venerdì 15 novembre 2013

il Fatto 15.11.13
Omaggi e amarezze
Napolitano s’inchina al papa
Francesco ricevuto al Quirinale tra riconoscimenti e confessioni del Capo dello Stato
Due ore di visita, Quaranta minuti a quattr’occhi
di Marco Politi


Città del Vaticano Papa Francesco arriva al Quirinale e il presidente si confessa. È una visita singolare e segna una pagina completamente nuova nel modo di rapportarsi tra i due sovrani, che convivono nella città Roma. Il pontefice archivia i “principi non negoziabili”, chiodo fisso del suo predecessore, e si presenta col desiderio di “bussare idealmente alla porta di ogni abitante l’Italia”. Compito primario della Chiesa, annuncia, è “testimoniare la misericordia di Dio” e generare solidarietà per dar speranza al futuro.
GIORGIO NAPOLITANO, rappresentante di un Paese in ginocchio quanto a diffusione di valori, non può fare altro che rendere ripetutamente “omaggio” (due volte impiega la parola) alla personalità del nuovo papa. E non potendo presentare un’Italia, che abbia qualcosa da dire, si abbandona a uno sfogo, quasi una confessione. Ammette di essere immerso in una “faticosa quotidianità… stravolta da esasperazioni di parte in un clima avvelenato e destabilizzante”. Lamenta una politica marcata dalla drammatica necessità di “liberarsi dalla piaga della corruzione e dai più meschini particolarismi”.
Il clima tra i due è cordialissimo. Chiacchierano e conversano praticamente per due ore. A quattr’occhi restano a colloquio per circa 40 minuti, mentre le delegazioni ufficiali – Letta, Alfano, Bonino da una parte, mons. Sostituto Becciu e i cardinali Bagnasco e Vallini dall’altra – si incontrano in un’altra sala. Tra le due parti non ci sono contenziosi, sia Bergoglio che Napolitano si compiacciono dell’esistenza del concordato. Francesco mette in luce questioni di comune preoccupazione: la crisi economica, la ferita dell’ “insufficiente disponibilità di lavoro”, il sostegno alla famiglia. Temi su cui la Cei è particolarmente impegnata. Colpisce nelle parole di Francesco, che invita a “valorizzare e tutelare” la famiglia, l’assenza di qualsiasi accenno a “minacce” contro l’istituto familiare, qualsiasi deprecazione di forze oscure nella società moderna che vorrebbero disgregarlo: le geremiadi tipiche delle passate stagioni ecclesiastiche di colpo sono svanite.
COLPISCE ANCHE che Francesco non invochi ossessivamente le radici cristiane, mentre augura all’Italia di riprendere slancio con creatività e concordia, basandosi sul suo “ricco patrimonio di valori civili e spirituali”. Certo che l’eredità cristiana segna l’Italia, ma non c’è bisogno – sembra far capire – di ricordarlo in tono ammonitorio.
Il presidente si lascia andare al-l’elogio del nuovo corso bergogliano, in cui tutti avvertono l’“assenza di ogni dogmatismo, la presa di distanza da ‘posizioni non sfiorate da un margine di incertezza’, il richiamo a quel ‘lasciare spazio al dubbio’ proprio delle grandi guide del popolo di Dio”. (Certo, veniva da osservare, sarebbe stato bello se in altre rigide stagioni il capo dello Stato avesse espresso l’elogio del dubbio anti-dogmatico ai suoi interlocutori ecclesiastici).
Appaiono stanchi il pontefice e il presidente. Napolitano evidentemente sfibrato da una situazione in cui non vede quella lungimiranza e quella capacitò di dialogo che descrive nel suo interlocutore. Bergoglio con profonde occhiaie, dovute a 8 mesi di lavoro continuo, senza vacanze, e di tensioni padroneggiate con l’attivismo.
Al Quirinale Francesco è arrivato nella solita Ford Focus nera senza scorta di corazzieri a cavallo e nel cortile d’onore osservava con rispettosa estraneità lo schieramento di armati, riservato ai capi di stato. Non portava il mantello porpora come Wojtyla nelle sue prime visite né la mantellina rossa con stola com’era abituato Benedetto XVI. Indossava solo la tonaca bianca e già gli dava fastidio la grande fascia con le frange d’oro. A sua agio è stato pienamente solo con i bambini e le famiglie dei dipendenti, salutate dopo i colloqui ufficiali. Perché gli piacciono le persone in carne e ossa e non le cerimonie.

Repubblica 15.11.13
Da Scalfari a Muti, il faccia a faccia con i sei saggi


ROMA — Non si erano ancora spenti gli applausi nella sala di rappresentanza dove il pontefice aveva appena rivolto un saluto a dipendenti e familiari del Quirinale, che un compunto commesso del palazzo guidava a sorpresa un piccolo gruppo di ospiti in una stanza a parte. È la Sala delle vetrate. Con il capo dello Stato italiano, Giorgio Napolitano, e la moglie Clio, ci sono il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, il premio Nobel per la fisica, Carlo Rubbia, la figlia di Alcide De Gasperi, Maria Romana, il senatore Mario Monti, il direttore d’orchestra Riccardo Muti, ed Elena Cattaneo, esperta di staminali e senatore a vita.
Dalla Sala arriva Francesco. Napolitano fa gli onori di casa presentando gli ospiti uno per uno. Il Papa si ferma a parlare con Scalfari rivedendolo dopo l’intervista di un mese fa. È un incontro sentito: «Sono contento di vederla qui», esclama Jorge Mario Bergoglio, che scambia a lungo qualche battuta con il fondatore di Repubblica.
Ieri, per la prima volta, ad ascoltare in platea al Quirinale gli interventi del capo della Chiesa cattolica e del capo dello Stato italiano, in occasione della visita ufficiale di Francesco era presente anche un nutrito numero di esponenti del mondoculturale, oltre che di rappresentanti dell’associazionismo e della solidarietà.
Tra questi ultimi, il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, Emilia Guarnieri, presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia, Giuseppe Profiti, presidente dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù, Maria Voce, presidente del Movimento dei Focolari.
Nutrita poi la rappresentanza del mondo culturale. Tra gli altri, oltre al gruppo invitato a stringere la mano personalmente al Papa, erano presenti il filosofo Massimo Cacciari, il presidente dell’Accademia dei Lincei, Lamberto Maffei, il presidente dell’Accademia della Crusca, Nicoletta Maraschio, il presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, Bruno Cagli, il presidente dell’Accademia di San Luca, Paolo Portoghesi, il presidente dell’Accademia nazionale delle scienze, Emila Chiancone, il presidente del Censis, Giuseppe De Rita.
Colle e Vaticano si sono trovati concordi sul fatto che è indispensabile promuovere la cultura dell’incontro e del dialogo. E questo tanto nel rapporto fra credenti e non credenti, quanto, sul versante laico, nel confronto politico e istituzionale. (m. ans.)

l’Unità 15.11.13
I lavoratori sono più ricchi dei padroni
Venti milioni di dipendenti dichiarano in media un reddito di 20.680 euro l’anno, circa 200 euro più degli imprenditori
I manager della Pubblica amministrazione sono i più pagati dell’Ocse
di Giuseppe Vespo


MILANO La vera notizia sarebbe stata il contrario, e cioè se i redditi degli imprenditori fossero risultati più alti di quelli dei dipendenti. Perché che i lavoratori dichiarino più di chi fa impresa, cioè di chi spesso il lavoro lo offre, ormai quasi non stupisce. Semmai i dati del ministero dell’Economia confermano una tendenza che lascia spazio a diverse interpretazioni, condite dagli effetti della crisi e afflitte dall’eterno problema dell’evasione fiscale.
Intanto i numeri dicono che gli oltre venti milioni di lavoratori e lavoratrici con reddito (prevalente) da lavoro dipendente dichiarano in media 20.680 euro, mentre il milione e mezzo circa che vive prevalentemente grazie a un reddito di impresa dichiara in media 20.469 euro. I dati fanno riferimento alle dichiarazioni del 2012, quindi ai redditi percepiti l’anno prima dai circa 41,3 milioni di contribuenti italiani.
Chi sono questi contribuenti ce lo dicono le percentuali del ministero, che disegna una torta così tagliata: la fetta più grossa è quella dei dipendenti, oltre il 48 per cento dei 41 milioni totali (circa venti milioni di persone); seguono i 14 milioni di pensionati (34,1 del totale), mentre solo il cinque per cento dichiara un reddito prevalente da impresa, ovvero fa l’imprenditore puro o il lavoratore autonomo abituale. Si parla di appena 2,1 milioni di persone, tante quante sono quelle che dichiarano prevalentemente redditi da fabbricati, cioè sembrano mantenersi grazie agli immobili che possiedono; mentre un altro milione e mezzo vive grazie alle partecipazioni in società di persone.
Il mondo dei dipendenti è variegato, il 46 per cento lavora nei servizi come il commercio, i trasporti e le comunicazioni, il venti per cento nell’industria e un altro 23 nella pubblica amministrazione. Tra queste categorie, il reddito medio più alto è di chi lavora nell’industria, che dichiara poco più di venti mila euro all’anno, mentre chi serve la pubblica amministrazione è fermo poco più di 23 mila.
CHI PUÒ E CHI NO
Gli statali soffrono l’assenza del contratto nazionale e il blocco dei rinnovi fino almeno al 2015. Tra loro, però, c’è una fascia di dipendenti che se la passa un po’ meglio, anzi molto meglio. Sono i manager pubblici, che evidentemente nonostante i salari stellari non riescono ad alzare la media dei redditi della loro categoria.
È di ieri un dato che conferma un altro sospetto. I manager italiani, quelli dell’amministrazione centrale, cioè per lo più dei ministeri, sono i più pagati di tutta l’area Ocse, e l’area in questione conta ben 34 Paesi del mondo. Prendono in media uno stipendio annuo pari a 650 mila dollari (il calcolo in dollari è perché la ricerca è internazionale), ovvero tre volte di più della media. Per avere un’idea, un top manager ministeriale a Parigi prende in media 260 mila dollari all’anno, a Berlino 231 a Londra 348 mila. A Washington 275 mila.
Con 250 mila annui, gli statunitensi ci soffiano il primato nella media dei dipendenti di seconda fascia, che in Italia si ferma a 176 mila dollari (comunque meglio della media Ocse, 126 mila). Tutto questo fino al 2011. Perché come segnala il ministero della Funzione Pubblica, dall’anno scorso è entrato il vigore il tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici, che non permette di superare, anche cumulando, il trattamento economico del Primo presidente della Corte di Cassazione, attestato a 302.937 euro annui lordi. Insomma, il vento è cambiato. Del resto, va precisato, lo fa sempre la funzione pubblica, la rilevazione della ricerca internazionale è stata compiuta su soli sei ministeri, quelli in comune tra tutti i paesi europei. E i valori più alti rilevati dall’Ocse sono riferiti a casi molto limitati relativi a posizione di vertice, mentre per quanto riguarda le altre categorie dirigenziali i dati sono ampiamente in linea con la media degli altri Paesi. Sarà per questo che alla fine il reddito medio dei dipendenti pubblici non supera quello dei colleghi del settore dell’industria (24 mila euro).
Ancora più bassa è la media dei redditi dichiarati dai pensionati, da quelli che dicono di vivere con la pensione: 15.790 euro all’anno. Il quaranta per cento di questi 14 milioni di italiani dichiara di vivere solo con la pensione, mentre il 53 per cento può vantare anche redditi da terreni e fabbricati.
E poi ci sono gli imprenditori. Un milione mezzo di persone il cui reddito medio non supera 20.469 euro. Solo in 25 mila dichiarano più di cento mila euro annui, appena un quarto del totale dei contribuenti (cento mila).
Infine i lavoratori autonomi, esclusi quelli in regime i contribuzione minima, che sono mezzo milione, 75 mila dei quali dichiara più cento mila euro all’anno. Si tratta per lo più di studi medici, studi legali e poliambulatori. Appena 175 mila sono invece le imprese familiari. Si trovano soprattutto in Veneto e Lombardia.

il Fatto 15.11.13
Paga dei manager pubblici, siamo i numeri uno al mondo
I dati Ocse sulla P.A.
E gli imprenditori dichiarano meno dei dipendenti
di Marco Palombi


Tanto la struttura dei redditi italiani quanto il modello adottato dalla sua Pubblica amministrazione sono preoccupanti: quest’ultima, come vedremo, ha scelto una struttura che premia con stipendi assolutamente fuori scala i suoi dirigenti di prima e seconda fascia, mentre sottopaga tutti gli altri (con una sorpresa sul peso reale del settore pubblico sul totale degli occupati) ; i guadagni degli italiani, invece, mostrano ancora una volta come il sistema fiscale sia in sostanza basato sul lavoro dipendente, lasciando intravvedere dietro di sé l’evasione o l’elusione fiscale che finisce per falsare le politiche fiscali che vorrebbero influire sulla struttura dei redditi.
I grand commis
Quelli italiani sono davvero “grand”, almeno a stare al rapporto “Government at a Glance” dell’Ocse reso noto ieri. Ne risulta che i dirigenti di prima fascia dei sei ministeri presi in esame (Economia, Interni, Giustizia, Istruzione, Salute e Ambiente) nel 2011 guadagnavano in media 650 mila dollari all’anno, vale a dire 482 mila euro al cambio di ieri: più di chiunque altro nel mondo in posizioni analoghe e quasi tre volte più della media dei 34 paesi Ocse, che si ferma alla miseria di 232 mila dollari (172 mila euro circa).
SI POTREBBE obiettare: una media può essere ingannevole. Anche i confronti diretti, però, dicono la stessa cosa: al secondo posto, per dire, si piazzano i neozelandesi, ma coi loro 397 mila dollari l’anno sono assai staccati dai nostri. Tutti gli altri sono a distanze siderali: in Gran Bretagna i dirigenti di prima fascia guadagnano 348 mila dollari l’anno, negli Stati Uniti 275 mila, in Francia 260 mila dollari, in Germania 231 mila. Non vale, ha protestato il governo: la situazione non è più la stessa perché Mario Monti ha introdotto il tetto sulle retribuzioni che oggi non possono superare, tutto compreso, i 302 mila euro l’anno. Vero, anche se resta comunque lo stipendio più alto del mondo, visto che si traduce in 408 mila dollari. Anche i dirigenti italiani di seconda fascia se la passano bene: 176 mila dollari l’anno (130 mila euro e spiccioli) contro i 126 mila della media Ocse. Non sono però i più pagati: vincono gli statunitensi con 250 mila dollari e leggermente più dei nostri guadagnano anche i loro omologhi di Olanda, Belgio e Francia.
I travet
La sorpresa è che dopo la dirigenza di seconda fascia, c’è il tracollo. Persino i funzionari, gente che dirige uffici anche assai delicati, risulta sottopagata rispetto alla media dell’organizzazione parigina: 69 mila dollari l’anno (51.100 euro) contro 90 mila. Anche qui dominano gli Usa con 160 mila dollari l’anno e oltre i 100 mila guadagnano pure i funzionari di Belgio, Danimarca, Olanda e Spagna.
Una piccola sorpresa finale. Il totale dei dipendenti pubblici in Italia ha una incidenza inferiore sul totale degli occupati rispetto alla media Ocse: il 13,7 per cento contro il 15,5. Nei paesi scandinavi, per dire, “gli statali” sono circa il 30 per cento degli occupati, in Francia superano il 20 e in Gran Bretagna sono il 18. Pure gli Stati Uniti ci superano: ogni 100 occupati in 15 lavorano nella P. A.
Lavoratori e dipendenti
Tradizionale, ma sempre interessante, è invece l’analisi dei redditi italiani del 2011 pubblicata dal ministero dell'Economia: ne emerge che “i soggetti con reddito da lavoro dipendente prevalente (oltre 20,1 milioni) dichiarano un reddito medio di 20.680 euro”. Di contro, “i soggetti con reddito d’impresa prevalente sono circa 1,5 milioni (89 per cento di coloro che dichiarano reddito d’impresa), per un valore medio di 20.469 euro”.
Insomma, a stare ai dati ufficiali conviene lavorare in un’impresa piuttosto che possederla. Peggio di tutti va ai pensionati: l’assegno medio è di 15.790 euro l’anno. Gli artigiani di Mestre però, vale a dire la famosa Cgia, protestano: dati “distorti e tendenziosi”. Sostiene il presidente Giuseppe Bortolussi che “giudici, manager e professori universitari” falsano la media innalzandola e che invece nelle Pmi, che sono “il 99 per cento delle aziende italiane”, gli imprenditori guadagnano “il 30-40 per cento” più dei dipendenti. Vale a dire che la media di chi fa impresa è sempre 20 mila e spiccioli, sono i “veri dipendenti” che guadagnano – secondo Bortolussi – 12-14 mila euro all’anno in media. Forse sarebbe un numero da tenere nascosto.

l’Unità 15.11.13
Carla Cantone
La leader di Spi-Cgil: l’Inps non aveva problemi, invece li aveva l’Inpdap
I conti Inps «non sono tranquilli» Il governo assicura: tutto a posto
Questi allarmi puntano a smantellare il sistema
Mastrapasqua chieda allo Stato di versare finalmente i contributi reali
di Andrea Bonzi


«L’allarme di Mastrapasqua presta il fianco a tutti coloro che hanno voglia di smantellare il sistema previdenziale pubblico, questa è la verità». Si accalora, Carla Cantone, segretaria nazionale dello Spi-Cgil quando gli si chiede un commento sulle parole del numero uno dell’Inps, che si è detto «non del tutto tranquillo», sui conti del sistema previdenziale italiano.
Segretario Cantone, in serata Mastrapasqua si è corretto. Ma il sasso nello stagno l’ha comunque gettato...
«Ogni volta che si parla di legge di Stabilità o Finanziaria, in un momento come questo dove tutti danno addosso alle pensioni, uscire in quel modo non mi convince. Il problema vero dell’Inps è che deve chiedere allo Stato di versare i contributi, perché al momento la sua contribuzione è virtuale».
Parla dell’accorpamento con l’Inpdap?
«L’Inps non aveva problemi, mentre l’Inpdap sì. Ma quei problemi si risolvono chiedendo allo Stato di smetterla di evadere. Invece di fare denunce che creano scompiglio, Mastrapasqua elenchi chiaramente le questioni da risolvere e faccia delle proposte».
In passato, però, sulle pensioni forse alcuni errori sono stati fatti...
«C’è un interesse morboso sulle pensioni. Ciclicamente c’è chi sostiene che i pensionati siano dei privilegiati. È successo anche col governo Monti, ed è stata fatta la disastrosa riforma Fornero, che ha peggiorato la situazione. Va molto di moda contrapporre il sistema retributivo a quello contributivo, che ormai ha preso piede, parlando del primo come di una modalità che ha creato dei privilegiati».
E non è così?
«La maggior parte dei cittadini che sono andati in pensione con il sistema retributivo hanno pagato i contributi per 35, 40 o 42 anni di lavoro. Occorre distinguere fra i diritti guadagnati e le pensioni regalate, altrimenti l’obiettivo non è più combattere i privilegi, ma accanirsi sulle pensioni da lavoro. Altre cose sono il cumulo delle pensioni e gli assegni d’oro».
Lì si potrebbe tagliare, però...
«Certo, ma non si può fare di tutta un’erba un fascio. Si abbia il coraggio di vedere quali sono le pensioni veramente d’oro, che non sono quelle da 2.000 euro e neanche da 3.000 mensili. Si colpiscano gli assegni oltre i 90mila euro annuali, ma si taglino anche i redditi: i sacrifici vanno chiesti a tutti».
Molti giovani non avranno mai una pensione: non c’è il rischio di alimentare uno scontro generazionale?
«Dire che gli anziani rubano il futuro ai loro nipoti è una vergognosa accusa. Il problema dei giovani non è la pensione tra 40 anni, ma il lavoro oggi, che deve essere non precario e non sfruttato. Se non si lavora, non si versano i contributi: è una questione che riguarda i pensionati in essere e quelli futuri, altro che scontro...».

il Fatto 15.11.13
Lo Stato evade, le pensioni sono a rischio
L’allarme del numero uno dell’Inps:
con il buco degli statali i conti dell’Istituto “non fanno stare tranquilli”
di Salvatore Cannavò


