giovedì 14 novembre 2013

l’Unità 14.11.13
Lo sciopero continua «Cambiare si può»
Sciopero e manifestazione di Cgil, Cisl e Uil a Roma per cambiare la legge di Stabilità
di Luigina Venturelli


MILANO «Cambiare si può e si deve». Lo ripetono da tempo i sindacati. Sono parole che in questi giorni di mobilitazione e sciopero su tutto il territorio italiano si leggono spesso sugli striscioni delle manifestazioni unitarie indette da Cgil, Cisl e Uil. E che, nei confronti del governo, valgono al contempo come un’accusa e come un appello.
Secondo le organizzazioni confederali, infatti, la legge di Stabilità per il 2014 manca di discontinuità con le leggi finanziarie degli ultimi anni, nonostante queste si siano dimostrate incapaci di fare uscire il paese dalla crisi. E proprio per questo deve essere modificata radicalmente, non per apportare aggiustamenti di margine, ma per cambiare l’impianto complessivo della manovra. Per «dare più risorse ai lavoratori e ai pensionati», tagliare gli sprechi e «far ripartire la crescita», affinché l’Italia torni finalmente a «dare un futuro alle ragazze e ai ragazzi costretti ad andare all’estero» in cerca di lavoro.
Richieste che hanno animato le proteste dei giorni scorsi, accompagnate da scioperi generali di quattro ore lunedì in Calabria, martedì in Basilicata e ieri in Toscana e Lazio e che saranno ribadite oggi in Emilia-Romagna, Liguria, Veneto e domani nelle altre regioni del Paese, con una grande manifestazione a Milano che sarà chiusa dal segretario generale della Cgil, Susanna Camusso.
Ieri a Roma hanno sfilato a migliaia da piazza dell’Esquilino fino a piazza Santi Apostoli, per lamentare che questo «non è un paese per giovani» e che, proprio per questo, non può permettersi l’ennesima manovra finanziaria «inadeguata» ad affrontare le emergenze della disoccupazione giovanile, del precariato e dell’assenza di ammortizzatori sociali per alcune categorie di lavoratori. «Serve un cambio di rotta vero. Non si può pensare, quando si cercano dei soldi, sempre e solo a lavoratori e pensionati, ma bisogna abbattere appunto i costi della spesa pubblica, cominciando dagli sprechi e portando avanti una seria e intensa lotta all’evasione fiscale. È da qui che devono arrivare le risorse. Questo Paese non si salva se non si garantisce invece un sostegno agli stipendi e alle famiglie» hanno sottolineato i dirigenti di Cgil, Cisl e Uil nei loro interventi.
Oggi i sindacati scenderanno in piazza a Imola, Reggio Emilia, Verona, mentre domani sarà la volta di Bologna e Milano. Nella capitale lombarda, in particolare, una volta orgogliosa del proprio ruolo di locomotiva d’Italia, la manifestazione si svolgerà in una città segnata dalla crisi, con circa 140mila persone senza lavoro e un tasso di disoccupazione che si mantiene stabilmente al 7,8% e che interessa soprattutto le donne, i giovani con un alto tasso di scolarità e gli over50: una percentuale registrata finora solo nel lontano 1971 e a cui occorre aggiungere i circa 50mila cassaintegrati, 20mila dei quali certi di non rientrare. Il corteo partirà alle 9.30 da Palestro per concludersi in piazza della Scala con l’intervento della leader Cgil. È stato invece revocato lo sciopero di 4 ore per il settore dei trasporti cittadini a causa della partita Italia-Germania allo stadio Meazza.

il Fatto 14.11.13
Incontro al Quirinale
Bergoglio oggi ospite di Giorgio Napolitano


Arriva papa Francesco oggi al Quirinale. Di comune accordo con la Santa sede il Colle ha deciso di gestire la prima visita del nuovo papa predisponendo un cerimoniale decisamente più sobrio che in passato. Solo “alcune variazioni sul tema” di un protocollo collaudato e imponente che da decenni dirige le visite più importanti al Colle. La visita sarà trasmessa in diretta da Rai1 dalle 10:40.

il Fatto 14.11.13
Roma - Reggio Calabria
Affari, clan e prelati: santi intrecci
di Beatrice Borromeo


Gli affari prima di tutto. In questo, tanto i mafiosi quanto l’anima nera della Santa Sede – quella dei borsoni pieni di lingotti d’oro che secondo Monsignor Scarano venivano scaricati nei cortili Vaticani e degli infiniti scandali legati allo Ior, dal crac del Banco Ambrosiano in giù – sono alquanto atei. E se il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, svela la preoccupazione che il Pontefice possa essere preso di mira dalle cosche, non è per caso. “Chi finora si è nutrito del potere e della ricchezza che derivano direttamente dalla Chiesa è nervoso, agitato. Papa Bergoglio sta smontando centri di potere economico in Vaticano. Se i boss potessero fargli uno sgambetto non esiterebbero”, ha detto ieri il magistrato al Fatto. E di casi di commistione tra la criminalità e la Santa Sede sono zeppe sia la storia sia le cronache più recenti.
Proprio l’altroieri la Dia di Roma ha sequestrato il Gran Hotel Gianicolo, qualche chilometro a Sud della basilica di San Pietro, nella zona della Capitale che gode della vista più bella. Il complesso, con 48 stanze, piscina e parcheggio interno, del valore di oltre 150 milioni di euro, appartiene a Giuseppe Mattiani e al figlio Pasquale. Imprenditori che, si legge nel provvedimento di sequestro diffuso dal Tribunale di Reggio Calabria, sarebbero “collusi con la ‘ndrangheta” (in particolare con la cosca Gallico di Palmi). Quello che è sfuggito ai più, però, è che il Gran Hotel Gianicolo, prima di passare nelle mani degli affaristi calabresi, apparteneva alla congregazione “Dama apostolica del Sacro Cuore”. L’immobile, un ex convento, fu venduto addirittura sottoprezzo proprio l’anno prima del grande Giubileo del 2000, quando il valore del mattone era alle stelle. Anche la procedura fu anomala: il commercialista che – pro bono – gestiva il patrimonio della congregazione non fu nemmeno informato della vendita. Sul rogito appare infatti solo la firma di una suora, che avrebbe trattato con gli avvocati dei Mattiani tramite intermediari che il notaio omise di registrare.
L’IPOTESI DEI MAGISTRATI è che i Mattiani siano stati messi in contatto con il Vaticano da un giro di colletti bianchi. Professionisti che gravitano su Roma e fanno da intermediari tra Santa Sede e ‘ndrangheta, o ambienti vicini a questa.
Ma ci sono anche padrini che non hanno bisogno d’introduzione. Il caso più emblematico è quello di Giulio Lampada, il presunto riciclatore della ‘ndrangheta che nel 2013 è stato condannato in primo grado a 16 anni per associazione mafiosa e il cui nome appare, oltre che nelle indagini, anche a pagina 953 degli Acta Apostolicae Sedis. L’ex segretario di Stato Tarcisio Bertone – allontanato proprio da Papa Francesco – ha infatti insignito Lampada di una ricompensa dedicata a “quei cattolici che si dedicarono attivamente alla vita della chiesa”, rendendolo Cavaliere dell’Ordine di San Silvestro Papa. Un onore di cui Lampada, al telefono col suo avvocato, si compiace: “Ora in tutte le diocesi mi dovranno chiamare ‘eccellenza’”, dice mentre annuncia che “dopo aver ricevuto targhetta e distintivo” si farà preparare “un’uniforme su misura”. Ma i privilegi non finiscono qui. Nel 2008, la figlia di Lampada viene battezzata addirittura in Vaticano. Lampada, interrogato dai magistrati milanesi, spiega: “Sono arrivato tramite un avvocato di Roma (...) che lavora per il Vaticano (…). Ho lasciato mi sembra 500 euro, o 1000 euro, come deposito al Vaticano, una cosa del genere”. Pratiche che, con Papa Bergoglio, sembrano destinate a sparire. “L’idea di mettere in discussione addirittura lo Ior, cioè la banca Vaticana che ha riciclato ingenti capitali mafiosi, è epocale. Nessuno aveva mai osato toccare questa faccia della Chiesa”, dice lo storico Antonio Nicaso, autore assieme a Gratteri del libro Acqua Santissima. E aggiunge: “Bergoglio sta portando avanti una campagna contro la corruzione. E senza corruzione, nessuna mafia può sopravvivere”. Intanto però, in Calabria, la chiesa ha ancora il volto dell’arcivescovo Giuseppe Morosini, che ha dichiarato: “Un mafioso non è tale fino all’ultimo grado di giudizio, ma anche dopo è bene fare molta attenzione nel giudicare”. Una visione non troppo lontana da quella delle sorelle Strangio che, condannate per la strage di Duisburg, reagiscono così: “Nessun essere umano dovrebbe ergersi a giudice di un altro essere umano perché uno solo è il giusto giudice, Dio”.

il Fatto 14.11.13
Tutela il papa ma non vede il riciclaggio di monsignor Scarano
Il responsabile della Gendarmeria difese “Don 500 euro” nella vicenda che lo ha contrapposto a Giovanni Zito nel rientro dei capitali esteri
di Marco Lillo


Chi sono gli uomini che vegliano sulla sicurezza di papa Francesco? E sono all’altezza del compito in un momento così delicato?
All’interno del Vaticano la protezione del pontefice è compito della Gendarmeria Vaticana, diretta dall’ex finanziere di Arezzo, poi passato ai servizi segreti civili italiani e dal 1999 alle dipendenze del papa, il generale Domenico Giani, detto anche “Napoleone”, per la sua alta considerazione di sé. A difendere il papa dalle minacce, anche quelle della ’ndrangheta paventate dal pm Nicola Gratteri, è questo strano comandante che ama farsi fotografare in divisa con tante medaglie e nastri da sembrare un albero di Natale: grande ufficiale al merito della Repubblica italiana, commendatore dell’Ordine di San Gregorio Magno, cavaliere di gran croce dell’Ordine di San Silvestro Papa, commendatore di merito con placca del sacro militare Ordine costantiniano di San Giorgio.
A PARTE le placche il suo è un ruolo di potere effettivo, da un lato per le informazioni delicate che la Gendarmeria raccoglie grazie anche alle intercettazioni e ai pedinamenti, dall’altro perché è in grado di presentare raccomandazioni, come quella al segretario del papa don George Ganswein in favore del suo amico prefetto Salvatore Festa pubblicata sul libro Sua Santità. Il Corpo della Gendarmeria opera anche al-l’estero in collaborazione con le polizie locali, con esiti talvolta grotteschi. Come è accaduto in Brasile a luglio quando il papa era imbottigliato nel traffico a Rio e Giani si sbracciava come un vigile urbano per tenere a bada la folla. In Italia la Gendarmeria si avvale della collaborazione dell’Ispettorato di pubblica sicurezza vaticano e della Polizia di Stato italiana, per curare l’incolumità del pontefice.
Se l’acume e il fiuto sono quelli testati nel caso di monsignor Nunzio Scarano, non c’è da stare tranquilli. In molti danno per imminente il passaggio di Giani a un alto incarico internazionale dopo la nomina di Bergoglio che ha poco a che fare con gli ambienti che lo apprezzano, da Gianni Letta in giù. Nella telefonata intercettata dopo l’incontro con Giani, Scarano dice a un suo amico che il comandante si vantò di essere amico del prefetto La Motta, poi arrestato per lo scandalo del Fondo Edifici di Culto. Con il suo fiuto, Giani tuttora siede nel Comitato di sicurezza finanziaria, creato ad agosto da papa Bergoglio, per “coordinare le Autorità competenti della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano in materia di prevenzione e di contrasto del riciclaggio, del finanziamento del terrorismo e della proliferazione di armi di distruzione di massa”.
Eppure Giani non ha fiutato alcun pericolo nel trattare con monsignor Scarano e, stando a quanto emerge dagli atti del-l’inchiesta dei pm Stefano Fava, Stefano Pesci e Nello Rossi, non ha giocato contro il monsignore ma in suo favore. La Gendarmeria vaticana non ha segnalato a nessuna autorità interna il rischio rappresentato da un prelato che parlava tranquillamente con Giani dei traffici orditi dallo 007 Giovanni Zito e dal broker Giovanni Carenzio per far rientare 20 milioni di dubbia provenienza dalla Svizzera. Quando il piano fallisce, Zito pretende e ottiene dal monsignore un assegno di 400 mila euro a copertura delle spese affrontate. Il comandante della Gendarmeria prende per buona la versione di Scarano e usa il suo potere per aiutarlo a riavere i 400 mila euro sfruttando l’azione della Polizia italiana. Il 21 novembre del 2012 Giani scrive su carta intestata della Gendarmeria una lettera con sopra impresso il timbro “Riservata” a Enrico Avola, Dirigente Generale del-l’Ispettorato vaticano: “Vengo ad informarLa, per opportuna conoscenza e per gli eventuali provvedimenti da adottare, di uno spiacevole fatto di cui si è reso protagonista il Dr. Giovanni Zito, presunto funzionario dell’Aisi (l’Agenzia d’informazione per la sicurezza interna) della Repubblica italiana”.
SIN DALL’INCIPIT Giani, nella lite tra Scarano e Zito, si schiera con il primo e non comprende il vero punto della questione: l’operazione di rimpatrio dei capitali che i due ex amici hanno condiviso a monte della lite. Nella lettera alla Polizia riporta così il racconto ricevuto da Scarano: “Carenzio aveva prospettato la problematica di far rientrare una grossa somma di denaro dalla Svizzera. Zito si offre di aiutarlo sottolineando la sua disponibilità di un aereo dei servizi, facendogli intendere che per un’operazione del genere occorrevano 4 o 5 milioni di euro (...) ma il prelato non conosce l’esito dei quattro incontri che i due nel frattempo avevano avuto, come pure le telefonate intercorse tra loro”. Scarano è quindi incolpevole, anzi è una vittima. Secondo Giani, Zito “con minacce fisiche e le pupille dilatate, chiede ed ottiene dal prelato, oltre ai 400 mila euro, anche un assegno in bianco per altre fantomatiche
spese affrontate in precedenza”. Basta ascoltare le telefonate intercettate per capire che Giani non mira a sgominare il traffico dalla Svizzera all’Italia, né immagina che passi per lo Ior e per Scarano. Il 16 ottobre parla con Scarano e al telefono si schiera subito con lui. Pochi giorni prima di scrivere alla Polizia italiana lo incontra. Così Scarano il 12 novembre racconta a un amico: “[Giani] è stato veramente gentile e ha detto: che cosa lei vuole che io faccia, perché per me innanzitutto è un onore riceverla (...) questo è molto grave, (Zito ndr) va licenziato! ”.

il Fatto 14.11.13
Analisi di gruppo per rimuovere Matteo
Letta presenta il libro dello staff di Bersani sui giorni dei 101
“Lo leggo quando mi prende lo sconforto”
di Wanda Marra


Giorni bugiardi io lo tengo sul comodino. E quando mi prende lo sconforto lo rileggo. Invito alla lettura tutti quelli che ce l’hanno con me perché non faccio abbastanza. Si ricordino da quale caos veniamo”. Enrico Letta parla dal podio del Tempio di Adriano. Sul palco alle sue spalle ci sono Chiara Geloni e Stefano Di Traglia, autori fieramente di parte del libro che racconta le vicende che portarono dalle primarie vinte da Bersani alla rielezione di Napolitano. E l’ex segretario democratico, insieme al ministro Gaetano Quagliariello. In platea c’è molto Pd, quello bersaniano in primo luogo. E il segretario Guglielmo Epifani. La manifestazione ha un po’ del nostalgico, tra i bei tempi andati di quando il Pd era convinto di vincere le elezioni, un po’ del cospirativo. In sala tiene banco la tolda di comando del Pd pre-elettorale e nelle intenzioni di alcuni dei promotori pure di quello futuro. L’ostacolo da abbattere è Matteo Renzi. “Sono scappato di prigione per mezz’ora”. Enrico Letta arriva alle 18 e 45, prende la parola alle 19 e 15. Cerca la battuta davanti a una sala piuttosto tiepida (nonostante le ripetute affermazioni di Bersani “la nostra gente ha capito”, a molti le larghe intese non sono andate giù).
SPIEGA il premier: “Dal 17 al 20 aprile la democrazia ha sbandato”. È ancora più esplicito: “Il congresso affronti quanto accaduto in questi mesi”. Prima di tutto la vicenda dei 101. Ha un bel ribadire Letta che vuole rimanere fuori dalle vicende congressuali, ma la scelta di stare accanto a Bersani alla presentazione di un libro che scrive la storia “secondo Pier Luigi” è piuttosto inequivocabile. Una scelta di lealtà, spiegano i suoi, perché la lealtà è una categoria politica. Ma evidentemente Letta fa sua quella versione, in cui si indicano come mandanti dei 101, Renzi e Massimo D’Alema. Quest’ultimo, sponsor numero uno dello sfidante Gianni Cuperlo, che Bersani appoggia. “Bersani non era certo in grado di imporre un candidato”, ragionava qualche giorno fa una sua fedelissima. E Letta per la segreteria non compete, ma davanti a primarie per la premiership non si tirerà indietro. Il film va avanti, ma ava anche indietro: “Io e Bersani in quei giorni di aprile ci vedevamo a casa mia, tanto che i miei figli il lunedì successivo quando non lo videro a cena mi chiesero ‘papà dove sono i tuoi amici?’”. Le riletture non finiscono mai. Come quella che Letta dedica al governo di cambiamento: “Esiste questo governo perchè c'è stato il tentativo di Bersani. Bersani si è anche immolato, dimostrando che quell'ipotesi non era possibile”. Lui Pier Luigi è allineato. “Questo governo di servizio risponde a un’esigenza e di questo ringraziamo Enrico”. Tutto il resto è anti-renzismo: “Non è vero che ho sbagliato un rigore a porta vuota”, rievocazione polemica della “non vittoria” elettorale. “Io non ho mai pensato che il Pd doveva essere 'Forza Bersani”. A proposito di versioni, c’è anche quella di Quagliariello: “Mentre io trattavo con Violante per cambiare il Porcellum i bersaniani e i miei colleghi di partito mandavano messaggi per non farlo”. Passato ma anche presente-futuro.

il Fatto 14.1.13
Conversioni
Correnti a Repubblica Editore e fondatore divisi sul sindaco
Dopo la bocciatura di Scalfari, De Benedetti annuncia il voto per il rottamatore
di Giorgio Meletti


Come sempre nelle grandi occasioni, Carlo De Benedetti ha fatto il suo endorsement dalle colonne del Corriere della Sera, in una solenne intervista firmata da Alan Friedman: “Alle primarie del Pd voterò per Matteo Renzi”. I lettori del suo giornale, laRepubblica, si sono invece beccati l’omelia domenicale del fondatore Eugenio Scalfari, di segno opposto. Partita con il tono lieve di un sorprendente confronto tra due pensatori contemporanei come il sindaco di Firenze e lo scrittore e showman Fabio Volo, è sfociata in una autentica invettiva: “Il talento glielo riconosco ed è anche simpatico quando si ha l’occasione di incontrarlo, ma non credo che lo voterò alle primarie del Pd per la semplice ragione che, avendo promesso tutto, la sua eventuale riuscita politica rappresenta un’imprevedibile avventura e in politica le avventure possono giovare all'avventuriero ma quasi mai al paese che rappresenta”. E per rimarcare meglio la bocciatura, Scalfari gli contrappone la santificazione dell’intellettuale bresciano: “Ricorda Balzac quando esordì scrivendo feuilleton sui giornali popolari dell’epoca. Poi entrò in forza nella letteratura e ne fu uno dei massimi esponenti. Auguro a Volo di fare altrettanto”. Mai la divergenza tra il quasi ottantenne editore e il quasi novantenne fondatore fu così esplicita. De Benedetti chiama in causa l’elemento anagrafico, ovviamente non a carico dei più anziani, ma di quella generazione di mezzo che, nonostante i ripetuti e solenni incoraggiamenti dell’ingegnere di Ivrea (come lo chiamavano quando tifava per Achille Occhetto), ha fallito: “Ormai la nostra speranza è legata a chi oggi ha meno di quarant’anni”. De Benedetti ammette con disinvoltura di aver cambiato idea rispetto alla precedente intervista al Corriere , quando liquidò Renzi dicendo che “di Berlusconi ne abbiamo già avuto uno”. Immediata la protesta di Gianni Cuperlo, avversario di Renzi e membro della generazione perduta bocciata da De Benedetti. Da molti anni ripete le accuse al partito di Repubblica di ingerirsi negli equilibri interni del suo partito. Il giornale diretto da Ezio Mauro è considerato dai cuperliani sdraiato sul sostegno a Renzi. E così anche stavolta Scalfari è isolato, come nell’estate 2012, quando difese l’intangibilità del Quirinale (nella vicenda dell’intercettazione Napolitano-Mancino) contro editorialisti del calibro di Franco Cordero, Barbara Spinelli e Gustavo Zagrebelsky. Quest’ultimo presidente onorario di Libertà e Giustizia, l’associazione voluta da Carlo De Benedetti.

l’Unità 14.11.13
Massimo D’Alema: «A Renzi dico che il congresso non è chiuso»
«Bene Cuperlo, il Pd deve avere un’identità»
«Chi sostiene Gianni non si piega alla campagna mediatica a favore di Renzi Il sindaco segretario? Poi dovrà convincere quelli che nel Pd non sono con lui»
«Potere economico e media schierati col sindaco. C’è chi vuole liquidare la sinistra»
«Se si mortificano gli iscritti poi chi li smonta i gazebo, Flavio Briatore?»
«L’amarezza che ognuno di noi può avere non giustifica la scelta di non votare»
intervista di Pietro Spataro


D’Alema, dai primi dati del voto degli iscritti risulta che Renzi e Cuperlo sono testa a testa. Ha davvero speranza che il suo candidato ce la faccia?
«Credo che il voto degli iscritti sarà più equilibrato. Però osservo che il congresso avviene con regole assurde e in un clima di totale mancanza di par condicio. C’è una campagna martellante a favore di Renzi ai limiti del ridicolo».
Anche De Benedetti si è schierato con il sindaco. Un altro segnale, non trova? «Quella scelta è del tutto coerente con la linea del suo giornale. C’è uno schieramento del potere economico e dei mass media a favore di Renzi che è impressionante. Basta sfogliare i giornali, guardare le tv. Ma vedo, con ammirazione, che c’è una parte notevole di iscritti al Pd che reagisce e resiste».
Però, ci sarà un motivo se l’establishment preferisce Renzi. Non sarà che è più convincente?
«Convergono su Renzi diverse valutazioni. C’è chi ritiene che sia la persona giusta per liquidare ciò che resta della sinistra italiana, che certi poteri hanno sempre guardato con avversione. E poi c’è chi ritiene che Renzi vada bene perché ci fa vincere. Ma ci fa vincere che cosa? C’è un equivoco di fondo: non stiamo andando alle elezioni, non scegliamo il candidato premier».
Ma insomma non c’è una cosa che le vada bene del sindaco di Firenze?
«Ma no, lui è una risorsa per il Pd. Ha una straordinaria capacità di comunicazione. Però sui contenuti vedo ancora risposte elusive. Se uno ti domanda perché sei andato ad Arcore da Berlusconi non puoi rispondere che se il presidente del consiglio chiama il sindaco di Firenze va. Perchè il sindaco di Firenze, quando il presidente del consiglio chiama, va a Palazzo Chigi. Renzi sarà pur bravo a battere sulla tastiera del computer con dieci dita, come fanno notare tutti i giornali, ma il fascino delle dieci dita ha cancellato ogni contenuto. Stiamo eleggendo un segretario, non un bravo dattilografo».
Eppure lui dice che vuole fare il segretario e il sindaco insieme proprio per i contenuti, per stare più vicino ai cittadini... «Certo, ma il segretario del Pd deve stare tra i cittadini italiani e non solo tra quelli di Firenze. Non è esclusivamente un problema di tempi dei due impegni. C’è anche un delicato problema di conflitto di interessi: un segretario di partito deve superare gli interessi di una città, deve essere capace di fare scelte che incidano e parlino a tutti. C’è il rischio che Renzi si trovi costretto a venire meno ai suoi impegni, o con il Pd o con i cittadini di Firenze».
Qualcuno obietta che anche tra i ruoli di parlamentare e segretario c’è un conflitto. Non è così?
«Questo è il segno di un’inquietante ignoranza costituzionale. Il parlamentare, come dice la Carta, rappresenta la nazione. Mentre il sindaco di Firenze rappresenta solo i cittadini di Firenze». La partita del congresso è già chiusa o no? Renzi vince di sicuro?
«Non lo credo. Anzi, si è dimostrata una grande vitalità nell’andare contro corrente. C’è una parte significativa del Pd e in essa tanti giovani che sostiene Cuperlo con passione e che non si è piegata a questa campagna mediatica. E comunque, se Renzi dovesse diventare segretario, si troverà a gestire un partito che in buona parte dovrà convincere. Non potrà pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia. Dovrà avere la saggezza di rappresentare un mondo più vasto e guadagnarsi il consenso di chi non è con lui e non solo dei suoi seguaci o di qualche editore. Per questo è importante che il risultato non sia plebiscitario. Altrimenti può esserci il rischio che una parte del Pd non si senta più nelle condizioni di viverci dentro. Sarebbe la cosa peggiore». Vede addirittura il rischio di una scissione?
«Ma no, nessuna scissione. La gente se ne può andare a casa anche silenziosamente. E se questo accade, se ci sarà un’emorragia di iscritti, sarebbe un problema serio. Poi i gazebo chi li smonta, Flavio Briatore?».
Eppure con le tessere gonfiate il Pd non ha dato una bella immagine di sé...
«Non è che le tessere sono state gonfiate. È accaduto che si è adottata una regola sbagliata, quella di potersi iscrivere fino al momento del voto. Non succede in nessun partito al mondo. Perché da noi sì? Perchè, sotto la pressione esterna, sembrava volessimo compiere un atto di chiusura. Diciamo la verità, siamo sotto il bombardamento di chi ci impone comportamenti strampalati, è come se non bastasse mai e ci venisse chiesto un continuo striptease. Ma è proprio così che trionfa il partito dei notabili e degli eletti e si incentiva un tesseramento forzoso e strumentale. Le cosiddette primarie aperte si offrono a deformazioni di questo tipo al quadrato, anzi al cubo. Per prevenire questi abusi dobbiamo evitare il meccanismo di primarie selvagge, che infatti negli Usa non ci sono. Lì vota solo chi si è iscritto all’elenco degli elettori democratici, ma preventivamente, non al momento del voto». Cuperlo sostiene che la sinistra deve fare la sinistra e non essere il volto buono della destra. Non si sente chiamato in causa?
«Assolutamente no. Condivido la preoccupazione. Si è teorizzato che il Pd potesse essere un partito programmatico con un’identità debole. È una visione sbagliata, perchè l’identità per un partito moderno è un elemento fondamentale. La destra ha una forte identità, esprime una serie di valori. Ora, contrapporre a forze così marcatamente identitarie l’idea di una sinistra programmatica a mio parere non funziona. Il Pd ha bisogno di recuperare una propria forte identità. Prenda il caso di New York. In quella città Di Blasio ha vinto proprio perché ha presentato una forza progressista con valori chiari».
E quale è oggi il cuore dell’identità della sinistra?
«Il grande tema di oggi è la lotta contro la disuguaglianza. Mi è parso che Renzi sia invece affascinato da una sorta di tardo blairismo. Ma quella è una stagione conclusa e per la verità anche con risultati molto discutibili. Oggi la crisi profonda della dottrina neoliberale è del tutto evidente. Non mi pare che il tema nostro sia introdurre elementi liberali nella cultura della sinistra. Persino Clinton dice, in modo autocritico, che è stato un errore demonizzare il ruolo dello Stato».
Lei parla di un’identità chiara della sinistra, ma poi sul tema dei rapporti tra Pd e Pse è scoppiato il putiferio. Non è surreale?
«Certo, ritengo che quel rapporto sia obbligato. E questo non significa snaturare il Pd, che ha una sua peculiarità nello scenario europeo e non può diventare un partito socialdemocratico. Spero che si possa arrivare a una definizione del Pse come partito dei socialisti e dei democratici e che ci sia un riconoscimento dell’apporto specifico del Pd. Ma non possiamo dimenticare che siamo in un’Europa bipolare e il Pse, in vista delle elezioni europee, esprimerà una candidatura, quella di Martin Schulz, per la guida della Commissione. Noi che facciamo, sosteniamo la candidatura dei conservatori? Il Pd deve compiere una scelta di campo di natura politica».
Prodi ha detto che non voterà alle primarie. Come giudica la sua scelta?
«La valuto negativamente. Non riesco a capire: diversi di noi hanno posizioni critiche o ragioni di amarezza personale, ma non credo che questo giustifichi il fatto di non andare a votare per il proprio partito.
Con Renzi segretario il governo Letta sarà davvero a rischio?
«Spero di no. Auspico che non si creino tensioni, non si può dare man forte a Berlusconi per far cadere il governo. Ma sono anche convinto che il Pd debba far sentire in modo più significativo la sua voce sulle scelte di governo. La voce del centrodestra si è sentita, spesso e anche in modo fastidioso».
E su quali temi il Pd deve alzare la voce?
«C’è poco da fare, noi abbiamo pagato un prezzo alto alle promesse elettorali del centrodestra. Abbiamo ridotto la tassazione sul patrimonio e poi invece siamo intervenuti sul cuneo fiscale mettendo in campo risorse ridotte. Si trattava di una scelta che poteva sostenere il lavoro e le imprese. Questo ha scatenato la protesta delle forze sociali sulla legge di Stabilità. Non è una posizione semplice per il Pd. Ecco, piuttosto che polemizzare con i sindacati avrei valorizzato questo aspetto: un’alleanza delle forze produttive che spinge in una certa direzione per promuovere la crescita.
Sulla legge elettorale sta emergendo l’ipotesi di un ritorno al Mattarellum. Dopo la bocciatura del doppio turno, la sostiene Cuperlo e anche Renzi pare disponibile. Pensa sia la strada giusta?
«Non sono un fan della legge Mattarella, tuttavia non possiamo negare che questa legge ha promosso il bipolarismo in Italia. D’altro canto, dal lungo dibattito alla ricerca di una soluzione alternativa per ora non è emerso nulla di concreto. Allora, questa proposta ha almeno il vantaggio di evitare il rischio di fronte al quale ci troviamo: il puro e semplice ritorno al proporzionale, che sarebbe un passo indietro inaccettabile».
Alle prossime primarie per il candidato premier sarà sfida tra Letta e Renzi? «Siamo specialisti per le discussioni campate in aria. Non sappiamo in quale contesto si svolgeranno quelle primarie. Nel frattempo potremmo scoprire, in qualche circolo o in qualche amministrazione locale, che Superman è un militante del Pd. Potremo escluderlo dalle primarie? Quando sarà il momento credo che i competitori interni ed esterni al Pd saranno più di uno, come è sempre accaduto.

