mercoledì 13 novembre 2013

l’Unità 13.11.13
Sciopero contro la Manovra
Oggi si fermano la Toscana e il Lazio


Continuano gli scioperi e le manifestazioni promossi da Cgil Cisl e Uil per chiedere profonde modifiche alla legge di Stabilità. Dopo gli scioperi di lunedì nella provincia di Cosenza, e di ieri a Potenza e Matera, oggi, domani, e venerdì, tutte le province d’Italia saranno interessate dallo stop di 4 ore, tanto nei settori prubblici che in quelli privati e che si articoleranno a livello territoriale. Oggi si fermano Lazio e Toscana, con numerose manifestazioni.
A Roma il corteo partirà alle 9.30 da piazza Esquilino per concludersi a piazza Santi Apostoli. Interverranno i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil del Lazio rispettivamente Claudio Di Berardino, Mario Bertone, PierPaolo Bombardieri.
Da segnalare lo sciopero del trasporto pubblico che in una città come Roma in genere non passa inosservato. Autobus, tram, filobus, la metropolitana e le ferrovie locali sono a rischio dalle 9 alle 13. Nel caso la metro dovesse chiudere, il servizio non riprenderà prima delle 14.30: è quanto comunica l’Agenzia per la mobilità. È stata invece decisa dal comune la disattivazione dei varchi nelle Ztl.
La mobilitazione sindacale continua domani in Emilia Romagna, Liguria e nelle province di Belluno, Treviso e Verona, in Veneto. Venerdì, infine, lo sciopero interesserà tutte le altre province e regioni del Paese, e vedrà la presenza del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, nella manifestazione che si svolgerà a Milano.

l’Unità 13.11.13
Papa Francesco domani in visita al Quirinale
Rispetto del cerimoniale ma non ci sarà la scorta dei corazzieri
Mezz’ora di colloquio privato


Domani mattina Papa Francesco varcherà la soglia del palazzo del Quirinale per la sua prima visita di Stato con cui ricambierà quella avuta da Napolitano in Vaticano l’8 giugno scorso. L’avvenimento, nelle intenzioni di entrambi i protagonisti, cercherà di introdurre degli elementi di novità e di vicinanza alla vita reale pur nel rispetto del cerimoniale e del protocollo. In un briefing al Quirinale sono stati il consigliere diplomatico del Colle, Antonio Zanardi Landi e l'ambasciatore italiano presso la S. Sede, Francesco Greco, insieme al responsabile per la Comunicazione, Maurizio Caprara, a illustrare il significato e le modalità della visita.
Come da protocollo il Papa verrà accolto da Napolitano nel Cortile d'onore del Quirinale dove riceverà gli onori militari, ma niente Corazzieri a cavallo a scortarlo. Dopo una sosta alla Cappella per un momento di preghiera, il Capo dello Stato mostrerà a Francesco
un’opera d'arte, il Codex Purpurens Rossanensi, a sottolineare l’importanza della tradizione religiosa del paese che ospita la Chiesa da duemila anni. Quindi, come di consueto nelle visite di Stato, ci saranno i colloqui tra i due capi di Stato e quelli tra le rispettive delegazioni governative: per l’Italia sarà guidata dal presidente del Consiglio Enrico Letta mentre sulla presenza del segretario di Stato vaticano, monsignor Parolin, ancora convalescente, non ci sono ancora conferme. Presenti sicuramente i rispettivi titolari degli Esteri e degli Interni. Papa Francesco e Napolitano terranno i discorsi ufficiali nel Salone delle Feste davanti a una platea composta dalle più alte cariche istituzionali e dai rappresentanti in Parlamento dei partiti politici assieme ad esponenti del mondo della cultura e delle associazioni di volontariato cattoliche e laiche, rappresentativi dell’immagine più viva e reale del nostro paese. Un’occasione voluta dal presidente per far conoscere al Papa non solo l’Italia delle istituzioni ma anche quella di chi riflette sui grandi temi e di chi si occupa degli ultimi. In quest’ottica la visita di Francesco al Quirinale si concluderà con un saluto ai giovani, i figli dei membri del personale del Palazzo. Quanto all’agenda dei colloqui non c’è un programma prestabilito. Sarà una conversazione libera che toccherà i principali temi che stanno a cuore ai due interlocutori. Tra i due è stata già registrata una particolare sintonia. Sia il Papa che Napolitano sono molto attenti al problema dell’immigrazione come dimostrano la visita del Pontefice a Lampedusa e l’interessamento del Colle per il problema dei richiedenti asilo. Il colloquio, nell’ambito di una visita di due ore, dovrebbe durare circa mezz'ora.

il Fatto 13.11.13
Santo mattone
Dagli alberghi ai palazzi: il tesoro Propaganda Fide vale 9 miliardi
La Congregazione, che dovrebbe “evangelizzare i popoli”, soltanto nella Capitale gestisce 725 appartamenti di pregio per un valore commerciale di 2 miliardi
Spesso trasformati in B&B di lusso con statue di gesso e divani di finta pelle
Palazzi di prestigio, da via del Corso a via Margutta, abitati spesso da vip e trasformati in suite: 725 appartamenti
di Alessandro Ferrucci e Carlo Tecce


Vi serve un box auto in centro a Roma? Ci pensa Propaganda Fide. Non vi basta il box, ma volete anche un appartamento, sempre tra piazza di Spagna, piazza Navona o via Margutta? Stessa storia: ci pensa Propaganda Fide. Periodo di crisi, volete cambiare vita e avere a disposizione una metratura importante da affittare per offrire delle suite di lusso? La risposta non cambia.
Basta camminare per le vie della Capitale, sbirciare i citofoni, magari alzare lo sguardo verso il numero civico, poi l’occhio ancor più in alto per apprezzare l’edificio, quasi sempre antico, di pregio. Facile scoprire un attico o un mezzanino intestato alla Sacra congregazione che utilizza 50 diciture sociali e un unico codice fiscale (anche se non paga l’Imu): solo a Roma, Propaganda Fide possiede ben 725 fabbricati. Vuol dire 62 palazzi interi, dal piano interrato all’attico di rappresentanza per un valore commerciale di 2 miliardi di euro.
E POI CI SONO terreni agricoli o edificabili intorno al Raccordo anulare, da Pomezia a Castel Gandolfo e ancora più a sud a Napoli o Trapani e in centro, a Perugia. Come funziona? “Un bel modo per tenere in mano una fetta di potere romano – ci racconta un interno al gruppo, rigorosamente anonimo, pari a quanto è spaventato nel trattare certi argomenti –. Dentro vi abitano personaggi famosi, della politica, dello spettacolo, manager di primo livello, o star della televisione. Ma anche gente non conosciuta, in apparenza, ma che rientra in un cerchio di interessi”.
In questi anni alcuni nomi sono usciti: da Bruno Vespa allo stilista Valentino; dallo show room di L’Oreal; all’associazione vicina a Irene Pivetti e Santo Versace. Segnalati anche: Augusto Minzolini, Vito Riggio (presidente Enac), Giancarlo Innocenzi ex membro dell’Agcom e l’ex ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio. Per carità, non sono state assegnate gratis, un prezzo di affitto c’è, esiste, trattato ad personam “ma comunque agevolato – continua l’interno – sicuramente inferiore ai prezzi di mercato, per degli immobili introvabili in posti di prestigio”.
FINO AL 2010, molti dei vip di turno si affidavano ad Angelo Balducci, gentiluomo del Papa e soprattutto Consultore laico per la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, poi arrestato nell’inchiesta sui Grandi Eventi, come il G8 de L’Aquila: proprio a Balducci, il cardinale Sepe aveva dato l’incarico di gestire parte del vasto impero immobiliare. E non parliamo solo di piazza Navona, ecco via dei Coronari, via Liberiana, via Paolina; via della Volpe, tutte location dove, generalmente, le agenzie immobiliari piazzano il cartello “trattativa riservata” quando hanno la fortuna di gestire una struttura del genere. “Qui i prezzi vanno da diecimila euro a salire e al metro quadro, a seconda del piano, se l’immobile è ristrutturato e se ha un terrazzo – spiega Antonio, titolare di un’agenzia – Beato chi ce mette mano! Chissà quanto vale tutto... ”.
La risposta c’è, dentro e fuori le mura di San Pietro, compresi i terreni: il patrimonio stimato è 9 miliardi di euro, raccolti in anni, decenni grazie a palazzi spesso lasciati in eredità da fedeli più o meno facoltosi e che dovevano essere distribuiti ai poveri. Perché Propaganda Fide, ora diretta dal cardinale Filoni, dovrebbe svolgere un’attività missionaria: dirigere e coordinare l’opera di evangelizzazione dei popoli. Al contrario ogni giorno si scoprono nuovi immobili, nuove stanze affidate a privati o a società impegnate a organizzare hotel di lusso, con suite a prezzo iper-competitivo. Solo ieri il Fatto ha raccontato di via Zanardelli 23, dietro piazza Navona, con il terzo e il quarto piano gestito dalla “Burcardo”, dove stucchi, divani finto pelle, baldacchini e una terrazza sui tetti di Roma offrono a prezzo competitivo il lusso ai turisti.
MA TRA POCO è prevista l’inaugurazione di una nuova attività commerciale, in via Liberiana, tra la Basilica di Santa Maria Maggiore e via Cavour. Appena eletto pontefice, Francesco andò a pregare nella basilica papale, a ringraziare la Madonna, a cambiare verso al Vaticano. Il Papa non manca mai un’occasione pubblica per inveire contro la corruzione e i cristiani o preti con la doppia vita: eppure mentre chiede di essere più giusti, Propaganda Fide inaugura un nuovo B&B di fascia alta.
Twitter: @A_Ferrucci e @TecceCarlo

il Fatto 13.11.13
Nicola Gratteri Mafia affari a rischio
“Pulizia in Vaticano: ndrangheta nervosa”
di Beatrice Borromeo


La chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio”, scriveva Leonardo Sciascia ne Il giorno della Civetta. Accantonati scandali e anatemi, il cattolicesimo ha consolidato nei secoli la più improbabile delle alleanze: quella coi mafiosi, affezionati frequentatori di parrocchie e confessionali, che accanto ai kalashnikov conservano la Bibbia e dai cui comodini pendono rosari dai grossi grani rossi. “Dio, proteggi me e questo bunker”, è la scritta che, tra un santino di Padre Pio e un bassorilievo raffigurante il volto di Gesù Cristo, i carabinieri del Ros hanno scovato nel rifugio del boss Gregorio Bellocco, nelle campagne calabresi di Anoia. “Faccio il magistrato da 26 anni e non trovo covo dove manchi un’immagine della Madonna di Polsi o di San Michele Arcangelo. Non c’è rito di affiliazione che non richiami la religione. ’ndrangheta e Chiesa camminano per mano”, dice il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri. Che assieme allo storico Antonio Nicaso ha raccontato in un libro (Acqua Santissima, Mondadori, 204 pagine, 17,50 euro) l’incontro di due mondi che dovrebbero interagire come l’acqua e l’olio. E che invece si mescolano di continuo. “Però le cose stanno cambiando”, giura il pm.
È diventato ottimista, Gratteri?
Questo Papa è sulla strada giusta. Ha da subito lanciato segnali importanti: indossa il crocifisso in ferro, rema contro il lusso. È coerente, credibile. E punta a fare pulizia totale.
E la mafia è preoccupata da questi comportamenti?
Quella finanziaria sì, eccome. Chi finora si è nutrito del potere e della ricchezza che derivano direttamente dalla Chiesa, è nervoso, agitato. Papa Bergoglio sta smontando centri di potere economico in Vaticano. Se i boss potessero fargli uno sgambetto non esiterebbero.
Crede davvero che il Papa sia a rischio?
Non so se la criminalità organizzata sia nella condizione di fare qualcosa, ma di certo ci sta riflettendo. Può essere pericoloso.
Cosa intende quando parla di mafia finanziaria?
I padrini con la coppola non esistono più: sono morti oppure in carcere al 41-bis. Ma il mafioso che investe, che ricicla denaro, che dunque ha potere vero, è proprio quello che per anni si è nutrito delle connivenze con la Chiesa. Sono questi i soggetti che si stanno innervosendo.
D’abitudine qual è l’atteggiamento della Chiesa verso le organizzazioni criminali?
Un paio di esempi: il vescovo di Reggio Calabria, anche dopo la condanna in Cassazione di un capobastone, ha detto che non poteva schierarsi perché magari si trattava di un errore giudiziario. Il vescovo di Locri ha sì scomunicato i mafiosi, ma solamente dopo che avevano danneggiato le piantine di frutti di bosco della comunità ecclesiastica di Platì. Solo che prima di quell’episodio, i boss avevano ammazzato migliaia di persone. Bisogna aspettare le piantine perché i prelati si sveglino?
Che altro?
Qualche anno fa la figlia di Condello il Supremo si è sposata nel duomo di Reggio Calabria. È arrivata pure la benedizione papale. A Roma potevano non conoscere il clan, ma in Calabria tutti sanno chi sono i Condello. Eppure nessuno ha fiatato. I preti, poi, vanno di continuo a casa dei boss a bere il caffè, regalando loro forza e legittimazione popolare.
E perché ci vanno?
Alcuni dicono che frequentano i mafiosi perché devono redimere tutte le anime, senza discriminare. Capirei se la Chiesa accogliesse chi si pente davvero, ma così è troppo facile: continui a uccidere, a importare cocaina, a tenere soggiogata la gente e io, prete, ti do pure una mano.
Quindi i boss sono religiosi solo per convenienza?
No, c’è anche una vocazione autentica. Abbiamo fatto un sondaggio in carcere: l’88 per cento dei mafiosi intervistati si dichiara religioso. Prima di ammazzare, un ‘ndranghetista prega. Si rivolge alla Madonna per avere protezione.
Pensa di essere nel giusto?
Lo è, dal suo punto di vista. Mettiamo il caso in cui un tizio decide di aprire un bar senza chiedere il permesso al boss locale, e dunque senza rivolgersi alla sua impresa per fare gli scavi, per comprare il bancone o le bibite. Il mafioso che fa? Gli spara alle serrande, poi alle gambe e così via per convincerlo a sottomettersi. Se però il tizio rifiuta, il mafioso è “costretto” a ucciderlo. Se non hai scelta, non commetti peccato.
Che importanza hanno invece i matrimoni?
Sono centrali. Suggellano alleanze, sanciscono tregue, e al margine delle cerimonie ci sono i riti di affiliazione. Rifiutarsi di partecipare a un matrimonio può essere considerato una dichiarazione di guerra. E non essere invitati è un pessimo segno. Il boss Novelli, trapiantato in Lombardia, ha cominciato ad allarmarsi quando non l’hanno invitato a un importante matrimonio calabrese. Poco dopo, infatti, l’hanno ammazzato.

il Fatto 13.11.13
Cosche, hotel e aziende sequestri per 150 mln


Era un monastero l’Hotel Gianicolo sequestrato ieri dalla Dia e dalla polizia di Stato nell’ambito di un’inchiesta contro le cosche della 'ndrangheta. La società di Giuseppe Mattiani e dei figli, alla fine degli anni novanta e poco prima del Giubileo, registrò un grande salto a livello finanziario e acquistò un immobile a Roma. Si trattava di un monastero collocato in uno dei posti più belli della capitale, il colle Gianicolo, di proprietà di una congregazione religiosa. In quel periodo, visto l’approssimarsi del Giubileo, gli immobili di tipo alberghiero erano ricercatissimi e naturalmente molto onerosi per via dell’atteso afflusso dei pellegrini. Il Grand Hotel Gianicolo, di categoria 4 stelle lusso, è provvisto di 48 camere più piscina e parcheggio interno. La Dia e la polizia hanno sequestrato la società “Hotel Residence Arcobaleno Sas”, proprietaria sia del Grand Hotel Gianicolo che dell’Hotel Arcobaleno a Palmi. Sono stati sequestrati anche 53 beni immobili ubicati tra Roma, Castiglione dei Pepoli (Bologna) e Palmi, 9 automobili e rapporti bancari intrattenuti in 13 istituti di credito.

l’Unità 13.11.13
Legge elettorale
Pdl e grillini bocciano doppio turno
Al Senato affondata la proposta del Pd in commissione Affari costituzionali
Anche la Lega contraria. Malan: «Votare due volte vorrebbe dire buttare 140 milioni»
Latorre: «Irresponsabili»
di Andrea Carugati