Il presidente dell’Inps non si sente tranquillo. Ieri è tornato ad attirare l’attenzione sui conti dell’istituto previdenziale. Nel corso di una audizione alla Commissione bicamerale di controllo, Mastrapasqua ha fatto sapere di aver scritto una lettera “al ministro Saccomanni e al ministro Giovannini, come fatto con l’esecutivo precedente, invitandoli a fare una riflessione” sul bilancio Inps, dal forte disavanzo patrimoniale ed economico che “può dare segnali di non totale tranquillità”.
Per questa affermazione, Mastrapasqua si è attirato dietro decine di reazioni, politiche e sindacali, fino alla precisazione dello stesso Saccomanni il quale ha assicurato che “non c’è nessun allarme”, si tratta di problemi tecnici e il governo sta provvedendo.
I problemi nascono, aveva spiegato in mattinata Mastrapasqua, in seguito alla fusione dei vari enti previdenziali, in particolare la confluenza del calderone Inpdap nei conti dell’Inps.
L’ENTE dei dipendenti pubblici, infatti, ha portato “in dote” circa 10 miliardi di deficit. “Il problema è nato – ha spiegato ancora Mastrapasqua – quando l’Inpdap è stato trasformato da ente ‘debitore’ in un ente creditore generando lo squilibrio. Di fatto, dal 2007 lo Stato ha trasformato contabilmente i suoi trasferimenti all’istituto, dovuti per coprire le pensioni dei lavoratori pubblici, in “anticipazioni” di cassa in modo da nasconderli alla contabilità del debito pubblico. Che è stato così trasferito alle casse previdenziali caricate di sempre minor versamenti oltre che della progressiva riduzione dei dipendenti pubblici a opera delle manovre di rigore finanziario. Da qui, i “crescenti rischi di sottofinanziamento dei disavanzi previdenziali e di progressivo aggravamento delle passività”.
L’allarme, Mastrapasqua lo aveva lanciato già da tempo. Lo scorso luglio, sempre in Parlamento, aveva detto cose simili, e nella relazione al bilancio preventivo 2013, redatta dal Comitato di vigilanza dell’Inps, si leggeva: “Il Civ ritiene pertanto doveroso e urgente sottoporre la situazione della Gestione ex Inpdap al-l’attenzione del governo e dei ministeri vigilanti al fine di consentire agli stessi di adottare adeguati interventi correttivi per sanare il crescente disavanzo economico e patrimoniale”.
Di fronte all’ampiezza delle reazioni, in particolare quelle sindacali – Camusso: “Mastrapasqua dovrebbe dire cosa pensa di fare invece di lanciare allarmi” – il presidente Inps in serata ha precisato che non esiste “nessun allarme ma solo un problema contabile”.
L’ANDIRIVIENI, però, suscita nervosismo e forse Mastrapasqua dovrebbe decidersi una volta per tutte: l’allarme c’è o non c’è? A essere fortemente in passivo, in realtà, non c’è solo l’Inpdap, ma anche i vari fondi previdenziali interni al-l’Istituto: quello dei dirigenti di azienda chiuderà il 2013 con 3,7 miliardi di passivo, quello dei telefonici (lo stesso da cui proviene la pensione più alta d’Italia, gli oltre 90 mila euro al mese di Mauro Sentinelli) con 1,19. Il Fondo elettrici con 1,9 miliardi di buco mentre Artigiani e Coltivatori diretti superano i 5 miliardi. Al contrario, la gestione dei parasubordinati è in attivo di 8,7 miliardi e anche quella dei Lavoratori dipendenti (Flpd) è positiva di 8,5 miliardi. L’Inps è un grande calderone in cui non si capisce chiaramente cosa è spesa assistenziale e cosa previdenziale per cui una campagna di stampa può puntare il dito, addirittura, contro le pensioni integrate al minimo, le più povere di tutte.
I problemi sono molteplici e anche per questo è facile creare confusione e polemiche. Va anche detto che il nodo dell’Inpdap era noto da tempo. Come ha fatto notare ieri il segretario Uil, Luigi Angeletti, “il più grande evasore è lo Stato che non ha pagato i contributi dei lavoratori pubblici per 8 miliardi di euro”. In effetti, si sapeva. Eppure quando Monti decise la fusione degli enti, creando un istituto gigantesco, Mastrapasqua non si oppose e il sindacato nemmeno. “Il Parlamento è sovrano” rispondono all’Inps di fronte a questa obiezione. Intanto, il sovrano della previdenza rimane Mastrapasqua.

Corriere 15.11.13
«Il pericolo? Un lavoratore per ogni pensionato»
Brambilla: il sistema regge, ma lo Stato non ha versato i contributi
intervista di Francesca Basso


MILANO — C’è un allarme pensioni?
«Il sistema previdenziale italiano è molto ben congegnato, è uno dei migliori sistemi europei e molto automatizzato (legato ai coefficienti di invecchiamento). Il sistema regge». Ne è sicuro Alberto Brambilla, ex sottosegretario al Welfare e docente di Gestione delle forme previdenziali pubbliche e complementari dell’Università Cattolica di Milano: «Il presidente dell’Inps Mastrapasqua ha fatto bene a porre la questione ed è vero che non c’è un allarme sui conti, ma è giusto fare una riflessione».
Se il sistema previdenziale tiene, allora qual è il problema?
«Il problema è la situazione economica attuale: lo Stato con le imposte dirette e indirette, le accise e l’Imu preleva dalle aziende il 60%. Questo vuol dire che le imprese sono allo stremo, basta che un cliente non paghi e salta l’azienda, quindi si ricorre alla cassa integrazione. La gestione Inps risente del fattore crisi».
In che modo?
«Dal 2009 a oggi abbiamo perso quasi 2 milioni di contribuenti, che hanno perso il lavoro, oppure sono in cassa integrazione o in mobilità. È la Gestione delle prestazioni temporanee a soffrire. Fino a qualche anno fa erano più i soldi che incassava di quello che pagava. Ora avrà un rosso da 10-15 miliardi perché ha 2 milioni di persone in più da mantenere».
E la questione Inpdap?
«Per un certo periodo lo Stato non ha pagato i contributi degli statali perché era comunque lo Stato a pagare le pensioni. Ha cominciato a versarli nel 1997. L’Inps non ha un buco da 10 miliardi, ma è la gestione dell’ex Inpdap. In questo caso lo Stato deve versare oggi quello che non ha versato prima. Il nodo è un altro: con il blocco del turnover gli statali diminuiscono e il rapporto lavoratori attivi/pensionati si riduce».
Questo vale solo per gli statali?
«No. A causa della crisi economica e dell’elevato numero di aziende che falliscono il rapporto occupati effettivi su inoccupati, pensionati e assistiti sta diventando di uno a uno. Una ganascia fiscale tra il 58 e il 60% è insostenibile. Basta che la banca chieda un rientro o un cliente non paghi e il circolo si spezza».
Però ci sono segnali di ripresa per il 2014.
«Certo, ci sarà un po’ di ripresa. È semplicemente un timido segnale: bisogna vedere quanto si tradurrà in termini di occupazione».

il Fatto 15.11.13
“La crisi è colpa degli ebrei”
Complotti e razzismo su Stormfront.org
32 perquisizioni, la Procura di Roma lo chiude
di Valeria Pacelli


Sono convinti che la colpa della crisi economica sia degli ebrei. E diffondono questa visione antisemita attraverso la rete, condividendo video dal titolo “Il nemico occulto un documentario sulla questione ebraica”. Sono alcuni frequentatori del sito stormfront.org   (chiuso dalla polizia postale), che nascondendo la propria identità dietro un nickname, diffondono odio razziale ed etnico. Sono persone che “fanno parte di una organizzazione pericolosa sotto il profilo ideologico”, come li ha definiti il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo. Un’estremismo ideologico che si diffonde in Europa e che si alimenta di simboli come svastiche, moschetti e baionette. Per questo ieri, nell’ambito di un’inchiesta della procura di Roma, sono state effettuate 35 perquisizioni in tutta Italia, in 22 province diverse, tra la capitale e Milano. La piattaforma di scambio delle idee era proprio questo forum, stromfront.org . Qui, “Nomondialismo”, “Aragorn281”, “74 folgore”, (sono alcuni dei nickname utilizzati) condividevano le proprie ideologie.
NELL’UNIVERSO della rete pensavano di poter restare nell’anonimato, ma gli investigatori hanno trovato i loro nomi e cognomi. Di frasi che incitassero all’odio razziale ne hanno scritte tante, anche contro il giornalista Roberto Saviano. “Complotto giudaico” ad esempio il 6 novembre pubblicava: “ (..) Nulla di strano l’ebreo è il distruttore delle nazioni e agisce per costituire una parte importante della violenta manovalanza necessaria per le agitazioni sociali sovversive”. Parole pesanti sono state rivolte anche contro il sindaco di Lampedusa, Giuseppina Maria Nicolini. In questi casi però, secondo gli investigatori, non si tratta di libertà di espressione, ma di reati penalmente rilevanti. Le 35 perquisizioni di ieri infatti sono state effettuate nell’ambito dell’’indagine di cui è titolare il pm Luca Tescaroli. L’operazione è un proseguo di quella denominata “Stormfront” culminata nel novembre del 2012, con l’arresto di quattro persone, tra cui Daniele Scarpino, promotore dell’associazione e moderatore di strom  front.org , Diego Masi e Luca Ciampaglia, moderatori dello stesso forum, e Mirko Viola, utente particolarmente attivo. Il gup ha condannato a 3 anni Scarpino, a 2 anni e 6 mesi ciascuno Masi e Ciampaglia, e a 2 anni e 8 mesi Mirko Viola. E ha disposto per tutti gli arresti domiciliari, ad eccezione di Viola che è tornato in carcere per aver violato il divieto di comunicare attraverso internet.
IL PM LUCA TESCAROLI ad oggi ha iscritto nel registro degli indagati 24 persone, anche minorenni. Uno di loro è stato anche arrestato durante le perquisizioni di ieri. Si tratta di un 51enne di Mantova che a casa custodiva 2 moschetti “94” completi di munizioni, un involucro di bomba a mano, 7 baionette e una bandiera con svastica.

l’Unità 15.11.13
I nazisti di Stormfront contro Giusi Nicolini
Un anno dopo nuova operazione: 35 perquisizioni Attacco al sindaco di Lampedusa
di Vincenzo Ricciarelli


ROMA Gli ingredienti sono sempre gli stessi, la lobby ebraica che condiziona l’economia mondiale, l’invasione degli allogeni, il ciarpame neonazista e gli insulti verso politici, artisti o intellettuali accusati di sostenere l’immigrazione o di simpatie sioniste. Ad un anno di distanza dall’operazione che portò all’arresto di quattro persone (già condannate in primo grado a pene che variano da 3 anni a 2 anni e 6 mesidi reclusione), la sezione italiana del sito neonazista Stormfront è ancora oggetto di una maxi operazione condotta dalla Digos romana e dalla polizia postale che ha portato a trentacinque perquisizioni in ventidue province italiane. Ad ordinare il blitz la Procura della capitale che indaga per identificare gli autori della diffusione in Internet di idee fondate sull’odio razziale, etnico e di incitamento a commettere atti di discriminazione e di violenza per motivi razziali ed etnici.
In particolare le indagini hanno portato all’identificazione degli autori della diffusione in rete di un filmato intitolato Il nemico occulto un documentario sulla questione ebraica, realizzato da utenti della sezione italiana del forum «Stormfront», dagli evidenti contenuti antisemiti. Quattordici minuti e 37 secondi di farneticazioni e improbabili collegamenti messi assieme per accusare gli ebrei della crisi economica mondiale, indicando alcuni di loro obbligati da leggi, decidono di inserire programmi di riduzione o compensazione delle emissioni all’interno della loro politica ambientale. I progetti di riduzione delle emissioni possono infatti generare crediti di carbonio che possono essere venduti nel mercato volontario del carbonio da un soggetto «assorbitore» di CO2 al fine di compensare le emissioni di un altro soggetto «emettitore» di CO2.
Ad oggi appare sempre più opportuno che il mercato delle verifiche e validazioni Ghg trovi rapidamente la sua diffusione. Questa può essere una delle strade che fanno tornare la terra (intesa in tutti i suoi significati) al centro della scena, può essere un modo di spingere con forza su vere pratiche agricole, capaci di essere volano economico e buona qualità della vita allo stesso tempo. Se a questo sommiamo il crescente ritorno all’agricoltura delle giovani generazioni e le agevolazioni di base accordate agli under-40 dalla nuova Pac (con un +25% per i primi 5 anni di attività) possiamo davvero intravedere un investimento come titolari di ruoli apicali all’interno di banche ed altre istituzioni. Nello stesso contesto sono stati condotti approfondimenti per risalire agli autori di «post» pubblicati sempre sul forum italiano di Stormfront, istigatori all’odio ed alla violenza per motivi razziali, etnici nazionali ed al contempo fortemente diffamatori nei confronti di alcuni personaggi pubblici, come il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini («andrebbe eliminata», scriveva uno degli utenti), Carla Di Veroli già assessore alla Politiche culturali, giovanili e pari opportunità di un Municipio di Roma e lo scrittore Roberto Saviano. «Abbiamo sequestrato materiale informatico che serviva per mettere in rete i messaggi. Ma anche altro materiale come documenti, bandiere, magliette e riviste dai contenuti neonazisti e antisemiti. In un caso sono trovate anche armi: due moschetti con munizionamento», ha spiegato il capo della Digos di Roma Diego Parente. Per questo motivo, infatti, una delle persone sottoposte a perquisizione è stata arrestata a Mantova per possesso abusivo di amri da fuoco.
Tra i 24 indagati, con età compresa tra i 17 e i 51 anni, «alcuni avevano frequentazioni con ambienti anarchici ha aggiunto Parente Si tratta di studenti, lavoratori e disoccupati, alcuni anche con precedenti specifici». «Si tratta di una organizzazione pericolosa sotto il profilo ideologico che trova radici in un’epoca storica che sembra apparentemente lontana. Dobbiamo fare i conti con l’estremismo ideologico che si muove in Europa ha commentato il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo per evitare che atti più gravi possano essere compiuti nel quadro della loro ideologia aberrante». Apprezzamento per il lavoro svolto dalla polizia è stato espresso, fra gli altri, dalla comunità ebraica e dall’Anpi.

l’Unità 15.11.13
Guerra di dati: Renzi avanti, no è Cuperlo
Il sindaco: vinciamo anche tra gli iscritti. La replica: prudenza, è vero il contrario
Briatore attacca D’Alema
di Osvaldo Sabato


Nei circoli locali è in vantaggio Matteo Renzi. Non è vero: in testa c’è Gianni Cuperlo. E nel Pd è di nuovo guerra dei numeri. A dar fuoco al botta e risposta è il renziano Luca Lotti che annuncia il vantaggio del sindaco di Firenze: su 17.200 voti espressi sarebbe primo con il 44%, Cuperlo al 39%, Civati al 14 % e Pittella al 3 %. «Dunque quelli che montano i gazebo per adesso votano Renzi #sorpresa» dice su twitter lo stesso Lotti riferendosi, tra l’altro, alle affermazioni di Massimo D’Alema all’Unità. A breve giro di agenzie è immediata la replica di Patrizio Mecacci, coordinatore del comitato a sostegno della candidatura di Cuperlo. «Fa un po’ sorridere leggere le dichiarazioni di Lotti che si dice sorpreso dai risultati in loro possesso sui congressi. Sorpreso di cosa?» si chiede Mecacci «se fossero veri i loro numeri non ci sarebbe da essere sorpresi vista la corsa che c’è stata a sostenere il sindaco di Firenze da parte di gran parte del gruppo dirigente e visto il sostegno mediatico di cui Renzi gode». Questa la premessa, poi l’affondo. «Ma forse Lotti è sorpreso dal fatto che la partita è ancora molto aperta» aggiunge Mecacci e giù con i numeri dei cuperliani. «Dai dati in nostro possesso, infatti, su circa 18.000 voti espressi, Cuperlo è in testa con il 42,1%, seguito da Renzi con il 40%, Civati al 13,9% e da Pittella con il 4%» spiega l’ex segretario della federazione del Pd metropolitano di Firenze, ora braccio destro di Cuperlo in questa sfida congressuale. Mecacci, quindi, chiede più prudenza e meno «scaltrezza» ai renziani. «Forse il loro comportamento è dovuto a un certo nervosismo che viene da questi numeri» insiste «io agli amici renziani consiglierei maggiore prudenza nella comunicazione dei risultati sulle mozioni nei circoli». Fuori dal duello, Gianni Pittella, mostra ottimismo perché è convinto di «controbilanciare, con il voto del sud, il divario registrato al nord con Civati». Secondo l’europarlamentare «la partita è apertissima». Ed a proposito di numeri, quelli ufficiosi della commissione provinciale del Pd di Bologna, nel bolognese danno Cuperlo in testa con 419 voti (49,8%), seguito da Matteo Renzi con 289 voti (34,4%), Pippo Civati 128 (15,2%) e in coda Gianni Pittella con 5 voti (0,6%). Mentre è testa a testa tra Cuperlo e Renzi a Imola. La fine dei congressi locali è prevista entro domenica, il 24 novembre è fissata a Roma la convenzione nazionale che dovrà selezionare i tre candidati che parteciperanno alle primarie dell’Immacolata.
«Perdo fra gli iscritti? Ride bene chi ride ultimo» scrive Matteo Renzi nella sua newsletter. «Alcuni dicevano che avremmo perso tra gli iscritti, i primi dati vanno in direzione diversa» commenta il rottamatore, rispondendo così a D’Alema pur senza mai citarlo. Ma per il sindaco di Firenze ciò che conta è il rush finale «la sfida che ci porterà alle primarie dell’8 dicembre, dove ricorda potranno votare tutti i cittadini e non solo gli iscritti». Così mentre sui congressi è guerra di numeri, il rottamatore carica i sostenitori «senza una vittoria netta continueranno gli accordicchi, le larghe intese, le mezze misure. Io voglio vincere. Perché i premi di consolazione non ci consolano più». E a proposito delle correnti del Pd, Renzi, promette che con lui segretario saranno rottamate «conteranno di più i territori e di meno i dipartimenti centrali». Ma un altro nodo polemico riguarda il possibile doppio incarico del rottamatore: segretario e sindaco di Firenze. Ipotesi che non convince affatto Cuperlo. Il possibile accumulo di incarichi per Massimo D’Alema rischia di diventare un «possibile conflitto di interessi» perché un leader del Pd deve saper parlare a tutti e deve andare al di là degli «interessi di una città». Quindi la conclusione dell’ex premier è chiara: Renzi segretario e sindaco potrebbe venire meno «ai suoi impegni, o con il Pd o con i cittadini di Firenze» come ha detto al nostro giornale.
«PIÙ RISPETTO»
«Come mai D’Alema fa così?» osserva Dario Parrini. Forse per la stessa ragione per la quale se De Benedetti vota Renzi è simbolo dei poteri forti anti-sinistra mentre se vota Bersani come nel 2012 viene eletto ad emblema della borghesia illuminata in marcia per il bene comune. Da un ex premier sarebbe logico attendersi più rispetto dei fatti, meno livore e soprattutto meno doppiopesismo» commenta il parlamentare di area renziana. Ed è proprio l’intervista al presidente della Feps a non essere piaciuta ai renziani. «Chissà perché quando D’Alema perde un congresso subito evoca la scissione. Mi ricorda quelli che quando perdevano si portavano via il pallone» ironizza su twitter Angelo Rughetti, deputato del Pd vicino a Matteo Renzi. L’ex premier pur senza mai parlare apertamente del rischio di una scissione, con Renzi segretario, lancia però il pericolo «di una emorragia di iscritti, sarebbe un problema serio. Poi i gazebo chi li smonta, Flavio Briatore?» chiosa D’Alema. Anche in questo caso la replica del patron del Billionaire non si è fatta attendere. «Caro D’Alema io i gazebo li saprei smontare ma non credo che tu saresti capace a montarli» scrive l’ex manager di Formula 1, con tanto di hashtag #mailavorato. «Ma Briatore è un interlocutore del Pd?» si domanda il parlamentare Massimo Paolucci. «Si tratta di abbraccio non voluto, di un sostegno sgradito? Renzi farebbe bene a dichiararlo.

