sabato 16 novembre 2013

l’Unità 16.11.13
I sindacati in piazza:
«Basta favole sulla ripresa»
di Luigina Venturelli


MILANO «Basta favole. Non bastano due sedute positive della Borsa o il calo dello spread di un paio di punti per dire che c’è la ripresa. La ripresa ci sarà solo quando un lavoratore non avrà più paura di perdere il proprio posto il giorno dopo» sbotta Susanna Camusso davanti ai manifestanti che, sotto la pioggia battente, si sono riuniti in piazza della Scala a Milano al termine del corteo unitario organizzato dai sindacati confederali. Invece la crisi c’è ancora. E, a confermare le parole della leader Cgil, migliaia di lavoratori sono scesi in piazza in tutto il Paese a Milano, Brescia, Bologna, Modena e Imola, nelle Marche e in Umbria, a Roma, Napoli e Salerno, in Veneto e nel Piemonte in occasione dello sciopero generale di quattro ore per protestare contro la legge di Stabilità, alla fine di un’intera settimana di mobilitazione articolata a livello territoriale che ha coinvolto tutti i settori produttivi. Lavoratori, appunto, spaventati dalla possibilità di rimanere senza un’occupazione dall’oggi al domani. Ed arrabbiati per l’incapacità o la mancanza di volontà del governo di predisporre una manovra economica in grado di affrontare i tanti problemi sollevati dalla peggior recessione degli ultimi decenni.
LA QUESTIONE FISCALE
Camusso non fa sconti all’esecutivo guidato da Enrico Letta. Non nasconde l’irritazione per i continui annunci di una fantomatica ripresa alle porte. Parla di «un Paese allo stremo», in cui «non si dà respiro a retribuzioni e pensioni» e in cui «si svendono o si chiudono le aziende strategiche», con espliciti riferimenti alla vicenda Telecom. Un Paese al quale si sta per infliggere l’ennesima «legge finanziaria in continuità con le politiche degli ultimi anni», con la conseguenza che «staremo ancora un po’ peggio, la disoccupazione aumenterà e le famiglie faranno fatica ad arrivare alla fine del mese». Di fronte a questa situazione, la ricetta dei sindacati è semplice: «Non chiediamo la luna, diciamo di rimettere il Paese sulle sue gambe» ribadisce il segretario generale della Cgil, «di aumentare il reddito di lavoratori dipendenti e pensionati e, grazie a ciò, di far ripartire la domanda aggregata e con essa la produzione». Invece non c’è traccia di simili interventi nella manovra, «si sono disperse risorse sull’Imu quando avrebbero potuto essere concentrate più efficacemente sul lavoro», mentre «l’83% delle tasse pesa ancora su lavoratori e pensionati».
Sul punto interviene il leader della Cisl Raffaele Bonanni, anche lui in corteo a Milano: «Le tasse saranno la tomba dell’economia oltre che della democrazia in Italia», che chiede di intervenire immediatamente sul fronte fiscale, che nell’impianto attuale presentato dal governo appare «molto debole, non solo per i lavoratori e i pensionati, ma anche per l'economia». Invece «bisogna metter le mani in modo deciso sulle tasse e, per farlo, bisogna tagliare le spese deviate della pubblica amministrazione e fare chiarezza su questo aspetto con una discussione chiara e alla luce del sole». Solo in questo modo, sostiene Bonanni, si potranno reperire le risorse necessarie per arrivare a «un forte taglio sull’Irpef».
IL DECLINO INDUSTRIALE
Il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, parla invece dalla manifestazione organizzata a Perugia, dove i lavoratori ieri si sono fermati in sciopero per otto ore: «Penso che ci sia un eccesso di ottimismo, perché anche nel 2014 la disoccupazione in Italia è destinata ad aumentare». E difficilmente potrebbe essere altrimenti, con una manovra che «non fa nulla per creare una prospettiva positiva per l’occupazione» e con «una crisi industriale che sta distruggendo le basi materiali per la creazione di lavoro, cioè le imprese, a una velocità impressionante».
Ma se di eccesso di ottimismo di tratta, riguarda alcuni esponenti dell’esecutivo. Nessuno dei manifestanti che ieri hanno sfilato con le bandiere di Cgil, Cisl e Uil nutre aspettative particolarmente rosee per il futuro. Non gli sfrattati che a Bologna sono scesi in piazza armati di carriole, con dentro fantocci vestiti come persone normali, una valigia in grembo e un cartello che recita: «Ho perso prima il lavoro e poi la casa, ora la speranza». Non i dipendenti delle 160 aziende in crisi in Umbria, che hanno partecipato alla protesta con lo striscione: «Lo stato sociale è morto». E nemmeno i lavoratori che a Torino hanno portato in corteo la scritta «Il tempo è scaduto», perché se «i politici sono ossessionati dall’Imu, noi dal lavoro che non c’è, dalla povertà e da un’emergenza sociale che prima o poi si infiamma».

il Fatto 16.11.13
L’Europa straccia la manovra
Arriva il verdetto della Commissione di Bruxelles sulla Legge di Stabilità: tutto sbagliato
di Stefano Feltri


Tutto sbagliato, tutto da rifare. Il giudizio della Commissione europea sulla legge di Stabilità per i prossimi tre anni è molto più duro del previsto: le stime di crescita su cui si basa il governo sono troppo ottimistiche e per rispettare gli obiettivi sul debito mancano almeno 8 miliardi, quindi il premier Enrico Letta può scordarsi la deroga di 3 miliardi al tetto sul deficit per fare investimenti, togliere l'Imu è stato un errore. O l'Italia cambia subito approccio oppure il prossimo anno tornerà sotto procedura di infrazione. Questa la “Commission opinion”, sostanziata dai “documenti di lavoro” allegati. Un disastro per Letta e il suo ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni che nelle scorse settimane avevano dato per certa una sostanziale approvazione. Negli ultimi giorni, però, Saccomanni aveva capito che le indiscrezioni pubblicate dai giornali italiani erano troppo generose e che la Commissione di José Barroso stava preparando sorprese negative. Quindi era voltato a Bruxelles (con un volo di Stato, scelta irrituale che gli ha attirato polemiche) per discuterne con Rehn. Niente da fare, il documento della Commissione si chiude con la richiesta di “adottare ogni misura necessaria” per rispettare gli impegni concordati con Bruxelles, visto che la legge di stabilità è inadempiente.
LE NUOVE REGOLE. È il primo anno che la Commissione ha il potere di dare un parere preventivo sulla legge che imposta il bilancio dei prossimi tre anni, è una novità radicale introdotta dal “two pack”, due regolamenti europei (immediatamente esecutivi senza provvedimenti nazionali da approvare) entrati in vigore il 30 maggio 2013. La filosofia è: meglio prevenire che curare, segnalare subito i problemi permette di risolverli senza arrivare a mettere un Paese sotto processo. Nella prima parte dell'anno, gli Stati dell'area euro presentano a Bruxelles i loro piani di riforme e gli obiettivi di bilancio che vogliono raggiungere, nei sei mesi successivi applicano i provvedimenti necessari a ottenere i risultati desiderati. Con la Commissione a vigilare che le misure siano all'altezza degli intenti. “Ogni giorno quest’anno, così come l’anno scorso, è politicamente delicato in Italia. Noi dobbiamo fare il nostro lavoro indicando la strada verso conti sostenibili”, ha risposto Olli Rehn a chi gli chiedeva conto dell'ingerenza europea nella politica nazionale.
STIME SBALLATE. Il “two pack” è una regola che l'Italia non ha mai contestato, anzi. E ora si vedono i primi effetti: i contorcimenti contabili con cui Letta riesce a tenere insieme Pd e Pdl, a Bruxelles non funzionano. E il giudizio di Rehn e di tutto l'esecutivo comunitario è molto duro. L'Italia ha usato previsioni di crescita esagerate (Pil +1,1 per cento nel 2014, contro lo 0,7 della Commissione), fatte dal governo in autonomia senza usare un ufficio di bilancio indipendente che, dal prossimo anno, sarà obbligatorio. Poi ha lasciato andare il deficit, che nel 2014 andrà al 2,7, uno 0,2 per cento in più (3 miliardi) rispetto a quello che Letta aveva promesso a Bruxelles. Il debito continua a crescere, sarà il 133 per cento del Pil nel 2013, e l'unica misura drastica annunciata, un pacchetto di privatizzazioni che vale 7,5 miliardi “non è sufficientemente dettagliato”.
TROPPO DEBITO. Per ridurre il debito al ritmo concordato con la Commissione, l'Italia dovrebbe farlo calare di 9,9 miliardi in un anno, cioè 8,8 miliardi in più di quanto previsto dal governo. Nel 2014 serve un intervento per altri 7,5 miliardi, uno 0,5 per cento del Pil che dovrebbe permettere di raggiungere il pareggio di bilancio strutturale, oppure l'Italia passerà dalla parte “preventiva” del Patto di Stabilità (la lista dei buoni) a quella correttiva, di chi rischia di finire sotto procedura d'infrazione, con gli inevitabili blocchi di fondi europei, pericolo di multe e sfiducia dei mercati. Letta aveva celebrato a lungo l'uscita dell'Italia dalla procedura d'infrazione, lo scorso maggio, dopo quattro anni: allora la Commissione europea aveva esaminato i conti del 2012, quelli che il premier ha ereditato dall'esecutivo Monti, ma già il prossimo anno il giudizio potrebbe ribaltarsi. Una nota del ministero dell’Economia prova a rassicurare: “Nel formulare il suo giudizio la Commissione non tiene conto di importanti provvedimenti annunciati dal governo, anche se non formalmente inseriti nella legge di Stabilità, e già in fase di attuazione”. In effetti a Bruxelles non interessano gli annunci, finché non diventano provvedimenti concreti.
QUESTIONE DI IMU. La Commissione indica anche cosa fare: cambiare idea sull'Imu. La combinazione di nuove tasse sui servizi legata agli immobili (Tasi) porterà meno incassi che la somma di Imu e Tares, e questa è l'unica parte del documento che piacerà al Pdl. Questa scelta “ridurrà ulteriormente lo spazio per un più sostanzioso spostamento del carico fiscale”: la Commissione chiede da sempre che le tasse scendano sul lavoro e salgano sugli immobili, anche l'Iva dovrebbe cambiare, riducendo al minimo i beni con aliquota scontata (4 e 10 per cento). Bruxelles intima al governo di rispettare le raccomandazioni ricevute nei mesi scorsi. Tradotto: siete ancora in tempo, tassate di più gli immobili e meno il lavoro. La seconda rata dell'Imu prima casa 2013 vale 2,4 miliardi, il governo ha promesso che non sarà pagata ma non ha mai trovato coperture alternative. Dopo l'intervento della Commissione sarà più difficile alzare le tasse altrove per sgravare le case e compiacere il Pdl di Silvio Berlusconi.
LA SFIDA NEI NUMERI
Tocca al commissario Cottarelli tagliare per compensare i buchi. L’Italia non avrà diritto agli investimenti fuori dal deficit

il Fatto 16.11.13
Il governo stordito scarica i guai sul supercommissario
Letta e Saccomanni non sanno come rispettare le richieste della Ue
Toccherà a Cottarelli trovare i soldi con la Spending Review: diversi miliardi all’anno
di Marco Palombi


