tempo.
UN MISTO DI GRAZIA ALTERA E DI SFUGGENTE DISTACCO IN TUTTO QUEL CHE FACEVA
Nel 1960 la rivista Esquire commissiona a Norman Mailer di fare l’inviato alla Convenzione democratica di Los Angeles nella quale Kennedy ottiene la candidatura alla presidenza per il suo partito. Il lungo e virtuosistico articolo di Norman Mailer, Superman comes to the Supermarket (Superman arriva al supermercato), coglie, a differenza dei tanti libri a lui dedicati, il nocciolo della personalità di Kennedy che, lo stesso Mailer definisce in seguito enigmatica. Si presentò “con una sorta di grazia altera che appariva indifferente agli applausi, l’atteggiamento in qualche modo simile a quello di un pugile di classe, svelto con le mani, con il senso del tempo e già vicino al suo angolo quando la campana segna la fine del round”. Tuttavia “c’era anche uno sfuggente distacco in tutto quanto faceva. Non si aveva la sensazione che quell’uomo fosse davvero presente con il suo corpo e la sua mente”. Lo stesso Mailer non sa “se apprezzare questa sfuggevolezza o diffidarne. Potrebbe trattarsi del-l’esibizione della forza di un uomo dalla spiccata sensibilità o del distacco di un uomo che non racconta la verità nemmeno a se stesso”. Forse la risposta giusta in quel particolare momento della storia. “Era l’eroe di cui l’America aveva bisogno, un eroe del suo tempo, un uomo la cui personalità poteva nascondere le contraddizioni e i misteri in grado di raggiungere i circuiti alienati dell’inconscio, perché solo un eroe può afferrare l’immaginazione segreta di un popolo e finire per essere positivo per la vitalità del suo Paese”. Queste parole sembravano profetizzare la mistica che avrebbe finito per circondare il presidente Kennedy, una mistica rinforzata dalla vittoria per un pelo su Nixon, dalle romantiche esaltazioni di Camelot e, per finire, dall’orrore di Dallas.
A cinquant’anni di distanza, stiamo ancora esaminando le circostanze del suo assassinio. La Commissione Warren concluse nel 1964 che Kennedy era stato ucciso da un solo cecchino, Lee Harvey Oswald. Edward Jay Epstein e Mark Lane furono tra i primi a confutare l’esito della Commissione e il loro scetticismo fece partire moltissime indagini. Anche il 50° anniversario della morte ha incoraggiato nuove indagini. Tra le più ambiziose A cruel and shocking act: the secret history of Kennedy assassination, nel quale l’autore, Philip Shenon, ex giornalista del New York Times, indica una nuova pista da seguire nella figura di una donna finora trascurata dall’inchiesta e che potrebbe aver avuto rapporti sospetti con l’assassino. Ma quando Shenon rintraccia la donna in Messico, questa nega di aver avuto rapporti con Oswald e le sue teorie si rivelano più misteriose che illuminanti.
L’assassinio di Kennedy ha anche scatenato la fantasia di svariati romanzieri. Tra questi troviamo Stephen King autore di 22/11/63, best-seller pubblicato nel 2011, una sorta di viaggio nel tempo in cui il protagonista è un insegnante di inglese di liceo che decide di tornare a Dallas nel 1963 per cercare di impedire l’assassinio del presidente.
Ma in materia di romanzi sull’assassinio di Kennedy, il capolavoro indiscusso è Libra, di Don De-Lillo pubblicato nel 1988. La prosa è incalzante, ma il tentativo di DeLillo, quello di fornire ai lettori “il metodo di pensiero dell’assassinio distaccandosi dalle mezze verità, ipotesi e teorie accumulatesi” fallisce perché è lo stesso DeLillo a finire nella trappola dei mezzi fatti e delle mezze verità. Quanti sono i misteri sulla morte di Kennedy e sulla sua vita, e se ci sono ancora dei segreti, chi li custodisce così gelosamente e perché?
Un indizio lo ha fornito lo storico Nigel Hamilton il cui libro JFK: Una sconsiderata giovinezza, pubblicato nel 1992, il primo di quella che avrebbe dovuto essere una biografia in più volumi e che si prospettava molto interessante. Purtroppo Hamilton in seguito abbandona il progetto. Il libro cedeva alla tentazione del gossip, specialmente sul tema delle avventure sessuali del giovane Kennedy, ma Hamilton forniva anche un interessante e vivace resoconto della vittoriosa campagna elettorale di Kennedy per il Congresso nel 1946. Tuttavia quando Hamilton comincia a lavorare ai volumi successivi, dice di essere stato oggetto di minacce da parte dei fedelissimi di Kennedy. “La famiglia convinse famosi storici quali Arthur Schlesinger Jr. e Doris Goodwin a scrivere lettere di protesta ai giornali”, scrive Hamilton nel 2011 sul-l’Huffington Post. “Venni avvertito che nessun amico o funzionario in servizio durante l’Amministrazione Kennedy avrebbe avuto il ‘permesso’ di parlare con me per consentirmi di proseguire il mio lavoro”.
I Kennedy – in particolare Jackie e Bobby – erano notoriamente avversi agli scrittori i cui libri non andavano loro a genio. Ingaggiarono Schlesinger, Theodore Sorensen e altri amici in funzione di “poliziotti della ortodossia storica” con il compito non solo di non divulgare documenti di primaria importanza, ma anche di intimidire gli altri scrittori. Un eminente storico recentemente mi ha raccontato che una volta Schlesinger, di cui era stato amico, gli disse che dal momento che aveva invitato Hamilton a una riunione dell’American Historical Association, rischiava di essere espulso dal-l’organizzazione. Ma negli ultimi anni lo scudo protettivo sembra essere diventato meno impenetrabile. La famiglia Kennedy, compreso Edward Kennedy e sua sorella Jean Kennedy Smith, hanno messo a disposizione di David Nasaw, autore de Il Patriarca (biografia ben accolta di Joseph P. Kennedy), tutta la documentazione riguardante il padre. Caroline Kennedy si è mostrata ancor più sensibile alle esigenze della storia, curando in prima persona la pubblicazione di due libri con relativi cd. Uno dei libri, Jacqueline Kennedy: historic conversation on life with John F. Kennedy, contiene le trascrizioni delle interviste su suo marito concesse a Schlesinger e risalenti al 1964, ma tenute segrete fino al 2011. I dialoghi tra Jacqueline e Schlesinger sono rivelatori e affascinanti. L’altro libro, Listening In, riporta le registrazioni di diverse conversazioni nello Studio Ovale. Nel libro c’è almeno un momento memorabile: quando il presidente perde la pazienza commentando le reazioni della stampa alla notizia che la suite di Jacqueline Kennedy nel reparto maternità dell’ospedale era costata 5.000 dollari. “Sono matti? Lo sai cosa succederà ora? Al Congresso salteranno in piedi e diranno ‘Cristo, se possono spendere 5.000 dollari in questo modo, possiamo tagliare un altro miliardo al bilancio dello Stato’. In questo modo metteranno in ginocchio l’aviazione militare”.
PARE CHE PIÙ SI INDAGHI, PIÙ SI RISCHI DI PERDERSI NEL GIOCO DI SPECCHI DELLE TEORIE
Il caso più fastidioso della lunga storia di tentativi della famiglia Kennedy di mettere il bavaglio alla storia, invece, si verificò poco dopo la morte del presidente. Riguarda William Manchester, lo storico che la famiglia aveva scelto poche settimane dopo l’assassinio affinché fornisse un’interpretazione autentica dei fatti con il libro Morte di un presidente. La scelta ricadde su Manchester per via di un precedente libro che scrisse su Kennedy, Ritratto di un presidente. Per una bizzarra coincidenza era uno dei pochissimi libri che Lee Harvey Oswald aveva consultato nella biblioteca pubblica di New Orleans pochi mesi prima dell’assassinio. Manchester ebbe la possibilità di parlare con quasi tutti gli uomini del presidente, con la vedova e con molti esponenti politici di primo piano. Johnson fece avere le risposte per iscritto tramite la sua segreteria. Tutto andò per il verso giusto fino al giorno in cui Manchester consegna il manoscritto ai Kennedy. E nel suo libro del 1976, Controversy, Manchester racconta quel che accadde. Anzitutto ci fu un accurato lavoro di correzioni, aggiunte e cancellazioni a opera di diversi incaricati dei Kennedy e la pressione fu tale da mettere in serio pericolo il sistema nervoso di Manchester. A un certo punto Robert Kennedy raggiunse Manchester nella sua stanza in un albergo di New York, bussò con forza alla porta e chiese di entrare per discutere su altri cambiamenti.
Poi Jackie Kennedy, che non si era nemmeno presa la briga di leggere il manoscritto, si piegò ai consigli di chi le stava intorno e disse che molti particolari – come il fatto che aveva sempre un pacchetto di sigarette nella borsetta – erano troppo personali. E si infuriò quando seppe dei 665.000 dollari che Manchester aveva ricevuto dalla rivista Look: la signora Kennedy si rivolse addirittura al tribunale per impedire la pubblicazione del libro. E solo in seguito sottoscrisse una transazione extragiudiziale e lesse il libro che venne pubblicato nel 1967 giudicandolo “affascinante”. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuti immaginare, Manchester, morto nel 2004, scrisse un libro straordinario. La famiglia Kennedy, che deteneva i diritti di Morte di un presidente, però non autorizzò ulteriori ristampe e per diversi anni chi voleva leggere il libro lo doveva comprare di seconda mano o farselo prestare. Messi tutti insieme, i tanti libri ci dicono troppo poco del presidente Kennedy che, a 50 anni dalla scomparsa, rimane sfuggente nella morte così come lo è stato in vita.
© The New York Times – Distribuito da The New York Times Syndicate, 2013 Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Su La Stampa, oggi:
Cinquant’anni dopo Dallas Cosa resta del sogno di JFK
un supplemento speciale di 16 pagine con i contributi di Bill Clinton, Carter, Gay Telese e un articolo inedito di Enzo Biagi


l’Unità 10.11.13
Cina
A Pechino nasce il partito dei seguaci di Bo Xilai


L’annuncio arriva il giorno dell’apertura del terzo Plenun del Comitato Centrale del Partito comunista cinese: sfidando un divieto di fatto, i sostenitori dell’ex astro nascente cinese, Bo Xilai, condannato a settembre all'ergastolo per corruzione e abuso di potere, hanno fondato un nuovo partito, autonomo dal Partito Comunista Cinese. La formazione, formalmente costituitasi lo scorso 6 novembre, si chiama «Zhi Xian» (letteralmente «la costituzione è la suprema autorità») e Bo ne è «presidente a vita». Lo ha annunciato Wang Zheng, uno dei fondatori, professore associato di commercio internazionale all’Istituto di Economia e Management di Pechino. Wang ha aggiunto che la nascita del nuovo partito, che spezza il monopolio sulla vita politica cinese del Partito Comunista, è «legale e ragionevole» secondo la legge cinese. La costituzione cinese, infatti, formalmente garantisce la libertà di espressione e di associazione ma nella pratica ciò non è mai stato consentito.
Intanto ieri si sono aperti all’hotel Jingxi di Pechino i lavori del Terzo plenum del Comitato centrale del Partito Comunista Cinese. Vi è attesa per quanto verrà deciso dai 376 leader politici presenti. In agenda vi è, infatti, il varo di importanti riforme economiche che segneranno lo sviluppo della Cina per i prossimi nove anni. Nelle scorse settimane, Yu Zhengsheng, numero quattro nella gerarchia politica di Pechino, aveva parlato di riforme «senza precedenti» e «onnicomprensive». Tra le più importanti novità che si attendono dal meeting, che terminerà martedì prossimo, ci sono le tanto attese liberalizzazioni del settore finanziario e delle imprese di Stato, e le riforme del sistema di registrazione familiare per ridurre le diseguaglianze tra i residenti urbani e i milioni di immigrati internie della terra, per permettere ai contadini di usufruire del suo valore a scopo commerciale. Riforme anche della burocrazia che dovrebbero spingere le imprese verso l’innovazione.

il Fatto 10.11.13
Il “partito della Costituzione” sfida il Pcc in nome di Bo Xilai
I seguaci del “principe rosso” in disgrazia creano un movimento antagonista
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino La Corte ti ha negato i diritti politici, ma noi possiamo renderti l'onore politico a vita”. Così inizia la lettera indirizzata a Bo Xilai a firma Wang Zheng. Il 6 novembre costei avrebbe compiuto l'atto sovversivo di fondare un nuovo partito in Cina. E l'avrebbe fatto nominando presidente a vita Bo Xilai, l'astro della sinistra – fu soprannominato “principe rosso” per il suo potere e i suoi riferimenti a Mao – nazionalista e populista condannato all'ergastolo per corruzione e abuso di potere dopo un'efferata lotta politica durata quasi due anni. Si chiama Zhixiandang, il Partito della Costituzione. Ironico perché in genere la Costituzione cinese – che sulla carta garantisce libertà di associazione e di parola – è chiamata in causa dagli attivisti e dai cosiddetti dissidenti politici. Tutta gente che in Cina viene classificata come di destra. Non ci sarebbe stata nessuna cerimonia ufficiale, ma diverse lettere indirizzate al Partito comunista e agli altri 8 partiti fantocci riconosciuti. E anche all'assemblea consultiva e ai suoi organi decisionali più alti.
LA NOTIZIA viene lanciata dal-l’agenzia Reuters il giorno in cui si apre l'appuntamento più importante del decennio. Il Terzo plenum del Pcc è una riunione politica a porte chiuse in cui si decideranno gli obiettivi che la seconda economia mondiale cercherà di perseguire nel prossimo decennio. Nella segretezza che avvolge tutto ciò che riguarda la politica cinese, l'agenzia ha il potere di una bomba. A conferma riporta un'intervista alla stessa Wang Zheng e a un'altra fonte che ha preferito rimanere anonima.
L'altra campana tace: il Dipartimento di propaganda non ha fatto nessun commento e non abbiamo alcuna notizia di un'eventuale reazione dello stesso Bo.
SECONDO I DOCUMENTI che cominciano a circolare online, il discorso politico alla base è “legale e ragionevole”. Si sostiene di aver scritto una lettera aperta al presidente Xi Jinping lo scorso 5 gennaio che lo avvisava che “se [il Pcc] avesse perseguito nell'errore, i sostenitori di Bo avrebbero costituito un nuovo Partito”. E si continua spiegando che quando il 22 settembre Bo Xilai è stato condannato all'ergastolo non c'è stata altra strada da perseguire che quella di “abbandonare la fantasia del ’sogno cinese’ e prendere la decisione razionale di fondare un partito politico”.
Il ‘sogno cinese’ è il meme che contraddistingue la neonata presidenza di Xi Jinping e i suoi poster di propaganda che tappezzano strade e metropolitane. Il ‘sogno cinese’ è quello di sfuggire alla ‘trappola del reddito medio’ – quella situazione in cui un paese in via di sviluppo che raggiunge un reddito medio soddisfacente si ritrova improvvisamente davanti a un arresto della crescita – non con una polita egualitaria come quella portata avanti da Bo Xilai, ma attraverso una liberalizzazione del mercato che colpisca prima di tutto i monopoli di stato. E questo, sicuramente, non è un sogno che appartiene a tutti.