La Stampa 15.11.13
Guerra di potere nel gruppo Pd,
Letta batte Renzi
La conta sul membro Agcom diventa un referendum
di Carlo Bertini


ROMA  Alle undici di mercoledì sera, quando l’urna viene aperta e spunta il risultato di questo singolare referendum, i primi sms partono dai cellulari dei lettiani doc, un indizio rivelatore di quale sia la posta in gioco. «Abbiamo vinto nettamente, il gruppo alla Camera non è per nulla controllato da Renzi e Franceschini!», esultano gli uomini del premier. La battaglia che si è consumata infatti dentro il gruppo del Pd alla Camera per la scelta del nome da eleggere all’Agcom in sostituzione del dimissionario Maurizio Decina, svela una guerra di potere tra i massimi vertici del partito, Enrico Letta e Matteo Renzi, con il primo uscito vincente in questo round: che nella valutazione dei difensori della stabilità, quella del governo si intende, è un test importante anche in vista delle prove di forza prossime venture, a partire dall’assemblea che si terrà a ridosso del voto sulla Cancellieri.
La posta in gioco è il controllo di un gruppo di quasi trecento deputati, che dopo le composizioni e scomposizioni dei blocchi dovute ai giochi congressuali, risulta spaccato a metà tra sostenitori di Cuperlo e quelli pro-Renzi, con qualche appendice pro-Civati. Sotto le mozioni dei vari candidati infatti sono piovute circa 140 firme a favore del candidato dalemian-bersaniano e una decina in meno in calce alla mozione Renzi, grazie all’apporto dei parlamentari di Franceschini, passati armi e bagagli con il rottamatore.
Ma l’esito di questa partita non è stato un pareggio, al netto delle assenze: 92 voti sono andati infatti ad Antonio Sassano, docente della Sapienza, esperto di frequenze, nonché presidente dell’organismo di vigilanza sull’accesso alla rete di Telecom, candidato dall’area Renzi dall’ex ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni. Invece 139 voti sono arrivati su Antonio Nicita, docente di Economia Politica, gradito al premier e sostenuto da tutta l’area dalemian-cuperlian-bersaniana e ovviamente dai lettiani, anche quelli di area Renzi: stando ai si dice, visto che il voto dietro una paratia era segreto, a non votare per Sassano sarebbe stato anche uno che appoggia Renzi alle primarie come Francesco Boccia. La vice-capogruppo vicario di Roberto Speranza, Paola de Micheli, schierata con Cuperlo si è battuta invece a fondo per la causa. Il suo nome, insieme a quelli del bersaniano Stumpo, del dalemiano Amendola, della bindiana Miotto, della giovane turca Silvia Velo e del fioroniano Grassi, figura nell’sms che dava indicazioni ai deputati di votare Nicita.
Un blocco compatto dunque. E il fronte renziano ha sofferto pure una divisione interna, qualcuno ha votato anche altri candidati nella lista di 56 papabili e altri erano assenti. Facendo venire a galla un primo venticello di polemica intestina: «Questo risultato? un esempio della nostra disorganizzazione», sibila alla buvette una renziana doc dopo un conciliabolo con altri suoi colleghi. Insomma, sembra che i renziani di rito fiorentino non l’abbiano vissuta come una partita tutta loro e quindi si siano «distratti». Alcuni di loro risultano tra gli assenti giustificati per cause varie. Ma Gentiloni la racconta in questi termini: «E’ vero che se la sono giocata bene, hanno sacrificato un uomo molto caro a Bersani, Antonio Lirosi, per metterne in campo uno vicino a Enrico, spostando così un blocco di voti che hanno fatto la differenza a favore di Nicita». Il quale ieri veniva eletto in aula con 297 voti senza colpi di scena.

La Stampa 15.11.13
Tutti (nemici) sul carro di Matteo
La carica degli “anti-renziani devoti”
“Il partito ti osteggia”
Massimo D’Alema: «Se diventerà segretario, non potrà impadronirsi di un partito che in buona parte dovrà convincere»
Stefano Di Traglia: «Renzi rischia di vincere le primarie ma non i congressi così sarà un’anatra zoppa e dovrà garantire a noi l’agibilità politica»
di Jacopo Iacoboni


Dice: tutti salgono sul carro di Renzi; e in apparenza è vero. Lui non li ha chiamati, anzi («sul carro non si sale, il carro si spinge»), è spettatore di questa comédie humaine. Nel miglior discorso della Leopolda Alessandro Baricco lo avvisò: «Matteo stia attento, sono tutti abbastanza renziani perché hanno capito che questo un po’ li terrà vivi, ma nella testa la distanza dal cambiamento è sempre quella. Le pile sono scariche».
Davanti allo scrittore torinese passeggiavano Dario Franceschini assediato (ancora?) dalle telecamere, si scorgeva l’antico teorico del proporzionale Stefano Passigli, il dalemiano Latorre dava suggerimenti in sala (curiosamente, s’era collocato davanti a una porta con su la scritta: «Apparati»). Il giorno prima avevano fatto capolino Piero Fassino e anche cosa mai vista alla Leopolda il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, che aveva voluto dare un cenno di ascolto. I fenomeni minori ma rivelatori sono tanti, da Milano, dove l’ex capo bersaniano del Pd milanese, Francesco Laforgia, si era presentato in prima fila a sentire Renzi a Sesto, al caso Bonaccini, ex bersaniano passato alla macchina del sindaco. Per citarne solo due.
ISi potrebbe insomma credere che Renzi, prima ancora dell’esito delle primarie, abbia già vinto culturalmente. La verità è che non è affatto così. Nella pancia, nel cuore, in tanta macchina del partito resta, se non l’alieno, un oggetto da guardare con estrema diffidenza. È come se lo stessero già lavorando ai fianchi in vari modi: mandandogli sul carro gente con la tecnica del cavallo di Troia, contaminandone la vittoria (se il congresso si offusca in storiacce di tessere, peggio per chi vincerà), preparandogli Letta come candidato-premier alternativo, oppure direttamente denigrandolo.
Mettete insieme i pezzi. Domenica, intervistato da Maria Latella, il segretario Epifani, che pure potrebbe imbracciare una linea di pura garanzia da traghettatore, dice invece: «Letta candidato premier anche lui? È una cosa che può essere. Vorrei che assumessimo questo come un percorso fisiologico». Pierluigi Bersani, così esposto appena nel recente passato, non si comporta come in Inghilterra farebbero un Kinnock o un Brown, non osserva da lontano: va dalla Annunziata e fa sapere «Renzi non mi ha ancora convinto, dà l’idea che il partito sia solo le salmerie del leader». E ieri D’Alema, mega-intervistato come ai bei tempi, risultava il più rivelatore di tutti: «Se Renzi dovesse diventare segretario si troverà a gestire un partito che in buona parte dovrà convincere. Non potrà pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia». «In certa misura», che eufemismo (D’Alema, commentando il voto di De Benedetti per Renzi, accenna anche «al potere economico» che starebbe col sindaco; salvo non aver detto nulla quando analogo endorsement arrivò a Bersani nel 2012).
Renzi li avvisa, «ride bene chi ride ultimo, anche nei congressi siamo avanti». Denuncia il rischio degli «accordicchi». Ma gli anti-renziani sono in attività elettrica. Come se non fosse successo nulla da febbraio. Stefano Di Traglia, ex portavoce di Bersani, questa battaglia la fa apertamente: «Renzi rischia di vincere le primarie ma non i congressi, e così sarà un’anatra zoppa. Doveva stracciare tutti con l’80%, ma al momento la notizia è che non ha la maggioranza nei congressi. Dunque, se vincerà, dovrà garantire legittimità, agibilità politica (usa proprio questa parola, nda) a tutti gli altri che sommati hanno più voti di lui».
E Letta? L’altra sera, proprio presentando il libro di Di Traglia-Geloni, il premier ha formulato una frase che ha fatto sobbalzare: cercare il M5S, come fece Bersani, servì oggettivamente (al di là delle volontà dell’interessato) a «far mandare giù» ai nostri elettori le larghe intese (Bersani «si immolò»). Di Traglia sa che le parole di Letta lasciano basiti; ma minimizza, «lui e Bersani hanno un ottimo rapporto, non si può pensare che ci fosse un disegno, semmai la conferma che il tentativo di Bersani con Grillo è stato onesto». Nell’ottica di questi antirenziani devoti, per la corsa a premier «c’è sempre il presidente del Consiglio, e proprio il regolamento del Pd dà ad altri dirigenti del partito la possibilità di concorrere alle primarie di coalizione per il futuro posto di candidato premier». Dicono: tutti sul carro di Renzi. Sì, per sfondarglielo.

Corriere 15.11.13
Renzi: noi avanti. D’Alema lo attacca: dattilografo
di Alessandro Trocino


L’ex premier: ci serve un segretario non uno bravo a usare la tastiera ROMA — Matteo Renzi: «Dicevano che avremmo perso tra gli iscritti, ma i primi dati sono incoraggianti e vanno in direzione opposta». Li riassume Luca Lotti: «Renzi è al 44%, Cuperlo al 39%, Civati al 14%, Pittella al 3%». Patrizio Mecacci, comitato Gianni Cuperlo: «Su 18 mila voti espressi, Cuperlo è in testa con il 42,1 per cento, seguito da Renzi con il 40, da Civati con il 13,9 e da Pittella con il 4 per cento». Quest’ultimo contesta: «Il Sud non è stato ancora scrutinato, la partita è lunga». Insomma, nel Pd è scoppiata la guerra dei numeri. Ennesimo fronte polemico per una battaglia tutta giocata sulle cifre: da quelle delle tessere (gonfiate) all’affluenza prevista, fino al voto degli iscritti. Passando per il candidato Agcom, sfida persa dai renziani: 80 contro i 130 per il cuperliano Antonio Nicita. Ma il vero affondo politico Renzi lo fa sul governo: «Senza una nostra vittoria netta, continueranno gli accordicchi, le larghe intese, le mezze misure». Insomma, se vince Cuperlo, fa capire, si va avanti con le larghe intese. Sul punto, Goffredo Bettini la pensa così: per gli aspetti che riguardano il sostegno all’esecutivo, «decidano gli iscritti del Pd».
«Ride bene chi ride ultimo», dice Renzi, che ricorda come il voto decisivo, quello che per lui conta davvero, sarà quello dell’8 dicembre, aperto a tutti i cittadini e non solo agli iscritti. Il sindaco di Firenze spiega che il Congresso «non serve a dirimere le piccole controversie interne, ma deve servire all’Italia». Per ora non sembra e di controversie ce ne sono diverse. Massimo D’Alema, per esempio, in un’intervista all’Unità non si è tirato indietro. Spiegando che Renzi «sarà anche bravo a battere sulla tastiera del computer con dieci dita, ma stiamo eleggendo un segretario, non un dattilografo». D’Alema annuncia anche che in caso di vittoria di Renzi, c’è il rischio che «una parte del Pd» se ne vada. Commento del renziano Angelo Rughetti: «Mi ricorda quelli che quando perdono si portano via il pallone». L’ex premier aggiunge: «Se ci sarà un’emorragia di iscritti, sarebbe un problema serio. Poi i gazebo chi li smonta, Flavio Briatore?». Domanda alla quale risponde subito via twitter Briatore, che mette in copia anche Renzi: «Caro D’Alema, io i gazebo li saprei smontare ma non credo che tu saresti capace a montarli». Con tanto di hashtag #mailavorato. Sul tema interviene Massimo Paolucci: «Ma Briatore è diventato un nostro interlocutore? Per Renzi questo significa parlare a tutti?».
Cuperlo invita tutti gli iscritti a votare: «È un appuntamento importante». E attacca ancora Renzi: «Non si può fare il segretario di un secondo partito come secondo lavoro». Pippo Civati, invece, critica Bersani: «Quindi il tentativo di accordo con i 5 Stelle era un diversivo? E poi parliamo di credibilità. Sono senza parole». Sulla legge elettorale riassume così: «Io sostengo il Mattarellum da mesi, ora Cuperlo e Renzi sembrano essersi improvvisamente convertiti. Strano allora che il renziano Franceschini abbia bocciato il Mattarellum e il cuperliano D’Alema siano per il proporzionale».

Repubblica 15.11.13
Renzi sfida D’Alema nei circoli “Voto iscritti, vedremo chi riderà”

Pd diviso sulla riforma elettorale
Epifani contestato dai grillini a Matera, interviene la polizia
di Giovanna Casadio


ROMA — «I primi risultati sono davvero incoraggianti: alcuni dicevano che avremmo perso tra gli iscritti, i primi dati vanno in direzione diversa... ride bene chi ride ultimo». Nella newsletter Matteo Renzi risponde agli “alcuni”, cioè a Gianni Cuperlo, lo sfidante, e soprattutto a Massimo D’Alema. Dall’ex premier e supporter di Cuperlo è arrivato infatti un attacco “alzo zero” al sindaco fiorentino superfavorito nella corsa per la guida del Pd: «Renzi non può pensare di impadronirsi di un partito che in buona parte lo osteggia», aveva sostenuto D’Alema in un’intervista sull’Unità. Ma a tre settimane dalle primarie dell’8 dicembre, e mentre già gli iscritti democratici stanno votando le loro preferenze, lo scontro sui numeri dei congressi locali s’impenna. I renziani dicono di essere al 44% e che Cuperlo è al 39%, Civati e Pittella, gli altri due candidati, rispettivamente al 14 e al 3%. E siamo a 17 mila voti di iscritti. Cifre ribaltate dai cuperliani quando lo scrutinio è a quota 18 mila: «Noi siamo al 42%».
Renzi ritiene la guerra dei numeri una perdita di tempo: «Non è giusto né rispettoso del vostro tempo aggiungere parole a parole, abbiamo parlato anche troppo ». E torna alla carica con la rottamazione, questa volta delle correnti che tengono il partito sotto scacco: vuole un Pd federale e legato ai territori. Cuperlo replica: «Dare il congresso per chiuso non è un esercizio di buonsenso». Civati è convinto di poter fare assai meglio e che comunque Renzi sia in assoluto vantaggio; Pittella invece è certo che quando arriveranno i dati del Sud incalzerà Civati. In questa corsa all’ultimo voto degli iscritti, il timore vero è che i gazebo delle primarie l’8, restino semi vuoti. D’Alema agita lo spauracchio duplice, della scissione e della disaffezione. Lo scontro s’allarga alla legge elettorale. La riforma del Porcellum è palleggiata nella battaglia congressuale e finisce in un pantano. Civati rivendica di essere stato il primo a spendersi per il Mattarellum, che sarebbe la strada percorribile in tempi brevi. «Non fare il primo della classe - bacchetta Cuperlo e i renziani facciano pace con se stessi, sono sempre più contraddittori ». Nel campo di Renzi infatti c’è chi deposita un ordine del giorno pro Mattarellum e chi, come Dario Nardella, avverte dei rischi per la governabilità che quel modello elettorale presenta. Il renziano Roberto Giachetti, da un mese in sciopero della fame anti-Porcellum, accusa Dario Franceschini, pure lui supporter del “rottamatore”, di volere unsuper Porcellum, cosa che Franceschini nega: «È il Mattarellum a portare alle larghe intese per sempre ». Spauracchio di Renzi, il cui manifesto elettorale è: «Voglio “cambiare verso” al partito e all’Italia, vincere e in modo netto, perché se no continueranno gli accordicchi e le larghe intese». Ma con quale maggioranza è possibile l’addio al Porcellum?
Beppe Grillo è convinto che i Democratici vogliano «un super Porcellum, una c... di legge elettorale con un esito solo, ovvero una clausola per fare fuori i 5Stelle, allora non oso immaginare cosa succede», minaccia. Grillo parla aMatera, in piazza. C’è lì anche Epifani in una staffetta che finisce con contestazioni e fischi per il segretario democratico: i grillini lo prendono di mira, gridando “ladri, ladri tutti a casa”. Proteste dei democratici che contraccambiano con “M5S è violento”e interviene anche la polizia. Nello scontro dentro il Pd finisce ieri anche il candidato per l’Agcom: i renziani volevano Sassano, credendo di potere contare sui parlamentari che hanno sottoscritto la candidatura di Renzi; invece passa Antonio Nicita e cioè vince l’asse lettiani-bersaniani.

l’Unità 15.11.13
Legge elettorale, gelo di Epifani e Renzi sul Mattarellum
Il segretario Pd: dobbiamo insistere col doppio turno. Il sindaco sulla stessa linea
Ma Cuperlo e Civati insistono: tornare subito al maggioritario
di Andrea Carugati


Nonostante le aperture di Cuperlo, Civati e una parte consistente dei renziani, il presunto ritorno di fiamma del Pd per il Mattarellum, la legge maggioritaria del 1993, non sembra destinato a produrre risultati concreti. Almeno non nel breve periodo.
«La nostra sul doppio turno è la proposta migliore e non ci rassegniamo», ha spiegato ieri il segretario Epifani. «Bocciarla è stato un errore», ha ribadito. «Conferma che c’è chi non vuole cambiare davvero la legge elettorale. Se Grillo voleva cambiare veramente il Porcellum con una legge che in prima battuta misura il peso di ogni forza politica e con il secondo turno dà il governo che il Paese vuole, poteva tranquillamente sostenere il doppio turno. In realtà, con il voto del M5S in Senato, ha impedito che questa soluzione passasse». Epifani dunque insiste con il doppio turno. E in fondo è la stessa linea di Renzi, che non interviene nel merito, ma resta fermo alla sua proposta da presentare prima delle primarie, e cioè un modello col ballottaggio tra le prime due forze, «come si fa con l’elezione dei sindaci». Tra i renziani, a dire il vero, non mancano le voci di chi, come Roberto Giachetti, Isabella de Monte e Andrea Marcucci, insiste subito per il Mattarellum come «soluzione comunque migliore del Porcellum». Ma Dario Nardella sposa la tesi del ministro Franceschini: «Il Mattarellum va bene per i collegi, ma non risolve la questione della governabilità in uno scenario politico con tre poli come quelli che abbiamo oggi». Nardella va oltre e ricorda le difficoltà delle vecchie coalizioni, dalle desistenze con Rifondazione al problema delle alleanze troppo larghe e rissose che hanno contraddistinto le tre elezioni con il maggioritario. E aggiunge: «Non mi convince l’idea di una legge elettorale transitoria. Bisogna insistere per il doppio turno come soluzione definitiva». Ancora più netto il lettiano Francesco Boccia. «Tornare al Mattarellum è una sciocchezza assoluta».
Sull’altro fronte, Cuperlo e Civati insistono per cambiare subito la legge elettorale. Il primo spiega che «il Mattarellum potrebbe essere oggi la sola alternativa praticabile alla conferma del Porcellum. Il Pd non può stare fermo e rinviare. Epifani deve riunire tutti i candidati per trovare una posizione comune». Civati, che era stato uno dei pochi a sostenere mesi fa la proposta di Giachetti per il ritorno alla legge del 93, rivendica: «Per mesi sono stato da solo, ora tutti sembrano convergere...». «Basta con i primi della classe», risponde Cuperlo. Polemiche anche tra Giachetti e il ministro Franceschini. Spiega il ministro: «Con il maggioritario saremmo condannati alle larghe intese. Io sono per il doppio turno, non voglio limitarmi a correggere il Porcellum». Giachetti, ancora in sciopero della fame, gli dà dello «smemorato» e insiste: «Qui si sta parlando di una legge di salvaguardia, non della soluzione ideale».
Che farà dunque il Pd quando si voterà in Senato l’ordine del giorno della Lega per il ritorno al Mattarellum? In linea teorica, se tutti i membri Pd della commissione Affari costituzionali votassero sì al Mattarellum come «male minore», insieme a Lega, Scelta civica e Sel si arriverebbe alla fatidica maggioranza di 14 senatori, anche con il no di Pdl e M5S. Ma sarebbe comunque solo un ordine del giorno. Il voto comunque non ci sarà prima del 25 novembre. Pochi giorni prima del pronunciamento della Consulta sul Porcellum, il 3 dicembre. L’8 dicembre poi ci saranno le primarie del Pd. Secondo i rumors, poi, la Corte costituzionale non dovrebbe pronunciarsi sul merito prima di gennaio-febbraio. Insomma, il 2013, salvo sorprese, si concluderà con il Porcellum ancora in sella.
Franceschini, e anche il suo collega delle riforme Gaetano Quagliariello, cominciano a riflettere sull’ipotesi di rinviare la legge al termine del percorso delle riforme costituzionali. La commissione dei 40 dovrebbe iniziare i suoi lavori a gennaio. Assai probabile dunque che la discussione sulla legge elettorale si incardini dentro il riassetto istituzionale. Del resto se, come prevedono i saggi, ci sarà una sola Camera ad elezione popolare (mentre il Senato dovrebbe diventare una Camera delle Regioni), il doppio turno potrebbe aumentare le sue chance. Un ragionamento, questo, che potrebbe essere stravolto se la Consulta dovesse abolire il premio di maggioranza del Porcellum, o addirittura resuscitare il Mattarellum. In quel caso, il Parlamento sarebbe costretto a mettersi al lavoro rapidamente. Magari ripartendo dalla Camera, dopo il lungo stallo del Senato.