E ora, dopo le critiche della Commissione europea al disegno di legge Stabilità, che farà il governo? La risposta è: niente. La manovra economica per il 2014 non sarà modificata nei saldi e comunque, sono convinti a Palazzo Chigi, tra le nuove norme per il rientro dei capitali (un nuovo incontro con la Svizzera è in programma a breve), gli introiti della rivalutazione delle quote di Bankitalia e la spending review del commissario Carlo Cottarelli – da cui il ministro Fabrizio Saccomanni si aspetta a regime risparmi per 15-30 miliardi l’anno – il problema non si pone dal lato delle operazioni di bilancio. Il vero buco nero di questo piano è la crescita del Pil, cioè del denominatore su cui si calcolano tutti i parametri europei: per il 2014, l’esecutivo prevede un ottimistico +1,1 per cento, ma se quel numero è sbagliato tutti i conti saltano. Per questo ieri Enrico Letta, oltre a sminuire la presa di posizione di Bruxelles (“non è una bocciatura”), ha anche cominciato a rispondere all’esecutivo Ue con toni insoliti: “Noi abbiamo fatto i conti giusti e la manovra funziona, l’Italia starà dentro le regole, ma troppo rigore fine a se stesso rischia di soffocare la ripresa”. Recuperare un altro 0,5 per cento sul disavanzo pubblico – come chiede il commissario Olli Rehn – significa infatti adottare misure recessive (tagli di spesa o nuove tasse che siano), destinate cioè a comprimere il prodotto nazionale. Discorsi che erano già stati fatti in queste settimane tra il premier, la tecnostruttura di Bruxelles e le più importanti cancellerie europee. Di più: Letta era sicuro che la Commissione sarebbe stata benevola con l’Italia e aveva già cominciato a far trapelare ai giornali la notizia della promozione della legge di stabilità.
COSA È SUCCESSO ALLORA? Non è chiaro, ma di certo il premier l’ha presa male. Una successiva deduzione poco impegnativa è che consideri la Germania responsabile del voltafaccia di Bruxelles. Lo ammette sostanzialmente lui stesso, nel pomeriggio, intervenendo in teleconferenza ad un convegno della Fondazione Merloni: “Io lotto per un’Europa che capisca che di sola austerità si muore e che questa linea farà vincere i Le Pen e gli euroscettici, come Grillo da noi, alle prossime elezioni europee”. Non è chiaro? “Giovedì ho detto ai tedeschi che se continuano su questa strada continueranno un altro po’ a essere forti, ma avranno attorno un deserto. E se saranno forti da soli, si indeboliranno anche loro”. Insomma, visto che la via dell’appeasement bilaterale con Berlino non è riuscita, l’unica via d’uscita onorevole per il governo ora è ingaggiare una battaglia politica alla luce del sole: “Con il semestre italiano a maggio termina la legislatura dell’austerità in Europa e comincia quella della crescita”, ha scandito il premier. Sono le frasi che hanno spinto Renato Brunetta (Pdl) a parlare di “un Letta a scoppio ritardato”, che si ricorda cioè di porre il tema della recessività dei vincoli europei solo dopo che la sua linea sui “sacrifici che pagano” in termini di capitale politico e spazio di manovra nei bilanci è stata ufficialmente rottamata dalla Commissione.
Pure l’unicorno della ripresa, che il presidente del Consiglio sostiene di vedere da settimane, è più sfuggente di quanto sembri credere il nostro: “Io ci spero molto – gli risponde in diretta Romano Prodi - ma dai dati non sembra”. L’uomo che ha legato il suo nome all’euro non pare convinto della volontà di cooperare dei partner europei: “Lo dico da tempo che la vera Cina è la Germania”, scolpisce riferendosi all’aggressiva politica pro-esportazioni tedesca favorita proprio dalla moneta unica. La linea che s’afferma nel demi-monde politico ed economico del Professore, dunque, è quella di scaricare su Berlino l’attuale fallimento del progetto europeo, dimenticandone limiti e irrazionalità ontologiche: “Ma poi perché dobbiamo essere sempre sotto esame in un modo statico, con una specie di formulario, e non si capisce invece che c’è il momento della crisi in cui le regole devono essere cambiate? – si chiede retoricamente Prodi – È vero, abbiamo un bilancio pubblico in grande difficoltà, ma siamo messi sotto processo da maestri che non hanno un gran diploma neppure loro”.
La conclusione è un invito a Letta: “Non è possibile che il dibattito sul-l’austerità salti fuori solo quando gli americani sgridano i tedeschi. Il tuo governo è impegnato, ma c’è un momento in cui bisogna anche litigare”. Il potere di condizionamento dell’esecutivo italiano, però, s’è visto all’opera giusto ieri.

l’Unità 16.11.13
Jean-Paul Fitoussi: «Crescita, dovete fare molto di più»
«Con l’austerity l’Europa non ha futuro L’ossessione del deficit va abbandonata»
«C’è bisogno di grandi investimenti su sapere, ricerca e green economy»
Si tende a non distinguere tra investimenti e spese: i progressisti devono saperlo fare. Accettare i disavanzi se danno crescita
intervista di Umberto De Giovannangeli


L’economista francese:  «Oggi è ancora possibile progettare il futuro. Ma solo se questo futuro è declinato in chiave europea. E il futuro da realizzare è quello che punta decisamente sugli investimenti per la crescita. Condivido in proposito quanto affermato dal premier italiano. L’unico consiglio che mi sento di dare a Enrico Letta è quello di andare fino in fondo nel mettere in pratica le sue convinzioni in materia di crescita, facendo seguire alla parole i fatti». A sostenerlo è Jean-Paul Fitoussi, Professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. È attualmente direttore di ricerca all’Observatoire Francais del Conjonctures Economiques, istituto di ricerca economica e previsione. «L’Europa rimarca ancora Fitoussi ha un futuro se si libera dall’ossessione del deficit pubblico».
Professor Fitoussi, la Germania va per la sua strada. No agli Eurobond e al fondo di riscatto. Anche il futuro governo di grande coalizione tedesco, Cdu-Spd, non prevederebbe, secondo indiscrezioni, per il futuro dell’eurozona alcuna condivisione del debito.
«Fa bene ad usare il condizionale e di sottolineare che si tratta di indiscrezioni, perché a me pare invece di vedere qualche apertura di Berlino. Qualcosa cambia. Il presidente della Spd, vuole cambiare le cose. E nella stessa direzione del cambiamento si muovono alcune affermazioni del candidato della “famiglia” socialista europea alla successione di Barroso alla presidenza della Commissione europea, Martin Schulz. Credo che siamo in un contesto in qualcosa sia possibile fare, determinando una discontinuità con il ciclo iperliberista, ma perché ciò accada, perché la politica tedesca si sposti il più possibile in questa direzione, molto dipenderà dal coraggio degli altri leader politici dei nostri Paesi, Altrimenti niente succederà».
Parlando al Congresso federale della Spd, il premier italiano, Enrico Letta, ha sottolineato che l’Italia avrà le carte in regola ma ha aggiunto, «serve una svolta nella Ue». Dal suo punto di vista, quali dovrebbero essere le basi di questa svolta? «Questa svolta deve essere una svolta sugli investimenti. E questo in un chiaro orizzonte, politico, progettuale, programmatico, europeista».
Su quali settori strategici puntare?
«A livello europeo, occorrerebbe puntare su grandi investimenti nel campo delle fonti energetiche, sulla “green economy”, così come nelle infrastrutture, nel sapere e nella ricerca. È questo il momento di farlo. Questa sì sarebbe una svolta verso il futuro e non un “svolta” verso il passato, che è poi quello che si continua a fare, pensando che il problema fondamentale siano i conti in ordine. Una Europa che resta prigioniera dell’ossessione del debito pubblico, è una Europa che rinuncia ad avere un futuro. Insisto su questo punto, perché lo ritengo davvero dirimente: per uscire dalla crisi c’è bisogno di un programma europeo d’investimenti e di una strategia chiara per combattere la disoccupazione giovanile. Non sarà l’austerità, invece, a tirarci fuori dalla recessione».
È dunque questo il grande spartiacque tra progressisti e conservatori?
«Direi proprio di sì. Una premessa è d’obblico, e non ha un valore nominale: spesso si tende a non distinguere tra “spese” e “investimenti”, mettendo tutto nello stesso calderone. Non è così. Una visione progressista, ed europeista, deve saper rimarcare la differenza sostanziale. E proprio perché è in grado di far questo, può legittimamente sostenere che bisogna accettare un disavanzo per “causa investimenti”. E aggiungere, che questo disavanzo deve essere fatto e gestito a livello europeo. L’Europa è il più grande Paese del mondo a non essere indebitato. La Commissione europea non è indebitata. C’è grande spazio per progettare il futuro. L’austerità non conduce da nessuna parte, perché fa abbassare il Pil e dunque non migliora il rapporto debito su Pil. Se c’è bisogno di soldi pubblici per stimolare gli investimenti, non bisogna aver paura del deficit. Se per un anno o due il deficit sfora i limiti di Maastricht, ma intanto l’economia riprende a crescere, alla fine il Pil aumenta e il disavanzo tende a rientrare. Bisogna ritornare alla crescita con una manovra espansiva di ampio raggio, che includa anche l’unione bancaria. Ma dev’essere una manovra concordata a livello europeo. Non possono essere i singoli Paesi a farsi carico della ricapitalizzazione delle banche, indebolite dai titoli di Stato che hanno in portafoglio. Bisogna solamente avere delle politiche normali, come fanno negli Stati Uniti e anche in Giappone. Noi andiamo verso almeno un decennio perso e questo significa che andiamo verso una situazione di insostenibilità politica perché la democrazia non è compatibile con la disoccupazione di massa».
L’Italia assumerà la presidenza dell’Ue nel secondo semestre del 2014. Anche in questa chiave, quale consiglio si sentirebbe di dare a Enrico Letta?
«Non credo che il presidente Letta abbia bisogno di consigli perché mi pare ferrato nelle materie che abbiamo trattato. Se proprio devo farlo, beh, il solo consiglio che gli posso dare è di far seguire i fatti alle parole. E dunque di andare fino in fondo alle sue convinzioni».

Repubblica 16.11.13
La trappola dell’Euro
di Paul Krugman

A I TEMPI dello scivolone della Grecia, quasi quattro anni fa, alcuni analisti (me compreso) credettero di assistere all’inizio della fine dell’euro, la valuta comune europea.
Altri, più ottimisti, ritennero che un regime di amorevole disciplina — ovvero: un aiuto limitato nel tempo e abbinato a delle riforme — avrebbe prodotto entro breve una ripresa. Sia gli uni che gli altri si sbagliavano.
Ci siamo trovati di fronte, infatti, a una crisi protratta, che non porta mai ad alcuna risoluzione. Ogni volta che l’Europa sembra sul ciglio del precipizio, i legislatori trovano il modo di scongiurare la catastrofe. Analogamente, ogni volta che si scorgono gli indizi di un’autentica ripresa qualcosa va storto.
Come è appena accaduto. Non molto tempo fa, le autorità europee avevano dichiarato che il continente aveva svoltato: il mercato dava nuovi segni di fiducia e la crescita era in ripresa. E adesso che su gran parte dell’Europa incombe lo spettro della deflazione, ecco spuntare un nuovo motivo di preoccupazione — mentre il dibattito sul da farsi sta assumendo toni davvero sgradevoli.
Un po’ di contesto: la Banca centrale europea, o Bce, equivalente europeo della Federal Reserve, dovrebbe riuscire a mantenere l’inflazione attorno al due per cento. Perché non attorno allo zero? Per diversi motivi, il più importante dei quali, ad oggi, sta nel fatto che per le travagliate economie dell’Europa meridionale un tasso generale di inflazione troppo vicino allo zero si tradurrebbe, di fatto, in deflazione. E per dei Paesi già gravati da un debito ingente, la deflazione presenta effetti collaterali economici incresciosi. Ecco perché il fatto che l’inflazione europea abbia iniziato a scendere ben al di sotto del target è fonte di grande preoccupazione; nel corso dell’ultimo anno i prezzi al consumo sono cresciuti solo dello 0,7 percento, mentre i prezzi “core”, che escludono il costi volatili degli alimenti e dell’energia, sono aumentati solo dello 0,8 percento.
Occorreva fare qualcosa, e la scorsa settimana, con un gesto palesemente opportuno e al tempo stesso palesemente inadeguato, la Bceha tagliato i tassi di interesse. È chiaro che l’economia europea ha bisogno di una spinta, ma l’intervento della Bce è destinato a produrre, tutt’al più, una differenza marginale. Rappresenta comunque un passo nella giusta direzione.
La mossa della Bce ha suscitato una controversia enorme, sia all’interno che all’esterno della Bce. E la controversia ha assunto toni infausti (quanto meno per chiunque ricordi il terribile passato dell’Europa), poiché le discussioni sulla politica monetaria europea non sono semplicemente uno scontro di idee, ma assomigliano sempre più spesso a uno scontro tra nazioni.
Ad esempio, chi ha votato contro il taglio del tasso? I due membri tedeschi del board della Bce, a cui si sono aggiunti i direttori delle banche centrali olandese e austriaca.
E chi, al di fuori della Bce, ha criticato con maggiore durezza l’intervento? Gli economisti tedeschi, che oltre ad avversare la mossa della banca nella sostanza, hanno anche tenuto a porre l’accento sulla nazionalità di Mario Draghi, presidente della Bce, che è italiano. L’influente economista tedesco Hans-Werner Sinn ha dichiarato che Draghi stava semplicemente tentando di permettere all’Italia di accedere a prestiti a basso tasso di interesse, mentre secondo il principale economista del settimanale Wirtschafts Woche, il taglio del tasso sarebbe il «diktat di una nuova Banca d’Italia, cheha sede a Francoforte».
Simili insinuazioni sono estremamente ingiuste nei confronti di Draghi, i cui sforzi per contenere la crisi dell’euro sono al limite dell’eroico. Anzi, mi spingo sino ad affermare che senza la sua leadership l’euro probabilmente sarebbe crollato nel 2011 o nel 2012. Ma lasciamo stare i singoli. Ciò che spaventa, qui, è il fatto che la faccenda sta assumendo i toni di uno scontro tra teutonici e latini, con l’euro — che avrebbe dovuto unificare gli europei — che invece li separa.
Cosa sta accadendo? Si tratta in parte di stereotipizzazioni nazionalistiche: i tedeschi vigilano costantemente per scongiurare la possibilità che quegli scioperati del sud Europa intaschino il denaro da loro guadagnato con fatica. C’è però dell’altro: i tedeschi odiano l’inflazione, eppure (poiché la Germania sta vivendo un momento di boom, malgrado le altre nazioni europee registrino livelli di disoccupazione degni della Grande Depressione) se la Bce riuscisse a portare l’inflazione media europea attorno al due percento l’inflazione tedesca probabilmente andrebbe ben oltre il tre percento.
Può sembrare ingiusto, ma è proprio così che l’euro dovrebbe funzionare. Anzi: è così che deve funzionare. Se si condivide una valuta con altri Paesi, può capitare di assistere, talvolta, a un’inflazione superiore alla media. Negli anni precedenti alla crisi finanziaria globale, l’inflazione in Germania era bassa, mentre in Paesi come la Spagna era relativamente alta. Le regole del gioco impongono però un rovesciamento dei ruoli: si tratta di vedere se la Germania è pronta ad accettare queste regole. Ad oggi, la risposta non è chiara.
Come ho già detto, l’aspetto realmente triste è che l’euro avrebbe dovuto avvicinare i Paesi europei, in modi sia sostanziali che simbolici. Avrebbe dovuto incoraggiare dei rapporti economici più stretti, e promuovere un senso di identità comune. Invece ha determinato un clima di risentimento e di sdegno, sia da parte dei creditori che dei debitori. E non se ne vedela fine.
© 2013 New York Times News Service (Traduzione di Marzia Porta)