l’Unità 14.11.13
Cgil e Cisl: il sindaco ci rispetti
di Massimo Franchi


ROMA Botta e risposta. Con punture di spillo. Renzi mercoledì attaccava i sindacati su certificazione dei bilanci e necessità di cambiare. E ieri è arrivata la risposta di Cgil e Cisl: «Rispetti la nostra autonomia», «Faccia un bagno di umiltà».
La battaglia del sindaco di Firenze contro i sindacati, spesso descritti come un potere burocratico e conservatore, viene da lontano, dalla prima Leopolda, dall’appoggio alle posizioni di Pietro Ichino sul mercato del lavoro. I rapporti sono sempre stati difficili e hanno toccato l’apice della lontananza quando nella domenica del primo turno delle primarie per la scelta del candidato premier di centrosinistra, Susanna Camusso, intervistata da Lucia Annunziata, rivelò il suo voto per Bersani.
E neppure l’incontro del 3 aprile scorso tra la stessa Camusso e Matteo Renzi in occasione del 120esimo anniversario della Camera del Lavoro di Firenze, a differenza di quanto sostenuto da molti retroscenisti, non aveva sortito alcun avvicinamento.
Renzi l’altro giorno è tornato alla carica, arrivando perfino ad usare le parole del leader Fiom Maurizio Landini sulla necessità del sindacato di cambiare. E ieri nel videoforum sul suo sito il sindaco ha detto: «Se i sindacati vogliono sopravvivere devono cambiare. Perchè sono tre? Sono per la certificazione dei bilanci». E ancora: «Landini ha aggiunto ha scritto parole straordinarie sulla crisi del sindacato. A me piace il sindacato del modello tedesco, dove partecipano anche le aziende».
«NOI SIAMO TRASPARENTI»
Ecco dunque che Camusso ieri gli ha risposto di prima mattina. «Lo vedo molto preoccupato, evidentemente non siamo così ininfluenti se sente il bisogno di intervenire ogni giorno su come siamo fatti noi sindacati», ha detto a Radio Anch'io. «La politica deve sapere che la rappresentanza sindacale ha le sue autonomie e le deve rispettare. Vorrei anche dire» a Renzi «che se vuole conoscere i bilanci del sindacato può vedere i nostri sul sito della Cgil, ci sono tutti, noi siamo trasparenti», aggiunge Camusso.
Quanto alla preferenza indicata dal candidato alla segreteria del Pd per il modello sindacale «tedesco», Camusso spiega: Renzi «dovrebbe sapere che noi della Cgil abbiamo recentemente rilanciato il tema della partecipazione dei sindacati» alla gestione delle imprese «e che se in questo Paese non siamo mai avanzati sulla partecipazione e sui modelli duali come quello tedesco è perché è arrivata un’opposizione forte dalle imprese».
La querelle proseguirà inevitabilmente fino alle primarie. Per questo, giocando d’anticipo, Camusso ha già dichiarato ufficialmente che non voterà, distinguendo tra le primarie interne ad un partito, da cui per «la funzione di rappresentanza di un sindacato», la Cgil rimarrà fuori, a quelle per il candidato premier, in cui «si parlerebbe del programma di governo». Ciò non toglie che alcuni esponenti Cgil, da Carla Cantone dei pensionati dello Spi, ad Agostino Megale, dei bancari Fisac, abbiano già annunciato il voto per Gianni Cuperlo.
La sortita di Renzi però non mirava solo alla Cgil. E dunque ieri anche Raffaele Bonanni gli ha risposto. «Renzi farebbe bene a partecipare a un corso sindacale, lui che credo non ha conosciuto il mondo del lavoro dipendente. Gli farebbe bene un bagno di umiltà per riuscire meglio ad assolvere il suo compito di politico che intende gestire gli interessi generali. Tutti dobbiamo cambiare, anche il sindacato, però mi stupisce l’insistenza e il fare di tutta l’erba un fascio. Renzi deve essere più chiaro su che cosa il sindacato debba cambiare».

l’Unità 14.11.13
Il centrosinistra finisce di regolare i conti in libreria
Bersani e Prodi, Occhetto e D’Alema: si moltiplicano le riletture critiche
Per tutti la debolezza politica è venuta dalle divisioni. E se fosse vero il contrario?
di Francesco Cundari


C’è qualcosa di antico nei reparti novità delle librerie che in questi giorni si riempiono di un’ampia produzione storico-polemica sul centrosinistra. Anzi, antichissimo: combattivi pamphlet, polemici libri-intervista, scioccanti libri-verità in cui, direttamente o indirettamente, ora facendo nomi e cognomi ora lasciandoli intuire, a volte mettendoci la faccia e altre volte schermandosi dietro quella dell’intervistatore, del retroscenista o del portavoce, i principali dirigenti del centrosinistra ricostruiscono le vicende che li hanno visti protagonisti.
Già i titoli dicono molto. Se ad esempio il libro firmato dal portavoce di Pier Luigi Bersani Stefano Di Traglia, insieme con la direttrice di Youdem Chiara Geloni, si intitola Giorni Bugiardi («Primarie, elezioni, Quirinale. Così poteva cambiare l’Italia», Editori Riuniti), il libro di Sandra Zampa, ex portavoce di Romano Prodi e oggi parlamentare del Pd, restringendo il campo dell’indagine alla sola vicenda del voto sul presidente della Repubblica, si intitola I tre giorni che sconvolsero il Pd (Imprimatur editore). Più ampio invece l’arco temporale preso in esame dal giornalista dell’Espresso Marco Damilano, in un saggio in cui parlano, rievocano e si punzecchiano abbondantemente a vicenda lo stesso Prodi, Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Titolo: Chi ha sbagliato più forte («Le vittorie, le cadute, i duelli dall’Ulivo al Pd», editori Laterza). D’altra parte Massimo D’Alema la sua versione dei fatti, a partire da ancora prima, e cioè dai tempi di Achille Occhetto, l’aveva già consegnata al libro-intervista con Peppino Caldarola dal titolo Controcorrente («Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica», editori Laterza), mentre lo stesso Occhetto, dal canto suo, proprio in questi giorni è in libreria con La gioiosa macchina da guerra («Veleni, sogni e speranze della sinistra», Editori riuniti). Quanto a Veltroni, un libro-intervista del genere, dal titolo Rivoluzione democratica, qualche anno fa era stato annunciato e già messo in prenotazione presso le librerie. Su internet se ne trova ancora il lancio promozionale, che descrive un libro dedicato alla «storia di questi anni travagliati, dal primo governo Prodi alle ultime elezioni regionali... dalla nascita del Pd con la sfida del Lingotto alle elezioni del 2008, alle ragioni delle dimissioni che hanno interrotto un progetto nuovo per la politica italiana».
Questo del progetto interrotto, del sogno infranto, del grande cambiamento fermato all’improvviso è in effetti il tema di fondo che unisce tutti questi libri, riusciti e meno riusciti, più ambiziosi e più occasionali, pubblicati e non. Ciascuno di essi, in un modo o nell’altro, accredita l’idea che in fondo la grande speranza di un governo di centrosinistra che avrebbe potuto cambiare l’Italia sia stata tradita dalle divisioni interne si tratti della svolta di Occhetto del ’91, del governo Prodi del ’96, del governo D’Alema del ’98 o di un ipotetico governo Veltroni che avrebbe dovuto essere il frutto più maturo della «nuova stagione» iniziata con le primarie del 2007 salvo non concordare tra loro, ovviamente, sulla precisa identità del traditore (che Occhetto parrebbe scorgere in D’Alema, Prodi a seconda dei momenti in D’Alema in asse con Franco Marini oppure in Veltroni in combutta con Goffredo Bettini, Veltroni e D’Alema, a seconda di quegli stessi momenti, l’uno nell’altro in combutta con Prodi). Nessuno sembra invece prendere in considerazione l’ipotesi che non siano le divisioni interne ad avere impedito di realizzare quel grande progetto politico che ciascuno di loro era convinto di incarnare, ma piuttosto il contrario. Che le divisioni siano cioè non la causa, ma la conseguenza dell’impotenza politica.
Questa chiave di lettura tutta incentrata su moventi e scelte personali dei singoli dirigenti ha alimentato nel tempo, dentro e intorno al centrosinistra, una sorta di autogrillismo interiore (che forse non ha avuto scarsa influenza nella diffusione e nel successo del grillismo esteriore). Anche qui, insomma, l’impressione è che le reciproche accuse e sospetti, le mille teorie del complotto e la continua denuncia di traditori e quinte colonne nelle proprie file, siano anzitutto un alibi. Forse anche perché alla fine è meno doloroso accettare di prendersi la propria parte di accuse, nel mare delle reciproche recriminazioni, piuttosto che riconoscersi tutti insieme in una comune sconfitta. E accettare l’idea che il grande cambiamento incarnato di volta in volta da ciascuno di loro, dai loro governi o dalle loro leadership, non fosse semplicemente abbastanza grande per farcela da sé, per convincere i riottosi e intimidire i rivali, per aggregare il consenso sufficiente a mettersi al riparo da ogni manovra e da ogni tradimento.
Nella sfilata di spettri che sembra popolare in questo periodo le notti di dirigenti, militanti e semplici elettori del centrosinistra si fatica a distinguere il fantasma di Banquo dall’ombra di Macbeth, vittime e carnefici si confondono continuamente, fino a risultare indistinguibili. E questa è probabilmente la ragione per cui all’estero anche gli osservatori più esperti faticano a seguire il dibattito: perché non parla di politica.

La Stampa 14.11.13
Berlusconi conta sulle manovre del rottamatore
di Marcello Sorgi


L’altalena del Pdl, dopo il giorno dei pontieri e delle mediazioni, ieri ha virato nuovamente al brutto, con governisti e lealisti che facevano il viso dell’arme e lo spazio di una ricomposizione interna che s’è bruscamente ristretto, in coincidenza del ritorno del Cavaliere a Roma. Due le notizie che hanno dato la sensazione di un irrigidimento: prima, l’annuncio del professor Coppi, legale dell’ex-premier, che l’ipotesi di presentare domanda di grazia per la condanna definitiva inflitta dalla Cassazione è «tramontata». Il che equivale a dire che Berlusconi punta solo a una soluzione politica, senza alcun tipo di scorciatoie, del suo caso, e in questo senso si rivolge al Pd e al Quirinale. E seconda, ma non in ordine di importanza, la conferma di Epifani che il Pd non accetterà alcun rinvio del voto sulla decadenza del Cavaliere, imposto dalla legge Severino, e
fissato per il 27.
Già l’incrocio di queste
due novità porta a un muro contro muro tra le due componenti del centrodestra, di cui la rottura annunciata per sabato, al Consiglio nazionale del Pdl convocato per sancire il passaggio a Forza Italia, sembra la conclusione più probabile. Non a caso ieri sono tornate a circolare voci su una possibile mancata partecipazione dei governativi all’appuntamento, motivata con la decisione di Berlusconi di impedire qualsiasi dibattito e chiedere subito l’approvazione della sua relazione. Alfano ieri sera è tornato a Palazzo Grazioli per un ennesimo faccia a faccia con il Cavaliere, che tuttavia non sembra disposto a rinunciare alla sua linea: se davvero il 27 il Pd voterà a favore della sua decadenza, un minuto dopo la rinata Forza Italia ritirerà il suo appoggio al governo. Si vedrà allora se la tenuta dei governativi, che come il 2 ottobre si rifiuteranno di aprire la crisi, consentirà a Letta di ottenere egualmente l’approvazione della legge di stabilità e garantirà una prospettiva di durata dell’esecutivo fino al 2015, oppure se il logoramento in atto, aggravato da un’opposizione spinta ai limiti dell’ostruzionismo da parte dei berlusconiani, convincerà anche il Pd a ridimensionare le proprie aspettative. Berlusconi punta sul fatto che Renzi, appena eletto segretario dopo le primarie dell’8 dicembre, dovrebbe tener fede, nell’immediato, alle promesse fatte a Letta di sostenerlo; ma di fronte alla fine delle larghe intese e a un evidente indebolimento della nuova maggioranza, spingerebbe il Pd a prendere in considerazione l’ipotesi di tornare a rivolgersi agli elettori, una volta approvata la legge di stabilità e risolta la questione della legge elettorale.

La Stampa 14.11.13
Da Renzi e Cuperlo: ok al Mattarellum
Ma il Pd teme di far cadere il governo
di Carlo Bertini


Afine serata il Pd è in alto mare, l’unica cosa certa è che Renzi e Cuperlo siano pronti ad andare a vedere le carte sul «Mattarellum», ma il resto del partito non si sa. Epifani esce da una riunione e fa sapere che si sta ancora valutando perché, come dice Franceschini bocciando questa soluzione, in un sistema tripolare solo il doppio turno garantisce la governabilità. Ma pur se nessuno lo dice apertamente la paura che paralizza il Pd è che forzare la mano su un tema così tenendo fuori il Pdl metterebbe a rischio il governo.
Lo scontro sulla legge elettorale, dunque va in scena al riparo dai riflettori, i contendenti sono molteplici e uno in particolare è più esposto di altri, Matteo Renzi. Il quale è stato oggetto ieri mattina di un j’accuse mosso dal capogruppo al Senato del Pd Luigi Zanda, che faceva notare a un renziano doc che alzando così tanto l’asticella sulla legge dei sindaci si rischia di far male al Pd, «e così facendo ci teniamo il porcellum».
Un implicito avvertimento che alle orecchie del suo ascoltatore, Antonio Funiciello, responsabile comunicazione, è suonato come il monito a fare bene attenzione: altrimenti la responsabilità della paralisi potrebbe ricadere sul sindaco. Più o meno negli stessi minuti, alla buvette della Camera, Pierluigi Bersani lanciava analogo avvertimento ai grillini, «dovete decidervi, se no passate per quelli che si vogliono tenere il porcellum». Alle quattro del pomeriggio, il rischio di restare col cerino in mano però non lo corre già più il rottamatore, mentre su cosa faranno i grillini le scommesse sono aperte. Il sindaco di Firenze, conscio della manovra a tenaglia che potrebbe partire di lì a poco, fa scattare la contraerea. È un chiaro segnale di dove si vada a parare l’uscita di Gianni Cuperlo al Tg1 e poi quella di Pippo Civati, entrambi a favore del mattarellum: cioé favorevoli che il Pd voti la prossima settimana l’ordine del giorno della Lega piazzato al Senato come una bomba a orologeria. Con i voti di Pd, Scelta Civica, Lega e Grillini potrebbe passare di misura con 13 voti in commissione, senza quelli dei 5Stelle no.
E non è un caso che dopo pranzo uno dei renziani della prima ora, Andrea Marcucci, metta in chiaro alcuni punti fermi: bene anche il Mattarellum se serve a superare il Porcellum. E comunque sarebbe preferibile a qualunque altro «porcellinum», cioé un ritocco minimo che porti al proporzionale puro.
Renzi rilancia su facebook una legge contro «l’inciucio e per la chiarezza», da presentare entro l’8 dicembre alla quale pare stia lavorando col politologo Roberto D’Alimonte. Ma i suoi, in questa fase tattica di scaricabarile, temono proprio che il gioco degli anti-Renzi sia quello di «tenerlo zavorrato e condizionabile», cioè esposto ad un sistema elettorale che poi obbligherebbe a nuove larghe intese.
E quando i realisti filo-governativi del Pd dicono «o si toglie il premio di maggioranza o lo si lascia, altrimenti non si fa nulla perché il Pdl altro non accetta», fanno scattare tra i renziani il riflesso che si vogliono blindare le larghe intese sine die. «Certo chi punta in alto, come fa Renzi, è chiaro che vuole tenersi il porcellum», fa notare il cuperliano Fausto Raciti. Ma il rottamatore smonta questa tesi con il placet al Mattarellum. «Prima hanno impallinato il mattarellum alla Camera – attacca il renziano Giachetti poi anche il doppio turno, mettendolo ai voti apposta sapendo che non c’erano i numeri. E voglio vedere cosa faranno ora...».

Corriere 14.11.13
Da Prodi a Chiamparino, per le primarie si fa largo il partito del non voto
«Disertano» anche Camusso, Illy e Sircana
di Alessandro Trocino


ROMA — Prima Romano Prodi. Poi Susanna Camusso. Poi ancora Sergio Chiamparino. Personalità di peso, che potrebbero però rappresentare solo la punta dell’iceberg. Perché il partito di chi si asterrà alle primarie, rinunciando ad andare a votare fra i tre candidati del Partito democratico, sembra ingrossarsi. Disaffezione, disillusione, scoramento. Effetto combinato prodotto dallo scandalo delle tessere, dalla mutazione genetica del Pd ulivista, ma anche da risentimenti e giochi tattici legati all’affluenza.
L’annuncio di Prodi sul suo disimpegno è caduto sulla campagna come un macigno. Il timore di un flop nell’affluenza preoccupa soprattutto i renziani, che sarebbero favoriti da una grande partecipazione. E se i prodiani in Parlamento si sono affrettati a dire che voteranno, sia pure in direzioni diverse (Sandra Zampa per Civati, Sandro Gozi e Arturo Parisi per Renzi), i vecchi collaboratori del Professore diserteranno le urne delle primarie. È il caso di Mario Barbi. Curiosa presa di posizione per uno dei tre organizzatori (insieme a Nicodemo Oliverio e Maurizio Migliavacca) delle primarie del 2005, che incoronarono Prodi: «Effettivamente non è una decisione presa a cuor leggero, le primarie restano uno strumento straordinariamente valido». Perché non votare allora? «Perché ho trovato la reazione del gruppo dirigente alla sconfitta elettorale imperdonabile. Si è chiesto in ginocchio al presidente Napolitano di restare, ben sapendo che sarebbe arrivato un governo di larghe intese. E invece di sostenere questo esecutivo, si è fatto finta di non essere coinvolti, con atteggiamento ipocrita e schizofrenico». Neanche i quattro candidati appassionano: «Sono tre socialisti, compreso il movimentista Civati, e un punto interrogativo, Renzi. Quest’ultimo lo seguo con interesse, ma ha mostrato una disinvoltura tattica eccessiva e non dimostra di avere la consapevolezza adeguata alla profondità dei problemi».
Un altro prodiano chiave uscito di scena è Silvio Sircana, già portavoce: «Da tempo ho deciso di non votare. Non mi sono consultato con Romano, saranno affinità elettive. Comunque sono rimasto scioccato da come sono state organizzate nel dicembre 2012 le primarie dei parlamentari. Con un’operazione demagogica e molto mal organizzata, se non vogliamo pensare peggio». Ma la ragione principale è un’altra: «Non mi riconosco in questo Pd. Noi forse eravamo molto naïf e poco moderni, ma non parlavamo d’altro che di politica. Qui sono mesi che si parla solo di tessere e di numeri. Per parlare di politica devo rivolgermi all’amico Reichlin, che ha 88 anni».
Per Sircana la disaffezione è diffusa: «Molti si tureranno il naso e molti non voteranno proprio». Tra chi ha spiegato potrebbe non votare c’è Sergio Chiamparino. Che qui precisa: «Non mi occupo più di politica attiva e non ho ancora deciso. Se vado, non ho dubbi: voto Renzi. Ma deciderò quel giorno: il clima che si è creato non invoglia di certo ad andare a votare».
Hanno scelto il disimpegno anche altri protagonisti di stagioni passate del Pd. Riccardo Illy, per esempio: «Sono anni che non mi occupo di politica e non mi sono mai iscritto a un partito. Il Pd? Lo guardo da lontano e certo non andrò a votare». Renato Soru invece voterà Renzi: «Ma sono fuori gara». Un altro prodiano doc, Ricardo Franco Levi, tornato al giornalismo, si schiera per Renzi. Come Ernesto Carbone, che è stato a lungo un collaboratore di Prodi: «Ovviamente andrò. Ma capisco chi dei nostri annuncia che resterà a casa: in questi anni hanno ucciso il Pd. Però sono certo che dopo il voto cambieremo il partito. E chi credeva nel progetto prodiano tornerà a iscriversi e ad appassionarsi». Quanto alla Camusso, ha spiegato che non voterà perché «nel ruolo che occupo penso non sia utile schierarsi». «Strano — commenta Carbone —. Il 25 novembre, alle primarie del centrosinistra, mandò i pullman della Cgil». 

l’Unità 14.11.13
La nostra ricchezza. L’immigrato fa bene ai conti
Sono 5,186 milioni gli immigrati presenti in Italia. Nel 2007 erano 4 milioni
2.3 è  il numero di immigrati, in milioni, che sono occupati nel nostro Paese
Tra contributi e pensioni, il saldo tra quanto spendiamo e quanto incassiamo dagli stranieri è positivo per quasi un miliardo e mezzo all’anno
di Adriana Comaschi