Corriere 10.11.13
Pechino, il conclave segreto nell’«albergo che non esiste»

E intanto i seguaci di Bo Xilai fondano il loro partito

PECHINO — Il conclave dei grandi annunci. E dei grandi misteri. Di sicuro sappiamo solo che da ieri i circa 370 membri del 18° Comitato centrale del partito comunista sono riuniti nel Terzo Plenum. Ne usciranno martedì, con decisioni sul futuro economico e politico della Cina per i prossimi dieci anni. Almeno, questo ripete giorni la stampa di qui, rilanciando promesse di dirigenti che parlano di «riforme senza precedenti». Pagine e pagine, titoli e titoli che hanno previsto cambiamenti praticamente in ogni settore della seconda economia del mondo: dal sistema del credito ai diritti di vendita della terra.
Poi, da ieri mattina, improvvisamente il silenzio e il segreto. Il Plenum non si svolge nella Grande Sala del Popolo sulla Tienanmen, ma in un albergo più a Ovest: il Jingxi Hotel. O almeno questo è quello che si dice, anche in base alle suggestioni del passato: nel Jingxi si sono tenute riunioni storiche e drammatiche, nel 1967 un gruppo di marescialli cercò di ribellarsi alla vedova di Mao. E nel 1978 fu nel Jingxi che si radunò il Terzo Plenum dell’11° Comitato centrale, quello in cui Deng Xiaoping aprì la Cina al mercato. È un albergo particolare il Jingxi, gestito direttamente dal Quartier Generale dell’Esercito. E non è un posto per turisti; non si prenota nemmeno una delle sue 1.023 stanze online o per telefono. Davanti, uno schieramento di agenti in borghese e in divisa; dall’altra parte della strada abbiamo fatto in tempo a vedere qualche Audi nera con i vetri affumicati infilarsi nel cancello, prima di capire che era meglio togliere il disturbo.
Quasi un hotel fantasma, certamente militarizzato, piazzato nel distretto occidentale di Haidian, vicino al ministero della Difesa e al Museo dell’Esercito popolare di liberazione.
Eppure compare nella classifica di «Tripadvisor»: 547° sui 4.675 alberghi di Pechino. Come mai delle recensioni nonostante la cortina che lo circonda? Perché durante l’anno ci si tengono anche riunioni statali a più basso livello e 68 piccoli funzionari, orgogliosi di trovarsi nelle stanze dov’è stata scritta la storia, hanno scritto i loro giudizi sul sito specializzato «Tripadvisor», proprio come fa la gente in vacanza.
Così sappiamo che lo yoghurt lo fanno in casa, che i mobili non sono di design lussuoso ma «lineari, di solido legno di pesco», i quadri grandissimi e donati da pittori famosi e ansiosi di farsi apprezzare dal potere. Qualche altro dettaglio: «Le cameriere sono di ottima qualità, alte, belle e brave». «Letti molto grandi. Sembrano tutti matrimoniali». «Ottima security, dopo mezzanotte ci sono quattro posti di controllo uno dopo l’altro. Appena entri il segnale del cellulare viene oscurato. È molto, molto pulito». E per concludere: «Cucina accuratissima, c’è anche un ristorante musulmano».
Insomma, il «Jingxi del mistero» (citazione da un’altra recensione di un piccolo burocrate felice di esserci) è il centro della Cina, fino a martedì quando si chiude il Plenum. Forse: perché ovviamente nessuno conferma che il Plenum sia proprio lì.
Comunque, dopo l’attentato del 28 ottobre che ha fatto cinque morti e 40 feriti sotto il ritratto di Mao sulla Tienanmen, il ministro della sicurezza Guo Shengkun non ha voluto correre rischi, ha riunito gli ufficiali di polizia e ha detto: «Voglio che intorno a Pechino ci sia un fossato di sicurezza», come ai tempi della Città Proibita. Su Sina Weibo , il Twitter cinese, sono state segnalate retate di «fang min», il popolo delle petizioni che per antica tradizione imperiale viene nella capitale a rappresentare le proprie lamentele. A Taiyuan, il capoluogo dello Shanxi dove mercoledì qualcuno ha piazzato sette ordigni davanti al palazzo del partito locale, chi vuole prendere il pullman per Pechino deve presentare i documenti. Dallo Xinjiang degli uiguri, terra degli attentatori della Tienanmen, notizie di arresti.
Sul fronte politico il Quotidiano del Popolo ha pubblicato un lungo comunicato: «Il partito comunista manterrà il potere, no ai sistemi occidentali, non ci faremo distruggere». Sono giorni di incertezza: ieri si è diffusa la voce che i seguaci di Bo Xilai, il leader condannato all’ergastolo per corruzione, hanno fondato un partito scissionista.
È stato prospettato un tale «approfondimento generale delle riforme» che a elencarle tutte ci vorrebbe un trattato: coinvolgono industrie di Stato, banche, convertibilità del renminbi, diritto di residenza in città per i lavoratori migranti, che sono circa 200 milioni. Le resistenze saranno fortissime, anche perché il Plenum dispone, ma poi l’applicazione passa alle province dell’Impero. E uno dei tanti proverbi cinesi dice: «La montagna è alta, e l’imperatore è lontano».
Guido Santevecchi

La Stampa 10.11.13
Cina, scoppia il caso Bloomberg
L’agenzia Usa censura un’inchiesta per non compromettere i suoi interessi nel Paese
di Paolo Mastrolilli

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La Stampa 10.11.13
Le riforme di Xi Jinping sono ancora un mistero
Via al plenum del partito nel segno della segretezza
di Ilaria Maria Sala

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Repubblica 10.11.13
Ma perché i comunisti mangiano i bambini?
Quell’orco nato nel Natale del ’43
di Simonetta Fiori


Oggi dicono che accada il contrario, che siano i bambini a mangiarsi i comunisti, o quel che resta di loro. Ma quella dell’orco rosso, terrifico divoratore dell’infanzia, non è una favola che si possa facilmente liquidare. Perché come tutte le leggende racconta molti dei pregiudizi, degli odi e dei timori di una comunità. E nel nostro caso racconta la storia di un Paese che fatica a crescere, ancora prigioniero d’una credulonità contadina e di un’eccitazione emotiva comprensibile solo in tempo di guerra. Un’Italia che ancora non riesce a chiudere completamente con una delle invenzioni più fortunate e resistenti della comunicazione politica novecentesca. La bestia di Pollicino ridipinta con le sembianze mongole di Stalin. O, più in generale, la leggenda dei comunisti che si nutrono di carne tenera.
Lo specchio moltiplicatore del web la riproduce ovunque nella scena planetaria. Basta un click perché si riverberi in tutte le lingue del mondo. Uno storico da sempre attento alla mentalità, Stefano Pivato, s’è preso la briga di andare a contare i siti sull’argomento, stupefatto dall’enorme diffusione del mito. Ma soltanto da noi può vantare un record che attiene alla durata e soprattutto al suo radicamento, non solo nei recessi dell’immaginario popolare ma nella dignità ufficiale della sfera pubblica. Ed è il bel saggio di Pivato a farcelo notare (I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Il Mulino). Dal ventennio nero a quello azzurro, dagli articoli di Mussolini a quelli contemporanei delGiornale, da Guareschi a Berlusconi, passando per Cossiga che regala gustose bamboline di zucchero al neopremier D’Alema, il ceto politico e intellettuale italiano si mostra affezionato a uno degli archetipi più perturbanti della vulgata anticomunista. E se non mancano le ragioni storiche — la lunga esperienza del fascismo che di quel mito fu l’iniziale propagatore e la presenza in Italia del più grande partito comunista d’Occidente — bisognerebbe però affidarsi a un bravo psichiatra collettivo per risalire alle cause di una patologia ancora corrente.
A svuotarne il senso originario non sono bastate neppure le armi della satira, che ha risposto con oltre cinquant’anni di ritardo a un accorato appello di Pietro Ingrao rivolto all’intellighenzia italiana: «Ci sarà mai uno scrittore che sappia bollare questi seminatori di discordia?». Ci ha provato Paolo Villaggio in uno dei suoi racconti surreali, immaginando un ingolosito Togliatti che ordina bambini fritti, mentre Nenni appesantito da una fastidiosa gastrite ne ordina uno crudo, «possibilmente ancora vivo». E se Gaber cantava «Qualcuno era democristiano perché i comunisti mangiavano i bambini», più di recente Crozza ne ha ricavato un personalissimo albero alimentare: «Fassino è la dimostrazione che i bambini non fanno ingrassare». Ma soltanto sette anni fa Palazzo Chigi doveva chiedere scusa al governo di Pechino per una gaffe del premier, che aveva evocato prelibati bolliti di neonati in salsa cinese.
Come tutte le leggende, anche questa dell’antropofagia comunista parte da un elemento di realtà, che però viene stravolto nell’estro cupo della propaganda. E l’origine va cercata nelle pratiche cannibaliche fiorite in Urss tra gli anni Venti e Trenta nei luoghi delle carestie. Figli sbranati per fame. Costolette umane servite al mercato nero. Vedove che rivendicano la carne del marito morto. E genitori allucinati che per nutrire i primogeniti sacrificano i minori. Tragedie della fame che con passo biblico sono state narrate da Koestler, da Salamov, da Grossman e da una preziosa letteratura storiografica che ha fatto luce sulle grandi carestie sovietiche e più tardi sull’assedio di Leningrado. Storie terrificanti che però ci parlano non di comunisti vocati al cannibalismo per cieca fede, bensì di povera gente vittima del comunismo, condannata a farsi bestia anche in conseguenza della sciagurata collettivizzazione forzata delle campagne voluta da Stalin. Quello dell’antropofagia — ci ricorda Pivato — è un fenomeno trasversale alle diverse nazionalità, dettato da condizioni eccezionali e non dal credo politico. Il regime sovietico tentò di soffocarlo con il carcere e le fucilazioni. Ma la propaganda di Mussolini fu abile nel trasformare la disperazione in ideologia, promuovendo la cannibalizzazione a metafora di un sistema vorace. In questa operazione fu certo aiutata dalle prime notizie — queste sì veridiche — che giungevano dall’inferno comunista, tra i gulag e le esecuzioni di massa. E il clima di forte emotività portato dalla guerra avrebbe fatto il resto.
L’orco comunista arrivò in Italia nel Natale del 1943. Le famiglie furono raggelate da un articolo comparso sulla prima pagina deLa Stampa. “I ragazzi e bimbi italiani saranno deportati in Russia. Partiranno dalla Sicilia per un viaggio lungo lungo, che per i più non avrà ritorno”. Anche qui la fantasia dei cronisti galoppò a briglia sciolta. Scene di disperazione nei porti dell’isola. Donne straziate dal dolore. Padri suicidi insieme ai figli, strappati con la morte a un destino crudele deciso niente meno che da Vysinskij, procuratore generale delle grandi purghe staliniane. La notizia ballò per giorni e giorni, con tanto di naufragio di una delle navi e una crescente corresponsabilità di alleati inglesi e americani. I disegni di Walter Molino sullaDomenica del Corriere e i manifesti della Repubblica Sociale provvidero a fornirne una documentazione iconografica. Naturalmente si trattava di una “bufala”, una delle più clamorose costruite dal fascismo durante la guerra. Nessun bambino italiano fu deportato in Unione Sovietica. Ma la favola era già scritta, nutrita dai timori ancestrali di una comunità scossa dalla guerra. Nell’immaginario nazionale era entrato il terribile Moloch rosso.
La storia però resterebbe incompleta se non aggiungessimo che in Italia l’orco esisteva già da tempo. E non con il volto peloso di Stalin ma in abiti talari, «simbolo di un fagocitante cannibalismo cattolico ». Pivato evoca le tavole di Galantara — irriverente vignettista anticlericale — che sul finire dell’Ottocento riproduceva «preti e frati con sembianze feroci dietro le sbarre di una prigione». O anche «nell’atto di stritolare tra le mani fanciulli indifesi ». O ancora «con bocche smisurate pronte a inghiottire frotte di scolaretti». Era in gioco il controllo dell’educazione dei bambini, che con la nascita dello Stato italiano era stata affidata alle scuole laiche. La satira cattolica non restò certo a guardare, sfigurando in panciute fattezze i nemici della sinistra accusati di furto di tessere. Un appetito bestiale si stava impadronendo dell’iconografia e del linguaggio pubblico italiano, presto tradotto nelle sembianze di lupi, pescecani, avvoltoi, piovre e serpenti scagliati contro il nemico. Cominciava così quella «zoologia del terrore» che avrebbe caratterizzato la cannibalizzazione politica del Novecento.
Da qui arriva anche il nostro orco comunista, che attraversa indenne il XX secolo. Fino a far capolino nelle redazioni e nelle istituzioni pubbliche del nuovo millennio. Anche quando i comunisti non ci sono più. E quel polveroso Barbablù rischia di diventare la favola triste di un paese mai diventato adulto.

il Fatto 10.11.13
Il nuovo libro di Paolo Mieli
Shoah e negazionismo. La Storia non è una vendetta
di Silvia Truzzi


Esce domani il libro di Paolo Mieli I conti con la storia (Rizzoli, 420 pagg; 19,50 euro): titolo ambizioso in un Paese contraddittorio, spesso definito senza memoria e contemporaneamente incapace di far “passare il passato”, di emanciparsi da tare genetiche e vizi assurdi.
Lei scrive che il compito dello storico è ricordare. Ma che ci sono momenti in cui dimenticare è un dovere, per ricomporre una comunità. Perché è necessario “sospendere la memoria”?
La premessa è d’obbligo: la missione dello storico è lavorare sul passato, dunque la memoria e il ricordo sono al centro del suo lavoro. Ed è ovvio: lo storico è un uomo del presente, un tempo che naturalmente condiziona il suo lavoro. Però, perché le passioni del presente non invadano l’indagine sul passato, è necessaria una “pausa obliante”. Dovremmo avere meno animosità e sete di vendetta quando andiamo a visitare il passato. Se ci riusciamo, capiremo molto meglio il nostro oggi.
Come si colloca, alla luce di queste considerazioni, l’ipotesi di introdurre il reato di negazionismo?
Parte della mia famiglia è stata sterminata nella Shoah. Ma quando studio la Shoah non lo faccio per vendicare i miei lutti, bensì per capire quali dinamiche sociali e politiche l’hanno permessa. Mi ha molto favorevolmente impressionato che tra i curatori della Storia della Shoah (Utet, 2010, di Enzo Traverso, Simon Levi Sullam, Marcello Flores) ci siano stati i primi firmatari di un manifesto contro l’introduzione del reato di negazionismo.
Leggendo “I conti con la storia” si deduce che lei è contrario...
Sì. Questi provvedimenti possono nascere con le migliori intenzioni, ma è assurdo pensare che si possa stabilire una verità storica “definitiva”. Adriano Prosperi ha scritto: “L’ira è ottima consigliera quando si deve reagire alle ingiustizie, ma non è con l’inchiostro dell’ira che si possono scrivere le leggi”. Condivido. Timothy Garton Ash ha detto che le leggi illiberali restano tali anche se motivate dalle migliori intenzioni. Io aggiungo: di solito ti si ritorcono contro. Nel disegno di legge si propone di infliggere da uno a cinque anni di carcere a chiunque neghi l’esistenza “di crimini di guerra, genocidio o contro l'umanità”. La definizione mi appare ambigua e generica. Quando sono finiti alla sbarra i negazionisti, come David Irving – condannato a tre anni nel 2006 – l’effetto è stato di amplificarne le tesi: dal tribunale alla tribuna il passo è brevissimo. Ai reati di opinione bisogna dire no, anche se si tratta delle opinioni che tu odi.
Che pensa della battuta di Berlusconi sui suoi figli che si sentono come gli ebrei sotto Hitler?
Inqualificabile e disgustosa: chiunque paragoni la Shoah a situazioni attuali commette oltraggio.
Il tema dell’oblio è collegato al dibattito sull’amnistia (che significa letteralmente “divieto di ricordare”). Lei è d’accordo?
Il perdono giudiziale è stato usato continuamente durante la Prima Repubblica: la classe politica in primo luogo amnistiava se stessa. In maniera ridicola, a mio avviso. E l’indulto del 2006 ha molto danneggiato il centrosinistra. L’indulto o l’amnistia sono auspicabili se diventano un modo per voltare pagina, non se sono utili soltanto a ricominciare tutto come prima confidando nella futura impunità. In più, se l’ottica è lo svuotamento delle carceri, sappiamo bene che si tratta di un effetto solo temporaneo. Altro però è stata l’amnistia Togliatti, dopo la guerra civile: secondo me quella è stata sacrosanta.
Non è che questo, ad esempio dopo il Fascismo e dopo Tangentopoli, ha prodotto l’impossibilità di epurazioni nelle classi dirigenti?
Il riciclo è una nostra peculiarità, l’Italia è nata così. Nel 1861 la classe politica dovette formarsi per necessità con persone che avevano prosperato nei regimi degli Stati pre-unitari. Alcuni avevano aderito alla causa risorgimentale all’ultimo, un po’ come quelli che si scoprirono antifascisti il 26 aprile 1945. Un classico è che tutti, dopo, negano appartenenze e filiazioni, con il risultato di essere per decenni ricattabili a causa di compromissioni del passato. Tutti hanno inventato di essersi opposti alle leggi razziali. Conosce qualcuno qui in Italia che non ha avuto almeno un parente che ospitava gli ebrei perseguitati dai nazisti?
E Tangentopoli? Sono spariti i partiti e quei politici si sono riciclati altrove ma sono rimasti.
È stata una stagione fallimentare, per tanti motivi. Anche perché i magistrati sono stati sospettati da una parte dell’opinione pubblica di aver indagato e processato solo una parte politica. Tangentopoli è del ‘92-‘93. Nel ‘94 Berlusconi è stato al potere per otto mesi. Dopo, fino al 2001, ha governato con diverse formule, il centrosinistra. Allora perché si dice che Berlusconi è stato al potere per un ventennio? È una faciloneria mettere tutto sul conto del Cavaliere, di Previti e di Dell’Utri.
C’è di bello che ora governano tutti insieme.
Le larghe intese non sono l’inizio del nuovo, ma la degna conclusione del vecchio. Quando questo periodo sarà Storia, in Italia non troveremo più nessuno che ammetterà di essere stato berlusconiano, tranne le consuete eccezioni. Rimarrà a lungo un mistero chi fu davvero al potere tra il 1992 al 2001.
Che significa?
Che non andrà a finire bene. C’è qualcosa di opaco e poco chiaro. Il fatto che destra e sinistra stiano al governo insieme non è un caso di unità nazionale, come l’abbiamo conosciuta in Germania. Piuttosto è il disvelamento di una menzogna. A febbraio il centrosinistra non era in grado di ripartire con una nuova stagione, perché i suoi uomini erano quelli del ventennio precedente. Le larghe intese andranno avanti ancora a lungo, credo. La capacità che questa formula ha di assorbire gravi incidenti, come quest’ultimo del ministro Cancellieri, dimostra che la forza di questa coalizione sta nell’assoluta mancanza di alternative.
Il ministro doveva dimettersi?
Senza dubbio. Quando qualche politico riteneva che Tortora fosse ingiustamente detenuto, lo diceva pubblicamente. Così avrebbe dovuto fare in luglio la Cancellieri con Giulia Ligresti. E con gli altri 109 casi di cui ha parlato. Io mi attendevo di conoscere tempi e modi di quei 109 interventi del ministro in favore di detenuti non “illustri”, diciamo così. Ci fidiamo sulla parola?
La pausa obliante vale anche per Berlusconi? Lui non ne vuole sapere di essere consegnato alla Storia.
La premessa per poter pensare a una stagione di oblio è che prima si volti pagina. Io Berlusconi non riesco a capirlo quando dice “Napolitano può ancora darmi la grazia”. Mi domando come non comprenda che il farsi da parte, rimanendo il padre nobile del suo partito, sarebbe l’atteggiamento più sensato. Questo modo di rimanere in campo, come direbbe lui, avvantaggia gli avversari e danneggia i suoi. Tutti.