Corriere 16.11.13
L’Inpdap, l’ex cassaforte delle pensioni pubbliche e quei dieci miliardi che mancano all’appello
di Enrico Marro


ROMA — Viene da lontano il buco dell’Inpdap che si è scaricato nel bilancio dell’Inps compromettendone i conti. Era il 2007, l’anno prima, nel 2006, il deficit del bilancio pubblico aveva superato il 3% del Prodotto interno lordo, arrivando al 3,3%, oltre il tetto imposto dai parametri di Maastricht. Nel 2007 sarebbe andata molto meglio, e infatti il deficit chiuse all’1,5%, ma c’era da garantire un buon risultato anche per il 2008. Cosa che al governo di allora, una coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi, riuscì, tanto che si chiuse l’anno successivo con un deficit pari al 2,7% del Pil. Il tutto grazie anche a una legge Finanziaria (si chiamava ancora così la legge di Stabilità) che correggeva i conti pubblici 2008 per 11 miliardi e mezzo. Ma fu con quella manovra che passò un cambiamento del modo di finanziare l’Inpdap che ha contributo ad aggravare il deficit dell’istituto di previdenza dei dipendenti pubblici che poi è confluito nel SuperInps, l’operazione di fusione di Inps, Inpdap ed Enpals (sport e spettacolo) decisa dal governo Monti nel 2011. In sostanza, dal 2008 in poi il deficit Inpdap, dovuto al crescente squilibrio strutturale tra entrate contributive e spese per le pensioni dei dipendenti pubblici, non venne più coperto con trasferimenti dal bilancio dello Stato, cioè con un aumento della spesa pubblica, ma con «anticipazioni di Tesoreria», ovvero con prestiti che, in teoria, l’Inpdap dovrebbe restituire allo Stato e che quindi contribuiscono al disavanzo dell’istituto.
L’operazione alla quale ricorse il governo Prodi (ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa) non era una novità. Era già stata utilizzata per l’Inps nei decenni precedenti. Anche in questo caso, ricorda Giuliano Cazzola, che ha passato molti anni negli organi di controllo degli istituti previdenziali, lo Stato ripianava il deficit in parte con trasferimenti dal bilancio pubblico e in parte con anticipi di tesoreria, prestiti che tutti sapevano non sarebbero mai stati restituiti. Finché, nel 1998, «l’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, azzerò in un colpo solo il disavanzo patrimoniale dell’Inps che era arrivato a ben 160 mila miliardi di lire», 82,6 miliardi di euro. Dopo questa ripulitura il bilancio dell’Inps potè ripartire da zero e grazie anche ai grandi risparmi derivanti dalle ripetute riforme delle pensioni e a una gestione più efficiente ha migliorato i propri saldi. Antonio Mastrapasqua, alla guida dell’ente dal 2008, va particolarmente orgoglioso di aver riportato i conti in attivo e di aver chiuso i bilanci in avanzo fino al 2010, quando l’attivo patrimoniale era arrivato a ben 43 miliardi e mezzo. Poi, con lo scaricarsi degli effetti della crisi mondiale sul mondo del lavoro italiano, la musica è cambiata e già nel 2011 il bilancio chiuse in rosso per 2,2 miliardi. Ma era ancora niente rispetto a quello che sarebbe successo col SuperInps. Nel primo bilancio unificato, quello del 2012, si è infatti scaricato il deficit di 7,1 miliardi dell’Inpdap e il disavanzo patrimoniale di ben 17,4 miliardi. Risultato: l’Inps ha chiuso l’esercizio con un rosso di quasi dieci miliardi e il patrimonio si è pressoché dimezzato scendendo a 21,8 miliardi.
Bisognerà trovare una soluzione, è chiaro. Il dissesto della previdenza dei dipendenti pubblici ha una lunga storia. Fino al 1994 l’Inpdap non esisteva, c’erano le casse degli enti locali. Per i dipendenti delle amministrazioni centrali lo Stato incassava solo i contributi a carico dei lavoratori mentre per la parte datoriale non versava (a se stesso): sarebbe stata una partita di giro visto che era sempre lo Stato a pagare le pensioni ai suoi dipendenti. Ancora nel 2009 l’allora commissario straordinario dell’Inpdap, Paolo Crescimbeni, denunciava una forte evasione contributiva da parte del datore di lavoro pubblico. Adesso non è più così, assicura il Tesoro. Ma il blocco del turnover e lo squilibrio fra entrate contributive e uscite per pensioni sono fattori che non si possono ignorare. Soprattutto perché prima o poi si scaricheranno comunque sul bilancio dello Stato. 

l’Unità 16.11.13
Studenti in piazza: più diritti e meno tagli
Cortei in molte città Incidenti a Bologna e Roma
Scontri e assedio a Google
Dieci domande alla ministra
di Luciana Cimino


Nonostante la pioggia battente su tutta Italia, migliaia di studenti sono scesi in piazza ieri per reclamare fondi per il diritto allo studio, per la difesa della scuola pubblica e contro la legge di stabilità. «Change the way», invertire la marcia, è la seconda grande mobilitazione dell' autunno e apre anche una settimana di intensa agitazione nelle scuole e nelle università. Con lo slogan «Stabilità per pochi, precarietà per tutti», almeno 100 mila studenti, secondo gli organizzatori (Rete della Conoscenza, l'Unione degli Studenti e Link) hanno manifestato da Nord a Sud con lo scopo di «lanciare un “ultimatum” al governo per denunciare la drammatica condizione che i giovani e gli studenti vivono nel Paese, mentre si discute in Parlamento una legge di stabilità che non risolve i problemi». La giornata di ieri è cominciata prestissimo: con un blitz alle otto davanti al Ministero dell’Istruzione pubblica, gli studenti dell’Udu hanno consegnato una lettera con 10 domande alla ministra Maria Chiara Carrozza. «È giunto il momento di risposte concrete», hanno scritto chiedendo il parere di Carrozza su, tra le altre cose, valutazione, baronie universitarie, tasse e diritto allo studio, riforma dei cicli, rappresentanza studentesca e numero chiuso.
Nella capitale anche la manifestazione principale della giornata con due cortei, uno di universitari, l’altro di studenti medi. Tra gli slogan anche alcuni sul recente scandalo dell’Atac. I cortei hanno tentato di avvicinarsi al Senato ma sono stati bloccati dai cordoni delle forze dell’ordine nelle vie limitrofe. Nessun incidente tuttavia, al contrario di quanto successo all'iniziativa dell’organizzazione di estrema destra, Blocco studentesco, dove circa 80 militanti hanno tentato di forzare un cordone delle forze dell’ordine per raggiungere il Campidoglio dopo un sit-in in piazza Santi Apostoli. La polizia, però, li ha respinti con una carica di contenimento. Due neofascisti sono stati fermati.
Da Torino, a Genova (dove il corteo è stato aperto dallo striscione «Non abbelliremo la vostra crisi»), a Palermo sono state decine le manifestazioni. «Avevano promesso politiche per il futuro dei giovani, investimenti in scuole e università, nuovi posti di lavoro e l’uscita dalla crisi. Tutte menzogne. Con questa legge di Stabilità ci condannano all' invisibilità spiega Link Il blocco del turn over nega la possibilità a larga parte della nostra generazione di accedere al lavoro e continua a dequalificare scuole e università. Chi pagherà l’abolizione dell’Imu sostituita dalla Tasi? Chi ci rimetterà dal taglio di un miliardo di euro alla sanità e dai 500 milioni di euro sottratti alle Regioni? Chi subirà le politiche xenofobe e l’economia di guerra? La nostra generazione non è muta, è la politica che è sorda». A Pisa gli studenti hanno occupato simbolicamente un palazzo della Provincia, sede fino all’anno scorso, di un centro per l'impiego. A Bologna e a Cagliari ci sono state cariche e tafferugli con la polizia. A Milano blitz nella sede milanese di Google da parte dei militanti del centro sociale «Il cantiere» durante il corteo degli studenti. A Venezia, gli studenti del collettivo «Lisc» hanno occupato nel pomeriggio gli spazi del rettorato dell'Università Ca’ Foscari, mentre a Napoli ci sarebbero alcuni contusi tra le forze dell' ordine e tre identificati tra i manifestanti dopo alcuni scontri su via De Gasperi.
«VOGLIAMO RISPOSTE»
«La mobilitazione degli studenti non è mancata, ora pretendiamo risposte immediate dal governo e dal Parlamento ha detto Federico Del Giudice, portavoce Rete della Conoscenza Questa legge di stabilità va cambiata perché incentiva le tasse sugli studenti fuori sede con la Trise ma non basta, vogliamo una legge nazionale sul diritto allo studio e la messa in sicurezza delle scuole dal punto di vista dell'edilizia scolastica. Bisogna interrompere il ciclo di austerity a cui siamo sottoposti e che l’istruzione pubblica paga da anni». Anche Alberto Campailla di Link è soddisfatto della riuscita delle manifestazioni, «forti della mobilitazione pretendiamo che le nostre proposte vengano accolte, abbiamo presentato numerose richieste per modificare la legge di stabilità». Già domani si ricomincia con la Giornata Internazionale dello Studente. «Se la situazione non cambia la mobilitazione non si fermerà annuncia Roberto Campanelli, coordinatore nazionale UdS il dl Istruzione si dimostra totalmente insufficiente a risolvere i problemi degli studenti. Presto nelle scuole ripartiranno proteste, autogestioni e occupazioni».