Oggi piccola imprenditrice, ieri bambina-soldato in fuga dalla guerra civile. Azeb Gebrewahid ne ha fatta di strada, in tutti i sensi. Da Adua a Bologna, passando per Karthoum e la Svizzera per approdare in Italia come richiedente asilo. Quando è sbarcata a Milano non aveva nulla, neanche una giacca per proteggersi dal freddo di dicembre, nessun appoggio. Ora ha una sua ditta di pulizie, tre dipendenti assunti e diversi stagisti. Italiani e stranieri.
Viene da pensare anche a lei, oggi che l’ampio dossier statistico sull’immigrazione 2013, a cura del Centro studi IDOS, certifica al di là di luoghi comuni e dibattiti pregiudiziali che gli immigrati sono una ricchezza per il Belpaese. Nel dettaglio: nel 2011, lo Stato italiano tra contributi e tasse ha incassato da cittadini stranieri 13,3 miliardi, a fronte di 11,9 miliardi di spese sostenute per loro. Il che dà un saldo netto di 1,4 miliardi. Spese peraltro concentrate sulla gestione delle emergenze, tra Cie («non devono essere una pena per gli irregolari», ha commentato proprio ieri il ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) e centri di accoglienza.
DA BIMBA SOLDATO A IMPRENDITRICE
Un punto fermo importante, in tempi di crisi, che rende giustizia a tanti lavoratori arrivati da lontano che qui hanno deciso di mettere radici. Oltre 2,3 milioni, in aumento anche sul totale degli occupati (sono il 10%). In gran parte dipendenti, soprattutto nel terziario (62%), ma si contano anche circa 200 mila autonomi. Leggi artigiani, commercianti, piccoli imprenditori che magari da zero mettono su ditte in grado di creare altro lavoro. Come nel caso della signora Azeb, etiope di origine ma ormai cittadina italiana, da oltre vent’anni in questo paese che, dice, «sento come mio perché è in Italia che è iniziata la mia vita civile, è come se fosse rinata. Sono cresciuta in mezzo alla guerra, a 12 anni mi hanno arrestata perché i mie fratelli combattevano, sono diventata anch’io un soldato per 9 lunghi anni. La mia fortuna è di essere rimasta ferita, mi hanno operata in Sudan. E da lì ho deciso di fuggire». Una volta riconosciuta come rifugiata ha cominciato a fare lavoretti, poi cinque anni da operaia specializzata in una ditta di pulizie. Fino all’«idea pazza di mettermi in proprio. Ho usato tutti i mie risparmi, ho ottenuto un prestito, hanno creduto in me e questo è stato importante». Nel giro di pochi anni la sua Sas assume un ragazzo nigeriano, uno domenicano e uno italiano, «ora sto per prendere un signore del Laos, ci sono tutti i continenti» scherza. Poi c’è chi si ferma per un anno e mezzo, come una ragazza italiana dopo il diploma, ci sono persone svantaggiate inserite con stages, «anche questa è una soddisfazione». La sua e altre sono storie di «Quasi italiani», che il docente Romano Benini ha riunito in un volume (Donizelli) dopo averle raccolte sul territorio tramite la Cna, l’associazione degli artigiania che cura anche la parte sulle imprese straniere del dossier Immigrazione. Storie di chi ha una presenza sul territorio consolidata da anni ma il principio è sempre quello, «capire detta Fosco Corradini, responsabile immigrazione Cna che si deve parlare di immigrazione come opportunità e non come problema». A maggior ragione visto quanto illustrato dal dossier Unar sul rapporto costo/benefici per la collettività. «Questi lavoratori continua non rubano il posto agli italiani, anzi coprono fette di mercato che altrimenti resterebbero scoperte». In agricoltura come nelle pulizie. «La crisi non ha colore, colpisce tutti, ne possiamo uscire solo uniti» commenta Kyenge.
NUOVI NATI E DISCRIMINAZIONI
Ed ecco alcune delle cifre più significative del rapporto. La popolazione straniera cresce ancora, nonostante il calo dei flussi di entrata dovuto alla crisi. I residenti stranieri arrivano nel 2012 a 4,3 milioni, pari al 7,4% della popolazione complessiva, 3,7 milioni sono i non comunitari: in tutto 5,2 milioni se si contano anche ricongiungimenti familiari e nuovi nati. Che sono quasi 80 mila (sempre nel 2012), ovvero il 14,9% di tutte le nascite, a cui si aggiungono i 26.700 figli di coppie miste. E a proposito di matrimoni tra cittadini italiani e stranieri, nel 2011 hanno toccato quota 18 mila, l’8,8% sul totale degli sposalizi. Gli studenti stranieri iscritti allo scorso anno scolastico sono invece 800 mila, l’8,8% del totale che sale al 9,8% nella scuole dell’infanzia e nella primaria: il 47% di loro è nato in Italia (l’80% nelle materne). Tornando al mondo del lavoro, sono quasi mezzo milione (477.519) le imprese con un titolare o più soci stranieri, per un valore aggiunto stimato si noti bene in 7 miliardi. Una realtà con una crescita annuale del 5,4%, nonostante il maggior costo degli interessi sui prestiti.
Note dolenti si registrano ancora sul fronte della discriminazione, «molto forte nello sport e nell’accesso al lavoro» avverte Kyenge. E nell’accesso alla casa: gli affitti incidono per il 40% sui redditi degli immigrati (per meno del 30% su quelli degli italiani), si trovano con più difficoltà e sono più spesso in nero. A scuola poi pochi i corsi di alfabetizzazione, mentre il liceo rimane un miraggio: l’80% degli alunni stranieri viene ‘orientato’ verso istituti tecnici e professionali.

l’Unità 14.11.13
Il libro racconta quel valore aggiunto, sociale ed economico
di Oreste Pivetta


Scrivere di immigrazione è ormai narrare di una attualità che dura almeno da un quarto di secolo e chissà quanto ancora durerà, vissuta nel segno di un’emergenza continua dai toni più o meno acuti. Accogliamoli tutti, Il Saggiatore, di Luigi Manconi (sociologo e parlamentare, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato) e Valentina Brinis (ricercatrice presso l’associazione ABuonDiritto Onlus) prova a mostrare la via per superare la sindrome dell’allarme o dell’allarmismo perenni: sembra una provocazione, ma leggendo centoventi pagine diventa la sintesi di un modo ragionevole, antiretorico nel bene e nel male, persino utilitaristico, per discutere di una vicenda umana vissuta a volte come tragedia, temuta come a un’invasione, uno tsunami, sempre giudicata un problema, con un unico costante intatto interrogativo: «Che fare?». Talvolta la risposta è stata semplice: non fare nulla, fidare nella naturale osmosi tra i tanti della società italiana e i pochi delle nuove comunità straniere. Altre volte la misericordia o la solidarietà hanno ispirato l’iniziativa persino di un ministro o di un amministratore, più spesso di una parrocchia o di una associazione di volontari, seguendo le tradizionali “subculture” del paese, quella del cattolicesimo sociale, quella del socialismo democratico e quella liberale, tutte e tre indisponibili ad assecondare pulsioni xenofobe e tentazioni razzistiche. Altre volte ancora la risposta è stata di negazione, di rifiuto, con un atteggiamento che è stato ed è retaggio di razzismo ma anche sintomo dell’opportunismo di chi, da Bossi a Maroni a Grillo, cerca consenso elettorale favorendo sentimenti diffusi di chiusura, più forti quanto più acute sono le tensioni sociali. In ogni caso, tra indifferenza, solidarietà, pietà, ostilità, mai si sono imboccate in modo risoluto le strade che Manconi e Brinis indicano: quella dell’utilità, quella dei diritti. Perché non esistono condizioni di emergenza che legittimino la sospensione del diritto, d’altra parte una società avveduta dovrebbe riconoscere che l’immigrazione è utile. Se ne sono accorti migliaia di anziani e migliaia di figli che non se la sarebbero potuta cavare senza badanti peruviane, filippine, ucraine, moldave polacche. Si dovrebbe fare un passo avanti, perché un paese di vecchi, immobile, stanco e sfiduciato, ha bisogno, per crescere, di quella forza, intellettuale e fisica, di quella forza dinamica, vitale, ambiziosa rappresentata dagli immigrati. Accogliamoli tutti ragiona sulle responsabilità della comunità internazionale. E ha un senso solo se il soggetto di quest’esortativo è «noi europei, noi occidentali», capaci di esprimere una politica per la gestione razionale del fenomeno e l’integrazione degli stranieri in un’ottica di lungo periodo. Ma c’è altro, rispetto al nostro «che fare?», ed è importante perché è di oggi ed è tra noi. Elencando alcune vicende e luoghi come Surigheddu, in Sardegna, Treviso, Badolato, Novellara, vicende di lavoro, di nuovi lavori, di cooperative, piccole aziende (molte in agricoltura), tra contadini, mungitori, donne delle pulizie, falegnami, imbianchini, casi virtuosi di proficua integrazione, che hanno ridato vigore ad imprese sull’orlo del tracollo o persino già defunte, a campagne desertificate, a cascine abbandonate... Manconi e Brinis dimostrano la vitalità di una strategia dei piccoli passi, anche di un operare concreto in attesa di grandi leggi e di grandi interventi, di un operare con fantasia cogliendo necessità e ricchezze e particolarità di un territorio e un’urgenza del fare, propria di chi arriva, di chi ha bisogno e non può aspettare, che diventa vantaggio economico per la comunità, nel rispetto ovviamente dei diritti, che è valore per tutti, italiani e stranieri.

l’Unità 14.11.13
Quel tesoro che viene da fuori
Era compito della politica seria evitare la «guerra dei poveri» e l’aumento dei sentimenti razzisti
di Nicola Cacace


GLI IMMIGRATI COSTANO TROPPO ALL’ITALIA? FALSO. SOPPESANDO COSTI E BENEFICI I «NUOVI ITALIANI» PORTANO IN DOTE ALLE CASSE DELLO STATO UN GRUZZOLO DI UN MILIARDO E MEZZO DI EURO. È quanto emerge dal Dossier statistico 2013 del Centro Studi e Ricerche Idos, in collaborazione con l’Unar, la più completa rassegna documentata su un tema su cui le bugie propagandistiche sono
più abbondanti delle analisi serie.
Rispetto agli introiti di 13,3 miliardi che i 4 milioni di lavoratori stranieri danno allo Stato per contributi previdenziali e tasse ci sono 11,9 miliardi che lo Stato spende più per interventi di contrasto all’immigrazione che per le politiche di integrazione. E che lo Stato spende male per il «fenomeno immigrati» tutto il mondo lo ha visto anche nel recente dramma di Lampedusa con 350 morti annegati, lasciando i 200 superstiti giorni e giorni al vento ed all’acqua senza un minimo di protezione. Sarebbero bastate un po’ di tende della protezione civile, a costo zero, per non mostrare al mondo l’indegno spettacolo dei superstiti per giorni e giorni mal riparati sotto rifugi improvvisati e precari. Ma questo è l’eterno discorso dell’inefficienza della nostra pubblica amministrazione e, va detto, anche dei politici che la dirigono, spesso più attenti a mostrare lacrime che a promuovere interventi efficaci e anche meno costosi.
Le caratteristiche dell’immigrazione in Italia sono: a) la sua crescita impetuosa nell’ultimo decennio, da 1,5 milioni a 5 milioni; b) l’ingresso degli stranieri nei lavori più umili, mal pagati e pur necessari, favorito dal buco demografico italiano, cominciato ormai 35 anni fa, quando improvvisamente le nascite si sono dimezzate da un milione a mezzo milione l’anno. Ed oggi la presenza degli immigrati in tutti i settori è tale che se improvvisamente domani partissero o scioperassero, il Paese letteralmente fallirebbe. Altro che 1,5 miliardi di contributo netto allo Stato, le perdite di ricchezza ammonterebbero a decine e centinaia di miliardi! Andrebbero in crisi interi settori, dall’agricoltura all’allevamento, con quasi 200mila lavoratori stranieri alla pesca specie d’altura con 10mila stranieri, dalle costruzioni con almeno 300mila edili all’industria manifatturiera pesante (fonderie, concerie, carni, etc.) con più di 300mila stranieri, dal commercio, alberghi, pizzerie e ristoranti con 500mila stranieri alla sanità con almeno 30mila stranieri, dai trasporti con quasi 100mila stranieri ai servizi domestici con quasi 2 milioni di colf e badanti.
Un conto economico più completo di quello contabile del Dossier statistico 2013 porterebbe a stimare in molte decine di miliardi, almeno 100 (e non 1,5 miliardi... ), il contributo reale che gli immigrati apportano al Paese. A questo riguardo va detto che il successo crescente di partiti xenofobi e anti-euro in Europa, la stessa posizione anti immigrati di Grillo, derivano anche dai modi sbagliati ed incolti con cui la sinistra affronta il tema. Prendiamo un esempio, quanti italiani, davanti al «casino» mediatico dei drammatici sbarchi dall’Africa, sanno che dei 4 milioni di immigrazione netta in Italia del decennio 20002010, appena 25mila sono venuti dal Mediterraneo, poco più del 5%?
Alla Lega e ad altri xenofobi che parlavano di «invasione dall’Africa» nessun politico, nei tanti inutili talk show ha saputo buttare in faccia le cifre vere. Adesso il flusso complessivo di immigrazione si è dimezzato, da 400mila a 200mila l’anno, per la crisi in atto e per le nostre cattive politiche migratorie, attente più a criminalizzare che a integrare, più a rendere difficile l’ingresso a mestieri e professioni necessarie allo sviluppo che a favorirlo. E nessuno ha spiegato agli italiani come fece Elmut Kohl ai tedeschi in una famosa seduta del Bundestag che «se domani partissero tutti gli stranieri il Paese si fermerebbe, dagli ospedali alle fabbriche, dagli alberghi alla nettezza urbana, dai trasporti al commercio, dalla agricoltura alla pesca». Era compito della politica seria, soprattutto della sinistra, evitare la guerra dei poveri e l’aumento dei sentimenti razzisti, ahimé in atto, spiegando meglio alla gente che con la disoccupazione e la pesante crisi in atto gli immigrati non c’entrano neanche un poco. Anzi, se partissero, interi settori fallirebbero!

l’Unità 14.11.13
Ieri la prima udienza della strage di Viareggio
I familiari in corteo. Lo Stato non sarà parte civile


Sono arrivati al Polo Fieristico di Lucca in corteo, con striscioni e gigantografie dei loro cari. I familiari delle vittime della Strage di Viareggio hanno sfilato davanti al tribunale per la prima udienza del processo ai responsabili della più grande tragedia ferroviaria italiana. Nell’aula del tribunale dei 33 imputati, solo quattro erano presenti in aula. Assente anche Mauro Moretti, presidente delle Fs. Lo Stato non si costituirà parte civile perché è in via di definizione una transazione per il risarcimento tra Stato e assicurazioni e che questa procedura è al momento all’esame dell’Avvocatura generale. Il sindaco di Viareggio: Da parte sua il sindaco di Viareggio Leonardo Betti ha scritto al premier Enrico Letta: «Caro Enrico, mi permetto di dirti che non approvo tale scelta e ti chiedo, a nome di tutta la città, di ripensare tale decisione».

il Fatto 14.11.13
Strage di Viareggio, lo Stato sceglie la fuga
Niente parte civile. Il sindaco: “Letta ripensaci”
Moretti diserta il processo, I familiari delle vittime: “Vogliamo giustizia”
di Emiliano Liuzzi


Lo Stato non si è costituito parte civile al processo per la strage di Viareggio che ieri si è aperto a Lucca e vede tra i 33 imputati anche Mauro Moretti, amministratore delegato di Trenitalia, che ieri ha disertato l’aula. Il sindaco della città toscana, Leonardo Betti, ha scritto al presidente del Consiglio: “Caro Enrico mi permetto di dirti che non approvo tale scelta e ti chiedo, a nome di tutta la città di Viareggio, di ripensare tale decisione”. Decisione annunciata ieri mattina dall’avvocato di Stato Gianni Cortigiani e poi ribadita anche Palazzo Chigi. Il legale ha spiegato che fra lo Stato e le assicurazioni di Fs e Gatx (la società proprietaria del convoglio che deragliò) “c’è una transazione in fase di definizione” per un risarcimento che il legale definisce “sostanzioso”. Si parla di decine di milioni di euro.
Per i parenti delle vittime si tratta di “uno schiaffo. Lo Stato se ne frega dei 32 morti e se ne frega di avere la verità”, ha detto Daniela Rombi, presidente dell’associazione Il mondo che vorrei.
Anche il sottosegretario alle Infrastrutture, Erasmo D’Angelis, ha invitato Letta a “correggere l’errore”. Il procuratore di Lucca, Aldo Cicala, si è limitato a definire quella dello Stato una “valutazione politica”. “Il Governo ha ritenuto di non dar seguito all’esercizio dell’azione civile - ha spiegato Palazzo Chigi - perché è di imminente definizione un accordo che assicura in via stragiudiziale il pieno risarcimento dei pregiudizi sofferti. Le esigenze di accertamento processuale sono garantite dal lavoro dell’ufficio del pubblico ministero”.
Gli imputati sono 33. Fra loro vertici e funzionari delle società del gruppo Fs, compreso l’ad Mauro Moretti, e della Gatx. A processo anche responsabili e dipendenti del-l’officina tedesca Jungenthal e della ditta italiana Cima: la prima revisionò e la seconda montò l’asse che, spezzandosi, fece deragliare il convoglio carico di gpl: il gas uscì ed esplose.
Per ospitare avvocati, magistrati e il centinaio di parti civili, il tribunale si è trasferito al polo fieristico. Una stanza con due megaschermi era riservata la pubblico. In aula c'erano quattro imputati su 33, tutti della Cima. Non c'era Moretti che però, ha assicurato il suo avvocato, parteciperà alle udienze successive.
I familiari delle vittime sono arrivati in corteo indossando, così come hanno fatto in aula, magliette con le foto dei loro cari ed esibendo striscioni. In uno c'era scritto: “Tagliare sulla sicurezza è stata una scelta, 32 morti una prevedibile conseguenza”. E “vogliamo giustizia”. Tiziano Nico-letti, avvocato dei familiari, ha ricordato con “profonda delusione” che “nell’immediatezza dei fatti la Presidenza del Consiglio dichiarò che sarebbe stata vicino ai familiari e sarebbe intervenuta nel processo per accertare la verità dei fatti”. E invece lo Stato non c’è.

l’Unità 14.11.13
Sui libretti scolastici «genitore 1 e 2». Ed è polemica
Al liceo Mamiani di Roma, la preside: «Mi sembra una cosa normale». Ma la destra insorge
di Vincenzo Ricciarelli


ROMA A Venezia e Bologna era bastata la proposta per sollevare un vespaio di polemiche, accuse incrociate e paventati rischi contro la famiglia tradizionale e la morale comune. A Roma, invece, la cosa è già realtà e le reazioni sono state puntuali quanto prevedibili. L’iniziativa è della preside del liceo Mamiani, storico istituto della Capitale nel quartiere Prati roccaforte della contestazione negli anni caldi, che ha deciso di far stampare i nuovi libretti delle giustificazioni sostituendo la dicitura «firma del padre» e «firma della madre» o «firma del genitore o di chi ne fa le veci» con la formulazione «genitore 1» e «genitore 2».
E se la sola proposta di un cambio simile in Emilia e Veneto sui moduli per l’iscrizione dei bambini all’asilo nido era stata accolta da un’onda di sdegno, la preside del Mamiani è tranquillissima e persino sorpresa. «Nessuna dietrologia spiega l’ho fatto con naturalezza, mi sembrava una cosa assolutamente normale. Ho fatto rifare i libretti appena sono diventata preside del Mamiani continua e non so se ho innovato o meno. Mi sembrava logico e naturale. D’altro canto genitore e’ chi si occupa del ragazzo. Bisogna essere pratici e adeguarsi ai cambiamenti. In una società in cui sono sempre più le famiglie allargate o ricomposte non ho visto nulla di strano in questa dicitura. Per noi aggiunge l’importante è che la firma apposta sul libretto sia la stessa depositata in segreteria e che i genitori siano entrambi a conoscenza. Se un genitore “presenta” in segreteria il nuovo compagno/a e spiega che è il nuovo genitore “acquisito”, che si prende cura del ragazzo e che ne condivide la responsabilità, non vedo perché opporsi o creare difficoltà. La scuola conclude la preside deve avere un contatto diretto con la famiglia e, in una realtà così complessa come quella di oggi cercare di non complicarla ulteriormente».
Lo scelta di buon senso, però, non è piaciuta alla destra romana. Se infatti il portavoce di Gay Center Fabrizio Marrazzo plaude all’iniziativa («È molto positiva e va nella direzione giusta anche per non discriminare i genitori gay e lesbiche. Deve essere d’esempio affinché diventi una regola a livello nazionale valida per tutte le scuole») le reazioni politiche sono state furenti. Per Federico Iadicicco, membro della costituente regionale di Fratelli d’Italia che chiede l’intervento del ministero, quella della preside del Mamiani «è una ridicola e non degna per un luogo che dovrebbe essere la culla della formazione e dell’educazione dei nostri giovani». Addirittura, per Iadicicco, si tratterebbe di un atto «fortemente discriminatorio in quanto lesivo della dignità della persona». «Annullare la denominazione di padre e madre non è semplicemente un fatto burocratico è la conclusione di Iadicicco ma investe la dimensione antropologica minando alla radici la struttura identitaria della persona, elemento fondativo dello sviluppo e della crescita dei nostri giovani».
E se per il suo compagno di partito Fabio Rampelli siamo di fronte «ad una idiozia ideologica», non poteva mancare neanche il commento di Sveva Belviso, vice sindaco ai tempi di Gianni Alemanno. «Una ridicola carnevalata arrivata in anticipo sulla stagione la sua reazione È proprio attraverso queste forzature che si rende più difficile il dialogo sul delicato e importante tema dei diritti. Distruggere ogni cardine su cui si basa la società non aiuterà a crearne una più giusta».

Corriere 14.11.13
Se Mamma e Papà nelle nostre scuole diventano « Genitore 1» e «Genitore 2»
di Gianna Fregonara


La preside del liceo Mamiani di Roma Tiziana Sallusti ha cambiato i libretti delle assenze dei ragazzi sostituendo la firma della «madre» e del «padre» con «genitore 1» e «genitore 2», in segno di apertura alle famiglie arcobaleno e a quelle, come dice lei stessa, «complesse». Non è il primo esempio: a Bologna e nel Veneto è già stato fatto lo stesso per i moduli di iscrizione alla scuola dell’infanzia. La preside del blasonato liceo romano ha spiegato così la sua decisione a Simona De Santis: «Genitore è chi si occupa del ragazzo. Bisogna essere pratici e adeguarsi ai cambiamenti. In una società in cui sono sempre più le famiglie allargate o ricomposte non ho visto nulla di strano in questa dicitura: in una realtà così complessa come quella di oggi bisogna cercare di non complicarla ulteriormente».
A complicarsi per ora sono state le reazioni, come sempre avviene quando ci sono iniziative che riguardano questi temi. Esultanza da parte delle associazioni gay che chiedono al ministro dell’Istruzione di trasformare questa novità in una regola nazionale perché utile «a combattere le discriminazioni», si indignano i politici di destra che la considerano una «carnevalata» e chiedono l’intervento del provveditore, accordo del coordinamento dei genitori democratici, protesta del Moige. E del resto la decisione della preside Sallusti appare più come una presa di posizione verso l’inclusione delle «nuove famiglie» che una decisione di grande impatto pratico: l’importante per i ragazzi è che qualcuno madre/padre o genitore 1/genitore 2 firmi le loro giustificazioni per le assenze.
Dice la preside che la richiesta di sostituire madre e padre con genitore 1-genitore 2 venga dalle famiglie. Certo la soluzione linguistica per adeguarsi «alla nuova complicata realtà», resta ancora un po’ povera: davvero se non possiamo parlare di mamma e papà non restano che i numeri a distinguere l’identità di due persone? Forse un più generico «firma dei genitori o chi ne fa le veci», come già si usa in tanti documenti per i minori, non avrebbe creato alcun problema e avrebbe rispettato la sensibilità di tutti. In attesa di qualche idea migliore.


l’Unità 14.11.13
I pro-life e le débacle camuffate da trionfi
di Maurizio Mori

Presidente della Consulta di Bioetica Onlus

DOMENICA CARLO FLAMIGNI HA INVITATO A RIAPRIRE LA DISCUSSIONE DI BIOETICA. UN TEMA CHE MERITA ATTENZIONE È L’ESITO DELL’INIZIATIVA EUROPEA ONE OF US («UNO DI NOI») promossa dai Movimenti per la Vita e consistente nella raccolta di firme per bloccare il programma Horizon 2020 che assegna denaro alla ricerca scientifica in Europa e anche alla sperimentazione sulle cellule staminali embrionali. La raccolta di adesioni è durata un anno e si è conclusa il primo novembre 2013 centrando l’obiettivo: è stato abbondantemente superato il numero minimo di firme richieste e ciò anche in più Stati di quelli necessari. Va dato merito agli organizzatori di aver portato a termine con successo l’impresa per aver soddisfatto i requisiti giuridici richiesti.
Resta tuttavia spazio per qualche ulteriore considerazione. Il 6 gennaio 2013 quando la raccolta di firme entrava nel vivo, il presidente del Movimento per la Vita italiano, Carlo Casini, auspicava «venti milioni di aderenti (complessivi) di cui almeno uno in Italia». A meno di lanciare cifre a casaccio o da sogno, gli auspici danno l’idea delle attese realistiche e della forze messe in campo. Ebbene, le previsioni fatte sono state nettamente smentite: in Europa sono state raccolte 1.800.000 firme, ossia meno di un decimo di quelle auspicate. In Italia è andata meglio visto che se ne sono raccolte un terzo del totale, ossia 600mila. Maria Grazia Colombo, responsabile italiana dell’iniziativa, ha rilevato con gioia che il dato corrisponde a circa l’1% dell’intera popolazione italiana: un successo che non si vedeva «da altri due appuntamenti chiave per il popolo della vita: il referendum sulla legge 40 (2005) e il Family Day (2007)» (l’Avvenire, 7 novembre).
L’entusiasmo di Colombo è rassicurante, ma a ben vedere anche il dato italiano riscontrato dovrebbe preoccupare: è poco più della metà del previsto! Se fosse un risultato politico, sarebbe una débacle. Quel che più è interessante è che in Italia i cattolici praticanti sono circa il 20% della popolazione: poiché la chiesa ha sostenuto Uno di noi con notevole forza sia con ben tre interventi dei papi (due di Benedetto XVI e uno di Francesco), sia con l’impegno della Conferenza episcopale italiana, di molti singoli vescovi e dell’associazionismo, sia con la mobilitazione delle parrocchie e della stampa cattolica, il risultato dà la misura dell’effettiva incidenza di tali interventi e della reale esigua dimensione del «popolo della vita». Una conferma di questo dato è che nel 1988 a sostegno di una analoga petizione popolare alla Camera, in pochi mesi furono raccolte 2.500.000 firme: in 25 anni il calo è stato di oltre il 75%. Forse, è giunto il tempo di una rivalutazione sia del Referendum 2005 che del Family Day 2007, per capire quanto di quegli eventi sia stato dovuto al «popolo della vita» e quanto al sostegno del berlusconismo.
Riconosco che la mia riflessione è incompleta e non ho proposte precise da fare. Va preso atto, però, che i dati riportati ci consegnano un Paese poco attento alle indicazione del magistero ecclesiastico e molto più aperto al pluralismo etico di quanto per tradizione si creda e alcuni continuano a prospettare. Se è vero che vogliamo ora riaprire il dibattito bioetico è da questi dati reali che dobbiamo partire. Sarebbe interessante che anche rappresentanti pro-life intervenissero, in modo da poter cominciare un confronto sereno al fine di sviluppare una discussione libera, razionale e non preconcetta.

il Fatto 14.11.13
Milano. Kabobo aggredisce il compagno di cella

Adam Kabobo, il ghanese che lo scorso 11 maggio ha ucciso a colpi di piccone tre passanti a Milano, ha messo le mani al collo del suo compagno di cella a San Vittore tentando di strangolarlo. Avrebbe poi spiegato il suo gesto: “Ho sentito delle voci”, anche “di Dio”. Ansa

l’Unità 14.11.13
Agenzia del farmaco
Da ieri on line la banca dati dei «bugiardini»


Una banca dati online per consultare in tempo reale tutti gli aggiornamenti dei fogli illustrativi e dei riassunti delle caratteristiche dei farmaci (i cosiddetti «bugiardini»), con 16mila documenti già presenti e informazioni su oltre 66.400 confezioni. È la prima Banca Dati ufficiale dei Farmaci in Italia, da ieri fruibile su Internet: «Uno strumento elettronico dinamico, unico a livello internazionale, validato da Aifa ed Ema, da cui è possibile ottenere
informazioni e documenti aggiornati relativi ai medicinali autorizzati nel nostro Paese», ha spiegato il direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco Luca Pani. «Solo nel 2012, le richieste di variazione sono state 5mila ha proseguito sarà un grande vantaggio avere l`opportunità di verificare in tempo reale se i fogli illustrativi dei farmaci già acquistati o distribuiti nel frattempo siano stati aggiornati».

il Fatto 14.11.13
Reddito minimo. Gli errori di M5S
di Stefano Sacchi

professore di Scienza politica all’Univeristà di MIlano

Lo Stato non si è costituito parte civile al processo per la strage di Viareggio che ieri si è aperto a Lucca e vede tra i 33 imputati anche Mauro Moretti, amministratore delegato di Trenitalia, che ieri ha disertato l’aula. Il sindaco della città toscana, Leonardo Betti, ha scritto al presidente del Consiglio: “Caro Enrico mi permetto di dirti che non approvo tale scelta e ti chiedo, a nome di tutta la città di Viareggio, di ripensare tale decisione”. Decisione annunciata ieri mattina dall’avvocato di Stato Gianni Cortigiani e poi ribadita anche Palazzo Chigi. Il legale ha spiegato che fra lo Stato e le assicurazioni di Fs e Gatx (la società proprietaria del convoglio che deragliò) “c’è una transazione in fase di definizione” per un risarcimento che il legale definisce “sostanzioso”. Si parla di decine di milioni di euro.
Per i parenti delle vittime si tratta di “uno schiaffo. Lo Stato se ne frega dei 32 morti e se ne frega di avere la verità”, ha detto Daniela Rombi, presidente dell’associazione Il mondo che vorrei.
Anche il sottosegretario alle Infrastrutture, Erasmo D’Angelis, ha invitato Letta a “correggere l’errore”. Il procuratore di Lucca, Aldo Cicala, si è limitato a definire quella dello Stato una “valutazione politica”. “Il Governo ha ritenuto di non dar seguito all’esercizio dell’azione civile - ha spiegato Palazzo Chigi - perché è di imminente definizione un accordo che assicura in via stragiudiziale il pieno risarcimento dei pregiudizi sofferti. Le esigenze di accertamento processuale sono garantite dal lavoro dell’ufficio del pubblico ministero”.
Gli imputati sono 33. Fra loro vertici e funzionari delle società del gruppo Fs, compreso l’ad Mauro Moretti, e della Gatx. A processo anche responsabili e dipendenti del-l’officina tedesca Jungenthal e della ditta italiana Cima: la prima revisionò e la seconda montò l’asse che, spezzandosi, fece deragliare il convoglio carico di gpl: il gas uscì ed esplose.
Per ospitare avvocati, magistrati e il centinaio di parti civili, il tribunale si è trasferito al polo fieristico. Una stanza con due megaschermi era riservata la pubblico. In aula c'erano quattro imputati su 33, tutti della Cima. Non c'era Moretti che però, ha assicurato il suo avvocato, parteciperà alle udienze successive.
I familiari delle vittime sono arrivati in corteo indossando, così come hanno fatto in aula, magliette con le foto dei loro cari ed esibendo striscioni. In uno c'era scritto: “Tagliare sulla sicurezza è stata una scelta, 32 morti una prevedibile conseguenza”. E “vogliamo giustizia”. Tiziano Nico-letti, avvocato dei familiari, ha ricordato con “profonda delusione” che “nell’immediatezza dei fatti la Presidenza del Consiglio dichiarò che sarebbe stata vicino ai familiari e sarebbe intervenuta nel processo per accertare la verità dei fatti”. E invece lo Stato non c’è.