Mentre il presidente Napolitano invoca «un briciolo di responsabilità» per superare il Porcellum, la commissione Affari costituzionali del Senato boccia il doppio turno proposto dal Pd. Votano contro Pdl, Lega e 5Stelle. Nel Pd Renzi ribadisce il no al «Superporcellum», ovvero a una correzione proporzionale dell’attuale legge. Giuristi divisi sull’ipotesi decreto.
L’ennesima fumata nera sulla legge elettorale. E pensare che ieri in Senato si votava solo su degli ordini del giorno: nulla di vincolante, dunque. E tuttavia il fronte composto da Pdl e M5S ha affondato la proposta del Pd, che puntava sul doppio turno di coalizione: una soluzione di buon senso che prevede che se nessuno schieramento supera il 40%, si va al ballottaggio due settimane dopo tra i primi due, per decidere chi ha diritto al premio di maggioranza. Una soluzione simile a quella in suo da vent’anni per i sindaci, già sdoganata dai 35 saggi del governo guidati dal ministro Quagliariello.
Niente da fare. Ieri in commissione Affari costituzionali del Senato sono arrivati solo 11 sì: Pd, Sel e Scelta civica. Ben 10 i no (Pdl e Lega), e cinque astenuti, i grillini più il senatore Francesco Palermo del gruppo delle Autonomie. Ma al Senato l’astensione vale come voto contrario, e dunque l’odg è stato affondato. Dal Pdl, che pure professa bipolarismo a ogni piè sospinto, non arrivano spiegazioni convincenti per questo no. «Il doppio turno funziona solo se si vota per una Camera sola, altrimenti si rischia di avere maggioranze diverse nei due rami del Parlamento», spiega Donato Bruno. Lucio Malan la butta sui costi: «Votare due volte sarebbe una spesa enorme, oltre 140 milioni buttati». Motivazioni che rivelano il vero movente dei berluscones: tenersi il Porcellum. Discorso molto simile per i grillini, che in un sistema molto bipolare si troverebbero strettissimi. «Pdl irresponsabili, ha rifiutato ogni mediazio-
ne», accusa il Pd Nicola Latorre. Rinviate a data da destinarsi invece le votazioni sugli odg della Lega, che proponeva il ritorno al Mattarellum, e dei Cinquestelle, che suggerivano un modello simil-spagnolo a impianto fortemente proporzionale. La richiesta di rinvio è arrivata dal Pd, che sul Mattarellum non ha ancora una posizione chiara. La scelta dell’assemblea dei senatori, ieri a pranzo, è stata quella del rinvio, per un motivo semplice: «Oggi la nostra battaglia deve essere chiara e per il doppio turno». E tuttavia sul vecchio maggioritario tra i democratici si sta iniziando a ragionare. Del resto, come ricorda malizioso il leghista Calderoli, al Senato ci sono ben tre proposte Pd per il ritorno al Mattarellum, firmate da Finocchiaro, Esposito e dai renziani. Prima della votazione, che potrebbe slittare di una o due settimane, i democratici si ritroveranno in assemblea, per decidere il da farsi, dopo che Sel e Scelta civica si sono già detti disponibili a dire sì. «È comunque meglio del Porcellum», sintetizza la renziana Rosa Maria Di Giorgi. I grillini sembrano orientati a non votarlo. «L’odg di Calderoli ha un impianto troppo bipolare per noi», ragiona l’ex capogruppo Nicola Morra.
Tra i senatori, c’è la consapevolezza che in questo momento è praticamente impossibile arrivare a una nuova legge elettorale: troppe le incognite dentro i partiti della maggioranza, con il Pdl sull’orlo della scissione e un Pd in piena campagna congressuale. Renzi annuncia prima delle primarie di dicembre una sua proposta «sul modello del sindaco d’Italia», i suoi hanno lavorato sodo contro ogni ipotesi di ritorno al proporzionale che «costringe alle larghe intese perenni». La loro tesi ormai è la linea del gruppo, ma non mancano le polemiche. Attacca il bersaniano D’Attorre: «Speriamo che tutte queste polemiche di Renzi non siano per tenersi il Porcellum...». Gli risponde la renziana De Monte: «Studiati la linea del Pd». Giachetti intanto prosegue con lo sciopero della fame e attacca Finocchiaro: «Sua la colpa dello stallo».
«NO A UN DECRETO»
Gli occhi sono puntati sul Consiglio nazionale del Pdl del 16. Se ci sarà una scissione, con la nascita di un partito delle colombe, anche la legge elettorale potrebbe sbloccarsi. Non è un mistero che Quagliariello sia favorevole al doppio turno, dopo la riforma del bicameralismo. L’obiettivo è quello di blindare il governo fino al 2015, e di varare la legge a doppio turno dopo le riforme costituzionali. Un traguardo assai ambizioso. Renzi punta ad approfittare dello stallo in Senato per dirottare la riforma alla Camera, dove Pd, Sel e Scelta civica hanno una robusta maggioranza. Ma non sarà semplice, senza un intervento dei presidenti delle Camere, traslocare la riforma da palazzo Madama a Montecitorio.
Sullo sfondo resta l’ipotesi di un decreto del governo, ventilata due giorni fa dallo stesso premier Letta «ma solo se saranno le Camere a chiederlo». Sarebbe una novità assoluta su un tema del genere. «Una follia solo pensarlo, un golpe», dice Calderoli. E lo stesso Quagliariello frena: «Non lo faremo il decreto, ci sarebbero anche problemi per i requisiti di necessità e urgenza». Possibile invece la strada di un disegno di legge governativo. Su quale impianto? Difficile che il governo cerchi di rianimare il proporzionale con premio solo per chi supera il 40%, il cosiddetto super Porcellum decisamente inviso a Renzi. Più verosimile invece che l’esecutivo si muova sulla scia della relazione dei saggi, e cioè sul doppio turno. Questa ipotesi, però, è fortemente osteggiata dai berluscones, e prevede che ci si muova nel solco di una nuova maggioranza, formata da Pd, montiani e alfaniani. Fino a sabato l’argomento resta tabù.

Repubblica 13.11.13
Salta il blitz per il Super-Porcellum “Qualcuno vuole un ritorno al passato”
Il sindaco: “Su questo mi gioco tutto”. Spunta il nuovo Mattarellum
di Goffredo De Marchis


I DUBBI del Quirinale, lo stop di Renzi e un Parlamento troppo diviso per partorire un indirizzo comune. Così il decreto del governo sulla legge elettorale fa naufragio ancora prima del varo e il blitz immaginato dai proporzionalisti rimane nel cassetto.
L’ATTACCO del sindaco di Firenze ha avuto l’effetto desiderato: «Il mio primo atto da segretario del Pd sarà proprio sulla legge elettorale — spiega ai suoi fedelissimi —. Mi giocherò tutta la mia credibilità, a partire dal 9 dicembre, nella battaglia contro il Porcellum. Stanerò grillini e alfaniani». Con l’obiettivo, nemmeno tanto nascosto, di mettere in difficoltà il premier e l’esecutivo delle larghe intese.
Renzi deve respingere qualsiasi tentazione proporzionalista. Che venga da Palazzo Chigi o dalla Corte costituzionale, poco importa. Se la Consulta ammette solo alcune modifiche alla legge Calderoli, questo esito va contrastato con una proposta che tenga in piedi l’assetto bipolare, l’unico che consente al futuro leader del Pd di presentarsi agli elettori nella veste di candidato premier. Lo slogan del “sindaco d’Italia”, a prescindere dalla concretezza dell’ipotesi, serve a mantenere il punto, a marcare la distanza abissale tra chi sostiene le larghe intese forever e chi vuole una maggioranza politica e un leader scelti nelle urne. È uno scontro che coinvolge soprattutto il Partito democratico. I sospetti dei renziani su una fetta del Pd disposta a tutto pur di fermare la marcia del Rottamatore, sono fortissimi. «A tre settimane dalle primarie si ipotizza uno schema di legge e un decreto come se il Pd non esistesse. Queste cose non si fanno — attacca Antonio Funiciello, uno dei capi del comitato Renzi —. Una volta, quando c’erano i congressi, si sospendeva addirittura l’attività parlamentare. Non voglio tornare al passato, ma un po’ di rispetto per il Pd è obbligatorio».
Nel suo colloquio al Quirinale Letta ha dovuto registrare anche le perplessità di Giorgio Napolitano sul decreto. «Mi sembra una strada molto discutibile, un’ultima spiaggia», ha detto il capo dello Stato al premier. Evitando di sbattere la porta, ma facendo capire che il Colle avrebbe parecchi problemi a emanare un provvedimento d’urgenza sulla legge elettorale. Troppi ostacoli, dunque. Fin dall’inizio, Letta è stato consapevole dei rischi o meglio dell’azzardo di un decreto anti-Porcellum. Un fatto straordinario, che avrebbe spogliato le Camere di una loro prerogativa fondamentale. Una delle poche che hanno conservato, visto che anche la politica economica viene in pratica scritta a Bruxelles. Per questo il presidente del Consiglio aveva posto come condizione per varare il decreto una richiesta esplicita del Parlamento. Una specie di resa: pensateci voi perché noi abbiamo fallito.
Il fallimento in effetti si materializza plasticamente al Senato. Ma l’autodafé non arriva. La commissione Affari costituzionali si prende ancora una settimana per decidere. A Palazzo Chigi continuano a monitorare: «Abbiamo sette giorni perosservare il dibattito», dicono. Ma è molto probabile che tutto venga rimandato alla Camera e che la Consulta, il 3 dicembre, arrivi prima della politica giudicando l’ammissibilità di due ricorsi contro la legge Calderoli. A questo punto, per Letta, è meglio che tutto si fermi in attesa dei giudici costituzionali. Infatti al Senato, mercoledì prossimo, si dovrà valutare se mettere ai voti la proposta della Lega: il ritorno al Mattarellum. Una legge che piace a molti nel Pd, a cominciare da Anna Finocchiaro e Roberto Giachetti, una cuperliana e un renziano.
Un voto a favore della mozione leghista però spaccherebbe la maggioranza di governo. E lascerebbe morti e feriti. È questa la grande incognita della prossima settimana, che si gioca nelle dinamiche democratiche e può far saltare il banco del governo. Epifani, Letta e Renzi dovranno dare la loro indicazione. Non è detto che sia convergente.
Adesso non è escluso che la maggioranza di governo possa seguire un’altra strada. Il Pd e Scelta civica hanno provato a imporre il doppio turno, dasempre la legge cara alla sinistra. Ma è andata male. Potrebbero usare questo argomento per virare su una proposta proporzionale con liste corte e premio di maggioranza da attribuire solo a chi supera il 40 per cento dei voti. L’unico schema che può tenere insieme Pdl e Pd. Sarebbe la clausola di salvaguardia tante volte invocata da parte della maggioranza. Magari con la promessa di prevedere in seguito l’introduzione di un ballottaggio tra le coalizioni, secondo la proposta di Luciano Violante. Fumo negli occhi per Renzi, che ormai ha un solo obiettivo: vincere le primarie per essere lui a dettare l’agenda sulla materia elettorale. Con la variabile della decisione della Consulta. Che, secondo le indiscrezioni deciderà di ammettere il ricorso, svelando le debolezze della politica.

l’Unità 13.11.13
Intervenire per decreto? Costituzionalisti divisi
di Rachele Gonnelli


Scale che ripartono da dove iniziano, labirinti che evocano prospettive impossibili e circuiti infiniti. Volendo visualizzare il dibattito tortuoso sulla riforma della legge elettorale l’unico paragone che appare adatto è con i quadri di Escher. Un rompicapo e un enigma che incrocia prospettive politiche e scenari inusitati.
Si dice letteralmente «sconcertata», ad esempio, Lorenza Carlassarre, professoressa emerita di diritto costituzionale a Padova, passata dalla commissione dei saggi voluta del presidente Napolitano, da cui si è dimessa, in prima fila nell’associazione Libertà e Giustizia insieme a Gustavo Zagrebelsky. Proprio perché, a suo dire, «tutto è sovvertito, siamo in una situazione tale, con questo governo che non è negli schemi di un governo parlamentare di nessuna democrazia rappresentativa perché rappresenta gli opposti, forze che non possono esprimere una linea politica comune», che non è del tutto da escludere l’idea che il governo, di fronte al perdurare di uno stallo parlamentare sulla legge elettorale, possa intervenire per decreto. Per Carlassarre i requisiti richiesti la necessità e l’urgenza «ci sono tutti».
Stefano Ceccanti, costituzionalista del Pd vicino a Renzi, esclude il caso come «impraticabile». E snocciola: «In base all’articolo 74 ultimo...» e continua «in base alla legge 400 dell’88...». Insomma, è materia esclusiva del Parlamento, il governo non può entrarci. Anche se, ammette «il punto è politico». Se esiste una maggioranza parlamentare per cambiare la legge non c’è bisogno dell’intervento del governo, se non c’è la maggioranza, il decreto non è convertibile in legge.
È ancora più duro Pier Alberto Capotosti, ex presidente della Corte Costituzionale. Alla domanda se il governo può intervenire per decreto, risponde: «No, assolutamente». Lui non vede neanche la necessità e l’urgenza. Ma ciò che lo rende irremovibile è il sospetto che come un’ombra si insinuerebbe tra scale e corridoi del palazzo. «Il sospetto che il governo potrebbe fare una legge per sé, per perpetuarsi». E poi lo snaturamento del rapporto tra Parlamento e governo. Prevalendo il potere di quest’ultimo si metterebbe a rischio anche la forma di governo. «Forse non sarebbe anticostituzionale ma credo che il Quirinale avrebbe difficoltà a firmare una tale forzatura», ritiene Capotosti.
Però il tempo corre, si deve fare presto, l’ha detto Napolitano ieri, perché il giudizio della Consulta, atteso il 3 dicembre, è vicino. Cosa potrebbe decidere la Corte? Potrebbe abrogare in toto il Porcellum e far rivivere la legge precedente, il Mattarellum? Il no a questa ipotesi la «revivescenza» accumuna l’opinione dei costituzionalisti. Carlassarre, Capotosti, ma anche il «saggio» Luciano Violante, che la vede come «un’operazione troppo ardita». Ceccanti poi pensa che l’Alta corte non metterà proprio mano al Porcellum, si limiterà a proferire un monito e a indicare i nodi da risolvere. Monito che il Parlamento potrebbe disattendere e allora di fronte ad uno scioglimento delle Camere si tornerebbe di nuovo al voto a cavallo del «porco». Comunque per Ceccanti «sarebbe un’attività di supplenza anomala se la Corte si mettesse a riscrivere la legge».
LEGITTIMITÀ PARZIALE
L’opinione prevalente è invece che, se la Corte vorrà addentrarsi nei meandri della «porcata» di Calderoli, lo farà con una dichiarazione di legittimità parziale, annullando cioè solo le parti viziate come l’iper-premio di maggioranza senza soglia minima. Caldassarre e Capotosti spiegano che sarebbe esattamente nei compiti della Consulta e non obbligherebbe il Parlamento a rimettere le mani alla legge. «La parte residua, non toccata spiega Capotosti sarebbe come una nuova legge elettorale in grado di essere applicata subito». Sarebbe ripristinato un sistema proporzionale con soglie d’ingresso dal 2 al 4 per cento.
Negli scenari elaborati dai saggi, spalmando voti delle ultime elezioni con il Mattarellum, non ci sarebbe una maggioranza né alla Camera né al Senato perché un sistema tendenzialmente maggioritario con tre poli aggreganti non può funzionare e si avrebbe una geografia a macchie dai collegi uninominali: tre aree con diversi vincitori a seconda del maggior radicamento delle varie forze. Utilizzando invece una correzione parziale del Porcellum il cosiddetto «Super Porcellum», con un premio di maggioranza del 40-42 per cento e l’impianto proporzionale una ripartizione di seggi su tre poli probabilmente non farebbe vincere nessuno perché nessuno riuscirebbe a raggiungere la soglia. È in virtù di questa analisi che tanto Violante quanto Ceccanti, e con loro l’intero Pd, propendono per l’aggiunta di un secondo turno di ballottaggio su scala nazionale tra le due coalizioni maggiori, una sorta di spareggio con in palio il premio di maggioranza. Un sistema non molto dissimile a quello dell’elezione a sindaco nei Comuni.
Luciano Violante non è affatto convinto che non si possa raggiungere questo obiettivo, contenuto nell’ordine del giorno non approvato ieri dalla commissione Affari costituzionali del Senato, cabina di regia dei tentativi di riforma. Per Violante quella bocciatura ha un valore relativo e nessuna conseguenza. «Non c’è alcuno stallo del Parlamento dice ma solo del Senato». Perciò prima di arrivare «come ultima ratio, perché sarebbe una grave prova di impotenza del Parlamento» a un decreto sulla legge elettorale, ci sarebbero almeno altri due tentativi da fare. Primo: riproporre a Palazzo Madama un’intesa su tre cardini della nuova legge: scelta diretta dei rappresentanti da parte del cittadino-elettore, parità di genere, una maggioranza chiara che esca dalle urne. Se neanche su questo libro di intenti si dovesse trovare un accordo in grado di andare avanti, si potrebbe passare la camera di regia alla Camera, dove una maggioranza c’è. «A quel punto è il ragionamento di Violante con un testo già approvato da un ramo del Parlamento, si assumerebbe una grave responsabilità chi al Senato ne cercasse di impedire l’approvazione definitiva».
Per Capotosti però non è affatto detto che il Senato, nella sua piena autonomia, si senta condizionato a rispettare il voto della Camera. Inoltre, ricorda, «le leggi elettorali se non all’unanimità devono essere espressione della più larga maggioranza possibile, non funzionano se vengono da una prova di forza». E aggiunge: «Prova ne sia il Porcellum, legge approvata a maggioranza ricorda Per questo che non funziona».

La Stampa 13.11.13
Il compromesso resta lontano e rispunta l’ipotesi decreto
di Marcello Sorgi


La bocciatura in commissione al Senato ieri della proposta Pd di riforma elettorale a doppio turno ha aperto un nuovo fronte tra i Democrat, in corsa verso le primarie. Ai renziani non è piaciuta la sollecitudine con cui Anna Finocchiaro ha portato in discussione la proposta che Matteo Renzi si accingeva a presentare come parte del suo programma di candidato alla segreteria, e Roberto Giachetti, il vicepresidente della Camera da oltre un mese impegnato in uno sciopero della fame proprio per sollecitare la riforma, ha commentato che è stato un errore far partire la discussione dal Senato, dove chiaramente è più difficile trovare una maggioranza sulla riforma, che non dalla Camera, dove il centrosinistra invece ha i numeri.
Mancano ormai tre settimane al pronunciamento della Corte costituzionale, ma in Parlamento non s’intravede alcuno spiraglio per arrivare almeno a una modifica del Porcellum. E malgrado restino forti le pressioni di gran parte di Pdl e M5s per arrivare a un nuovo scioglimento delle Camere, di intenzioni di trovare un compromesso non si vede traccia, ed anzi sia Berlusconi sia Grillo preferirebbero votare di nuovo con la legge che di qui a poco la Consulta potrebbe dichiarare incostituzionale. È anche per questo, ma non solo, che Napolitano ieri ha fatto un nuovo appello al «senso di responsabilità» che fin qui è mancato. Solo qualche settimana fa il presidente era intervenuto sullo stesso tema sostenendo che basterebbe una settimana di impegno nelle Camere per arrivare all’approvazione della riforma. E negli ultimi giorni si è tornati a parlare della possibilità che, in mancanza di risultati, possa toccare al governo intervenire con un decreto.
Il quadro politico resta comunque gravato da incertezze. Dal Pdl, dopo giorni di guerra civile, ieri è venuta qualche parola di tregua, per bocca della deputata Maria Rosaria Rossi, assai vicina a Berlusconi. Per qualche ora la sua dichiarazione è stata presa in considerazione come un’offerta di disponibilità dello stesso Cavaliere, che oscilla tra propositi di rottura e desiderio di riportare il partito all’unità. Ma a parte Alfano, che ha detto di voler continuare a cercare un’intesa fino all’ultimo minuto, dall’interno del fronte governativo del centrodestra continua a salire scetticismo, tanto che qualcuno, come Cicchitto e Formigoni, si spinge a mettere in dubbio la partecipazione delle «colombe» al Consiglio nazionale che sabato dovrebbe sancire il ritorno a Forza Italia.