l’Unità 16.11.13
Imparate ad ascoltare la protesta dei giovani
di Paolo Di Paolo


FRA I TANTI STRISCIONI VISTI IERI ALLE MANIFESTAZIONI STUDENTESCHE IN TUTTA ITALIA, UN PAIO AVEVANO PARTICOLARE EFFICACIA: «Non abbelliremo la vostra crisi» e «Ma quale stabilità, cambiamo scuole e società»». La protesta degli studenti non è semplicemente una costante stagionale, e sarebbe sciocco ridurla al solo aspetto esteriore, magari sovraeccitato o goliardico. È intanto il collante di una piccola comunità che si forma, che condivide un obiettivo, che definisce, spesso in modo creativo, una strategia di «lotta», legittima finché non violenta; e poi mantiene caldo un punto di attrito necessario sempre fra l’istituzione, il potere e le «energie nuove».
È l’eterno ri-conoscersi, in pubblico, di due parti: quella adulta, che detta le regole, e quella giovane, immatura ma anche impaziente e generosa, che le discute. Non è così anche in qualunque contesto familiare? Negli ultimi anni, in Italia e non solo, questa dialettica si è colorata di tinte più forti; si è caricata della sfiducia, del nervosismo, della rabbia di una generazione che si vede negare il futuro (il «futuro negato» era al centro non solo degli striscioni ma anche delle dieci domande rivolte al ministro dell’Istruzione Carrozza dall’Unione degli universitari). Ecco perché gli studenti ironizzano sulla parola «stabilità» in un Paese in cui il vecchio è fin troppo stabile, e affermano il loro rifiuto di «abbellire la crisi». Il cambiamento di rotta che chiedono pare sempre rinviato, o comunque non è mai decisivo. Così, il dialogo fra generazioni si congela sui rispettivi pregiudizi, rischiando di ridursi a un muro contro muro fra rottamatori e possibili rottamati in perenne difesa. Il fatto è che, per pigrizia, per paura, a volte anche per arroganza, molti «vecchi» hanno smesso di ascoltare. Liquidano con frasi fatte, a tutti i livelli, i giovani, magari un istante dopo avere esaltato un generico ricambio generazionale. Non che sia una novità: perfino Cicerone lamentava l’imbarbarimento delle nuove generazioni. La storia funziona così. Ma il problema non è il vecchietto sull’autobus a cui non viene ceduto il posto e parte con l’intemerata sui cattivi costumi del presente. Il problema è che il vecchietto è seduto da troppo tempo e si è incattivito, sta col fucile puntato. Conosce generosità solo nei confronti di sé stesso.
Non parlo solo dei soliti politici, degli uomini al potere. Parlo anche di quella torva massa di intellettuali invecchiati a loro insaputa che non perdono occasione per scuotere la testa di fronte al «deserto» del presente: tutto fa orrore, la crisi è nerissima, e i giovani oh, i giovani, pessima categoria! Non sapete quante volte mi devo sorbire, parlando con scrittori di settant’anni, la tiritera del «fa tutto schifo». E pensare che ci sono o c’erano fino a ieri novantenni ben più ottimisti: ve la ricordate la Hack? E la Montalcini? Ma in effetti la gente di scienza è sempre più ottimista, perché più informata.
Bisognerà trovare il modo di scongelare questo dialogo. Di ricominciato da qualche parte: da un punto in cui rottamare e essere rottamati non sia l’unica prospettiva. E non lo è certo il comizietto del Cavaliere ai «falchetti», con tanto di patetiche barzellette. Ci vuole uno sforzo che metta insieme il cervello e il cuore: uno sforzo, quindi, di comprensione reciproca. Fra i tanti libri scritti in questi anni sul rapporto tra padri e figli, ne spicca uno, ed è bellissimo. Si chiama «Gli sdraiati», è pubblicato da Feltrinelli e l’ha scritto Michele Serra. L’impresa è riuscita perché Serra non parte dalla più logora sociologia, ma da un «tu», l’unico pronome, insieme a «noi», che apre e non chiude. Tu è anche suo figlio, o comunque un figlio: puoi trovarlo, quando cresce, insopportabile, irritante, incomprensibile, ma non puoi smettere di amarlo. Perciò, farai di tutto per continuare a parlargli, anche quando sembrerà più difficile. «Gli sdraiati» mi ha commosso: per l’onestà . Non nasconde le distanze, non le nega, ma cerca di affrontarle, di prenderle di petto, senza eccessi di paternalismo, senza falsa complicità giovanilistica. Segna a dito l’unica strada che si possa fare: è in salita, una strada di montagna, si fa una fatica bestiale, ma si può fare insieme. I figli davanti più agili, più imprudenti, più veloci, in avanscoperta e i padri dietro. Silenziosi ma attenti, cedono il passo ma ci sono: così che se il figlio si volta e li chiama, li vede, e loro quando serve rispondono. Verso la fine del libro, Serra racconta una fantomatica battaglia fra vecchi e giovani. Sono le pagine più giuste e più utili per questa Italia congelata del 2013. «Questa orribile guerra è scoppiata soprattutto per colpa nostra dice il vecchio al giovane : non abbiamo mai accettato di dover scomparire, e quando toccherà a te – molto più presto di quanto credi – vedrai che non è facile accettarlo. Se posso darti un consiglio, comincia già da oggi ad allenarti». Lo dice dopo aver riconosciuto che «avevi ragione su un sacco di cose, anche se non me le ricordo tutte. Tu sai quali, e l’importante è che le sappia tu, visto che io presto non ci sarò più e toccherà a te camminare per il mondo anche in mia vece».

il Fatto 16.11.13
L’aria che tira
Sindacati e scuola in piazza Ma lo sciopero è diventato questione per pochi intimi
Cofferati: “Una volta abbattevano i governi, ora rischio pigrizia” 
di Salvatore Cannavò


L’economia è malata, ma anche lo sciopero non se la passa bene. Ieri Cgil, Cisl e Uil hanno portato in piazza alcune migliaia di persone, dando voce a un disagio diffuso e a malumori percepibili ovunque. Ma lo sciopero generale contro la legge di Stabilità non assomiglia nemmeno lontanamente ai grandi scioperi del passato, proclamati per dare l’ultima spallata a governi traballanti.
METTIAMO a confronto, per esempio, la giornata di ieri con quella del 1994 quando, il 12 novembre, Cgil, Cisl e Uil riempirono il Circo Massimo, a Roma, per protestare contro la riforma delle pensioni del governo Berlusconi. Il leader della Lega Umberto Bossi lo ha sempre ricordato: se si decise a staccare la spina al primo esecutivo del Cavaliere non fu per le inchieste milanesi ma per difendere le pensioni pubbliche. Gli scioperi, allora, dovevano essere due, il secondo fu disdetto all’ultimo minuto dopo la vittoria del sindacato.
A Roma, invece, lo scorso mercoledì, gli insegnanti hanno scioperato solo un’ora al mattino, ma a scuola non se n’è accorto nessuno. Nei trasporti, invece, non si è fermata nemmeno la Metro. Ieri si sono viste molte manifestazioni di piazza, nonostante la pioggia, e poi i comizi. Ma i dubbi, anche nel fronte sindacale, crescono. La Cisl, come ha riportato il Corriere della Sera nei giorni scorsi, ha dovuto fare i conti con le obiezioni del suo segretario lombardo, tanto che lo stesso Raffaele Bonanni della Cisl è dovuto andare a Milano a tenere una riunione di chiarimento. Anche in Cgil circolano dubbi, riservati, sulla forma attuale. E, anche se non sospettabile di criticare lo sciopero – la Fiom avrebbe voluto una giornata intera e non le sole quattro ore – in un’intervista di qualche giorno fa, il segretario dei metalmeccanici Maurizio Landini aveva sottolineato i rischi per la Cgil di una progressiva distanza dai lavoratori.
Venti anni dall’ultimo risultato sono in effetti molti. Dopo la spallata del ‘94, in realtà, c’è almeno un altro momento significativo, il 23 marzo 2002, quando Sergio Cofferati portò a Roma 3 milioni di persone per difendere l’articolo 18 attaccato dal governo di Silvio Berlusconi. Il sindacato vinse di nuovo. Dopo la manifestazione di marzo, tenutasi di sabato, ad aprile ci fu uno sciopero generale che chiuse la lunga fase di mobilitazioni.
Da allora, i risultati sono stati sempre più scarni. Cgil, Cisl e Uil oscilleranno tra accordi preventivi con governi e parti sociali e uno scontro intersindacale che si svilupperà nel periodo berlusconiano. Le piazze, però, non daranno più risultati: il lavoro cambia composizione, si frantuma e i numeri che mostriamo nel grafico in pagina, parlano da soli.
Nel bel mezzo degli anni ‘70, il decennio del conflitto sociale, partecipavano alle lotte quasi undici milioni di lavoratori, un dato che si replica ancora nel 1979, in piena crisi petrolifera, con 10 milioni 521 mila lavoratori coinvolti. Nei primi anni ‘80, dopo la sconfitta alla Fiat e la svolta neoliberista a livello internazionale, gli scioperi si dimezzano: c’è un picco nel 1982, con 7,5 milioni ma dopo la sconfitta sul referendum per la scala mobile dell’85, si inizia a oscillare tra 1,2 (1985) e 2,1 milioni (1989). La soglia del milione viene sforata con l’inizio degli anni 90: nonostante il movimento dei “bulloni”, la crisi della lira e l’austerità avranno la meglio. I lavoratori che scioperano saranno 750 mila nel 1991, risalgono a 1,6 milioni nel 1996 ma di lì in poi ruoteranno attorno ad alcune centinaia di migliaia di partecipanti.
LA DISPONIBILITÀ a scioperare si riduce man mano che il mondo del lavoro cambia, anche per la distanza crescente tra sindacato e lavoratori. Una settimana fa, in piazza del Campidoglio, i sindacalisti dell’Atac sono stati spinti in un angolo dai lavoratori dell’azienda romana dei trasporti che non gradivano la loro presenza. Al contrario, una recente vittoria sindacale si è verificata nel comparto Logistica della Granarolo, ma a opera di un piccolo sindacato di base, organizzando lavoratori tutti stranieri.
GLI SCIOPERI, ovviamente, ci sono ancora. Ma sono frammentati o, come dice l’ultima relazione della Commissione di Garanzia e Sciopero, “si sono terziarizzati”. Riguardano meno la grande fabbrica e più strutture produttive settoriali o locali: il trasporto locale è l’esempio più evidente. Anche nella vertenza più dura degli ultimi anni, quella tra la Fiat e la Fiom, il risultato ottenuto dal sindacato, il rientro in fabbrica, è dipeso in fondo dalla forza della Costituzione.
La domanda se lo sciopero serva ancora, quindi, non è azzardata. Anche perché più che lo strumento, pesa l’immagine di ritualità. “Per me lo sciopero resta uno strumento importantissimo a cui non si può rinunciare”, spiega al Fatto, Sergio Cofferati, ex segretario generale della Cgil. A patto però che si seguano delle coordinate molto chiare: “Occorre avere obiettivi ben definiti, spiegarli bene ai lavoratori, preparare le scadenze come si deve”. Tutte cose che negli ultimi anni “sono rimaste in sottofondo “non sempre sono state fatte correttamente”. Per tante ragioni: “Anche per pigrizia”, commenta Cofferati. Pesa anche il rapporto con la politica, a volte decisivo: “L’autonomia del sindacato - chiosa l’eurodeputato Pd - è fondamentale; se ci si muove in maniera funzionale a una parte politica il danno è garantito”.

l’Unità 16.11.13
Pd, sale la tensione per i congressi decisivi
I renziani: «Siamo al 45%». Stumpo: «Ma come, non erano già arrivati oltre il 60?»
Il sindaco: «Il cambiamento deve iniziare dal Pd»
D’Alema: «Girano sondaggi falsi». Rossi: «Meglio se tacesse»
di Simone Collini


ROMA I due comitati, quello di Renzi e quello di Cuperlo, si mettono d’accordo in mattinata: aspettiamo la fine dei congressi senza diffondere altri dati perché questa guerra di cifre non fa bene a nessuno. E poco dopo dal Pd nazionale fanno sapere: lunedì, dopo che saranno stati certificati dai rappresentanti di tutti e quattro i candidati in campo, saranno comunicati i risultati definitivi. Ma l’intesa dura poco. Dal fronte renziano esce nel tardo pomeriggio Francesco Bonifazi: «Oggi su 29512 votanti Matteo Renzi 13.301 (45%) Cuperlo 11.246 (38,1%) Civati 4.195 (14,2%) Pittella 631 (2%)». Poi è la volta di Ernesto Carbone, che rilanciando le stesse cifre dice che se venissero confermate «D’Alema di fatto perde la prima conta degli iscritti della sua carriera». Il quale D’Alema compare al Tg3 della sera per dire che, primo, è «sciocco» oppure «fa informazione in modo manipolatorio e provocatorio» chi si basa sull’intervista rilasciata a l’Unità per sostenere che lavori a una scissione del Pd in caso di vittoria di Renzi e, secondo: «Quello che mi colpisce è che malgrado il bombardamento mediatico a favore di Renzi, malgrado i falsi sondaggi diffusi, perché non abbiamo mai avuto un congresso in cui la pressione esterna è stata così virulenta, Renzi e Cuperlo sono testa a testa».
WEEK-END DECISIVO
Alla vigilia di un fine settimana in cui la stragrande maggioranza degli iscritti torneranno nei circoli a votare per il segretario nazionale, il clima rimane dunque teso. Dal comitato nazionale di Cuperlo (a quello lombardo hanno aderito molti esponenti vicini al premier Letta, con in testa la deputata Alessia Mosca, e poi Guido Galperti, i sottosegretari Maurizio Martina e Carlo Dell’Aringa, l’europarlamentare Antonio Panzeri, il deputato Matteo Mauri, il tesoriere del Pd Antonio Misiani) parlano di «ansia da prestazione» da parte dei renziani «evidentemente un po’ nervosi», circa la rottura del patto del silenzio sul voto dei primi trentamila iscritti (sono meno del 10% di quelli che hanno votato fino alla scorsa settimana per i segretari di circolo e provinciali). Il coordinatore del comitato Cuperlo, Patrizio Mecacci, ribadisce che i dati in loro possesso «sono diversi» e che comunque «sarebbe più corretto aspettare la fine dei congressi, forse così i nostri iscritti si sentirebbero più rispettati nelle loro scelte». Chi concorda sul fatto che si debba aspettare lunedì è Nico Stumpo, che però sottolinea anche che le «dichiarazioni trionfalistiche» dei renziani sono in ogni caso fuori luogo: «Soltanto pochi giorni fa tutti erano convinti che Renzi sarebbe andato ben oltre il 60%, se fossero veri questi risultati si tratterebbe di una clamorosa sconfitta per Renzi».
Quanto poi alle uscite di D’Alema, tra i sostenitori di Cuperlo c’è chi, come il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, pensa che i congressi andrebbero ancora meglio per lo sfidante di Renzi «se D’Alema per un po’ tacesse»: «È un grande dirigente del Pd, ma a volte dovrebbe disimpegnarsi un po’ dalle polemiche politiche. E questo vale anche per Prodi, Bersani, Veltroni. Ascoltarli è sempre utile e bello, ma mi piacciono di più i loro contributi di analisi e di proposta politico-culturale che i loro interventi a gamba tesa nell’agone politico».
Si tengono debitamente fuori da queste polemiche i due principali candidati alla guida del Pd. Renzi (che sarà votato anche dal sindaco di Salerno Vincenzo De Luca) si limita a scrivere sulla sua pagina Facebook che «il cambiamento deve iniziare dal Pd e deve essere profondo, nel metodo e nel merito». Cuperlo interviene sul caso Cancellieri («verifichi se ci sono ancora le condizioni per andare avanti con serenità nel suo ruolo di Guardasigilli»), sulla legge di Stabilità («c’è un gigantesco problema di giustizia, equità e redistribuzione in questo Paese e da lì bisogna ripartire»), sulla mobilitazione dei sindacati («una politica degna di questo nome deve saper ascoltare il mondo del lavoro» e «chi disprezza i sindacati accarezza un disegno liberista che vuole che l’individuo sia solo davanti al mercato»).
Il risultato tra gli iscritti si deciderà tra oggi e domani, quando si svolgerà il grosso dei congressi. I tre candidati più votati andranno poi a primarie. Secondo un sondaggio di Roberto Weber per Agorà, se l’8 dicembre dovessero votare due milioni di elettori Renzi vincerebbe con il 53% dei consensi. Oltre al sindaco e a Cuperlo, accederebbe alla sfida ai gazebo Civati, che ieri ha vinto al congresso di Verona 1 e annunciato che se dovesse venire eletto segretario andrebbe da Prodi a dargli la «tessera gold».