I CONTI CON LA STORIA Paolo Mieli Rizzoli pagg. 420 19,50 €

l’Unità 10.11.13
«La Resistenza delle donne»
La storia della Liberazione nel film di Elisabetta Sgarbi
Si intitola «Quando i tedeschi non sapevano nuotare» e verrà presentato domani
Opera corale su guerra e occupazione nel Polesine raccontata dai veri protagonisti dell’epoca
di Lidia Bellodi

staffetta partigiana

La pellicola è realizzata
da Betty Wrong e Rai Cinema Il pezzo che pubblichiamo è una testimonianza diretta

ERA IL 18 FEBBRAIO DEL 1945, L’APPUNTAMENTO ERA PER LE 10 DI MATTINA IN PIAZZA. FU LÌ CHE TROVAI LE DONNE. SI AVVICINÒ LA MIA AMICA SILVANA: «Dobbiamo fare una cosa noi donne mi disse però bisogna avere pazienza e stare attenti con chi si parla, perché questa cosa deve riuscire. Avvicina le persone per bene, che sai come la pensano, e chiedi di fare un po' di passaparola, perché la cosa si allarghi, perché dovremo essere in tante.» E fu così che tutto cominciò. Con tanta titubanza e tanta paura fu così che quella domenica mattina, il 18 febbraio, ci trovammo verso le dieci. Fu anche difficile per me uscire, dovevo raccontar bugie a mia madre, perché in casa nessuno sapeva che facevo parte di questa organizzazione. Insomma, quel mattino, in tre, io, Silvana e Vittorina Dondi, che abitava a Ospitale sulla strada che porta a San Biagio verso la foce del Po, siamo partite. (...) E fu così: lei con un cartone con scritto sopra «Vogliamo pane, abbiamo fame, basta con la guerra!», siamo partite. (...)
Quando siamo arrivate in piazza eravamo in tante, e si vedeva da lontano, perché la piazza è grande, da là in fondo, si vedeva che la gente arrivava, arrivava dai vicoli come abbiamo fatto noi, da un'altra discesa che sbuca in piazza. (...)
Era domenica mattina, c'era solamente un gruppetto di uomini davanti al tabaccaio Gatti, erano i contadini che venivano in piazza. Mi ricordo che erano sbalorditi perché non sapevano cosa stesse succedendo. Non so se la porta del Comune era stata manomessa da qualcuno, so solo che siamo riuscite a sfondarla e poi su a precipizio per le scale! Abbiamo riempito il Comune di donne. (...) Al terzo piano c'erano le donne che buttavano fuori dalla finestra tutto quanto, le scrivanie, le carte... c'era il putiferio. Ho detto: «Silvana, ma se arrivano i fascisti, vengono dentro e ci ammazzano tutte!». (...) Mi ricordo che siamo scese e siamo andate al primo piano: c'era una porta con un bell'ambiente largo pieno di scaffali con dei libri, i libroni dell'Anagrafe. E Silvana gridava: "Quelli, son quelli! Aprite le finestre, buttateli giù che andiamo giù!".
(...) Silvana si mise a strappare le pagine, ma erano dure e non ce la faceva. Allora Vittorina prese un mazzo di fogli... «Lidia, Lidia, accendi!» "Accendi?" ho detto. «Ma nessuno mi ha detto di prendere dei fiammiferi? Con che cosa li accendo, adesso? ». Fu lì che da un vicolo spuntò un ragazzo che mi butta una scatolina di cerini. I cerini a quei tempi! Allora abbiamo acceso questi libri. Intanto che il falò arde ecco che arriva, da via De Amicis, un fascista di corsa con un fucile impugnato. Siamo scappate. (...) Iniziò il caos degli urli, degli spari. (...) Siamo tornate a casa da dove siam venute. So che hanno picchiato e ferito tre donne e ne hanno arrestate una decina. (...) Tutti avevamo paura. Il bello è che c'erano le scritte «State attenti, il nemico vi ascolta». Per me i nemici erano loro. (...)
In quello stesso periodo mio marito era stato arrestato e doveva essere fucilato. Ma arrivarono gli inglesi due giorni prima, della fucilazione. Noi eravamo in un rifugio sotto un filare. Eravamo lì dalla sera prima, tutti quanti, perché Silvana era venuta a dirci che sarebbero arrivati gli alleati. Eravamo in tre famiglie con tanti bambini. Mia madre era incinta. Mi ricordo che aveva fatto un sacco di pane abbrustolito, l'aveva biscottato nel forno, e l’aveva messo in un sacco bianco. Stavo per raccontare una favola ai bambini, lì al buoi, quando sentiamo un Vooom Vooom. Mia sorella scatta: «Io voglio andare a vedere cosa c'è», dice. «Non ti sognare di andare fuori!» dice papà. La prende per una gamba, ma lei rientra dentro con la testa e dice: «Papà, papà vuota il sacco del pane perché voglio fare la bandiera bianca! Ci sono i carri armati che stanno arrivando! Ma sono tanti!».E meno male che ha avuto il coraggio di uscire a guardare perché stavano per passare sopra di noi e saremmo morti tutti come topi. Ci ha salvati mia sorella. E il nonno, mi ricordo, disse: «Ci hanno mitragliato la casa». Non vedevano bene, perché era nascosta dai pollai e pensavano che ci fossero i tedeschi. E così fu l'arrivo, fu la liberazione. Avevamo la casa a pezzi ma c’eravamo tutti: «E lascia che sia! Ci siamo tutti. Siamo in tanti, in questa casa, e ci siamo tutti».
E fu così.

Repubblica 10.11.13
Uto Ughi
di Federico Capitoni


A tre anni suonava e a dieci a Parigi dava i primi concerti. Eppure nella casa di uno dei più celebri violinisti al mondo, oggi sessantanovenne, ci sono più libri che dischi: “Leggo molto e sottolineo ciò che mi somiglia di più E poi scrivo, perché l’arte solo come astrazione non serve a nessuno: deve essere comunicata” Quanto alla musica, la sua è una battaglia quotidiana: “Appena pensi di aver raggiunto la perfezione arriva uno più bravo di te”

ROMA «Si ricorda come dice il poeta?». Uto Ughi ti fredda a ogni pie’ sospinto, e tu che cerchi di afferrare il riferimento letterario prima di fare una brutta figura. Uno dei più noti violinisti al mondo ama citare in continuazione interi passi, che ha mandato a memoria, dei libri della sua vita: «Quando non suono, leggo. E sottolineo le cose che mi somigliano di più». Nel suo appartamento romano, dal quale si vede netta la cupola di San Pietro e in cui confessa però di passare solo pochi mesi l’anno («Saranno tre in tutto, sono sempre in viaggio per i concerti) sembrano esserci più libri che dischi, più letteratura che musica. «La lettura ha per me un posto primario. E devo dire che se è molto comune l’interesse dei musicisti per la letteratura, più raro è quello dei letterati per la musica. Mi ricordo Borges, mio amico e piuttosto a digiuno di musica, che mi diceva: “Una delle mie grandissime colpe è che non sono degno di un concerto per violino”».
Comincia presto la storia musicale di Ughi, ed è quella tipica di tanti musicisti di successo. Inizia a imbracciare il violino a soli tre anni, spinto com’è da una predisposizione lampante per la musica. A dieci anni è già a Parigi a prendere lezioni da un grande del Novecento, George Enescu. Da adolescente è in giro per il mondo a dare concerti. Una carriera di successi conseguiti da subito, nonostante qualche mossa sbagliata, come quando rinuncia a seguire David Ojstrach in Russia per prepararsi al più prestigioso e difficile premio violinistico, il Tchajkovskij: «Quello è un super rimpianto, mi è rimasta la sensazione di aver perso un treno. Un’esperienza con un grande come lui sarebbe stata molto importante; avevo sedici anni non ebbi il coraggio di partire per la Russia. Ed è strano perché di natura sono avventuroso, mi piacciono le esplorazioni, ma in quel caso mi mancò lo slancio». Il talento di Ughi è però sufficiente perché il suo violino lo porti a risultati straordinari, anche non previsti: «Ho iniziato a fare musica molto presto ed era il mio maestro che mi spingeva a fare qualche concerto per prendere familiarità col pubblico. Le cose sono venute da sole, non ho mai deciso di fare il concertista. Mi sono accorto che avevo delle possibilità dagli inviti che ricevevo, dalle personalità che mi avvicinavano. E poi perché avevo la gioia di suonare, senza di quella non si va avanti. Io non ho mai pensato alla carriera, è una cosa che viene o non viene. Allo stesso modo spero di accorgermi in tempo se non sarà più il caso di continuare. Se non sarò più in grado di fare delle esecuzioni decorose, sarò il primo a dirmi di smettere per dedicarmi magari all’insegnamento. È difficile come artista valutarsi per ciò che si è, ma bisogna avere la forza e il coraggio di guardarsi allo specchio. La musica è una sfida infinita, è una battaglia continua ingaggiata con la materia e la materia è la tecnica: ciò che sembra perfetto oggi domani non lo è più. C’è sempre qualcuno che, proprio quando pensi di aver raggiunto il massimo in un’interpretazione, fa meglio di te».
Sono gli incontri, e anche gli scontri, con i grandi musicisti quelli che alimentano la voglia di migliorarsi e continuare. Ughi ha conosciuto le maggiori personalità musicali della seconda metà del secolo scorso. Dalle parole esortative di Sergiu Celibidache ai capricci, sempre perdonabili, di Martha Argerich, ogni volta ha imparato qualcosa: «Qualsiasi incontro con un grande artista o con la sua musica è una trasfusione di sangue nuovo, sono arricchimenti di cui non si può fare a meno. Quello che muove l’artista è l’amore. Tutti i grandi artisti che ho conosciuto erano grandi per questo. La mia passione per la musica è la stessa di quando ero ragazzo, spero non si esaurisca mai». Intanto a un libro ha affidato alcuni dei più rilevanti ricordi della sua vita anche di musicista: le vicende raccontate in Quel diavolo di un trillo,pubblicato da Einaudi, vanno dall’infanzia a Busto Arsizio alla carriera internazionale in tutto il pianeta. «Accettando di scrivere ho tenuto a mente Cicerone quando scrive che un uomo che raggiungesse il cielo e le stelle sarebbe triste di non poter comunicare quello spettacolo. Ecco, l’arte, a un livello spirituale, come pura astrazione, non serve. Deve incontrare la materialità terrena ed essere comunicata agliuomini». A sessantanove anni Ughi è convinto di avere ancora molto da fare, di confrontarsi col repertorio classico e con le interpretazioni dei maestri e di affrontare la musica contemporanea dalla quale però sembra faticare a pescare: «Il violino è uno strumento prevalentemente lirico, melodico; la musica di oggi non sempre lo è. Per quanto mi riguarda il grande repertorio violinistico si esaurisce nella prima metà del Novecento. Però ci sono compositori ancora in vita — come Penderecki, Gubajdulina, Pärt, Dutilleux — che sono riusciti a continuare la tradizione in un campo nuovo di ricerca». Ma soprattutto Ughi non pensa solo a sé. Si impegna da anni per una ripresa della musica in Italia: «Ho viaggiato molto, ho suonato in angoli remoti del pianeta dove quasi non c’è cultura musicale. Quando fai bene la bella musica, vedi la gioia negli occhi delle persone. Noi in Europa, culla della civiltà musicale, oggi siamo surclassati dagli orientali perché lì i ragazzi studiano musica per essere persone migliori, non necessariamente per diventare professionisti». Con rabbia tratteggia il quadro desolante della cultura musicale italiana: «Nelle scuole non si fa niente. E credo che sia colpa anche dei musicisti: se non si muove il Ministero, dobbiamo farlo noi. Io sono andato più volte da più ministri dell’istruzione chiedendo di istituire cicli, corsi, lezioni… Ma sono tutti sordi. Quel poco di musica che si ha nelle scuole è fatta malissimo, sarebbe meglio lasciar stare. Il nostro è un Paese in cui si mettono gli insegnanti sbagliati nei posti sbagliati. I ministri credono di spadroneggiare e invece è il contrario, sono loro a dover essere al servizio dei cittadini. E che dire poi della musica in chiesa: nenie orrende. Ho parlato con Monsignor Ravasi, mi ha promesso che farà qualcosa per recuperare il valore della musica sacra, ma anche qui non si muove niente. Forse bisogna che intervenga direttamente il Papa. Lui è una figura che mi piace, uno che si mette al servizio dei fedeli». L’impegno di Ughi nella diffusione della cultura musicale ha spesso avuto comunque esito positivo, per esempio qualche anno fa sulla Rai: «Facevo delle puntate da varie parti del mondo, cercando di legare la musica ai luoghi e alle altre arti. Se la musica si spiega, si collega al contesto, senza ricorrere però troppo alle parole, funziona anche in tv». Viene fuori dal maestro, spessissimo mentre si conversa con lui, un’incrollabile voglia di migliorare le cose, di salvarsi. Forse è lo stesso spirito del padre, che aveva fatto la guerra e che in guerra aveva perso il fratello, Bruto, di cui Uto è il diminutivo dato al bimbo che oggi si interroga, ma con fiducia, sul nostro futuro. «Dipende da noi, ogni singolo individuo deve fare qualcosa. Io nel mio piccolo cerco di dare un contributo, ma mi rendo conto di essere quasi fuori dal tempo: la musica non può risolvere i problemi, è un aiuto a sollevare moralmente. Credo sia ora di mettere da parte gli interessi personali, di fare le cose per la comunità e non per se stessi. Mi piace ricordare l’associazione Arturo Toscanini, con cui collaboro da qualche anno. Loro hanno iniziato con poco in provincia, oggi sono una realtà nazionale. La musica avrà un futuro se ci saranno persone così generose che non fanno le cose per soldi ma per allargare la cultura». Ughi cita Edmund Burke: «“L’unica cosa necessaria per il trionfo del male è l’inerzia dei buoni”. La quiescenza è la colpa. Non possiamo cambiare da soli un Paese, ma possiamo influenzare le scelte. Si deve denunciare ciò che non va, contestare, costringere alle dimissioni. Bisogna avere coraggio, cosa che oggi è rara per paura delle ripercussioni. Il nostro errore è l’omertà».