Corriere 13.11.13
La scissione pidiellina che fa paura ai democratici
di Maria Teresa Meli


ROMA — Non c’è giorno che un dirigente del Pd, un deputato o un senatore, non si avvicini a un collega del Pdl per capire che cosa stia effettivamente accadendo da quelle parti. Sarà o non sarà scissione? Quasi superfluo dire che le risposte sono quanto mai confuse e contribuiscono ad alimentare dubbi e interrogativi nel Partito democratico.
Ieri su Europa il direttore Stefano Menichini ha posto la questione con molta chiarezza. A suo giudizio sbaglia chi pensa che i gruppi parlamentari dei fuoriusciti guidati da Alfano renderebbero più solido il governo. Anzi: «Dalla scissione del Pdl gli verrebbe un beneficio avvelenato». Perché in questo modo Berlusconi salverebbe «capra e cavoli». Ossia, potrebbe fare la sua campagna contro il governo delle tasse, senza però andare alle elezioni, perché i transfughi terrebbero su Letta il tempo necessario per logorare il Pd.
È una preoccupazione, questa, che nutrono in molti. Paolo Gentiloni non fa mistero di pensarla così. E lo dice da giorni: «Se Berlusconi e Grillo si mettono a fare campagna contro il governo, per il Pd saranno problemi». Il segretario del Partito democratico Guglielmo Epifani ha già avuto modo di spiegare come la pensa: «Noi non accetteremo un bis del governo Monti». Già, perché questo è il rischio: che il Pd porti la croce dell’esecutivo e al momento del voto ne paghi le conseguenze.
Più ottimista il renziano Yoram Gutgeld: «Questo governo — osserva — non sta facendo niente. Nemmeno la legge di Stabilità che, diciamoci la verità, al momento non esiste, però Letta è bravissimo a galleggiare. Se ci fosse la scissione potrebbe tirarla per le lunghe meglio, è vero, ma non possiamo dimenticarci che l’otto dicembre verrà eletto il nuovo segretario del Pd: arriverà Renzi e il Partito democratico si farà sentire. Figuriamoci se Matteo gli fa fare la fine che ha fatto con il governo Monti».
Le opinioni nel Pd sono molteplici. Passeggiando lungo il Transatlantico di Montecitorio un altro esponente renziano, Angelo Rughetti, chiacchiera con un collega di partito in questi termini: «Tutto dipenderà dai numeri. Se Alfano avrà tanti parlamentari disposti ad andare con lui il governo procederà con maggiore facilità e la scissione diventerà molto più probabile. In caso contrario, non se ne andrà nessuno dal Pdl e allora per il governo vi saranno maggiori problemi». Ufficialmente il sindaco di Firenze continua a ripetere sempre le stesse frasi: «La durata del governo non dipenderà dalla scissione o meno del Pdl ma da quello che farà». E a Letta lui ha fatto sapere per l’ennesima volta che «con me segretario il governo sarà più forte, non più debole, di questo non ti devi preoccupare».
Ma in realtà è Matteo Renzi che, forse, dovrebbe preoccuparsi. Almeno stando a sentire quello che ormai Beppe Fioroni dice apertamente in Transatlantico, senza usare troppi giri di parole: «Ma non avete visto che twittando il sindaco di Firenze ha fatto una sparata sulla legge elettorale. Ci credo, ha paura. Perché sa che potrebbe esserci un sistema che renderebbe più facile ad Alfano la scissione, perché lo garantirebbe evitando il bipolarismo secco. E allora il governo andrebbe avanti almeno fino al 2015 e per il povero Renzi sarebbero guai grossi. Del resto, a Letta per primo conviene puntare su questa scissione e sulla nascita di un nuovo soggetto politico».
Ma è veramente così come dice Fioroni? Ufficialmente no, però i renziani sanno bene che una legge elettorale che consegni il Pd a percentuali intorno al 20 per cento sarebbe la fine per il loro leader. E la notizia che Enrico Letta, oggi, dovrebbe partecipare con Bersani alla presentazione del libro «Giorni Bugiardi», dei due pasdaran dell’ex segretario, Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, non è vista come un buon segnale. Infatti lì la parte del cattivo la fa Renzi: come mai il premier avrebbe deciso di presenziare alla presentazione di quel pamphlet ?

Corriere 13.11.13
De Benedetti: «Voterò il sindaco. Bisogna cambiare»
«L’inchiesta sull’amianto? Non sapevo, la responsabilità non è mia è di chi lavorò per Adriano Olivetti»
di Alan Friedman


Carlo De Benedetti si schiera e annuncia: «alle primarie del Pd voterò per Renzi». E aggiunge che vede «assolutamente» il sindaco di Firenze come futuro premier.
De Benedetti si sbilancia per la prima volta e lo fa nel corso di una lunga intervista realizzata per il libro sulla politica ed economia italiana che sto scrivendo per Rizzoli.
La sua dichiarazione su Renzi pone il padrone del gruppo l’Espresso-Repubblica in una posizione di netto dissenso con il fondatore Eugenio Scalfari, che in un editoriale uscito domenica scorsa ha annunciato che non voterà per Renzi alle primarie perché «la sua eventuale riuscita politica rappresenta un’imprevedibile avventura».
Nell’intervista che mi ha concesso nel suo studio privato di via Ciovassino, De Benedetti ha anche offerto la sua prima difesa dettagliata sull’inchiesta aperta ad Ivrea in merito alla presenza di amianto in alcuni stabilimenti della Olivetti: le officine Ico, i capannoni di San Bernardo e il comprensorio industriale di Scarmagno. Ha sostenuto che «la colpa di questi morti è dell’epoca di Adriano (Olivetti). Non di Adriano, ma degli architetti che hanno lavorato per Adriano».
Ho chiesto a De Benedetti di spiegarmi perché ha deciso di votare per Renzi.
«Innanzitutto», ha risposto, «per l’età, lo devo dire francamente. Perché io penso che sia necessario cambiare, saltare una generazione. Ormai la nostra speranza è legata a chi oggi ha meno di quarant’anni».
Nel suo endorsement al sindaco di Firenze, però, De Benedetti non solo mostra un’opinione diversa da quella di Scalfari ma ammette anche, visto che alle primarie di un anno fa aveva votato per Bersani, di aver cambiato idea.
«Ho votato per Bersani quando c’è stato Bersani-Renzi, perché non avevo ancora conosciuto abbastanza Renzi e quindi avevo una certa diffidenza. Detti addirittura un’intervista al Corriere in cui dissi, a proposito di Renzi, che di Berlusconi ne abbiamo già avuto uno. Quindi avevo un’opinione molto... non negativa, ma di una persona molto superficiale».
E oggi, ora che sostiene di conoscere meglio Matteo Renzi, qual è il suo ragionamento?
«Il mio parere su Renzi è che è una spugna», risponde De Benedetti. «Prima di tutto è un ragazzo intelligente e su questo non c’è dubbio. È estremamente quick . È reattivo ed è una spugna. Cioè, impara le cose con una velocità... ha una capacità di assorbimento formidabile». Non solo: «Poi ha una dote, che per alcuni è un difetto, per me è un pregio, e cioè l’empatia, è una persona empatica».
«Dopodiché — aggiunge il patron di Repubblica — se Bersani lo critica dicendo “Non vogliamo di nuovo un partito di un singolo individuo, i partiti personali non mi piacciono”, ma qui si tratta del modo poi con cui si organizzerà un partito, la leadership occorre! E la leadership si fa su due cose: una condizione di accesso è comunque l’empatia, e poi una condizione altrettanto necessaria sono i contenuti».
Chiedo poi all’Ingegnere se vede Renzi come futuro premier. E lui risponde fulmineo.
«Assolutamente sì. Io non credo che ci sia storia. Se domani ci fossero, quando ci saranno le elezioni, se Renzi in quel momento sarà candidato alla premiership, allora francamente non vedo nel centrodestra una persona che possa in qualche modo competere con lui».
E sul caso dell’inchiesta della Procura di Ivrea — che lo vede indagato, assieme ad altri ex manager della Olivetti compresi il fratello Franco e Corrado Passera, per venti morti sospette che si ipotizza causate dal contatto con l’asbesto — De Benedetti finora non aveva risposto che con una nota del suo portavoce in cui si sostiene la sua «totale estraneità».
Con me, De Benedetti mette le mani avanti e sottolinea come al momento non sia ancora stato interrogato da nessuno. Ma, aggiunge con consapevolezza, «lo sarò».
Poi offre questa sua difesa: «Leggendo i giornali vedo, constato che una delle cause sarebbe lo stabilimento Ico. Ico vuol dire Ingegnere C. Olivetti, che è la gloria, è stata l’emblema del successo di Adriano Olivetti con l’architettura industriale: una fabbrica totalmente di vetro, totalmente aperta». «Da un lato — osserva l’Ingegnere, che è stato presidente dell’azienda di Ivrea dal 1978 al 1996 — si definisce Adriano come una persona che aveva una visione umanistica, culturale, del lavoro e così via. E poi, voglio dire, la colpa di questi morti è dell’epoca di Adriano. Non di Adriano, ma degli architetti che hanno lavorato per Adriano».
Chiedo però se lui e Passera sapevano che c’erano problemi di amianto.
«No», replica. «La legge italiana che ha proibito l’uso dell’amianto è del ‘92. Quindi, voglio dire, prima di allora nessuno... lo usavano tutti...».
Insisto ancora, chiedendo se si era a conoscenza dei pericoli di questa sostanza che i lavoratori chiamavano «talco». E lui dice no, «non si sapeva». «Talco, sì», dice De Benedetti. «Ma, voglio dire, io non lo so se ci fosse negli stabilimenti che non ho costruito io. Io ne ho costruito uno solo di palazzo durante il periodo in cui sono stato alla Olivetti, che è il secondo palazzo uffici, e certamente quello non ha problemi».

il Fatto 13.11.13
Mi piace la gente: #matteorisponde
Dal Parmigiano sulla pasta al tonno, ai sindacati dispensa consigli e promesse
di Wanda Marra


Io non voglio diventare uno che sta a Roma a fare riunioni. Voglio stare in mezzo alla gente”. Fedele alla linea Matteo risponde. Anzi #matteorisponde, come dice l’hashtag su Twitter che introduce la diretta streaming in cui il super favorito alla segreteria Pd risponde via Twitter, alle domande dei “cittadini”, con domande simultanee in video, però. Camicetta azzurra a maniche arrotolate, swatch viola, cellulare rigorosamente davanti, eccolo qua Matteo in persona apparire sullo schermo dei Pc poco dopo le 15. Legge, gesticola, commenta, parla con “il pubblico” a casa, ma un po’ anche da solo. Scrive e mentre scrive si corregge, tutto rigorosamente ad alta voce. “Sullo spaghetto al tonno ci va una spolverata di parmigiano? ” “No. Sul pesce no parmigiano”. Gli chiedono di tutto, qualcuno gli butta là pure un “seni o fondoschiena? ”. Il protagonista legge, incassa, seleziona. Serissimo. Quasi non sembra neanche lui. Dunque, prima di tutto: “Manterrai la promessa fatta a Bari di presentare una proposta di legge elettorale entro il 20 novembre? ” “Assolutamente sì, prima delle primarie (8 dicembre). Non so se entro il 20 novembre o la settimana successiva”. E poi: “La vita del Governo è indipendente dalle polemiche PDL: si è visto un mese fa”. A un certo punto si sente in dovere di spiegare: “Le risposte su Twitter sono lente perché sul http: //www. matteo  renzi.it   rispondo a voce: seguite in video se proprio non avete di meglio da fare”.
PER SEGUIRLO, lo seguono. E lui a voce fa la reprimenda a Grillo, reo di aver detto: “Lo so, lo so che in questi mesi non abbiamo fatto niente”. Poi, l’affondo contro i sindacati. Quello a voce: “Si iscrivono più pensionati che lavoratori”. E la traduzione Twitter: “I sindacati vivono crisi di rappres. Devono cambiare se vogliono sopravvivere. Certificaz. bilanci. Modello tedesco (qui si ferma rifllette, poi sintetizza) Max autonomia”. C’è pure chi ci va giù pesante, ma evidentemente lui è nel ruolo di punto-di-riferimento-rassicurante-istituzionale.
“Perché ho scelto Berlusconi come compagno di merende? No, a questa non rispondo, l’avrà chiesto a se stessa”, A chi gli chiede perché è andato ad Arcore, e come mai B. l’ha scelto come suo fantoccio: "Ho incontrato Berlusconi quando era presidente del Consiglio. Ho fatto un accordo per la città di Firenze". Va avanti piano e sobrio come mai. Evasivo, anche. I politici trombati? “Sono ovunque. Imp è avere idee chiare”. Sembra quasi già il segretario del Pd. Qualcuno provoca: “Noioso e autoreferenziale, sorprendici rispondendo anche ai 'simpaticoni', altrimenti è la fiera della retorica”. Lui: “simpaticone”. Dopo le 16 l’immagine si dissolve. Ma il tormentone continua. “L'involtino di carne, chiamato anche Braciola in Campania, si fa con lo spago o lo stuzzicandenti? ” “Perché la Juve ruba? ”. Ma pure: “#matteorisponde? Sarà... a me non m'ha risposto na' cippa però.”

l’Unità 13.11.13
La polemica
Epifani: sul Pse una tempesta in un bicchier d’acqua


«Il Pse ha deciso di fare a Roma il suo congresso, noi sosteniamo la candidatura di Martin Schulz alla presidenza della Commissione europea, quindi è un fatto positivo. Altra cosa è la nostra presenza nel Pse». Così ieri Guglielmo Epifani, in un’intervista. «Vogliamo allargare il partito socialista europeo per favorire l’approdo di partiti come il nostro. È una polemica esagerata, una tempesta in un bicchier d’acqua. Il più grande partito italiano, che è alla guida del governo, può non contare nulla in Europa?», ha aggiunto il segretario del Pd. E anche il senatore Pd Vannino Chiti smorza il caso scoppiato dopo che qualche giorno fa Epifani aveva annunciato che «tra febbraio e marzo» i democratici avranno «l’onore di organizzare a Roma, per la prima volta, il congresso del Pse» e dopo che Giuseppe Fioroni aveva contestato l’annuncio come «un blitz pericoloso e grave, con cui viene meno l’atto fondativo del Pd» che escludeva l’adesione al Pse.
«Se c’è un punto di convergenza nel programma di tutti e quattro i candidati alle primarie per la segreteria del Pd, bene dice Chiti questo è proprio l’adesione al Pse. Se poi qualcuno immaginava un futuro differente, allora avrebbe dovuto presentarsi come candidato con una piattaforma programmatica diversa». «Francamente sottolinea Chiti non ricordo che esista nell’atto di fondazione del Pd una clausola di questo tipo, forse si confondono con l’atto di scioglimento della Margherita». Lo stesso Fioroni fa in parte retromarcia dicendo che «il congresso del Pse a Roma è un onore», ma l’importante è che «non venga meno il progetto dei democratici e non vi sia una mutazione genetica». E poi polemizza: «Se in un colpo solo si vuole aderire al Pse e fondersi con Sel, mi viene spontaneo chiedere: serviva Renzi per far risorgere la sinistra?».

il Fatto 13.11.13
Fioroni: vade retro Pse
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, vengo a sapere che l’on. Fioroni, che ha l’onore di rappresentare tutti gli ex democristiani nel Pd, pone il veto al congresso del Pse a Roma. Forse potrebbe darci l’elenco di quali altri congressi e convegni politici secondo lui sono vietati o permessi a Roma.
Vittorio

L’ALTOLÀ di Fioroni all’idea di ospitare a Roma (o comunque in Italia) il congresso del Partito socialista europeo è strano, certamente improprio e con qualche venatura di ridicolo, perché tutti sanno che Fioroni non ha alcuna autorità per lo stravagante “non possumus” che intende imporre. È come se un cittadino esigesse il trasferimento della stazione Termini perché non gli piace il rumore dei treni. Ovvero Fioroni interferisce su una grande realtà politica collettiva, dando addirittura una diffida, da cittadino privato. Infatti risulta che Fioroni ha cariche di partito e conta molto in un partito italiano, il Pd. Risulta che quel partito è nato, in origine, dal confluire di diverse componenti, provenienti da diverse strade. Ma non risulta che, dentro il Pd vi siano cariche rosse e cariche bianche, ovvero che l’impronta d’origine, a parte il carattere della persona, segni il nuovo partito costituito insieme ad altri, per essere non una federazione ma un ente nuovo con una sola faccia. So benissimo che sto dicendo cose che, purtroppo per il Pd, non sono vere. Però sto tentando di difendere una immagine plausibile e logica di quel partito. Impressiona particolarmente il fatto che non solo Fioroni non voglia sentir parlare di Pse quando va in Europa (e si aggrega invece altrove con altri cristiani prudenti, per non sfiorare gente anche vagamente di sinistra). Ma in Italia Fioroni pretende di più. Pretende che i socialisti di altri Paesi non mettano piede e non si sognino di discutere di politica mentre lui è nei pressi. A quanto pare il vecchio Berlusconi, ai suoi tempi, la sapeva lunga: l’accusa di comunismo come male da scansare sempre, e da sopprimere subito quando è possibile, con lui, come con tantissimi altri, ha funzionato. Dunque Fioroni pensa ancora che, da Bersani a Cuperlo, “quelli sono pericolosi”. Come Verdini e Santanchè. Ottimo materiale per le “grandi intese”, nella primitiva versione “Forza Italia”.

il Fatto 13.11.13
Diluvio di dati notizie (o quasi) e giornali
Istruzioni per sopravvivere alla manovra
Bozze, decreti, proposte di modifica, statistiche, simulazioni:
tutto è provvisorio, nonostante i titoloni che terrorizzano i lettori
di Stefano Feltri


Avete capito cos’è la Tuc, il Tributo unico comunale? E se esiste davvero? Ve la sentireste di scommettere su quale sarà la vostra aliquota Irpef il prossimo anno? Avete la sensazione che le tasse sulla vostra prima casa siano aumentate o diminuite rispetto a quando c’era l’Imu? Se la vostra risposta è diversa da “non ne ho la minima idea”, significa che in questi giorni avete letto con poca attenzione i giornali. Il momento della sessione di bilancio è da sempre quello della massima incertezza, degli emendamenti notturni, degli assalti a diligenze sempre più povere, delle sorprese nei codicilli. Ma da quando la politica economica si è spalmata sull’intero anno (a Bruxelles hanno fatto appositi regolamenti), l’incertezza è diventata permanente, alimentata da giornali che invece vorrebbero chiarire cosa sta succedendo con box, infografiche, torte, diagrammi, simulazioni, dosando informazioni di servizio (“Calcola la tua aliquota”) e titoli ad effetto (“Casa, cambia tutto”). Come notava ieri Dario Di Vico sul Corriere della Sera, le statistiche peggiorano la situazione: dalla Cgia di Mestra a Confcommercio a Coldiretti, a Unimpresa, a Confindustria, il diluvio quotidiano di numeri finisce per sommergere il lettore (e il giornalista) di percentuali che vengono riportare con pavloviana diligenza ma di cui si perde ogni contenuto informativo. E delle quali diventa spesso arduo, o impossibile, verificare l’accuratezza scientifica.
Difficile uscire da questa perversa versione economica del fenomeno Big Data, troppi input che diventano soltanto rumore di fondo e complicano le decisioni invece di agevolarle. L’unico modo sarebbe introdurre un disclaimer prima di ogni articolo di politica economica, come in certi siti Internet pericolosi: “Caro lettore, ricordati che tutto quello che leggerai è provvisorio. Che la prima bozza di un provvedimento viene fatta circolare solo per vedere l’effetcon le tabelle e i numeri veri. Ma non ti accontentare, perché un decreto poi deve essere convertito, con una legge che passa in entrambi i rami del Parlamento dove viene sommersa di emendamenti, di cui soltanto una piccola parte sarà approvata. Ma non prima di aver generato allarmati titoloni sui giornali che a loro volta innescano fiammate di polemica politica, brevi ma sufficienti a tenere in vita il tema qualche ora in più, ottime per riempire i tg dei weekend. Infine, lettore, sappi che quando la legge che stai cercando di seguire sarà approvata, altre hanno già iniziato il loro iter per intervenire di nuovo sulle stesse materie. E tutto ricomincia”.
Fatta questa avvertenza, che riduce il (dubbio) fascino delle guerriglie contabili in commissione Finanze, se la consapevolezza non vi ha scoraggiato, potere tornare a interrogarvi su cosa sia la Tuc. Ma senza troppe angosce.

il Fatto 13.11.13
Pensioni
Troppo facile giocare con i numeri
di Salvatore Cannavò