l’Unità 15.11.13
Caso Cancellieri, Civati: il Pd voti sulle dimissioni


Due settimane il Pd ha confermato al fiducia ad Annamaria Cancellieri, ma i malumori nel partito per quelle telefonate del ministro della Giustizia alla famiglia Ligresti non si sono sopiti. E se Matteo Renzi, a Servizio Pubblico, ha già criticato Gugliemo Epifani per avere difeso la ministra, ora il caso si riscalda di nuovo, dopo la notizia che esistono altre intercettazioni, tra il marito della Cancellieri e i Ligresti e un’altra telefonata della ministra con Antonino Ligresti, che danno nuovi argomenti a chi fin dal primo momento ha sostenuto la necessità di dimissioni della Guardasigilli.
«Chiedo che il gruppo del Pd voti questa decisione al suo interno», è partito all'attacco Pippo Civati, e «siccome oltre a me anche Renzi ha fatto capire di volere le dimissioni del ministro, e siccome lui conta su una larga schiera di deputati (i “suoi” e i fassiniani, i veltroniani, i lettiani, i franceschiniani che lo sostengono), è probabile che la decisione passi».
A favore di una discussione tra i deputati, che si concluda con un voto vincolante, sono anche i renziani. «Si deve pronunciare il gruppo e si deve votare. Poi la decisione si rispetta», ha assicurato Ernesto Carbone, il deputato che per primo chiese a Cancellieri di lasciare il suo scranno. In difficoltà anche molti giovani deputati, entrati alla Camera con le primarie. Come Alessia Morani, una delle animatrici del gruppo dei “non allineati” e ora schierata con Renzi. «Voto con il Pd, ma Cancellieri deve dimettersi», ha spiegato ieri in un videoforum con la Stampa. Ma di là della posizione di Civati, non è affatto detto che l’assemblea dei deputati decida la sfiducia.
Ora, con la mozione di sfiducia dell’Movimento cinquestelle nei confronti della Guardasigilli in arrivo in Aula alla Camera, il capogruppo Roberto Speranza ha raccolto l’appello arrivato da più parti ed è intenzionato a convocare un’assemblea a ridosso del passaggio della mozione a Montecitorio.
Nel fattempo proprio ieri si è deciso di anticipare alla mattina di mercoledì 20 novembre il voto dell’Assemblea della Camera sulla mozione di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia, presentata dai grillini. Lo ha stabilito la conferenza dei capigruppo di Montecitorio, in considerazione della partecipazione della ministra a un vertice internazionale.

il Fatto 15.11.13
Errani e le due auto blu a disposizione
La Guardia di Finanza indaga sull’uso dei veicoli
Il governatore: “Una da presidente, l’altra da consigliere”
di Emiliano Liuzzi


Quattro mandati e tre auto blu. Dalle parti di viale Aldo Moro, a Bologna, sede della Regione Emilia Romagna, lo chiamano mister longevità: è ai piani alti da quando aveva i calzoncini corti e, per la quarta volta, dopo aver fatto il vice di Bersani, Vasco Errani guida la regione che fu rossa e oggi è renziana da dieci stagioni. Senza però inciampare. È finito nella bufera per i soldi alla cooperativa del fratello, assolto in primo grado da un giudice in giudizio abbreviato, ma con ancora una spada di Damocle sulla testa, visto che la Procura ha fatto appello. Questa volta invece si indaga sui viaggi in auto di Errani e dei suoi colleghi consiglieri. Un caso singolare. Il presidente, in quanto tale, ha una vettura a disposizione 365 giorni all'anno con due autisti che si alternano e oltre 100 mila euro di spesa pubblica. Ma tra il 2010 e il 2011 Errani ha fatto pesare sul gruppo, dunque sulla Regione, altri 20 mila euro per un secondo noleggio, questa volta in veste di consigliere. E i magistrati, che da mesi spulciano i conti dei partiti, hanno chiesto alla Guardia di finanza se su quell'auto salisse Errani o qualcun altro per lui o mandato da lui. "Aspettiamo una risposta", dicono fonti vicine agli inquirenti, "questo è proprio quello che vogliamo sapere, se era davvero lui a usare l'autonoleggio Cosepuri".
ERRANI, da parte sua, ha già risposto: "Una cosa sono gli impegni da presidente, altra cosa sono quelli da consigliere regionale nel gruppo Pd. Altra cosa ancora (e dunque altra auto, ndr) gli impegni di partito". Ma il capitolo è tutt’altro che chiuso. Perché Errani è il consigliere pd che ha speso di più per l'auto, 20 mila euro in 14 mesi, e la destinazione per l'autista è spesso stata Ravenna, guarda caso dove vive. Casualità, fa sapere il previdentissimo, che è anche presidente della Conferenza delle regioni, commissario straordinario per il terremoto e braccio destro di Bersani in quella che doveva essere una scalata verso il governo e si è trasformata in un naufragio. Ma nel partito, soprattutto con la gestione Epifani, Errani è uno che conta e non ha nessuna voglia di ammainare bandiera: nel 2015 scade il suo mandato e deve trovare una collocazione. Avrebbe fatto il ministro, ma poi è andata come è andata e lui comunque resta uno degli ultimi bersaniani in circolazione. "Sui costi delle auto a noleggio sono assolutamente tranquillo", dice. "Stiamo parlando di uno strumento di lavoro: per adempiere ai miei compiti, spostarmi da una parte all’altra della regione è normale e anzi, se non lo facessi, non farei bene il mio lavoro, con l’intensità e l’impegno che sono noti a tutti". Resta il dato che il capogruppo del Pd, l'uomo che era più vicino a Errani, Marco Monari, si è già dimesso per le spese pazze coi soldi della Regione: 30 mila euro soltanto in cene a suo nome.
E dovevano essere delle grandi abbuffate, più che altro. Ma non solo. Il gruppo Pd in totale ha speso in ristoranti 145 mila euro. Meno dei 220 mila del Pdl, ma più dei 53 mila della Lega Nord, dei 18 mila del Movimento 5 Stelle e dei 6 mila dall’Udc. Inoltre per le festività natalizie del 2010 quasi nessuno ha badato a spese e anche il Pd ha comprato agende, parmigiano reggiano, spumante Ferrari, zamponi e panettoni per 8 mila euro. E poi ci sono le auto blu e i taxi: il solo gruppo dei democratici in 19 mesi ha speso 85 mila euro. Il governatore era in buona compagnia.

l’Unità 15.11.13
Cose di sinistra
Il Pd stia attento, l’8 dicembre non finisce la storia
L’«americanizzazione» del Pd è sbagliata
Non ci serve un partito elettorale senza identità
La sinistra conta poco perché non mette in campo una chiara distanza tra «noi» e «loro»
di Alfredo Reichlin


Il modo come si sta svolgendo il congresso del Partito democratico suscita in me seri interrogativi. Si conferma a mio parere l’errore di un vecchio disegno di «americanizzazione» del partito.
Cioè un modello di partito «pigliatutto», elettorale, senza identità culturale e senza storia. Tutto ci dice che questo modello non funziona e quanto sia profonda la svolta anche etica che è necessaria. È la ragione per cui Gianni Cuperlo mi sembra il segretario più adatto. Gli episodi (pochi?) di «truppe cammellate» portate a votare per falsare i risultati ci dicono quanto questa svolta sia urgente. Non mi piace la falsa indignazione di certi «indignati». Quale ipocrisia. Certo, pesano gli errori che abbiamo fatto noi, ma mi viene voglia di dire: non era questo che volevate? A cosa tende la martellante campagna contro questo «vecchiume» che sarebbe il partito organizzato, basato su una comunità sia pure aperta ma che sta insieme per ragioni politiche e ideali? È grave questo disprezzo verso i famosi «apparati», i quali semplicemente non esistono. Esistono invece, ancora (ma per quanto?) migliaia di militanti che tengono in vita i circoli e anche lo scheletro minimo del partito insieme a pochi funzionari e segretarie pagati poco e con mesi di ritardo. Esiste (anche nel mio circolo) un gruppo di volontari i quali cercano spesso i soldi per pagare la luce.
Così stanno le cose. Stanno nel senso che si è creato uno squilibrio enorme tra la povertà del partito come comunità politica volontaria, e la potenza del potere economico. Penso a quei «quasi partiti» che sono diventati in Italia i 3-4 grandi complessi editoriali (giornali e tv). Sono questi oggi i veri partiti personali, proprietà di pochi notissimi miliardari. In questi partiti non si fanno «primarie», ma si pretende di scegliere il segretario del Pd. Conosco la risposta: è la libertà di stampa, bellezza. Lo so. C’è però un problema di democrazia.
La democrazia. Dopotutto è questa la partita che si gioca al congresso del Pd. Rispettiamo tutti i sondaggi ma penso che prima o poi verrà fuori il bisogno di una democrazia più avanzata, più aperta e più partecipata. Più capace di portare a compimento la rivoluzione democratica italiana avviata tanti anni fa dall’antifascismo e definita negli articoli della Carta costituzionale e poi messa in causa dai fatti e dalle persone che sappiamo. Mi sembra questo, caro Fioroni, il patto fondativo del partito che non a caso chiamammo democratico. Un partito, non un comitato elettorale nel quale gli epigoni del socialismo e quelli del riformismo cattolico si univano non per diventare più moderati ma per realizzare i propri ideali andando oltre i vecchi confini delle vecchie ideologie. Questo voleva essere il Pd, un partito nuovo che rappresentava anche la sinistra democratica e occupava il suo spazio. Le parole valgono quello che valgono ma se la parola «sinistra» fa paura, io allora la rilancio perché mi sembra che diventi sempre più attuale.
State attenti amici a non sbagliare. La storia non finirà l’otto dicembre. La sinistra italiana non è un reperto del Novecento, non è un prodotto scaduto perché fuori del tempo. Qui è il vostro sbaglio. Quale tempo? Certo, lo vediamo, questo è anche il tempo del populismo e della democrazia ridotta a sondaggio. Ma è pure il tempo di quelle sfide nuove ed enormi che stanno cambiando il destino degli europei.
Quale idea di sé e del suo ruolo ha una sinistra moderna? Questo mi sembra il problema che le cose stanno riproponendo sia in Italia che in Europa. È chiarissimo: la destra non riesce più a difendere il progetto europeo, e sta mettendo in pericolo perfino l’euro. Occorre una svolta. Non solo una immagine. Del resto l’attacco così violento che è in atto (li guardate i talk show televisivi?) volto a delegittimare il Pd e a giustificare Grillo come si spiega se non col fatto che l’Italia è giunta a un punto che rende inevitabile prima o poi una svolta? Berlusconi è giunto al termine della sua corsa e ciò apre nuove prospettive. D’altra parte il governo delle «larghe intese» non è eterno. In che direzione andrà il cambiamento? La presenza di una forza pur così malconcia come la nostra, e tuttavia diversa e relativamente autonoma rispetto ai poteri dominanti, presenta un rischio. Per loro. Per noi invece è una grande occasione. Però bisognerebbe coglierla. Ecco perchè io dico che l’8 dicembre non è la fine della storia. Il gioco è più lungo. L’importante è che la sinistra acquisti una più forte coscienza di sé nel mondo di oggi. Sarebbe positivo per tutti i democratici che si crei un insieme di forze politiche e culturali decise ad uscire dalla confusione e dall’incertezza di questi anni. Una forza convinta della necessità che all’interno delle regole di un partito plurale come il Pd una nuova sinistra moderna abbia una sua voce forte. È interesse di tutti riempire il vuoto lasciato dal fallimento disastroso del pensiero conservatore e neo-liberista. In caso contrario penserà a riempire questo vuoto una torbida ondata di protesta e di populismo.
Vogliamo tornare a vincere? Certo, ma per vincere bisogna fare i conti con la realtà. E allora siamo semplici. Allora non bastano le chiacchiere, bisogna partire dalla catastrofe del capitalismo finanziario e dalle sofferenze inaudite che ciò sta imponendo agli uomini e alle donne in carne ed ossa. Voi pensate che sia vetero comunismo partire dalla tragedia che sta vivendo la nuova generazione, messa ai margini, esclusa dal mondo del lavoro? Di che parliamo? Certo, anche di Renzi, come di Cuperlo e con molto rispetto. Ma sapendo che la sinistra è in crisi non perché è vecchia rispetto a Twitter ma perché non osa partire da qui, dal popolo, dalle sofferenze umane, dalle ingiustizie sociali. La sinistra conta poco non solo perché non è alla moda ma perché non si riorganizza per mettere in campo una nuova soggettività, una chiara distanza tra «noi» e «loro». Parlo della potenza soverchiante di una oligarchia finanziaria che si arricchisce stampando anche moneta fasulla. Il mondo inondato di debiti e una gigantesca rendita finanziaria che si mangia la ricchezza reale e costringe la povera gente a stringere la cinta per finanziare i lussi inauditi di una oligarchia. Non può più durare.
Rileggo queste mie parole e mi spavento. Sono diventato un estremista? Eppure io non voglio tutto o niente. Capisco tutte le tattiche e i compromessi necessari. Sento però acutamente il bisogno di risvegliare la mia e le nostre coscienze. Penso che senza una più alta coscienza delle cose e delle sfide nuove non si va da nessuna parte. Il tema di fondo è ormai chiaro. Se non si afferma un partito europeo che affronti la questione di come cambiare la politica che sta portando al declino il vecchio Continente, l’Italia non avrà futuro. È da ciechi non vedere che questo dovrebbe essere il centro del congresso del Pd.

il Fatto 15.11.13
Tormento Pd: chi voleva le larghe intese?
Il lapsus di Letta: Bersani non aveva speranze con Grillo
E D’Alema evoca la scissione del partito
di Wanda Marra


Esiste questo governo perché prima c'era stato il tentativo di Bersani. Il quale si è anche immolato dimostrando che un'altra ipotesi non era concretamente percorribile”. Enrico Letta al Tempio di Adriano, l’altroieri, durante la presentazione di Giorni Bugiardi, il libro che ricostruisce le vicende che portarono dalle primarie dello scorso anno alla rielezione di Napolitano, scritto da Chiara Geloni e Stefano Di Traglia, collaboratori dell’ex segretario democratico, rende il consueto omaggio all’ “amico Pier Luigi”, per non avergli sbarrato la strada per Palazzo Chigi, anzi per averlo appoggiato e sostenuto. Manifestazioni di affettuosa stima che i due si rinnovano in ogni occasione. Ieri però le parole del premier sono sembrate a molti una riscrittura della storia. Di più, un’ammissione: che il tanto sbandierato governo di cambiamento fosse in realtà una messa in scena per arrivare all’esecutivo di larghe intese. La denuncia arriva da Pippo Civati, che estende il sospetto allo stesso Bersani (che al Tempio di Adriano ha sottolineato “dovevamo provarci”): “Era un diversivo: mica potevamo dirlo subito che andavamo con Berlusconi. Io non ho parole. Ci sbugiardiamo da soli”. Scrive nell’editoriale su Europa, Stefano Meni-chini: “Sarebbe molto scocciante dover dare ragione postuma a Grillo. Vorrebbe anche dire che perfino lo scandalo menato sui 101 sia stato strumentale. Non possiamo pensare cose del genere né di Bersani né di Letta. Preferiamo altre ipotesi. Tipo che solo uno dei due interpretasse il governo di cambiamento come l’avventura di un kamikaze”.
L’ACCUSA nei confronti di Letta è pesante. E illumina una parte della verità: che il premier fosse molto meno convinto dell’allora segretario della praticabilità di un governo con Grillo. Ugo Sposetti, da molti indicato come quello che organizzò il voto contro Prodi per conto di D’Alema, dice la sua: “Adesso lo racconto io come sono andate le cose, scrivo io un libro”. Di certo, sarebbe interessante visto che la vulgata vuole i dalemiani in prima fila tra i traditori e Geloni e Di Traglia individuano in Matteo Renzi l’altro “colpevole” numero uno. Nell’ultimo libro di Marco Damilano c’è un virgolettato del pomeriggio in cui Prodi venne affossato di Vaccaro, uno dei fedelissimi di Letta: “Come finisce? Stasera salta Prodi, sarà rieletto Napolitano che incaricherà Letta di fare un nuovo governo”. In una storia in cui ognuno racconta la sua verità ogni indizio getta una luce sinistra sugli altri. Ieri la Geloni ha scritto addirittura un blog per smentire le interpretazioni delle parole di Letta. Mentre si attende la versione di D’Alema sul passato quella sul presente e sul prossimo futuro fa discutere. Renziani e cuperliani si combattono rivendicando la primazia tra gli iscritti. “Ride bene chi ride ultimo”, dice il Sindaco. E in un’intervista a l’Unità il Lìder Maximo avverte: “La partita non è chiusa”. E comunque: “Se Renzi dovesse diventare segretario non potrà pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia”. Di più: “Può esserci il rischio che una parte del Pd non si senta più nelle condizioni di viverci dentro”. Fantasmi di scissione. “Chissà perché quando D’Alema perde congresso subito evoca scissione. Mi ricorda quelli che quando perdevano si portavano via il pallone”, scrive su twitter il renziano Rughetti. Nella battaglia congressuale finisce anche Flavio Briatore. D’Alema chiede provocatoriamente. “Poi i gazebo chi li smonta, Flavio Briatore?”. L’’imprenditore contrattacca: "Caro D’Alema, io i gazebo li saprei smontare ma non credo che tu saresti capace a montarli".

La Stampa 15.11.13
Partorito con l’utero in affitto
Il bimbo viene tolto alla coppia Crema, la donna dichiara di essere la mamma biologica ma il test del dna la smaschera
Maternità surrogata, un sogno “all inclusive” da 30 mila euro
In Italia è vietata Aumentano i viaggi nei Paesi in cui è ritenuta legale
di Stefano Rizzato


MILANO Il termine tecnico, più delicato rispetto a “utero in affitto”, è maternità surrogata. Due parole che si portano dietro una complessa questione etica e politica, un gomitolo legale difficile da sciogliere e un turismo internazionale della fertilità. Dati ufficiali non ne esistono. Ma tutti gli osservatori concordano nel definirlo un fenomeno in crescita. Ormai centinaia di coppie scelgono di avere un figlio così: con gli ovuli di una donna – la “donatrice” – e il grembo di un’altra donna, che accetta di affrontare la gravidanza.
Si fa per problemi di sterilità o di salute, ma il metodo è usato anche da alcuni genitori omosessuali che desiderano un figlio. In Italia, qualunque sia la ragione, non si può fare. E così aspiranti mamme e papà partono per i Paesi dov’è legale: l’India, alcuni degli Stati americani e del Canada. E poi quelli più vicini e gettonati, Russia, Ucraina e Georgia. In teoria, si potrebbe anche in Inghilterra, ma solo senza passaggi di denaro e con tante limitazioni.
In tutti gli altri Paesi ovuli e uteri si affittano davvero. Pagando. «Per l’Ucraina servono circa 50 mila euro, ma ci sono “pacchetti” anche per 30 mila euro», spiega l’avvocato Ezio Menzione, che da anni si occupa delle maternità surrogate. «Negli Stati Uniti costa almeno 100 mila dollari: il servizio, per così dire, è migliore e non ci sono intoppi legali, visto che il bambino, grazie allo ius soli, nasce cittadino americano».
In India si scende fino a 20 mila dollari e infatti il settore macina 400 milioni di dollari l’anno, con oltre 3mila cliniche specializzate. Fin troppo per Nuova Delhi, che ha già chiuso le porte alle coppie omosessuali. Il turismo della maternità è invece in piena espansione a Est. Lo dimostrano siti Web come il russo surrogacy.ru, che in sei lingue celebra la bontà delle madri surrogate locali e sconsiglia di prendere in affitto un utero ucraino.
«I problemi legali – dice Menzione nascono al momento di registrare allo stato civile italiano il figlio avuto all’estero, secondo le leggi del posto, da una mamma surrogata. Ogni figlio nato in Ucraina riceve un certificato da apolide e per rimpatriarlo bisogna andare all’ambasciata italiana a Kiev. Lì, da qualche anno segnalano i casi di questo tipo alla Procura della Repubblica».
Da qui le denunce contro le coppie che hanno scelto la strada dell’Est per diventare genitori. Spiega l’avvocato: «È stata ripescata una vecchia norma, dei tempi in cui si facevano fare i figli alla serva: l’articolo 567 del Codice penale, che punisce con pene quasi da omicidio da 5 a 15 anni ogni falsa certificazione di nascita. Ma finora ci sono state 14 pronunce tutte di proscioglimento o archiviazione. Alla fine, la legge italiana è costretta a prendere atto di un documento perfettamente legittimo emesso dalle autorità ucraine. Resta però l’incubo di un procedimento penale, delle perquisizioni alle 7 di mattina. Tutto per avere diritti che in Italia non sono riconosciuti».