La Stampa 14.11.13
Dopo decenni i matrimoni tornano a crescere, Soprattutto se misti
Sempre più spesso si sceglie la separazione dei beni
Boom di cerimonie civili e le convivenze aumentano
di Rosaria Talarico

qui

Corriere 14.11.13
La Rete dei ragazzi in vendita
Un adolescente su 4 scambia su Internet foto rubate e immagini pornografiche
Così gli adulti li adescano e li manipolano
di Sara Gandolfi


«Salve a tutti, so che per iscriversi e lavorare per i siti camgirls bisogna esibire una copia del documento d’identità per dimostrare di essere maggiorenne. Se una ragazza falsifica la fotocopia e poi viene scoperta cosa rischia? Multe? Prigione per i genitori?», chiede Sharon su un forum online. La risposta di Sceriffo Woody spezza sul nascere ogni discussione: «Lascia perdere, non ti mettere nei casini». Una pillola di saggezza che, forse, ha congelato in Sharon la voglia di denaro facile e di spogliarsi in diretta web. Parole che nessuno ha detto o non hanno fatto presa sulle due liceali che si vendevano ai Parioli, 300 euro per due ore di sesso, né sui ragazzi che s’accompagnavano in cantina, per un paio di jeans firmati, con il disturbatore Paolini. E non fermano neppure le migliaia di adolescenti che fotografano, filmano e offrono alla Rete il proprio corpo in cambio di qualche decina di euro, una ricarica telefonica, a volte soltanto per sentirsi accettati dal gruppo.
«Eravamo abituati ad affrontare la baby prostituzione lavorando con le vittime della tratta, che dal 2006 ad oggi ha “fornito” tra i 7.000 e i 13.000 minori al mercato clandestino dello sfruttamento sessuale. Da qualche anno, però, è esploso il fenomeno dei minori italiani che postano sui social network immagini ai limiti della pornografia e, con il giro scoperto ai Parioli, ora è emersa la stretta connessione fra l’utilizzo di Internet e la prostituzione di adolescenti italiani», commenta Yasmin Abo Loha, coordinatrice in Italia della onlus Ecpat (End child prostitution, pornography and trafficking). «Avevamo il sentore di una deriva di questo tipo; potrebbero essere qualche centinaia le ragazze coinvolte in casi simili, con contatti non più virtuali ma consumati nella vita reale».
Le chiamano baby-squillo. Termine odioso, e sbagliato. Perché se anche hanno volti da angeli e menti ancora immature, spesso i loro corpi sono già quasi adulti. Ed è quel «quasi» che piace tanto ai clienti e consente loro perfino di negare il reato. «Non sapevo fosse minorenne», dicono sempre. Una recente modifica normativa ha ulteriormente indebolito l’intervento giudiziario perché la persona che si dichiara inconsapevole dell’età del partner a pagamento è esente da colpa se fa valere l’«erronea valutazione». Gli utenti dei siti di call girls stanno comunque molto attenti. Non si parla né si scrive mai che si è in cerca o si è andati con un/una minorenne. Il rischio è la galera; fino a 18 anni, pena ridotta se il rapporto è tra minori. Piuttosto si usano facili giri di parole. Come fa Antonio, da Torino: «Cerco teenager maggiorenne».
In strada di minorenni ce ne sono molte, dal 7 al 10% del totale, ma è difficile riconoscerle sotto il trucco e sopra i trampoli. Sono perlopiù rumene o nigeriane. Il grosso della prostituzione under age è però sommersa, in minibordelli casalinghi dove le «piccole» sono custodite come gioielli. Tante straniere, ma non solo. «Temo che sia un fenomeno molto consistente e che ciò che esce dal sommerso, quel poco di cui veniamo a conoscenza, sia davvero una minima parte rispetto all’esistente», conferma Fabio Roia, magistrato della sezione penale Soggetti deboli del Tribunale di Milano, che fa un parallelo con la violenza domestica. «È una prostituzione molto difficile da intercettare perché se c’è una libera determinazione della ragazza, che poi dal punto di vista giudiziario libera non è, e se i genitori non esercitano la posizione di garanzia, il fenomeno può venir scoperto solo in modo del tutto casuale, come è avvenuto con la vicenda Ruby». Il magistrato punta il dito su un modello subculturale sbagliato di donna, «per cui il corpo rappresenta uno strumento da vendere a qualsiasi costo», anche con la connivenza dei genitori.
A volte parte come un gioco. Un ragazzino su 4 ha scambiato, online, immagini pornografiche, contatti con sconosciuti, foto «rubate» ad amici o compagni di classe. Lo chiamano «sexting» e per il professor Giovanni Ziccardi, fondatore e direttore del corso in Computer forensics e investigazioni digitali presso l’Università degli Studi di Milano, è l’antefatto della nuova prostituzione minorile, virtuale o no: «Le ragazzine aprono siti web, prendono contatto direttamente con gli sconosciuti tramite app telefoniche che permettono di vedere quali sono le persone interessate all’“offerta”, con un vero e proprio tariffario. Uno scambio a volte gestito da adulti, altre volte autonomamente. A dispetto di quello che pensiamo, i ragazzini sono in grado di progettare attività complesse e spesso non innocenti, con un approccio al sesso sempre mediato dalla telematica». Lo fanno per curiosità, per divertimento, per il gusto del proibito. Come conferma Luca Bernardo, direttore di Pedriatria all’Ospedale Fatebenefratelli, che quattro anni fa «curò» otto ragazzine della Milano bene che si prostituivano nei bagni delle scuole in cambio di oggetti: «I giovani sono rabbiosi, soli, annoiati, cercano denaro e vogliono ottenerlo in modo rapido».
Da dieci anni la Polizia postale e telecomunicazioni insegna nelle scuole un uso di Internet «legale, condiviso, prudente». Carlo Solimene, direttore della divisione investigativa, non ha dubbi: «Cyberbullismo, sexting, grooming (adescamento), pedopornografia sono tutti interconnessi, rami dello stesso albero: il fenomeno va valutato complessivamente, indagando il rapporto tra minori e Internet. Noi facciamo monitoraggio 24 ore su 24 sulla rete. La minorenne spesso è irretita da tutta una serie di complimenti e ammiccamenti; noi riusciamo immediatamente a capire se il linguaggio del suo interlocutore è quello di un minorenne o no».
In Germania, dove il fenomeno delle ragazzine bene che scivolano nella prostituzione è emerso da più tempo, è stata individuata anche una nuova figura di sfruttatore o pappone: «Giovani uomini, di bella presenza, che adescano le adolescenti online, fuori dalla scuola, nei bar. Le fanno innamorare, finché diventano emotivamente dipendenti, isolandole lentamente dagli amici e dai familiari. A quel punto, l’“innamorato” dichiara di avere qualche tipo di difficoltà economica — un debito di gioco, creditori alle calcagna — e chiede alla ragazzina di aiutarlo», racconta Silvia Vorhauer, assistente sociale a Dortmund. «Sono in aumento anche le vittime maschili: per adescarli si ricorre ai cosiddetti “appartamenti aperti”, dove vengono invitati in gruppo per giocare alla playstation, guardare una partita di calcio o un porno in tv. I ragazzi col tempo si fidano di quell’uomo più anziano, finché lui chiede di più».
Una realtà sommersa da cui i genitori sono (di norma) tagliati fuori. A partire da quel «sexting» all’apparenza così banale, ma con rituali precisi — la presenza di uno specchio, l’utilizzo del telefono — che noi adulti non comprendiamo. «Quando un adolescente si chiudeva in bagno, in passato, si sapeva all’incirca cosa stava facendo. Ora non più», dice Maurizio Bini, sessuologo all’Ospedale Niguarda di Milano. Internet garantisce accesso, anonimato, diffusione del messaggio. La prostituzione è sempre esistita, oggi è solo molto più facile e veloce grazie alla rete. Anche le due ragazzine dei Parioli pare fossero partite con una webcam e poi sono finite in un letto mercenario. Il controllo eccessivo, però, forse non è la soluzione. «La nostra generazione di adulti iperprotegge la sessualità giovanile, a volte negandone l’esistenza. La vendita dei corpi, poi, ci colpisce nelle viscere e ci impedisce di trovare, pacatamente, una soluzione», avverte il sessuologo. «La maggioranza dei nostri adolescenti è in grado di sviluppare gli anticorpi necessari per superare indenne questa malattia, come è avvenuto per le generazioni precedenti».

Corriere 14.11.13
Quei seimila docenti dei Conservatori con otto studenti l’uno Pochi i nuovi licei, formazione musicale nel caos
di Sergio Rizzo


Hanno lavorato a lungo, i sindacati, perché si aprisse il paracadute: un emendamento firmato da una ventina di deputati democratici e comparso nella legge di conversione del decreto scuola. C’è scritto che 1.120 docenti precari dei Conservatori sono per il momento salvi. Certo, per stabilire in che modo avverrà il salvataggio si dovrà attendere il solito decreto ministeriale attuativo. Però il principio almeno è stato messo nero su bianco.
Di storie così sono piene zeppe le cronache parlamentari: cominciano con l’affanno e finiscono con un sospiro di sollievo. Ma questa apre anche uno squarcio su uno stato di cose assurdo. Quei 1.120 precari, il cui costo annuale si aggira sui 60 milioni, si aggiungono ai 4.900 docenti di ruolo negli 80 fra Conservatori pubblici e Istituti musicali pareggiati (quasi tutti comunali). Per un totale di circa 6 mila professori, oltre a 1.200 esperti «a contratto». Che in un Paese con le tradizioni musicali dell’Italia potrebbe non sembrare un numero sorprendente. Se però andiamo a vedere le cifre degli iscritti, la prospettiva cambia. Perché 6 mila docenti per circa 48 mila studenti significa che ce n’è uno ogni otto, in confronto alla media universitaria europea di uno a tredici e italiana di uno a venti.
Già, perché i Conservatori, come anche le Accademie, dovrebbero essere in tutto e per tutto equiparati agli atenei. Lo dice una legge approvata quattordici anni fa, negli ultimi mesi del governo di Massimo D’Alema. Anche se quella legge, in tutto questo tempo, non è mai stata completamente applicata per colpa della mancanza, forse non casuale, di alcune norme di attuazione. Il risultato è surreale. Dall’anno 2000 ai Conservatori sarebbe riservato l’insegnamento di livello universitario, destinato cioè a chi ha completato la scuola media secondaria. Gli aspiranti musicisti più giovani dovrebbero invece frequentare appositi licei musicali statali. Ma la riforma, ammesso che fosse del tutto sensata, è andata avanti con il contagocce. Tanto a rilento che di licei musicali pubblici ne sono nati ben pochi. Una settantina in tutto, e con una distribuzione territoriale talvolta assai curiosa. A Milano, per esempio, ce n’è uno solo. Come a Roma: ed è uno dei quattro esistenti in tutto il Lazio. Mentre se ne trovano 16 in Campania. Dove c’è un liceo musicale perfino a Gesualdo, 3.557 anime nella Provincia di Avellino.
Fatto sta che ancora oggi tantissimi studenti minorenni continuano a frequentare i Conservatori, che non hanno mai abolito i cosiddetti corsi per liceali. Anzi, sono proprio costoro la maggioranza assoluta degli iscritti: su 47.900 ci sono soltanto 13.500 «universitari» e ben 34.400 studenti «medi». E questo nonostante le norme lo escludano esplicitamente, come ricorda anche un recente parere dell’Avvocatura dello Stato. Precisando che «la legge fa riferimento soltanto alla possibilità di stipulare convenzioni con le istituzioni scolastiche e non attribuisce ai Conservatori il potere di istituire corsi pre-accademici rivolti agli alunni delle scuole al di fuori di quelle convenzioni. Si aggiunga altresì che allo stato attuale non appare neanche possibile effettuare siffatte convenzioni: e ciò per la decisiva ragione che non risulta ancora emanata la specifica disciplina regolamentare...».
Da queste parole si deduce che l’insegnamento musicale è nel più completo disordine. Se non addirittura nella illegalità. Una situazione che di sicuro non fa onore a un Paese che ha dato al mondo i Niccolò Paganini, i Giuseppe Verdi e gli Arturo Toscanini. Ma che forse fa comodo a qualcuno, come potrebbe far capire la piccola sanatoria approvata dal Parlamento qualche giorno fa. Perché è ovvio che se i Conservatori dovessero concentrare la propria attività sull’insegnamento di livello universitario i docenti diventerebbero un numero insostenibile: quasi uno ogni due iscritti. Con la conseguenza inevitabile di un gigantesco rimescolamento di carte con i licei, che nessuno auspica.
Non è un caso che, ancor prima di vedere la luce, la prevista riorganizzazione del ministero dell’Istruzione sia stata già bersagliata dalle critiche provenienti da quel mondo. La ragione è la soppressione della direzione dell’Alta formazione artistica e musicale, in gergo Afam, regno incontrastato del potente direttore Giorgio Bruno Civello, alle cui cure sono stati affidati per anni i destini di Accademie e Conservatori. A rimarcare in questo modo una rigorosa separatezza dall’università, che però il ministro Maria Chiara Carrozza vuole ora azzerare. Il decreto di riordino del ministero stabilisce che l’Afam sia disciolta in un nuovo Dipartimento per la formazione superiore e per la ricerca: cui saranno assegnate, appunto, tutte le competenze sul settore universitario.

l’Unità 14.11.13
La sfida europea dei progressisti
di David Sassoli

Presidente della Delegazione del Pd all’Europarlamento

La recente notizia che il Pd ospiterà il congresso del Pse (Partito del Socialismo Europeo) in Italia sta facendo discutere. Di certo, non è il dato organizzativo ad alimentare polemiche, ma il richiamo a logiche di appartenenza che da tempo il Partito democratico avrebbe dovuto superare.
Se il dibattito si concentra fra «annessi e connessi» al Pse non si comprendono le funzioni che il più importante partito del centrosinistra italiano possa svolgere in Europa. Cercherò di essere schematico per tentare di fissare alcuni termini di un dibattito che riguarda non solo la natura del nostro partito, ma il futuro democratico dell’Europa.
È stato detto e ripetuto in ogni documento, fondativo o programmatico: il Pd deve favorire la costruzione della casa dei progressisti europei. E i democratici italiani sono nella condizione di battersi per questo obbiettivo, per la forza che hanno e l’esperienza che rappresentano. Ma con chi dovremmo contribuire a cambiare l’Europa? Con chi possiamo osare di valicare il confine dell’Europa degli Stati per promuovere l’Europa dei cittadini? Le risposte a queste domande vanno al cuore della prospettiva europea, mortificata dagli egoismi nazionali e colpita nella dimensione democratica. Se vogliamo costruire una vera democrazia in Europa, in cui oltre al Parlamento anche le altre istituzioni siano espressione della volontà dei cittadini e non degli Stati, dobbiamo costruire veri partiti continentali che esprimano leadership fondate sul consenso dell’opinione pubblica. La sfida è aperta e la fase è costituente. Il fronte progressista europeo va oltre il recinto socialista, ma di certo lo include.
Essere noi stessi significa innanzitutto rivendicare quanto abbiamo fatto. A Bruxelles nel 2009 abbiamo fondato il gruppo parlamentare dei Socialisti & Democratici. Il Pd è la seconda delegazione del gruppo, ed è in una posizione centrale e di forza come mai partiti riformisti italiani avevano avuto all’Europarlamento. Una scelta promossa da Franceschini e Fassino che provocò anche dissensi aperti. Ma di acqua ne è passata. Il Pd non è diventato un partito socialista, non può diventarlo, e i socialisti hanno cominciato a comprendere che anche i loro partiti hanno bisogno di spalancare porte e finestre se vogliono rilanciarsi e contribuire a rafforzare la democrazia europea. Il congresso del Pse in Italia può avviare una stagione fondativa, ma questo dipende solo da noi.
Non è solo questione di nome, anche se è importante come ci si presenta e nulla vieta che nasca il Partito dei socialisti e dei progressisti europei. Il tema vero, a mio avviso, è come dare forza a partiti europei che oggi si presentano come federazioni di partiti nazionali. Lo sono sia il Partito popolare che il Pse. I liberaldemocratici poi, non sono neppure un partito. Parlare di socialisti in Europa è riferirsi a tante storie differenti. Dare del socialdemocratico a uno zapateriano spagnolo significa rischiare di essere attaccati alla giugulare. Nulla ci vieta, comunque, di spenderci perché a maggiore impegno del Pd corrisponda anche un cambiamento della famiglia socialista che vediamo faticare in tutti i Paesi. Non c’è think tank europeo che non discuta della crisi della socialdemocrazia. Il Novecento è passato per tutti e a tutti è chiesto di fare provvista di visione per contribuire, come diceva Giuseppe Dossetti, a produrre nuova cultura politica.
Se vale in Italia, ed ormai è un dato acquisito, non dobbiamo avere paura di mischiarci neppure in Europa. Capisco che per chi non proviene né dalla Margherita né dai Ds sia più facile, ma a nessuno deve essere chiesto di abdicare alla propria identità. Di fronte alle contraddizioni, comunque, non dobbiamo fermarci e tanto dipenderà anche da noi, dalla piattaforma che avanzeremo se l’avanzeremo al congresso di Roma e dalla tenacia che dimostreremo nell’affrontare non il problema banale di una burocratica collocazione europea, ma la costruzione di una nuova forza progressista, davvero pluralista e aperta ad esperienze diverse.
Ho ben presente la riflessione di Pietro Scoppola sui rischi di una omologazione e della scomparsa delle culture fondative del Pd. Rischi sempre presenti ma che non devono farci indietreggiare quando vediamo spiragli per rafforzare i nostri valori. Ed è per questo che ritengo che i tempi siano maturi per osare quello che fino a ieri non era possibile. Non si tratta di confluire in un partito europeo ma di costruirne uno nuovo. A maggio ci saranno le elezioni europee con l’indicazione da parte dei cittadini del presidente della Commissione esecutiva. Noi sosterremo Martin Schulz e ci batteremo per avere il consenso necessario per diventare la prima delegazione del gruppo S&D all’Europarlamento. Se non vogliamo essere travolti da un’ondata populista antieuropea non possiamo affidarci solo a ricette economiche, ma dobbiamo impegnarci a costruire un’Europa più democratica. I partiti europei, che oggi fanno fatica ad esistere, servono anche a questo.

il Fatto 14.11.13
Kazakistan.  “Alfano riferisca sui documenti falsificati”


Le inquietanti novità che stanno emergendo sul “caso Shalabayeva” impongono al ministro Alfano di riferire urgentemente alle Camere. Se fosse confermata la manomissione del passaporto della moglie del dissidente, saremmo di fronte ad un fatto grave”. Lo hanno affermato ieri i senatori del Pd Andrea Marcucci, presidente della commissione Cultura e Roberto Cociancich, membro della commissione Esteri, che commentano alcune notizie, pubblicate da Messaggero e Repubblica secondo le quali il passaporto di Alma Shalabayeva e della figlia minorenne sarebbe stato ritoccato per consentirne l’espulsione dall’Italia. “La versione del ministro dell’Interno all’epoca - aggiungono i parlamentari - era che l’intera operazione dei servizi segreti kazachi fosse avvenuta a sua totale insaputa. Una tesi che rischia di uscire ulteriormente indebolita”. “Alfano venga in Aula a fare chiarezza”, concludono i senatori. “Il Viminale chiarisca immediatamente sul documento falso che sarebbe stato fabbricato dall’ambasciata kazaka con l’aiuto di qualcuno all’interno della questura di Roma”, è invece quanto ha chiesto la deputata pd Lorenza Bonaccorsi.

l’Unità 14.11.13
Russia
Una ong conferma: «La Pussy riot è in carcere in Siberia»
di Ro. Ar.


Dopo settimane di attesa e tante voci arriva la certezza sulla sorte di Nadezhda Tolokonnikova, componente della band Pussy Riot di cui si erano perse le tracce da ottobre. Il servizio penitenziario russo ha confermato che Nadia si trova ora in quarantena in un carcere del territorio di Krasnoyarsk, in Siberia. È riuscito a saperlo l’ombudsman per i diritti umani russo Vladimir Lukin: «Mi è stato detto che è in infermeria nel penitenziario del territorio di Krasnoyarsk, in quarantena. Non appena la quarantena sarà terminata, i legali e i familiari di Nadezhda Tolokonnikova saranno informati, nel giro di due o tre giorni, su dove si trova». Lukin ha detto di aver dovuto chiedere alla sede centrale del Servizio penitenziario, dato che l’ufficio di Krasnoyarsk aveva continuato a smentire che la ragazza si trovasse in un carcere della zona.
Tre settimane fa Tolokonnikova aveva ottenuto il trasferimento dal carcere della Mordovia in cui si trovava a seguito di un lungo sciopero della fame, che l’aveva portata in ospedale, e della denuncia della minacce ricevute in cella. Ma di lei nel corso del trasferimento si erano perse le tracce. Tolokonnikova sconta come un’altra delle tre componenti del gruppo punk una condanna a due anni di carcere per una preghiera punk anti-Putin cantata a febbraio 2012 nella cattedrale di Cristo salvatore a Mosca. «Essenzialmente aveva denunciato il marito Pyotr Verzilov è stata trasferita a 4.500 chilometri dalla Russia centrale, nel cuore della Siberia, come punizione per l’eco che ha avuto la sua lettera», in cui denunciava i soprusi nella colonia penale.

l’Unità 14.11.13
Germania: Spd a congresso. Spaccatura sulla Linke
di Virginia Lori


Il Partito socialdemocratico tedesco arriva spaccato sui futuri rapporti con la Linke al congresso che si terrà da oggi a sabato a Lipsia. L’apertura al partito di Oskar Lafontaine per future coalizioni governative, fatta dalla direzione della Spd, non è piaciuta a Peer Steinbrueck, che invita i suoi compagni di partito a «non fare piroette». In un’intervista alla Passauer Neue Presse, l’ex candidato alla Cancelleria ha affermato che «le prospettive strategiche future vanno discusse quando si porrà la questione», ovvero quando ci sarà un’evoluzione politica della Linke che «dobbiamo aspettare senza compiere piroette». Nel frattempo anche il leader della destra socialdemocratica, Johannes Kahrs, definisce l’avvicinamento alla Linke «un passo ragionevole», con il quale «mandiamo questo segnale: diventate capaci di entrare in una coalizione, così avremo un’altra opzione».
La mossa socialdemocratica allarma nel frattempo il partito di Angela Merkel, con il segretario Hermann Groehe che mette in guardia la Spd dalle tentazioni di svolta a sinistra. «Se si analizza il risultato elettorale di Spd e Verdi», spiega Groehe, «si vede che uno spostamento a sinistra non è stato ricompensato dagli elettori». I 600 delegati del congresso di Lipsia sono chiamati a rieleggere i propri vertici ed a confermare come presidente Sigmar Gabriel, ma non a decidere sull’ingresso nel governo di Grosse Koalition con la Cdu/Csu, su cui voteranno per lettera dalla fine di novembre i 470mila iscritti al partito. Gabriel ribadisce la richiesta di modifica della Costituzione con l’introduzione dello strumento referendario su temi di politica nazionale ed europea. «Siamo favorevoli dal 1987 all’introduzione dei referendum», spiega il presidente della Spd, aggiungendo che proprio adesso che sta per formarsi un Governo dotato di una schiacciante maggioranze dell’80% al Bundestag, «sarebbe bene dare al popolo il diritto di decidere ancora una volta su quanto votato dal Bundestag».

il Fatto 14.11.13
La Ue si sveglia tardi: Berlino ha spremuto i Paesi deboli
La Commissione europea: “La politica di export della Germania ha azzoppato i partner dell’Unione”. Ma non ha la forza per imporsi
di Marco Palombi