NON SI ERA mai vista una difesa tanto tenace delle pensioni da quando a rischiare sono quelle intorno ai 3.000 euro. Aveva cominciato il Corriere della Sera a menare scandalo per la misura del governo che mantiene, sia pure parzialmente, la de-indicizzazione degli aumenti tra i 1.500 e i 3.000 euro al mese. Diversi articoli che, al tempo della riforma Fornero, quando la riforma riguardò l’intera platea dei lavoratori pensionandi, non si erano visti. Anzi, allora c’era la gara per spronare il ministro a fare di più e meglio. Ieri, il quotidiano Libero, ha dato un ulteriore assaggio di questa campagna sofistica con un titolo facile facile : “Una pensione su due è regalata (da noi)”. Il gioco ruota attorno al sempiterno equivoco tra spesa previdenziale e spesa assistenziale. Libero, infatti, ha sommato i pensionati che usufruiscono di assegni senza aver versato contributi: quelli con integrazione al minimo (6,9 milioni), con gli assegni sociali (830 mila), i pensionati di guerra (300 mila) e gli invalidi (2,8 milioni). Deduzione: “Il 46 per cento dei pensionati Inps non ha pagato contributi né tasse”, basandosi su un numero complessivo di assegni di 23 milioni (che nel 2012 però è di 21 milioni). Se sul numero dei pensionati la percentuale è corretta, sull’ammontare della spesa no. La somma per quelle voci, infatti, ammonta a 32 miliardi su una spesa complessiva, nel 2012, di 249 miliardi. Il fatto è che, come spesso capita, si somma la spesa previdenziale, quella che serve direttamente a coprire le posizioni contributive, con quella “assistenziale” che copre altre voci. Il problema è che questa distinzione non è chiara nemmeno da parte delle istituzioni preposte, compresa l’Inps. Oltre alle voci sopra indicate ci sono quelle che vengono contabilizzate nel suo enorme bilancio: l’assistenza al reddito (cassa integrazione, disoccupazione) per 22,7 miliardi, la spesa socio-assistenziale (malattia, maternità, etc.) per 10,4 miliardi e altre spese ancora. Di tutto questo, la fiscalità generale si fa già carico visto che, nel 2012, i trasferimenti statali all’Istituto hanno superato i 94 miliardi. Una cifra cospicua, frutto anche della fusione avvenuta con l’Inpdap che ha portato nell’Istituto un disavanzo di circa 9 miliardi. Ma cosa deve essere imputato alla fiscalità e cosa ai contributi realmente versati dai lavoratori, è materia per tecnici molto ferrati. Una bella operazione di trasparenza sarebbe invece molto utile per impostare un discorso pubblico più efficace. Senza allarmismi, spesso giustificati solo dall’intenzione di fare cassa nel modo più rapido e indolore possibile.

il Fatto 13.11.13
Oltraggio al Fondatore
Comprate Scalfari, ma con lo sconto


L’amore, la sfida, il destino. Sulla prima pagina di Repubblica non poteva certo mancare la pubblicità dell’ultima fatica di Eugenio Scalfari, edita da Einaudi.
In bella mostra, all’angolo della foto che riproduce la copertina, però c’è un numero: -25%. Ovvero, la proposta di sconto.
Oltraggio al fondatore! Ma come, il quotidiano propone l’acquisto del libro solo a un prezzo quasi stracciato? Sta forse suggerendo che “le domande di un laico alla ricerca del senso della vita” non meritano il prezzo pieno? (Per la cronaca 17 euro e mezzo) Eppure, l’opera è praticamente appena uscita. Ma evidentemente anche i grandi padri al giorno d’oggi finiscono al discount.

il Fatto 13.11.13
Nel sistema liberista la libertà è illusoria
di Gianni Tirelli


È per me umanamente inspiegabile il fatto che miliardi di persone rese schiave e asservite in toto alle logiche del sistema liberista nutrano ancora la convinzione di ritenersi libere. Siamo a tal punto dipendenti e assuefatti alle perversioni che il sistema bestia ci spaccia come libertà e diritti, che il solo pensiero di crederci liberi, è un mero esercizio di illusionismo. Siamo stati privati di quella autonomia che un tempo traduceva i comportamenti umani in elementi di diversità, creatività e ispirazione e che oggi si sono tradotti in omologazione e schiavitù! Libero è quel-l’uomo capace di scrollarsi di dosso ogni potere, oppressione e imposizione, in grado di decidere della propria vita e morte, sulla spinta propulsiva della sua forza di volontà e passione. Oggi non siamo che numeri spenti e se non cominciamo ad addizionare, sottrarre, dividere e moltiplicare, presto saremo il nulla.

La Stampa 13.11.13
A trentacinque anni dalla legge gli aborti sono più che dimezzati
In nessun altro Paese le minorenni restano incinte così poco
Due ginecologi su tre obiettori di coscienza, al Sud punte del 90 per cento
Il ricorso alla pillola Ru 486 è ancora molto minoritario, ma aumenta rapidamente: 3836 interventi il primo anno, più del doppio nel 2011
di Mariella Gramaglia


DIFFERENZE CULTURALI Il tasso di ricorso all’intervento si riduce nelle classi più istruite
IL MEDICO «Non ho mai visto una ragazza abbandonata da genitori e fidanzato»
GLI IMMIGRATI Per anni si è temuto un aumento esponenziale ma la situazione è stabile
LA FAMIGLIA Il suo ruolo non è stato sminuito dalle norme laiche come si temeva

Ha trentacinque anni. Quasi metà di una vita. Odiata, amata, combattuta, difesa, la legge 194 per l’interruzione di gravidanza, nella forma, è rimasta uguale a se stessa, ma nella sostanza? Dall’anno del rapimento di Aldo Moro e dell’elezione di Sandro Pertini al Quirinale a quello di Beppe Grillo e delle larghe intese, che tipo di acqua è passata sotto i ponti?
Le donne italiane studiano di più, hanno una vita sociale e lavorativa più intensa e meno falsi pudori: da ragazze è facile che chiedano consiglio alla madre, da adulte al medico o all’amica più saggia. Un dato per tutti per dire quanto l’istruzione sia importante per usare bene la contraccezione e prevenire una gravidanza indesiderata: il tasso di abortività fra le laureate è del 6 per mille, fra le donne che hanno solo la licenza elementare del 20 per mille.
Ma guardiamo più da vicino i numeri che compongono l’affresco generale.
Prima di tutto si abortisce molto di meno. Nel 2012 abbiamo raggiunto il minimo storico: 105.968 interruzioni, meno 4,9% rispetto al 2011, meno 54,9% rispetto al lontano inizio. E in nessun Paese le minorenni restano incinte così poco.
In secondo luogo, dunque, la famiglia, anche in questo caso, tiene stretti i suoi legami e non viene disgregata dalla maggiore laicità della cultura corrente. Abbiamo il tasso di abortività fra le minorenni più basso del mondo sviluppato (4,5 per mille) e, cosa ancor più straordinaria, la grande maggioranza arriva in ospedale con il consenso dei genitori, senza passare per il giudice tutelare. Più spesso in Sicilia e in Sardegna (83,6 per cento)
che nel profondo Nord (Valle d’Aosta: 62,5). «Mai visto una ragazzina abbandonata a se stessa – dice un medico napoletano – se non ci sono i genitori, se non c’è il fidanzatino, almeno una zia non manca mai». Prendiamo il campione fino a 20 anni di età: la comparazione internazionale parla da sola. In Italia 6,4 per mille giovanissime donne interrompono la gravidanza, in Spagna 13,7, in Francia 15,2, in Usa 19,8, in Svezia 19,8.
Se non contassimo le immigrate, che pesano circa per il 30 per cento, il decremento sarebbe ancora più rilevante. Ma, oltre a essere più disagiate e meno informate, sono anche mediamente assai più giovani delle italiane. La crisi dell’Est e l’apertura delle
frontiere cinesi, Paesi disabituati alla contraccezione, hanno avuto la loro parte. Per alcuni anni si è temuto un incremento esponenziale (8967 interruzioni nel 1995, 37.489 nel 2011) ma oggi gli stili di vita sono più omogenei ai nostri e, da un paio d’anni, la cifra si è stabilizzata intorno a quella del 2011, circa 40.000 interventi per le donne immigrate nel nostro Paese. Più meno che più.
Tutto bene, dunque? No. Lasciando per un momento da parte chi ritiene che ogni singola interruzione sia un ferita etica, restiamo alle questioni pratiche.
L’obiezione di coscienza è ormai un fiume in piena, anche se l’aborto farmacologico (Ru 486) sta scompaginano le carte. Si sottraggono all’applicazione della legge, comunque, più di due ginecologi su tre. Nel Sud si arriva a percentuali da boicottaggio, quasi il 90 per cento. L’anno nero, quello in cui l’obiezione aumenta più di dieci punti è il 2005. Perché?
In parte va in pensione la generazione dei medici dell’epopea, quella che ha affiancato il movimento femminista, che ha vissuto lo sdegno contro l’aborto clandestino. Mario Campogrande, primario stimatissimo del Sant’Anna di Torino, che ha creato attraverso colleghi e allievi, la via Subalpina alla 194, gentile, attenta alle pazienti, ma anche barricadiera quando ne vale la pena (come nel caso della sperimentazione dell’Ru486 da parte del dottor Silvio Viale) ricorda con nostalgia gli anni lontani: «Io presi posizione fin dal tempo della preparazione della legge: partecipavo a incontri con le donne, dibattiti, giravo l’Italia».
«Se ho pagato questa scelta? Onestamente no, mai. Io sono stato fortunato perché nel 1978 ero già aiuto. Partecipai al concorso da primario a Cuneo, non una città facile. Tutti sapevano che non ero obiettore, ma vinsi il concorso senza problemi e poco dopo divenni primario al Sant’Anna. Oggi sono presidente nazionale dell’associazione ostetrici e ginecologi. Sono soddisfatto della mia carriera, ma mi manca l’entusiasmo e la determinazione delle donne di allora. I medici giovani sono molto soli».
Tuttavia il 2005 è anche l’«annus horribilis» della cultura laica, quello in cui regnante Silvio Berlusconi e officiante il Cardinal Camillo Ruini, sinistre e radicali perdono il referendum contro la legge 40 sulla fecondazione assistita, che vieta la diagnosi pre-impianto e la fecondazione fuori dal matrimonio. Insomma rovescia l’intera filosofia della 194 (in proposito: Ritanna Armeni, La colpa delle donne. Ponte alle Grazie. 2006). Forse parve a molti medici un cambio di egemonia senza ritorno.
Ma nulla è mai lineare. Il 30 luglio 2009 il Consiglio d’amministrazione dell’Agenzia italiana del farmaco esprime parere favorevole all’uso dell’aborto medico (Ru 486). «A condizione di praticare un’ipocrisia: mi spiega Michele Grandolfo, epidemiologo e dirigente di ricerca all’Istituto superiore di sanità – le donne infatti dovrebbero restare ricoverate due giorni, ma il 90 per cento firma e si assume la responsabilità di uscire. Il medico non le trattiene, però questo giochino costa. Infatti – aggiunge – bisogna predisporre un piccolo reparto dedicato alla Ru 486».
Il ricorso a questo metodo, praticabile solo fino all’ottava settimana, è ancora molto minoritario, ma aumenta rapidamente: 3836 interventi il primo anno, più del doppio nel 2011.
Secondo Grandolfo è la speranza del futuro: gli aborti sarebbero più precoci e quindi meno traumatici per la donna e per il medico e il peso sulla struttura sanitaria più leggero.
Ma l’epidemiologo, benché il suo mestiere siano i numeri, ci tiene ad aggiungere altro. «Io vorrei che si ricordasse sempre l’importanza della legge sui consultori (29 luglio 1975): doveva esserci un consultorio ogni 20.000 abitanti, in realtà, tranne in Piemonte (e anche lì a organici ridotti), la legge non è mai stata attuata; i consultori sono in media uno ogni 100.000 abitanti». Per Grandolfo quello che conta è «l’empowerment» delle donne: «Bisogna avere fiducia nell’autodeterminazione. Le donne sono soggetti forti, vanno favorite le loro competenze». Non sopporta, per esempio, che si dica comunemente che il medico «certifica» o «autorizza» l’interruzione di gravidanza. E’ la donna che sceglie, il medico si limita ad «attestare».
Intanto si vive in un limbo tra civiltà e arretratezza. Le liste d’attesa esistono: non di rado superano i 15 giorni e talvolta i 22. Gli aborti clandestini vengono stimati fra i 10.000 e i 15.000, di cui il 90 per cento al Sud. Qualche mese fa montò un’ansia collettiva anche nei mezzi d’informazione: aumentavano gli aborti spontanei e tutti pensarono a un ritorno delle mammane e dei loro interventi cruenti. In
realtà i medici più seri spiegano che è assai aumentata l’età delle donne che tentano una gravidanza e quindi il rischio di aborto sale. Una questione che ha a che fare anche con l’aborto terapeutico, come vedremo.
(1. Continua)

Corriere 13.11.13
La colpevole assenza dei padri diventati incapaci di educare
di Matteo Lancini

Docente Facoltà di Psicologia Milano-Bicocca

I comportamenti delle adolescenti di Roma testimoniano in maniera evidente la «grande assenza» paterna. I dialoghi tra madre e figlia spingono a chiedersi dove fosse il padre, che funzione genitoriale svolgesse e perché non intervenisse. La crisi dell’autorità paterna, ormai sancita da decenni, apre importanti questioni. La ricontrattazione familiare ha avuto come esito una ridefinizione della figura materna, divenuta «acrobata» proprio per la straordinaria capacità di integrare funzioni tradizionali con più moderne competenze educative e professionali. Se possibile, per il padre la questione è più complessa. Da quando la crescita del bambino non avviene sotto la regia del modello educativo della colpa e della punizione somministrata per limitare il figlio nell’espressione di sé, il padre è alla ricerca di una nuova identità di ruolo.
I papà talvolta si commuovono nell’incontro precoce con il figlio, prima davanti all’ecografia e dopo in sala parto. Si inginocchiano ad altezza di bambino per adorarlo e per giocare, lo adagiano nella carrozzina o nel seggiolino della bicicletta per una passeggiata metropolitana che dona felicità al loro spirito e sollievo a quello della madre affaticata. L’arrivo dell’epoca della funzione paterna per eccellenza, l’adolescenza, fa tuttavia risuonare il pesante rimbombo dell’assenza dallo scenario educativo. È in questa fase soprattutto che il padre diviene disertore, pallido, debole, marginale, infantile, adolescente a sua volta.
Cosa è successo? La famiglia ha saputo riadattarsi molto bene al nuovo sistema educativo dell’amore verso i figli bambini, meno bene verso i figli adolescenti. L’ambivalenza e la complessità adolescenziale rendono più difficile il percorso di rivisitazione del modo di guardare alle nuove generazioni.
L’adolescenza come seconda nascita spinge i genitori a ricominciare da zero, ma non si può. Improvvisamente viene rispolverato dai padri, a volte su mandato materno, il modello educativo della propria infanzia, fino ad ora contrastato e rifiutato. L’autoritarismo e la punizione vengono promossi come strumenti privilegiati per limitare i comportamenti dei figli. Si tratta di scorciatoie educative inefficaci. Regolamentare in adolescenza bambini precedentemente adorati, sollecitati ad essere espressivi e di successo risulta impossibile. A questo punto il padre perde gli unici riferimenti in suo possesso, stordito dalla confusione di ruolo e dai continui richiami sulla necessità di porre dei limiti, rischia il ritiro, l’abbandono delle scene, proprio quando dovrebbe costituirsi come risorsa fondamentale a sostegno del dolore e della gioia della crescita.
Altre volte, purtroppo, ricorre alla violenza, e allora ci pensa l’adolescente ad eliminarlo definitivamente dalla scena educativa. Altre volte, ancora, i padri non sono mai stati presenti nella mente dei figli e quindi risulta del tutto inefficace una loro improvvisa comparsata educativa in adolescenza. Non sappiamo abbastanza della relazione intrattenuta dai padri con le figlie al centro dei fatti di cronaca di questi giorni. Sappiamo però delle possibili difficoltà che un padre incontra nell’integrare dentro di sé l’immagine femminile della bambina divenuta adolescente, soprattutto quando questa trasformazione è precoce, esibita ed agita nella società dell’immagine e del successo a tutti i costi.
In ogni caso, è fondamentale scongiurare la paralisi del ruolo paterno di fronte ai compiti di sviluppo e alle sperimentazioni dei figli adolescenti. La delega esclusiva della gestione educativa al ruolo materno può talvolta rivelarsi densa di rischi per la crescita dei figli, così come l’angosciante vicenda di Roma sembra testimoniare. I nuovi modelli educativi hanno contribuito a migliorare la relazione tra padri e figli, tuttavia non hanno saputo ancora offrire un chiaro modello di gestione di ruolo nel corso dell’adolescenza e delle sue inevitabili crisi. Il sostegno ai genitori dei nuovi adolescenti potrebbe partire dai corsi pre-parto per meglio valorizzare la funzione paterna, fin dalle origini, non solo nell’ottica di una capacità contenitiva della fatica e dell’angoscia gestazionale e post-parto materna. Potrebbe, ad esempio, essere interessante informare i genitori che il giudizio della madre è un fattore importante nell’orientare la valutazione del figlio o della figlia nei riguardi del proprio padre e che, più che in passato, l’autorità paterna dipende anche dalla presentazione effettuata dalla madre durante la crescita dei figli.

Corriere 13.11.13
Assolto il prof negazionista
Disse: «Shoah non è provata». Per i giudici il fatto non sussiste
di Giulio De Santis Fulvio Fiano


ROMA — Era il novembre del 2008 quando il professore Roberto Valvo, insegnante di Storia dell’arte al liceo artistico di via di Ripetta, venne denunciato dal padre di una studentessa della IV C, dopo che la figlia gli aveva raccontato a casa quanto successo in classe pochi giorni prima a proposito del suo cognome di origine ebraica: «Il professore dopo aver affermato che bisogna stare attenti agli ebrei perché sono furbi, intendendo disonesti, ha detto che secondo lui non erano veri i fatti dell’Olocausto e dei campi di concentramento e che i filmati sulle deportazioni erano falsi fatti anni dopo e non nel periodo storico originario. Ha messo in discussione il numero dei morti, dicendo che i sei milioni non erano sicuri, che la stima era errata. E che durante la guerra tutti erano magri, non solo chi era nei campi di concentramento».
Bufera, sospensione del prof e processo. Che ieri si è concluso con un’assoluzione «perché il fatto non sussiste». Il pm Perla Lori aveva chiesto una condanna a cinque mesi di carcere in base alla legge Mancino: discriminazione o odio etnico, nazionale, razziale o religioso.
«È stato affermato un importante principio sulla libertà di opinione», commenta l’avvocato Giuseppe Pisauro, difensore dell’insegnante. Ma in attesa delle motivazioni della sentenza, va valutata anche la possibilità che a pesare sia stata la mancanza nel codice penale di una specifica norma sul negazionismo.
«Sono amato, rispettato. Non sono un reo che debba chiedere di andarsene. Le ragioni della denuncia? Subcultura, ignoranza», aveva commentato Valvo al momento di essere reintegrato, cinque mesi dopo i fatti. Con altre parole aveva ripetuto gli stessi concetti in un consiglio di classe nel quale votò contro il viaggio d’istruzione ad Auschwitz: «I ragazzi devono pensare con la loro testa», spiegò.
E in un’altra aula — stavolta della Cassazione — il pg ha chiesto che l’Italia riconosca l’immunità alla Germania per tutti i crimini commessi contro cittadini militari e civili italiani durante il nazismo e rinunci a citare in giudizio la Repubblica federale tedesca per chiederle il risarcimento dei danni patiti dalle vittime come sancito dalla Corte internazionale dell’Aja. La decisione entro un mese. A dibattimento c’era il ricorso della Germania contro la sentenza con la quale la Corte di appello di Firenze, nel 2011, l’ha condannata a risarcire con 30 mila euro più interessi a partire dal 1945 un ex deportato italiano morto un anno fa a 87 anni.