La Stampa 15.11.13
Aborto, chi sono i medici non obiettori e perché lo fanno
Solo una minoranza pratica l’interruzione di gravidanza E le motivazioni sono diverse, come le vicende personali
Come funziona Dire di no è molto semplice basta comunicarlo al primario; chi dice di sì rinuncia alla carriera e agli interventi difficili
Percentuali In alcune regioni del Sud gli obiettori
sono circa il 90% dei ginecologi, la media nazionale è attestata intorno al 70 per cento
di Mariella Gramaglia

Sembra incredibile, nel Paese della burocrazia. Niente elenchi, niente lettere, niente spiegazione delle motivazioni. Niente di niente. Non
a caso il 7 ottobre l’Udi (Unione donne d’Italia), associazione storica del femminismo, invia una lettera aperta alla ministra della Sanità Beatrice Lorenzin in cui chiede se è vero che il personale sanitario può obiettare alla legge 194 con una comunicazione orale al primario. Dal ministero è silenzio.
Se gli italiani che dicono di andare a Messa tutte le domeniche sono il 30% e quelli che ci vanno davvero il 15 (ricerca pubblicata su «Polis» nel 2010), si spiega così una piccola quota di obiezione. E non del tutto, perché ci sono medici cattolici che vivono l’applicazione della 194 come «atto di accoglienza». E gli altri, che sfiorano il 70% a livello nazionale e toccano il 90% in alcune regioni del Sud? Forse qualche crisi morale, ma soprattutto il rifiuto di fare un lavoro duro, che non dà il gusto dell’emulazione perché è tecnicamente semplice, ed emargina. Non c’è tempo per altro, non ti chiamano nelle operazioni difficili, perdi le occasioni di aggiornamento, insomma, sei un medico di serie B. Dunque, così come le regioni (che devono garantire l’aborto) fanno ognuna come le pare, anche i medici sono un universo variegato, imprevedibile. Vediamolo.
LE STORIE: QUI

Corriere 15.11.13
La bimba di tre anni in affido temporaneo a due omosessuali
Il giudice: ci sono benessere e serenità
di Amelia Esposito


BOLOGNA — Nella città che nel lontano 1982, prima in Italia, concesse a un’associazione gay, il «Circolo di cultura omosessuale XXVIII Giugno», una sede ufficiale, e proprio fra le mura di quella Porta Saragozza dalla quale da decenni passa la processione della Madonna di San Luca, oggi il Tribunale minorile concede in affidamento temporaneo una bambina di tre anni a una coppia omosessuale.
Siamo a Bologna. Una città ancora capace di distinguersi per un’attenzione particolare, nel dibattito, ai diritti civili. Soprattutto per quelli degli omosessuali. Soltanto che questa volta non è una giunta rossa a far parlare di sé, ma il Tribunale presieduto dal giudice Giuseppe Spadaro. E c’è da scommettere che la sua decisione farà discutere.
La coppia affidataria non vive nel capoluogo dell’Emilia Romagna, ma in un’altra città della regione. Si tratta di due uomini di mezza età, con un lavoro e un buon reddito, che convivono da tempo. Sono una coppia stabile e affidabile, secondo i servizi sociali, che hanno espresso parere favorevole al provvedimento. L’altra protagonista è una bambina di tre anni, che vive nella stessa città emiliana e che conosce bene i due gay. Li frequenta da tempo ed è talmente affezionata a loro da chiamarli «zii» sebbene non vi sia alcun legame di parentela. Insomma, i servizi, prima, e i giudici, poi, hanno ritenuto che ci fossero tutte le condizioni di benessere e serenità richieste dalla legge.
C’è questa constatazione — frutto di approfondite istruttorie — alla base della scelta del Tribunale minorile di Bologna, che si è mosso nel solco di una legge più fluida di quella sulle adozioni. Una legge dalle maglie molto più larghe. L’adozione recide il legame con i genitori naturali. L’affidamento temporaneo no. L’obiettivo dell’affidamento temporaneo, infatti, è esclusivamente la tutela del minorenne, che spesso continua a frequentare i suoi genitori. E se per le adozioni la legge italiana parla espressamente di coppia sposata, per l’affidamento è previsto che la nuova famiglia possa essere una coppia tradizionale, meglio se con altri figli minori in casa, ma anche una «comunità di tipo famigliare» — formata da due persone che assolvono alla funzione di genitori — o anche un single. Non c’è una voce specifica per le coppie omosessuali, ma neppure nessun passaggio che le escluda.
D’altro canto, lo scorso gennaio, la Corte di Cassazione ha sancito il diritto dei gay a ottenere in affido un minorenne. Per i giudici supremi, sostenere che «sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale» è un «mero pregiudizio». Certo, questo è un caso diverso da quello bolognese: si tratta dell’affido di un bimbo alla sua mamma biologica, che convive con un’altra donna. Diversa, ancora più delicata, è la vicenda trattata ora dal Tribunale minorile di Bologna, perché non esistono legami di parentela fra la piccola e gli adulti. La coppia, tra l’altro, non era stata considerata all’altezza del compito dalla Procura minorile del capoluogo emiliano, che si era opposta all’affidamento temporaneo. E che magari, a questo punto, potrebbe anche decidere di impugnare il provvedimento.
Ma intanto, in un’altra città della pianura emiliana, ci sono due omosessuali che festeggiano e una bambina che presto andrà a vivere assieme ai suoi «zii».
Amelia Esposito

Corriere 15.11.13
La bimba affidata a una coppia gay ora però servono norme più chiare
di Paolo Conti


Dunque, a Bologna è possibile. Una coppia gay può ottenere in affidamento dal tribunale minorile una bambina di tre anni perché offre tutte le garanzie di sicurezza e stabilità richieste dalla legge in questi casi. Il sesso dei due componenti della coppia diventa un elemento ininfluente.
Tutto bene? Naturalmente dipende dai punti di vista, qui le opinioni possono dividersi. Ma non è questo il punto, che riguarda un dibattito ancora aperto, almeno qui in Italia. La vera questione, che riguarda il principio della piena parità di diritti tra i cittadini prevista dalla Costituzione, è che in assenza di regole chiare e di una legislazione trasparente e sicura, prospera ciò che stiamo vedendo: un florilegio di sentenze diverse tra loro, una grande quantità di soluzioni e di varianti. Che sicuramente regalano molto lavoro ad attrezzatissimi studi legali esperti in diritto anche internazionale sparsi per la penisola (e lo stesso vale, nemmeno a dirlo, per il nodo delle infinite declinazioni della fecondazione).
Sentenze e disposizioni pienamente legittime, nessuno vuole sostenere il contrario. E magari anche ben motivate, come si può immaginare sia avvenuto nel caso della disposizione del tribunale minorile bolognese presieduto da Giuseppe Spadaro.
Ma diventa ogni giorno di più necessario un riferimento legislativo unico che stabilisca direttive e principi davvero uguali per tutti, dalla Val d’Aosta a Trapani. Proprio ieri, per esempio, il sindaco di Roma, Ignazio Marino, si è detto favorevole in via di principio ai matrimoni gay e alla possibilità di adottare bambini da parte di coppie dello stesso sesso. Ma è, tecnicamente, un’opinione.
Sarebbe tempo se la politica, mettendo finalmente da parte divisioni preconcette, decidesse di assicurare un quadro normativo a una questione che riguarda migliaia e migliaia di italiani. Perché poi, alla fine, a rischiare di rimetterci sono sempre loro, i più deboli: i bambini. Privi di certezze anche quando si tratta di essere adottati o «affidati».

Corriere 15.11.13
Classi uniche, uguaglianza illusoria
di Michele Zappella


Caro direttore, Monique è una ragazza di quindici anni che viene dal Centro-Africa. Alta, il viso ovale, con quel tratto di melanconia che a volte hanno i ragazzi che vanno male a scuola, al suo arrivo in Italia a 10 anni venne subito messa in una quinta elementare, quando ancora non conosceva la nostra lingua e quindi non capiva nulla di quello che si diceva nella sua classe. Figuriamoci poi come socializzava! Nel suo Paese di origine, in una scuola di lingua francese, aveva un buon profitto scolastico, ma dopo l’ingresso nella scuola italiana tutto è stato difficile: le medie le ha fatte stentatamente e alla prima superiore è stata bocciata. Ora ha cambiato indirizzo, è di nuovo in un’altra prima superiore. Le dò qualcosa da leggere e la lettura formale è subito piena di intoppi e di errori: in queste condizioni leggere è una fatica improba e tuttavia riesce ugualmente a capire il significato del breve brano che le ho proposto, probabilmente perché ha una buona intelligenza. Anche nel parlare non è completamente padrona dell’italiano che nessuno le ha insegnato seriamente. Mi è stata portata in visita perché disattenta, ma di un problema specifico non c’è traccia: è comprensibile che non conoscendo bene la nostra lingua la sua attenzione a scuola sia poco costante.
Mi sembra chiaro che per Monique la nostra scuola ha organizzato un percorso che le prepara un futuro uguale al presente dei suoi genitori, poveri immigrati: si prepari a fare la badante o a pulire i pavimenti delle case dei bianchi italiani. E così per tutti gli altri figli di immigrati stranieri: restino nel posto destinato ai loro genitori, e sul piano lavorativo rimangano cittadini di serie B.
Come Monique c’è un milione di ragazze e ragazzi figli di immigrati nelle nostre scuole; e alcuni vengono da Paesi come la Cina, l’Ucraina, la Russia dove la lingua è diversissima dalla nostra. Vengono accolti nello stessa maniera di Monique: messi subito in classe con gli altri, al massimo poche ore di insegnamento d’italiano. Per il resto del tempo possono navigare, specialmente all’inizio, nella più completa oscurità linguistica e senza conoscere una parola di italiano dovrebbero seguire le spiegazioni di matematica, storia, scienze e delle altre materie. Ecco perché condivido in pieno l’iniziativa della scuola di Bologna, che ha istituito una classe apposita per far apprendere l’italiano a un gruppo di ragazzi stranieri, per poi inserirli al momento opportuno in una classe normale. Invece, una direttiva della passata gestione del ministero della Pubblica istruzione per i figli degli immigrati propone che «le due ore di insegnamento della seconda lingua nella scuola secondaria di primo grado possano essere utilizzate anche per potenziare l’uso della lingua italiana», come se conoscere poco o affatto la lingua parlata in classe fosse poca cosa che si può risolvere con un paio d’ore in più la settimana.
Ma cosa succede negli altri Paesi dell’Europa? In Finlandia, per fare un solo esempio, l’accoglienza scolastica è del tutto diversa: i ragazzi immigrati vengono inizialmente messi a studiare soltanto il finlandese e ogni due mesi, in relazione alle migliori capacità nel padroneggiare la nuova lingua, sono gradualmente integrati con gli altri: nella musica, nel disegno, nella ginnastica, e poi nell’ultima parte dell’anno in tutto, ormai uguali agli altri.
È un paradosso: ma la curiosa «integrazione» che la nostra scuola propone ai figli degli immigrati in realtà li emargina in classe a causa delle gravi difficoltà a comunicare con i compagni e prepara per loro un destino di emarginazione sociale e lavorativa. Precisamente come quarant’anni fa facevano le scuole differenziali e speciali, che prendevano i figli dei nostri emigrati dal sud. Erano bambini normali, il cui limite era soltanto nel dialetto e nella deprivazione culturale familiare, ma venivano messi in classi in cui poteva succedere che la prima si dovesse fare due volte, nello stesso modo la seconda, e così via: catalogati insieme ai disabili, ricevevano un tipo di educazione impoverito che li condannava nel futuro a un percorso lavorativo di quart’ordine. Un risultato analogo viene prospettato nell’oggi per i figli degli immigrati stranieri, anch’essi bambini normali il cui limite è solo nel non conoscere la lingua del Paese che li accoglie.
A ben guardare, l’atteggiamento della scuola verso i disabili e quello verso gli immigrati hanno un tratto in comune, quello di prevedere una soluzione valida per tutti, sempre per la paura «che si sentano esclusi». E la soluzione è «tutti in classe», senza tener conto delle diverse esigenze, per esempio dell’insofferenza al rumore di molti bambini autistici, o, appunto, della necessità di imparare la lingua italiana per seguire le lezioni.
C’è, quindi, l’esigenza di organizzarsi in modo che nella scuola l’obiettivo prioritario sia quello di dare a ogni bambino e ragazzo un percorso educativo adeguato ai suoi bisogni, presenti e futuri: negare questo diritto è la forma peggiore di esclusione.
Neuropsichiatra dell’età evolutiva

Repubblica 15.11.13
Processo alla Germania
Perché l’Europa ha paura di Berlino
Aperta un’inchiesta sui surplus tedeschi, l’Europa richiama il governo Merkel al principio di solidarietà, quello che ha salvato i tedeschi dopo il ’45
Dopo il ’45 la Germania fu riaccolta dalle democrazie e cominciò un’ascesa che ha toccato l’acme in questi anni di grande crisi
Oggi dimentica quella solidarietà e impone agli altri Paesi dogmi economici insopportabili
di Barbara Spinelli


Conviene sempre guardarsi indietro e riscoprire da dove veniamo, quando una crisi economica, politica, anche mentale, tende ad avvitarsi e incancrenire. Conviene sapere come e perché ebbe inizio l’unificazione europea, dopo una guerra che devastò il continente. Come la Germania fu riaccolta dalle democrazie, rilegittimata, e potendo rialzarsi conobbe una formidabile ascesa economica. Come infine quest’ascesa ha toccato l’acme, nella grande crisi degli ultimi anni. Una crisi che minaccia l’Unione, la sua moneta unica, e perfino la sua pace interna.
Cominciò dopo il ’45 con la saggezza del vinto, e anche dei paesi vincitori. Il vinto fu saggio perché seppellì il morbo nazionalista, la dismisura del suo desiderio di dominio sull’Europa: ne scaturì quella che in Germania viene chiamata Gedächtnispolitik, politica della memoria. Le più svariate decisioni interne, e la grande apertura all’unificarsi dell’Europa, discendevano tutte dalla scelta, indefessa, di ricordare il passato, di farsi una nuova pelle, di abbandonare la sovranità nazionale assoluta che aveva distrutto gli Europei mettendo fine alla loro centralità mondiale.
Ma ci fu anche la saggezza dei vincitori. Le insanie del primo dopoguerra non si ripeterono. Se l’obiettivo era la pace duratura fra i popoli, e la lotta alla povertà che di tale pace era essenziale presupposto, le vecchie politiche punitive inflitte al vinto andavano bandite. Messo a tacere, emarginato, John Maynard Keynes aveva inveito contro la strategia del castigo fin dalle trattative di pace a Versailles, nel 1919. Fu ascoltato solo nel secondo dopoguerra: a partire dal ’44-45 videro successivamente la luce gli accordi monetari di Bretton Woods, il Piano Marshall di aiuti all’Europa, la remissione dei debiti tedeschi nella Conferenza di Londra nel ’53 e, in concomitanza, il formarsi della Comunità europea.
Di lì bisogna ripartire, davanti a quel bivio siamo di nuovo: ma smarriti, senza più la bussola di storiche lezioni. In Germania soprattutto la memoria sembra come impazzita. Resta più viva che altrove (incomparabilmente più che in Italia) ma fortemente manomessa, quasi fosse mutilata. I dodici anni del nazismo sono costantemente ricordati, ma non come si scivolò nell’orrore, non come al disastro dell’inflazione s’aggiunse quello della deflazione, non la sapienza con cui se ne uscì, dopo il ’45.
Si scivolò nell’orrore per vari motivi (culturali, politici, psicologici) ma anche per condotte economiche folli. Alla crisi del ’29, gli ultimi governi di Weimar sfiniti dal trauma inflazionistico e dalle riparazioni risposero — specie sotto il cancelliere Brüning, nel ’30-32 — con una pesante deflazione che impoverì ancor più la popolazione. Esattamente come accade oggi, i dottrinari dell’austerità puntarono tutto sull’esportazione, trascurando i consumi interni. Stremato, il paese che aveva dato a Hitler il 18,3 per cento nel 1930 gliene diede il 33 nel ’32 e il 43,9 nel ’33, cadendo nelle mani del demagogo che prometteva lavoro, benessere e sangue. Deutschland über alles divenne il motto: la Germania sopra ogni cosa.
Tutto questo ebbe fine. Il primo Cancelliere del dopoguerra, Adenauer, scelse l’Europa e la pace con Francia di De Gaulle. Seguì, abbiamo visto, la lungimiranza dei vincitori: nel ’53, ben 65 Stati consentirono al taglio dei debiti di guerra tedeschi (fra essi Italia e Grecia, paese-cavia delle odierne politiche di compressione dei redditi), permettendo ai tedeschi lo straordinario miracolo dei decenni successivi. Sulla genesi di quel miracolo è caduto l’oblio, e lo stesso oblio spiega il perché di una leadership tedesca che di fatto esiste, ma non viene assunta con lungimirante solidarietà, oltre che con esigente senso di responsabilità.
In realtà alcune dottrine economiche dei vecchi tempi persistevano, e persistono. In particolare la dottrina cui vien dato il nome di “casa in ordine”: prima chescatti la cooperazione internazionale o sovranazionale, occorre che ogni paese metta a posto da solo i propri conti. Il cosiddetto ordoliberalismo aveva messo le radici fra le due guerre nella scuola di Friburgo, fu sposato dopo il ’45 dal futuro cancelliere Erhard, e negli ultimi sei anni di crisi ha assunto le fattezze di un dogma. Sappiamo come i dogmi chiudano la mente alle alternative, nonché alle soluzioni. L’offensiva di gran parte delle élite tedesche contro la Banca centrale europea è l’effetto di questa dottrina, ancora sotterraneamente intrisa di nazionalismo.
Sono anni che a proposito dell’Europa ascoltiamo una leggenda che non ha più senso. L’Unione non sarebbe più quella degli esordi, quando la questione centrale, dopo il conflitto di trent’anni del 1914-1945, era per ogni cittadino la pace e la guerra, la dittatura e la democrazia. Ora non più così, guerre e dittature non sarebbero più concepibili. Inane leggenda: anche la crisi è una sorta di guerra, e bellicoso è oggi il rapporto tra le nazioni europee, fondato com’è su reciproci sospetti, su risentimenti, sulla dialettica letale fra delitto e castigo, fra colpevolizzazione e espiazione. In tedesco Schuld significa colpa, e anche debito.
Della colpa del debito gli Stati europei devono lavarsi — sostiene Berlino — prima che intervenga l’Europa con solidali piani comuni di salvataggi, e innanzitutto investimenti. Anche se il boom delle esportazioni, provenienti negli ultimi sei anni dalla Germania, ha contribuito grandemente al formarsi di bolle finanziarie nella periferia Sud, in ragione di ingenti flussi di capitali non compensati da adeguate importazioni. Lo spiega bene l’economista Ulrich Schäfer, sulla Sueddeutsche Zeitung del 13 novembre: le critiche di questi giorni all’irresistibile export tedesco — della Commissione europea, del Fondo monetario, del Sud Europa — «sono giustificate», e grave è la sordità tedesca. È un boom che in Germania s’accompagna a bassi consumi, al precariato che cresce, a gracili importazioni: dunque a un’incuria verso l’Unione. Gli errori commessi negli anni ’30 tendono a riprodursi.
Fare l’Europa resta un caposaldo della politica tedesca, ma spesso è più flatus vocis che realtà. Gli stessi accenni ripetuti a uno sviluppo federale dell’Unione sono spesso inconsistenti, anche se è vera la principale obiezione di Berlino: il cruciale ostacolo alla Federazione viene dalla Francia (destra e sinistra comprese), attaccata al dogma della sovranità politico militare come la Germania è attaccata ai dogmi economici.
Uscire dall’impasse è possibile se la memoria si rimette in moto. Se ancora una volta i paesi vinti — schiacciati dal debito — vengono sorretti da una cooperazione internazionale che si attivi durante, non dopo i “compiti a casa”. Se si opera perché i compiti mutino natura, e non si arrivi a guarire quando gran parte dei pazienti è già morta da tempo. È quel che Keynes temeva nel 1919. Lo stesso dovrebbe temere Berlino, oggi, per l’Unione che guida e non guida.
Come allora, l’Europa ha bisogno di un piano Marshall (lo propongono i sindacati in Germania) e di una conferenza sul debito delle periferie Sud, simile a quella che nel ’53 cancellò generosamente i debiti tedeschi. Ha bisogno che finisca l’età dei dogmi e dei finti sovrani nazionali, a Berlino come a Parigi. Perché in quei dogmi è il suo male; è l’origine della sua presente prigionia nella smemoratezza e nel peccato di perfecta nolitio, di completa non-volontà. E ha bisogno di ripensare la pace e la guerra, sia dentro che fuori casa. Dentro casa ponendo termine alla semiguerra tra paesi santi e peccatori. Fuori casa smettendo di affidarsi a una pax americana che sta creando caos più che ordine, in una mondializzazione dove nessuno da solo si salverà. Ridivenire veramente Stati sovrani, nel nostro continente, è possibile solo se l’Europa la si fa sul serio.