Repubblica 10.11.13
Renoir
L’impressionista che non sapeva di essere un maestro del paesaggio
di fabrizio D’Amico


TORINO Sulla metà del 1878 Renoir accettava un incarico di Georges Charpentier – che era l’editore fra l’altro di Flaubert e di Zola – e poneva mano al grande ritratto di Madame Charpentier con i figli che avrebbe esposto al Salon del ’79. Esponendo alla mostra dell’Institut de France, Renoir si precludeva la possibilità di partecipare alle mostre del gruppo impressionista, per un’incompatibilità che Degas aveva insistito per inserire come clausola vincolante nello statuto dell’associazione dei giovani “indipendenti”. Renoir non dovette soffrirne troppo, e godette invece molto della trionfale accoglienza che, anche grazie al prestigio dei ritrattati, il suo quadro gli garantì al Salon. Era la prima volta che un suo dipinto riceveva un ascolto del genere, e il suo successo certamente sollecitò poco dopo l’analoga opzione di Monet, che tornò anch’egli ad esporre al Salon ufficiale del 1880 un dipinto che strizzava l’occhio al gusto borghese, Lavacourt (un quadro, non per caso, che in seguito Monet guardò sempre con sospetto, ma che allora riscosse un vasto e positivo riscontro di critica e di pubblico).
All’atto della committenza ricevuta da Charpentier, era ancora fresca di stampa la piccola brochure di Théodore Duret dedicata a Les peintres impressionistes:trentasei pagine che segnano un momento cruciale della militanza lunga e felice di Duret a fianco della nouvelle peinture. Charpentier avrà certamente visto l’opuscolo di Duret, notato l’unica riproduzione che l’accompagnava (un inchiostro di Renoir che ripensa la sua Lise con l’ombrellino del ’67), e letto le parole che l’amico critico dedicava a Renoir. Che, scriveva Duret, «alcontrario di Monet, Sisley e Pissarro, è soprattutto un pittore di figura, mentre il paesaggio non gioca nella sua opera che un ruolo secondario (...) Renoir eccelle nel ritratto». Non aveva forse bisogno di questa conferma, Charpentier, a proposito del talento di ritrattista di Renoir, che già egli sosteneva economicamente almeno dal ’75; ma è assai probabile che l’indicazione così esplicitadi Duret in proposito l’abbia infine deciso a incaricare il pittore del grande dipinto che avrebbe segnato una svolta non solo nella vita e nella pittura di Renoir, ma nelle vicende stesse del movimento impressionista.
Renoir era, nel ’79, prossimo alla “cesura” che divise quasi a mezzo la sua vita d’artista; e che separò i suoi brevi, folgoranti anni dell’“impressione” da quelli, altrettanto immensi, in cui si fece traghettatore di forme lungo i secoli della pittura moderna, da Tiziano fino al Picasso mediterraneo. Una cesura su cui molto pesò il suo viaggio in Italia compiuto fra 1881 e ’82. Sull’Italia, e sulla sua trabocchevole stratificazione di cultura, egli espresse poigiudizi molteplici e fra loro distanti, ma è certo che non gli fu facile dimenticarla. Non dimenticò laGalatea di Raffaello alla Farnesina né leStanze vaticane; non dimenticò Tiziano, né Pompei. È per questo forte legame con l’Italia, oltre che per l’impegno dell’amministrazione della città di Torino, della direzione della sua Galleria Civica e delle edizioni Skira (che pubblicano anche il catalogo della mostra, a cura di Sylvie Patry e Riccardo Passoni), che il d’Orsay e l’Orangerie di Parigi hanno concesso oggi l’eccezionale prestito della maggior parte delle loro vaste collezioni di dipinti di Renoir (cinquantatré dipinti e tre pastelli) per un’esposizione che resterà aperta alla Gam fino al 23 febbraio. Personalmente non amo le mostre imperniate sulle collezioni di un unico museo, di norma penalizzate da fatali lacune. Stavolta però occorre dire che alle mancanze (che pur vi sono, a partire da quella, che ogni mostra futura di Renoir dovrà patire, delle inamovibili Baigneuses di Filadelfia, quadro capitale di Renoir di metà anni Ottanta) la mostra risponde con l’ampiezza dei prestiti, sino a dare di Renoir un resoconto esauriente. Persino di quel pittore che Renoir stesso, quasi, non seppe di essere: un paesaggista eccezionale: come s’evince, fra i dipinti esposti a Torino, almeno dalSentiero che sale fra l’erba,qui datato ’76-’77, ma forse anche precedente.
Sylvie Patry non si nasconde, peraltro, che la prima parte della sua operosità, quella che fu sedotta da Monet e in generale dal verbo impressionista, sia rappresentata dalle collezioni pubbliche parigine meno compiutamente che non la lunga fase successiva, posteriore al viaggio in Italia. E infatti, dopo le soste davanti allaDanza in città e in campagna, dopo Julie Manet o Il clown,il vertice della mostra di oggi è forse da riconoscere nei suoi ultimi passi, quelli mossi da Renoir nel cuore del ’900, quando viene la straordinaria serie dei nudi femminili, che ritraggono una donna vieppiù lontana dagli usuali canoni di bellezza e di seduzione, una donna tizianesca o rubensiana che si fa trionfo di carne, immensa e quasi senz’ossa, eccessiva e straripante. Fino alle grandiBagnanti del ’18-’19, ultimo capolavoro con il quale Renoir si prepara alla morte.
LE OPERE Pierre-Auguste Renoir: Danza in campagna (1883) e Le bagnanti (1918-19)

Repubblica 10.11.13
Amsterdam
Le opere al nero di Malevich
di Adriana Polveroni


AMSTERDAM «Le cose sono sparite come fumo. Nel Suprematismo i colori e le forme parlano il loro proprio linguaggio», così spiega Malevich la sua idea dell’arte. “Suprema” (dal latino
supremus), in quanto semplicemente la “più perfetta”. Che non ha bisogno di nessun riferimento alla realtà, perché che sta per se stessa, a differenza di quanto volevano i suoi colleghi costruttivisti, vicini ai desiderata estetici della rivoluzione Russa – Rodchenko, Tatlin, Lissitzky – con i quali pure ingaggia una leale battaglia.
Per arrivare a questo traguardo, alla sua arte che coltiverà con passione anche negli anni d’insegnamento a Vitebsk (1919-1927), Malevich era passato attraverso clamorose rotture. Predicando teorie apparentemente paradossali: l’“Assurdismo”, illogica combinazione di immagini, parole e simboli, con cui, forte dell’appoggio di un gruppo di artisti che si erano stretti attorno a lui: Mikhail Larionov, Natalia Goncharova, Ivan Kluyin e Olga Rozanova, aveva riformulato il Cubo-futurismo. Ma, ancora prima, aveva sacrificato un evidente virtuosismo pittorico, un gusto pieno per il colore con i quali aveva cominciato, nel primo decennio del Novecento, a proporsi sulla scena artistica di Mosca. La pittura, la vera arte, secondo Malevich, è radicalmente tautologica.
L’affascinante avventura di uno dei maggiori artisti del Novecento, che tanta parte avrà anche nella pittura successiva in quella pretesa di non scendere a patti con la realtà, è ripercorsa con ricchezza di documenti nella mostra che si appena aperta al museo Stedelijk di Amsterdam (Kazimir Malevich e le Avanguardie russe,
fino al 2 febbraio). Sono 500 le opere proposte – tra quadri, disegni, modelli architettonici e scritti – molte provenienti dallo stesso Stedelijk, che ha beneficiato della donazione di Ivanovich Khardzhiev, collezionista ma soprattutto compagno di strada di Malevich, e molte altre prestate dal museo di Arte Contemporanea di Thessaloniky e della Galleria Tetryakov di Mosca, proprietariedella raccolta Kostakis. Come arriva Malevich a questa posizione che azzera la realtà e che caparbiamente riporta in ogni ambito del suo lavoro, dall’architettura al design, perché secondo lui il Suprematismo doveva abbracciare ogni forma di vita e quindi germogliare anche negli oggetti quotidiani? Anche per un innovatore come lui, la chiave di volta è nella tradizione, nelle icone russe. Che Malevich conosce molto bene e dalle quali prende, filtrandole attraverso una tormentata elaborazione, il tratto ieratico, l’assenza di prospettiva con cui si presentano allo sguardo. Quelle che nelle icone sono ancora linee pittoriche, nella sua mano diventano tratti geometrici. Si spezzano e, anziché contenere colori pieni, li asciugano fino a renderli acidi e poi metallici per poi annullarli completamente. Il “Quadrato nero” è per lui la massima espressione del Suprematismo. Ma non basta, anche il colore, come le cose, deve sparire. Ecco allora le composizioni bianco su bianco. Il nulla, in cui si mostra la vera arte.
Supremusin alto, Quadrato nero

Repubblica 10.11.13
Il museo del mondo: tutti i colori di Rothko
Strumenti pulsanti che agiscono sulla sensibilità dello spettatore
di Melania Mazzucco


Mettete sul fuoco una pentola piena d’acqua. A 45 gradi l’acqua sarà calda; a 70 sarà rovente; a 99 vicina al punto di ebollizione: ma sarà sempre ancora acqua. A 100 gradi, non prima né dopo, avverrà il passaggio, ed essa diventerà vapore. Il Rothko del Guggenheim di New York mi fa tornare in mente questa metafora, che proprio lui escogitò (benché non pensasse a se stesso, ma ai minori, i “carpentieri” della pittura). Cercava di spiegare a un amico artista cosa accade quando ci si sbarazza di tutto ciò che si è appreso, ci influenza, ci condiziona e ci opprime (i maestri, i modelli, le teorie, i vari ‘ismi’) e, proprio come l’acqua — all’improvviso, ma mai per caso — si diventa qualcos’altro: vapore. Cioè, finalmente, se stessi.
Non c’è niente di più affascinante, per chi crea come per chi guarda, che cercare di riconoscere quell’istante. Esplosivo, misterioso, come un’energia sotterranea che si libera, sprigionandosi da un altrove invisibile. Naturalmente un processo psichico e artistico non risponde alle leggi della fisica, e spesso è difficile individuare l’opera in cui un artista abbandona come una morta pelle la crisalide dell’apprendistato, dell’imitazione, del tentativo, e diventa, che so, Pollock, Degas o Kandinsky. Per me Violet, black, orange, yellow on white and reddi Rothko coglie proprio l’istante magico e alchemico della metamorfosi.
Il titolo è un denotativo elenco di colori: Rothko quasi mai dava nomi ai suoi quadri, per non soffocare la possibile espansione del significato. Il quadro nasce nel 1949 a New York, dove Rothko vive dal 1926. Ha 46 anni, dipinge da 23: è a metà della sua storia di pittore, ma ovviamente lo ignora. Come tutti gli artisti americani della sua generazione (lui, nato Rothkowitz in una cittadina russa, ora in Lettonia, immigrato a dieci anni negli Usa, ne è diventato cittadino nel 1938), negli anni della Grande Depressione ha sviluppato una radicale coscienza politica e digerito l’obbligatorio realismo sociale. Ha dipinto senza successo enigmatiche scene urbane nella metropolitana di New York. Poi le figure sono sparite, cedendo il posto a biomorfi liquidi, ispirati dal surrealismo. Nel frattempo si è appassionato ai miti, alle culture mesopotamiche e agli archetipi, e ha scritto un arduo trattato teorico (che però non ha pubblicato). Nel 1949 la temperatura della sua acqua sale vertiginosamente.E’unsaltobrusco.Cambia modo di dipingere. Semplifica, appiattisce, depura. Elimina ogni ricordo della figurazione e ogni ostacolo concettuale (memoria, storia, geometria). Riduce la pittura alla sua materia: canapa, pennello, pigmenti. Sulle sue tele ora galleggiano colorate forme senza nome (le chiama ‘multiformi’). Non significano niente e non rimandano a nessuna realtà ulteriore. Forse somigliano solo alle immagini ipnagogiche che flottano nel buio delle palpebre chiuse. Nel corso del 1949 queste forme si stabilizzano: diventano bande orizzontali di colore, che il pittore dispone con ordine sulla superficie del quadro. I colori non creano più le forme, sono diventati essi stessi forme e volumi. Le tele sono cresciute: spazi vasti, talvolta immensi. (Rothko avrebbe dichiarato poi che un quadro di grande formato è più intimo e umano, perché ti permette di abitarlo, di ‘starci dentro’). I quadri non sono più finestre o porte sul mondo: sono facciate, muri, pareti. La temperatura raggiunge i 99 gradi. Nasce
Violet, black, orange, yellow on white and red.
Rothko pretendeva silenzio. Non voleva spiegare né interpretare i suoi quadri e derideva chi si azzardava a farlo (storici del-l’arte, critici, esperti). Voleva che avessero la pregnanza e la fascinazione della musica e della poesia: che fossero esperienze emozionali, non verbalizzabili. Insomma, che trasportassero in una realtà altra — metafisica, quasi sacrale, diciamo pure trascendente. Ma io non possiedo altro che parole. Dunque è un rettangolo alto più di due metri e largo un metro e sessantasette. I colori sono disposti armonicamente su fasce sovrapposte. Non coprono tutto il fondo della tela, preparata col bianco, che forma così una sorta di cornice. O meglio, di alone. Da questo emergono, come illuminati dal retro, i colori. La banda più scura (e più pesante), viola, è posta in alto, in modo da impedire alle altre (più leggere, trasparenti e immateriali) di disgregarsi. Il giallo ha quasi smangiato l’arancio: irradiano entrambi un riverbero caldo e soffuso, come un velo che fluttua davanti alla luce. Il nero che sorregge la banda viola è ridotto a una linea —come quando spegnevi il televisore e l’immagine veniva risucchiata illusoriamente all’interno dell’apparecchio. Effetto ottico non estraneo ai quadri di Rothko, che danno spesso l’impressione di vibrare, palpitare e muoversi come cose viventi — dilatandosi e proiettandosi in avanti, oppure contraendosi all’interno. E’ decisamente “un Rothko”. Infatti — almeno nelle opere del suo cosiddetto periodo classico, che si inaugura nel 1950 e si conclude con la sua morte, nel 1970 — è uno degli artisti più ‘iconici’ e riconoscibili del secondo Novecento. Ci sono già i quattro colori prediletti, che declinerà in ogni sfumatura nel decennio a venire: il violetto dal magenta al lillà, lavanda, malva e lampone; il giallo-arancio dal mandarino allo zafferano; il rosso dal cremisi fino al porpora e al prugna. Questi colori pulsanti, divenuti strumenti per agire sulla sensibilità dello spettatore, già creano l’effetto di infinito associato ai Rothko della maturità. Nello stesso tempo, questa è ancora un’opera di transizione. Siamo a 99 gradi: l’acqua gorgoglia, le bollicine salgono verso la superficie, l’ebollizione è imminente. Ma c’è ancora un residuo — qualcosa che impedisce al liquido di vaporizzarsi. Sono le due verticali: le rosse strisce simmetriche poste ai lati delle bande orizzontali. Sembrano voler contenere il colore, supportarlo come colonne. In un certo senso lo imprigionano. Però sono già esili, evanescenti come un riflesso. Sul punto di dissolversi in vapore, insomma.
Questo quadro è un privilegio. Anche l’incandescenza delle strisce rosse lo rivela come il crogiolo dove avviene la fusione. Si dice che, quando scoprì il principio che poi ricevette il suo nome, Archimede abbia gridato: Eureka! Ho trovato! Rothko dovette provare la stessa euforia di una rivelazione, quando completò il quadro — che forse realizzò in un solo giorno, giacché lo pensava a lungo ma lo eseguiva in un baleno. Aveva distillato l’essenza della sua pittura. Le braci verticali non compariranno mai più.
Mark Rothko: Violet, black, orange, yellow on white and red(1949) The Solomon Guggenheim Museum, New York

Repubblica 10.11.13
Gli appunti (inediti) del giovane Benjamin
di Francesca Bolino


Appunti giovanili, schizzi, brevi riflessioni e ricordi autobiografici – per la prima volta tradotti – raccontano Walter Benjamin tra il 1916 e i primi anni venti. Un testo denso e ricco di spunti intorno alle questioni di linguaggio, conoscenza, percezione e verità. Per Benjamin il linguaggio non è limitato alla parola umana. È linguaggio anche la comunicazione animale e la comunicazione muta delle cose. Il linguaggio si estende dunque a tutta la natura animata perché «è essenziale ad ogni cosa comunicare il proprio contenuto spirituale». Il linguaggio diventa dunque la dimora rivelativa della verità umana.
Percepire significa percepire “mediante” il linguaggio senza venire assorbito da esso: «la percezione è lettura». «È leggibile solo ciò che appare nella superficie».
E la verità? Le verità dice Benjamin non si esprimono né sistematicamente né concettualmente, tantomeno come avviene per le conoscenze, in un giudizio, ma si esprimono nell’arte. «Le opere d’arte sono il luogo delle verità». Tante opere autentiche, tante verità ultime...