Buona ultima - dopo economisti d’ogni corrente ideologica, il Tesoro Usa e il Fmi – anche la Commissione Ue s’è accorta che gli squilibri regionali dell’eurozona sono un problema e che, in particolare, il surplus commerciale della Germania (oltre il limite del 6 per cento negli ultimi tre anni) ha finito per azzoppare i suoi presunti partner europei. Ha spiegato il governo americano: “La crescita anemica della domanda interna tedesca e la dipendenza dalle esportazioni hanno ostacolato un riequilibrio in un momento in cui altri paesi dall’area euro erano sotto forte pressione per rallentare la domanda e contenere le importazioni per promuovere aggiustamenti”. Tradotto: Berlino comprime i salari dei suoi lavoratori per abbassare il prezzo delle merci mandando così i suoi alleati dell’eurozona (coi quali il cambio è fisso, dunque non può fungere da fattore di riequilibrio) e il resto del mondo in costante deficit commerciale. Il risultato è stata l’esplosione del debito privato con l’estero nei cosiddetti Piigs e a Washington una crescente irritazione nei confronti degli alleati germanici che non vogliono cooperare alla ripresa globale (e, in particolare, alla loro). Curiosamente – va ricordato - solo di recente l’esecutivo europeo ha avuto il potere di lavorare sugli squilibri macroeconomici: prima era come se per Bruxelles non esistessero. Ieri, dunque, la Commissione ha finalmente avviato “un’indagine approfondita che si concluderà in primavera per verificare esistenza e qualità di quattro squilibri” nei numeri tedeschi: debito pubblico, perdita di quote di mercato e, quel che più ci interessa, surplus nei conti esteri e svalutazione reale del cambio.
PRIMA DI SPIEGARE, conviene tenere a mente una cosa: “Siccome c’è questo atteggiamento moralistico sulle questioni economiche, allora va chiarito questo: se sei bravo sei hai un surplus, allora sei bravo anche se hai un deficit, perché non esiste l’uno senza l’altro”, premette Alberto Bagnai, economista dell’università di Pescara che sull’insostenibilità di squilibri persistenti dei saldi esteri (e l’impossibilità di porvi rimedio oggi nell’eurozona) ha basato gran parte della sua critica alla moneta unica. Parlando di surplus estero e svalutazione reale, peraltro, la commissione va proprio nella direzione dei dati citati da Bagnai nel suo libro (Il tramonto del-l’euro): “Sintetizzando molto, forse troppo, significa in buona sostanza che la Germania comprime i salari dei suoi lavoratori, penalizzando la domanda interna, per poter esportare di più. In sostanza pratica una politica di deflazione finendo per imporre agli altri paesi le stesse politiche se non vogliono accumulare deficit insostenibili. Solo che non tutti possono arricchirsi vendendo all’estero: qualcuno dovrà pur comprare”. Più in generale, e qui viene fuori il professore che è in Bagnai, il problema è come “il capitalismo si è strutturato in questi anni: se liberalizzi i movimenti di capitale, e l’euro è una funzione di questa liberalizzazione, comprimi i salari. In classe faccio un esempio, diciamo, teatrale per illustrare il concetto. Personaggi: un imprenditore e un operaio. Prima scena: ‘Ti pago poco’, dice il primo; ‘No, sciopero’, risponde il secondo; ‘Allora delocalizzo’. Fine. Seconda scena: ‘Compra i miei bei prodotti’, dice l’imprenditore; ‘Non ho più una lira’, risponde l’operaio; ‘Allora facciamo un debito’. Ecco, nel-l’Italia degli anni Ottanta e dello Sme (l’antenato dell’euro, ndr) il debito fu pubblico, oggi è privato, ma il meccanismo è simile”.
TORNANDO alla Germania, se la Commissione europea certificherà la violazione su surplus e svalutazione interna (e pare difficile che non lo faccia) dovrà chiedere a Angela Merkel di adottare politiche espansive - più spesa pubblica, crescita degli stipendi, cose così – per riequilibrare la situazione. “E con quale potere politico? – reagisce Bagnai – Con quale se nemmeno quando per primi violarono la regola del 3 per cento sul deficit venne aperta una procedura d’infrazione? L’obiettivo esplicito dovrebbe essere proprio l’azzeramento dei saldi esteri, ma alla fine non riusciranno ad imporre niente alla Germania e gli americani saranno sempre più nervosi”. Se può valere come anticipo del prossimo futuro, Hermann Grohe, segretario generale della Cdu, il partito di Angela Merkel, ha già chiarito che a Berlino non ci pensano proprio: le esportazioni, ha detto, “sono la pietra miliare della nostra prosperità” e “non si può rafforzare l’Europa con una Germania debole”.
LE “INDAGINI approfondite” della commissione, peraltro, non riguardano solo i tedeschi: anche altri quindici paesi sono nel mirino dell’esecutivo europeo. Tra questi c’è anche l’Italia per il debito elevato, la disoccupazione, l’aumento della povertà e la perdita di quote globali sulle esportazioni. Enrico Letta, però, è fiducioso: “Ci sono segnali macroeconomici che non si vedono né si toccano, ma ci dicono che la ripresa nel 2014 è a portata di mano”. Il problema, chiosa un altro ottimista, il ministro Fabrizio Saccomanni, è l’instabilità politica e pure gli emendamenti alla manovra: “A Bruxelles sono preoccupati per il loro numero, ma noi abbiamo garantito sui saldi finali”.

il Fatto 14.11.13
Libertà, fraternità, razzismo
Copertina choc contro la ministra nera. e la Francia si scopre intollerante
di Alessandro Oppes


Per una volta, l'indignazione è bipartisan. La politica insorge contro l'ultimo attacco, volgare e meschino, sferrato nei confronti del ministro della Giustizia del governo Hollande, Christiane Taubira, originaria della Guyana. Una copertina che gronda razzismo, quella della rivista di estrema destra Minute, da ieri mattina in vendita in tutte le edicole francesi. Con un titolo a tutta pagina: “Maligna come una scimmia, Taubira ritrova la banana”. Immediato, l'annuncio del premier Jean-Marc Ayrault che presenta una denuncia alla procura della Repubblica di Parigi per “ingiuria pubblica a carattere razzista”. Nelle ore precedenti, era stato il ministro dell'Interno, Manuel Valls, a studiare la possibilità di un sequestro preventivo della pubblicazione.
La mano dura del governo trova d'accordo, in questo caso, anche la destra parlamentare dell'Ump, con il presidente Jean-François Copé che definisce “profondamente scandalosa” la copertina e appoggia la scelta della denuncia penale. E anche il Front National, a cui Minute è storicamente vicina, “scarica” il settimanale.
COPÉ SI RIBELLA però alla tesi di chi sostiene che la Francia è razzista: “Il nostro è anche il paese dei diritti dell'uomo, della libertà d'espressione, della tolleranza”. Valori, tuttavia, che appaiono sempre più in crisi, come testimoniano i sondaggi, ultimo quello dell'istituto demoscopico Bva: il 57% dei francesi ritengono che il razzismo sia aumentato nel paese negli ultimi 10 anni. La Commissione nazionale per i diritti dell'uomo rileva un'impennata del 23% nel numero di atti antisemiti e antimusulmani tra il 2011 e il 2012.
La copertina - che i responsabili definiscono “satirica” - è solo l'ultimo episodio di una campagna feroce contro la ministra della Giustizia, che la scorsa settimana, su Libération, aveva denunciato la “scomparsa delle inibizioni e il crollo delle dighe” nella crociata razzista, definita come un “attacco al cuore dello Stato”. La stessa Marine Le Pen, a metà ottobre, aveva dovuto annullare la candidatura alle municipali di Anne-Sophie Leclere, che su Facebook aveva commentato: “Preferisco vederla tra i rami di un albero che al governo”.
Nel paese che, per decenni, ha convissuto con la pubblicità della bevanda al cioccolato “Banania”, ritirata solo di recente perché considerata “portatrice di stereotipi razzisti”, c'è chi sostiene che la Francia, in realtà, è sempre stata razzista. “Solo che, ora, le lingue si sono sciolte”, nota l'ex segretario di Stato Kofi Yamgnane.

l’Unità 14.11.13
Hollande in picchiata gioca la carta anti-razzismo
Con una popolarità al 21% l’Eliseo vuole ricompattare la gauche francese
Nel mirino l’estrema destra e gli insulti alla ministra Christine Taubira
Il premier Ayrault annuncia azioni legali contro il settimanale satirico «Minute»
di Luca Sebastiani


A quanto pare nel corso del Consiglio dei ministri di ieri l’argomento non è stato affrontato neanche da lontano. Né da François Hollande, né tantomeno da Jean Marc Ayrault. Se il gradimento dei francesi verso il presidente della Repubblica e il Primo ministro non arresta la sua caduta, i due interessati non sembrano farne un problema. Almeno pubblicamente.
Se infatti Hollande ha toccato il fondo mai raggiunto da nessun altro dei suoi predecessori all’Eliseo e sembra guardare altrove, ciò non vuol dire che non stia cercando una mossa per uscire dall’angolo. Certo, con una popolarità che si attesta ormai al 21% non è facile, soprattutto quando le prospettive economiche, su cui si era investito il proprio capitale politico, sembrano tutt’altro che soddisfacenti. Nonostante Hollande e il governo insistano a promettere pubblicamente che la curva della disoccupazione invertirà la sua corsa al rialzo entro fine anno, in privato nella grande casa socialista sono in pochi a crederci. Gli ultimi dati indicano infatti il tasso di disoccupazione in aumento, al 10,5%, oltre 3,2 milioni di persone senza lavoro. Hollande, come ha fatto di recente a Bruxelles, può anche rivendicare «un’evidente decelerazione» dell’aumento dei disoccupati, ma non è certo con così poco che il consenso ripartirà. Per ora quello che può fare su questo fronte è mostrarsi in trincea. Come ieri a Parigi, quando ha incontrato i suoi omologhi europei per fissare i principi che dovranno guidare un piano europeo per la disoccupazione giovanile che in Francia si aggira intorno al 25%.
In attesa di tempi migliori, con le mani legate dai vincoli di bilancio imposti da Bruxelles e le agenzie di rating particolarmente accanite nel sorvegliare le mosse di Parigi, i margini d’iniziativa vanno allora cercati altrove. E possibilmente prima che una maggioranza piuttosto disorientata di fronte all’incertezza della direzione di marcia si schianti definitivamente alle elezioni locali e europee di primavera.
PARAGONATA A UNA SCIMMIA
In queste ore è proprio su un piano B che l’Eliseo sta lavorando, sfruttando paradossalmente l’avanzata dell’estrema destra per cercare di ricompattare la maggioranza intorno a una battaglia in grado di conferire un sussulto d’orgoglio alla gauche. Un po’ come aveva fatto François Mitterrand nel 1984 in piena crisi sociale e di consenso quando aveva lanciato il programma «Sos Razzismo» per mobilitare il proprio elettorato contro un nemico ben definito. L’occasione è stata offerta ad Hollande dalle contestazioni da parte di un centinaio di estremisti di destra che lunedì hanno perturbato le celebrazioni dell’armistizio della Prima guerra mondiale, uno degli appuntamenti più consensuali di Francia. Dal Consiglio dei ministri di ieri, infatti, l’unica notizia fatta ufficialmente filtrare è che il presidente ha chiesto al governo una risposta «ferma» contro il razzismo e gli atti di incitazione all’odio contrari alla Republique. Già il giorno precedente Ayrault aveva annunciato un’azione in giustizia contro il settimanale di estrema destra Minute, che nella sua ultima copertina aveva paragonato Christine Taubira a una scimmia. Da quando ha scritto, sostenuto e difeso la legge sui «matrimoni per tutti» la scorsa primavera, la guardasigilli, antillese di colore, è stata fatta oggetto di attacchi neanche troppo velatamente razzisti. Solo una decina di giorni fa, per esempio, un esponente del Front national, poi sospeso, aveva dichiarato di vedere meglio Taubira su un albero che al governo. Segno che i tabù sono saltati e un certo razzismo è stato banalizzato, anche in virtù della mutazione genetica del gollismo operata da Nicolas Sarkozy negli ultimi anni. La prima pagina di Minute è solo l’ultimo episodio, quello preso al balzo dal governo per lanciare la controffensiva e chiedere alle truppe socialiste in Parlamento e al partito un «sussulto repubblicano». Con questo discorso in difesa dei valori repubblicani, Ayrault ha strappato una vera e propria standing ovation, ma la speranza è che il sussulto coinvolga i militanti e la base sociale di riferimento dei socialisti. Prima che sia primavera.

La Stampa 14.11.13
La sfida dei nazionalisti
Le Pen raduna i populisti “Alleati contro questa Ue”
Front National e l’olandese Wilders: gruppo unico in Parlamento
di Alberto Mattioli


Attenti a questi due. L’alleanza firmata ieri all’Aia dalle due star dell’ultradestra antieuropea, Marine Le Pen del Front National francese e Geert Wilders del Partito per la Libertà olandese (Pvv), forse non sarà «storica» come pretendono loro. Ma di certo rischia di causare dei seri problemi all’Unione e ai due partiti che finora l’hanno gestita, i popolari e i socialisti. Perché per le elezioni europee di maggio tutti i sondaggisti sono d’accordo su una previsione sola: la destra populista e nazionalista farà un balzo in avanti.
Da qui la necessità di federarla per «liberare i popoli» (Le Pen) dallo «Stato nazista, il mostro chiamato Bruxelles» (Wilders). «Noi, vecchie nazioni europee, siamo obbligati a chiedere il permesso a Bruxelles per ogni cosa. Bisogna ritrovare la sovranità territoriale, la sovranità monetaria, la sovranità budgetaria. Il tempo in cui i movimenti patriottici erano divisi ed erano talvolta terrorizzati dalla diabolizzazione è finito», proclama madame Le Pen.
Al progetto hanno già aderito gli austriaci del Fpo, si attende anche il sì della Lega Nord
Il punto è che, per poter formare un gruppo autonomo all’Europarlamento, bisogna avere almeno 25 deputati (su un totale di 766) ed eletti in un quarto degli Stati membri, dunque sette. Al momento, il Fn ne ha tre e il Pvv quattro. Sicuramente aumenteranno, ma bisogna trovare altri alleati oltre a quelli già arruolati nell’Alleanza europea per la Libertà come gli austriaci della Fpo, i Democratici svedesi e gli indipendentisti fiamminghi del Vlaams Belang belga. Per esempio, quelli padani della Lega. I tedeschi dell’AfD si sono già smarcati, gli ungheresi dell’Jobbik e i partitini ipernazionalisti romeni, bulgari e slovacchi non sono invitati perché accusati di derive razziste e antisemite.
Restano i britannici dell’Ukip di Nigel Farage, anche loro benedetti dai sondaggi, che di eurodeputati ne hanno 13. Ma fanno sapere di ritenere troppo estremista Wilders, il quale però non perde la speranza, assicura Farage del suo «rispetto» e spera «che si potrà unire alla nostra iniziativa dopo le elezioni».
Quello fra Marine e Geert è un matrimonio d’interesse, non d’amore. In realtà le differenze non mancano, ma lei spiega conciliante che «anche in uno sposalizio, non si è obbligati a pensare al mille per cento le stesse
cose». Di sicuro, come avrete notato, i due hanno in comune l’orrore per l’eufemismo. Però, per esempio, Wilders chiede di vietare il Corano, che paragona al «Mein Kampf»; Le Pen, nel corso del loro precedente incontro, in aprile a Parigi, sull’argomento si era dichiarata, bontà sua, «forse meno radicale».
E poi il Pvv è profondamente filoisraeliano, mentre il Fn, e specie il suo fondatore, papà Le Pen, è stato spesso accusato di antisemitismo. Adesso, però, «è Marine il capo!», garantisce Wilders. L’olandese è anche favorevole al matrimonio omosessuale, che anzi cita regolarmente nella sua polemica contro i musulmani, mentre Le Pen è contraria, benché nella recente battaglia contro la sua introduzione in Francia si sia mostrata assai discreta (e quella parte di destra ancora più a destra di lei l’ha subito accusata di circondarsi di una «lobby gay»).
L’incontro, che si è svolto al Parlamento dell’Aia, è stato contestato da una modesta manifestazione di una ventina di militanti antifascisti. Ma i due partiti che vogliono disfare l’Europa hanno il vento in poppa. Il Pvv è stato sconfitto alle politiche dell’anno scorso, ma da allora è in costante crescita nei sondaggi. E il Fn, con la Francia in piazza contro François Hollande e la politica di tagli e di rigore sponsorizzata da Bruxelles, vola nelle indicazioni di voto per le europee. Anzi, con il 24% sarebbe addirittura il primo partito francese.

La Stampa 14.11.13
Verhofstadt: “Marine è un’antisemita. Non può nascondersi”
Il leader liberale all’Europarlamento attacca “Lei e i suoi partner, una minaccia per l’Unione”
«Scaricano sulla Ue le colpe della crisi e questa è una bugia»
di Marco Zatterin


Gli euroscettici si stanno organizzando ed è una minaccia per l’Europa». È andata via la luce all’Europarlamento e Guy Verhofstadt parla una pausa di lavoro forzata, seduto nella penombra del suo ufficio, davanti a una pila di libri sulla quale svetta l’ultimo volume di Giorgio Napolitano sull’Europa. Sono pericolosi gli euroscettici, dice l’ex premier belga oggi numero uno del gruppo Libdem, però la francese del Front National Marine Le Pen gli pare esserlo anche più del populista olandese Geert Wilders. «È antisemita – afferma e gli antisemiti sono i peggiori di tutti».
Qual è il problema degli euroscettici?
«Semplice. Sebbene abbiano cose da dire e rilievi anche giusti su come porre fine alla crisi, le loro soluzioni sono completamente all’opposto di ciò che serve. In certi casi mentono. Alla gente spiegano che tutti i problemi del mondo moderno – la globalizzazione, l’import a basso costo cinese, i cattivi prodotti finanziari arrivati dagli Stati Uniti, la migrazione dall’Africa del Nord, e via dicendo – possono essere risolti nascondendosi dietro i confini nazionali. È falso. Sappiamo tutti che l’unica soluzione ai problemi continentali è quella europea».
La gente crede a queste cose, però. Come se lo spiega?
«Succede perché c’è la crisi. È facile rivolgersi a persone in grave difficoltà perché perdono il posto, il reddito o la pensione, e dir loro che è colpa delle migrazioni, dell’Europa, della globalizzazione. Una buona parte dell’élite politica nazionale fa così. È un problema, perché l’euroscetticismo sta diventando una tesi, non più l’antitesi, ormai rappresentata da chi dovrebbe dire “Attenti! mentono!. Si deve ricostruire una sovranità a livello europeo per battere e superare la crisi”».
Bella confusione. Che fare?
«Contrattaccare. Organizzarci. Questo è peraltro il motivo per cui venerdì (domani, ndr) sarò in Italia».
Ha un progetto?
«Tentiamo di mettere insieme dodici partiti politici in una sola grande alleanza politica».
Chi?
«Tutti quelli che hanno un po’ di afflato pro Europa. Liberali, radicali, repubblicani, parte del Pd, centro democratico, Italia Futura, Fermare il declino, parte di Scelta civica... Vogliamo costruire qualcosa di completamente nuovo».
Torniamo alla coppia Le Pen-Wilders. Chi è il peggio?
«È pericoloso che in questa gente non ci siano solo gli elementi classici del nazionalismo che sarebbe già una questione scottante ma anche un evidente antisemitismo. Il padre di Marine le Pen è un rinomato antisemita. Quelli come Wilders devono spiegare perché voglio allearsi con un antisemita. È questo che il popolo olandese vuole?».
Quindi la Le Pen è il minimo?
«Gli antisemiti sono i peggiori. Negano che ci siano state delle camere a gas, mi spiace, non posso accettarlo. E invece sono visti come politici normali, invitati alla Camera dell’Aia. Ma di che stiamo parlando?».
Marine Le Pen smentisce di essere antisemita.
«Cerca di nasconderlo. Ma noi conosciamo la storia. Sappiamo cosa ha detto».
La politica «tradizionale» non dovrebbe fare autocritica?
«Quanto sta accadendo è colpa di chi non è in grado di sviluppare una visione europea, di chi non critica l’euroscetticismo. Dovrebbero dire, “questo è completamente sbagliato”, anche se questa Europa non è l’Europa che vogliamo, non è la Nostra Europa, dobbiamo fare un’alleanza per questa Europa diversa».

La Stampa 14.11.13
Salvini: la Lega ci sta
Il 23 novembre faremo il “No euro day”
di Fabio Poletti

Onorevole Matteo Salvini, siete già stati contattati da Marine Le Pen? La leader del FN pensa anche a voi della Lega per fare un eurogruppo...
«Ci siamo già parlati. Anche con austriaci e olandesi e con tutti i gruppi no immigrazione e no euro. C’è un terreno comune da coltivare assolutamente, anche con i baschi, i fiamminghi...».
Al punto da formare un unico gruppo in Europa?
«Perché no? Marine Le Pen è statalista, non è mia sorella politica, ma ci sono molti punti comuni. La Lega è anche in Europa il partito dell’indipendenza. Quindi vogliamo continuare a ragionare con tutti gli indipendentisti perché questa Europa e questo euro sono un mostro politico. Noi vogliamo l’Europa dei popoli anche se fa finta di parlarne pure Enrico Letta».
Primo punto del programma addio all’euro. Giusto?
«Noi vogliamo la revisione di tutti i trattati, da Maastricht a Schengen. E sì pure la ridefinizione dell’euro che favorisce solo la Germania. Per questo il 23 novembre a Milano, come Lega lanciamo il primo “No euro day”... Sarà un convegno e ci saranno gazebo in tutto il Nord».
Ma non rischiate un ulteriore isolamento alleandovi con il Front National di estrema destra? La Lega non corre il rischio di rafforzare la sua immagine di partito di destra, radicale e xenofobo?
«Questa Europa è una vera dittatura. I media hanno già pregiudizi contro di noi: veniamo dipinti sempre come xenofobi, razzisti e populisti. Tanto vale essere brutti e cattivi. Ma poi se in Austria il partito fondato da Jörg Haider ha il 22% dei voti, siamo davvero sicuri che siano tutti razzisti?».
Immigrazione ed Europa. Dopo la tragedia di Lampedusa il premier Letta ha chiesto l’intervento dell’Europa e di José Barroso che è pure volato sull’isola. Cosa volete di più?
«Il commissario Barroso e l’Europa se ne fregano di Lampedusa. Noi dalla Ue vogliamo più soldi e più uomini per affrontare il problema. E vogliamo che ci sia una nuova politica di difesa di fronte ai nuovi ingressi».

l’Unità 14.11.13
Spagna, i socialisti alla ricerca di un volto nuovo
Tante idee «audaci ma responsabili» alla Conferenza del Psoe a Madrid. Per garantire la vittoria bisogna superare la crisi di leadership
di Francesca D’Ulisse

Coordinatrice Dipartimento Affari esteri Pd

Intorno al due per cento, cioè 2,8%, 2,4%, 1,8%: sono queste le percentuali di fiducia che gli spagnoli attribuiscono rispettivamente ai sindacati, al governo e ai partiti politici. Un vero disastro e qualcosa su cui interrogarsi tutti. È in questo clima che si è svolta a Madrid la Conferenza politica 2013 del Psoe (Partido socialista obrero español). Una tappa che aveva un obiettivo molto ambizioso: il rilancio del partito attraverso un cambio di passo politico e programmatico. Lo avevano ben presente i dirigenti nazionali riuniti nella capitale a discutere e a confrontarsi sui temi-chiave del prossimo futuro.
Ci sono voluti otto mesi d’intenso lavoro per produrre una bozza di documento di 390 pagine, sintesi di quasi 10mila 500 proposte. Uno sforzo titanico. «Il Psoe che uscirà da questa assise sarà più rosso, più a sinistra, più femminista e più verde», aveva dichiarato Elena Valenciano, la numero due del Partido, alla vigilia della Conferenza, «ma soprattutto più unito». Le proposte politiche che i militanti e gli elettori attendono dovrebbero marcare un profilo profondamente rinnovato, più attento alle istanze di quella stessa società civile che in questi mesi ha rifiutato di identificare l’attuale dirigenza socialista come l’alternativa agli scandali del Partito Popolare.
Non è un caso che nel momento in cui il PP si trovi a vivere la sua stagione più difficile, il Partito socialista non riesca a sfondare. Al contrario, stia perdendo consensi, dal 29% al 26%, tre punti in meno persi solo negli ultimi mesi. In questo fine di settimana la sfida era ambiziosa: ci si aspettava che il partito declinasse finalmente un progetto «nuovo» di trasformazione profonda del Paese. E infatti sono uscite proposte nuove e profondamente progressiste su istruzione e sanità pubblica, riforma costituzionale, economia, ambiente, laicità dello Stato.
Ma il vero tema di cui si è discusso fuori dall’assise ufficiale e che ha pesato come un’ombra sinistra sulla buona riuscita della Conferenza è chi dovrà incarnare quest’alternativa programmatica. Per una nuova tappa storica e per tornare al governo molti reclamano un cambio del vertice attraverso primarie aperte da fare al più presto possibile. I candidati che sarebbero pronti a sfidare Alfredo Rubalcaba non mancherebbero. Sono più giovani, hanno un percorso già consolidato all’interno del partito e ne rappresentano alcune figure chiave a livello nazionale e locale.
Si sussurrano almeno quattro nomi, quattro pezzi da novanta super coccolati dai militanti presenti: Susana Diaz, brillante Presidente della Junta dell’Andalusia; Carmen Chaco, ex Ministra della difesa; Eduardo Madina, segretario generale del gruppo parlamentare e Paxti Lopez, segretario generale del partito socialista basco ed ex presidente del Governo di quella regione. Insomma, al di là delle sforzo programmatico il vero problema del Psoe è che si cada nella trappola della personalizzazione del con-
fronto. Cosa che potrebbe offuscare l’autentico sforzo di rinnovamento programmatico voluto dallo stesso Rubalcaba come unica vera priorità del partito oggi. Il tema è, poi, se bastino un nuovo volto e tante idee «audaci, ma responsabili» – su questo concordano tutti a garantire la vittoria in una fase tanto complessa del partito in cui non c’è solo una crisi di leadership ma anche e soprattutto una crisi di fiducia verso i socialisti proprio da parte delle classi sociali di riferimento del partito. Il tema è, infine, se le pur legittime ambizioni personali possano avere la prevalenza sulla tenuta della comunità e sulla sua unità. Questo fine settimana, a Madrid, è stato in gioco proprio questo. Il navigato Rubalcaba questi pericoli li ha saputi scongiurare. Almeno per ora.

il Fatto 14.11.13
Svolta rossa
La Cina è più vicina (al mercato)
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Più mercato. Nel comunicato ufficiale che ha sancito la chiusura del Terzo Plenum, il Partito comunista cinese si è impegnato a riforme “decisive” di cui si vedranno gli effetti entro il 2020. “Il settore pubblico e quello privato sono componenti altrettanto importanti di una economia socialista di mercato e sono le basi fondamentali dello sviluppo economico e sociale della nostra nazione”.
È la prima volta nella storia della Cina moderna che il settore privato viene collocato sullo stesso livello di quello statale. Alla radice dell'attuale trasformazione, la necessità di dare nuovo slancio all'economia del Dragone che da tempo sembra avere leggermente rallentato.
MOLTI ERANO IN ATTESA di un'esplicita presa di posizione sulla riforma finanziaria, ma il documento finale non menziona né banche né tassi di interesse né internazionalizzazione della moneta. E questi sono punti cruciali sia per i piani finanziari della Cina sia per gli investitori stranieri. Nessun accenno nemmeno alla tanto attesa riduzione del potere delle aziende di Stato, di fatto monopoli in settori fondanti come quello bancario, dell'energia, delle telecomunicazioni e dei trasporti. Poche le misure concrete ed espresse in maniera volutamente vaga, per lasciare spazio di manovra ai dipartimenti che si occuperanno dell'attuazione delle riforme.
Quel che è chiaro è che il Partito ha promesso di superare il sistema che impedisce ai contadini di vendere i loro lotti di terra per trasferirsi definitivamente nelle città nelle quali ormai lavora buona parte di essi. Quindi si rimane sul tracciato dell'urbanizzazione: 250 milioni di contadini che si trasferiranno in città entro il 2025. Questa è la speranza di sopperire alla crisi globale con lo sviluppo del mercato interno. E c'è un'altra certezza.
IL PLENUM ha istituito una Commissione per la sicurezza – che con ogni probabilità sarà lo stesso Xi Jinping a presiedere – sul modello del Consiglio di sicurezza nazionale Usa. Pechino ne ha bisogno per misurarsi a livello globale come la potenza che è. Dopo più di un decennio passato a ricostruire l'esercito e a espandere l'influenza diplomatica, si trova ad affrontare le reazioni dei paesi vicini, che spesso si tutelano sotto l'ombrello americano. Ma per il momento sarà soprattutto uno strumento per controllare il crescente dissenso interno. E per confermare la leadership. La conclusione certa che si può trarre dal Plenum è che Xi Jinping è forte. E vuole rimanerlo.