Corriere 15.11.13
In Francia lo sciopero della scuola
La guerra del mercoledì che travolge Hollande
La popolarità del presidente al 15%
di Stefano Montefiori


PARIGI — Già da candidato il presidente Hollande aveva promesso lacrime, sangue e tasse ai ricchi, al mondo della finanza, a Gérard Depardieu, ai calciatori e persino alle famiglie comuni chiamate a portare il peso del risanamento dei conti pubblici. La Francia è in crisi e in collera, ma se c’è un settore della società benedetto dall’attenzione generosa dell’Eliseo, quello è il mondo della scuola: 60 mila assunzioni in cinque anni (promessa che è in corso di realizzazione), grandi risorse garantite al ministero dell’Educazione nazionale, e la scelta di un ministro, Vincent Peillon, di alto profilo intellettuale e riconosciuta competenza.
Proprio per questo fa ancora più male lo sciopero della scuola primaria — osservato a Parigi da un insegnante su due — organizzato ieri contro la riforma dell’orario settimanale, uno dei grandi cantieri aperti dal ministro Peillon.
Nel giorno dell’ennesimo crollo della popolarità personale, finita al 15 per cento (sei punti in meno rispetto a ottobre in base al sondaggio YouGov-Huffington Post-iTélé), il presidente Hollande ha visto migliaia di persone, proprio quelle che hanno beneficiato di più energie e risorse pubbliche, manifestare in piazza contro di lui e quella riforma «calata dall’alto».
«Giù le mani dal mio mercoledì», era uno degli slogan, incomprensibili in Italia. Perché in Francia, dalla fine dell’Ottocento, un giorno infrasettimanale — prima il giovedì poi il mercoledì — è sempre stato lasciato libero dall’insegnamento, con il risultato che gli allievi francesi fino all’anno scorso andavano a scuola solo quattro giorni alla settimana (lunedì, martedì, giovedì e venerdì), ossia 144 giorni l’anno contro i 187 giorni della media europea.
Gli esperti denunciavano da tempo i danni all’apprendimento di un ritmo continuamente spezzato, e Peillon ha deciso di dare loro ascolto introducendo una settimana scolastica di quattro giorni e mezzo, la mattina del mercoledì inclusa. Ma non va bene neanche così, un’organizzazione sociale e famigliare rodata nei decenni è stata scardinata, gli insegnanti si lamentano perché devono lavorare di più e i genitori parlano di bambini stanchi e stressati.
Neanche la scuola così offre consolazione a un presidente solo parzialmente responsabile — il dissesto finanziario ed economico non è certo opera sua ma anche della crisi mondiale e dei governi precedenti — ma accusato di tutti i mali. Mentre ancora si attende la famosa inversione della curva della disoccupazione (che continua a salire e sfiora l’11%), il giovedì nero di Hollande ha visto anche il dato negativo del Pil, calato dello 0,1% nel terzo trimestre.
L’impressione è che il caso Leonarda (la 15enne Rom espulsa con la famiglia alla quale Hollande ha offerto di tornare sì, ma da sola) sia stato uno spartiacque: se prima il malcontento si concentrava soprattutto sulle tasse e l’economia bloccata, oggi il presidente torna sotto esame anche per la sua personalità, il suo temporeggiare, la sua presunta indecisione.
Girano voci di rimpasto, si parla di Martine Aubry al posto di Jean-Marc Ayrault, ma è improbabile che sulla poltrona di primo ministro arrivi proprio colei che per prima attaccò Hollande e la sua «sinistra molle».

Corriere 15.11.13
Duro all’estero, debole in Patria, François al passo del gambero
di Jean-Marie Colombani


«François Hollande, che tragedia!». Questa osservazione di un collega italiano mi ha fatto sobbalzare. Che sia l’impressione generale? Vero è che persino in Francia non si trova più nessuno, o quasi, disposto a credere che Hollande possa aver successo. Così, un ex ministro di sinistra che sta preparando un libro sull’eterna questione delle riforme in Francia — è possibile? Se sì, come? A che ritmo? — mi diceva in sostanza: certo, quando il mio libro uscirà, sarà dopo la rovina... L’ultimo sondaggio attribuisce a François Hollande il 22 per cento di fiducia, il punteggio più basso di tutti i presidenti della Quinta Repubblica. Questo clima deleterio mi sembra eccessivo, esagerato, irragionevole. E se si verificassero dei disordini, il Presidente diventerebbe istantaneamente il garante dell’ordine pubblico. Preferisco quindi utilizzare un’altra immagine, che è questa: Hollande è duro con Bashar al-Assad, intrattabile con l’Iran ma debole con il ministro Cécile Duflot. Tale sintesi caratterizza abbastanza bene il suo atteggiamento e al tempo stesso riassume la sua situazione politica. Sui fronti esterni, niente da dire: fa il suo lavoro! Con sangue freddo e chiarezza. Intervento nel Mali, riconciliazione con l’Algeria, posizione ferma sulla Siria e sull’Iran (anche se il nuovo corso degli eventi fra Washington e Teheran cambia completamente la distribuzione delle carte), impostazione razionale e paziente dei rapporti franco-tedeschi, e così via. Sui punti fondamentali, si inserisce in una continuità francese, eccetto che per la messa in scena. Mentre Nicolas Sarkozy spettacolarizzava il proprio comportamento con l’esterno, dando anche in questo campo l’immagine di un attivismo su tutti i fronti, Hollande coltiva la discrezione, che non è priva di efficacia. Ma i francesi sono obnubilati solo da quel che accade nel proprio Paese. Da questo punto di vista, è vero, nulla funziona più: la debolezza del capo dello Stato presso l’opinione pubblica raggiunge una soglia che potrebbe mettere in pericolo la sorte del quinquennio.
Fin dall’inizio, il presidente ha fatto, è vero, una scommessa folle: invertire il percorso classico della sinistra. Sapendo che le casse erano vuote, e «lo Stato in fallimento», secondo la formula dell’ex premier François Fillon, Hollande si sapeva condannato a una prima parte di mandato difficile perché totalmente imperniata sul risanamento dei conti attraverso la fiscalità (che è sempre fonte di collera qualunque cosa accada), e a una seconda parte più tradizionale, di ridistribuzione. Si trattava di ridistribuire solo dopo aver ricreato ricchezza. Lo schema classico — si distribuisce quello che non si ha e in seguito si corregge, come nel 1983 — aveva tutte le possibilità di fallire, con il vantaggio però di ancorare un sostegno a sinistra. Nel percorso di François Hollande, tale ancoraggio sparisce, almeno provvisoriamente, in mancanza di uno dei famosi «punti fermi» (pensionamento a 60 anni, 35 ore di lavoro settimanali, ecc.). Questo, unito a una destra radicalizzata e tentata in permanenza di cancellare le frontiere ideologiche con l’estrema destra, genera una impopolarità da record e un presidente impossibilitato a realizzare una delle sue promesse: la pacificazione.
Tuttavia, la battaglia non è perduta. Dopotutto, l’unico mandato che François Hollande abbia ricevuto dal Paese è il seguente: uscire dalla crisi. La ripresa che si profila nel 2014, e che dovrebbe consolidarsi nel 2015, a condizione di una effettiva «pausa fiscale», potrebbe convalidare lo schema iniziale. La coscienza e la padronanza del tempo sono qui un’arma essenziale.
Intanto, però, bisogna poter superare un passaggio reso più stretto di quanto dovrebbe essere dal presidente stesso e dalla debolezza del suo dispositivo politico.
La principale accusa che è rivolta a Hollande, secondo cui sarebbe incapace di decidere, è ingiusta. Prudenza non significa esitazione. Egli ha operato tutte le riconversioni che la situazione del Paese esigeva. Sono sempre criticate, giudicate in un caso insufficienti, in un altro troppo complesse, come il segno del tradimento, ma esistono: la competitività dopo il lavoro preparatorio di Louis Gallois; l’inizio di flessibilità sul mercato del lavoro; le pensioni; l’annuncio che in futuro la riduzione della spesa pubblica sarà una priorità; presto il riorientamento della formazione professionale. Sono tutte riforme da fare perché... non erano state fatte! Ma probabilmente questo non gli viene riconosciuto a causa dei suoi difficili inizi. Aveva denunciato «il mondo della finanza», invece il suo governo se l’è presa con i dirigenti d’azienda confondendoli con i «ricchi». Mentre il deficit di competitività imponeva, e impone ancora, un vero procedimento pacificatore nei confronti dei dirigenti d’azienda, siano essi grandi o piccoli.
Egli stesso è un insieme di pazienza, di caparbietà e di eccessiva reattività agli eventi mediatici. In un certo senso, commette lo stesse errore del suo predecessore, vale a dire: presidenza fa rima con onnipresenza. Credere che il quinquennio cambi la natura della funzione presidenziale è uno sbaglio. Obbedire alla pressione congiunta, e contraria, di Libération e del Figaro porta alla disastrosa prestazione sulla vicenda di Leonarda (il caso della giovane Rom espulsa mentre era in gita scolastica con la sua classe). Il presidente, sotto la Quinta Repubblica, deve essere, o fingere di essere, al di sopra dei partiti. È garante quanto attore. La difficoltà particolare di François Hollande è che avanza, ma avanza come un gambero, di sghimbescio. Senza enunciarlo chiaramente. Intromettendosi in tutto, mentre il suo lavoro non consiste nell’essere costantemente in prima linea.
L’altra difficoltà particolare è dovuta alla debolezza del suo dispositivo politico: peso eccessivo degli ecologisti che non difendono apertamente che i propri interessi, senza temere di ridicolizzare il presidente stesso; un governo composto a seconda delle correnti del Partito socialista e quindi pletorico, di cui molti ministri si qualificano per la loro assenza, sia per quanto riguarda la qualità del lavoro sia il senso di responsabilità collettiva; eccessiva tolleranza di fronte al gioco permanente dell’ego, che si tratti di due personaggi opposti come Manuel Valls (ministro dell’Interno, ormai l’uomo politico più popolare in Francia) e Claude Bartolone (presidente dell’Assemblea nazionale); e soprattutto — forse è qui il peccato originale — sette ministri a Bercy (l’onnipotente ministero delle Finanze e del Bilancio), il che impedisce che vi sia un’autorità unica. Occorre essere capaci di reggere lo Stato e lo Stato, in Francia, è Bercy. Si aggiunga il fatto che il gruppo dei deputati socialisti è in parte costituito da giovani apparatchik che pensano all’estrema sinistra quando bisognerebbe esclusivamente sostenere il governo e una politica di centro sinistra. Come sempre, saranno gli elettori stessi a fare da giudici di pace. Ma da adesso alle scadenze elettorali della primavera prossima (municipali, poi europee) rimane pochissimo tempo per tentare di correggere i difetti più lampanti del sistema. E per ritrovare la fiducia dell’opinione pubblica francese. Altrimenti, i tre anni e mezzo che il presidente ha davanti a sé rischiano di trasformarsi in una interminabile via crucis.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Repubblica 15.11.13
L’ultima tentazione razzista
di Tahar Ben Jelloun


Il razzismo è proprio dell’uomo. È un dato di fatto: tanto vale prenderne atto, impedire che progredisca e combatterlo per legge. Ma non basta. È necessario educare, dimostrare l’assurdità delle sue basi, smontare i suoi meccanismi, non abbassare mai la guardia. In questi ultimi tempi la società francese è percepita come un contesto violentemente razzista, ma in fondo non lo è più di tante altre. Il rifiuto dello straniero, del diverso, di chi è visto come una minaccia per la propria sicurezza è un riflesso universale, che può prendere di mira chiunque. In certi casi questa ripulsa può focalizzarsi su una comunità, ma ciò non vuol dire che le altre non ne saranno colpite. L’esercizio dell’odio non conosce discriminazioni: nessuno può credersi al riparo. Perciò vorrei rassicurare coloro che in Francia incitano a un «razzismo contro i bianchi»: chi è roso dal razzismo non ama nessuno. Dopo gli ebrei, ha colpito i neri, poi gli arabi; ma a seconda del tempo e del luogo, potrebbe arrivare anche il turno dei bianchi. Dipende da dove allignano il malessere e i contrasti covati nel proprio intimo, che per placarsi hanno bisogno di un capro espiatorio. L’antisemita prova un gusto particolare nello stigmatizzare l’ebreo, una figura che lo ossessiona, lo disturba e a volte lo affascina; e questo godimento porta a un desiderio violento di sterminio. Tra tutti i razzismi, quello antisemita è stato il più sanguinoso, ma non ha guarito il mondo dal desiderio di altre stragi.
Oggi in Europa assistiamo a una serie di derive gravissime. Perché il razzismo incomincia dalle parole, ma può portare fino ai forni crematori. Dire di una donna che assomiglia a una scimmia è solo l’inizio. Se li lasciamo fare, passeranno facilmente dagli insulti ai pestaggi, alle torture (come nel caso del giovane Ilan Halimi) e all’omicidio. Per questo è importante ricordare che non esistono forme di razzismo light o decaffeinato. Bene ha fatto Christiane Taubira a deplorare che nessun dirigente politico abbia levato la propria voce contro il razzismo di cui è stata vittima. Recentemente in Italia un’esponente del governo ha dovuto sopportare un trattamento analogo: la ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, originaria del Congo (Kinshasa) è stata insultata da alcuni eletti della Lega Nord, noti per il loro attaccamento alle idee razziste. Anche nel mondo del calcio, giocatori di pelle nera sono stati bersaglio di un razzismo inveterato. Quando un capo di governo si è permesso di far ridere il suo pubblico parlando dell’«abbronzatura di Obama », ha aperto le cateratte, dando un segnale a coloro che prima non avrebbero osato esprimersi apertamente, e incoraggiandoli a coltivare e a dare libero sfogo alle loro idee nauseabonde. Molti italiani dalla memoria corta dovrebbero ricordare i tempi in cui l’indigenza li spingeva a emiegrare nel Sud della Francia, dov’erano accolti con disprezzo e insultati. Nel 1930 vi furono a Nizza vere e proprie battaglie contro gli italiani, accusati di essere venuti «a togliere il lavoro ai francesi».
La crisi economica non è una scusante, ma ha forse un ruolo di acceleratore; è un pretesto per rintanarsi nell’ignoranza e crogiolarsi nel comodo rifugio dei pregiudizi.
Il fatto che l’Europa abbia perso a poco a poco il suo posto preponderante nel mondo, non solo sul piano economico ma anche su quello culturale, favorisce un’acredine suscettibile di trasformarsi in disprezzo per tutto ciò che è diverso. La Spagna non ha ancora risanato i propri rapporti con l’islam; qui gli immigrati provenienti dal Maghreb sono chiamati «mauros», termine consapevolmente spregiativo, che ricorda i tristi eventi dell’Inquisizione. E la crisi economica certo non migliora le cose. Chi lasubisce diffida sempre di chi è ancora più povero e più straniero. Il razzismo è dunque un facile ripiego davanti alle prove della vita. Bisogna pur trovare un colpevole: prima era l’ebreo, ora è il musulmano. Se è vero che il razzismo è sempreesistito, oggi non mancano i politici che lo usano al servizio dei loro interessi di bottega. È molto più facile incitare all’odio verso lo straniero che esortare al rispetto per il diverso. L’uomo ha tendenza a lasciarsi trascinare verso gli istinti piùbassi, soprattutto quando è reso fragile da situazioni che non sa o non può affrontare. Per molto tempo lo slogan preferito del Front National era: «Tre milioni di disoccupati, tre milioni di immigrati di troppo». Una falsa verità facile da confutare, che però funziona benissimo. Il razzismo è pigrizia mentale; è il rifiuto di riflettere. Tanto c’è sempre qualcuno pronto a pensare al posto nostro, e a fornirci una lettura semplificata del software del malessere.
Oggi ci dicono che non sempre chi aderisce al «Front National » è razzista. Può darsi, ma una cosa è certa: tutti i razzisti trovano sicuramente accoglienza in seno a questo partito; basta che osservino un minimo di discrezione sui loro convincimenti. Né la destra, né la sinistra hanno saputo combattere le idee del Front National. Alcuni sostengono che questo partito dà le risposte sbagliate alle domande giuste; c’è anche chi pensa di poter guadagnare qualche voto avvicinandosi alle sue posizioni.
Fintanto che la principale preoccupazione dei politici sarà quella di farsi rieleggere, assisteremo alle forme di degrado più indegne. E c’è da tener conto del nuovo look adottato dal Front National, tanto efficace da farlo apparire frequentabile, e persino banale. Il tentativo di cambiare status deponendo l’etichetta di partito di estrema destra è un segnale interessante. Se fosse solo questione di parole, si potrebbe pensare che al posto della connotazione estremista sia subentrato qualcosa di più profondo e pericoloso: la banalizzazione dei pregiudizi e della xenofobia.
Per combattere le idee di questo partito si dovrebbe poter rispondere sistematicamente, ogni qual volta uno dei dirigenti proclama false verità, o propone programmi non solo inapplicabili ma rovinosi peril Paese. Ma anche al di là di questa vigilanza, tragicamente omessa da tutti i partiti antagonisti, ci sarebbe bisogno di portare avanti nelle scuole un lavoro pedagogico approfondito e di lungo respiro. Per far sapere ai bambini, fintanto che la loro mente è ancora aperta e disponibile, da cosa nasce il razzismo, qual è la sua storia e la sua disumana natura, quali tragedie ha causato. Dire e ripetere che la paura e l’ignoranza sono le due mammelle che nutrono questo flagello, il cui meccanismo è però facilmente smontato dall’intelligenza e dal sapere, attraverso il dibattito e il superamento dei tabù. Affrontare tutti i temi, e non chiudere gli occhi neppure davanti alle derive di chi sviluppa a sua volta forme di razzismo, per reagire alle stigmatizzazioni subite.
L’Assemblea nazionale ha riconosciuto «che le razze non esistono»: una dichiarazione di grande importanza. Ed è fondamentale ribadire questa verità che Albert Jaccard non ha mai cessato di insegnare. Esiste una sola razza umana composta da sette miliardi di individui, tutti simili ma al tempo stesso unici. Non esiste una razza nera, e neppure bianca o gialla. Evidentemente, di per sé quest’affermazione non basterà a liberarci dal razzismo. Ma quanto meno, è una verità capace di scuotere alcune certezze.
Spesso quando l’esasperazione raggiunge il colmo le derive si moltiplicano, e si parla di rigurgiti razzisti. Ma in realtà il razzismo è sempre in agguato nelle mentalità, pronto a riprendere fiato non appena cresce il malessere, e con esso la voglia di arroganza, per sentirsi vivi e soprattutto per considerarsi superiori agli altri.
La lotta contro il razzismo dev’essere quotidiana, in tutti i campi della società: perché non si tratta di una moda, bensì di uno stato mentale, che fa parte delle debolezza dell’uomo, dei suoi errori e cedimenti.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Stampa 15.11.13
Russia e Cina scalzano Obama in Medio Oriente
di Francesca Paci