Repubblica 13.11.13
La foto ritoccata della piccola Alua “Falso il documento per l’espulsione”
Shalabayeva, perizia accusa: “Copiata dal passaporto in mano alla Polizia”
di Fabio Tonacci


C’È UNA fotografia di una bambina di sei anni – ritoccata goffamente con Photoshop per fabbricare un documento falso – a testimoniare quanto sia stata decisiva la “mano” italiana nella deportazione di Alma Shalabayeva e della piccola Alua, moglie e figlia del dissidente kazako Ablyazov. E con quanta fretta, tra il 28 e il 31 maggio, sono stati calpestatidiritti umani e procedure.
PERCHÉ una perizia, depositata in procura, tutto questo racconta, riaprendo con prepotenza il caso.
Bisogna tornare al 31 maggio per riannodare qualche filo. Quella mattina le cose si mettono subito bene per i diplomatici kazaki che stanno gestendo la partita. Intorno alle 11 il giudice di pace Stefania Lavore, dopo aver valutato i documenti in suo possesso, convalida il trattenimento di Alma nel Cie di Ponte Galeria, primo passo per la successiva espulsione. «È stata ingannata dalla Polizia», dirà poi nella sua relazione l’ispettore mandato dal ministero della Giustizia, Mario Bresciano, presidente del Tribunale di Roma. «Il passaporto kazako della donna, che la Questura aveva avuto già il 30 maggio e che ne avrebbe consentito l’allontanamento volontario, non è stato consegnato in tempo per l’udienza».
Però, per riportare la mogliedi Ablyazov ad Astana e consegnarla nelle mani del dittatore Nazarbayev, manca ancora un’ultima carta: un documento che attesti l’identità della figlia. «Non è un dettaglio — spiegano i legali della famigliadel dissidente — senza quello, Alua per legge non poteva essere rimpatriata. E senza di lei, Alma sarebbe rimasta in Italia». Nessun funzionario di polizia, nemmeno il più zelante, può separare madre e figlia inun procedimento di espulsione.
Per l’ambasciatore Andrian Yemelessov, che in quei giorni è di casa al Dipartimento di Pubblica Sicurezza, è un problema: l’intera operazione può andare a monte. Negli archivi del ministero kazako infatti Alua non risulta, non c’è, perché è nata a Londra.
Succede qualcosa, e dopo poche ore, i funzionari della Questura di Roma si ritrovano sul tavolo un documento spuntato dal nulla: il certificato di ritorno numero 0007492, intestato ad Alua Ablyazova «cittadina della Repubblica del Kazakhstan», valido solo per un giorno, fino al primo giugno. Con tanto di foto a colori della bambina e timbro kazako. Ora c’è tutto. Con quello, Alua può essere espulsa. E con lei la madre, che a quel punto — siamo a ridosso del volo già programmato da Ciampino — non può fare più niente.
Ma la mano dei “nostri” ha lasciato delle tracce, in quel certificato. Che già a una prima occhiata doveva far sollevare qualche sopracciglio: attesta falsamente (nella parte tradotta in inglese) che Alua è nata in Italia il 7 febbraio 2007. Ma è la foto a parlare, molto di più. Perché — stando alla perizia che il legale Astolfo di Amato, difensore di Madina, una delle figlie di Ablyazov, ha commissionato a un esperto di grafica — è copiata, con uno scanner, direttamente dal passaporto centrafricano di Alma Shalabayeva, nelle cui pagine finali c’era la foto della figlia Alua. Proprio il passaporto trovato la sera del blitz nella villa di Casal Palocco, custodito dalla polizia e messo sotto sequestro.Chi lo ha dato ai kazaki? E perché?
Scrive il perito, Fabio Pisterzi: «Le foto di Alua sui due documenti derivano dallo stesso scatto. Quella sul certificato di ritorno però è ritoccata: una parte del colore della pelle appare uniforme in modo anomalo sotto il mento. Un effetto del genere può essere effetto di un’operazione di “cleaning”con Photoshop. Si nota che la zona ritoccata è esattamente quella in cui c’era il timbro nel passaporto centrafricano». La foto, dunque, è manipolata. In modo frettoloso, con un lavoro che non deve essere durato più di un paio d’ore.
«Si tratta di un elemento d’indagine assai rilevante che abbiamo sottoposto alla procura», commenta D’Amato. Il quale non si spinge a ipotizzare responsabilità individuali, ma butta lì un’osservazione meno banale di quanto possa sembrare: «Soltanto la Questura, in quei giorni, aveva a disposizione il passaporto centrafricano di Alma, su cui c’era la foto di Alua, usata poi sull’altro documento». Come è finito nelle mani dei diplomatici kazaki? Chi ha consentito una così macroscopica violazione dei diritti di unabambina di sei anni?

Corriere 13.11.13
La pesantezza delle nazioni
Martinelli: la cittadinanza europea antidoto al populismo
di Antonio Carioti


Se un tempo per l’Europa si aggirava il fantasma del comunismo, evocato da Karl Marx e Friedrich Engels, oggi lo spettro che turba i sonni della classe dirigente è piuttosto quello del populismo. Si tratta di una minaccia per il processo d’integrazione europea — scrive il politologo Alberto Martinelli nel suo nuovo saggio — dal volto «multiforme e variabile», che non risulta affatto «facile da definire».
Per la verità gli studi sull’argomento non mancano: dal classico Populismo e democrazia di Yves Mény e Yves Surel (Il Mulino), al lavoro di Marco Tarchi L’Italia populista (Il Mulino), dedicato alla situazione attuale del nostro Paese, fino al recentissimo Il populismo di Loris Zanatta (Carocci, pp. 166, e 14), che collega invece il fenomeno a un’«antica visione del mondo». Senza dimenticare i libri riguardanti singoli movimenti, quali il pamphlet Clic. Grillo, Casaleggio e la demagogia elettronica (Cronopio, pp. 146, e 12) pubblicato in questi giorni da Alessandro Dal Lago. Ma il libro di Martinelli, come suggerisce il titolo stesso Mal di nazione. Contro la deriva populista (Università Bocconi Editore), si distingue per la stretta connessione che individua tra i movimenti antieuropei e la radicata permanenza delle identità nazionali nell’Unione. Un legame che generalmente in Italia non è stato enfatizzato perché da noi appare più tenue che altrove, per la vocazione localista della Lega e per le forti venature cosmopolite della partecipazione digitale vagheggiata da Beppe Grillo.
Martinelli invece insiste sul ruolo dello Stato nazionale, da lui definito «la principale innovazione istituzionale della società europea moderna, accanto al capitalismo di mercato e all’università di ricerca». Si tratta di un prodotto relativamente recente, perché connesso «alla formazione dell’economia industriale, della società di massa, e all’espansione della comunicazione culturale». Non siamo insomma di fronte a un ferrovecchio in disuso: la retorica patriottica può sembrare bolsa e antiquata, ma la politica, l’identità, il rapporto tra cittadino e istituzioni continuano ad avere una dimensione nazionale di gran lunga prevalente.
Martinelli è un convinto fautore dell’integrazione europea, boccia l’idea di restituire quote di sovranità ai Paesi membri dell’Ue. Ma riconosce che il populismo fa leva su contraddizioni reali, rese stridenti dall’effetto della crisi finanziaria globale sull’euro. Chi geme sotto i colpi della recessione, vive come un grave sopruso il fatto che decisioni destinate a incidere pesantemente sul proprio tenore di vita vengano assunte da organismi privi di legittimazione democratica, espressione dell’algida tecnocrazia di Francoforte e Bruxelles.
In effetti, ammette l’autore, è già un’operazione acrobatica «costruire una unione sopranazionale usando gli Stati nazionali come elementi costitutivi». Ma diventa ancora più difficile nel momento in cui alla cessione di sovranità verso il livello europeo, fortemente accelerata dalla nascita della moneta unica, non corrisponde affatto un paragonabile «trasferimento d’impegno e lealtà» delle persone appartenenti ai singoli Paesi verso le istituzioni comunitarie. Senza una vera cittadinanza europea, il populismo ha la strada spianata.
Martinelli chiede quindi d’investire nella creazione di una nuova identità, intensificando gli scambi culturali, omogeneizzando i percorsi formativi, attribuendo consistenza politica alla dimensione europea. Auspica per tutti i giovani tre mesi di servizio civile obbligatorio in un Paese dell’Unione Europea diverso da quello di nascita, ipotizza referendum di portata continentale «sulle questioni più importanti dell’agenda politica», invoca l’armonizzazione fiscale, «l’emissione di eurobond» e anche «l’elezione diretta dei leader del governo europeo».
Proposte molto radicali, temperate però con il suggerimento di prendere atto che non tutti gli Stati membri sono disposti a incamminarsi su questa via. Si tratterebbe allora di procedere, secondo Martinelli, «verso un assetto a geometria variabile», in cui i Paesi dell’euro realizzerebbero «un federalismo innovativo», mentre gli altri (tipo la Gran Bretagna) rimarrebbero loro partner in «una più ampia associazione di libero scambio», in cui potrebbero più facilmente entrare nuovi Stati come la Turchia.
Ciò comporta però una riforma profonda delle istituzioni comunitarie, con la costruzione di un’architettura assai complicata. Che rapporto avrebbero i Paesi esterni all’euro con gli organi di governo dell’Unione? In che misura contribuirebbero al bilancio? Parteciperebbero all’elezione di un vertice comunitario legittimato democraticamente, oppure uscirebbero anche dal Parlamento di Strasburgo? Martinelli non entra in questi dettagli, ma ammette le difficoltà del percorso da lui tracciato. È ovvio infatti che esso andrebbe definito attraverso negoziati complessi e presumibilmente molto lunghi. Mentre l’ondata del populismo antieuropeo bussa alla porta adesso.

l’Unità 13.11.13
L’alleanza anti-Europa. Populisti di tutta Europa uniti
LePen, la marcia populista
Oggi il via al «partito» nazionalista. E il Front National corteggia Grillo
di Paolo Soldini


Nasce la Grande Alleanza dei populisti antieuropei. Una formazione sovranazionale xenofoba, anti-islamica, nazionalista che si prepara a chiedere il ritorno alle sovranità dei singoli stati dell’Unione europea e l’abolizione dell’euro. I promotori sono Marine Le Pen e Geert Wilders, l’esponente del sedicente Partito per la Libertà (Pvv) olandese che ha appoggiato, per breve tempo, il governo di centrodestra nei Paesi Bassi sconfitto qualche mese fa proprio per la sua deriva estremistica.
L’obiettivo dichiarato dei due è di costituire il nucleo di un grande gruppo antieuropeo che, sotto il nome (provvisorio) di «Alleanza europea per la libertà» (Eaf) dovrebbe raccogliere tutti i partiti e i movimenti di quella ispirazione nel Parlamento europeo che verrà eletto nel maggio dell’anno prossimo.
ATTRAZIONE A DESTRA
La presidente del Front National, Marine Le Pen, e il capo del Pvv presenteranno il loro progetto questo pomeriggio, e hanno scelto una rispettabile sede istituzionale: la sala stampa del Parlamento olandese all’Aja. L’iniziativa sta sollevando molto rumore nei Paesi Bassi, anche perché alla convocazione delle due star del populismo avrebbero risposto esponenti politici da tutta Europa, fra gli altri i capi del Partito democratico svedese, il belga Filip Dewinter del partito indipendentista Vlaams Belang, Heinz-Christian Strache, capo della Fpö austriaca.
La portavoce della tedesca «Alternative für Deutschland» ha fatto sapere che, pur invitato, il partito non sarà rappresentato oggi all’Aja, ma nel futuro parlamento europeo esponenti di AfD con ogni probabilità ci saranno, visto e considerato che la soglia minima per eleggere parlamentari europei in Germania è del 3 per cento, ben più abbordabile del 5% mancato per poco dagli «alternativi» alle recenti elezioni federali tedesche.
Anche il britannico Nigel Farage, per il momento, terrebbe fuori dalla partita il suo Partito indipendentista Ukip. Ma Le Pen e Wilders contano sul fatto che al loro gruppo finiranno per aderire tutte le formazioni che rifiutano l’euro.
UN OCCHIO AI CINQUE STELLE
E l’Italia? All’incontro di oggi sarebbero stati invitati anche rappresentanti della Lega Nord italiana, ma non è stato dato sapere chi verrà a rappresentarla. Ma i capi in pectore della Grande Alleanza per quanto riguarda il nostro paese mirano anche ad altro. Nei giorni scorsi si è parlato insistentemente di «contatti» che sarebbero intercorsi tra Marine Le Pen e Beppe Grillo e lei stessa ha confessato di considerare con «interesse» il movimento italiano Cinque Stelle. Inoltre Grillo, qualche mese fa, non si è fatto scrupolo di mostrare le proprie simpatie per Nigel Farage e per le sue «coraggiose» posizioni sull’euro. Ma la rinascita imminente di Forza Italia e la spaccatura del Pdl suscitano certamente appetiti anche in quel campo.
Le riserve di Silvio Berlusconi nei confronti dell’euro sono pubbliche e note da tempo e gli accenti populistici ed antieuropei hanno libero campo dentro la destra berlusconiana e hanno contribuito non poco ad alienarne le simpatie dentro il Partito popolare europeo. In ogni caso, si fa notare a Bruxelles, è molto improbabile che la vecchia-nuova Forza Italia possa aderire, nella prossima legislatura europea, al gruppo del Ppe. Sulla destra dei Popolari nella prossima assemblea non dovrebbe esserci granché.
Un gruppo cui aderirono esponenti della destra italiana fu «Identità, Tradizione, Sovranità», ma ebbe vita breve perché andò a picco dopo le dichiarazioni con cui Alessandra Mussolini accusò il popolo rumeno in blocco di aver «assunto la criminalità come stile di vita», sparata che provocò le conseguenti rimostranze dei parlamentari di quella nazionalità.
ESTREMISTI ALLA LARGA
I promotori dell’iniziativa anti europea sono (per il momento) ben attenti a evitare contatti con partiti e movimenti esplicitamente razzisti e violenti come Alba Dorata in Grecia, gli estremisti di Jablok in Ungheria e i neonazisti della Repubblica federale.
Ma è evidente la loro intenzione di pascolare liberamente nelle praterie delle scontentezze diffuse nell’opinione pubblica di tutti i paesi dell’Unione europea per le debolezze delle risposte dell’Europa alla crisi economica. Nei mesi scorsi non sono mancati i richiami al rischio che la demagogia e il populismo condizionino pesantemente le prossime elezioni europee.
Ecco, l’appuntamento di oggi arriva a confermare quei timori. Staremo a vedere se si concretizzerà qualcosa.

l’Unità 13.11.13
Il caso della Svezia, Il Paese delle carceri vuote
Pochi detenuti, la Svezia chiude quattro carceri
Dal 2004 la popolazione carceraria si contrae
Merito della politica di reinserimento e di pene alternative
Così le celle ora sono in vendita
di Marina Mastroluca


Un letto con una coperta colorata, le pareti immacolate, la scrivania, gli scaffali con i libri. Non fosse per le sbarre ma anche quelle non sempre ci sono sembrerebbe più la stanza di uno studente che una cella. Vuota.
La Svezia chiude quattro carceri per assoluta mancanza di detenuti.
Due strutture probabilmente verranno messe in vendita, le altre saranno destinate ad usi governativi, ma potrebbero tornare in funzione se dovesse presentarsene la necessità. Eventualità quest’ultima che al momento appare piuttosto remota: dal 2004 la popolazione carceraria svedese è scesa dell’1 per cento all’anno, per precipitare di sei punti percentuali tra il 2011 e il 2012.
Non c’è stato nessun bisogno di indulto, né di eterne misure d’emergenza per sfoltire i detenuti. Mentre l’Italia si espone ad una procedura d’infrazione per l’affollamento in cella tale da rasentare la tortura, la Svezia tira le somme di una politica che ha puntato decisamente verso il recupero e il reinserimento sociale, considerato non solo sulla carta il reale obiettivo della pena carceraria. Per questo Nils Öberg, capo delle prigioni svedesi, ha potuto annunciare la chiusura degli istituti di Aby, Haja, Batshagen e Kristianstad: si aspetta che la tendenza rimanga la stessa anche nel prossimo futuro.
Ad alleggerire il sistema carcerario svedese non è stato solo l’approccio liberal e l’investimento sui detenuti come persone, che pure rimane la bussola Öberg è il primo a sottolineare la necessità di non tirare i remi in barca. A rimpicciolire il numero dei detenuti
è stata determinante l’indicazione della Corte suprema nel 2011 a favore di sentenze più leggere per reati di droga. La maggiore clemenza dei tribunali si è tradotta in meno 200 detenuti in un solo anno: non poco se rapportato ad una popolazione carceraria che l’anno scorso contava 4852 persone su 9 milioni e mezzo di abitanti. Sempre più spesso le corti svedesi si sono orientate a favore di pene alternative a quelle detentive per reati minori. E così dal 2004 al 2012 il numero di detenuti per furto è sceso del 36% e di quelli per reati connessi alla droga del 25%, mentre si è ridotto (meno 12%) anche il numero dei condannati per crimini violenti.
Durerà? Anche se non tirano conclusioni definitive, in Svezia si mostrano piuttosto fiduciosi. Il risultato è di quelli che fanno sgranare gli occhi, specie se confrontato con il dramma di altri Paesi che si trovano a fare i conti con un numero di detenuti esponenziale. In cima alla lista ci sono gli Stati Uniti, che contano oltre 2,2 milioni di detenuti: 716 persone in cella ogni 100.000 abitanti. Un record assoluto anche confrontato a Paesi meno democratici, come la Russia (475 detenuti su 100.000 abitanti) e la Cina (121). È anche una questione di scelte politiche. Gli Stati Uniti hanno messo sul mercato anche le prigioni per ragioni di cassa molte sono state privatizzate e quando un detenuto produce una rendita alla società che ha in gestione il carcere è difficile che lo si lasci andare. Dal 1980 ad oggi la popolazione carceraria negli Usa è aumentata del 790 per cento e i conti federali non sono migliorati: ogni anno si spendono 50 milioni di dollari per il sistema detentivo, una grossa fetta va ai privati. Malati mentali, piccoli delinquenti e pezzi da novanta finiscono in unico calderone che non salva nessuno. Anche l’Italia con i suoi 64.323 detenuti strizzati in celle che potrebbero contenerne meno di 50.000 ha i suoi guai e anche se non considera i detenuti come merce torna ciclicamente al bivio dell’indulto, specie se Bruxelles incalza. Questione di scelte, anche questa.