l’Unità 16.11.13
Lettera aperta a Cuperlo
Caro Gianni, su affari e politica rompi tu la consuetudine di reticenza
di Gad Lerner


Caro Gianni, ora che la tua campagna per un Pd «bello e democratico» entra nel vivo, viene naturale a chi, come me, apprezza i contenuti del tuo documento congressuale, chiederti una parola chiara anche sul rapporto fra sinistra e affari così come è stato declinato dalla tua area politica di provenienza. Rileggo le telefonate di Maria Rita Lorenzetti, passata in fretta da presidente di Regione a top manager, con altri dirigenti Pd e altri top manager. Il tono è sempre lo stesso, un po’ supponente, nel difendere interessi aziendali sullo smaltimento dei fanghi piuttosto che nel promettere candidature al Parlamento.
Nessuna sorpresa, certo. Come non sorprendevano le telefonate di Giuseppe Mussari quando ancora era il potente banchiere del Monte dei Paschi di Siena e dispensava trasversali assicurazioni di favori, sempre però esibendo il rapporto privilegiato che lo legava a quella medesima area politica.
Pier Luigi Bersani mostrò i limiti della sua leadership allorquando non seppe approfondire alcun discorso di verità sulla vicenda di Filippo Penati, il suo più stretto collaboratore nella segreteria del Pd e nel rapporto col mondo delle imprese settentrionali.
Mi auguro che voglia essere tu a rompere questa consuetudine di reticenza. Non si tratta di scadere nel giustizialismo ma di spiegare a se stessi e agli altri quel che non va nel rapporto di potere instaurato da tempo da questa sinistra inseritasi nell’establishment col sistema delle imprese pubbliche e private e con la finanza.
Il tuo impegno di rimettere il tema della giustizia sociale al primo posto nell’iniziativa della sinistra, rende inevitabile un riesame critico. Anche perché il peso di quelle pratiche favorisce la cavalcata trionfale di Renzi: pare quasi che la sua biografia lo esima dal fare i conti con il passato e, quanto al futuro, egli rivendica spavaldo di volta in volta i suoi flirt dimostrativi con le storie imprenditoriali di successo. Che si tratti di Marchionne, Briatore, Cavalli o Davide Serra.
A te non è concesso di essere spregiudicato.
Con amicizia.
Gad

l’Unità 16.11.13
La sinistra non s’è svenduta ma servivano argini più alti
di Gianni Cuperlo


Caro Gad,
voglio rispondere alla tua richiesta di una parola chiara attorno al connubio tra sinistra e affari e a un’etica pubblica da ripensare come perno attorno a cui fare ruotare tutto. Lo faccio forse nel momento meno adatto se uno fissa lo sguardo su congressi di circolo all'improvviso scalabili, tesseramenti rigonfi, adesioni esplosive e pilotate. Certo, c’è una larga maggioranza di iscritti che continua a credere in una buona pratica e sono persone perbene. Però il punto è gravissimo e il mio appello a fermare la deriva voleva muoversi in quella direzione: spiegare che logiche simili producono l’unico effetto di avvelenare il progetto.
Naturalmente serve chiedersi come e perché si è giunti a tanto. E qui si aprirebbe una riflessione su cosa siano l’adesione alla politica e la selezione delle classi dirigenti alla fine di un ventennio che ha visto entrambi i momenti viziati da un potere leaderistico e notabilare, mentre il senso di comunità anche per noi si offuscava. Abbiamo finito così col definire normale, anzi obbligata, la coincidenza quasi assoluta tra i soggetti politici e le istituzioni in un trionfo del pragmatismo che ha sacrificato l’impianto culturale di forze sempre più simili a comitati elettorali e orfane via via di un qualche ancoraggio tra il cielo dei profeti e la terra dei gazebo. In quel contesto la corsa sfrenata verso prebende pubbliche, l’ironia verso apparati oramai estinti ma buoni a rinverdire polemiche contro burocrazie ottuse, sino al rito e mito di primarie come palingenesi del ricambio senza tener conto di una nuova rappresentazione patrimoniale nell’accesso alle cariche, ecco tutto questo ha infragilito la struttura e reso meno sensata la scelta stessa dell’iscrizione – di una tesserina di plastica intestata – se non come viatico per una possibile rincorsa correntizia.
La stessa vicenda dei duecento voti mancati a Marini e dei centouno di Romano Prodi si può rinchiudere nella manciata di ore e giornate dell’evento, oppure collocare, come forse converrebbe, nella genesi che quel disastro ha incubato e tradotto in realtà. Almeno per comprendere dove si siano annidati origine e difetto di una simile pulsione suicida. Magari tornare a pensare gli iscritti e la vita democratica di una comunità come antidoto alla solitudine nelle scelte o al cinismo del calcolo su convenienze presunte, ci aiuterebbe a guadare il torrente. Ma al fondo se un congresso si fa dovrebbe essere anche per questo.
Detto ciò tu scrivi del bisogno di dire «una parola chiara sul rapporto fra sinistra e affari così come è stato declinato dalla tua area politica di provenienza». Lo chiedi citando nomi e situazioni diverse, la vicenda di Rita Lorenzetti, le telefonate di Mussari, il mancato approfondimento di Bersani sull’inchiesta Penati. Poi tu stesso premetti che vuoi star lontano da qualsiasi giustizialismo. Bene, perché a mio avviso quel giustizialismo è un frutto bacato di una sinistra che su quel piano troppe volte ha smarrito l’anima. Allora provo a dirti come la vedo.
Penso che nel corso degli ultimi quindici, vent’anni la sinistra – e non parlerei di una sua particolare corrente o filiera – abbia conosciuto un cedimento culturale sul versante della sobrietà e della consuetudine tra ambiti del potere destinati per regola a rimanere separati. Credo sia accaduto per ragioni diverse. Una cultura politica esangue e schiacciata sull’identificarsi del singolo nelle istituzioni. Tra le conseguenze il fatto che non valesse più la tua appartenenza – a un partito e a una parte – ma lo status conquistato in una logica che ha rafforzato la natura di un “ceto politico” disposto in alcuni casi a compromessi irragionevoli pur di non uscire dal campo. Da lì non era meccanico il passaggio a una deriva penale, anche se gli episodi non sono mancati. Ma il punto è proprio quello: che non era l’azione delle procure a dover guidare le scelte della politica, e ovviamente neppure l’inverso. Semplicemente la sinistra avrebbe dovuto costruire argini più alti per evitare che l’acqua esondasse e che alcune contiguità tra il ceto politico e l’universo degli affari dessero vita a poteri ibridi anche quando formalmente leciti.
Del resto siamo la patria di fra Cristoforo che sale da Don Rodrigo per tutelare il debole e si trova davanti l’arroganza del ricco attovagliato col podestà e l’azzeccagarbugli in una familiarità del potere e della giustizia che nega alla radice il diritto di chi potere non ha e di giustizia va in cerca. Non penso che la sinistra abbia svenduto se stessa e si sia accomodata a quel tavolo. Se lo credessi avrei lasciato da tempo il mio partito. Credo però che abbiamo concesso un margine al dubbio. E che recuperare la nostra autonomia – di coerenza e parola – sia l’atto dovuto verso milioni di elettori.
Penso che quando un dirigente del Pd è di fronte alla magistratura deve lasciare ogni carica di partito e pubblica fino a quel momento ricoperta. Poi – come diciamo sempre – la magistratura faccia il suo mestiere. Il punto, per una volta, non è quello. Il punto è che si faccia noi meglio il nostro. Se di questo si tratta dovremmo ripartire da tre parole. Etica è la prima. Bisogna tornare a dirci che l’etica per un partito è tutto e comunque è molto più di un buon programma di governo. È la veste che deve tornare a coprire ogni cosa che riguardi un soggetto politico: l’uso delle risorse, la coerenza con cui si perseguono obiettivi e si affermano idee. E poi sobrietà e rigore nell’esercizio della funzione pubblica.
Il secondo termine è autonomia. Una politica che non si occupasse di “affari” negherebbe se stessa e cederebbe in appalto (a chi poi?) una parte notevole della sua responsabilità. Dunque non parlo di distacco, meno che mai di indifferenza. Penso invece a quella “distanza” che arricchisce la prospettiva, dà profondità, indipendenza e consente una libertà di scelta nel perseguire l’unico interesse che conti: quello comune. Quando sento evocare il bisogno di politici che non parlino con l’impresa, e con gli imprenditori, o quando mi sento spiegare che un partito non dovrebbe occuparsi del destino industriale del Paese, mi chiedo quale concezione si abbia della politica, dei partiti, del Paese.
Certo che si deve separare la mano politica dal braccio gestionale, e che bisogna restituire a ciascuno il ruolo che gli è proprio. E dunque netta sia la presa d’atto che politica e amministrazione debbono vivere separate, che la stagione delle nomine di partito in enti pubblici e affini ha da essere archiviata e laddove sopravviva la si combatta mostrando nelle scelte la fondatezza delle promesse. Ma questo non ha nulla a che fare col dovere di una classe dirigente di vedere il futuro e, se ci riesce, di programmarne uno spicchio.
La terza parola, la meno originale e la più negletta da tempo, è onestà, che poi è uno di quei termini davanti a cui è bene fermarsi perché quasi sempre a declinarlo se ne spoglia il senso. Per cavarmela mi appello a Saba e a quella sua sintesi. Cosa resta da fare ai poeti si chiedeva, e la risposta chiudeva il cerchio, «Ai poeti resta da fare la poesia onesta». Intendeva la necessità di non alterare l’ispirazione cercando, diremmo noi, l’effetto fine a sé. Convivere, se necessario, con una grazia minore, ma non vestirsi di panni non propri al solo scopo di conquistare un applauso prolungato. Ecco, con l’umiltà del caso ti dirò che ai politici resta da fare una cosa sola: la politica onesta. Potrebbe sembrare poco, mi rendo conto. Il minimo dovuto se si pensa ancora e solo al rispetto delle regole. Ma onestà non come programma e neppure solo istanza morale. Onestà semplicemente come imperativo che investe la politica tutta e fa i conti, infine, con una storia nemmeno troppo recente.
Mi pare una bella sfida per il Pd da pensare: fare ciò che a partire da un qualche punto in avanti non siamo più stati capaci di fare. Penso voglia dire recuperare una misura nella pratica, chiudere la pagina dei doppi o tripli incarichi anche in casa nostra, restituire all’impegno quel tanto di gratuità che in troppi momenti si è smarrito per strada. E al tempo stesso tornare alla radice che da sempre sorregge la vitalità di ogni pianta politica: far sì che ogni nostra parola e gesto, giorno per giorno, dicano chi siamo e per cosa stiamo al mondo.
Con amicizia, Gianni

l’Unità 16.11.13
Risate al telefono con l’uomo Ilva
Bufera su Vendola
Il governatore e Archinà intercettati nel luglio 2010 dopo che il portavoce ha impedito a un cronista una domanda sui tumori
«Dì ai Riva che il presidente non si è defilato, vediamoci»
Verdi e M5S chiedono le dimissioni
di Gino Martina