Corriere 14.11.13
Cina
Dietro le aperture un’idea di merito in stile confuciano
di Luca Giustiniano

Professore associato di Global Organization  Design Luiss Guido Carli

La Cina continua a difendere i suoi tassi di crescita economica e confermarsi tra le più potenti economie al mondo. Le scarne notizie che giungono dalla chiusura del III Plenum del Pcc, appena concluso, pongono molti interrogativi ma danno anche delle indicazioni importanti. Le si devono leggere però in una prospettiva storica e persino filosofica. Le aperture al mercato emerse nell’ultimo Plenum sembrano sottendere il riconoscimento e la valorizzazione del concetto di «merito». Un concetto però ben diverso da quello comunemente inteso in Occidente, che ruota sostanzialmente sulla valutazione dei risultati raggiunti rispetto a degli obiettivi che possono essere espliciti o impliciti. Il merito di ispirazione confuciana va letto invece in una prospettiva più generale, olistica e cioè riferita non solo ai risultati da raggiungere ma anche delle premesse dalle quali si partiva. Le persone ma anche le società o in generale le organizzazioni vanno valutate dando la medesima enfasi ai presupposti che hanno portato a quei risultati attesi. Conteranno quindi anche le caratteristiche personali come pure l’esperienza. Il merito si estende e ingloba le virtù Yi (rettitudine), Li (correttezza/decoro) e Xin (essere degni di fiducia) tipiche del Confucianesimo. Un’impostazione molto profonda e radicata nella società cinese. Per ogni studente cinese, anche in virtù della politica del figlio unico che è ancora vigente, c’è un intero sistema famigliare che si sacrifica per il suo sviluppo futuro. Ogni singolo studente cresce per questo nell’imperativo di meritare la formazione che riceve e in virtù di questo plasma la sua esistenza futura. L’apertura al mercato va letta, quindi, come l’impresa privata che deve meritare di innestarsi in un sistema economico sinora governato e gestito dal soggetto pubblico. E per Pechino questo significa che dovrà operare nell’ambito di un sistema dove l’«autorità del partito» è indiscutibile. Un quadro coerente con il rispetto del concetto di gerarchia di matrice confuciana che, nella relazione tra Governante e Governato vede uno dei suoi pilastri. La Cina ritiene di avere un sistema competitivo rispetto a quello capitalistico che vede nel merito uno dei suoi capisaldi. Una competizione che è sempre più estesa. Sarà interessante, rispetto al percorso di liberalizzazione dichiarato dal Plenum, osservare quali siano i settori che saranno oggetto di apertura al mondo privato e se, e in che misura, la presenza estera potrà essere in tal senso metabolizzata. È per questo che merito e apertura non vanno letti come un arrendersi al mercato né tantomeno al liberismo e alle sue dinamiche. Sono stati comunque istituiti un nuovo «gruppo leader centrale» e un Comitato di sicurezza nazionale: saranno gli schemi attuativi di tali organismi a farci capire se l’avranno vinta meri apparati burocratici o l’asticella della competizione con l’Occidente sarà stata posta ancora più in alto.

il Fatto 14.11.13
Arafat: “I bimbi palestinesi umiliati fin dalla nascita”
Il colloquio con Biagi del  1° settembre 1995 a Cernobbio, avvenuto a mezzanotte in una Villa d’Este trasformata in bunker
“Contro il terrorismo faccio quello che posso, ma è difficile controllare il 100 per cento del mio popolo”
La vita privata: “Ho adottato 28 ragazzi, alcuni li ho fatti sposare”
L’auspicio-profezia: “Il destino della mia gente è rientrare in Patria, è il coso della Storia”
di Enzo Biagi


Signor presidente Arafat di cosa ha bisogno il popolo palestinese?
Il mio popolo ha bisogno della pace dei coraggiosi nella terra di Palestina. Ho chiesto alla società internazionale, all’Italia, di appoggiare la pace perché non rappresenta soltanto il nostro interesse, ma anche quello di Israele, del Medio Oriente, dell’Europa, dell’America, di tutti. Questa è la Terra Santa.
Qualche tempo fa sulla copertina di un settimanale francese c’era scritto: “Israele potrà sopravvivere? ”. Nel frattempo è cambiato qualcosa?
No, se i leader israeliani continueranno a svolgere il ruolo di invasori, di occupanti, di dittatori. No, se non smetteranno di essere razzisti nei confronti del nostro popolo e della nazione araba. Se decideranno di rispettare gli accordi, allora sì che potrebbe cambiare qualcosa. Gli israeliani devono capire che non possono continuare a opporsi al corso della storia, non possono continuare a opporsi alle leggi internazionali, rifiutando di applicare tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite.
C’è simpatia nel mondo per la vostra protesta contro l’occupazione israeliana, ma la pace è difficile da ottenere intensificando la ribellione.
La gente non può vivere per sempre in schiavitù sotto l’occupazione militare israeliana. Vogliamo vivere liberi in un paese libero. Questa è la volontà del nostro popolo. L’opinione pubblica internazionale sta cominciando a percepire la realtà, ha visto gli abusi che gli israeliani compiono nei confronti del popolo palestinese. Per sua informazione, la ribellione continuerà sino alla fine dell’occupazione israeliana. Non chiediamo la luna, chiediamo soltanto che sia applicata la legge internazionale, il nostro diritto all’autodeterminazione, a fare ritorno nella nostra patria d’origine. Abbiamo il diritto che il nostro Stato sia riconosciuto e indipendente, come tutti i popoli in tutte le parti del mondo.
Qual è la più grande umiliazione che ha subito la sua gente?
Lei lo sa che metà del mio popolo è stato cacciato via dalla sua terra? Stiamo vivendo in grandissima carestia, ma nessuno ne parla. Lei conosce il numero di prigionieri palestinesi che sono entrati nelle carceri israeliane in tutti questi anni? Sa che cosa significa non avere una identità, essere sempre alla ricerca di un posto per la sepoltura dopo la morte e non trovarlo? Le racconto un fatto: il rappresentante del Kuwait all’Onu era un palestinese, si chiamava Fais Assaiev. Quando è morto, ho cercato per tre giorni interi dove poterlo seppellire: alla fine ho trovato in Libano una chiesa di Beirut, disposta a riceverlo nel suo cimitero.
La più grande umiliazione che ha subito lei come persona?
Non ha importanza l’umiliazione o la sofferenza personale, importante è ciò che viene fatto al mio popolo. L’umiliazione e la sofferenza più dura è quella che subiscono i bambini palestinesi dal momento in cui nascono.
Che cosa vi lega agli israeliani e cosa vi divide?
Ci lega il fatto che siamo tutti figli di Abramo. Ciò che ci divide è la loro occupazione della nostra terra e tutti i dolori che il nostro popolo ha dovuto subire a causa della occupazione.
Che cosa manca ancora per arrivare alla pace?
La cosa più importante è di seguire e applicare, in modo onesto, tutti gli accordi che abbiamo stipulato a Oslo e sottoscritto a Washington nel 1993, ad esempio: il ritiro delle forze israeliane da Gaza e dalla Cisgiordania, il riconoscimento da parte di Israele dell’Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese. Un esempio: le elezioni dovevano svolgersi nel luglio 1994, sono trascorsi ben quattordici mesi e non sono ancora state fatte perché gli israeliani non si sono ritirati dalle nostre città, secondo gli accordi presi.
Anche voi vi ostinate a non riconoscere il diritto di Israele a esistere.
Questa domanda non dovrebbe rivolgerla a me, ma a Israele, all’invasore, all’occupante, non a chi è vittima. È Israele che firma gli accordi e poi non li rispetta, che non riconosce lo Stato indipendente di Palestina. Noi ci auguriamo che si possa vivere insieme, in pace, nella Terra della Pace.
Gli israeliani l’accusano di non voler fermare il terrorismo.
Non è vero, faccio tutto quello che è possibile, ma fino a quando l’aggressione israeliana non finirà è difficile riuscire a controllare il cento per cento del popolo.
C’è una nuova grande immigrazione del popolo arabo verso l’Occidente. Che cosa porterà e cosa si aspetta di trovare?
Questa è una necessità, ma non è questo il problema. Metà del nostro popolo vive lontano dalla sua terra. Tutto il mio popolo, quello immigrato e quello cacciato, chiede di tornare nella nostra terra. Vengono da voi a cercare il pane, se lo trovassero nella loro terra non verrebbero in Italia e in Europa. L’immigrazione non riguarda solo gli arabi, è il problema del Nord e del Sud del mondo, è l’eterna divisione tra paesi poveri e paesi ricchi.
Noi queste cose le capiamo perché anche gli italiani sono andati per il mondo a cercare il pane. Non c’è nessun preconcetto nei confronti di chi lo fa oggi. Penso a queste persone che lasciano non solo la loro terra, ma affetti, un modo di vivere, devono imparare la lingua, adattarsi a una cultura diversa.
Io vedo questo problema in modo diverso. Il palestinese, che è andato a cercare il pane, lo ha fatto pensando di tornare nella propria terra, la pensano così anche quelli che negli anni si sono integrati. Il popolo palestinese ha la percentuale più alta di laureati di tutto il Medio Oriente. Il desiderio di chi è lontano è la pace tra noi e gli israeliani. La nostra è la Terra Santa, nessuno può allontanarsi definitivamente da essa.
Lei è diventato papà di una bella bambina,
Zahwa. Sua figlia vivrà in modo diverso dalle donne arabe che hanno dovuto sopportare certe antiche regole, certe limitazioni?
Sarà più libera?
Noi abbiamo un grande rispetto della donna. Nel documento di indipendenza palestinese, firmato con una dichiarazione solenne, sta scritto: “La donna e l’uomo”. La donna è citata prima dell’uomo. La donna è il guardiano della nostra sopravvivenza, della nostra esistenza, la donna è colei che cura il nostro fuoco, cioè la nostra storia, la nostra civiltà. Per l’arabo il fuoco è un simbolo importantissimo, rappresenta la vita e le tradizioni che si tramandano dall’antichità. Trovarsi attorno al fuoco significa proteggere la casa e rispettare gli ospiti. Nella nostra civiltà la donna è rispettata.
Questo significa che la donna, oltre a custodire il fuoco, andrà a scuola, studierà come gli uomini? Si toglierà il velo, mostrerà la sua faccia?
Lei offende il popolo palestinese, dovrebbe venire in Palestina, lei ha una visione un po’, mi permetta, arretrata del mondo palestinese.
Non è mia intenzione offendere il popolo palestinese, ho semplicemente fatto una domanda. In Palestina ci sono stato e ci torno molto volentieri. Presidente Arafat, voi non siete tutto il mondo arabo. La domanda era riferita alla cultura araba, non solo a quella palestinese.
Io parlo del popolo palestinese, la sua domanda si riferiva a mia figlia Zahwa e io ho risposto della donna palestinese. Io ho adottato 28 bambini e bambine, che hanno perso i genitori e tutta la famiglia nei massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila nel 1982 dove vennero uccisi alcune migliaia di palestinesi. Questi insieme a Zahwa sono i miei figli, non sono maschi e femmine sono semplicemente i miei figli. Alcuni di loro li ho fatti sposare di recente.
Li ha fatti sposare lei o volevano sposarsi loro?
Loro hanno scelto le mogli, poi me lo hanno comunicato e io come padre ho benedetto la loro unione. L’ultima si è sposata, per propria scelta, 18 giorni fa. Come marito ha scelto un mio ufficiale. È lei che ha voluto così.
Ha fatto quello che dovrebbe fare ogni buon padre.
La donna palestinese ha giocato sempre un ruolo essenziale per il mio popolo. La percentuale delle donne nel nostro Parlamento è abbastanza elevata in paragone anche con certi paesi occidentali. Di recente ho premiato i 20 studenti che hanno ottenuto risultati eccellenti agli esami di maturità sia a Gaza che in Cisgiordania. A Gaza, 19 erano femmine e solo un maschio: in Cisgiordania otto femmine e dodici maschi.
Come vede il futuro?
Io credo nella storia. I palestinesi seguono il corso della storia, mentre gli israeliani sono contro. Presto o tardi raggiungeremo i nostri obiettivi. Questo è il nostro destino, e nessuno può sfuggire al proprio destino. Sono sicuro che i nostri figli riusciranno a rientrare in patria e a realizzare i loro obiettivi nel nostro paese libero e indipendente. Questa è la mia visione del futuro.
Presidente Arafat la ringrazio molto.
Auguri per lei, per i suoi figli e per il suo popolo. Sono io che devo ringraziare il popolo italiano perché migliaia di famiglie hanno adottato circa cinquemila bambini e bambine palestinesi. Non dimenticheremo la solidarietà del popolo italiano. Grazie.

Corriere 14.11.13
Israa, una portavoce donna per dare un volto gentile a Hamas
di Elisabetta Rosaspina


Hamas scende a più miti sorrisi. Il movimento sovrano a Gaza, sotto la guida di Ismail Haniyeh e sulla lista nera delle organizzazioni terroristiche stilata dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, non se la passa bene, dopo il raffreddamento dei suoi rapporti con Teheran, la fine di quelli con Damasco, l’ostilità del Cairo, senza più i Fratelli Musulmani al potere, verso i tunnel attraverso il confine meridionale; e i missili di Israele sempre in agguato. Nonché una forte emorragia di consensi anche all’interno della Striscia, e una tensione che ha sfiorato negli ultimi giorni cortei e scontri di piazza.
Ci voleva un make up alla truce immagine di guerrieri sunniti, ci voleva un volto senza barbe integraliste e occhi di bragia, ci voleva una (porta)voce suadente, poliglotta e ben coltivata, per ammorbidire i giornalisti occidentali e l’opinione pubblica internazionale. «Ci voleva — ha spiegato Ihab al-Ghusein, responsabile delle relazioni esterne del governo — qualcuno che padroneggiasse bene le lingue straniere per illustrare all’Occidente le falsità della propaganda israeliana». E finalmente è arrivata Israa. Palestinese, anche se nata in Egitto 23 anni fa, è cresciuta nel Regno Unito, a Bradford, da dove è tornata, con un piacevole accento dello Yorkshire, in tempo per diplomarsi in giornalismo all’Università islamica di Gaza e cominciare una carriera televisiva. Ora interrotta dal nuovo impegno patriottico: convincere il mondo che non parla per conto di terroristi.
Non è la prima volta che Hamas affida a donne ruoli politici, o addirittura marziali, di un certo rilievo (tra i suoi ministri c’è la veterana Jamilla Al-Shanti), a condizione che mantengano un contegno consono ai severi costumi islamici. Per la sua nuova portavoce Haniyeh sembra disposto a chiudere un occhio: Israa Al-Mudallah nasconde sotto il velo i capelli, ma non la sua nostalgia per lo stile di vita europeo. Evidenzia occhi e labbra con mascara e rossetto. E non trova indecente una stretta di mano con un uomo che non abbia con lei vincoli di sangue o coniugali. Le è stata attribuita perfino l’intenzione di dialogare con i media israeliani. Sostiene però il Jerusalem Post che, quando ci ha provato la Army radio, l’emittente dell’esercito di Tel Aviv, Israa si sia fatta negare al telefono. Gentilmente, beninteso.

Repubblica 14.11.13
“Sono femminista e sto con Hamas” Una donna per parlare all’Occidente
Operazione d’immagine a Gaza: sarà portavoce degli integralisti
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — Sorride con gli occhi truccati all’araba e i capelli nascosti da un bel foulard colorato, Israa al-Mudallal, una giovane ragazza di Gaza appena nominata portavoce per i media stranieri da Hamas. Gli integralisti che da sei anni sono i padroni — sempre meno incontrastati — della Striscia hanno scelto un volto femminile per la nuova immagine che vorrebbero dare di sé al mondo esterno. Lei, rampolla di una delle famiglie più conosciute in città — suo padre è professore di Scienze sociali all’Università islamica — anche se ha appena 23 anni vanta già alle spalle una carriera più che rispettabile: studi in Gran Bretagna a Bradford ed esperienze televisive, da Gaza, con la iraniana Press Tve poi con una emittente islamica locale,al-Kitab.
Israa, prima donna a ricoprire un incarico così delicato per il movimento integralista, ammette diavere ancora molto da imparare. Nelle questioni prettamente politiche per ora non vuole entrare ma promette: «Lasciatemi studiare,ne riparleremo magari fra un mese... ». Difficile spuntare qualche dichiarazione sulla recente repressione contro il movimento giovanile Tamarod, che voleva scendere in Piazza per commemorare Arafat e protestare contro il soffocante pan-islamismo che spezza ogni possibilità di critica al governo degli islamici. Oppure sulla deriva economica e umanitaria della Striscia, dove più di un milione di palestinesi vive grazie agli aiuti umanitari.
Lei vorrebbe concentrare la sua attenzione su questioni di carattere sociale: ad esempio sulla gioventù di Gaza, sui profughi, o anche sulla condizione femminile in una società alquanto conservatrice come quella della Striscia, ma lei lancia la sua sfida, essendo divorziata e con una figlioletta. Al-Mudallal si proclama «femminista convinta» e trova che questo non sia affatto in contrasto con l’ideologia di Hamas, con cui si identifica appieno. Le donne nell’organizzazione islamica sono molto presenti, nel governo con la ministra Jamilla Al Shanti, in Parlamento con alcune deputate, altre occupano posti in dipartimenti e ministeri.
Il suo, lascia intendere, sarà dunque un approccio umanitario più che ideologico. «Mi rivolgerò ai media occidentali e israeliani e mi adopererò per cambiare il linguaggio e offrire un quadro diverso della Palestina e di Gaza, renderò le questioni più umane e anche se i funzionari palestinesi non comprendono questo linguaggio, io so cosa vuole l’opinione pubblica occidentale. L’Occidente non comprende il discorso religioso, quanto piuttosto il discorso umano».
Nel cuore di Gaza City, nell’ultimo austero e sgangherato “Press Office” che Hamas ha rimesso in piedi — l’altro è stato ridotto in cenere dagli israeliani giusto un anno fa durante l’operazione Colonna di Nuvole — i collaboratori di Israa sprecano complimenti per il nuovo giovane “capo” che è «un vulcano di idee». Il ruolo che Israa si è assegnata è piuttosto il ruolo di una Pr per Hamas, che non un vero portavoce politico. Per quello bisognerà telefonare ai soliti numeri, quelli che diventano inattivi non appena la tensione con Israele supera il livello di guardia.

Repubblica 14.11.13
Troppo forti i timori di tensioni con la comunità internazionale
La marcia indietro di Netanyahu stop alla costruzione di 24mila case


GERUSALEMME — Polemica nel governo israeliano sull’espansione delle colonie nei Territori palestinesi occupati, nel bel mezzo di una crisi diplomatica con Washington. Il premier Netanyahu congela il progetto di costruzione di 24mila nuovi alloggi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est- una cifra record - per evitare la condanna della comunità internazionale proprio ora che questa inasprisce il tono delle trattative con l’Iran.
Netanyahu ha così smentito Uri Ariel, il ministro dell’Edilizia e leader del partito estremista Casa ebraica, il quale aveva lanciato «senza previo coordinamento » l’espansione degli insediamenti. L’annuncio di Ariel aveva sollevato un coro di critiche: l’America aveva ribadito l’”illegittimità” della colonizzazione; l’Autorità palestinese congelato i colloqui con lo Stato ebraico; l’Onu espresso «crescente preoccupazione» riguardo a una colonizzazione «che contraddice l’obiettivo di una soluzione negoziata di due Stati».
Alla fine Netanyahu ha ammesso: «Questo atto provoca un inutile scontro con la comunità internazionale proprio quando tentiamo di convincerla a trattare un migliore accordo con l’Iran». Il premier si riferiva al braccio di ferro con il Segretario di Stato Usa Kerry sul programma nucleare iraniano: Netanyahu lo accusa d’inseguire «un pessimo accordo ». E minaccia: «Questo può condurre alla seconda opzione non desiderata». Vale a dire, la guerra.


l’Unità 14.11.13
Idee. Conoscenza di massa
Come imparare l’arte di vivere in un mondo saturo di informazione
L’analisi del sociologo per orientarsi nel mondo di oggi
Pubblichiamo un brano estratto dal nuovo numero di «Lettera Internazionale» dedicato alla  «Mala-educazione»
di Zygmunt Bauman


DURANTE LA FASE «SOLIDA» DELLA STORIA MODERNA, LA REGOLA PER LE AZIONI UMANE ERA QUELLA DI EMULARE, PER QUANTO POSSIBILE, lo schema del labirinto comportamentista in cui la distinzione tra itinerari veri e falsi era netta e permanente, di modo che coloro che mancavano o rifiutavano i percorsi buoni erano puniti senza eccezione e sul momento, mentre chi li seguiva con obbedienza e celerità veniva ricompensato.
(...) Nell’epoca «liquida» della modernità, la domanda di meccanismi «ortodossi» di indirizzo e di controllo diminuisce rapidamente. Ora, la dominazione può essere ottenuta e mantenuta con un dispiego di forze, di tempo e di denaro molto inferiore rispetto al passato: piuttosto che da una sorveglianza visiva, essa può essere garantita dalla minaccia del disimpegno o del rifiuto a impegnarsi. Infatti, la minaccia del disimpegno scarica l’onus probandi sull’altro, sulla parte dominata. Ora tocca ai subordinati comportarsi in modo da dare di se stessi un’immagine favorevole ai capi e allettarli per far loro «acquistare» i loro servizi e prodotti concepiti individualmente proprio come ogni altro produttore o commerciante seduce i propri clienti ipotetici per far loro desiderare certe merci. (...)
La ricetta del successo è «essere se stessi», e non «essere come gli altri». È la differenza, non l’identità, a vendersi bene. Avere le conoscenze e le esperienze «richieste per il compito», possedute già da altri che hanno fatto quel lavoro prima o che chiedono di farlo, non basta, anzi è uno svantaggio. Al contrario, bisogna proporre idee inedite, progetti eccezionali che nessuno prima aveva suggerito, e soprattutto possedere la virtù del gatto che riesce sempre a seguire le sue strade solitarie. Questo è il genere di conoscenza (o piuttosto di ispirazione) ambita dagli uomini e dalle donne dell’epoca liquida moderna. Essi desiderano consiglieri che mostrino loro come avanzare, piuttosto che insegnanti che controllino che imbocchino quella stessa, unica strada, sempre affollata. (...)
Il culto attuale dell’«educazione per tutta la durata della vita» si centra in parte sulla necessità di aggiornare l’informazione professionale sullo «stato dell’arte» ma anche, in misura eguale se non superiore, sulla convinzione crescente che la miniera della personalità non si esaurisce mai e che i maestri spirituali sanno come raggiungere i depositi ancora inesplorati che le altre guide non hanno saputo trovare o che hanno ignorato. (...) scrive Paul Virilio, «L’ignoto ha cambiato posizione: dal mondo, che era troppo vasto, misterioso e selvaggio, si è spostato verso la galassia nebulosa dell’immagine». Gli esploratori desiderosi di esaminare questa galassia nella sua totalità sono poco numerosi, e quelli che ne sono capaci sono ancora meno... «Scienziati, artisti, filosofi... ci ritroviamo in una specie di “nuova alleanza” per l’esplorazione (di quella galassia)» un tipo di alleanza alla quale la gente comune potrebbe rinunciare per sempre. La galassia è, puramente e semplicemente, inassimilabile: molto più del mondo di cui l’informazione parla, e l’informazione stessa a essere diventata il luogo principe dell’«ignoto». È l’informazione a essere percepita come «vasta, misteriosa e selvaggia». Le enormi quantità di informazione che gareggiano per richiamare l’attenzione degli uomini e delle donne normali vengono considerate da queste persone molto più minacciose dei pochi misteri rimasti dell’universo, misteri che interessano ormai solo un numero ristretto di appassionati di scienza e quelli, ancora meno numerosi, che concorrono per il Premio Nobel.
Tutte le cose ignote appaiono minacciose, ma scatenano reazioni diverse. Le macchie bianche sulla mappa dell’universo eccitano la curiosità, spingono all’azione chi ha determinazione, coraggio e fiducia. Esse promettono una vita di scoperte interessanti, auspicano un avvenire migliore, liberato a poco a poco dalle noie che avvelenano la vita. Tutto è diverso, invece, quando si tratta della massa impenetrabile delle informazioni, oggettivamente disponibili, anche se a distanza, eppure non afferrabili. Il futuro non è più un tempo da aspettare: esso non farà che accrescere il problema presente, aggiungendo in maniera esponenziale altri elementi alla massa già stordente e soffocante di conoscenze, impedendo la salvezza che sembra offrire. È la massa stessa delle conoscenze offerte a essere l’ostacolo principale alla loro accettazione. Ed è anche la minaccia principale contro la fiducia: ci deve essere per forza, in quella massa orribile di informazioni, una risposta al problema che ci angoscia e, dunque, se le soluzioni mancano, ne consegue un’immediata svalutazione e derisione di noi stessi.
Ad essere diventato l’esempio stesso del disordine e del caos è proprio la massa delle conoscenze accumulate. In questa massa, tutti gli strumenti tradizionali per fare ordine argomenti rilevanti, attribuzione di importanza, utilità definita dai bisogni e valore definito dall’autorità sono poco alla volta sprofondati e si sono dissolti. La massa rende i suoi contenuti uniformemente incolori. In questa massa, si può dire che tutti i bit di informazione galleggiano con lo stesso peso specifico; la gente non ha più il diritto di chiedere una valutazione dei suoi giudizi, ma è sballottata tra affermazioni contraddittorie di esperti vari che affermano che non c’è modo di separare il grano dal loglio.
Nella massa, il pacchetto di conoscenze che si utilizza per un singolo consumo può essere valutato solo quantitativamente e non c’e modo di confrontare la sua qualità con il resto della massa. Un bit d’informazione vale un altro. I quiz televisivi riflettono fedelmente il nuovo andazzo della conoscenza umana: a ogni risposta esatta, si attribuisce al partecipante lo stesso numero di punti, indipendentemente dall’argomento delle domande.
Attribuire una certa importanza ai diversi bit di informazione e, anzi, attribuire maggiore importanza ad alcuni bit piuttosto che ad altri, è forse il compito più imbarazzante e la decisione più difficile da prendere. La sola regola empirica che può essere seguita è l’importanza del momento ma allora la rilevanza varia da un momento all’altro e i bit perdono il loro significato appena sono stati acquisiti e spesso ancor prima di essere utilizzati. Come altri articoli che si trovano sul mercato, devono essere consumati all’istante, sul posto e in una sola volta.
Nel passato, l’educazione ha assunto molte forme e ha dato prova di essere capace di adeguarsi al mutare delle circostanze, ponendosi nuovi obiettivi e disegnando nuove strategie. Ma il cambiamento che stiamo vivendo non è come quelli passati. Non è mai capitato nella storia che gli educatori affrontassero una sfida comparabile con quella attuale. Semplicemente, non ci eravamo mai trovati prima in una situazione del genere. Dobbiamo ancora imparare l’arte di vivere in un mondo saturo di informazione. E ancora più difficile è preparare altri esseri umani a questa vita.
© Lettera Internazionale Traduzione di Alessandro Spatafora

il Fatto 14.11.13
Bankster, i padroni del mondo
Fra banchieri e gangster, sono loro che hanno trasformato l’Italia in un paese invivibile
di Luca Ciarrocca