La ritirata americana dal Medio Oriente lascia un vuoto che nel mondo multipolare è destinato a non restare tale a lungo, specie se in campo ci sono attori scalpitanti come Mosca e Pechino. Prova ne sia che i ministri della Difesa e degli Esteri russi si sono fiondati al Cairo per discutere di «cooperazione militare» non appena Obama ha confermato il parziale congelamento degli aiuti all’esercito egiziano (1,3 miliardi di dollari l’anno). Secondo il giornale palestinese Dunia al-Watan i generali egiziani, riluttanti alle lezioni di democrazia di Washington, cercherebbero ora nel Golfo un finanziamento tra 2 e 4 miliardi di dollari per acquistare armi russe, compresi caccia MiG-29, sistemi di difesa aerea, missili Buk M2. Al di là dell’interesse economico di Mosca, che un anno fa ha firmato con l’Iraq una fornitura di armi da 4.2 miliardi di dollari ed è in trattative con l’Algeria per una da 17 miliardi di dollari, c’è l’ambizione di Putin di ravvivare l’influenza sovietica in Medioriente e di controllare indirettamente i 20 milioni di musulmani russi (dal punto di vista energetico Mosca e gli arabi sono concorrenti e nel 2008 il commercio col Cairo era solo lo 0,3% del totale). Le rivolte arabe disertate dalla Casa Bianca hanno fornito un assist al Cremlino che dopo l’esitazione sull’intervento in Libia (costata a Mosca il blocco dei contratti da 10 miliardi di dollari da parte dei ribelli) ha stretto la presa su Damasco (finché la Siria è instabile Qatar e Iran non possono progettare gasdotti alternativi a quelli russi) e tenta il recupero dell’Egitto perso nel 70 con la svolta filo Usa di Sadat. Sull’altro fronte c’è Pechino che ha verso il Medio Oriente mire più pragmatiche. Quando negli anni ’90 è esplosa la crescita cinese la richiesta di petrolio è aumentata del 90% e quello arabo è oggi il 60% del totale importato. Con il greggio si è aperto il mercato: nel 2004 il giro di affari sino-arabo era di 36 miliardi di dollari, nel 2011 di 200 miliardi (contro quello Usa arabo di 193 miliardi), nel 2014 raggiungerà i 300 miliardi. Le rivoluzioni del 2011 poi hanno aperto la strada: mentre 150 multinazionali si ritiravano temendo l’instabilità regionale Pechino ha rilanciato: nel 2012 ha firmato un accordo commerciale di 16 miliardi di dollari con gli Emirati Arabi e Riad ma anche una fornitura di idrocarburi iraniani da 120 miliardi; il 35% del suo export va in Nordafrica; pochi mesi fa ha venduto alla Turchia missili FD2000 per 3,4 miliardi. Nel frattempo ha invitato negli stessi giorni il presidente palestinese e quello israeliano (con Israele c’è un antico mercato di armi e intelligence a tratti sabotato da Washington).

il Fatto 15.11.13
Aleppo un anno dopo regno di sangue tra fame e Sharia
La città-martire della Siria è diventata la capitale degli jihadisti che combattono Assad
di Francesca Borri


Aleppo “Tranquilla”, mi dice Ahmed, mentre attraversato l'ultimo check-point entriamo in città, un colpo di mortaio che scrolla l'aria. “Ora che sei ad Aleppo, sei al sicuro”. E abbassa la testa per schivare il colpo di un cecchino.
Da quando gli islamisti più radicali, quelli di al Qaeda, hanno conquistato le aree di confine con la Turchia, a metà settembre, la Siria è inespugnabile per i giornalisti (di 17 di noi, al momento, non si hanno tracce). L’unico escamotage per infilarsi ad Aleppo è passare per siriana. Clandestina.
NON SAI PIÙ da cosa difenderti, qui. Missili, cecchini, sequestri, grandinate di artiglieria e il tifo. Ovviamente, la lesmania, e ora anche la poliomielite. Ma soprattutto: gli islamisti, i combattenti sbarcati qui dalla Cecenia, dall'Iraq, dalla Libia, per occupare stralci di Siria e rifondare il califfato: la loro priorità non è rovesciare Assad, ma instaurare la sharia. Sono i nuovi shabiha. Che in arabo significa fantasmi, come i pretoriani in borghese che hanno funestato la Siria degli Assad, perché si aggirano in tunica e barba, nient'altro, niente armi. Si è tornati a parlare sottovoce, ad Aleppo, a camminare a testa bassa: tempo fa Mohammed Kattaa è stato fucilato per avere pronunciato inopportunamente il nome del Profeta. Aveva 15 anni.
Mi nascondono in un appartamento disabitato, ancora in costruzione, solo un materasso, in un angolo, un topo e un rubinetto. Al buio sembra il racconto di uno degli attivisti pre-2011. E le istruzioni sono tassative: niente foto, niente domande per strada, neppure un taccuino, una penna in mano. Perché non è solo questione di islamisti: la maggioranza dei sequestri, in Siria, è a scopo di estorsione. Uno straniero è quotato circa 5 milioni di dollari. E in più per le italiane, purtroppo, la fama di Berlusconi è dilagata fin qui. “Per te paga lui”, scherza il mio interprete: “Gli diciamo che sei la nipote di Putin”. Ma Aleppo in fondo è sempre la stessa: lasciate ogni regola, voi che entrate. Ragazze completamente coperte, completamente in nero, contemplano vetrine con tacchi fluorescenti e vertiginosi.
Cammini per Aleppo e ogni tanto un uomo, davanti a te, per un colpo asciutto, cade: abbattuto da un cecchino. Tra le macerie è cresciuta l'erba, la guerra è diventata carne di questa città. Cammini e ovunque queste case tranciate dai missili, spalancate per metà, un divano, la lampada una libreria, fossili di vite normali, un triciclo sospeso a mezz'aria, le tende nel vento, dentro la bottega di un barbiere, intatte, le boccette di vetro ancora allineate sulle mensole, sviti, e ancora senti un profumo al gelsomino. Perché tutto sembra normale ad Aleppo, non manca niente: ma niente è al suo posto.
Nelle ambulanze trovi combattenti, al fronte bambini con il kalashnikov del padre ucciso, tutto come un cortocircuito, nel fiume si pescano pesci e cadaveri, un foro alla nuca, le mani legate.
I cecchini si dividono i turni, la mattina arrivano alla loro postazione, puntuali, dopo il caffè, parcheggiano davanti al portone come andassero in ufficio. E alle contraddizioni si saldano le distorsioni. Se è tutto così complesso da decifrare e da capire è anche perché a raccontarci la Siria sono rimasti ormai solo i siriani. Lavorano per le maggiori agenzie, le maggiori testate, e contribuiscono ad articoli scritti da New York, Parigi. Londra. Sono i famosi citizen journalist, tanto glorificati anche da chi probabilmente non si affiderebbe mai a un citizen dentist. E il risultato sono casi come quello di Elizabeth O'Bagy, l'analista di un istituto di ricerca americano citata da John Kerry nei giorni dell'attacco chimico. Sul Wall Street Journal, era apparso un suo pezzo sui ribelli, da cui si ricavava l'impressione che sono brava gente, gente che protegge le minoranze: e che i fondamentalisti islamici, qui, non sono che una manciata perché il problema per gli Usa è questo: temono che Assad venga rimpiazzato da al Qaeda. Poco dopo, mentre Human Rights Watch denunciava i ribelli per crimini contro l'umanità contro le minoranze, è venuto fuori non solo che Elizabeth O'Bagy non aveva il PhD dichiarato, ma anche che era a libro paga di una lobby siriana il cui obiettivo è convincere Obama all'intervento. Nell'era di twitter e youtube, è sui resoconti delle Elizabeth O'Bagy, che poi fondiamo – sempre più – la nostra politica estera. Le nostre guerre.
QUANDO LA BATTAGLIA di Aleppo è iniziata, nell’agosto 2012, i giornalisti erano decine: non è rimasto nessuno. Ma in realtà non è che la guerra qui sia divenuta più pericolosa. In fondo, non è che le cose fossero migliori un autunno fa, quando Aleppo, feroce, non era che un teatro di esplosioni. Solo che eravamo insieme ai ribelli. E loro, per quanto disastrati con le loro scatolette di tonno convertite in granate, le infradito e la maglietta del Che, erano quelli che combattevano per la libertà: e noi testimoniavano al mondo i crimini di Assad. Oggi che Aleppo è fame e sharia, donne in stile afgano e bambini in stile africano, oggi che un nuovo regime ha sostituito il vecchio, abbiamo scoperto cosa significa la guerra quando non si è embedded. E sia i ribelli sia il regime ci braccano come nemici. Non è divenuta più pericolosa, questa guerra: solo più vera. E ora che è anche per noi quella che è da sempre per i civili, la guerra in cui nessuno è innocente, nessuno è immune, siamo scappati.

Repubblica 15.11.13
Un altro scandalo sulle ricchezze della famiglia dell’ex premier
Cina, dagli Usa consulenze d’oro milioni alla figlia di Wen Jiabao


PECHINO — I “principi rossi” cinesi ridotti a lobbysti dei capitalisti americani e i media Usa che si auto-censurano per non irritare i leader della Cina. E’ il mondo alla rovescia quello che emerge dagli intrecci sempre più stretti tra le prime due economie del mondo.
Gli ultimi due scandali, rivelati dalNew York Times denunciano che i poteri forti di Pechino e Washington sfuggono ormai al controllo sia del partito comunista che del Congresso. Il primo scoop torna e prendere di mira l’ex premier cinese Wen Jiabao e la banca d’affari JP Morgan: la figlia dell’uomo che per 10 anni ha governato la Cina avrebbe incassato 1,8 milioni di dollari in due anni per agevolare gli affari in patria dell’istituto di credito statunitense. La seconda rivelazione tocca invece l’icona Usa dell’informazione finanziaria: l’agenzia Bloomberg dell’ex sindaco di New York per non danneggiare affari e immagine dell’azionista in Cina, ha bloccato un’inchiesta che avrebbe svelato le connessioni illegali tra un miliardario cinese e i vertici del regime. Le due notizie, unite ad altri scandali recenti, rompono il silenzio che in Cina avvolge i capitali misteriosamente accumulati dagli alti dirigenti del partito e che negli Usa protegge gli affari opachi dei colossi di economia e finanza, decisi a conquistare il mercato oggi più ambito del pianeta.
Il quadro che emerge illumina due livelli: sul primo governi e diplomazie si attaccano pubblicamente e minacciano scontri daguerra fredda, sul secondo politici, uomini d’affari e gruppi editoriali che sostengono i due sistemi, chiudono riservatamente contratti miliardari illegali. Il New York Times ha raccontato così che Wen Richun, 40 anni, figlia di Wen Jiabao, tra il 2006 e il 2008 ha incassato 75mila dollari al mese da JP Morgan per «promuovere le attività e la presenza» della banca in Cina.
Nello scandalo Bloomberg afinire sotto accusa è invece il direttore dell’agenzia, Matthew Winkler. Alla vigilia del Plenum del partito ha bloccato un’inchiesta dei suoi corrispondenti dalla Cina che svelava i «rapporti inconfessabili tra un magnate di Pechino e leader rossi di massimo livello». Winkler ha spiegato di averlo fatto per evitare che i suoi cronisti venissero espulsi dal Paese, sorte che sempre più spesso tocca ai corrispondenti rei di disturbare il regime. Peccato che gli stessi giornalisti un anno fa, avessero scoperto il “tesoro segreto” della famiglia del presidente Xi Jinping, che il gruppo Bloomberg abbia interessi finanziari enormi in Cina e che il suo potente proprietario sia atteso nel Paese per conferenze e affari.

Repubblica 15.11.13
Perché mangiare ci costerà di più
di Moisés Maìm

Sono la principale fonte di prosperità per milioni di poveri nei Paesi che più le producono. No: l’aumento del consumo in Cina e in altri Paesi asiatici ne spinge in alto il prezzo, rendendo la vita più cara e impoverendoci tutti; senza contare che l’esplosione del consumo di questi beni mette a rischio la sopravvivenza del pianeta. Tutto il contrario: sono una fonte di progresso e stabilità economica globale. No! La variabilità dei loro prezzi produce effetti devastanti nelle economie… Sono solo alcune delle affermazioni contraddittorie che si sentono spesso riguardo alle commodities, i minerali, i vegetali, gli idrocarburi e altre materie prime che nell’ultimo decennio sono enormemente aumentati di prezzo. Dai prezzi di questi beni dipende il costo del nostro cibo, e le loro variazioni possono affondare Governi, creare fortune immense o produrre drastici cambiamenti negli equilibri di potere tra le nazioni.
È indiscutibile, per esempio, che quello che è successo tra il 2000 e il 2010 sul mercato delle materie prime prodotte ha cambiato il mondo. Per i Paesi esportatori di soia, ferro, cotone, olio, rame, grano, petrolio, legno e tanti altri prodotti di base le cose sono andate splendidamente: vendono di più a prezzi più alti e alcuni, come il Brasile o la Malesia, hanno usato questi maggiori introiti per migliorare le condizioni di vita di milioni dei loro abitanti più poveri. A sua volta, questo aumento della domanda è dovuto in primo luogo all’accelerazione della crescita economica in Asia, specialmente in Cina e in India, dove vive il 37 per cento dell’umanità: negli ultimi cinque anni, per esempio, le importazioni agricole della Cina sono aumentate del 23 per cento all’anno.
Ultimamente tra gli esperti sono in molti a ritenere che sia in arrivo una radicale inversione di tendenza nel mercato delle materie prime, con conseguenti, importanti alterazioni economiche e politiche a livello mondiale. La tesi è che questa fase del «superciclo delle materie prime» stia arrivando al termine. I supercicli sono periodi di prezzi alti che durano tra i quindici e i vent’anni, e che si sono ripetuti con una certa regolarità nell’ultimo secolo e mezzo. Nel decennio precedente, per esempio, il prezzo medio delle materie prime si è duplicato. Questo incremento è in contrasto con il fatto che durante il XX secolo i prezzi (corretti in base all’inflazione) sono scesi mediamente dello 0,5 per cento ogni anno (indipendentemente dalla presenza di periodi di incremento). Ma tra il 2000 e il 2013 i prezzi delle materie prime non solo sono aumentati vertiginosamente, ma le loro variazioni sono state tre volte più estreme che negli anni 90. E una dimostrazione di questa volatilità è che negli ultimi due anni hanno smesso di salire: nella prima metà di quest’anno, l’indice mondiale dei prezzi delle materie prime è sceso del 10,5 per cento e per certi metalli — rame, alluminio o nichel — il calo è stato addirittura del 20 per cento. Il rallentamento dell’economia cinese contribuisce alla caduta dei prezzi, così come la situazione anemica delle economie europee e la bassa crescita negli Stati Uniti.
La cosa sorprendente, tuttavia, è che nonostante tutte le pressioni al ribasso i prezzi delle materie prime mediamente sono ancora allo stesso livello del 2008, quando cominciò la crisi economica mondiale. Secondo un recente studio del McKinsey Global Institute, l’annuncio della morte di questo superciclo è prematuro. I prezzi rimarranno alti, e la ragione questa volta non sarà l’intensità della domanda asiatica, ma l’aumento dei costi di produzione di questi beni fondamentali, dovuto a sua volta a forze che vanno dai cambiamenti climatici (che alterano il ciclo dei raccolti o rendono più frequenti e devastanti siccità e inondazioni) alle misure di restrizione all’esportazione di prodotti agricoli da parte di alcuni dei Paesi produttori. Giocano un ruolo anche la maggiore frequenza degli scioperi, l’attivismo delle comunità locali e le proteste sociali, così come il fatto, sempre secondo il McKinsey Global Institute, che i produttori si vedono costretti a operare in posti sempre più sperduti e inospitali e a usare tecnologie più costose.
La cattiva notizia è che nel breve periodo i prezzi dei prodotti alimentari non scenderanno in modo significativo. La buona notizia è che l’alto livello di questi prezzi sta creando enormi incentivi per inventare tecnologie che li facciano calare.

l’Unità 15.11.13
Visita a casa Freud
Il bel testo di Schmitt su questioni esistenziali
Un dialogo serrato tra il padre della psicoanalisi, il bravissimo Haber, con uno strano personaggio Alessio Boni che si qualifica come Dio
di Maria Grazia Gregori


MILANO STRANO INCONTRO QUELLO CHE LA SERA DEL 22 APRILE DEL 1938 DOPO L’INVASIONE DELL’AUSTRIA DA PARTE DELLE TRUPPE HITLERIANE E PRIMA DELLA PARTENZA DI SIGMUND FREUD, per sfuggire alle retate contro gli ebrei, verso l’esilio di Londra contrappone un Visitatore, all’apparenza un mitomane o un pazzo fuggito da qualche manicomio, al padre della psicoanalisi. Il Freud che ci appare sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti è quello che ha già scoperto, fra l’altro, il complesso di Edipo, l’Io, l’Es e il Super-io, che ha già analizzato i casi di Anna O. e di Dora e indagato il mistero di grandi personaggi come Mosè, Leonardo da Vinci, Gustav Mahler. È un uomo ormai vecchio (lo interpreta un bravissimo Alessandro Haber) ha 82 anni -, sfiancato da una malattia senza speranza che lo stroncherà l’anno dopo nella sua casa londinese. Trascina i piedi, parla quasi a fatica, ogni tanto assume per bocca delle gocce, nella speranza che gli leniscano il dolore del tumore che lo sta devastando. È insicuro, anche disperato perché non sa decidersi su cosa fare. La Gestapo, qui rappresentata da un caporale scelto (Francesco Bonomo), gli ha appena portato via la figlia Anna, destinata a seguir le orme del padre (Nicoletta Robello Bracciforte),la sua casa a Berggasse 19 (che poi diventerà un museo), è spesso messa a soqquadro dalle frequenti scorrerie naziste. Il misterioso Visitatore che ha gli occhi febbricitanti del bravo Alessio Boni arriva improvvisamente entrando dalla finestra di casa, stanco, sovreccitato. I suoi abiti sono disordinati e danno l’impressione di essere stati indossati alla rinfusa, parla con grande velocità saltando da un argomento all’altro mosso da un’agitazione che sembra non riuscire a placare. E a Freud, che lo considera un pazzo millantatore, dice apertamente di essere Dio.
Sono loro i due interpreti principali di Il Visitatore (1993) in questi giorni in scena con successo al Franco Parenti, scritto dal francese Eric Emmanuel Schmitt, presentato in Italia per la prima volta nel 1997 con Turi Ferro, Kim Rossi Stuart, regia di Antonio Calenda. Un testo di sicura presa, un po’ verboso come lo sono spesso i testi francesi «a tesi», costruito pensando essenzialmente agli attori, per fortuna anche ironico, dove filosofia e religione si mescolano ad arricchire la psicologia dei personaggi che si sfidano in un vero e proprio duello allo stesso tempo verbale e fisico, in un gioco delle parti tenuto saldamente insieme dalla regia di Valerio Binasco. Di fronte al mondo occidentale che va in rovina, mentre dalla strada salgono i canti eccitati delle milizie hitleriane, due padri, il Padreterno e il padre di una delle più grandi rivoluzioni dell’era moderna, parlano di libertà, di malattia, di possibilità di riscatto, analizzandosi a turno. Così il Freud inquieto e ferito di Haber si confronta con il Dio così umano di Boni che però non ha intenzione di fargli alcuno sconto sulla laicità, sull’essere ebreo, sul mistero della divinità con la preveggenza di chi si assume il compito di vegliare sulla famiglia Freud difendendola dai pericoli e predicendole un futuro di esilio.
Ci vogliono 17 scene per arrivare alla domanda delle domande: se Dio esiste perché permette tutto ciò? Credere in lui è una scelta in contraddizione con tutti i mali del mondo oppure è il rifiuto di Dio, la pretesa dell’uomo di sostituirsi a lui, l’origine di ogni male? Schmitt non dà una risposta anche se il pubblico, intrigato, sembra aspettarsela. Ma è buio al di là della finestra dalla quale, dopo la scomparsa del Visitatore, Freud si affaccia sul nulla.

il Fatto 15.11.13
Memoria per il futuro
Bachelet, presidente-mito cileno racconta le torture di Pinochet
di Maurizio Chierici