TARANTO La risata di Nichi Vendola al telefono con Girolamo Archinà, il pr factotum dell’Ilva, è un pugno allo stomaco. Una cacofonia. Non solo per i fedelissimi e gli estimatori del governatore pugliese segretario di Sel. «Sono rimasto molto colpito da un’immagine che ho appena visto dice Vendola con voce interrotta dalle risate all’uomo dei Riva, nel luglio del 2010 uno splendido scatto felino... una scena fantastica».
La telefonata è quella intercettata dal pool di magistrati della procura di Taranto che ha da poco chiuso le indagini dell’inchiesta «Ambiente svenduto», notificando 53 avvisi di garanzia, con destinatari anche Vendola, per concussione nei confronti del direttore dell’Arpa Assennato, e Archinà (già arrestato nel novembre 2012), per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale.
La scena a cui si riferisce il leader di Sel è ciò che accade al termine di una conferenza stampa avvenuta l’anno prima, il 19 novembre del 2009. Finita la consueta kermesse, nella quale l’Ilva presentava il suo «Rapporto ambiente e sicurezza» e i suoi dati sugli investimenti per abbattere le emissioni inquinanti (dati che elogiavano sempre l’operato del siderurgico e ponevano Taranto in piena media nazionale per l’incidenza dei casi di tumore), Luigi Abbate, giornalista della Tv locale Blustar, si avvicina a Emilio Riva, il patron del gruppo, e gli domanda cosa ha da dire sulla drammatica situazione sanitaria del territorio, martoriato dai numerosi casi di neoplasie. Riva borbotta qualcosa e poi afferma che i tumori «ve li siete inventati». Ma a quel punto, Abbate non ha la possibilità di replicare, perché Archinà interviene a mo’ di gorilla e si interpone tra il proprietario dell’Ilva e il giornalista, strappando il microfono a quest’ultimo. È «lo scatto felino» che fa esplodere le risate di Vendola nel luglio successivo quando, tornato da un viaggio in Cina, dei suoi amici gli fanno vedere il filmato caricato su Youtube.
Il presidente della Puglia chiama Archinà ridendo, si complimenta per lo scatto, dice di non aver potuto resistere vedendo la scena assieme al suo capo di gabinetto (all’epoca era Francesco Manna), che il giornalista ha «una faccia da provocatore», che lui «ne sa di battaglie per l’ambiente e per la vita, non come chi s’improvvisa per quel ruolo», e che ha capito la situazione e presto incontrerà i Riva.
Il pr Ilva dice che la situazione sta degenerando. L’Ilva nell’estate del 2010 è al centro di polemiche feroci, gli ambientalisti, prima, e l’Arpa poi, segnalano valori di benzo(a)pirene, micidiale cancerogeno emesso dall’area a caldo del siderurgico, anche dell’80% superiori al nanogrammo per metro cubo d’aria (limite di riferimento stabilito da una direttiva europea). Ce l’ha con Assennato, Archinà, dice che tutta la situazione nasce da una «scivolata del nostro amico». Vendola assicura di non essersi defilato e di comunicare la cosa ai Riva. Urge un incontro tra le parti.
IL NASTRO NEL FASCICOLO DEI PM
Per i magistrati, quella telefonata è un elemento fondante dell’accusa di concussione nei confronti del governatore pugliese, assieme a una mail che Archinà invia il 22 giugno a Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento, nel quale descrive la riunione in Regione in cui Assennato è tenuto fuori e ammonito a «non usare quei dati come bombe carta che poi si traformano in bombe a mano». Di lì sarebbe seguita la pressione fatta su Assennato per ammorbidire la sua posizione.
La trascrizione della telefonata è già apparsa nelle carte dell’inchiesta ed era nota. Ma l’audio ha tutto un altro effetto. Molte delle persone vicine a Vendola sono rimaste sconcertate. Preferiscono non parlare, pur confermando la fiducia nell’uomo. Lui reagisce e attacca: «È un’operazione lurida nei miei confronti», tuona e annuncia querela al Fattoquotidiano.it reo, a suo dire, di aver insinuato che quelle risate fossero riferite ai casi di tumore a Taranto. Altri, come Angelo Bonelli, segretario nazionale dei Verdi consigliere comunale nella città della grande acciaieria, e i rappresentanti del Movimento cinque stelle chiedono le sue dimissioni e definiscono la telefonata «disgustosa». «Ci sono responsabilità che non si misurano in base al codice penale: sono le responsabilità morali che un uomo politico ha nei confronti delle persone e dei territori che amministra» dice Bonelli, più volte in contrasto con lo stesso Vendola durante la campagna per l’elezione a sindaco di Taranto del 2011, quando il leader dei Verdi si candidò contro Ippazio Stefàno (riconfermato primo cittadino con l’appoggio di Sel) anche lui indagato dalla procura tarantina.
Il Pdl pugliese chiede subito una discussione all’interno dell’aula consiliare. I sindacati si dividono. La Uilm, col segretario Rocco Palombella, definisce la vicenda «grave e aberrante, perché riguarda la salute dei lavoratori». La Fim Cisl si esprime con sfumature diverse. Il segretario Marco Bentivogli dice che «Vendola è una grande maestro a puntare il dito contro gli altri, ora faccia autocritica, sull’Ilva ha cambiato posizione troppo spesso». Di diverso avviso Giuseppe Farina, sempre Fim Cisl: «Voglio esprimere la mia piena solidarietà al presidente della Regione Puglia Nichi Vendola per l’azione di sciacallaggio giornalistico di cui è vittima». Ma entrambi attaccano la Fiom, definita da Vendola nella telefonata, con Archinà «migliore alleata» dell’Ilva.

il Fatto 16.11.13
Segretario Fiom Maurizio Landini
“Non gli serve la mia solidarietà Noi stiamo con i magistrati”
di Salvatore Cannavò


Maurizio Landini preferisce non commentare l’intercettazione audio di Vendola: “Non voglio entrare in questa polemica anche perché quelle frasi erano già uscite. Mi interessa che la procura faccia il suo corso anche perché la Fiom non ha nulla da temere”. Il segretario della Fiom ha dovuto affrontare una giornata difficile, la sua organizzazione è stata tirata ancora in ballo nonostante finora abbia tenuto il punto sullo scontro con i Riva. È stato lo stesso governatore pugliese a dire a Girolamo Archinà che “il miglior alleato dell’Ilva è la Fiom”, perché schierata in difesa dei posti di lavoro. “Mi chiamano 25 volte al giorno” dice Vendola, e questo darà modo al segretario della Fim di accusare la Fiom di eccessiva vicinanza con Vendola.
Landini e Vendola ieri non si sono sentiti e sebbene fino a tarda serata non abbia rilasciato dichiarazioni pubbliche, il segretario della Fiom accetta di parlare al Fatto Quotidiano ripetendo più volte questo concetto. “Noi ci siamo costituiti parte civile e testimonieremo nei vari gradi di giudizio, Vendola non ha bisogno della mia solidarietà, si difenderà dove deve difendersi. Noi siamo con i magistrati”.
Cosa pensa dell’audio delle intercettazioni ascoltate su ilfattoquotidiano.it ?
Penso che sia necessario fare tutto quello che va fatto e andare avanti nel lavoro che la procura ha aperto. Ognuno ha il diritto di difendersi, compreso Vendola. Per quanto riguarda la Fiom, è l’unica a essersi costituita parte civile. E siamo testimoni anche nel nuovo processo che si è aperto. Siamo l’unica organizzazione che ha proclamato gli scioperi contro i fiduciari. Non è un caso che questo atteggiamento della Fiom che si è rifiutata di proclamare scioperi contro la magistratura. Non abbiamo nulla da temere, si scoprano tutte le carte.
Ma che effetto le ha fatto ascoltare il tono confidenziale di quella conversazione?
Preferisco non commentarla. Le cose ascoltate già si sapevano e quello che a noi interessa è che la procura svolga fino in fondo il suo lavoro.
Nell’intercettazione siete tirati in ballo come “alleati di Riva” e come quelli che chiamano più volte.
Nel 2009 abbiamo inviato a Taranto un nuovo segretario e quelli precedenti, compresi i delegati, sono stati espulsi proprio per chiarire qualsiasi atteggiamento. Quelle telefonate si riferiscono al 2010 e sono tutte alla luce del sole. Del resto, siamo noi ad aver portato in procura le carte relative al centro “La Vaccarella” (il centro ricreativo gestito dai sindacati e pagato dall’Ilva, ndr).
La Fim si è lamentata della vicinanza eccessiva tra Fiom e Vendola e ha espresso solidarietà a Vendola. Lei esprime solidarietà?
L’invito che faccio al presidente della Regione, anche se non ne ha bisogno, è quello di difendersi dove deve difendersi perché personalmente credo che non abbia nulla da temere. Per quello che riguarda le dichiarazioni del segretario della Fim non mi metto a quel livello. Insisto, l’unico sindacato che non ha scioperato contro la magistratura è la Fiom e polemiche di questo livello non ne faccio.
Cosa propone la Fiom in questo momento per l’Ilva?
Noi proponiamo che siano trovate le risorse per fare gli investimenti, per mettere a norma quegli impianti, e un intervento pubblico che realizzi un’azienda che non inquini. Per questo vogliamo fare luce su qualsiasi cosa. Non abbiamo nulla da temere, anzi pensiamo che il sistema di corruzione messo in piedi dai Riva vada smantellato e vada recuperata un’autonomia culturale rispetto a questi poteri.
Il caso Vendola da un lato, quello Cancellieri dall’alltro. Che considerazione può essere fatta sul rapporto che esiste oggi tra politici e poteri forti?
In questi anni c’è stato il tentativo da parte di questi di condizionare la politica. Mai come adesso, però, servono comportamenti di trasparenza e correttezza per costruire un rapporto diretto tra quello che si dice e quello che si fa.

il Fatto 16.11.13
La narrazione ambientalista questa volta è svanita


NICHI VENDOLA è il presidente della Regione Puglia, al suo secondo mandato. Nel gennaio 2005 vince le primarie contro Francesco Boccia e ad aprile, contro ogni pronostico, sconfigge anche il presidente uscente Raffaele Fitto. Cinque anni più tardi la storia si ripete: Vendola vince nuovamente le primarie contro Boccia e le elezioni contro l’uomo scelto da Fitto, Rocco Palese. Fonda Sinistra Ecologia e libertà e ne diventa presidente. Due anni prima, con l’approvazione della legge regionale anti diossina, diventa la speranza degli ambientalisti di Taranto. Un amore breve. Il feeling svanisce quasi subito però. La legge regionale che prevede inizialmente il campionamento in continuo dei camini dell’Ilva viene alleggerita con le misurazioni con preavviso. L’Arpa Puglia, cioè, deve informare l’Ilva dei sopralluoghi che sta per effettuare. La rottura, però, avviene alla fine del 2011. I risultati della campagna di misurazione con preavviso racconta di livelli di emissione entro i limiti di legge: Vendola parla di “risultato storico”, ma gli ambientalisti criticano la campagna basata su soli dodici giorni di misurazione in un intero anno. E poi arriva l’inchiesta “ambiente svenduto”. Dopo la pubblicazione del testo del-l’intercettazione il governatore di Puglia respinge ogni critica fino alla notifica dell’avviso di garanzia che lo vede indagato per concussione.

il Fatto 16.11.13
Bonelli: “Nichi si dimetta”
La pioggia delle polveri killer picchia ancora su Taranto
di Sandra Amurri


Ci sono responsabilità che non si misurano in base al codice penale: sono le responsabilità morali che un uomo politico ha nei confronti delle persone che amministra. Per questa ragione, il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, dovrebbe dimettersi”. È la risposta del leader dei Verdi, Angelo Bonelli, all’intercettazione telefonica in cui Vendola, ridendo, commenta con Girolamo Archinà lo “scatto felino” con il quale il capo delle relazioni esterne dell’Ilva ha strappato il microfono al cronista Luigi Abbate: “Un provocatore” che poneva domande sulle morti a Riva.
UNA VERITÀ, che come ha sottolineato Bonelli, è emersa grazie alla Procura di Taranto che “ha fatto quello che non ha fatto la politica a cominciare dall’indagine epidemiologica che avrebbe stabilito un nesso tra inquinamento e mortalità”. Nel maggio 2012 Vendola, a proposito di Bonelli, disse: “È un forestiero che non conosce né ama Taranto, un piccolo avvoltoio che cinicamente è venuto qui per costruire la sua fortuna elettorale”. Vendola ha invece disertato l’invito del vescovo di Taranto, Filippo Santoro, a partecipare pochi giorni fa al convegno “Ambiente, Salute, Lavoro, un cammino possibile per il Bene Comune”, un confronto con associazioni ambientaliste, docenti del Politecnico di Bari e il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando. Mentre a Taranto l’ultimo funerale di un padre, di un marito, di un figlio di 38 anni si è svolto alcuni giorni dopo la visita all’oncologico Moscati della ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, che al termine del convegno è scappata sottraendosi alle domande dei giornalisti. Lui, Francesco Pignatelli, con le poche forze che ancora gli restavano, dilaniato dai dolori ha aperto gli occhi e sospirato: “Sono onorato, grazie”, a lei che girava tra i reparti per scoprire cosa fosse nella realtà l’emergenza sanitaria. Storie uguali, con nomi diversi, accomunate dalla malattia e dalla morte per cancro in una città dilaniata dall’inquinamento. Dove, con dati scientifici alla mano, i forni a caldo sono stati definiti causa di morte per operai e cittadini.
Una storia che parte da lontano, denunciata nel 1965 dall’ufficiale sanitario di Taranto, il dottor Leccese. “Nel 2000, 12 anni prima della perizia epidemiologica ordinata dal gip, Patrizia Todisco, i medici dell’Inail denunciarono che i tumori in meno di 20 anni erano raddoppiati, e i quartieri prossimi all’area industriale avevano valori di mortalità quasi tripli rispetto al resto della città e per gli operai il rischio derivante al benzo(a) pirene era 10 mila volte maggiore della soglia di rischio minimo”, ha spiegato la dottoressa Anna Maria Moschetti a nome di tutte le associazioni ambientaliste al convegno organizzato dal vescovo. Invece di intervenire, il “governo ha sottratto al sequestro l’acciaieria consentendole di continuare, autorizzata, la produzione. Con la garanzia che con il rispetto delle prescrizioni Aia, sia la produzione dell’acciaio, definita “strategica per la nazione”, sia la vita della popolazione sarebbero state garantite. Ma non esiste nessuna prova scientifica che confermi questa affermazione come vera. Al contrario la Valutazione di danno sanitario dell’Arpa ha dimostrato che al “2016, ad Aia attuata, ancora 12 mila tarantini, uomini, donne e bambini, saranno esposti al rischio di avere un cancro che la scienza definisce di “misura inaccettabile”.
E CHE “LA “PIOGGIA” sulla città di alcuni inquinanti killer come “il piombo neurotossico, incriminato di ridurre potenzialmente il quoziente intellettivo dei bambini esposti, piombo che i tarantini urinano in quantità, che contamina l’erba dei giardinetti, non diminuirà affatto e che ad Aia attuata l’immissione di Pcb cancerogeni e composti benzenici cancerogeni aumenterà”.
A gran voce eminenti epidemiologi hanno chiesto interventi di prevenzione, un sistema di sorveglianza, parole cadute nel vuoto della politica come il potenziamento dei presidi straordinari e del personale per offrire diagnosi tempestive. Da ridere non c’è nulla, ci sarebbe tanto da piangere se con le lacrime non fosse finita anche la speranza.