CONOSCENZA E LINGUAGGIO. FRAMMENTI II di Walter Benjamin Mimesis, a cura di T. Tagliacozzo, pagg. 184, euro 14

Corriere 10.11.13
Il Paradiso è l’uomo
La teologia come racconto di Giovanni Scoto Eriugena
È nella Resurrezione che si compie la nostra natura
di Giorgio Montefoschi


Nel primo dei cinque volumi che compongono il Periphyseon , in italiano: Sulle nature dell’universo — l’opera più ardita del pensiero medievale prima di Tommaso d’Aquino, scritta nel IX secolo non come un trattato teologico, bensì come un racconto immaginario, dall’irlandese Giovanni Scoto Eriugena, traduttore dal greco e dal latino, maestro alla corte carolingia di Carlo il Calvo — abbiamo letto che, con il termine Natura, si intende «il nome generale di tutte le cose che sono e di tutte quelle che non sono». La natura — spiega Eriugena, nutrito da Platone e dal neoplatonismo, come da Basilio, Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore — è Tutto. Tutto è nella natura, compreso Dio che ne è il creatore, compreso il nulla. Esiste, infatti, una natura che crea e non è creata, viene prima dello spazio e del tempo, ed è Dio; una natura che è creata e crea (vale a dire: le cause primordiali, molto simili alle idee platoniche); una natura che è creata (dalle cause primordiali) e non crea (vale a dire: le cose, gli esseri viventi, gli animali, gli alberi, la terra, il mare, insomma gli effetti temporali); infine, ciò che non è creato e non crea (vale a dire: il nulla, nascosto, come le tenebre, nella luce di Dio).
Dio, dunque, è nel mondo, è il mondo che conosciamo, che ammiriamo per il suo miracoloso ordine e la sua bellezza, che percorriamo con il nostro movimento nel periodo limitato di tempo che va dalla nostra nascita alla nostra morte? Certamente, lo è, perché è l’artefice dell’universo, la causa di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Certamente lo è, perché, in quanto sommo Bene, inonda e fa partecipare di sé la natura umana che viene divinizzata dal suo inesauribile flusso creativo e amoroso (pur rimanendo se stessa), allo stesso modo per cui l’aria, illuminata dal sole, non sembra essere altro che luce e il ferro liquefatto dal fuoco non sembra essere altro che fuoco. Ma, in realtà, non lo è: perché è al di là dell’essere, è al di là del tempo, al di là dello spazio, al di là del movimento, e nella sua vera essenza noi non lo possiamo conoscere — lo possiamo conoscere solo metaforicamente, solo attraverso le sue manifestazioni, le sue teofanie — e tanto meno possiamo definirlo con le nostre parole umane: pallide approssimazioni di un mistero inconoscibile e ineffabile, di una essenza che è sempre più di quello che ci affanniamo a nominare.
Tutto ciò che è delimitato da lunghezza, larghezza, quantità — dice Eriugena, citando uno sei suoi autori preferiti: Dionigi Areopagita — è corpo ed è finito: Dio è incorporeo e infinito. Tuttavia, nella sua immensa bontà, nel suo infinito amore, così come si è distaccato da se stesso, scindendosi, scendendo nell’universo, mostrandosi nelle sue teofanie, Dio farà tornare l’universo a sé. Alla fine del mondo, la carne afflitta dalle tentazioni, mortificata dalla precarietà e dal limite, si trasformerà, e ogni essere naturale, ogni elemento della natura (compreso il male), sarà accolto nel seno di Dio, si confonderà con Dio. Sarà Dio: così come Dio è stato nell’universo. Al centro di questo progetto clamoroso, e per noi inaccessibile se prescindiamo dall’amore e fidiamo nelle forze della mente, ci sono Cristo, il Figlio di Dio incarnato, e l’uomo.
È il grande tema di tutto il Periphyseon e, in particolare, del secondo volume da poco uscito nella collana Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla (con la cura di Peter Dronke e la traduzione di Michela Pereira, pp. LII-328, e 30). La razza dei mortali — dice Eriugena — viene per ultima: la sua apparizione è il culmine del processo cosmogonico. «L’essere umano — scrive Dronke — contiene in sé tutta la creazione. Viene introdotto per ultimo fra tutte le cose che esistono a motivo della sua capacità unica di mediare fra esse e congiungerle. È l’officina in cui il ritorno di tutte le cose alla loro origine divina può essere elaborato, reintegrando progressivamente ciò che era stato diviso, per raggiungere di nuovo alla fine l’origine nella sua completa unità».
All’inizio — sostiene Eriugena, seguendo il Simposio e il prediletto Massimo il Confessore — l’essere umano creato da Dio era indiviso: non c’erano il maschio e la femmina nel Paradiso terrestre. La divisione nei due sessi avvenne dopo la caduta. La riunificazione sarà possibile, perché il Figlio di Dio (il Principio in cui sono create tutte le cose), facendosi uomo ha «ricapitolato, radunando, tutte le cose che sono nel cielo e nella terra», risorgendo dalla morte. Lo stesso accadrà per noi. Così, quando l’umanità dell’essere umano sarà rinnovata, l’orbe terrestre sarà immediatamente riunito al Paradiso. Le loro diverse parti saranno unificate, spiritualizzate, nell’essere umano. Che diventerà simile agli angeli e congiungerà la realtà sensibile a quella intelligibile.
L’idea — mai prima espressa da nessun platonico, pagano o cristiano — che il Paradiso consista nella integrità della natura umana, che il Paradiso saremo noi risorti come Cristo risorto, è l’inaudita proposta di Giovanni Scoto Eriugena: articolata in pagine di una bellezza sconvolgente. E pone domande altrettanto sconvolgenti (per esempio: come sarà superata la divisione dei sessi? Ci riconosceremo? Saremo corpo o spirito?) alle quali Eriugena non dà risposte nette, trattandosi di un evento miracoloso. Ma tutto quello che — nel limite delle parole umane — dice a proposito della resurrezione di Cristo, colui il quale nella resurrezione ci ha preceduti, è di una forza persuasiva che lascia il lettore sgomento, come se sulla resurrezione non avesse mai letto nulla.
Cristo, infatti — dice Eriugena, come anche San Paolo — non resuscitò dai morti nel suo sesso corporeo, ma nell’essere umano semplicemente. Quando tornò dai morti in Paradiso e si intrattenne con i suoi discepoli, non mostrò altro che questo: e cioè che il Paradiso è la gloria della resurrezione. Infatti, il Paradiso non si distingue dalla terra per una collocazione spaziale, ma per la diversità della vita che si conduce e per la differenza della felicità.
«Infatti, nello stesso momento — sempre Eriugena — era nel Paradiso e dimorava su questa terra coi suoi discepoli. Non si deve credere che veniva da altrove per apparire ai suoi discepoli e che se ne andasse altrove quando non si mostrava loro, ma in un solo e identico spazio qualche volta appariva loro con l’aspetto che aveva durante la passione, per nutrire la loro fede, e trascorso lo spazio dell’apparizione momentanea, ritornava alla potenza intellettuale del corpo spirituale che oltrepassa ogni tempo e ogni spazio. Cristo, dunque, era simultaneamente nel Paradiso e nel mondo, mostrando che una e una sola è la ragione del mondo e del Paradiso e riunificando in se stesso il mondo e il Paradiso».
Eriugena sa di proporre un mistero (quello al quale i cristiani devono credere, in fin dei conti), che difficilmente può essere accolto dall’intelletto umano; e che la vera sapienza di Dio è l’ignoranza di Dio. Per questo, nel finale del secondo libro, ritorna sulla inconoscibilità di Dio e della Verità. Ma, con un’immagine meravigliosa, descrive il nostro travaglio, destinato a durare quanto la nostra vita. Ci paragona agli angeli che la sacra teologia raffigura, in prossimità di Dio, con delle ali che coprono i loro piedi e i loro volti.
Quelle ali sono il simbolo del timore che le potenze angeliche provano avvicinandosi al mistero. Le ali rappresentano anche le speculazioni che gli angeli, e gli uomini, fanno sul mistero. Il loro desiderio — frenato dal timore — è quello di superare queste speculazioni. Cercano l’infinito e tremano. Ma rimangono vicini a Dio, perché è in Dio che bramano gettare lo sguardo.

Corriere 10.11.13
Il caso di Monsieur Matzneff, scrittore premiato ma pedofilo
di Stefano Montefiori


Il Prix Renaudot per la saggistica è andato quest’anno a Gabriel Matzneff e al suo «Séraphin, c’est la fin!», raccolta dei testi scritti tra il 1964 e il 2012 dall’autore oggi 77enne. «Che si tratti della resistenza alle sporche guerre dell’imperialismo americano — scrive lo stesso Matzneff presentando il suo libro — o ai pruriginosi anatemi delle quacchere della sinistra e degli psichiatri della destra, Séraphin, c’est la fin mostra che resto fedele alle passioni che hanno riempito la mia vita di uomo e ispirato il mio lavoro di scrittore».
Ora, il problema è che una delle passioni fondamentali che hanno riempito la vita di uomo e ispirato il lavoro di scrittore di Matzneff è quella per l’«estrema giovinezza» «il vero terzo sesso» proprio dei «bambini» — li definisce così — dai 10 ai 16 anni.
Matzneff è un pedofilo dichiarato, lui preferisce per la precisione la nozione di «pederasta», amante dell’infanzia come usava nella Grecia antica. Il richiamo all’amore classico, anche fisico, tra un uomo maturo e un ragazzino non necessariamente in età puberale, è uno degli argomenti abituali dei pedofili, che ciò nonostante vengono di solito giustamente bollati con marchio di infamia, quando non perseguiti penalmente.
Negli anni Settanta i racconti divertiti di Matzneff alla tv francese sulle sue numerose conquiste di «bambini» (sempre termine suo per non differenziare tra il 10enne e il 16enne) suscitavano ilarità e quasi ammirazione. I tempi sono cambiati, a partire dagli anni Novanta Matzneff è stato ostracizzato in televisione (meno nei giornali, è un collaboratore di Le Point ).
Ma adesso il Renaudot suona come una specie di inaudito premio alla carriera: non per un romanzo, non si tratta di un’opera di fantasia, ma per una raccolta di saggi dove si può leggere per esempio questa difesa di un imputato per pedofilia: «Il giorno in cui si apre il processo, si scopre che nessuno è stato violentato, che al massimo “il mostro” ha palpato qualche sedere, dato di nascosto qualche bacio, praticato qualche fellatio, passando dallo studio alla pratica» di Virgilio (segue citazione). Il Renaudot è un premio importante — tra i giurati c’è il Premio Nobel Jean-Marie Le Clézio — attribuito a un pedofilo che fa l’apologia della pedofilia.

Corriere La Lettura 10.11.13
Chi non traduce rinuncia a pensare
di Luciano Canfora


Tradurre è la più vitale delle attività umane. Il cammino della civiltà è una incessante traduzione. Lo capì, ad esempio, un greco d’Asia, che si chiamava Erodoto, il quale vide quanto dal mondo religioso egizio fosse passato nel pantheon greco. I popoli che non traducono, in propria lingua, la civiltà (letteraria, artistica, filosofica, religiosa, scientifica) degli altri o diventano pericolosi o, se non possono essere aggressivi, si condannano al sottosviluppo. Prima o poi se ne renderà conto (al di là dell’attuale suo euforico monolinguismo) il mondo anglosassone, nonostante la forza economico-militare con cui impone agli altri il proprio idioma. Cioè il proprio modello.
Ad Alessandria, nel III secolo a.C. convergevano le culture del mondo conosciuto e schiere di traduttori furono all’opera, come narra un bene informato dotto bizantino, per tradurre da ogni idioma in greco. Non si comprenderebbe la portata di quell’immenso fenomeno che fu l’Ellenismo — in cui si collocano le grandi «letterature di traduzione», da quella latina a quella araba — se non si tenesse conto dell’autentico «dialogo del genere umano» che è, da sempre, il tradurre. E non è un caso che «l’unità del genere umano» e la visione della Terra come «patria comune di tutti gli uomini» fossero i capisaldi delle principali filosofie ellenistiche, quantunque tra loro contrapposte su altri piani.
Almeno dall’Umanesimo in avanti, il tradurre fu pratica fondativa e formativa non più solo nel contatto vivente tra «mondi» concomitanti e persino rivali, bensì, e in pari misura, verso i «mondi» del passato: cioè verso gli antichi e il formidabile loro lascito scritto, scampato all’usura del tempo. L’Umanesimo divenne moderno interrogando, e perciò traducendo, gli antichi greci e romani. Una interrogazione, tutt’altro che tranquilla e passiva, temprata nell’esercizio del comprendere a fondo ciò che l’attività di copia, sulla scala dei millenni, aveva portato a salvazione. Fu quella una interrogazione che, avendo generato e nutrito il Principe e i Discorsi del Machiavelli, il Novum Organum di Bacone e il Sidereus Nuncius di Galilei, può considerarsi a buon diritto l’architrave della modernità. Che ci riguarda tuttora, direttamente.
Un tale imponente fenomeno non si sarebbe dato senza lo sforzo di attrezzarsi a comprendere — cioè a tradurre — quegli antichi nostri interlocutori.
Ma dove nasceva la difficoltà? Non solo nella profondità del pensiero di cui appropriarsi, ma soprattutto nella lontananza . Ed è appunto tale lontananza che fece e fa tuttora di quell’esercizio, di quello sforzo di interrogazione, un cantiere sempre aperto, sempre provvisorio, sempre passibile di prospettive prima non viste. La lontananza infatti comporta che quel lavorio sempre provvisorio del tradurre, consistente nel «colmare i silenzi del testo» (per dirla con Ortega y Gasset), divenga — proprio in ragione della distanza epocale — di gran lunga più arduo e soggettivo che nel tradurre da un contemporaneo. Il quale condivide o combatte le nostre stesse passioni e convinzioni, ha con noi necessariamente tanti presupposti in comune, e perciò, pur in altro idioma, parla non di rado il nostro linguaggio. «Non si può comprendere fino in fondo quella stupenda realtà che è il linguaggio — scriveva Ortega — se non si parte dalla consapevolezza che la lingua è fatta soprattutto di silenzi. Un essere che non fosse capace di rinunciare a dire molte cose sarebbe incapace di parlare. Ogni lingua è una equazione diversa tra l’esprimersi e i silenzi ». E prosegue: «Ogni popolo tace alcune cose per poterne dire altre. Perché sarebbe impossibile dire tutto. Da questo deriva l’enorme difficoltà della traduzione: essa consiste nel dire in una lingua proprio ciò che l’altra tende a tacere. Ma allo stesso tempo si intravede quell’aspetto del tradurre che può costituire una magnifica impresa: la rivelazione dei mutui segreti che popoli ed epoche si nascondono reciprocamente». E perciò egli conclude il saggio, felicemente intitolato Miseria e splendore della traduzione , con le parole di Goethe: «Ciò che è umano è vissuto completamente soltanto da tutti gli uomini nel loro insieme».
In questa straordinaria sintomatologia e diagnosi dell’atto del tradurre è racchiusa la spiegazione di ciò che vediamo così spesso sfuggire alla miopia utilitaristica dei falsi riformatori, da sempre protesi a scacciare «l’aoristo passivo» (vedi Andrea Ichino, «Corriere», 21 ottobre) dal Liceo: cioè dalla scuola più completa e perciò davvero utile.
Non sarà sfuggito quel cenno di Ortega a «popoli ed epoche ». Lo sforzo di tradurre gli antichi, infatti, è quello che comporta il massimo di capacità intuitiva. Chi ha avuto, o per avventura tuttora conserva, una qualche familiarità col patrimonio scritto greco-latino, sa quanto il valore del singolo termine (spesso polisemico e passibile persino di sfumature opposte di senso) si chiarisca solo se si è prodotta l’intuizione di ciò che l’intera frase significhi. E per converso la frase prenderà piena luce soprattutto dalla comprensione delle parole principali che la compongono. È in questa circolarità che si produce il salto verso la comprensione-intuizione. È in questa circolarità che si comprende cos’è il conoscere. È grazie a questa circolarità che si approda al sapere scientifico. In questo senso un promettente linguista approdato alla militanza politica, Antonio Gramsci, scrisse nei Quaderni del carcere che si studia il latino non già per imparare a parlare latino ma per imparare a studiare.
Chi ebbe la felice opportunità di cimentarsi nella comprensione del lascito scritto di quei remoti nostri interlocutori sa che un siffatto processo interpretativo non è mai dato una volta per tutte. Ovviamente è proprio nel cimento scolastico che si mette in moto quel processo. Nel suo nascere e man mano affinarsi nella testa degli scolari esso ha efficacia, forse incomparabile, per il continuo trapassare dall’intuizione alla sintesi. A questo «serve» il tradurre gli antichi a scuola.