Chi è stato a New York e ha preso la subway avrà sentito ripetere spesso dagli altoparlanti una frase-slogan che dice: “If you see something, say something” (“Se vedi qualcosa, dillo”). Poche parole, secche ma efficaci, che evocano in chi le ascolta concetti e scenari preoccupanti come terrorismo, allerta, incertezza, attentati e altri ancora. L’idea di questo libro è scaturita da uno stato d’animo simile. Dalla convinzione che in economia, in politica, nel sistema di gestione dei poteri “qualcosa” potrebbe minacciarci tutti. Questo qualcosa è il nuovo potere, la “nuova classe” di uomini al comando da cui dipendono i nostri destini. I “padroni del mondo”: sono loro che guidano i giochi nelle banche centrali e nei grandi istituti commerciali, gli innominati che qui chiamiamo bankster, neologismo in Italia tabù – nato dalla fusione di banker e gangster – ma comparso perfino su una copertina di The Economist nel luglio del 2012. Personaggi senza volto, mai chiamati a rendere conto ad alcuno del loro operato, che ignorano la sofferenza delle popolazioni. Disprezzano le disparità culturali, psicologiche ed economiche delle nazioni d’Europa. Hanno trasformato la Ue in una pseudodemocrazia dominata da “poteri forti” e l’Italia in un paese invivibile, senza futuro. Coperti dalle sigle della Troika (Ue, Fmi, Bce), e approfittando della crisi, i nuovi tecnocrati hanno spadroneggiato “allocando” agli istituti di credito 15 trilioni di dollari (15.000 miliardi): una cifra senza precedenti nella storia. Con la connivenza dei politici, hanno socializzato le maxi-perdite di banche destinate a fallire, e contemporaneamente salvato l’euro, tagliando con l’accetta welfare, pensioni, scuola ed elevando a livelli mai visti le tasse: un vero capolavoro. Sulla nostra pelle. In questo quadro, oltre a denunciare quanto sta accadendo in Europa e nel mondo a danno dei contribuenti, vorrei dare il mio apporto con una proposta, seria e realizzabile, per risolvere i problemi economici e sociali che ci affliggono. Un progetto per rinascere. Crescere di nuovo. Uscire dalla stagnazione e liberarci dal debito. Questo libro introduce in Italia il progetto di riforma Positive Money, uno dei rari approcci di politica monetaria caratterizzati da competenza, affidabilità, indipendenza. L’obiettivo di lungo termine è quello di riformare il sistema bancario e ridimensionare il potere dei bankster. Bisogna togliere alle grandi banche commerciali, azioniste della Federal Riserve e della Banca centrale europea, il privilegio medievale, non più tollerabile, di gestire l’offerta di moneta. Sottraendo alle banche lo speciale diritto di creare denaro dal nulla, si sconfiggerebbe il predominio esercitato da una casta di poche migliaia di persone sul resto della popolazione. A dispetto di qualsiasi principio democratico. Gli eventi recenti, la crisi europea e quella che sta soffrendo in particolar modo l’Italia, hanno dimostrato che non possiamo demandare il nostro futuro a una ristretta cerchia di persone. Se chi ha facoltà di decidere i destini dell’economia, compresi il livello di debito e le tasse che paghiamo, ne trae un vantaggio personale – come nel caso dei bankster e dei politici: i primi a caccia di utili, i secondi di voti – allora la decisione non viene presa per il bene comune dell’economia in generale e per quello dei cittadini.

I PADRONI DEL MONDO  Luca Ciarrocca Chiarelettere, 256 pagg., 13,90€

l’Unità 14.11.13
Una tv per la scienza
Ciro Ciliberto: sarebbe una scelta necessaria. La Rai non se ne cura
L’intervista allo studioso di fama internazionale: «Vorrei un canale capace anche di un approccio interdisciplinare»
La qualità dell’insegnamento della matematica è direttamente collegata
allo sviluppo economico di un Paese
di Pietro Greco


«UN CANALE RAI TUTTO DEDICATO ALLA SCIENZA? È UNA COSA NECESSARIA E SAREBBE UNA COSA ECCELLENTE».Chi parla è Ciro Ciliberto, professore ordinario di Geometria Superiore presso l’Università di Roma Tor Vergata, studioso di geometria algebrica di fama internazionale e da un anno presidente dell’Unione Matematica Italiana.
Che tipo di canale immagina, professore?
«Un canale tematico come Rai Storia, che io guardo sempre. Ma prima di dirle quello che vorrei, le dico quello che oggi non va. Se si eccettuano i programmi di Piero Angela e del figlio, Alberto, ora c’è poca scienza in Rai. E quella che c’è viene trasmessa in orari impossibili. In piena notte o al mattino. Bisogna colmare questo gap».
È solo un problema di quantità e di orari?
«Certamente no. Io vorrei un canale che si occupasse di scienza e della presenza della scienza nella società. Ecco, qualcosa di simile a Radio3Scienza, il programma radiofonico che va in onda sulla terza rete della radio e che è la migliore trasmissione di scienza alla radio che abbiamo. Tuttavia anche Radio3Scienza ha dei limiti, che ovviamente dipendono dai tempi a disposizione. Non è abbastanza interdisciplinare. Ecco, vorrei un canale televisivo dedicato alla scienza, ma con un forte approccio interdisciplinare».
Nel senso di un canale che guarda all’articolazione della scienza, dalla matematica alla medicina e alla psicologia?
«Certo, anche questo. Ma non solo questo. Io vorrei un canale capace di integrare le due culture. Che non ponesse la scienza in una gabbia, sia pure dorata. Ma che la liberasse. In pratica, in un canale televisivo dedicato alla scienza non solo scienziati, ma anche filosofi, linguisti, storici, artisti. Capace di affrontare i problemi nella loro complessità. E di fornire anche un’immagine degli scienziati come uomini di cultura capaci di dialogare con persone che affrontano gli stessi problemi da angolazioni diverse».
Un canale arioso. Rivolto a chi e con quali tematiche?
«La scienza di punta, certo. Ma non solo la scienza di punta. Anche la storia e la filosofia della scienza. E, soprattutto, darei un forte rilievo alla didattica della scienza. Se il nostro obiettivo è quello di concorrere a costruire una più matura e diffusa cultura scientifica, dobbiamo sapere che è a scuola che si ha il massimo impatto. È lì che si formano le basi dei cittadini del futuro».
E nello specifico, come matematico e presidente dell’Unione Matematica Italiana, cosa proporrebbe? «Beh, qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. La matematica ha una storia lunga. Ha la storia forse più lunga tra tutte le scienze. Ancora oggi studiamo la geometria di Euclide, no? E ancora oggi, a 2.300 anni dalla nascita, Archimede è ancora attuale. Ecco proprio Archimede ci dà la dimostrazione pratica che la proposta di un approccio storico alla matematica è vincente. Possiamo studiare Archimede non solo come matematico e come fisico-matematico. Ma anche come scrittore. Il greco di Archimede è molto raffinato. I pregi del siracusano sono anche linguistici.
Ma la matematica non è solo storia.
«La matematica ha una lunga e grande storia. Ma non è certo solo storia. Anzi oggi assistiamo a un’autentica novità. Perché mai come in questo momento la matematica segna la società e, direi, mai come in questa epoca segna un’epoca».
La matematica oggi è più applicata di un tempo?
«La matematica, come tutta la cultura, ha un valore in sé. Ma ha anche un valore applicativo. In passato, tuttavia, la matematica non era presente in tutte le scienze. Possiamo dire che era presente soprattutto in fisica. Galileo, grande fisico, diceva che l’universo è scritto in lingua matematica. E la fisica dopo Galileo e soprattutto dopo Newton si è sviluppata applicando la matematica. Per lungo tempo le altre scienze non hanno seguito l’esempio della fisica. Oggi non è più così. la matematica è diffusa in tutto lo spazio delle scienze. Ha assunto un valore pratico davvero universale».
Già, ma un canale televisivo non potrà dedicare l’attenzione solo alla matematica applicata nelle varie scienze.
«Assolutamente no. Oggi la matematica non è presente solo in tutte le scienze. È presente in tutta la nostra vita quotidiana. Basta citare i telefoni cellulari, i computer, Internet. Quanta matematica applicata! Quanta matematica da raccontare. E non è matematica banale o consolidata. È matematica estremamente evolutiva. Che usa tecniche molto diverse dal passato nell’innovazione tecnologica e, più in generale, nella gestione della complessità del mondo».
A quali tecniche si riferisce?
«In passato la matematica che trovava maggiori applicazioni era certamente l’analisi matematica: le derivate, gli integrali, il calcolo infinitesimale. Oggi ci sono tante altre tecniche matematiche che vengono applicate. Per esempio la materia di cui mi occupo, la geometri algebrica, trova applicazione nelle tecnologie come quelle dei cellulari o dei computer in cui è necessaria una affidabile metodologia di correzione degli errori. La geometria algebrica trova applicazione nella crittografia. Ecco tutto questo e altro ancora dovrebbe e potrebbe raccontare della matematica un canale televisivo della Rai dedicato alla scienza. Ecco, per esempio quanti sanno che quest’anno il Premio Turing l’analogo per l’informatica della Medaglia Fields, che a sua volta è l’analogo per la matematica del premio Nobel per la fisica, la chimica e la medicina è andata a un italiano, Silvio Micali che, insieme a Shafi Goldwasser, ha ottenuto il premio per i suoi lavori sulla crittografia e la sicurezza delle informazioni, risolvendo teoremi di matematica e di geometria? Silvio Micali lavora negli Stati Uniti, ma si è laureato a Roma».
Comunicare matematica e scienza con approccio interdisciplinare e capace di cogliere l’attenzione anche del grande pubblico. Ma perché?
«Per un motivo molto semplice. Perché oggi la quantità e la qualità dell’insegnamento della matematica e della scienza è direttamente collegato allo sviluppo economico di un paese. Il guaio è che, in Italia, la gente non lo sa. Ecco perché è importante un canale della Rai dedicato alla scienza».

l’Unità 14.11.13
La nostra campagna
L’Unità, dal teatro alla conoscenza: un dovere per la tv pubblica


Il 17 ottobre l’Unità ha iniziato una campagna per la creazione di un canale tv dedicato a temi scientifici nella servizio pubblico: Rai Scienza. La nuova campagna faceva seguito a un’analoga iniziativa presa questa estate e che partiva da una idea di Franco Scaglia, scrittore e attuale presidente del Teatro di Roma, in favore di Rai Teatro, una rete dedicata allo spettacolo da vivo effettivamente nata lo scorso settembre, a coronamento della nostra campagna. A spingerci in queste iniziative è l’idea di una televisione che sia soprattutto servizio pubblico, come di statuto dovrebbe essere la Rai, cosa che purtroppo è stata spesso dimenticata. Il momento è favorevole poiché la Rai, investita da una crisi di risorse, deve ridisegnare i suoi canali satellitari: la scienza e il teatro spesso sono assai meno onerosi delle star del piccolo schermo e molto più importanti. In questi giorni la campagna per Rai Scienza è stata ripresa anche dal Sole 24 ore (senza però citarci), ma è comunque positivo perché dimostra l’importanza dell’iniziativa, e perché siamo convinti che l’attenzione per la cultura, la scienza, lo spettacolo dovrebbero essere di tutti. Sono già intervenuti l’astrofisico Giovanni Bignami che ci ha scritto incoraggiandoci e suggerendo per il canale il nome molto efficace di Rai conoscenza e lo storico della scienza Giulio Giorello.

il Fatto 14.11.13
La doppia vita di Gurlitt il collezionista di Hitler
Era ebreo l’esperto che custodiva il tesoro trafugato dai nazisti
di Carlo Antonio Biscotto


Il ritrovamento di oltre 1400 opere d’arte, la maggior parte delle quali trafugate dai nazisti, in uno squallido appartamento di Monaco è emblematico delle grandi tragedie del 20° secolo. Non appena la procura di Augusta su un sito ha pubblicato le immagini di una parte dei dipinti confiscati al collezionista Cornelius Gurlitt, sono state migliaia le persone che lo hanno visitato, a dimostrare l’interesse per un argomento così controverso e intrigante. Tra le opere, il capolavoro impressionista di Max Liebermann, “Due cavalieri sulla spiaggia”, dipinto nel 1901 e trafugato dai nazisti in una raffineria di zucchero a Wroclaw, Polonia, che due avvocati berlinesi cercavano da cinque anni.
LOTHAR FREMY e Jorg Rosbach sono specializzati nel recupero di opere d’arte rubate. I loro clienti sono due fratelli, di 88 e 92 anni, che vivono a Londra e New York e il cui prozio era proprietario della raffineria di Wroclaw e del dipinto. Gli avvocati sono venuti a conoscenza del ritrovamento dalla conferenza stampa trasmessa dalla televisione tedesca.
Misteriosa resta la figura del 75enne Cornelius Gurlitt, proprietario dell’appartamento nel quale si trovavano le opere che gli erano state lasciate in eredità dal padre Hildebrand, famoso storico dell’arte. L’opera di Liebermann era finita nella galleria di Hildebrand Gurlitt e poi acquistata da un appassionato d’arte ebreo di Wroclaw, un certo Friedmann, che aveva una discreta collezione. Nel 1942, alla sua morte, tutti i suoi averi furono messi all’asta e i proventi finirono nelle casse del governo nazista. La figlia Charlotte morì in un campo di sterminio nel 1943. Oggi a rivendicare il dipinto sono rimasti gli anziani pronipoti e i loro figli.
Ma come mai Hildebrand Gurlitt, pur avendo in parte sangue ebreo, possedeva così tante opere d’arte? Perché era uno specialista di avanguardie tedesche e quei capolavori, pur considerati dai nazisti “arte degenerata” senza alcun valore artistico, potevano essere venduti per contribuire al riarmo della Germania. Infatti nel luglio 1937 i nazisti avevano incaricato Gurlitt e altri famosi galleristi di organizzare una mostra a Berlino dal titolo “Arte degenerata”. La mostra fu visitata da oltre due milioni di persone e lo scopo, non dichiarato, era quello di vendere i dipinti all’estero per “fare cassa”. Gurlitt aveva clienti e potenziali compratori a Basilea e a New York. Ma se da un lato Gurlitt contribuì a salvare dalla distruzione capolavori delle avanguardie pittoriche tedesche, dall’altro fu uno dei mercanti e storici dell’arte incaricati di requisire e acquistare dipinti in tutta Europa per realizzare uno dei sogni di Hitler: un grande museo a Linz. Hildebrand Gurlitt continuò a far arrivare in Germania centinaia di opere d’arte fin quasi alla fine della guerra. L’ultimo dipinto, una “Madonna con bambino tra gli angeli”, di scuola italiana, giunse a Dresda il 6 settembre 1944. Naturalmente per ogni dipinto gli spettava una commissione del 5%.
NELLA NOTTE tra il 14 e il 15 febbraio 1945 gli Alleati rasero al suolo l’edificio che ospitava la collezione di Gurlitt a Dresda, questi riuscì a salvare molti dipinti che stipò in 25 casse che avventurosamente trasportò in Baviera e nascose in un castello che cadde nelle mani degli Alleati. Dopo la guerra Gurlitt fu messo agli arresti domiciliari. Si dichiarò sempre innocente e ribadì più volte con fermezza di non essere mai stato un simpatizzante nazista. Gli Alleati non si fidavano di lui, ma Gurlitt collaborò, restituì alcune opere d’arte e compilò un elenco di opere acquistate in Francia durante la guerra. Alla fine Gurlitt fu rimesso in libertà e gli furono riconsegnate gran parte delle opere d’arte in un primo tempo confiscate. La figlia di Gurlitt, Benita, storica dell’arte nata nel 1935 e morta l’anno scorso, nel 2002 scriveva a un collega di Amburgo: “Quando mio padre ha fatto affari con il Terzo Reich ha sempre cercato di usare la sua influenza per salvare molti capolavori dalla distruzione nascondendoli in luoghi sicuri”. La realtà è che Hildebrand Gurlitt condusse una doppia vita, come testimoniato dopo la guerra da numerosi suoi collaboratori tra cui l’ex segretaria. Proprio per questo appare quasi inverosimile la leggerezza con la quale gli americani decisero non solo di rimetterlo in libertà, ma di restituirgli quasi tutte le 1400 opere d’arte che non gli appartenevano. Alla sua morte il tesoro passò al figlio Cornelius, sedicente pittore che viveva tra Monaco e la Svizzera. E fu proprio durante un viaggio in treno da Zurigo a Monaco che, fermato alla dogana con 12.000 dollari in tasca, disse che aveva venduto un dipinto a un gallerista di Berna. Era una menzogna. Da lì è partita l’indagine che ha portato al ritrovamento del tesoro.

Corriere 14.11.13
Negare l’Olocausto, reato o libertà d’espressione?
Fiano (Pd): mi affido al giudizio di papà, sopravvissuto ad Auschwitz
di Paolo Conti


ROMA — «Personalmente rispondo con una facile quanto drammatica sintesi. Finché mio padre sarà vivo lascio a lui l’ultima parola sulla questione del negazionismo, e naturalmente mi auguro che continui a vivere a lungo. Ora, secondo lui, è necessario che le parole che negano l’Olocausto debbano essere sanzionate per legge. Dunque io mi affido alle sue parole...».
Emanuele Fiano, deputato del Pd ed ex presidente della Comunità ebraica milanese dal 1998 al 2001, rende omaggio a suo padre, scrittore nato nel 1925, ex deportato ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia sterminata nei campi di concentramento. Dunque tocca a lui, afferma Fiano, decidere al suo posto se la discussa legge sul negazionismo sia la strada migliore per evitare che razzismo e antisemitismo tornino a prosperare accompagnati da tesi, appunto, negazioniste o riduzioniste. La questione è tornata di straordinaria attualità non solo dopo lo stop del disegno di legge sul negazionismo, in discussione al Senato e già approvato in commissione Giustizia in sede referente ma poi bloccato, almeno per ora, nella sede deliberante dal «no» del Movimento 5 Stelle («la fretta è sospetta»). Ma soprattutto dopo l’assoluzione a Roma, da parte del giudice Maria Cristina Muccari, del professore Roberto Valvo (ora in pensione) ex insegnate di storia dell’arte al liceo di via Ripetta. Il giudice lo ha assolto dall’accusa di incitazione alla violenza e alla discriminazione razziale, come prevede la legge Mancino, «perché il fatto non sussiste». Il professore, si sa, avrebbe esternato nel 2008 le sue teorie sulla Shoah, come si legge nell’accusa, «propagandando idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale nei confronti degli ebrei» e avrebbe poi messo in discussione l’esistenza dell’Olocausto e dei campi di concentramento sostenendo che i filmati sulle deportazioni erano falsi e «fatti anni dopo». Avrebbe contestato il numero degli ebrei morti asserendo che i sei milioni erano «una stima errata». Ieri l’interessato, il professor Roberto Valvo, ha preferito il silenzio: «Non ho niente da aggiungere, proprio niente, davvero».
Dice ancora Fiano: «Sono reduce da un recente seminario dell’Unione Europea sul negazionismo. Ed è facile accorgersi, discutendo in ambito comunitario, quanto per esempio un paese come la Lituania abbia a cuore che i crimini sovietici compiuti contro i lituani non siano mai oggetti di negazionismo. Io comunque capisco il bisogno di discutere un importante argomento: dove sia il confine tra la libertà di espressione e il nuovo reato. E non so quale sia la formula migliore. Per adesso, come ripeto, mi affido al giudizio di mio padre nel nome della sua sofferenza e dei tanti nostri parenti morti bruciati ad Auschwitz».
Non tutti sono sulla stessa linea. Afferma per esempio Leone Paserman, presidente della Fondazione Museo della Shoah: «Non mi stupisco dell’assoluzione di questo signore. La famosa legge Mancino è di fatto inapplicabile e non ha mai portato a serie condanne. Temo fortemente che la stessa cosa potrebbe accadere con una eventuale legge sul negazionismo. La situazione non cambierebbe e si resterebbe sempre a dibattere sui confini tra libertà di espressione o di ricerca storica e una negazione che davvero istighi a un reato, come l’antisemitismo o l’odio razziale. Sentimenti che ora dilagano sulla Rete in forme allarmanti». Come reagire, presidente Paserman? «Difficile dirlo. So però che le nuove generazioni vanno educate attraverso il racconto e la testimonianza. Uno strumento come il museo della Shoah sarebbe utilissimo. Ma dal 2005 a oggi siamo solo alla valutazione dell’offerta. Ci vorrebbe, come si dice, la volontà politica».
Infine Emilio Gentile, storico del fascismo (è appena uscita la nuova edizione del suo Né Stato né Nazione. Italiani senza meta , Laterza): «Più che un negazionista, questo professore è un riduzionista. Ma mi chiedo: in quella scuola, dov’era il professore di storia? È intervenuto per discutere quelle tesi? Comunque penso che sia anche il frutto della progressiva “defascistizzazione”, cioè della continua riduzione del fascismo ad alcuni “gruppi” e ad alcuni “momenti” sottraendo così al fascismo il suo peso storico complessivo: infatti c’è anche il tentativo di sminuire la gravità dell’applicazione delle leggi razziali. Certi negazionismi prosperano, io dico, grazie anche a un clima come questo...»

Corriere 14.11.13
Tutti alla scuola delle illusioni
Armando Torno rivaluta le diverse forme di autoinganno
di Cristina Taglietti


Per parlare di questo nuovo libro di Armando Torno (non un trattato filosofico ma «degli appunti di un viaggiatore in fuga») è bene partire dalla conclusione. E la conclusione è semplice, ma non semplicistica: «È bello illudersi. Fa bene. Aiuta e migliora la vita, anzi consente a essa di non trasformarsi in una meccanica ripetizione di giorni». D’altronde la tesi di Elogio delle illusioni (Bompiani, pp. 128, e 10) è tutta contenuta nel titolo di questo trattatello ironico, la cui lievità non è scalfita da qualche punta di cinismo a cui l’autore consapevolmente indulge, divertendosi a far intravedere gli abissi di profondità che potrebbero inghiottire il lettore tra le righe di aneddoti, citazioni e ossessioni bibliografiche.
Mentre il precedente libello di Torno, Elogio dell’egoismo , poteva essere letto anche come una sorta di manuale pratico di sopravvivenza quotidiana con consigli per non soccombere a inutili sensi di colpa, qui Torno sembra arrendersi all’evidenza, e forse all’esperienza. L’unica difesa che si può inalberare man mano che gli anni passano e si ha sempre più bisogno di aumentare le dosi di verità è «illudersi con maggior coscienza». Una convinzione a cui Torno è arrivato come una conquista, essendoci stato un tempo in cui pensava, come molti di noi, che le illusioni dovessero essere indicate sul libro della vita con il segno meno.
Lo svolgimento di Torno non ha pretese scientifiche ma l’approccio è sistematico, così i capitoli inanellano tutti gli ambiti in cui l’animo umano cede all’illusione. Ne esce un catalogo variegato dove, attraverso la guida di Eraclito, Sant’Agostino, Montaigne, Leopardi, Anatole France e molti altri pensatori del colto e mai pedante repertorio di Torno, si parla di anima, solitudine, violenza, progresso, Storia, ma anche di tendenze, comportamenti, pubblicità, moda. Così quel momento storico, «a cavallo tra lo scorso e il presente millennio, in cui tutte le ragazze cominciarono a mostrarsi con abiti che lasciavano intravedere l’ombelico», viene letto con la lente deformante dell’illusione, quella «di essere perfettamente calati nel tempo».
Il fatto è, spiega Torno, che senza illusioni «non ci sarebbe la filosofia, le religioni perderebbero gran parte del loro immaginario, gli sportivi sarebbero disoccupati, chi desiderasse tentare un’impresa non comincerebbe nemmeno e soprattutto non ci sarebbe l’amore». E non può che essere quest’ultimo l’ambito da cui partire, volendo parlare di un tema così vasto. Torno non si sottrae, specificando però che l’amore non è soltanto quello della carne (benché sia forse il più interessante, concede), ma ci sono anche i cosiddetti «amori civili». Tra questi colloca la bibliofilia, che definisce una vera e propria forma patologica (di cui lui stesso soffre) e che, in sostanza, come gli altri amori civili, è un surrogato dell’amore dei sensi, il luogo in cui l’illusione si esprime al massimo grado, però con un fine utile: la perpetuazione della specie. Le illusioni d’amore le comprendiamo tutti benissimo durante o dopo, ma, dice Torno, la natura matrigna ci impedisce di vederle in anticipo.
E che dire della cultura e dell’illusione che essa porti con sé, bontà, fratellanza e felicità? L’equazione platonica bello è uguale a vero ed è uguale a bene è, per Torno, un esercizio mentale più che una verità. La politica, poi, è un’eterna alleata dell’illusione, se è vero, come fece capire Saint-Just durante la Rivoluzione francese, che «non è possibile regnare senza colpa». Difficile contraddire Torno quando elenca tutto l’armamentario illusorio della politica: «Si promette ma non si mantiene, si fa sperare ma non si esita a togliere, si dichiarano guerre per avviare periodi di felicità e benessere ma prima si provocano morti e si chiedono sacrifici, si tentano riforme economiche per garantire una sicurezza futura ma tutte cominciano con colpi di cinghia da infliggere al presente». Il santo protettore di tutti i politici, dice Torno, continua ad essere il Conte Zio di Alessandro Manzoni che ogni tanto, per amalgamare bugie e illusioni, si concede il lusso di dire la verità. D’altronde Demostene nella sua Terza Olintiaca osserva che «nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera crede che anche sia vero». Rientra nel catalogo delle illusioni politiche la Storia, con quel migliaio di trattati di pace registrati da quando, cinquemila anni fa, Narmer unificò l’Egitto, ma le illusioni più grandi sono quelle che fabbrichiamo con noi stessi. E questo è, dice Torno, il lavoro dell’anima, anche se c’è stato chi, come lo scrittore francese Marcel Arland, ha sostenuto che «il corpo è uno dei nomi dell’anima, e non il più indecente».
Nel capitolo dedicato alla religione l’illusione ha cittadinanza sia tra i credenti che tra gli atei. Voltaire ha lasciato una battuta divenuta celebre: «Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo», a cui i comunardi nel 1870 risposero: «Se Dio esistesse, bisognerebbe fucilarlo», ma, come dimostra bene Torno, è forse tra i filosofi che l’illusione presta al meglio i suoi servigi.
Non mancano le declinazioni contemporanee dell’illusione che riguardano Internet e i social network (che Torno non pratica, preferendo dedicarsi alle letture che gli mancano): l’illusione si trova più che mai a suo agio in una società in cui regna il virtuale, e questo riguarda le relazioni, ma anche i libri (l’illusione di una biblioteca infinita).
Torno sonda anche i confini dell’illusione, che sono la menzogna (Nietzsche la pone come misura quando si chiede quanta verità possa sopportare un uomo) e l’errore (secondo Kant, a differenza dell’errore, l’illusione non scompare quando viene riconosciuta come tale). Ma, come ha scritto Edgar Watson Howe in Detti di una città di provincia : «Non c’è nulla di tanto noto quanto il fatto che non dobbiamo aspettarci qualcosa in cambio di niente: eppure tutti lo facciamo, e lo chiamiamo Speranza». Ma questo è un altro libro.