il Fatto 16.11.13
Ride male chi ride Vendola
“Sciacallaggio del Fatto”
On line l’audio della telefonata del governatore pugliese al manager Ilva
Risate imbarazzanti: “Ma non sui tumori” si difende
di Francesco Casula e Lorenzo Galeazzi


“Complimenti, io e il mio capo di gabinetto siamo rimasti a ridere per un quarto d’ora”. È una “scena fantastica”, secondo Nichi Vendola, lo “scatto felino” con cui l’ex responsabile relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà, agli arresti domiciliari, strappa il microfono a un giornalista che sta chiedendo al patron dell’Ilva Emilio Riva se i casi di tumore a Taranto fossero frutto della sua fantasia. L’audio della telefonata (luglio 2010) – con tanto di felicitazioni per il guizzo con cui il dirigente impedisce a un cronista di fare il suo lavoro – è contenuto nelle intercettazioni dell’inchiesta “Ambiente svenduto” ed è stato pubblicato ieri in anteprima da ilfattoquotidia  no.it . Non uno scoop che getta una luce inquietante su convivialità e confidenza dei rapporti fra i due, ma una “lurida operazione di sciacallaggio”, per Vendola, tanto da convincere il governatore a sporgere querela contro il Fatto e il “suo tentativo di linciaggio” finalizzato non a dare una notizia, ma a “compromettere la sua immagine di ambientalista e di persona”.
Il video che ha così divertito il governatore pugliese è dell’autunno 2009, ma torna di drammatica attualità quando in città, l’estate dopo, esplode l’emergenza benzo(a) pirene. A sollevare il caso è il direttore dell’Arpa Giorgio Assennato che attribuisce i veleni dell’aria alle emissioni prodotte dal polo siderurgico tarantino. Un brutto colpo per l’azienda che proprio in quei mesi sta premendo sul ministero dell’Ambiente per la concessione dell’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale.
“Dobbiamo vederci, ridare garanzie”
Dopo risate e ammiccamenti, il leader di Sel ribadisce all’uomo, definito dagli investigatori “dominus delle operazioni illecite” dell’Ilva, che può contare su di lui: “Faccia sapere all’ingegnere (Emilio Riva, ndr) che il presidente non si è defilato”. Per i pubblici ministeri, il governatore è così a disposizione che finirà indagato per concussione, in concorso con i vertici dell’azienda, per le pressioni esercitate su Assennato, dirigente dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, che ha osato sfidare lo stabilimento con la sua relazione sulla qualità dell’aria. “Il tutto è poggiato su una scivolata del nostro amico direttore (Assennato, ndr) ”, dice Archinà ricevendo rassicurazioni dal governatore pugliese Nichi Vendola: “Ognuno fa la sua parte perché, al netto dei procedimenti, l’Ilva è una realtà produttiva, e quindi dobbiamo vederci, dobbiamo ridare garanzie”.
“Operazione lurida, querelo i giornalisti”
Prima della pubblicazione on line, ilfattoquotidiano.it   ha cercato inutilmente di mettersi più volte in contatto con Vendola, che poche ore dopo l’uscita del-l’intercettazione ha preferito affidare il suo sdegno ai colleghi di Repubblica.it : “Non rido dei tumori, ma del guizzo felino”. E ancora: “Un tentativo lurido di sciacallaggio puro”. Parlano i parlamentari del M5S: “Proviamo disgusto, ha perso ogni credibilità: si dimetta”. E anche Beppe Grillo: “Vendola è un servo dei Riva”. Dimissioni chieste anche da Verdi e Pdl.
Riva: “Due casi di tumori in più all’anno? Minchiata”
Se per Vendola è “da sciacalli pensare che ridessi per qualcosa che ha ferito anche la mia vita”, così non deve essere per Fabio Riva, figlio del patron Emilio ed ex vicepresidente dell’Ilva. L’industriale, latitante a Londra in attesa di estradizione, è accusato di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e corruzione in atti giudiziari. Al telefono con l’ex legale dell’azienda, Francesco Perli (anche lui indagato) derubrica come “minchiata” l’ipotesi di un aumento dei tumori causati dall’inquinamento della fabbrica, e per Perli l’emergenza ambientale denunciata dall’Arpa è “frutto delle ambizioni politiche” di Assennato. La prima telefonata fra i due ascoltata dagli investigatori risale al 9 giugno 2010 e, mentre Taranto è alle prese coi cancerogeni nell’aria, a Roma si discute del rilascio dell’Aia per gli impianti dei Riva che arriverà l’estate prossima. Una partita importantissima che non può essere compromessa dai rilievi dell’Arpa. “Un fatto grave”, come sottolinea Perli. Ma non c’è da preoccuparsi perché, sostiene l’avvocato, “la commissione ha accettato il 90 per cento delle nostre osservazioni”. E per il restante dieci non c’è problema perché a Perli è stato assicurato che le verifiche sugli impianti non riserveranno sorprese: “Va un po’ pilotata questa roba della commissione”.
Soldi dei Riva alla Fondazione della Prestigiacomo
Ma chi sono gli uomini del dicastero dell’Ambiente su cui Riva e Perli possono contare? Secondo le indagini, chi ha permesso all’Ilva di ottenere un’Aia “su misura” sono il capo commissione Dario Ticali e il caposegreteria dell’allora ministro Stefania Prestigiacomo, Luigi Pelaggi. È lui che il 28 giugno chiama Riva per chiedere un finanziamento per un convegno a Siracusa della Fondazione Liberamente del terzetto Prestigiacomo-Gelmini-Frattini. “Per chi vuole aderire sono 4-5.000 euro”, dice Pelaggi. Riva, senza un attimo di esitazione risponde: “Benissimo”. Poi riprende la parola il braccio tecnico del capo del dicastero: “Poi con Perli ci stiamo sentendo e teniamo tutto sotto controllo, quindi sono molto soddisfatto”.
Perli: “Se non ci danno l’Aia salta la ministra”
Le cose però, in sede Aia, non vanno proprio come l’Ilva si aspetta ed è per questo che i “Riva sono incazzati come delle bisce”, come racconta Perli, testa di ponte fra azienda e ministero. Il 22 luglio 2010 l’avvocato relaziona Riva dell’ultima agitata riunione con Pelaggi: “Gli ho detto che se le cose stanno così, noi mettiamo in mobilità 5 o 6 mila persone. Che su ‘sta cosa qui non salta Ticali, ma la Prestigiacomo”. Perli con Pelaggi è arrembante: “Cosa dobbiamo fare di più? Ve l’abbiamo scritta noi (l’Aia, ndr). Dovete prendere le carte, metterle in fila e gestire un po’ il rapporto con gli enti locali”. “Bisogna stargli addosso, non c’è un cazzo da fare”, ammette Riva. Per l’accusa, alla fine, le minacce riscuoteranno il successo sperato. Mentre a Roma nell’agosto 2011 arriverà l’Aia, a Taranto, dopo le pressioni della Regione, Assennato ridimensionerà il suo approccio, “fino ad allora improntato al più assoluto rigore scientifico”, scrivono gli investigatori. Ma il dirigente Arpa negherà i fatti, finendo così anche lui fra gli indagati.

il Fatto 16.11.13
Svendola
di Marco Travaglio


Ci sono tanti modi per finire una carriera politica. Quello che la sorte ha riservato a Nichi Vendola è uno dei peggiori, proprio perché Nichi Vendola non era tra i politici peggiori. Aveva iniziato bene, con un impegno sincero contro le mafie e l’illegalità. Aveva pagato dei prezzi, ancor più cari di quelli che si pagano di solito mettendosi contro certi poteri, perché faceva politica da gay dichiarato in un paese sostanzialmente omofobo e da uomo di estrema sinistra in una regione sostanzialmente di destra. Ancora nel 2005, quando vinse per la prima volta le primarie del centrosinistra e poi le elezioni regionali in Puglia, attirava vastissimi consensi e altrettanti entusiasmi e speranze. E forse li meritava davvero. Poi però è accaduto qualcosa: forse il potere gli ha dato alla testa, forse la coda di paglia dell’ex giovane comunista ha avuto il sopravvento, o forse quel delirio di onnipotenza che talvolta obnubila le menti degli onesti l’ha portato a pensare che ogni compromesso al ribasso gli fosse lecito, perché lui era Nichi Vendola. S’è messo al fianco, come assessore alla Sanità (il più importante di ogni giunta regionale) un personaggio in palese e quasi dichiarato conflitto d’interessi, come Alberto Tedesco. S’è lasciato imporre come vicepresidente un dalemiano come Alberto Frisullo, poi finito nella Bicamerale del sesso di Gianpi Tarantini, a mezzadria con Berlusconi. Ha appaltato al gruppo Marcegaglia l’intero ciclo dei rifiuti, gratificato da imbarazzanti elogi del Sole 24 Ore quando la signora Emma ne era l’editore. Ha attaccato, con una lettera di chiaro stampo berlusconiano, il pm Desirée Di Geronimo che indagava su di lui. Ha incassato un’archiviazione da un gip risultata poi in rapporti amichevoli con lui e la sua famiglia. Ha stretto un patto col diavolo del San Raffaele, il famigerato e non compianto don Luigi Verzé, consegnandogli le chiavi di un nuovo ospedale a Taranto da centinaia di milioni. E si è genuflesso dinanzi al potere sconfinato della famiglia Riva, chiudendo un occhio o forse tutti e due sulle stragi dell’Ilva. Il fatto che, come ripete con troppa enfasi, non abbia mai preso un soldo dai Riva (diversamente da Berlusconi e Bersani), non è un’attenuante, anzi un’aggravante. Non c’è una sola ragione plausibile che giustifichi il rapporto di complicità “pappa e ciccia” che emerge dalla telefonata pubblicata sul sito del Fatto fra lui e lo spicciafaccende-tuttofare dei Riva: quell’Archinà che tutti sapevano essere un grande corruttore di politici, giornalisti, funzionari, persino prelati. Un signore che non si faceva scrupoli di mettere le mani addosso ai pochi giornalisti non asserviti. In quella telefonata gratuitamente volgare, fatta dal governatore per complimentarsi ridacchiando con il faccendiere della bravata contro il cronista importuno, non c’è nulla di istituzionale: nemmeno nel senso più deteriore del termine, nel più vieto luogo comune del politico scafato che deve tener conto dei poteri forti e delle esigenze occupazionali. C’è solo un rapporto ancillare e servile fra l’ex rivoluzionario che si è finalmente seduto a tavola e il potente che a tavola ha sempre seduto e spadroneggia nel vuoto della politica e dei controlli indipendenti, addomesticati a suon di mazzette. Il darsi di gomito fra gli eterni marchesi del Grillo, “io so’ io e voi nun siete un cazzo”. Questo ovviamente in privato, mentre in pubblico proseguivano le “narrazioni” e le “fabbriche di Nichi”. La poesia sulla scena, la prosa dietro le quinte. La telefonata con Archinà è peggio di qualunque avviso di garanzia, persino di un’eventuale condanna. Perché offende centinaia di migliaia di elettori che ci avevano creduto, migliaia di vittime dell’Ilva e i pochi politici che hanno pagato prezzi altissimi per combattere quel potere malavitoso. Perché cancella quello che di buono (capirai, in otto anni) è stato fatto in Puglia. Perché diffonde il qualunquismo del “sono tutti uguali”. Perché smaschera la doppia faccia di Nichi. Perché chi ha due facce non ce l’ha più, una faccia.