Corriere La Lettura 10.11.13
Incontro con Fritjof Capra
Fisica più poesia: il modello è Leonardo
intervista di M. Antonietta Calabrò


John Brockman, scrittore e saggista, durante l’ultimo Festival delle Scienze di Roma, l’ha definita la «Terza Cultura», cioè la cultura che nasce dallo sviluppo di un sapere scientifico sempre più interconnesso e complesso, miscela e sintesi di scienza e di umanesimo, una nuova frontiera interdisciplinare. E che ci si stia avvicinando a «una svolta cognitiva» nei più avanzati centri del sapere mondiali lo annuncia adesso Fritjof Capra, fisico e teorico dei sistemi, saggista di fama internazionale (suo il longseller Il Tao della fisica ), fondatore e direttore del Centro di Ecoliteracy a Berkeley, California (insegna anche allo Schumacher College, nel Devon, in Inghilterra). Pochi giorni fa, a Sarteano (Siena) ha tenuto una lectio magistralis su Leonardo, nel teatro settecentesco degli Arrischianti (sponsor Le Terre e il Cielo dell’Abbazia di Spineto e Aboca) indicando il Genio da Vinci come modello di questo nuovo umanesimo.
Ci spieghi: perché siamo alle soglie di una svolta?
«Le università più avanzate sono vicine a una svolta cognitiva: sono consapevoli che con discipline sempre più specialistiche c’è bisogno di sintesi interdisciplinari proprio per spiegare la realtà e far ulteriormente progredire la scienza. A gennaio Cambridge University Press pubblicherà un mio testo universitario di 600 pagine, dopo che cattedratici di molte discipline scientifiche ne hanno raccomandato la stampa come base comune di scienze interconnesse e di pensiero sistemico».
Di che cosa si tratta?
«Già lo spiega il titolo: The Systems View of Life, “La concezione sistemica della vita ”. Nella prima parte analizzo la “visione meccanicistica del mondo”, in particolare la macchina del mondo newtoniana, la visione della vita e il pensiero sociale meccanicistici. Nella seconda parte metto in evidenza il sorgere del pensiero sistemico: le teorie sistemiche classiche e la teoria della complessità. Nella terza e quarta parte spiego perché è importante connettere i vari punti. Sulle conclusioni mi lasci però la sorpresa tra due mesi, per quando il testo sarà pubblicato».
Le scienze oggi hanno bisogno di umanesimo?
«Senza dubbio: c’è bisogno di scienza sistemica, di relazioni, di connessioni. E io l’ho scoperto con Leonardo da Vinci. Dopo anni e anni di studio posso dire che Leonardo è quello di cui abbiamo bisogno attualmente: un pensiero sistemico, una scienza gentile e non aggressiva (cioè non baconiana), le varie scienze interconnesse tra loro e non separate. Per orientare anche l’economia verso una crescita qualitativa e non più solo quantitativa. A mio avviso è questa la risposta alla crisi globale che accomuna ormai Oriente e Occidente».
Perché dobbiamo ricominciare da lui?
«Leonardo è una grande ispirazione per due ragioni. La prima: in tutta la sua scienza ha cercato la natura. La vita era al centro della sua scienza, la Terra come un essere vivente, il mondo non è una macchina. E il secondo motivo è perché è un pensatore sistemico, un pensatore di relazioni. Oltre a essere il vero fondatore del metodo scientifico. Alcuni anni prima di scrivere il Tao della fisica , nel 1975, ho trovato una citazione in cui Leonardo descriveva in modo preciso il metodo scientifico. Metodo poi attribuito a Galileo Galilei, solo perché nessuno aveva mai potuto leggere i Codici di Leonardo fino all’800: semplicemente Galileo quei Codici non li conosceva. Newton non li conosceva, solo nel XIX secolo li abbiamo ritrovati e letti. E ci hanno dimostrato che Leonardo era avanti a tutti di cinquecento anni, aveva persino scoperto la seconda legge della termodinamica. In più aveva la concezione che la Terra fosse un essere vivente, era un eco designer. È per tutti questi motivi che oggi ci serve moltissimo».
Era anche un genio artistico.
«La sua arte era l’altra faccia della sua scienza: la bellezza della scienza gentile. Aveva la cura dell’artista, ed enorme rispetto della vita, con una sensibilità straordinaria. Il suo intento non era dominare la Natura, secondo la concezione che nel Seicento avrebbe sostenuto Francesco Bacone. Per cui era ingegnere e studioso del corpo umano e animale, ma i suoi disegni anatomici erano anche bellissimi. La sua scienza era scienza della vita, ecco perché ha studiato negli ultimi anni gli embrioni. La Gioconda era forse una giovane sposa incinta, allegoria della vita: ecco perché lavorò al quadro per dieci anni in contemporanea agli studi sull’embrione. E la Gioconda non venne mai consegnata al committente. Quello di Leonardo era un approccio altamente spirituale alla realtà. Il sorriso della Gioconda esprime l’ineffabile, perché il senso della vita rimane un mistero».
È necessaria l’alba di un nuovo Rinascimento?
«Certamente sì, e questo ci è richiesto proprio dal progresso scientifico. Oggi l’Universo non è più concepito come una macchina ma una rete di modelli relazionali inseparabili. La visione del corpo umano come una macchina e della mente come un’unità separata sta cedendo il passo a una visione che interpreta non solo il cervello, ma anche il sistema immunitario, i tessuti corporei e persino ciascuna cellula come un sistema cognitivo vivente. E la stessa evoluzione non è più concepita come una lotta competitiva per l’esistenza, ma semmai una coreografia collettiva in cui le forze trainanti sono la creatività e la costante introduzione di innovazione».

Corriere La Lettura 10.11.13
L’accordo sleale di Mosca
di Dino Messina


Dagli archivi di Mosca emergono periodicamente nuove fonti per rileggere vicende delicate. A cominciare dal trattato Molotov-Ribbentrop, il patto di non aggressione tra la Germania nazista e l’Urss firmato nella capitale sovietica il 23 agosto 1939. A proporne una nuova lettura è lo storico Ettore Cinnella nel saggio La cinica alleanza, che fa parte degli atti del convegno Il patto Ribbentrop-Molotov. L’Italia e l’Europa (1939-1941) ora editi da Mappamondi. Cinnella non è d’accordo con quanti sostengono che i due regimi erano destinati a incontrarsi in virtù delle loro ideologie liberticide. Quel che portò allo strano patto fu la concomitanza di interessi: da un lato Hitler, che voleva essere tranquillo sul fronte orientale per sferrare l’attacco contro Gran Bretagna e Francia; dall’altro Stalin, che guardava con diffidenza alle nazioni occidentali e con interesse opportunistico al forte espansionismo nazista. Non a caso i sovietici parteciparono alla spartizione della Polonia quasi senza aver sparato un colpo. Sia a Mosca sia a Berlino erano consapevoli che il patto non sarebbe durato, ma furono i nazisti a tirare la corda per primi. Cinnella osserva che «le direttive dell’operazione Barbarossa furono emanate un mese dopo la visita di Molotov (a Berlino), il 18 dicembre 1940». Mentre i sovietici prendevano tempo perché più impreparati, i tedeschi si affrettavano a sferrare l’offensiva, che scattò il 22 giugno 1941. Sappiamo con sicurezza, confermata anche dalle memorie del dirigente sovietico Jakov Ermolaevic Cadaev, che Stalin, nonostante le cortesie diplomatiche, sapeva delle intenzioni bellicose dell’alleato e si preparava a sua volta. L’attacco nazista tuttavia avvenne troppo presto, ma il dittatore sovietico seppe reagire. Conclude Cinnella: «La guerra razziale condotta da Hitler sul suolo russo fu la manna dal cielo per il crudele e isolato regime di Stalin, il quale poté prima chiamare a raccolta i propri schiavi (atterriti da una prospettiva d’un giogo peggiore di quello sotto cui languivano) e, poi, presentarsi al mondo intero come il salvatore dell’umana civiltà dalla barbarie nazifascista».

Corriere La Lettura 10.11.13
La sanità malata
Assedio della corruzione, punti deboli dell’organizzazione, strumenti di difesa
Un mondo ancora sottoposto ai rischi dell’aggressione di Tangentopoli
Jeans e felpe in omaggio, viaggi-vacanze, rimborsi gonfiati e prescrizioni fasulle
Ecco che cosa non funziona
di Simona Ravizza e Gianni Santucci

qui


INFOGRAFICA SALUTE MENTALE DISPONIBILE QUI

Corriere Salute 10.11.13
Chi si prende cura della mente
Il sogno di capire il cervello
di Gianvito Martino

Dir. Divisione Neuroscienze, Ist. San Raffaele, Milano

Da quando gli egizi coniarono la parola cervello, rendendola significante, i passi avanti fatti sono stati tanti. Ma dire che oggi sappiamo come il cervello funziona sarebbe profondamente sbagliato. Non basta sapere che ci sono circa 90 miliardi di cellule nervose (i neuroni) nel nostro cervello e che ognuna di esse è collegata a decine di migliaia di altre cellule, così da formare le cosiddette reti neurali, per capire come da queste sofisticate, ergonomiche e funzionanti reti «pensanti» emerga la nostra mente, e, soprattutto, come il malfunzionamento di queste reti possa determinare l’insorgere di quelle malattie del cervello che affliggono un abitante su cinque del nostro pianeta. La risposta a queste domande sembra però sia venuta dalle due opposte sponde dell’Atlantico, dalle quali sono stati da poco lanciati due ambiziosi progetti multimiliardari indipendenti, che si pongono come obiettivo ultimo quello di svelare i segreti del cervello umano: lo Human Brain Project della Commissione Europea, e l’iniziativa del presidente Obama denominata Brain Research Through Advancing Innovative Neurotechnologies (Brain). Ma che cosa dobbiamo realisticamente aspettarci da questi progetti? Molto ma non tutto. Oggi riusciamo a studiare solo piccole reti neurali composte da qualche centinaio di neuroni, entro cinque anni dovremmo essere in grado di sviluppare la tecnologia necessaria per monitorare in vivo l’attività di 70 mila neuroni, entro dieci anni di 1.000.000 di neuroni ed entro quindici anni di 75.000.000 di neuroni (il cervello di un topo). Ma se è necessario un simile sforzo per arrivare in quindici anni a capire come funziona il cervello di un topo, quanto ci vorrà per capirne di più dei 90 miliardi di cellule del cervello umano? Difficile immaginarlo, certamente la strada sarà lunga e non priva di ostacoli, ma di sicuro siamo di fronte all’inizio di una nuova grande scommessa dell’uomo sull’uomo. Quella di riuscire a rispondere alla «domanda delle domande» o, con le parole che Primo Levi dedicò nel 1986 a Rita Levi Montalcini all’indomani della consegna del Nobel, « … infrangere la barriera dell’ignoto e ad avvicinare l’umanità alla meta più evanescente e gelosa, quella della mente umana che comprende se stessa».