Michelle Bachelet torna alla Moneda per la seconda volta presidente del Cile. Forse al primo turno, domenica, forse a dicembre. Torna per cambiare la Costituzione imposta da Pinochet 32 anni fa. Refrain del suo impegno: chiudere col passato. Eppure mai come in questa corsa i fantasmi del passato hanno accompagnato una campagna elettorale. Fantasma di Alberto Bachelet, padre di Michelle, generale fedele ad Allende che la giunta Pinochet ha torturato fino alla morte nei sotterranei dell’accademia aeronautica governata dal generale Fernando Matthei, padre di Evelyn, signora che guida la destra pinochettista contro l’amica della giovinezza Michelle. Per Evelyn il generale Bachelet era l’amico di famiglia: “Tio Beto”, zio Beto. Ma la politica li ha divisi: adesso Matthei può votare per la figlia, il povero Bachelet no.
La Bachelet non ha frugato il passato: sta preparando il futuro. Per ricordare i 40 anni del colpo di stato, assieme alla madre è tornata a Villa Grimaldi, cattedrale della tortura. Nel 2005 quando per la prima volta si candida alla Moneda, El Mercurio, la Tercera, editori a doppio filo con la destra, raccontano che il vittimismo della Bachelet è uno spot inventato per far voti.
ALLORA L’AVVOCATO ex esule Eduardo Contreras (nessuna parentela) intervista Michelle, racconto rimasto finora segreto. “Era il 10 gennaio 1975. Arrivano due giovanotti in borghese; si capiva che erano militari. Stavamo bevendo il caffè. Qualche domanda e l’invito a seguirli per l’interrogatorio ufficiale. Saremmo subito tornate, la promessa. Appena in auto ci coprono gli occhi con lo scotch, lenti scure per non far sapere che siamo prigioniere. Subito separate. Comincia la paura. È vero che partecipavo a incontri clandestini, avevo 24 anni, niente di serio. Eravamo giovani e inquiete, anni dai capelli sciolti, ragazze dei fiori, collane di legni colorati. Mi emozionavo quando i Beatles cantavano la pace. Non ero proprio hippy: difficile esserlo con un padre militare. Uscivo con un tipo che era stato allendista. Telefona mentre ci portano via. Avevamo un accordo: se ero nei pasticci dovevo rispondere: ‘La mia amica Dina mi ha invitato per il tè. Non so a che ora torno... ’. Dina, come i servizi di Pinochet. Sempre bendata mi trascinano in una camera dai letti a castello. Otto prigioniere che non si conoscono, occhi sigillati”.
Sapeva dov’era? “Da principio no, poi una prigioniera proprietaria di una piccola industria di piastrelle solleva la benda sfidando la frusta delle guardie e scopre che le piastrelle della stanza vengono dalla sua bottega commissionate dai Vassallo antichi proprietari di Villa Grimaldi. Ecco dove siamo…”. Allora Michelle decifra i rumori: sa di quale chiesa sono le campane. Il rombo degli aerei viene dalla pista di Tobalaba. “Sono stata torturata come tutte; tre compagne di stanza sulla griglia elettrica. Tornavano svuotate, ferite fisiche e spirituali e la depressione di chi si rassegna alla morte. Per fortuna l’ho scampata”.
Gli abusi...? “No, lo direi. Ma è terribile la sensazione dell’aspettare che prima o poi succeda, indifesa nessun diritto, nessuna pietà. Potevano disporre di me: lo pensavo quando i passi si avvicinavano. Anche le ultime parole quando ci rilasciarono sono state di minaccia: se racconto cos’ho passato uccidono la mamma e alla mamma ripetono le stesse parole: se parli uccidiamo Michelle”. Nessuna signora presidente è passata dalla sala di tortura inventata dalle famiglie dei politici che 40 anni dopo provano a fermare la vittoria della loro prigioniera.

il Fatto 15.11.13
La donna è sottomessa e la Spagna s’incazza
di Elisabetta Ambrosi


Fermate il PSOE, il PP e La Izquierda Uni-da, che stanno raccogliendo firme per una “inmediata retirada” del libro, definito persino anticostituzionale, dalla vendita. Fermate le femministe Maite Molina, Maylo Sancheza – la Responsable de Mujer del CCOO, sindacato di Granada – e tutte quelli che parlano di una “publicaciòn discriminatoria y sexista”. Fermate la Ley de Igualdad e la pasionaria della pagina Facebook che ha già raccolto 52.000 firme per togliere il pamphlet dal commercio, perché è “vergonzoso y vergonzante” che un libro che predica la sottomissione della donna stia sul mercato. E fermate pure quell’illuminista vescovo di Bilbao che parla di un titolo “provocador y desafortunato”.
Madrid deve essere impazzita e vuole rovinarci. Ti credo che a lei, la cattolica Costanza Miriano, gli è preso un colpo quando - arrampicata sul nespolo di casa sua in sottoveste, come ha raccontato sul “Foglio” - ha saputo che l’innocente traduzioncina del suo libro (Càsate y sé sumisa, trad. italiana di Sposati e sii sottomessa, Sonzogno) per la minuscola casa editrice Nuevoinicio ha creato un putiferio oltre i Pirenei e rischia di finire in procura, accusata di alimentare machismo e violenza sulle donne. Come darle torto, visto che il “primo libro censurato in Spagna dopo la fine del regime di Franco”, come rivela l’autrice sul blog, è un libro che ha scoperto l’acqua calda. “Se in Italia ci fossero donne cosí – scrive Il Solito Ignoto sul web – gli uomini non sarebbero costretti a sposare brasiliane (femminili e sottomesse). Qui il Viagra non lo usa nessuno”. E siccome i risultati si vedono, nel frattempo che lei faceva carriera col libro, noi donne italiane l’abbiamo presa in parola, e di buon grado, umilmente, ci siamo messe a praticare la Miriano filosofia. L’unica in grado, prima che gli spagnoli ci rovinassero tutto, di evitare che il maschio terrorizzato dall’emancipazione completasse il suo processo di auto-eclissi. Ora abbiamo capito: il femminismo ci ha fregate. A furia di cercare dialogo e parità, a furia di “provare a rendere il maschio una femmina, punzecchiandolo, ridicolizzandolo”, come scrive l’autrice nel suo secondo libro Sposala e muori per lei (Sonzogno) cosa abbiamo ottenuto? Lavoro, zero, diritti meno zero.
IN COMPENSO l’erezione è sparita e l’unione stabile tra un uomo e una donna, “che non è esattamente come dire la crisi post anni Ottanta della moquette, delle pennette alla vodka e delle polo color salmone”, sottolinea la signora, è andata a farsi benedire. E allora, molto meglio accettare l’evidenza e mollare, o far finta di mollare, ogni pretesa. È vero o non è vero che “petulanze e richieste continue mettono a dura prova i nostri compagni”, perché “l’uomo dà con gioia se si sente libero, non ingabbiato, pressato, rimproverato”, mentre viceversa l’impotenza diventa conclamata e lui si dilegua (il che, visto che sei donne su dieci non lavorano, è un problema)? È vero o non è vero che “il potere non fa per noi”, anzi le donne che arrivano a ottenerlo, spesso, in lotta con i mariti diventano insopportabili”? E che dunque, altro che soffitto di cristallo, conviene servirgliela col sorriso, questa dannata cena, e filare, in silenzio
– Miriano docet – a fare la ceretta, visto che Italia, e pure in Spagna, il welfare non c’è e la pillola blu non la passa il SSN? Segnare e annotare: “L’uomo deve incarnare la guida, la regola, l'autorevolezza. La donna deve uscire dalla logica dell’emancipazione e riabbracciare con gioia il ruolo dell'accoglienza e del servizio”.
“Me encanta esta noticia! Ahora mismo me pongo a practicar... ”, notizia deliziosa, mi metto al lavoro, scriveva saggiamente Maria su un blog spagnolo prima che lei, la guastafeste di Facebook, lanciasse il predicozzo contro il libro “che attenta contro i nostri diritti”. Cara pasionaria, ma se “de vivir en pareja, no se habla”, se di vivere in parità non ne se parla, per che motivo c’è di scaldarsi tanto? Più che la censura, meglio l’ironia. Come scrive SperiamoBene sul web: “Spero che tu trovi una brasiliana femminile e sottomessa (e magari 20 o 30 anni più giovane di te) che prima ti sposa, poi ti riempie di corna, ti porta via i risparmi di una vita ed infine se ne torna in Brasile”. Firmato, la esposa.

l’Unità 15.11.13
L’epoca di Augusto
La parabola dell’imperatore a due millenni dalla morte
di Renato Barilli


AUGUSTO a cura di Eugenio La Rocca e altri
Roma, Scuderie del Quirinale fino al 9 febbraio. Cat. Electa

IN POCO PIÙ DI UN DECENNIO DI INTENSA ATTIVITÀ LE ROMANE SCUDERIE DEL QUIRINALE si sono conquistare un ruolo di assoluto rilievo, tra le nostre sedi espositive, davvero degno di Roma capitale, il che dovrebbe esercitare un effetto di dissuasione nei confronti di chi tenta di ripeterne le mosse in altre sedi. Per esempio, non si capisce perché il Museo d’arte di Rovereto e Trento, Mart, dedito più che altro al contemporaneo, ci riprovi con Antonello da Messina, e neppure perché la Fondazione Carisbo di Bologna chiami feticisticamente a raccolta attorno a un unico dipinto di Vermeer, seppure fascinoso come La Ragazza con l’orecchino, dopo che le Scuderie ne avevano offerto una ben più ampia campionatura. Ma di sicuro nessuno ci riproverà con repliche per quanto riguarda l’attuale mostra dedicata ad Augusto, nei due millenni dalla morte (63 a.C. -14 d.C.), anche per l’ovvia ragione che tanta parte di questa celebrazione trova il suo sito naturale nelle strade dell’Urbe. A cominciare dall’opera massima, l’Ara Pacis Augusti, che sorge perfettamente visibile nella scatola in cui l’ha inquadrata Richard Meyer, a pochi passi dal tumulo per parte sua grezzo e informe in cui giace l’illustre estinto.
La parabola, anche estetica, di Augusto inizia nel 31 a.C., quando sconfigge ad Azio il rivale Antonio e conquista il potere, per non lasciarlo più per oltre un quarantennio. Avesse vinto il rivale, forse la capitale si sarebbe trasferita ad Alessandria, complice Cleopatra, che sedeva su quel trono, e l’arte ufficiale dell’impero avrebbe sterzato a favore dell’ellenismo, il che, diciamolo pure, appunto in termini estetici, sarebbe stato un vantaggio, dato che quel fenomeno stilistico praticava aspetti di alta drammaticità, mossi e dinamici quasi da anticipare soluzioni barocche. Invece Augusto volle essere in tutto il grande restauratore, e per l’arte si rivolse addirittura alla classicità dei
tempi d’oro di Atene, ricavandone i modelli da Fidia e da Policleto: lineamenti fermi, gesti nobili, lenti, ieratici, abiti con pieghe che fasciano alla perfezione i corpi modellandone l’anatomia.
L’imperatore stesso si costruisce un identikit di assoluta regolarità, lo vediamo ergersi, levare il braccio con gesto solenne e pausato, o avvolto in tonache anch’esse perfettamente composte. Semmai, un po’ di originalità lo spirito romano del tempo lo manifesta nella ritrattistica. Uno degli aspetti migliori della mostra sta in un’ampia pedana da cui svetta una selva di immagini della dinastia, i molti tra figli, figliastri, figli adottivi che circondarono l’augusta presenza e diedero poi vita agli episodi turbolenti e tutto sommato infelici della «gens iulia». Qui i lineamenti scartano con vantaggio dai tratti tanto regolari ma anche tanto stereotipati con cui lui, il Princeps, si faceva effigiare, nelle varie funzioni che aveva cumulato attorno alla sua persona, al fine di consolidare l’enorme estensione di terre e di popoli sottomessi.
Fu insomma un’arte di regime, attenta a impedire sbilanciamenti e passi falsi, tentando di sbarrare le porte al consumo del tempo. Ma quel corpaccio smisurato di conquiste, nonostante i saggi e prudenti puntelli augustei, era destinato poco alla volta a entrare in fibrillazione, ovvero, si potrebbe dire proprio in latino, a «laborare de mole sua», a soffrire per il troppo cibo ingerito, la splendida centralità era desinata ad appannarsi, via via le parti si sarebbero ribellate alla regia d’insieme. E non ci volle neppure una troppo lunga attesa. Già un secolo dopo, quando per celebrare degnamente il più meritevole successore di Augusto, Traiano, venne eretta una di quelle colonne alte e affusolate che dell’architettura romana sono forse la più bella invenzione, vi appare una fattura già sbrigativa e compendiaria, le legioni, mosse alla conquista della Dacia, vi vengono sbozzate in modi affrettati. Incomincia un lungo processo di decadenza, che poi tale non è ma una inevitabile rispondenza al mutare dei tempi. In formula attuale potremmo dire che Augusto tentò di imporre, nell’arte come in ogni altro settore, una forte immagine unitaria, globalizzata, uguale per ogni contrada, imperturbabile e olimpica, ma ben presto nell’impero cominciarono a insinuarsi motivi localisti, con perdita del centro, divenuto via via lontano e irraggiungibile. Nasceva insomma già allora una sorta di «glocalismo», anticamera delle soluzioni di un lungo medioevo.

Repubblica 15.11.13
Sesso e destino
L’autore francese parla della “Giostra del piacere”, romanzo enciclopedico sulle diverse forme dell’eros, tra sogni fantasmi e ipocrisie
Schmitt: “Siamo schiavi delle pulsioni in cerca d’amore”
di Fabio Gambaro


PARIGI «Questo messaggio solo per dirti che ti amo. Firmato: tu sai chi». Recita proprio così la sibillina lettera d’amore ricevuta contemporaneamente dai numerosi personaggi che popolano il nuovo vasto romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt, La giostra del piacere in uscita per e/o (trad. di Alberto Bracci Testasecca). Un’opera sorprendente, ricca di avventure e disavventure erotico-sentimentali che s’intrecciano e si rincorrono in una continua sarabanda di desideri, amplessi e sentimenti amorosi. Lo scrittore francese già autore di una trentina di opere — tra romanzi, saggi, raccolte di racconti e opere teatrali — vi evoca l’universo multiforme dell’eros, seguendo le peripezie di un folto gruppo d’individui, diversi tra loro per età, sesso, professione e preferenze sessuali, ma tutti alle prese con l’anonima dichiarazione d’amore che inevitabilmente scatena in loro sogni e fantasie, ma anche equivoci e incomprensioni. Il tutto in nome di un edonismo diffuso che però è costretto a scontrarsi con le ipocrisie e i conformismi della società. «Volevo scrivere una specie di romanzo enciclopedico sulla varietà delle relazioni amorose», spiega Schmitt, il cui libro in Francia è in classifica da undici settimane. «In amore, facciamo tutti gli stessi gesti, ma attribuendo loro ogni volta un significato diverso. Ogni pelle che tocca un’altra pelle ha una storia particolare e unica. Le forme dell’amore sono infinite, e non esiste una forma canonica da privilegiare rispetto alle altre».
I molti protagonisti del romanzo abitano tutti attorno a una famosa piazza di Bruxelles, dove tra gli alberi vivono moltissimi pappagalli. Perché questa ambientazione?
«In quella piazza, chiudendo gli occhi si ha l’impressione di essere in una giungla nel bel mezzo della civiltà. Mi è sembrata una bella metafora della nostra condizione di uomini dominati dalle pulsioni, ma prigionieri di corpi che sono sociali e razionali. Insomma, la nostra parte di natura fatta di desideri e pulsioni è spesso sepolta da strati di civiltà sociale, politica, culturale e ideologica».
È per questo che nellaGiostra del piacere i sentimenti dell’amore si scontrano spesso con le complicazioni del sesso e del desiderio?
«Le relazioni tra amore e erotismo sono di moltissimi tipi. Spesso la sessualità è un modo per arrivare all’amore, nel senso che una relazione iniziata nel nome del desiderio erotico può in seguito trasformarsi in sentimento amoroso. Altre volte invece la sessualità impedisce all’amore di nascere. Naturalmente esistono anche gli amori senza sessualità. A me interessava mostrare questi diversi aspetti e spazi dell’eros sullo sfondo di una società dominata dall’ossessione del piacere sessuale a tutti i costi».
Nello stesso tempo però assistiamo anche al ritorno di un certo moralismo…
«Che personalmente combatto. Per me, infatti, tutto quello che riguarda la sessualità non deve dipendere dalla morale. Da questo punto di vista, continuo ad essere un discepolo di Diderot. La sessualità è fonte di piacere e un modo per sviluppare armoniosamente la propria personalità. Di conseguenza, nel romanzo c’è una forma di benevolenza nei confronti di tutte le manifestazioni dell’eros. E dico “benevolenza” perché preferisco questo termine alla parola “tolleranza”».
Perché?
«La tolleranza implica l’idea di uno sforzo, mentre la benevolenza mi sembra una virtù. La tolleranza è lo sforzo che ci permette di arrivare alla virtù della benevolenza».
Indagando la varietà delle forme dell’eros, quello che le interessa è la difesa di una certa forma di edonismo?
«Certamente. Occorre approfittare della vita, dell’amore e del sesso senza preoccuparsi del giudizio degli altri. La mia è un’apologia del piacere che rifiuta di giudicare moralmente e di discriminare le diverse forme di piacere sessuale. Contemporaneamente però cerco anche di riflettere sulla dialettica tra libertà e destino. La sessualità infatti assomiglia al destino, giacché un desiderio è sempre subito. Non scegliamo un desiderio, lo proviamo e basta. Il desiderio non dipende dalla volontà o da una scelta. Nel romanzo, mi domando quale sia il nostro spazio di libertà rispetto a questo destino».
Che risposta s’è dato?
«La sola libertà possibile è quella che nasce dalla coscienza di tale destino e dalla sua accettazione. Alcuni personaggi del romanzo finiscono per scoprire quello che desiderano e si realizzano accettando di essere quello che sono. Altri invece distruggono la loro vita proprio perché non hanno la lucidità di ammettere quello che sono. Così facendo provocano sofferenze a se stessi e agli altri».
L’erotismo ha bisogno di fantasia e di fantasmi. È questo il significato delle anonime lettere d’amore al centro del romanzo?
«Effettivamente l’amore è il territorio dei fantasmi e dei sogni. Un territorio che ognuno crea in funzione di quello che è, di quello che ha vissuto, di ciò che gli manca e di ciò che desidera. Secondo me, le lettere d’amore dovrebbero essere sempre anonime, perché il vero amore è fatto di generosità disinteressata, mentre chi firma una lettera d’amore si attende sempre qualcosa in cambio. Il vero amore è un dono di sé all’altro senza condizioni, motivo per cui è quasi sempre impossibile. La sessualità invece è fondata sullo scambio, non è mai disinteressata. Per questo amore e sessualità convivono così difficilmente. Forse il solo vero amore è quello asessuato che si prova per i figli o i genitori. Dicendo ciò, riconosco di avere una visione idealistica dell’amore, una visione quasi evangelica. Il che non m’impedisce di riconoscere il valore positivo della sessualità».
Era la prima volta che scriveva delle scene erotiche. È stato difficile?
«È stato delicato, perché volevo evocare con precisione la realtà del sesso, ma senza scrivere delle pagine per un’antologia della letteratura erotica. Il mio non è un romanzo erotico, è un romanzo sull’erotismo, che però non arretra di fronte a nulla. Non a caso, evoco tutte le forme dell’erotismo, dagli amori eterosessuali a quelli omosessuali, dallo scambismo alle relazioni sadomaso, e via dicendo. Volevo parlare di tutto, con una scrittura suggestiva, ma restando pudico».
Non c’è il rischio di trasformare il lettore in un testimone un po’ voyeur?
«Uno scrittore è un bambino che cammina per le strade cercando di immaginare quello che succede dietro le finestre. È nata così la mia vocazione di scrittore. Questa forma di voyeurismo è magnifica perché fa appello all’immaginazione. Io non mostro, preferisco suggerire, lasciando che sia il lettore a completare la scena con la sua immaginazione. In questo modo, egli diventa un voyeur attivo e fantasioso che partecipa alla costruzione del libro. Immagina molto di più di quello che vede, proiettando sulla scena i propri sogni e i propri fantasmi. È questo il lato meraviglioso della letteratura».

IL LIBRO La giostra del piacere di Eric-Emmanuel Schmitt (e/o pagg. 720, euro 19,50)