Repubblica 13.11.13
Svuotacarcere alla svedese
di Enrico Franceschini


La classifica mondiale dei paesi con più carcerati vede in testa gli Stati Uniti (2 milioni e 230 mila) seguiti da Cina, Russia, Brasile e India. In Europa la nazione con più detenuti in rapporto alla popolazione è la Gran Bretagna e anche in Italia ce la caviamo, considerato che da noi si parla di amnistia per ridurre il sovraffollamento dietro le sbarre. Ma c’è un paese dove i carcerati, invece che aumentare, diminuiscono. In Svezia il numero dei detenuti è calato dell’1 per cento annuo dal 2004 e addirittura del 6 per cento negli ultimi due anni, con la previsione che calerà altrettanto nel 2014-’16. Un declino tale da spingere le autorità a chiudere cinque prigioni, visto che si svuotavano. Le ragioni? Programmi di riabilitazione (così gli ex-detenuti non tornano in carcere), prevenzione e pene non carcerarie per i reati minori (in particolare per droga). In sostanza, un approccio liberale al problema del crimine. Perché non provare a imitare Stoccolma? Il dubbio è che, per realizzare un “modello scandinavo”, servano gli scandinavi.

l’Unità 13.11.13
Più mercato, più partito L’incerta svolta cinese
Il plenum del Partito comunista cinese disattende le aspettative di grandi cambiamenti
Nessun riferimento ad aperture sul pluralismo politico
Il documento conclusivo cita Deng: «Attraversare il fiume sentendo le pietre sotto i piedi»
La prudenza: i dirigenti comunisti cinesi temono che il sistema salti come accadde a quello sovietico
di Gabriel Bertinetto

C’è un passaggio chiave nel comunicato emesso dal Comitato centrale comunista cinese dopo quattro giorni di blindatissimo conclave, ed è la citazione di una frase pronunciata 35 anni fa da Deng Xiaoping. In quel lontano 1978, quando gli chiesero come intendesse introdurre meccanismi di mercato all’interno di un’economia centralmente pianificata, Deng rispose che il segreto stava nell’«attraversare il fiume sentendo le pietre sotto i piedi». Cioè passo passo, con pragmatica gradualità.
Ma indicando l’obiettivo di «profonde riforme onnicomprensive» il documento fa capire che l’obiettivo rimane comunque ambizioso, ed è quello di andare avanti con le liberalizzazioni economiche. «La questione principale è gestire in modo appropriato la relazione fra lo Stato e il mercato, così da permettere al mercato di giocare un ruolo decisivo nell’allocazione delle risorse e consentire al governo di svolgere al meglio il suo compito».
Il testo divulgato ieri sera è stringato, e accenna, in maniera tra l’altro piuttosto vaga, più ai traguardi da raggiungere che non alle vie da percorrere per arrivarvi. Tanto che sui siti Internet cinesi prevalgono sentimenti di scetticismo, come se le attese di grandi innovazioni alimentate nei giorni scorsi dalle autorità stesse, siano andate deluse.
Sicuramente mancano riferimenti a una liberalizzazione del sistema politico. La citazione denghiana è significativa, perché Deng è l’uomo che avviò le prime sostanziali aperture al mercato, agli investimenti esteri, alla concorrenza. Ma è anche l’uomo che nel 1989 soffocò il nascente movimento per la democrazia mandando i carri armati sulla Tian An Men.
Quasi a sfidare il potere centrale a venire allo scoperto sui temi del pluralismo, pochi giorni fa alcuni critici del nuovo corso economico hanno creato un nuovo partito che nel nome stesso si richiama al «Primato della Costituzione». Come se i valori fondanti della Repubblica popolare siano contraddetti dalle massicce dosi di capitalismo introdotte negli ultimi decenni nella società cinese. Non a caso la carica onoraria di presidente della nuova formazione è stata offerta a Bo Xilai, leader della corrente neomaoista, che si trova in carcere condannato per corruzione in un processo che a molti osservatori è parso in parte viziato da motivazioni politiche.
Dal terzo plenum del Comitato centrale sembra arrivare un implicito no sia ai neomaoisti e al loro progetto di far leva sull’insoddisfazione diffusa negli strati sociali ignorati o addirittura danneggiati dalle riforme economiche, sia ai gruppi che, dentro e fuori il partito, non dicono no al mercato ma vogliono che il pluralismo degli interessi e delle attività imprenditoriali avanzi assieme al pluralismo delle idee, dei programmi, e dell’organizzazione politica.
Nel fumo che avvolge i concreti provvedimenti che verrebbero presi per avanzare verso «il ruolo decisivo» del mercato, spicca qualche riferimento di più facile lettura. In particolare la Cina «porterà avanti la riforma sull’utilizzo del suolo e darà ai contadini maggiori diritti di proprietà». La terra continua ad appartenere allo Stato, ma da anni è possibile rilevarne una sorta di proprietà a tempo, la cui durata dipende dalle finalità indicate nel contratto: 40, 50 o 70 anni a seconda che la concessione abbia finalità commerciali, industriali, residenziali.
Le condizioni giuridiche relative alla compravendita di quei diritti di superifice dovrebbero diventare più chiare di quanto non siano attualmente, e a beneficiare delle novità saranno soprattutto gli abitanti delle aree rurali. Altri campi in cui vengono prospettati interventi ulteriori sono la lotta alla corruzione e la protezione delle fasce più deboli attraverso miglioramenti del welfare.
Nella dichiarazione conclusiva non si fa alcun riferimento ai recenti episodi di violenza di evidente marca antigovernativa, in particolare l’attentato suicida sulla piazza Tiananmen, perpetrato a pochi giorni dalla riunione del Comitato centrale e a poche centinaia di metri dal luogo in cui doveva svolgersi. Ma la chiusura ad ogni apertura democratica è probabilmente figlia anche della paura che certi fenomeni estremi siano solo la punta di un iceberg più spesso e profondo, che racchiude un malcontento dalle molte facce e motivazioni. Più volte inoltre in questi ultimi anni è affiorato nei commenti e nei giudizi di capi politici e intellettuali vicini al potere l’incubo di essere travolti in una deriva di tipo gorbacioviano. I dirigenti comunisti cinesi temono che il sistema salti come accadde a quello sovietico. E allora cambiamenti economici sì, ma nel quadro di un controllo politico saldamente in mano al partito comunista, senza alcuna glasnost o perestrojka in salsa pechinese.

La Stampa 13.11.13
La ricetta di Xi per la crescita cinese
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 13.11.13
«Il mercato è decisivo per la Cina» Dal conclave segreto arriva la svolta
La nuova dottrina rossa «Più mercato meno Stato
La Cina vara una stagione di riforme economiche
di Guido Santevecchi


Nuova stagione di riforme in Cina: «Deciderà il mercato». È questa la promessa del Partito comunista per permettere alla seconda economia del mondo di continuare a crescere. Il documento è stato votato dal Terzo plenum del 18° Comitato centrale dopo quattro giorni di conclave segreto a Pechino.

«Deciderà il mercato». È questa la promessa del Partito comunista per permettere alla Cina di continuare a crescere. Dopo quattro giorni di conclave segreto, in un luogo non rivelato di Pechino, il Terzo Plenum del 18° Comitato centrale ha affidato all’agenzia Xinhua una sintesi del documento votato dai circa 200 uomini che dettano la linea alla seconda economia del mondo. «Bisogna lasciare che sia il mercato a giocare il ruolo decisivo nella distribuzione delle risorse», è la frase messa in risalto, c’è da credere su ordine preciso del partito. Ancora poche settimane fa Xi Jinping, il segretario generale, nonché capo dello Stato, parlava di «ruolo di base» del mercato e quindi il nuovo aggettivo «decisivo» sembra promuovere un diverso equilibrio.
Difficile decifrare quanto ci sia di concreto, di rituale e di sottinteso nel linguaggio della leadership comunista. Il titolo del comunicato è ponderoso: «Decisione del Comitato centrale del partito comunista cinese su diverse importanti questioni dell’approfondimento omnicomprensivo delle riforme». E in un altro passaggio, subito dopo la promozione del mercato, si legge che «l’economia di proprietà pubblica e quella non pubblica sono entrambe parti importanti del sistema socialista». E ancora: «Bisogna mantenere l’autorità del partito». Detto così, sembrerebbe che il partito (e lo Stato, che in Cina è la stessa cosa) non si ritiri di un palmo dal controllo delle sue mastodontiche industrie.
Tra gli altri punti chiave suggeriti alla stampa e alla tv cinese c’è «la promozione della riforma delle terre agricole, per dare ai contadini diritti sulla proprietà». Citata una riforma del sistema fiscale e della distribuzione del reddito. Senza ulteriori specificazioni. Obiettivo per il completamento del progetto l’anno 2020.
Vengono costituiti due nuovi organismi: un «gruppo leader centrale» dovrà guidare l’attuazione delle riforme. E poi nascerà un «comitato di sicurezza nazionale». I caratteri cinesi usati per questa agenzia sono gli stessi che identificano il Consiglio per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che partecipa alle scelte di politica estera del presidente.
Il Terzo Plenum, nella storia della Repubblica popolare, significa grandi svolte: nel 1978 e nel 1993 fu in quelle riunioni del Comitato centrale che la Cina si mise a perseguire industrializzazione e crescita. Prima di questo Terzo Plenum erano state fatte grandi dichiarazioni di fiducia: «Svolta senza precedenti»; indicati cambiamenti nel sistema bancario, nella tassazione, nel controllo e vendita della terra agricola, nel welfare, nell’innovazione, nella convertibilità dello yuan, nell’abbandono del sistema del figlio unico.
Troppo presto per sapere se il «gruppo leader centrale» abbia un mandato chiaro per tutti questi settori.
Zhu Lijia, professore alla facoltà di pubblica amministrazione della Accademia di governance, dice al Corriere : «Le parole chiave sono “omnicomprensivo” e “approfondimento”. Nel passato eravamo sempre e solo concentrati sugli aspetti economici, ma stavolta è un piano di riforme complessive che riguardano tutti settori, compresi quelli sociale e ambientale. Vedo una riforma strutturale». Dieci anni per realizzarla, dice il Plenum. «No, troppo. Bisogna raggiungere risultati entro uno, due anni al massimo».
La Xinhua assicura che «il piano di riforme farà bene al mondo», evidentemente ancora su ispirazione dall’alto. E celebra i trionfi di questi 35 anni di crescita. Nel 1978, il Pil valeva 60 miliardi di dollari. Nel 2012 i miliardi sono stati 9 mila. Il prossimo obiettivo è raddoppiare il reddito medio dei cinesi entro il 2020 e tenere una crescita del Pil al 7 per cento (quest’anno si chiuderà intorno al 7,6).
Certo, ora tutti ricordano il 1978, quando al suo Terzo Plenum Deng Xiaoping lanciò la grande apertura della Cina al mercato, superando il maoismo puro e duro. La promessa di questo Plenum sembra meno forte. Ma rileggendo il comunicato con le decisioni di quel vertice tanto celebrato di 35 anni fa, ci si accorge che la parola «mercato» non c’era e le «riforme» erano citate appena due volte. Solo sei anni dopo l’espressione «riforma e apertura» si conquistò un posto nella storia.
Quanto ci vorrà perché i progetti di grande riforma siano applicati? Il Quotidiano del popolo ha ricordato il proverbio cinese secondo il quale il fiume si attraversa dopo aver messo un piede dopo l’altro su tutte le pietre del suo letto. Piaceva molto a Deng quel modo di dire che invitava alla cautela. Ma il giornale del partito spiega che non è più il tempo di seguire il vecchio adagio: «Ora serve determinazione, audacia». Qualcuno, dal conclave, deve aver ispirato anche questo appello.

Corriere 13.11.13
«Temono l’instabilità interna E si attrezzano per la sicurezza»
di Paolo Salom


«Ho letto con attenzione il rapporto uscito dal plenum del Partito. Certo, in apparenza le novità sono molte. L’accento sul “ruolo decisivo” del mercato nell’allocare risorse fa riflettere. Perché si tratterebbe di una libertà che vedo ancora molto difficile, vista la situazione della Cina oggi».
Gao Wenqian, 60 anni, risponde al telefono da New York, la sua nuova casa. Consigliere politico dell’ong Human Rights in China, è stato per anni storico all’archivio del Partito comunista, organizzazione che conosce molto bene. Ha dovuto lasciare il suo Paese dopo Tienanmen, perché simpatizzante del movimento per la democrazia. È autore del saggio «Zhou Enlai: The Last Perfect Revolutionary». Per il Corriere analizza i cambiamenti, anche semantici, usciti dal Plenum del Pcc che si è chiuso ieri a Pechino.
Nel documento che riporta le conclusioni dopo quattro giorni di discussioni si pone l’accento sul ruolo «decisivo» del mercato, quando fino ad ora la parola usata è sempre stata «basilare». Che cosa significa?
«Il Partito cambia le parole, ma il tono, io credo, non è variato molto rispetto al passato. Il senso è che non dovrebbe più essere lo Stato ad allocare risorse, bensì queste dovrebbero essere libere di fluttuare nel mercato. Ma mi viene difficile pensare come questo possa avvenire in un sistema nel quale le grandi imprese di Stato sono la spina dorsale dell’economia».
Nel 1978, sempre a un plenum, Deng Xiaoping annunciò una grande stagione di cambiamenti. Che differenze ci sono tra questa e quell’assise?
«Prima di tutto, nel 1978 ci fu un cambiamento drammatico nella leadership: Hua Guofeng fu messo da parte, Deng prese il controllo del Paese. E poi, in quel plenum si decise di cambiare radicalmente politica, abbandonando il maoismo e la lotta di classe. Deng disse: dobbiamo spostare la nostra attenzione sulle riforme. E la Cina cominciò una stagione di grande crescita economica. Una vera rivoluzione. Oggi non si vedono cambiamenti così netti. Xi Jinping era e resta al vertice; non c’è una nuova politica, nessuna variazione concreta nei contenuti».
Però, nel ‘78, Deng usò la parola «riforme» solo due volte. Oggi è forse il termine più usato...
«È vero: allora comparve due volte soltanto nel testo uscito dal plenum e la Cina mutò decisamente rotta. Oggi non riusciamo a contarle però facciamo fatica a capire quali siano i cambiamenti fondamentali».
A suo avviso quali sono i veri elementi di novità usciti dalla riunione dei leader del Partito?
«L’economia della Cina sta rallentando, quindi è evidente che le riforme sono necessarie. Soprattutto perché sono molti i cittadini cinesi che restano indietro, che non hanno garanzie e coperture sociali. Tuttavia, resto scettico sulla reale volontà del governo di varare riforme efficaci, in senso più liberista. Non è un caso che il documento resti vago su questi aspetti».
Perché dice questo?
«Siamo chiari: la novità che più mi ha colpito nel documento è la creazione di una “commissione per la sicurezza dello Stato” che dipende dal ministero degli Interni. Se ne parla da dieci anni. Ma in origine doveva occuparsi di eventuali minacce esterne. Ora mi pare che gli obiettivi siano domestici. Questo perché, io credo, riforme vere e incisive danneggerebbero prima di tutto gli interessi della leadership. Con rischi di instabilità che vanno prevenuti. Questo è il punto da considerare».

Corriere 13.11.13
Il colore del gatto di Deng e l’arte comunista di progettare
Le sfide non mancano: ma il leader non rinuncia a una visione
Da Mao a Deng, le parole chiave
di Sergio Romano


Qualche parola anzitutto per ricordare quali motivi rendano il Terzo plenum del Partito comunista cinese, dopo l’ascesa al potere di una nuova dirigenza, più importante di quello che lo ha preceduto e di quello che lo seguirà. La storia comincia nel 1978 quando Deng Xiaoping, riemerso dall’esilio politico in cui era stato confinato, ritrovò l’autorità perduta negli anni della Rivoluzione culturale e si servì della terza convocazione del Comitato centrale per annunciare al Paese il programma delle «quattro modernizzazioni».
Arrivai in Cina qualche settimana dopo, lessi il lungo comunicato reso pubblico alla fine del plenum e credetti che quello fosse soltanto uno dei molti documenti con cui i partiti comunisti programmavano un futuro irrealizzabile. Era un errore. Le quattro modernizzazioni annunciate da Deng divennero la piattaforma politica di una riforma che avrebbe cambiato la Cina, trasformato l’Asia e dato uno straordinario colpo di acceleratore al processo di globalizzazione. Viviamo in un mondo diverso anche perché un piccolo uomo, sfuggito alle dissennate purghe della Rivoluzione culturale, aveva deciso, con una metafora indimenticabile, che il colore di un gatto non ha alcuna importanza e che la sua virtù si giudica dall’abilità con cui riesce a catturare i topi.
Da allora il Terzo plenum, convocato spesso un anno dopo l’avvio di una nuova fase, è quello apparentemente più favorevole alla formulazione della linea politico-economica che il Paese adotterà nel corso del decennio successivo. Come tutti coloro che hanno governato la Cina dopo la rivoluzione economica di Deng, anche i nuovi leader sembrano essere convinti che il pragmatismo e il mercato non possano fare a meno di un «piano». Non si va al potere, nella Repubblica popolare, per governare alla giornata. Occorre avere una visione organica del futuro. In una lunga conversazione con un corrispondente asiatico del Financial Times , apparsa il 9 novembre, il Dalai Lama ha ricordato che quasi tutti i leader cinesi, dal 1949 ai nostri giorni, si sono identificati con un progetto. Mao è stato l’uomo dell’ideologia nella sua versione più astratta e radicale; Deng quello che ha introdotto il capitalismo in un Paese socialista; Jang Zemin quello della trasformazione del Pcc in partito interclassista, aperto ai nuovi capitalisti; Hu Jintao quella della «società armoniosa» dove tutti, all’ombra del partito, possano realizzare se stessi. Non sempre i leader hanno vissuto all’altezza delle loro ambizioni e mantenuto le loro promesse. Ma il documento conclusivo del Terzo plenum è diventato ormai il discorso della corona in un regno dove il monarca può contare, grosso modo, su un potere decennale.
Come sempre, anche in questa occasione il discorso è redatto nel linguaggio retorico della tradizione comunista cinese con passaggi che si presteranno a diverse interpretazioni. Ma qualche indicazione emerge sin d’ora con una certa chiarezza. La Cina continuerà a credere nel mercato e gli riconoscerà una maggiore autonomia. Ma vuole evitare bolle speculative, eccessivi aumenti del mercato immobiliare e del debito, pubblico e privato. La crescita, nel 2014, dovrebbe aggirarsi intorno al 7% del prodotto interno lordo e i cinesi saranno incoraggiati a spendere più di quanto abbiano fatto nell’ultimo decennio. Ma l’incoraggiamento, a giudicare dallo strepitoso aumento del commercio elettronico negli ultimi giorni, è probabilmente inutile. Sembra che il Comitato centrale del partito sia consapevole dei fattori d’instabilità sociale emersi negli ultimi anni: piccole ma numerose insurrezioni di villaggio, frequenti sfide al potere delle sezioni locali del partito, rabbiose proteste contro il degrado ambientale. Vi saranno maggiori garanzie per gli agricoltori, spesso privati bruscamente delle loro terre. Verrà creato un nuovo comitato per la sicurezza interna, con una implicita allusione al recente attentato di piazza Tienanmen nel quale avrebbero perso la vita cinque militanti uiguri, giunti da una provincia musulmana ai confini con il Kazakistan, il Xinyiang, che chiede una maggiore autonomia
Come tutti i buoni propositi, anche questi verranno messi alla prova sul terreno. Non è mai stato facile governare la Cina, ma le difficoltà, d’ora in poi non possono che aumentare. Il capitalismo di Deng ha creato una moltitudine di topi che si muovono sul mercato con grande aggressività e spregiudicatezza. Il mercato ha prodotto imprenditori intelligenti e dinamici, ma anche una corruzione che ha fortemente inquinato il partito. I personaggi ingombranti, come Bo Xilai, vengono messi in prigione, ma i seguaci sembrano decisi a costituirsi in partito. Le restrizioni demografiche (un figlio per famiglia) hanno rallentato la crescita della popolazione, ma la società cinese è oggi molto più vecchia di quanto fosse all’epoca della Rivoluzione culturale e dovrà affrontare i due grandi grattacapi dell’Occidente negli ultima decenni: il sistema previdenziale e quello sanitario.
Esistono infine problemi che sfuggono alla logica della programmazione. Che cosa accadrà del debito americano depositato nelle casseforti delle banche cinesi? Che cosa farà dei suoi missili il monello nord-coreano, un figlioccio imprevedibile e disobbediente? Quale sarà nei prossimi anni la politica estera del Giappone, dove il governo Abe parla un linguaggio più nazionalista di quello dei suoi predecessori? I cinesi sanno che non tutto può essere previsto e preparato, ma preferiscono avere nel cassetto un piano di lavoro a cui fare riferimento. Si adatteranno agli avvenimenti, ma credono nell’utilità di un progetto concordato al vertice e spiegato al Paese. E’ un retaggio del loro passato comunista, forse il migliore.