Corriere Salute 10.11.13
Psichiatra, psicologo oppure neurologo? A chi rivolgersi e quando
Aver chiare le differenti competenze può facilitare il ricorso ai diversi esperti della salute mentale
di Maria Giovanna Faiella


Sentirsi depressi, non riuscire a dormire la notte, l’ansia che non abbandona, lo stress fuori controllo. Sintomi comuni, che la maggior parte di noi ha sperimentato in qualche momento della vita. Possono essere normali, per esempio, in seguito a un evento traumatico come un lutto, la perdita del lavoro, la fine di un amore o una malattia. Ma le reazioni di ciascuno alle intemperie del destino dipendono dalla storia personale, dagli aspetti biologici, dal contesto in cui si vive. Se, a distanza di tempo, quei sintomi persistono e diventano ingestibili, potrebbero essere la spia di una sofferenza più profonda.
Secondo le stime della Società italiana di psichiatria (Sip), circa 4 italiani su 10 soffrono di qualche disturbo psichico. «Nella maggior parte dei casi non si tratta di problemi cronici o severi — chiarisce il presidente della Sip, Claudio Mencacci —. Ma, se un disturbo viene sottovalutato, può cronicizzarsi e aggravarsi col passare del tempo. Purtroppo, la maggior parte di chi ne soffre non accede alle cure o lo fa in ritardo: tuttora esiste intorno alla salute mentale un alone di paure, vergogna, pregiudizi». Così si tende a nascondere il disagio, eppure la maggior parte dei disturbi psichici è curabile.
«Oggi — sottolinea lo specialista — esistono trattamenti efficaci. Anche in caso di malattie più severe i trattamenti permettono, se non di guarire completamente, almeno di gestirle meglio, consentendo ai pazienti di condurre una vita dignitosa».
Il primo passo, quindi, è abbattere il muro di paura nei confronti dei disturbi psichici e lo stigma dell’incurabilità che da sempre accompagna la sofferenza mentale. Ma quali sono gli specialisti cui fare riferimento? Quando occorre chiedere aiuto allo psicologo? Quando allo psichiatra, piuttosto che al neurologo?
«A volte i loro ruoli si sovrappongono erroneamente, — chiarisce Mencacci — ma ciascuno ha un suo percorso formativo e competenze specifiche». Partiamo dalla formazione.
Lo psichiatra e il neurologo sono medici, che hanno conseguito la specializzazione nelle rispettive branche. Lo psicologo, dopo essersi laureato in Psicologia, ha svolto un tirocinio e poi ha sostenuto l’esame di Stato per iscriversi all’Albo professionale. Non essendo medico, però, non può prescrivere farmaci.
La psicoterapia, invece, può praticarla chi è abilitato, sia psicologo che medico, previa formazione specifica.
«Lo psicologo è, in genere, la figura professionale che incute meno timore, mentre ci possono essere ancora ritrosie a rivolgersi allo psichiatra — fa notare Mencacci — . Ma lo psichiatra, oltre a un sapere relazionale che deriva dalla formazione in psicoterapia, ha una competenza medica che gli permette di fare la diagnosi: per esempio, un disturbo da panico potrebbe essere anche la “spia” di problemi cardiologici o alla tiroide. Oggi, poi, la psichiatria non si occupa più solo della follia e di malattie psichiche gravi, ma della salute mentale in senso lato e cura anche disturbi come ansia e depressione». Proprio per facilitare l’accesso alle cure, anche per superare la barriera della vergogna ad andare da quello che a volte viene ancora considerato il medico dei «matti», esistono in diverse realtà, nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, ambulatori specifici dove curare, per esempio, la depressione post partum, l’ansia o disturbi post traumatici da stress.
Quando, invece, occorre rivolgersi al neurologo? «Se in passato il neurologo si occupava anche di alcuni disturbi psichiatrici — spiega Giancarlo Comi, già presidente della Società italiana di Neurologia – oggi questo specialista si concentra sulle patologie d’organo e demanda i disturbi della personalità allo psichiatra, anche quando questi ultimi compaiono in persone che soffrono di malattie neurologiche. Per esempio, al neurologo spetta la cura del malato di Alzheimer, mentre i disturbi complementari di comportamento, come la depressione, sono di competenza dello psichiatra».
E qual è il ruolo dello psicologo? «Innanzitutto bisogna stare attenti a non etichettare come disturbi anche reazioni normali, per esempio quelle in seguito a un lutto — avverte Pierluigi Policastro, presidente di Sipap, la Società italiana psicologi area professionale privata, che lo scorso ottobre ha promosso una campagna d’informazione proprio per fare chiarezza tra i cittadini sulle diverse figure di riferimento —. Se poi quell’evento traumatico, col passare del tempo, rischia di trasformarsi in depressione, allora diventa necessario il supporto psicologico». Aggiunge il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, Giuseppe Luigi Palma: «Noi operiamo su variabili specificatamente psicologiche, quali la consapevolezza di sé, l’autostima, le risorse emotive, relazionali o cognitive, intervenendo con tecniche e approcci diversi per migliorare la qualità di vita della persona, ad esempio, mettendola in grado di far fronte allo stress».
«Che le cure psicologiche e la psicoterapia siano valide, per esempio, nel trattamento dell’ansia e della depressione lieve e moderata, è stato confermato da un recente studio dell’American Psycologist Association — sottolinea Policastro —. Si ottengono risultati più duraturi rispetto all’uso dei soli psicofarmaci, perché si aiutano le persone a prendersi carico della complessità degli eventi che vivono. Certo, se i sintomi diventano particolarmente invalidanti, vanno usati anche i farmaci, che saranno prescritti dai medici». Serve, quindi, l’integrazione tra le diverse competenze. «Ciascun professionista fa la sua parte, importante è affidarsi ad esperti — puntualizza Mencacci —. A volte, proprio perché si ha paura di rivelare la propria sofferenza, si cercano soluzioni alternative, rivolgendosi a “guaritori” improvvisati. Occorre invece parlare subito dei propri disturbi col medico di famiglia, che ha il compito di indirizzare il paziente verso il percorso più adeguato».
La prevenzione e la diagnosi precoce svolgono come al solito un ruolo fondamentale. «La maggior parte dei disturbi psichici, anche i più severi come quelli psicotici (per esempio, disturbi dell’umore o schizofrenia), si manifesta già nell’adolescenza — afferma lo psichiatra —. Individuarli tempestivamente significa intervenire al più presto e ottenere risultati efficaci». Occorre, però, potenziare i servizi sul territorio. «In questi anni, anche a causa della crisi economica, i bisogni di salute mentale sono aumentati — continua Mencacci —. E i servizi, depauperati, non sempre sono in grado di dare risposte adeguate alle persone. Rafforzarli significa investire sulla vita delle persone e del Paese, dal momento che i disturbi psichici provocano disabilità in un caso su quattro, con enormi costi per la collettività».
«In Italia — aggiunge Policastro — la psicoterapia viene vista ancora come un lusso. Eppure, uno studio della London School of Economics evidenzia che le cure psicologiche, oltre a migliorare la qualità di vita dei pazienti, fanno risparmiare». I motivi? Si ricorre meno alle medicine e si riducono sensibilmente le assenze dal lavoro per malattia. «Parte di quel risparmio — conclude lo psicologo — potrebbe essere investita in servizi offerti nell’ambito del sistema sanitario pubblico a chi ne ha bisogno».

Corriere Salute 10.11.13
L’assistenza. Offerte disomogenee e la Commissione d’inchiesta parlamentare denuncia preoccupanti criticità
Dopo le cure pochi progetti di riabilitazione. Così si rischia di ricreare i manicomi


Racconta la figlia di una paziente: «Mia madre soffre di schizofrenia e da anni ha allucinazioni e manie di persecuzione. È in cura presso un Cps (Centro psicosociale) lombardo, che però riesce solo a mandare ogni mese qualcuno a fare un’iniezione a domicilio. Purtroppo, più volte è stato necessario il trattamento sanitario obbligatorio, con relativi ricoveri. Mamma vive da sola e per motivi di lavoro non riesco a seguirla: ho chiesto aiuto al Cps e al Comune, ma sembra che non abbia diritto all’accompagnamento o semplicemente a un aiuto per assisterla». E un uomo che vive nel Lazio: «Mio padre soffre di disturbo bipolare. L’Asl, pur conoscendo le sue condizioni, da più di due anni lo ha abbandonato a se stesso: i contatti con la psichiatra sono diventati sporadici. Da allora ha avuto vari incidenti, con conseguenti ricoveri in ospedale per curare lo stato fisico e mentale, ma poi, al momento delle dimissioni, è stato di nuovo lasciato solo». Queste segnalazioni, giunte al Pit Salute del Tribunale dei diritti del malato - Cittadinanzattiva, testimoniano la solitudine di famiglie in difficoltà per la carenza di servizi adeguati sul territorio.
«L’impatto della crisi si fa sentire di più in un’area delicata come la salute mentale — osserva Francesca Moccia, direttore dell’Agenzia di valutazione civica di Cittadinanzattiva —. L’accesso alle cure pubbliche è peggiorato da un anno all’altro, in particolare l’assistenza fornita dai presidi territoriali, che non riescono ad assicurare il servizio a tutti gli utenti. Così la salute mentale, pur rientrando nei Livelli essenziali di assistenza (che vanno garantiti a tutti i cittadini, ndr ), di fatto diventa un Lea non erogato».
Già la primavera scorsa la «Commissione parlamentare d’inchiesta sullo stato dei servizi di salute mentale» aveva lanciato l’allarme. I suoi componenti, dopo aver visitato diverse strutture in tutta Italia e ascoltato le associazioni dei familiari dei pazienti, avevano riscontrato «evidenti criticità» sintetizzate nella relazione finale. Ecco quali.
1 - «L’apertura solo diurna dei Centri di salute mentale (Csm), spesso per fasce orarie ridotte, con conseguente ricorso alla domanda di posto letto nell’ambito ospedaliero del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc)».
2 - «L’esiguità di interventi territoriali individualizzati e integrati con il sociale, frequentemente limitati a semplici visite ambulatoriali ogni due/tre mesi per prevalenti prescrizioni farmacologiche».
3 - «La sopravvivenza, nonostante i processi legislativi di deistituzionalizzazione, di comunità con caratteristiche di luoghi privi di valenza riabilitativa e più connotati come “contenitori sociosanitari” della disabilità psicosensoriale».
4 - «L’offerta di ricoveri in cliniche private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale, accessibili anche senza coordinamento da parte dei Csm, che rappresentano l’espansione di modelli di assistenza ospedaliera al di fuori della cultura territoriale dei progetti “obiettivo” (vedi infografica ) e dei “piani” per la salute mentale dopo la legge 180».
Afferma Daniele Bosone, neurologo, che è stato vicepresidente di quella Commissione parlamentare d’inchiesta: «Abbiamo riscontrato soprattutto una carenza di servizi di riabilitazione, sia per gli adulti sia per gli adolescenti, e una notevole disomogeneità da Regione a Regione, spesso anche da un’Asl all’altra. Così, le strutture residenziali rischiano di diventare come i vecchi manicomi». Aggiunge Girolamo Digilio, medico, presidente di Unasam, l’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale: «La riabilitazione non è una favola, laddove viene fatta ha reso le persone più autonome, permettendo loro di reinserirsi nella società e nel mondo del lavoro. Dopo il recente assassinio, da parte di un assistito, della psichiatra al Centro di salute mentale di Bari, abbiamo denunciato ancora una volta la carenza di operatori nei servizi territoriali, a causa del blocco del turnover. Nel frattempo, si sta espandendo un nuovo sistema di istituzionalizzazione in residenze per lo più private».
E incalza Renzo De Stefani, direttore del Servizio di salute mentale dell’Asl di Trento: «La legge Basaglia ha stabilito che i manicomi andavano chiusi e che le cure vanno fatte sul territorio. In diverse Regioni, per di più,, le strutture residenziali private convenzionate costano troppo e assorbono risorse che dovrebbero essere destinate ai servizi territoriali».
La relazione della Commissione parlamentare ha rilevato, inoltre, che molti Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) sono reparti «chiusi». «Solo in una quindicina di Spdc è possibile entrare (su oltre 500, ndr ); gli altri sono luoghi interdetti persino ai familiari dei degenti — conferma Digilio —. Ancora oggi, poi, come rileva anche la Commissione d’inchiesta, si abusa del Trattamento sanitario obbligatorio ed è diffusa la pratica di legare le persone, pratica offensiva per la dignità del malato, oltre nociva per la sua salute».

Corriere Salute 10.11.13
Più solitudine, più disagio
Ora anche al Sud manca il sostegno sociale


Più di un anziano su cinque è a rischio di isolamento sociale e presenta sintomi di depressione; più fragili in particolare sono le donne e chi ha problemi ad arrivare a fine mese. Sono i principali risultati della sorveglianza epidemiologica «Passi d’Argento», promossa dal ministero della Salute e realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità - Cnesps (Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute), che tra il 2012 e il 2013 ha coinvolto oltre 24 mila ultra 64enni residenti in 18 regioni italiane e nella Provincia autonoma di Trento. Per monitorare le loro condizioni di vita, i ricercatori hanno usato il modello biopsicosociale proposto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che considera la salute come uno stato di benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia.
«Viviamo più a lungo, in media oltre 80 anni, ma gli ultimi 14-15 anni di vita quasi sempre non sono trascorsi in buona salute» afferma il coordinatore nazionale di «Passi d’Argento», Alberto Perra. Se, infatti, il nostro Paese è al primo posto in Europa per attesa di vita, slitta al 15° posto per invecchiamento attivo e in salute. E, secondo l’Oms, nel 2020 saranno proprio le malattia mentali, dopo quelle cardiovascolari, tra le principali responsabili della perdita di anni di vita attiva. Per questo, nel recente «Piano di azione sulla salute mentale» per il periodo 2013-2020, l’Oms ha riconosciuto la popolazione anziana come un gruppo vulnerabile ad alto rischio di disturbi mentali: col passare degli anni non solo aumentano le probabilità di andare incontro a un deterioramento cognitivo, a malattie e condizioni di disabilità, ma si aggiungono altri fattori di rischio per la salute mentale, come la perdita di persone e affetti, l’isolamento sociale, la solitudine.
«Nell’ultima rilevazione di “Passi d’Argento” — spiega Perra — abbiamo indagato aspetti specifici della salute mentale, quali il rischio di isolamento e i sintomi di depressione. Sono considerati a rischio di isolamento sociale coloro che, durante la settimana precedente all’intervista, non hanno visitato nessun centro di aggregazione per anziani, né hanno incontrato altre persone o scambiato semplicemente quattro chiacchiere al telefono». Ebbene, un intervistato su 5 non ha fatto nulla di tutto ciò. Gli anziani, poi, hanno riferito di aver avuto, nei 30 giorni precedenti l’intervista, in media sette giorni “in cattiva salute per motivi psicologici”».
«Quanto ai sintomi depressivi, che non sono però espressione di “malattia mentale”, — continua il ricercatore — il 21% degli anziani intervistati ha dichiarato di aver provato nelle due settimane precedenti all’indagine poco interesse nel fare cose che di solito fa con piacere, di essersi sentito depresso, abbattuto o senza speranza». Si sentono più depressi soprattutto gli ultra 75enni e le donne (26% rispetto al 14% degli uomini).
«La qualità della vita peggiora con l’aumentare degli anni, in particolare per chi ha difficoltà economiche» fa notare Perra. Ben il 41% di coloro che non riescono ad arrivare a fine mese avvertono, infatti, sintomi di depressione (rispetto al 12% di chi non ha questo tipo di problemi) e, a sorpresa rispetto alle indagini precedenti, la popolazione anziana del Sud Italia risulta più isolata e depressa rispetto a quella settentrionale. «Nonostante siano in generale “buone” le condizioni di salute degli ultra 64enni — conclude il ricercatore — i risultati della sorveglianza suggeriscono di prestare maggiore attenzione agli aspetti inerenti proprio la salute mentale. Anche per raggiungere l’obiettivo, comune agli altri Paesi europei, di ridurre, entro il 2020, di almeno due anni la disabilità che accompagna l’ultima stagione della nostra vita».

Corriere Salute 10.11.13
La depressione minaccia i ragazzi


Prevenire i disturbi psichici e promuovere la salute mentale, a cominciare dalle scuole e dai luoghi di lavoro. Sono alcuni degli obiettivi della recente Joint Action (Azione congiunta) su «Salute e benessere mentale» promossa dalla Commissione europea per il triennio 2013-2015. «L’intento è quello di aiutare gli Stati membri ad avvantaggiarsi delle buone pratiche e delle raccomandazioni già esistenti per migliorare i loro sistemi sanitari in questo specifico campo» spiega Paola Testori Coggi, direttore generale «Salute e consumatori» della Commissione europea.
All’Italia è stata affidata la direzione dell’«Azione congiunta» mirata alla prevenzioni nelle scuole, cui partecipano anche altri otto Paesi europei. Il ministero della Salute, in accordo con le Regioni, ha affidato il coordinamento al Veneto.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, un ragazzo su cinque ha qualche disturbo psichico. Si stima che in Italia circa l’8% degli adolescenti soffra di depressione, mentre l’anoressia colpisce l’1% delle ragazze.
«La grande maggioranza dei disturbi si manifesta nell’età evolutiva, ma spesso vengono sottovalutati e quindi non trattati in tempo — afferma Stefano Vicari, primario di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma — . Le malattie mentali fanno ancora più paura quando colpiscono i ragazzi ed è diffuso un altro stereotipo comune, cioè che nell’età dello sviluppo non siano malattie vere, ma piuttosto l’espressione di un disagio familiare o sociale del ragazzo».
«Di certo — puntualizza Vicari — i fattori ambientali possono avere una loro importanza, come del resto in altre malattie, ma non si possono ignorare gli aspetti genetici e biologici».
Per cercare di superare pregiudizi e stigma, secondo il neuropsichiatra infantile, è necessario «creare una cultura della salute mentale negli adolescenti, possibile solo attraverso un’alleanza tra medici, pediatri, famiglie e insegnanti».
In tale direzione va anche l’«Azione congiunta su salute mentale e scuola», coordinata dall’Italia, che si focalizza sullo sviluppo di una cooperazione efficace tra il settore socio-sanitario e quello dell’istruzione. I ragazzi, infatti, passano buona parte del loro tempo a scuola, che è quindi uno degli ambienti chiave per far conoscere i disturbi psichici e in che modo è possibile prevenirli. Tra gli obiettivi dell’iniziativa: sia la prevenzione del disagio psicosociale — che potrebbe condurre in età adulta allo sviluppo di disturbi psicopatologici —, sia la promozione di competenze individuali e relazionali che agevolino lo sviluppo psico-fisiologico degli adolescenti.
«Dopo la raccolta dei dati sulla situazione nei Paesi partner, passeremo in rassegna gli studi con evidenza scientifica e le buone pratiche già esistenti — spiega il coordinatore, Lorenzo Rampazzo, dirigente del Servizio tutela salute mentale della Regione Veneto —. In seguito, saranno elaborate raccomandazioni, che poi dovranno essere anche sperimentate».