Repubblica 14.11.13
Abbiate paura
Perché temiamo più di vivere che di morire
Nel suo nuovo libro Marc Augé cerca le cause e i possibili rimedi di un malessere ormai generalizzato
di Marc Augé


«Non abbiate paura!» dichiarò solennemente Giovanni Paolo II nel 1978 mentre saliva al soglio pontificio. E invitava l’umanità ad aprire «i confini degli Stati, i sistemi economici e quelli politici, gli immensi campi della cultura, della civiltà e dello sviluppo». Trent’anni più tardi, Romano Prodi, sul quotidiano La Croix, definirà «profetiche» queste parole, sottolineando come esse si rivolgano a un Occidente sempre più in preda alla paura. L’aggettivo «profetico», utilizzato retrospettivamente, si applica più all’appello in sé che non al contenuto del messaggio. Poiché, se l’apertura annunciata o auspicata da Giovanni Paolo II è effettiva in ambito economico, e vi sancisce il trionfo del capitalismo finanziario più egemone, oggi servirebbe davvero molto ottimismo per scovare nel mondo i segni certi di una nuova primavera, magari araba. Più che mai, il mondo ha paura.
Il cambiamento di scala che riguarda la vita umana su tutto il pianeta è fondamentalmente economico e tecnologico: le innovazioni tecnologiche creano nuovi beni di consumo che, a loro volta, ricreano la domanda ed esigono nuove forme di organizzazione del lavoro. Il capitalismo è riuscito a creare un mercato che ha la stessa estensione della Terra. Le grandi aziende sfuggono alla logica dell’interesse nazionale. La logica finanziaria impone agli Stati le sue regole. E, all’improvviso, questo dominio è diventato così evidente da essere inappellabile, salvo i clamori delle manifestazioni di protesta che lo accompagnano senza produrre il minimo cambiamento. La lotta di classe c’è stata, ma la classe operaia l’ha persa. L’Internazionale trionfa, ma è capitalistica.
Al giorno d’oggi i vecchi sono piuttosto chiacchieroni, ed è Stéphane Hessel, nel 2010, a far eco al papa scomparso: «Indignatevi!». Questo secondo appello suona al contempo come una giustificazione del primo (l’indignazione è una forma sublimata di paura) e come la constatazione della sua sconfitta, visto che Stéphane Hessel denuncia sia il trattamento a cui sono sottoposti gli immigrati sia la dittatura dei mercati finanziari, l’aumento delle disuguaglianze e, in generale, gli aspetti perversi della globalizzazione capitalistica.
Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte? Se diamo un’occhiata alle notizie quotidiane, caratterizzate dall’incremento di violenze di ogni sorta, ricaviamo proprio questa impressione. Ma questa constatazione generale non deve spingerci a ignorare la diversità delle situazioni. A seconda delle regioni del mondo e dei regimi politici, a seconda dell’appartenenza etnica o sociale, dell’appartenenza a un sesso o a un altro, le ragioni per avere paura sono diverse, la morte è più o meno presente e la vita più o meno intollerabile. Ci sono paure da ricchi e paure da poveri, e queste rispettive paure incutono paura le une alle altre: paure delle paure, paure al quadrato in un certo senso. Gli occidentali non sfidano il mare su fragili imbarcazioni per fuggire dal loro continente mettendo a rischio la vita. Si accontentano di portare soccorso a qualche naufrago e di piangere i morti; per di più, i sopravvissuti occupano il loro spazio, sagome fantasmatiche venute da lontano e dicui non sanno come liberarsi.
Resta il fatto che un rapido inventario delle nuove paure umane ci obbliga a registrare l’incremento di forme di violenza relativamente inedite, ancor più significative per il fatto che ne sono esposti anche i paesi più ricchi dell’Occidente. Queste violenze possono essere distinte in tre categorie, a loro volta composite: le violenze economiche e sociali, specialmente nell’ambito dell’impresa, le violenze politiche (razzismo e terrorismo inclusi), e infine le violenze tecnologiche e quelle naturali, le seconde spesso scatenate o amplificate dalle prime. Queste tre forme di violenza generano paure specifiche: lo stress, il panico o l’angoscia, ma le paure, come le violenze, si sommano le une alle altre, si combinano e si influenzano l’un l’altra, a maggior ragione in un’epoca di diffusione accelerata di immagini e messaggi al pianeta intero. Nel complesso, si manifestano per l’ossessione dell’altro, confondendo ogni categoria di alterità, e per il timore del futuro. Ma questa ossessione e questo timore hanno molteplici componenti. Il mondo contemporaneo ci mette dunque di fronte a un vero e proprio groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio. [...] «Abbiate paura!», è stato questo l’avvertimento lanciato e reiterato da Bin Laden. Siamo ben lontani dall’aver dimenticato gli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno segnato simbolicamente la nostra entrata nel nuovo secolo. Non erano certo i primi della lunga lista di atti terroristici che, specialmente in Francia, nel corso degli ultimi trent’anni del Ventesimo secolo avevano creato un clima di insicurezza molto ansiogena. E non hanno neppure chiuso la listadegli attentati suicidi che si perpetuano un po’ dappertutto sul pianeta. Ma se c’è un prima e un dopo l’11 settembre, così come c’è stato un prima e un dopo Hiroshima, non è soltanto perché questi attentati hanno rappresentato in modo spettacolare, per il numero e l’origine delle vittime (2.973 morti appartenenti a 93 paesi diversi), per la scelta degli obiettivi (il Pentagono, il World Trade Center) e dei mezzi (quattro aerei dirottati, 19 pirati sacrificati), un condensato delle follie e dei furori che minacciano il mondo, una sorta di globalizzazione del terrore; è anche perché hanno scatenato una forma di schizofrenia collettiva di cui non ci libereremo più.
È un double bind, un doppio vincolo, se si vuole, o meglio una doppia paura. Da un lato, nessuno avrebbe tollerato l’idea di rivedere un giorno delle immagini come quelle trasmesse e ritrasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Dall’altro, era difficile aderire senza riserve alla «guerra contro il terrore» decisa da George W. Bush contro l’Iraq, che,oltre al fatto che pareva aver sbagliato bersaglio, ufficializzava l’esistenza di una sorta di larvato conflitto mondiale di cui non erano perfettamente chiare né le ragioni né la posta in gioco. Non ne siamo ancora usciti e ci troviamo sempre di fronte a scenari tanto più sconcertanti quanto più i loro protagonisti cambiano volto e ruolo da un episodio all’altro: il fedele alleato della vigilia diventa l’insopportabile dittatore del giorno dopo, e i terroristi di ieri gli alleati responsabili di oggi.
Così come la mania di persecuzione colpisce generalmente quegli individui che hanno qualche buon motivo per sentirsi perseguitati, le paure che da qualche tempo ci incalzano hanno fondamenti oggettivi, e ciò le rende ancora più temibili: rischiano di essere cattive consigliere e possiamo paventare tanto le loro conseguenze quanto i fatti che le hanno scatenate. Il concatenamento delle paure è l’arma totale di ogni Terrore.
© 2013 Editions Payot & Rivages e 2013 Bollati Boringhieri Editore. Traduzione di Chiara Tartarini
IL LIBRO Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi? di Marc Augé (Bollati Boringhieri, pagg. 80, euro 9)

Repubblica 14.11.13
Cronache d’Italia di fronte all’abisso
Il libro di Marco Imarisio sui fatti degli ultimi vent’anni
di Enrico Bellavia


Di fronte ai fatti, argomenti testardi, l’arbitrio sta nel punto di vista, risiede nella possibilità di scegliersi l’angolo visuale per raccontarli. Un dettaglio, un’immagine, un suono, sono le prospettive per affacciarsi alla finestra e guardare a un Paese fragile e violento, cialtrone e generoso. Contraddittorio e coerente a suo modo. Capace di riproporre l’orrore sempre uguale e sempre diverso. Perché diverse sono le maschere umane che lo indossano o lo subiscono. Di questi racconti quotidiani come sono gli articoli di un giornale, è intessuta la trama diItalia, ventunesimo secolo, un’antologia dei “pezzi” che Marco Imarisio, inviato del Corriere della Sera ha pubblicato negli ultimi 15 anni. Andando nei borghi e nelle città che si sgretolano, quando la terra tre-ma o viene inghiottita dalla piena che viene giù dalla montagna di Giampilieri o allaga Genova.
Dalla finestra di Imarisio si vede il mondo dei ghetti, dove ci si spara sulle scale di un asilo o si muore in un laboratorio di sartoria nel ventre di un palazzo sbilenco. O ci si aggrappa alla paura del diverso per non guardare al mostro che si ha dentro. Ci sono i cinesi che «non muoiono mai» e gli italiani che mangiano accanto al bugliolo in celle «cucina e latrina» che a svuotarle sì che occorrerebbe un gesto umanitario. Quelli pagati a metro di muri tirati su, che avvitano bulloni per una vita intera, che nei cantieri e nelle fabbriche ci muoiono. Ci sono i fanatici che covano odio nella pancia dell’Occidente, pronti a seminare morte e terrore nell’impeto da kamikaze per riscattare esistenze che a condurle occorre un infinito coraggio.
Negli «anni dell’abisso», il nostro, Imarisio ha viaggiato in lungo e in largo per l’Italia. Si è fermato all’autogrill Cantagallo: «Un posto ordinato per vite normali, quindi quasi mai ordinate ». Si è mischiato tra la folla di Pontida e quella dei grillini dove «non c’era posto per uno spillo e per il dubbio». A Novi Ligure è andato a scegliersi il punto di vista di Francesco Di Nardo, il papà di Erika che si è tenuto stretto quella figlia che in un giorno di follia, insieme con il fidanzatino Omar, le portò via tutto ma è anche «tutto quello che gli rimane».
Del massacro della Diaz c’è il prima: il silenzio della zona rossa, la città «che non è più padrona di se stessa» e la stupidità dei black bloc e le loro «finte guerre ». E c’è il dopo: «Una manata di sangue che sta colando sul registro di classe della II B» in quella che era una scuola e divenne un mattatoio. C’è il «ragazzo con la trave» che ha smaltito la furia dei giorni della rivolta del G8 ma non la rabbia sorda per un Paese che gioca alla lotteria dei destini di intere generazioni truccando l’estrazione. C’è Mario Placanica, il carabiniere che sparò in piazza Alimonda e se ne sta rintanato al Sud, smarrito e impaurito quando su Carlo Giuliani è appena iniziato lo scempio della retorica.
Con la voglia di raccontarlo questo mondo che non ha mai una sola faccia, che non è mai bianco o nero, Imarisio va a cercarsi il dettaglio che illumina, lo sprazzo di luce in mezzo ai titoli che si ripetono nel rullo delle notizie che si ripropongono. C’è Cogne senza plastici, ci sono i dubbi e una infinita pietas per le miserie di tutti: vittime e carnefici: l’ultimo nazista, l’ultimo (ultimo?) brigatista, Marcello Dell’Utri e il suo doppio, un umanissimo Marco Pantani.
IL LIBRO Italia, ventunesimo secolodi Marco Imarisio (il Saggiatore pagg. 423 euro 17)

Repubblica 14.11.13
Se il papa dà lezione di morale laica
Le parole di Francesco contro chi non paga le tasse mettono in discussione una
tradizione di tolleranza della Chiesa verso chi dimostra scarse virtù civiche
di Adriano Prosperi


Una volta i papi definivano dottrine e fissavano norme e orientamenti morali in documenti scritti accuratamente elaborati: bolle (in latino), costituzioni, lettere pastorali. Papa Francesco lo fa in conversazioni, telefonate, consigli personali, prediche. La predica della Messa è un genere letterario che il Concilio di Trento affidò al compito del buon parroco. Dunque è parlando come un buon parroco che papa Francesco, durante la Messa del giorno di San Martino, ha definito uno scandalo rubare allo Stato per dare alla Chiesa. Ma papa Francesco non è un parroco, è il vescovo di Roma, il capo della Chiesa cattolica e la sua opinione conta qualcosa nella vita e nel funzionamento di una grande religione mondiale che è anche parte fondamentale della storia e della società italiana.
Questa opinione, poi, tocca un punto antico e nodale del rapporto tra l’essere cristiano e l’essere cittadino. Un punto dolente: che cosa accade quando il cattolico va a confessare le sue colpe? Se lo sono chiesti in tanti. Non c’è inchiesta sulla confessione che non si sia domandata se nel segreto del confessionale si parli anche di evasione fiscale e quale sia la risposta del confessore. Da oggi sappiamo che cosa ne pensa il papa: chi froda il fisco, chi evade le tasse e crede di salvarsi l’anima perché dona generosamente alla Chiesa è il sepolcro imbiancato di cui parla Cristo nel Vangelo; peggio, è colui contro il quale Gesù ha pronunziato l’unica condanna senza appello che si legga nei Vangeli, quella contro i colpevoli di scandali. La cosa è degna di attenzione specialmente in Italia. Non pagare le tasse è un diritto, ha detto non molti anni fa un noto imprenditore e speculatore finanziario diventato presidente del Consiglio. E con questo ha raccolto consensi elettorali e benedizioni di una dirigenza ecclesiastica grata per i soldi che dall’evasione fiscale e dai trattamenti di favore affluivano nella sua banca centrale. Ma l’importanza della omelia di papa Francesco va molto al di là della cronaca italiana. Vale la pena di ripercorrerla.
Il discorso di papa Francesco è stato fatto nel giorno di San Martino, il popolarissimo santo francese la cui leggenda rapì il cuore del cristianesimo medievale. Non per niente il suo nome e la sua immagine hanno superato i confini delle culture nazionali e si sono iscritte sulle facciate delle cattedrali. È là che si trova eternato nel marmo il gesto del cavaliere che divide con la spada il suo mantello e ne dà la metà al povero inchinato davanti a lui: parabola del rapporto tra poveri e ricchi dove la carità evangelica suggerisce e anticipa l’ideologia rivoluzionaria che vuole una divisione egualitaria dei beni del mondo tra gli esseri umani. Un’ideologia mai così impopolare come in questi tempi. Ebbene, proprio nella breve estate di San Martino, all’inizio di un inverno che si annuncia durissimo per i poveri, papa Francesco ha pronunziato un’omelia assai singolare. Seguendo il testo del Vangelo secondo Luca, (17, 1-4), il papa ha cominciato richiamando il dovere del cristiano di perdonare. Un tema antico, così tradizionale nel cristianesimo da apparire scontato. Ma accanto al perdono questa volta c’è stata una condanna durissima, senza appello, contro i cristiani dalla doppia vita, quelli che con una mano rubano allo Stato e con l’altra danno alla Chiesa. Chi pensa di essere così un benemerito della Chiesa deve sapere – ha detto il papa – che è un sepolcro imbiancato. È una doppiezza di vita che merita «che gli mettano una pietra al collo una macina da mulino e sia gettato in mare» . La torsione del passo evangelico è deliberata e rivela la drammaticità e l’intensità con cui papa Francesco sente il problema della corruzione generale: «cristiani corrotti, preti corrotti». Primo dovere è «pagare le tasse allo Stato e la giusta mercede ai loro dipendenti». Chi non lo fa ruba: «allo Stato, ai poveri». Si noti l’associazione dei due termini, del tutto insolita in una Chiesa che si è sempre considerata unica detentrice del tesoro dei poveri.
Con queste parole di papa Francesco sembra cadere in disuso l’antica e accanita guerra condotta dalla Chiesa contro lo Stato, quella che consentiva ai confessori di sciogliere i fedeli dall’osservanza delle leggi, malgrado il precetto evangelico che recita «Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è Dio». Fin dalle origini medievali degli stati europei potere politico e potere ecclesiastico si sono scontrati sul fronte del fisco. Assolvere in confessione gli evasori fiscali e tran- i loro scrupoli è stata una pratica generalizzata che ha conosciuto solo rari dissensi nella teologia morale. Per secoli l’assoluzione sacramentale ha aperto la via del Paradiso agli evasori fiscali e agli affaristi senza scrupoli: unica condizione, un superficiale pentimento e soprattutto generosi lasciti e donazioni alla Chiesa. Secondo il dotto canonista spagnolo del ’500 Martin de Azpilcueta, si poteva mentire e frodare il fisco senza commettere peccato, contando sul perdono in confessione e sulla cancellazione di ogni censura. Eppure c’era stata all’inizio e sopravvisse a lungo un’idea molto alta del dovere di pagare le tasse. La cultura giuridica medievale sostenne che accanto alla sacralità e intangibilità dei beni di Cristo gestiti dalla Chiesa per soccorrere i poveri, c’era quella dei beni dello stato. Come ha raccontato il grande storico Ernst H. Kantorowicz, nei pareri dei giuristi Cristo faceva rima con Fisco: il “santissimo” Fisco. Santo perché i beni del fisco erano i mezzi per garantire gli obblighi primari dello stato: la sicurezza e il benessere del popolo.
Oggi nel paese cattolico per eccellenza che è la nostra Italia la morale pubblica, quella che si chiama talvolta l’etica civile per distinguerla dalla morale religiosa, soffre di un vizio incallito: il rifiuto del valore fondante del rispetto delle leggi, in particolare di quelle che riguardano il dovere di pagare le tasse mettendo in condizione lo stato di tutelare i meno garantiti. È una malattia che mina religione e stato. Machiavelli ha scritto qualcosa a questo proposito. Da noi solo quello della Chiesa è considerato un tesoro dei poveri; e nemmeno gli abusi finanziari della banca vaticana hanno scosso questa convinzione. C’è di più: sulle basi di una dottrina ribadita dal papato e dal clero della Controriforma si è avuto in Italia un conflitto feroce tra il papa come re detronizzato e lo stato liberale. Dal 1870 fino al 1929 e oltre le parrocchie hanno diffuso in Italia un’idea di fedeltà alla Chiesa nutrita di disprezzo e di rifiuto per lo Stato. Né valse a cambiare le cose la Conciliazione del 1929, con l’annessa montagna di soldi finita nelle casse del Vaticano (e da allora materia di scandali infiniti, quelli a cui pensava probabilmente papa Francesco con la sua dura condanna). Oggi la musica è cambiata: forse si avvicina il giorno in cui vedremo i confessori negare il perdono a chi non paga le tasse. E non sarebbe male se anche lo Stato cominciasse a fare la sua parte: per esempio, abolendo almeno l’esenzione fiscale che ancor oggi premia tutte le proprietà immobiliari dove in nome di Cristo e della Chiesa si gestiscono alberghi, scuole, università, ospedali. Ne guadagnerebbe la salute della morale pubblica.

Repubblica 14.11.13
Le tappe
Perché il pontefice e il Vangelo condannano la “mondanità”
Quello scandalo della doppia vita
Resta vero che acconsentire al male conduce poco alla volta a pensare in modo conforme a come si agisce
di Enzo Bianchi

Priore della comunità di Bose

Cos’è il peccato? Cos’è lo scandalo? C’è sempre perdono da parte di Dio? A queste domande ha cercato di rispondere Gesù, e papa Francesco commentando il Vangelo ne attualizza le parole, applicando il pensiero di Gesù alle situazioni odierne nella chiesa e nella società. Tutti ormai hanno compreso che per papa Francesco è urgente la predicazione della misericordia di Dio, del suo amore che non ha mai bisogno di essere meritato, del perdono rinnovato all’infinito – settanta volte sette! – al peccatore.
Ma il papa ricorda questa verità con dei distinguo precisi, ricorrenti nella sua parola. Il peccato è caduta, fallimento dell’uomo che sceglie non il bene che vuole ma il male che non vorrebbe fare, come ricorda l’Apostolo Paolo: male contro l’altro, contro gli esseri umani e tutte le creature di questo mondo, male che contraddice la volontà di Dio il quale chiede tra noi uomini amore reciproco, comunione, pienezza di vita… In questo senso la Scrittura ci ricorda che “il giusto peccasette volte al giorno”: siamo tutti peccatori o, secondo un altro termine usato da Gesù, siamo tutti “cattivi”.
È difficile riconoscere questo nostro acconsentire al male che non appartiene solo alla nostra fragilità, ma dipende dalla nostra volontà, dalle nostre scelte, dunque dalla nostra responsabilità. I padri monastici insistevano nel ripetere che “riconoscere i propri peccati è miracolo più grande del risuscitare i morti!”. Allora, al cristiano compete una lotta senza tregua contro le pulsioni che non rispettano la dignità degli altri, che spingono a vivere senza gli altri o addirittura contro di loro, che chiedono accaparramento di denaro e di beni senza regole e senza giustizia. Sì, al cristiano è chiesto di combattere e di tentare sempre di dominare queste pulsioni e, quando non ci si riesce, di riconoscere il proprio peccato.
Resta tuttavia vero che acconsentire al male, non operando secondo quel che si pensa con una retta coscienza, conduce poco per volta anche a pensare conformemente a come si agisce. Da qui la possibilità della doppia vita: si appare buoni ma in realtà si è addirittura corrotti, si ruba agli altri non pagando le tasse, non contribuendo al bene comune e poi si fanno doni alla chiesa. Nel vangelo c’è una parola di Gesù estremamente chiara: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». In obbedienza alla volontà del suo Signore, il cristiano riconosce lo stato, anzi è leale verso di esso e per questo deve pagare le tasse, dando allo stato ciò che gli compete affinché sia possibile la polis; nello stesso tempo, dà a Dio la sua adorazione, il culto secondo il Logos, offrendogli tutta la sua vita. E se è vero che il cristiano può fare obiezione di coscienza di fronte a qualsiasi autorità politica o ecclesiale, se queste gli comandano ciò che è male per la sua coscienza e per il Vangelo che la ispira, tuttavia sempre il cristiano prega per le autorità, riconosce l’autorità legittima e mostra la sua appartenenza alla società pagando le tasse puntualmente, nella convinzione di partecipare così al bene comune. Le tasse sono un debito e i debiti vanno onorati.
Per quanti invece agiscono con una doppia vita – finendo per dare a Dio ciò che spetta a Cesare! – la conversione è difficile, perché il loro peccato è nascosto, camuffato: esibiscono addirittura l’immagine del benefattore, ricevendo la stima e il consenso della gente. Se poi costoro sono uomini di chiesa, con una funzione in essa che li costituisce suoi rappresentanti, nasce lo scandalo… Gesù ha detto che è necessario che avvengano scandali in modo che il peccato sia manifesto e il peccatore provi vergogna e senta il bisogno di pentirsi.
Ora, in tutte le culture si sono sempre denunciati tre interdetti assoluti: l’omicidio, attentato alla dignità dell’altro; l’incesto, tentativo di possesso dell’altro; la menzogna, negazione della possibilità di vivere insieme e dunque della società, unica possibilità di umanizzazione. L’ipocrisia, la corruzione nascosta è intrisa di questa menzogna e crea una condizione di intoccabilità rendendo certe persone venerate e applaudite, soprattutto oggi, in una cultura dello spettacolare, dell’apparire in cui non si è più esercitati a vedere in profondità, ma si resta affascinati dal luccichio della vernice e non si scorge la putredine sottostante.
Le parole del papa in merito sono dure, contengono un giudizio per chi “fa finta di essere cristiano e ha una doppia vita”: costui compie il male, anche se appare come benefattore della chiesa perché dona beni e denaro rubato ai poveri o allo stato, cioè alla società. La voce del papa riprende gli ammonimenti durissimi dei padri della chiesa: «Ascoltate, voi tutti che pensate di fare del bene con denaro e ricchezze frutto di ingiustizia e di frode: Cristo non vuole essere nutrito con il frutto dell’ingiustizia», proclamava Giovanni Crisostomo; e Gregorio di Nissa gli faceva eco: «Non dare a un povero del pane impastato con i singhiozzi dei lavoratori da te sfruttati!».
Papa Francesco predica sì la misericordia, ma non persegue alcuna eresia “bonaria”: annuncia la grazia caro prezzo, le esigenze radicali del vangelo. Certo, non è tentato dall’intransigenza contro la società e il mondo attuale, perché sa che Dio ama questo mondo-umanità tanto quanto condanna il mondo come assetto di potere, ingiustizia, falsità. È questo che Francesco chiama mondanità; è questa mondanità che Gesù ha condannato con forza e per la quale ha chiesto di non pregare.

Repubblica 14.11.13
Cesare e Dio
di Hans Küng


Che cosa dire della “purificazione del tempio”? Le fonti riferiscono di una cacciata di mercanti e cambiavalute: contro il mercato e i connessi guadagni dei gerarchi e dei profittatori, in favore della santità del luogo. È possibile che questo gesto fosse associato a una distruzione del tempio. Una tale provocazione religiosa doveva indubbiamente indignare in maniera violenta la gerarchia clericale e forse anche quelle cerchie della popolazione urbana economicamente interessate all’afflusso di pellegrini e al sempre maggiore sfruttamento del tempio. Ma ha forse Gesù incitato al boicottaggio delle tasse? No, certamente. «Date a Cesare quel che è di Cesare» suona la sua risposta, che non è un invito a non pagare le tasse. Naturalmente essa dice anche «non date a Cesare quel che è di Dio». Come la moneta appartiene all’imperatore, cosìl’uomo appartiene a Dio.