La Stampa 13.11.13
La ricetta di Xi per la crescita cinese
di Ilaria Maria Sala

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La Stampa 13.11.13
Nuove colonie Israele farà 20 mila case
Abu Mazen: dialogo addio
«Un reticolo di costruzioni che spiega Yariv Oppenheimer, presidente dell’organizzazione pacifista israeliana “Peace Now” comporterebbe la distruzione della soluzione di due Stati per due popoli»
di E.  St.


TEL AVIV Per il vicepremier israeliano Silvan Shalom è solo una «mosca trasformata in elefante». Fatto sta che il via libera reso noto ieri dalla Radio Militare a 20.000 nuovi alloggi per i coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme est ha fatto infuriare gli Stati Uniti e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), rischiando di ripercuotersi sul traballante negoziato di pace, già minato dal dissenso israelo-americano sul dossier iraniano.
Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha riferito che «considera finito il processo di pace se Israele non rivedrà i progetti». Dura anche la reazione di Washington. «Siano preoccupati per questo annuncio e chiediamo spiegazioni al governo israeliano», ha detto una portavoce del Dipartimento di Stato. Parole a cui ha fatto eco il portavoce della Casa Bianca Jay Carney, mentre fonti dell’amministrazione Obama avvertivano che gli Stati Uniti «non riconoscono la legittimità della continua attività edilizia nelle colonie».
Il piano, pur spurgato dalla costruzione di alloggi nella zona E-1, quella che collega Gerusalemme est con la città-colonia di Maale Adumim, contiene comunque elementi potenzialmente esplosivi: come i progetti nell’insediamento Givat Haeitam, a Efrat, oltre la linea del 1967, o quelli sulle colline che circondano il blocco di Gush Etzion.
«Un reticolo di costruzioni che spiega Yariv Oppenheimer, presidente dell’organizzazione pacifista israeliana “Peace Now” comporterebbe la distruzione della soluzione di due Stati per due popoli». [E. ST.]

Corriere 13.11.13
Il nuovo Medio Oriente
Le sorti dello Stato di Israele
risponde Sergio Romano


Per natura ricerco sempre la chiarezza e la prego di aiutarmi in questo senso. Spero ricorderà il nostro fugace incontro al Rotary di corso Venezia a Milano. Domanda: lei considerava e considera davvero Israele un «corpo estraneo» (e quindi auspica la sua distruzione?). Spero vorrà rispondermi con la stessa chiarezza.
Franco Cohen

Caro Cohen,
Credevo di avere fatto una banale constatazione. Il tema in discussione, in quel momento, era la situazione d’Israele in una regione sconvolta da rivolte popolari e guerre civili. Rispondendo alla domanda di una persona intervenuta dopo la fine della mia conversazione, ho osservato che la crisi ha privato lo Stato ebraico di alcune delle amicizie su cui aveva fondato la propria politica estera, e che la sua condizione non gli permetteva di dare alcun contributo alla restaurazione di un equilibrio regionale. Questa condizione è, per l’appunto, l’estraneità. La nascita di Israele nel 1948 trovò larghi consensi nella società occidentale per almeno tre ragioni. Il sionismo socialista della sua classe politica suscitava la simpatia delle social-democrazie. I cristiani evangelici, soprattutto negli Stati Uniti, vedevano nel ritorno degli ebrei in Palestina una conferma delle profezie sulla seconda venuta del Cristo. E molti, infine, ritenevano che l’umanità, dopo le persecuzioni degli anni Trenta e il genocidio della Seconda guerra mondiale, avessero contratto con gli ebrei un debito politico e morale. Credo che questi tre motivi bastino a spiegare la simpatia di cui Israele godette sino alla guerra del 1967.
Ma nessuno di quei sentimenti poteva essere condiviso dalle popolazioni dell’Africa del Nord e del Levante. Gli arabi avevano abitato quelle regioni sin dal settimo secolo dell’era cristiana. Non aspettavano la seconda venuta del Cristo. Non erano responsabili della strategia genocida di Hitler. Esiste infine un’altra considerazione di cui è opportuno tenere conto. La nascita dello Stato d’Israele coincideva con un periodo storico in cui gli imperi coloniali si sarebbero progressivamente ritirati dalla regione e avrebbero infine concesso la piena sovranità ai loro vecchi protettorati. Era davvero sorprendente che l’apparizione di un nuovo Stato europeo apparisse agli occhi delle società arabe come una nuova forma di colonialismo occidentale?
Israele dovrebbe quindi scomparire dalla carta geografica? La storia produce fatti compiuti che non possono essere cancellati senza provocare danni e ingiustizie ben più gravi di quelli che vorremmo correggere. Il movimento sionista ha vinto guerre, risanato terre incolte, creato una florida economia nazionale, dato una casa e un futuro a più del 40% della popolazione ebraica mondiale. Questi sono i «titoli di proprietà» che garantiscono, più di qualsiasi promessa profetica, il suo diritto di esistere. Ma se non vuole continuare a essere percepito come un corpo estraneo dovrà rendersi conto che anche altri, nella regione, ritengono di avere diritti storici e legittime aspettative. La pace, in ultima analisi, dipende dal riconoscimento di questa duplice legittimità.

Repubblica 13.11.13
Se Obama fa arrabbiare israeliani e arabi
di Bernardo Valli


NON è collera. È rabbia.
Sulle sponde del Nilo, dove soffia un forte vento antiamericano, si descrive così la reazione delle capitali sunnite alla rinuncia di Washington a colpire la Siria, dopo l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito di Bashar al Assad. La notizia ha reso furiosi i sauditi, al punto che, di solito così prudenti, hanno rifiutato d’impeto l’ambito posto di membro di turno del Consiglio di sicurezza. Non volevano partecipare alla massima istituzione internazionale dove Cina e Russia difendono Assad e dove gli Stati Uniti si piegano in sostanza alla loro volontà. Si aspettavano l’intervento punitivo. Non erano i soli. Si sono sentiti traditi dai loro alleati di sempre.
I sauditi devono agli americani un’assidua assistenza militare, un prezioso contributo tecnologico all’industria del petrolio, e anzitutto una grande tolleranza per la sistematica violazione dei diritti dell’uomo (in particolare della donna) nel regno più bigotto dell’Islam. In cambio i sovrani del petrolio non si sono risparmiati nel manifestare solidarietà ai grandi protettori. Dopo l’attentato dell’11 settembre hanno dato più di seicentocinquanta miliardi di dollari agli Stati Uniti di Bush jr. È vero che tra i terroristi prevalevano i sauditi e bisognava farsi perdonare per quei sudditi sfuggiti di mano. Nella frantumata crisi mediorientale, alimentata da tanti conflitti politici, etnici e religiosi, prevale ormai lo scontro tra sunniti e sciiti, le due grandi correntimillenarie dell’Islam.
Equalsiasi potenza occidentale si addentri nella regione viene coinvolta nell’antica tenzone, che si è risvegliata e non è soltanto teologica. Gli Stati Uniti cercano di sfuggire a quel coinvolgimento, ma l’impresa è ardua. Se la mancata punizione a Damasco, capitale del fronte sciita, è apparsa alle potenze sunnite un tradimento, la mano tesa di Barack Obama a Hassan Rouhani, neo presidente dell’Iran, cuore e principale bastione del mondo sciita, è stata presa come un affronto.
Un affronto che ha saldato una coalizione oggettivamente già esistente e che adesso cova un forte risentimento nei confronti degli americani. È un’intesa destinata a restare ufficiosa. Senza protocolli. Può essere definita un insieme di convergenze parallele. Un insieme di entità inconciliabili che conducono a un identico obiettivo. Un ossimoro. Un’alleanza tra avversari poiché unisce Arabia Saudita, Israele, Emirati ed Egitto. E tra Ryad e Gerusalemme non ci sono e non ci sono mai state relazioni diplomatiche. La questione palestinese li divide. Ma è una divisione in questa fase trascurata, lasciata nell’ombra dalla comune avversione per l’Iran. Un nemico che né Gerusalemme né Ryad vogliono dotato di un’arma nucleare. E verso il quale gli Stati Uniti di Obama manifestano una certa indulgenza. Infatti trattano la questione atomica dopo avere risparmiato Assad, stretto alleato di Teheran.
La diffidenza verso gli Stati Uniti d’Obama (che il segretario di Stato Kerry cerca con fatica di dissipare visitando le capitali della regione) è alimentata dagli interrogativi sorti con le “primavere arabe”. Se il presidente americano ha abbandonato Hosni Mubarak alla sua sorte dopo l’insurrezione di piazza Tahrir e non ha dato all’opposizione siriana, alla Coalizione nazionale, i mezzi per resistere all’esercito di Assad, perché domaninon dovrebbe avere un identico comportamento rinunciatario nei confronti delle monarchie del Golfo in difficoltà? I più pessimisti, i conservatori, si chiedono se Obama non abbia cambiato campo, e si stia schierando con Bashar al Assad, con Hassan Rouhani e con Vladimir Putin. Sono rivelatori gli sperticati elogi indirizzati alla Francia che si è opposta a un accordo affrettato con l’Iran alla conferenza di Ginevra dedicata alla questione nucleare. Parigi approfitta, a buon prezzo, delle difficoltà americane. Ma ne approfitta anche Israele, pur lasciando intatti i legami con gli Stati Uniti chiunque sia l’inquilino della Casa Bianca. I diplomatici israeliani sentono che la loro intransigenza nei confronti delle centrali atomiche iraniane è condivisa dai sauditi e dagli Emirati. Con i quali si è appunto creata l’insolita intesa checambia, almeno in parte, gli equilibri mediorientali.
Quel che crea non poche perplessità, per quanto riguarda la Siria, è la sempre più consistente presenza nell’opposizione a Assad di formazioni jihadiste (legate o ispirate da Al Qaeda). È un argomento usato dagli americani per spiegare la loro rinuncia a colpire direttamente Damasco, con un’azione punitiva che favorirebbe gli estremisti islamici. Il discorso non lascia indifferenti i sauditi e gli israeliani. I primi hanno aiutato alla nascita i jihadisti, e quindi obiettivamente anche Al Qaeda, quando si trattò di combattere in Afghanistan gli occupanti sovietici, ma oggi si oppongono a quelle correnti terroristiche musulmane. I secondi, gli israeliani, non considerano con tranquillità l’idea di avere alle porte, in Siria, un potere influenzato dai jihadisti.
La strana, estesa alleanza non perdona certo agli Stati Uniti di avere ridotto gli aiuti all’Egitto, dopo l’esautorazione di Mohammed Morsi, eletto presidente al suffragio universale diretto, e il massacro o l’arresto dei capi e dei militanti della Confraternita dei Fratelli musulmani. Il regno dei Saud preferisce l’esercito del generale Sissi, l’uomo forte del Cairo, ai Fratelli musulmani adesso messi fuori legge, ma in precedenza sostenuti dagli americani quando furono eletti democraticamente. Per compensare i militari egiziani colpiti dalla parziale sanzione americana, l’Arabia Saudita ha aperto la sua ben fornita borsa e ha offerto loro miliardi di dollari. Il Cairo a sua volta si è rivolto a Mosca per avere le armi (soprattutto gli aerei) per il momento negate dagli americani. Putin sarà presto ospite dell’Egitto. Per la Russia alleata di Nasser negli anni Sessanta e poi cacciata da Sadat (quando era ancora sovietica) negli anni Settanta, potrebbe essere un grande ritorno in Medio Oriente.
L’intero mosaico politico mediorientale si sta ricomponendo. È in movimento. È una sabbia mobile. Difficile immaginare quel che sarà. È con un altro sguardo che deve essere studiato. La posizione degli Stati Uniti non è più quella di un tempo. Per molte capitali non sono più la superpotenza affidabile. La fallita spedizione in Iraq (del 2003) ha ridimensionato il loro prestigio militare e politico. La mancata rappresaglia siriana e il dialogo che appare conciliante con l’Iran hanno fatto nascere una diffidenza profonda. Ma se Obama si fosse impegnato direttamente contro Damasco si sarebbe trovato impigliato in un altro conflitto mediorientale. E sarebbe stata la peggiore delle situazioni. Adesso corre i rischi di una tentata imparzialità, che è al tempo stesso un segno dell’intelligente consapevolezza dei limiti di una superpotenza in un mondo sempre più multipolare.

l’Unità 13.11.13
Medio Oriente, Parigi vuole riempire il vuoto Usa
Le ragioni geopolitiche ed economiche dietro l’interventismo di Hollande
Le considerazioni di Bernard Guetta e Stefano Silvestri
di Umberto De Giovannangeli


Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, rinvia al mittente le accuse rivolte dagli Stati Uniti all’indirizzo di Teheran, secondo le quali la responsabilità del mancato accordo sul nucleare a Ginevra sarebbe da attribuire all’Iran. «Il gruppo dei 5+1 era unanime sabato quando abbiamo presentato la nostra proposta agli iraniani, (...) ma l’Iran non ha potuto accettarla, in quel momento, non era in grado di accettarla», aveva detto l’altro ieri il segretario di Stato americano John Kerry. «Signor segretario di Stato, è stato forse l’Iran a svuotare per metà il testo degli americani e ad esprimersi pubblicamente contro?», ha replicato Zarif sul suo account Twitter, con un chiaro riferimento alle parole pronunciate in un’intervista dal ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius.
INFLESSIBILITÀ FRANCESE
I media e le autorità iraniane hanno accusato esplicitamente la Francia che con la sua intransigenza avrebbe fatto naufragare l’accordo. Riflettori puntati su Parigi. Sul dossier nucleare «la situazione è ancora sospesa, ma è ormai evidente che dalla Libia all’Iran, passando per la Siria e il Mali, la Francia è diventata sotto due governi diversi la più inflessibile delle potenze occidentali, molto più di quanto non lo siano gli stati Uniti», annota Bernard Guetta, tra i più autorevoli analisti di politica esteri francesi.
Ma dietro questo irrigidimento francese, non c’è solo una rinnovata edizione della tradizionale grandeur. Diversi osservatori vedono anche una chiara strategia economica di Parigi nel restare schierata con l’asse delle monarchie sunnite dei petrodollari dietro il veto francese sulla riduzione dell’embargo all’Iran, senza garanzie più vincolanti degli ayatollah sullo stop al programma di arricchimento dell’uranio al 20%, sull’utilizzo di quello già arricchito e sulla chiusura del nuovo reattore in costruzione ad Arak (generatore, anziché d’uranio, di plutonio, la seconda via per l’atomica).
Al Qatar, agli Emirati Arabi e ai sauditi, Parigi vende armi, sistemi di difesa anti-aerei e caccia-bombardieri per appalti da svariati miliardi di euro l’anno. Se poi il Qatar, con la possibile uscita di scena di Bashar al-Assad dalla Siria, avesse mano libera, attraverso il suo progetto di gasdotto verso la Turchia o (in alternativa) sul Mediterraneo, l’emiro del Golfo potrebbe vendere i suoi trilioni di metri cubi di gas naturale nel giacimento di South Pars-North Dome diviso a metà con l’Iran all’Europa, al momento cliente fissa dei russi di Gazprom. Sauditi e israeliani sarebbero della partita, insieme con le big company energetiche francesi e i colossi del petrolio inglesi.
NUOVO RUOLO
«Sicuramente i francesi stanno sviluppando una politica più interventista sia in Medio Oriente che in Nord Africa dice a l’Unità Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai e questo può avere varie motivazioni». Una delle più rilevanti, spiega Silvestri, «è che il passo indietro compiuto dagli americani, lascia un vuoto, e i francesi, con questa politica più dura, si candidano, se non a riempire questo vuoto, a essere il Paese europeo leader per la politica in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa». E per far questo, aggiunge il presidente dello Iai, «ritengono, e forse non a torto, di dover avere il consenso di alcuni Paesi, tra cui l’Arabia Saudita, forse l’Egitto del colpo di Stato dei militari, e, in ultima analisi, anche di Israele».
In questa chiave, rimarca ancora Silvestri, «ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso dalla tradizionale politica estera dell’Unione europea, che si basava sul fatto che gli americani facevano una cosa, e noi un’altra: gli Usa, ad esempio, finanziavano Israele e l’Europa i palestinesi. Se gli americani fanno un passo indietro, noi europei siamo sbilanciati. Un ripensamento europeo, politico e strategico, è necessario. Il dramma riflette il presidente dello Iai è che invece di avvenire (il ripensamento), siamo in presenza di una iniziativa unilaterale della Francia». Parigi, in ultima analisi, «si fa forte di una duplice debolezza: il basso profilo della baronessa Ashton (l’Alto responsabile per la politica estera dell’Ue, ndr) e della incapacità degli altri Paesi dell’Unione di parlare con una unica voce almeno sui più rilevanti dossier internazionali. In questo modo conclude Silvestri la Francia ritiene di poter esercitare una pseudo leadership che, a mio avviso, ha una scarsa solidità strategica ma che, nell’immediato, può portare dei benefici. Benefici per Parigi, non certo per l’Europa».