Corriere 10.11.13
«Disordini», docufiction dedicata agli adolescenti


Marta, Fabrizio, Giulio, Anna, Lucia e Paolo sono adolescenti che soffrono di anoressia, sindrome di Tourette (tic motori e sonori, parole oscene ripetute in modo involontario, schizofrenia, ndr), disturbo da deficit dell’attenzione e da iperattività. Le loro storie di disagio sono state riscritte (per rispetto della privacy) e raccontate in una serie televisiva dal titolo «Disordini», in onda fino a fine novembre su Rai scuola (e in replica su Rai3) e in un romanzo che sarà pubblicato nei prossimi giorni, «L’Insalata Sotto il Cuscino». «Le esperienze di questi ragazzi vogliono contribuire a far conoscere i disturbi che possono colpire gli adolescenti e come è possibile identificarli — spiega Stefano Vicari, primario di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che le ha raccolte nel corso della sua professione e ora le racconta nella docufitcion —. Sono sei “casi” clinici in cui il disordine ha già assunto un ruolo importante, ma li abbiamo scelti per ribadire che non c’è da vergognarsi se qualche “stanza” del cervello non funziona; bisogna invece chiedere aiuto senza sentirsi dei marziani».
La serie televisiva si propone di dare un sostegno anche alle famiglie che, per pudore o vergogna, spesso tendono a sottovalutare il problema, rendendo il percorso di cura meno tempestivo. «Prevenire i disturbi mentali vuole dire anche parlarne — sottolinea Vicari — . Ci sono, infatti, ancora molti pregiudizi e, per superarli, occorre creare una cultura della salute mentale tra familiari, insegnanti e ragazzi. Per questo, abbiamo coinvolto nell’iniziativa anche istituti scolastici secondari di Roma e provincia».

Corriere Salute 10.11.13
Da Freud in poi. Con lo strumento della comunicazione
Le tante psicoterapie che indagano dentro e fuori di noi
di Danilo Di Diodoro


Con il termine psicoterapia si intende un insieme di tecniche di cura basate principalmente sulla comunicazione e sull’utilizzo del rapporto tra terapeuta e paziente. Esistono diverse psicoterapie, applicate a tutta la gamma dei disturbi psichici e anche talora somatici.
Una psicoterapia molto utilizzata in Italia è quella a orientamento psicoanalitico o psicodinamico . È basata sui principi della psicoanalisi, quindi sull’indagine dei fenomeni intrapsichici, soprattutto inconsci. Si differenzia dalla psicoanalisi vera e propria per un più ridotto numero di sedute settimanali e per la rinuncia all’uso del classico lettino. Sono variabili tecniche esteriori, ma la dinamica del processo terapeutico è sostanzialmente la stessa: analizzare il transfert tra paziente e terapeuta, e capire le ragioni inconsce per le quali si è sviluppato il disturbo, ricostruendo un significato coerente della storia di vita del paziente e alleviando i sintomi.
Dato che la psicoanalisi dopo Freud si è frammentata in vari indirizzi, esistono anche psicoterapie da essi derivate, come la Psicologia analitica di Jung , la Psicologia individuale di Adler , la scuola di Lacan . Oggi è diffusa una psicoanalisi «relazionale», in cui si presta attenzione non solo al mondo interno ma anche alle relazioni interpersonali.
Nella psicoterapia comportamentale è rilevante solo il comportamento osservabile e misurabile, mentre sono di minor interesse i fenomeni intrapsichici. Negli anni Settanta l’approccio comportamentista fu affiancato e superato da quello cognitivo, che ha introdotto la variabile delle cognizioni, quindi del ruolo della mente, che media tra le esperienze (il mondo esterno) e il comportamento (che deriva dal mondo interno). La terapia cognitiva tenta di modificare le convinzioni o cognizioni del paziente, che possono essere causa di sintomi psichici. Cognizioni negative su se stessi e sul mondo possono provocare stati depressivi, e modificandole si può migliorare l’umore. Negli Stati Uniti i padri della terapia cognitiva avevano una formazione psicoanalitica, e volevano formulare una terapia più efficace e breve.
La psicoterapia interpersonale (Inter-Personal Therapy, IPT) è focalizzata pressoché esclusivamente sulle relazioni interpersonali, considerate possibile fattore di problemi psicologici. Anche in questo caso il trattamento ha durata limitata, in genere non più di venti sedute. Si tratta di una psicoterapia nata in un contesto di ricerca per l’efficacia della psicoterapia, ed ha aspetti sia psicodinamici sia cognitivi.
Molto utilizzata in Italia soprattutto a partire dagli anni Settanta, la psicoterapia sistemica è impiegata per il trattamento delle famiglie con un membro che ha disturbi psicologici. Infatti è focalizzata sulle relazioni nella famiglia piuttosto che sul singolo. Gli psicoterapeuti sistemici cercano di osservare tali relazioni nella maniera più oggettiva possibile. L’obiettivo del trattamento è riuscire a modificare le relazioni intrafamiliari per mezzo di specifiche strategie comportamentali o verbali. A partire dagli anni Ottanta la terapia sistemica ha abbandonato un certa rigidità teorica e tecnica, assimilando anche aspetti psicodinamici, ma viene ancora utilizzata molto, ad esempio nella psichiatria pubblica e per disturbi anche gravi. Un tipo di psicoterapia sistemica che ha mantenuto la sua impostazione originaria è la cosiddetta terapia strategica.
Oltre a queste forme di psicoterapia più largamente conosciute e impiegate, esiste un vero e proprio «arcipelago» di trattamenti, come la psicoterapia bioenergetica o la terapia corporea che fanno riferimento a Wilhelm Reich o Alexander Lowen, il training autogeno di Schultz e varie altre tecniche di rilassamento derivate dallo Yoga, le tecniche di meditazione, lo psicodramma (rappresentazione scenica dei conflitti interiori del paziente), l’ipnosi (di tipo tradizionale o nella versione più recente di Molton Erickson). Al gruppo delle psicoterapie si può far risalire anche il bio-feedback , training di controllo automatico delle proprie reazioni psicofisiologiche, come l’ansia. Infine, ci sono le psicoterapie di gruppo, anch’esse suddivise in tanti diversi filoni secondo il singolo orientamento. Quasi tutte le psicoterapie possono essere individuali, di coppia, familiari, di gruppo, oppure utilizzate come intervento nelle istituzioni e così via.
Aperto resta il dibattito sull’efficacia delle psicoterapie. Una recentissima risoluzione ufficiale dell’American Psychological Association, pubblicata in contemporanea in Italia nel n. 3/2013 della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (www.psicoterapiaescienzeumane.it), indica che per molti disturbi psicologici, tra i quali la depressione, la psicoterapia ha dimostrato di avere effetti positivi superiori a quelli degli psicofarmaci, anche perché sarebbe più efficacie nel lungo periodo e risulterebbe più protettiva rispetto al rischio di ricadute. Fin dagli anni Sessanta, lo psicoterapeuta americano Jerome Frank aveva affermato che probabilmente tutti i tipi di psicoterapia funzionano attraverso elementi comuni non specifici. A funzionare sarebbero l’interesse mostrato dal terapeuta verso il paziente e la relazione emotiva di fiducia, associata a tentativi di spiegazione razionale dei disturbi.

Corriere Salute 10.11.13
Tubercolosi. Una forma dell’infezione che si manifestava con tumefazioni sulla pelle
La strana malattia che era «curata» dal tocco del Re
di Antonio Alfano


Un semplice tocco della mano del re e ogni disturbo poteva scomparire. È la misteriosa storia della scrofolosi , forma di tubercolosi dei gangli linfatici del collo, molto diffusa in tempi ormai lontani e molto grave (anche se non sempre mortale), ma che, per le tumefazioni purulente e le lesioni maleodoranti di cui era responsabile, era motivo di mortificante emarginazione sociale. Unica possibilità di guarigione per una malattia considerata incurabile dalla medicina ufficiale era il “tocco regale”: un contatto della mano destra nuda del Re sulle piaghe dello scrofoloso. Le cerimonie di “guarigione” erano pubbliche, alla presenza di migliaia di persone. A esercitare questo vero e proprio potere taumaturgico erano soprattutto i re di Francia e d’Inghilterra, e la scrofolosi per secoli fu nota come Mal de Roi o The King’s evil, ovvero il «male del re». La storia ebbe inizio nel Medioevo. I primi sovrani che iniziarono l’attività di cura della scrofolosi furono, in Francia, Roberto II il Pio e, in Inghilterra, Edoardo il Confessore. In Italia, alla fine del XIII secolo, si cimentò con successo nella singolare cura anche Carlo I d’Angiò, re di Sicilia e di Gerusalemme. «Questa malattia — afferma Gilberto Anglico, apprezzato medico medioevale nel suo Compendium medicinae , manuale della prima metà del secolo XIII — è chiamata scrofole, ma anche malattia regia in quanto la curano i re»
Singolare la testimonianza, sulle misteriose guarigioni, di Gilberto, abate di Nogent-sous-Coucy, noto cronista del tempo, che, riferendosi al re di Francia Luigi VI, scrive: «…ho veduto con i miei occhi dei malati sofferenti di scrofole nel collo o in altre parti del corpo accorrere in gran folla per farsi toccare da lui, al quale tocco aggiungeva un segno di croce…».
Elemento essenziale del rito è il contatto della mano destra nuda del monarca sulla piaga infetta dell’ammalato: «…poi con la mano destra tocca i malati». Senza questo contatto o “tocco” la guarigione non era ritenuta possibile.
Ogni paziente toccato riceveva dal sovrano una “moneta del tocco” in segno di benevolenza, raggiungendo cifre che per lo storico francese Marc Bloch (1886-1944), uno dei maggiori studiosi dell’argomento, «nel loro insieme, sono imponenti».
Il detentore del record del tocco regale della scrofolosi, secondo le ricerche di Bloch, fu Edoardo I d’Inghilterra che nel ventottesimo anno del suo regno riuscì a toccare 983 persone, 1.219 nel trentaduesimo e 1.776 nel diciottesimo. Un funzionario di corte di Filippo IV il Bello, Renaud de Roye, annotò le spese di palazzo tra il 18 gennaio e il 28 giugno 1307 e dal 1° luglio al 30 dicembre 1308, indicando nome e luogo di provenienza dell’infermo cui veniva elargita l’elemosina. Presenti a corte, durante questo periodo, sedici italiani affetti da scrofolosi, tra i quali alcuni milanesi, emiliani di Parma e Piacenza, un Johannes da Verona, quattro veneziani, un toscano, romagnoli, una donna urbinate e un frate agostiniano di Perugia. In Francia con Luigi XIV, il Re Sole, la pratica del tocco regale fu ampiamente diffusa, tanto che nella sola giornata di Sabato Santo del 1666 il sovrano toccò ben 800 persone affette da scrofolosi. «Il re — afferma il duca di Saint-Simon, autore delle famose Mémoires , ambientate alla corte del Re Sole — si comunicava... cinque volte l’anno, il Sabato Santo (nella Parrocchia, gli altri giorni nella Cappella), la vigilia di Pentecoste, il giorno dell’Assunzione, quando la confessione era seguita da una gran messa, la vigilia di Ognissanti e la vigilia di Natale… e ogni volta toccava gli ammalati…». Le cerimonie erano sempre precedute da un’ampia informazione ufficiale, da parte delle autorità religiose locali, alla popolazione. Quando, nella Pasqua del 1698, un episodio particolarmente doloroso di gotta — malattia che per anni afflisse il Re Sole — gli impedì di svolgere il rito, nella successiva Pentecoste si presentarono 3.000 pazienti affetti da scrofolosi; mentre in occasione della solennità della Santissima Trinità, il 22 maggio 1710, nei giardini reali di Versailles si riversarono 2.400 malati, nella speranza — destinata a non concretizzarsi per tutti — di essere toccati dal Re. Il sabato 8 giugno 1715, alla vigilia della festività di Pentecoste, soltanto tre mesi prima di morire, quando il sovrano toccò per l’ultima volta i malati, gli affetti da scrofolosi in attesa (per alcuni vana) del tocco “magico” del re erano. all’incirca, 1.700. Anche gli altri sovrani francesi, nonostante il mutato contesto politico, non furono da meno nel loro impegno taumaturgico. Luigi XVI , marito di Maria Antonietta d’Austria, ultimo re prima della rivoluzione, toccò ben 2.400 ammalati di scrofolosi, con tanto di certificati medici che attestavano in diversi casi la guarigione a seguito del tocco reale. La sua attività fu fermata dalla rivoluzione che lo condannò alla ghigliottina.
La singolare modalità di cura, dunque, nei secoli successivi al Medioevo godette di un ampio consenso anche da parte dei medici che, nei loro trattati, indicavano il tocco reale come efficace rimedio contro la scrofolosi. La strana pratica terapeutica continuò così, con la stessa incredibile partecipazione di popolo, per tutto il ‘700. Ebbe temine solo quando in Francia, Carlo X, travolto dalla nuova ondata rivoluzionaria del 25 luglio del 1830, decise di non rinnovare più il misterioso rito regale della guarigione di massa.

Corriere Salute 10.11.13
Le prime testimonianze già dei medici greci


Pur non associandola alla tubercolosi, gli antichi medici greci conoscevano la scrofolosi e la consideravano una malattia molto pericolosa. Secondo quanto contenuto in un testo medico del IV secolo a. C., la scrofolosi era diffusa sopratutto tra i bambini, meno tra le persone tra i 42 e i 63 anni, ma colpiva in maniera grave gli anziani.
Uno dei primi ad affrontare gli aspetti clinici della scrofolosi fu Richard Wiseman , chirurgo alla corte di Carlo II, considerato uno dei padri della chirurgia inglese. «Sono stato io stesso testimone oculare di centinaia di guarigioni seguite al solo tocco di Sua Maestà, senza l’aiuto della chirurgia…», scrive nel suo trattato Severall Chirurgicall Treatises (Alcune trattazioni chirurgiche) del 1676. Da fedele suddito del re d’Inghilterra e chirurgo di corte, Wiseman, pur sostenendo il valore taumaturgico del tocco regale, non manca di evidenziare il potere curativo della chirurgia «per coloro cui non è accessibile il beneficio di quel potere mirabile». Anche John Browne, importante chirurgo della corte di Carlo II, scrive nel 1684 un libro, Adenochoiradelogia or Kings-Evil-Swellings (Gonfiori del male del re), confermando l’attualità dell’argomento per la medicina dell’epoca. «Carlo II — scrive John Browne— imponeva la mano a circa quattromila persone l’anno...». Anche quando fu costretto a recarsi in esilio in Olanda, il sovrano era inseguito da pazienti che volevano essere sottoposti al “tocco reale”. Eccezione alla regola dei sovrani inglesi fu Guglielmo d’Orange, il quale non nutriva alcuna passione per il potere di guaritore. Alle pochissime persone che fu costretto a toccare disse: «Il Signore ti dia migliore salute e più buon senso». A chiudere il ciclo taumaturgico dei sovrani inglesi, fu la regina Anna Stuart , che esercitò la pratica della guarigione, per l’ultima volta, tre mesi prima della morte, nel 1714.