Corriere 13.11.13
Donne mutilate, basta con l’inerzia
di Guido Ceronetti


Caro direttore, era impressionante, nel «Corriere della Sera» del 22 ottobre, l’informazione sulle mutilazioni genitali femminili, tra Asia e Africa, calcolabili approssimativamente in centoventicinque milioni di creature. Questa castrazione infame non è islamica, ma è tollerata tuttora in terre islamiche, e animiste, e praticata silenziosamente nel fondo delle foreste per tradizione del suolo e delle tribù. (Evidentemente quel che si è fatto finora per far cessare una pratica che ci imprime tutti nella vergogna non è bastato).
Ma a noi, frontiera mediterranea, la faccenda dovrebbe procurare un fremito morale, quando si tratta di accoglienza migratoria. Esprimo una mia opinione, che vorrei non rimanesse isolata. Le donne giovani e le bambine che provengono da regioni mutilatrici dovrebbero essere esaminate e, a loro discrezione, immediatamente amorosamente accolte in reparti ginecologici d’Italia e d’Europa per essere curate come meglio si possa, sottraendole a rapporti sessuali di puro dolore, essendogli negato il quantusculum di estasi da poveri che per qualche istante, a noi così evoluti, allontana lo strazio della condanna a vivere. Ma insieme a loro non accoglierei le famiglie complici, rimanderei indietro i mariti che le vogliono schiave inerti, da trattare sadomasochisticamente, pronti ad ucciderle per una trasgressione innocua, disperata, indotta dal contatto con un mondo troppo diverso dal loro.
Ormai non si tratta più di flussi regolabili. Sono travasi di popolazione. Le convivenze non saranno né facili né idilliache. È stoltezza e retorica rivolgersi ad una Europa-simulacro, finché non riconoscerà frontiere comuni e non avrà una forza armata propria temuta, meglio se multietnica, ma in tale caso non occorrerà appellarsi. Intanto però, il deserto dei Tartari è in movimento e investirà la fortezza Bastiani mentre i parlamentari saranno sempre più impegnati a capire quel che urge di meno. Amen. Questa piccola riflessione riguarda la sorte delle donne mutilate e come fare per liberarle dalle loro catene. Chissà quante ne saranno già arrivate, senza che nessuno se ne occupasse e alzasse il velo sui loro corpi di martiri con la dovuta pietà.
Centoventicinque milioni: stringe il cuore e rende pensosi. Tra i feti di nasciture potrebbero essercene altrettante. Non è possibile essere, comportarsi da giusti con tutti, ma con qualcuno sì. Non c’è un punto di mondo da cui non si affacci l’insolubilità della Sfinge.
Grazie per l’ospitalità.

Corriere 13.11.13
Il potere scientifico dell’Occidente è nell’aver rinunciato alla verità
Emanuele Severino: «In questo abisso ci sono nulla e alienazione»
di Armando Torno


Emanuele Severino pubblica presso Adelphi le sue opere teoretiche e da Rizzoli quelle dedicate a un pubblico più vasto. Da quest’ultimo editore egli ama raccogliere — ripensando, aggiungendo, sistemando — saggi o interventi nati in diverse occasioni. Ma il suo nuovo libro, La potenza dell’errare. Sulla storia dell’Occidente (Rizzoli, pp. 358, e 19), rappresenta un’eccezione. Non è una semplice raccolta, ché numerose sono le pagine inedite; non è nemmeno un nuovo libro come La morte e la terra oppure Intorno al senso del nulla (Adelphi 2011 e 2013), giacché in esso Severino ritorna, o meglio riapprofondisce alcuni momenti topici del suo pensiero. Non a caso la terza e ultima sezione è dedicata alle postille sulla prima parte, ove si trovano temi quali «democrazia e tecnica» o «l’essenza del nichilismo», vale a dire note problematiche severiniane sulle quali è ancora aperto un dibattito. Insomma, La potenza dell’errare è un libro divulgativo che offre un soddisfacente sguardo teoretico sul pensiero di un filosofo unico nel panorama attuale.
Non è facile parlare con Severino di quest’opera, giacché egli tende ad approfondire ulteriormente le questioni messe in gioco. Ma basta, per esempio, fissare l’attenzione sulle parole di titolo e sottotitolo per cogliere la portata del contenuto: potenza, errare, storia, Occidente. Lo stesso pensatore ci confidava: «Incominciamo dalle ultime due. Occidente significa storia dell’Europa e della sua espansione nel mondo: marxismo, capitalismo, democrazia, individualismo, dimensione planetaria, soprattutto tecnica. Esse si rivolgono agli storici: c’è un sottinteso dialogo con loro, ché praticano ormai lo specialismo così com’è applicato nelle scienze della natura; va detto che si sono anch’essi arroccati nell’atteggiamento specialistico. Qui il dialogo sottinteso con le ricognizioni storiche di ogni tipo è che l’anima delle res gestae dell’Occidente è filosofica. Giustifichiamola rapidamente: si agisce in relazione al significato che ha il mondo per chi agisce: l’agire di un taglialegna è conformato in un certo modo, e non in un altro, perché egli crede di avere dinanzi un albero e non un sasso o un cane; il significato in cui consiste essere albero determina il suo agire». Il pensiero filosofico ha portato alla luce quella fondamentale rete di fondo di significati: ogni forma di azione di ciò che è in rapporto a quei significati, è diventata storia dell’Occidente. E il suo carattere filosofico «è l’anima del pianeta, ovvero il punto di riferimento imprescindibile di ogni storia, indipendentemente dalla coscienza che gli storici ne hanno».
Poi abbiamo sottoposto alla sua attenzione «errare» e «potenza». Severino replica: «Si tratterebbe di capire che avere potenza è essere nell’errore. Viceversa, essere nella verità significa trovarsi in una posizione diversa da quella della potenza. Questo non vuol dire che l’impotente è colui che è nella verità, perché l’impotente è il fallimento del potente (non ho scritto un’apologia dell’impotenza). Tale concetto può essere chiarito dicendo che oggi la tecnoscienza ha rinunciato a essere verità assoluta (lo dichiara esplicitamente) e lo ha fatto perché la verità assoluta, che era la l’oggetto essenziale della tradizione filosofica, impediva l’acquisizione di quelle verità che lo sviluppo dell’esperienza era in grado di fornire e che per altro smentivano (e ancora smentiscono) gli schemi fissi della pretesa di possedere un sapere definitivo. La tecnoscienza è potente proprio per aver rinunciato alla verità. Da qui il titolo La potenza dell’errare».
Ma a questo punto emerge il tratto più in salita, più nascosto: e cioè che l’agire si fonda sulla persuasione della trasformabilità del mondo. «A partire dai greci — prosegue Severino — la trasformazione è intesa come un andare dal nulla all’essere; ed è proprio questo andare la radice di fondo dell’errare, dove l’errare di cui si sta parlando è qualcosa di essenzialmente più decisivo di qualsiasi colpa originaria o peccato delle origini: è l’abisso più profondo di ogni altro in cui l’uomo può venire a trovarsi, nel quale egli vive e pensa le cose come un nulla».
Dicevamo che la struttura del libro è divisa in tre sezioni. Ciò ha consentito a Severino di puntualizzare ulteriormente, approfittando di tale caratteristica. Per esempio, la prima di esse è intitolata «Scambio delle parti e alienazione della verità». «Alienazione della verità» significa per il filosofo essersi trovati nell’abisso già ricordato: la verità autentica non è più quella della tradizione filosofica, di cui il pensiero scientifico si è liberato. «Ma — aggiunge — anche la filosofia del nostro tempo si è liberata dalla verità della tradizione e per questo si trova in quell’abisso, cioè nell’alienazione della verità autentica». E che dire dello «Scambio delle parti»? Per il pensatore è uno dei fenomeni emergenti dell’alienazione della verità e consiste nel rovesciamento per cui il mezzo, grazie al quale l’agire raggiunge il proprio scopo, è destinato a diventare lo scopo di questo agire. Ci offre un esempio: «Nel cristianesimo la prassi poetica ha come scopo la glorificazione di Dio. Accade già nella poesia cristiana, già in Dante che passa la sua vita a poetare: la glorificazione di Dio diventa il mezzo per la realizzazione del canto poetico, che da mezzo si trasforma in scopo».
In sintesi diremo che Severino vede alla radice della storia dell’Occidente, in concetti quali azione, volontà, potenza, l’alienazione più profonda della verità, o meglio l’estremo disfarsi della verità. Il verbo disfarsi va inteso come nel caso in cui ci si disfa di una ricchezza e si resta impoveriti. O forse: disfatti.


La Stampa 13.11.13
Nuovo realismo nella zuppiera
Dietro il clamore mediatico, contenuti vaghi e nessuna novità nel movimento filosofico descritto e propagato da Maurizio Ferraris
di Franca De Agostini

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La Stampa 13.11.13
“Mio papà Galante Garrone mi leggeva Gian Burrasca”
Lo storico e giurista nel ricordo della figlia: “Mi riteneva troppo buona. E così ha vellicato la mia dimensione ribelle”
di Bruno Quaranta

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Corriere 13.11.13
Primo Levi raccontato ai ragazzi


«L’uomo, il testimone, lo scrittore»: non si può parlare di Primo Levi tralasciando uno dei tre aspetti. Per questo Frediano Sessi, che si è occupato spesso di temi legati alla Shoah, ha intitolato così la sua biografia dedicata all’autore di «Se questo è un uomo». Un libro per ragazzi (Primo Levi: l’uomo, il testimone, lo scrittore , Einaudi Ragazzi, pp. 160, e 10, dagli 11 anni) che parte da una fotografia del 1920 del piccolo Primo in braccio alla madre e si chiude con l’immagine della tomba, «all’ombra amica di un acero» nel cimitero ebraico di Torino con le date di nascita e di morte (1919-1987) e il numero che i nazisti gli tatuarono sul braccio quando lo rinchiusero nel carcere di Auschwitz: 174517. Sessi accenna al suicidio, ma sembra stare con chi non ha creduto che lo scrittore volesse togliersi la vita. Nelle 140 pagine di racconto che stanno in mezzo c’è tutto: il corpo fragile e la luce della ragione, la consapevolezza, e il dramma, di chi si sente peggiore degli altri per essersi salvato. L’intreccio tra la vita e gli scritti è semplice e efficace, un utile ripasso anche per molti adulti.

Repubblica 13.11.13
Caro papa, caro Odifreddi
Dialogo (senza sconti) sulla Verità e sulla Fede
Esce per Mondadori la corrispondenza tra il matematico e Joseph Ratzinger
di Paolo Rodari


La lettera è datata 30 agosto 2013 ed è firmata Benedetto XVI — Joseph Ratzinger. La medesima firma che il Papa teologo ha messo in copertina delle sue opere, quelle su Gesù di Nazareth, nelle quali invitò gli studiosi a contraddirlo, in spirito di ricerca teologica e scientifica. Il testo è in risposta a una prima lettera che l’«incallito miscredente» — come si definisce lui stesso — Piergiorgio Odifreddi ha scritto a Ratzinger proprio ricercando nel confronto con lui non «salamelecchi formali, ma argomenti sostanziali».
La lettera di Odifreddi venne scritta nel 2011. Uscì sotto firma di libro —Caro papa, ti scrivo—e inviata dall’autore a Benedetto XVI tramite il suo segretario Georg Gänswein. E quando Odifreddi, «al di là delle ragionevoli speranze», ha ricevuto dal Papa emerito una risposta circostanziata e profonda, è stato doveroso rivedere Caro papa, ti scrivo e dare alle stampe un nuovo volume, significativamente intitolato
Caro Papa teologo. Caro matematico ateo. Dialogo tra fede e ragione, religione e scienza: «un unicum», scrive Odifreddi. Che continua: «Divisi quasi in tutto, ma accomunati da un obiettivo: la ricerca della Verità, con la maiuscola. È questa verità che i critici del Papa, e più modestamente anche i miei, bollano come “fondamentalismo”: teologico in un caso, scientista nell’altro. È questa Verità che entrambi pensiamo non solo di poter trovare, ma di aver già trovato: l’uno nella religione e nel cristianesimo, l’altro nella matematica e nella scienza. Uno di noi sbaglia, ciascuno di noi crede che a sbagliare sia l’altro, e in questo libro cerchiamo entrambi di spiegare perché».
La risposta di Ratzinger a Odifreddi dice più cose. Anzitutto mostra il vero volto dell’uomo diChiesa troppo superficialmente definito “panzerkardinal” ai tempi in cui era prefetto dell’ex Sant’Uffizio, e “Papa conservatore” una volta salito al soglio di Pietro. Niente di più falso. In realtà Ratzinger è un fine teologo che come il suo successore Francesco cerca il confronto con tutti, non credenti in primis.Odifreddi poi, lo punge sul vivo discettando principalmente su quellaIntroduzione al cristianesimo che, secondo molti, resta una delle sue opere più riuscite.
Ratzinger la scrisse nel 1968 attingendo con forza alla sapienza del suo maestro, il teologo italo-tedesco Romano Guardini, che nel 1938 aveva dedicato al tema la splendida opera
L’essenza del Cristianesimo.
Guardini fu un faro, per Ratzinger, che da lui imparò anche la passione per l’ascolto e il confronto. Era sulle colline di Isola Vicentina che Guardini trascorrendo dei giorni di vacanza in una sua tenuta di campagna meditava e riceveva le visite di illustri personaggi come il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, e il filosofo Giuseppe Faggin. Diceva Guardini: «Quasi tutte le mie idee sono nate e maturate qui, sotto gli alberi di Isola, tra le sue belle colline e la vasta pianura vicentina». Lo stesso spirito, la stessa passione per lo studio e la ricerca teologica, che è propria del teologo Ratzinger. Il quale, probabilmente, nella sua prima estate da Papa emerito, nel silenzio dei giardini di Castel Gandolfo prima, di quelli vaticani poi, ha trovato il tempo per prendere carta e penna e scrivere all’«Illustrissimo Signor Professore Odifreddi...» una lettera profonda e «in parte dura». Ma — scrive Ratzinger — «del dialogo fa parte la franchezza; solo così si può crescere la conoscenza». Lo sa bene Odifreddi, che non a caso nella sua prima lettera aveva «umilmente suggerito» al Papa: «Abbassate le vostre difese!». E aveva citato le parole di Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura! Non abbiate paura! Conoscerete la verità e la veritàvi farà liberi!».
IL LIBRO Caro papa teologo, caro matematico ateo, di Piergiorgio Odifreddi e Benedetto XVI (Mondadori, euro 12)

Repubblica 13.11.13
Il nuovo saggio di Guido Crainz
Una stagione che non vuole tramontare
di Guido Craiz


Nel crollo della prima Repubblica ci si illuse che le colpe fossero solo di un ceto politico incapace e corrotto, e che ad esso potesse contrapporsi una virtuosa società civile: oggi nessuno può avere questa illusione e ci si interroga semmai su quanto sia profondo e irrimediabile l’inabissarsi di entrambi. E se sia possibile costruire qualche vascello, anche di fortuna, per riprendere il mare. Se nel corpo del paese ve ne sia sufficiente desiderio e forza, prima ancora che la possibilità. [...] Dalla cronaca prendono inevitabilmente avvio molte riflessioni: alla storia però, alla nostra storia, fortissimamente rimandano un crollo così rovinoso del sistema politico e una involuzione così profonda del paese. E il nesso fra cronaca e storia è centrale: proprio quel nesso può aiutare a muoversi fra le nebbie, e spesso fra le melme, della seconda Repubblica. Nebbie e melme che hanno radici negli stessi processi che portarono al crollo della prima: gli stessi che presiedettero poi a una transizione illusoria e fallimentare. E rimandano ancor più all’indietro: rimandano, a dirla in breve, alla qualità stessa — o meglio, alle contraddizioni e ai guasti — della modernizzazione italiana, e al rapporto fra istituzioni, sistema politico e paese. All’evolversi o al degradare di questo rapporto nel corso dei decenni.
Al centro vi è dunque una seconda Repubblica fallita e forse mai nata: illuminata però anche da speranze e impegni civili, ansie di rinnovamento e di trasformazione. Sempre più flebili, col passare del tempo: perché? Questa domanda è diventata via via centrale in una riflessione che era nata come tentativo di cogliere i tratti profondi della stagione berlusconiana, il suo significato, il suo collocarsi nella più lunga storia della Repubblica. Di comprendere, anche, le ragioni del suo permanere: le sue radici e al tempo stesso le deformazioni che ha indotto e induce nel corpo vivo della nostra società. Il suo rafforzare e al tempo stesso rimodellare processi già avviati nel corso degli anni Ottanta: con lo sprezzo crescente dei valori e dei vincoli collettivi, con il primato del “sé” sul bene pubblico, con l’erosione quotidiana delle norme elementari di legalità e diritto. Perché però questi processi hanno trovato così deboli anticorpi? Perché la stagione di Berlusconi, più volte erosa da se stessa — dalle sue incapacità e dalla miseria del suo illusionismo — ha potuto protrarsi così a lungo, inducendo stravolgimenti gravi nel funzionamento delle istituzioni? Stravolgimenti, anche e soprattutto, nella cultura del paese: vent’anni fa il primo avviso di garanzia già incrinò la credibilità di Bettino Craxi, oggi una condanna definitiva è sembrata sostanzialmente irrilevante a una parte non piccola degli italiani. Senza contare quelli che la considerano semplicemente iniqua.
Questi erano e sono dunque i nodi centrali che portano a una riflessione sempre più insistita sulla inadeguatezza della sinistra. Sulla sua incapacità di opporsi davvero a queste derive e al tempo stesso progettare il futuro, delineare un modo diverso di “essere italiani”, restituire ai cittadini la fiducia nella democrazia: una fiducia gravemente erosa da una “partitocrazia senza partiti” povera o priva di etica. Come neIl rinoceronte di Eugène Ionesco la mutazione sembra quasi senza scampo: così appare, perlomeno, a quella metà degli italiani che è rifluita nell’astensione o ha votato per il Movimento 5 Stelle. E non solo a loro. Come si è giunti al deserto di oggi? E vi è qualche possibile via d’uscita?
Non è certo facile uscire dal disorientamento o dal rimpianto per quel grande e articolato mondo che è stata la sinistra italiana, con le sue passioni e i suoi miti, le sue generosità e i suoi slanci (senza dimenticare naturalmente i suoi errori e le sue colpevoli rimozioni). Si fa fatica a districarsi fra culture differenti, da quella comunista a quella azionista, e fra l’accumularsi di crisi diverse: certo è che alla seconda Repubblica approda una sinistra ormai priva di alcuni suoi tratti fondamentali e fondanti. Già negli anni Settanta del resto — cioè nel momento della sua massima espansione e del suo maggior prestigio — erano entrati progressivamente in crisi alcuni suoi architravi tradizionali: dai riferimenti internazionali alla centralità ed egemonia della classe operaia (apparentemente trionfante, allora, ma quasi espulsa poi dal discorso pubblico in un brevissimo volger di tempo). Sino all’idea stessa di progresso, di sviluppo lineare e senza limiti, che stava al fondo già del socialismo ottocentesco: su questo terreno la crisi petrolifera sancisce uno spartiacque epocale (forse inavvertito, allora, nella sua interezza). Ce n’è d’avanzo: negli anni Ottanta la sinistra si trova a navigare nei flutti impetuosi del neoliberismo e nella crisi del welfare senza più rotta. E con un elemento ancor più profondo di spaesamento. A dirla in breve: negli anni Ottanta la modernità inizia a non portare più “automaticamente” con sé l’allargamento dei diritti collettivi, della partecipazione dei cittadini, delle acquisizioni sociali. L’innovazione sembra separarsi dal progressismo politico, il vento della modernizzazione e quello del progresso civile non soffiano necessariamente insieme. È messo in discussione in più forme, insomma, il coniugarsi stesso della sinistra al mutamento e alla speranza di trasformazione: e contemporaneamente la sua “diversità” inizia ad appartenere al passato. Nel crollo della prima Repubblica, poi, la sinistra manca in gran parte alla prova, incapace com’è di rinnovare realmente la politica e il proprio modo di essere: destinata dunque ad apparire a molti elettori come l’ultima espressione di un sistema dei partiti fallito. L’ultima incarnazione del vecchio: poco convincente e poco attrattiva anche quando l’illusorio nuovo del centrodestra mostra tutta la sua miseria.
IL LIBRO Diario di un naufragio di Guido Crainz Donzelli pagg. 255 euro 19,50 In libreria da oggi