il Fatto 16.11.13
Dopo il 12 ottobre
Torniamo in piazza a leggere la Costituzione
di Maso Notarianni


Il 12 ottobre, contro ogni aspettativa, piazza del Popolo in Roma si è riempita di persone provenienti da ogni parte di quella che schematicamente definiamo sinistra. Nonostante il silenzio di quasi tutti i media, quella manifestazione è riuscita molto bene. Ed è riuscita a mettere insieme pezzi del Paese che raramente hanno modo di discutere tra loro. Un ottimo risultato. Poi il silenzio, assordante per chi aspettava, e aspetta ancora, un cenno da parte degli organizzatori per capire “che fare” dopo. Dall’altra parte, nonostante il gran baccano su Berlusconi e Cancellieri, lo smontaggio pezzo a pezzo della Costituzione continua. E la cultura politica sprofonda ogni giorno di più fino ad arrivare al grottesco “dicono che ho le palle d’acciaio”.
Non è per nulla facile il “che fare”, ancor meno in un momento come questo. Ci vogliono tempo e pazienza. Ma nella prima metà di dicembre ci sarà un altro importante appuntamento alla Camera, il terzo passaggio del testo di modifica dell’art. 138. È pericoloso toccare quell’articolo. Potremmo partire da qui per dare continuità alla strada cominciata insieme il 12? Il senso non è mai stato costruire un partito o un nuovo movimento politico. Il senso è rimettere al centro la Costituzione. Divulgarla, farla diventare sentire comune e condiviso dalla più ampia parte della popolazione possibile. Impresa ardua, ma giusta, indispensabile e non impossibile. Buttiamo lì una idea, frutto di elaborazione collettiva: si torni in piazza a parlare di Costituzione. Ma non con un’altra grande manfestazione. Da soli, o in piccolissimi gruppi. In tutte le piazza di ogni città e di ogni paese. Con la Costituzione in mano, da leggere ad alta voce, e ad attaccar bottone con chi mostra segni di interesse. Spiegandola, raccontandola, indicandola, anche, come via di uscita praticabile per la crisi culturale, economica e politica che blocca il nostro paese.
A Milano, in piazza Duomo, un tempo, era abitudine sostare nei capannelli per discutere di ogni cosa. E in quei capannelli se ne è fatta tanta di politica. E anche da quei capannelli, sono partite le lotte sindacali operaie e studentesche che han costruito la Milano democratica che oggi è solo un lontano e sbiadito ricordo. E non mi si prenda per nostalgico: sono gli stessi capannelli ad aver dato vita alle primavere arabe, o alla rivolta contro il regime turco. Perché la parola è potente, e la conoscenza temuta dal potere. Allora costruiamo conoscenza con le parole, l’unico strumento alla portata di tutti. Diamo un segnale positivo, diamo fiducia ad un percorso che darà forza e consistenza a chi si ostina a pensare che i temi che legano gli articoli della Costituzione siano gli unici temi della Politica. Perché se la Politica non si occupa di lavoro, giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza, salute, scuola, cultura, pace allora smette di essere con la p maiuscola. E da politica diventa l’impegno di chi vuole conservare i propri privilegi e quelli delle caste o delle corporazioni che lo sostengono a costo di camminare sulla sofferenza di un intero Paese.

il Fatto 16.11.13
Metro C, l’assessore-giudice blocca Marino
Il sindaco di Roma prova a forzare la mano per far ripartire i lavori
La toga della Corte dei Conti: No ai 166 milioni
di Luca De Carolis


Il marziano che si sposta in bici deve portare a casa il bilancio entro il 30 novembre e tamponare l’enorme grana della Metro C, altrimenti per lui sarà già il capolinea. Ma il magistrato che fa l’assessore non molla di un centimetro. Nonostante i mal di pancia del sindaco, del Pd e del centrosinistra. Personaggi e interpreti della partita del Comune di Roma, dove Ignazio Marino rimane il primo attore. Tante copertine (e più di una recriminazione) però se li prende ogni giorno lei, Daniela Morgante, 40enne assessore al Bilancio, nonché magistrato della Corte dei Conti. Nominata a sorpresa e nell’ultimo minuto utile (Marino aveva incassato no in serie), un passato in Consob e in Banca d’Italia, Morgante è ormai nota per la sua inflessibilità, da togata che non arretra davanti alle esigenze della politica. Troppo tetragona o giustamente coerente, è questione di punti (o partiti) di vista. L’ultimo caso riguarda la Metro C, eterna incompiuta. I cantieri della linea da Pantano a San Giovanni sono bloccati da mesi, per lo scontro infinito tra Comune e il consorzio delle imprese costruttrici sui pagamenti. In mezzo al fuoco sono finiti i circa 3 mila lavoratori impiegati nell’opera, lasciati da tempo senza stipendio.
PER SBLOCCARE la situazione, mercoledì scorso Marino ha forzato. In una tesa riunione di giunta, ha disposto lo sblocco della prima tranche di fondi alle imprese, 166 milioni, entro fine mese. E, con una delibera approvata all’unanimità, ha affidato il compito di versarli all’assessore alla Mobilità Guido Improta, trasferendogli deleghe della Morgante: contrarissima al pagamento. Le ragioni del suo no si rintracciano (anche) nella richiesta inviata proprio mercoledì alla Ragioneria del Comune da un consigliere della Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo. Poche righe, in cui il giudice contabile chiede dati relativi alle “opere connesse allo stato di attuazione della delibera Cipe” con cui nel 2012 furono stanziati i 253 milioni necessari a chiudere il lungo contenzioso tra la società comunale Roma Metropolitane e il consorzio Metro C. Sulla carta, risolto con un accordo del 9 settembre scorso: contestato da più parti sul piano formale, sinora inattuato. Ma non basta. Perché la Morgante dopo la giunta ha contrattaccato, con una lettera al ragioniere generale Maurizio Salvi (lo stesso dell’era Alemanno) in cui semina dubbi sugli approfondimenti svolti dagli avvocati del Campidoglio sull’accordo. Un consigliere della maggioranza sostiene: “Morgante è furibonda per la mossa di Marino, che fino a 20 giorni fa la difendeva a spada tratta e ora l’ha indebolita in favore di Improta”. Ossia verso l’uomo (già) forte della giunta, in costante contrasto con la Morgante. L’assessore al Bilancio è dato perennemente in bilico. Ma tira dritto. Menttre il futuro prossimo della Metro C rimane sospeso, tra il peso della lettera della Corte (“una spada di Damocle” secondo un consigliere Pd) e la disperazione di 3 mila lavoratori. In Campidoglio c’è chi parla anche di una possibile rescissione degli accordi tra Roma Metropolitane e Consorzio. Nel frattempo si avvicina a grandi passi il 30 novembre, entro cui il Comune dovrà approvare il bilancio previsionale 2013 su cui pesa un deficit da 816 milioni, lascito della giunta Alemanno. Il governo ha già aiutato Marino, alleggerendolo di 600 milioni di “rosso” (115 verranno trasferiti sul debito commissariale, la bad company del Comune). Il bilancio approvato dalla giunta il 4 novembre prevede più fondi per scuole e servizi sociali, ma tagli per trasporti e mobilità e, soprattutto, un - 12 per cento per i Municipi, già alla canna del gas. Per far passare il piano in Consiglio il sindaco dovrà trattare anche con il Pdl, che potrebbe bloccarlo con emendamenti a valanga. Il rischio è il commissariamento. Ossia, la fine della giunta Marino.

il Fatto 16.11.13
Tolto dal sito
La Santa Sede “censura” Scalfari


Il colloquio-intervista di papa Francesco con il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari non è più consultabile dal sito internet ufficiale del Vaticano. La spiegazione fornita da padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, è che “il testo è attendibile nel suo senso generale ma non nelle singole formulazioni virgolettate, non essendo stato rivisto parola per parola”. Per questo motivo, “si è ritenuto più corretto limitarne la valenza alla sua naturagiornalistica,senzainserirlofraitestipapaliconsultabili dal sito del Vaticano”. Per padre Lombardi, “si è trattato di una messa a punto della natura di quel testo, su cui era sorto qualche dibattito”.
Quanto all’autore della decisione, “non c'è bisogno di pensare a interventi di particolare rilievo, può essere stato deciso a qualsiasi livello della Segreteria di Stato, responsabile per il sito internet del Vaticano”.

l’Unità 16.11.13
Il mio Cile e il cuore dell’Europa
La candidata socialista sudamericana artefice dell’associazione «più completa con l’Ue»
Tre i pilastri: politico economico e cooperativo
Obiettivo principale la difesa democratica
Vecchio Continente modello d’integrazione
di Michelle Bachelet

candidata socialista ed ex Presidente

Credo che oggi l’Europa sia un misto di conquiste del passato e sfide per il futuro. Tuttavia, resta da vedere se lo spirito progressista che ha aiutato ad ottenere questi risultati, permetterà di affrontare le nuove prove che ha di fronte allo stesso modo.
I risultati ottenuti riflettono i valori chiave espressi nel Trattato fondativo di Roma: quello di costruire insieme una nuova Europa e vivere in pace. Non c’è alcun dubbio sul successo dell’impatto di entrambi questi valori ispirativi.
Con solo il 7% della popolazione mondiale, l’Unione Europea rappresenta il 25% del Pil mondiale e rimane la maggiore potenza commerciale. Allo stesso tempo, senso di solidarietà significa che si sobbarca quasi il 50% del costo degli aiuti allo sviluppo. Nel frattempo il processo di crescita ha portato ad alcune significative pietre miliari in termini di integrazione, il cui risultato è un conglomerato di 28 nazioni con culture diverse ma un solo obiettivo: quello di essere europei e di riunire nazionalità differenti sotto un’unica bandiera.
Sebbene la crisi economica abbia avuto un forte impatto sul progetto europeo, l’euro finora ha resistito alla tempesta. Resta una moneta forte sui mercati internazionali e nessuna nazione in cui esiste si è finora ritirata dall’eurozona, nonostante i ricorrenti allarmismi che ciò possa accadere.
PACE E DEMOCRAZIA
La pace, la parte più importante del progetto europeo, è stata assicurata negli ultimi 50 anni, benché con la notevole eccezione della crisi della Jugoslavia. Non è una cosa da poco quando si considera la storia dell’Europa, costantemente tormentata da guerre e conflitti sin dalla caduta dell’Impero Romano. In periodo di pace, l’Unione europea ha rafforzato le pratiche democratiche e costruito una cultura di coesistenza pacifica che ha superato le tensioni e le differenze nazionali. Questo fa dell’Unione un successo non solo per i cittadini europei, ma anche qualcosa che è debitamente riconosciuto per le sue conquiste dal resto del mondo, inclusa l’America latina.
Tuttavia, è anche vero che niente di tutto questo è stato raggiunto con facilità e che l’Europa sta affrontando la sua parte di problemi. Negli ultimi anni, la struttura ha subito diverse scosse e vi sono state forti tensioni durante i colloqui istituzionali e politici tra gli Stati membri. A un primo sguardo, potrebbero sembrare questioni che riguardano la pura attualità economica e i debiti sovrani. Ad uno sguardo più approfondito, invece, è una questione che riguarda anche gli effetti degli eventi passati.
La storia non è mai statica in nessun luogo del mondo: essa esercita una potente influenza sul pensiero politico moderno e fa da cornice al dibattito sulle aspirazioni delle persone per la loro società. Il periodo storico di cui l’Europa sente ancora gli effetti è quello della Guerra Fredda.
CONSEGUENZE DEL NEO-LIBERISMO
Per cinque decenni, sul suolo europeo si sono imposti due mondi, due visioni della società e della politica. La caduta del Muro di Berlino, nel 1989, e la fine del cosiddetto socialismo «reale» ebbero come conseguenza il bisogno di riconciliare due concetti essenziali ma opposti, da entrambi i lati della Cortina di Ferro: libertà e uguaglianza. La sfida principale che dovette affrontare l’Unione europea da poco creata era quindi di lavorare per una maggiore coesione sociale e per l’egualitarismo. Sfortunatamente, sappiamo ora che riconciliare questi due concetti non è un compito semplice e, in certi casi, è risultato andare al di là della portata della leadership europea. Laddove la logica di mercato e il neo-liberismo hanno preso piede, hanno portato con sé un forte deterioramento sia in termini di equità che di welfare. Era come se l’Europa avesse scambiato la Cortina di Ferro con un muro di indifferenza.
E oggi l’Unione europea si trova a dover affrontare una serie di questioni che minacciano di indebolirne il progetto. In primo luogo le sue diverse organizzazioni, in particolare il Parlamento europeo, la Commissione e la Banca centrale, richiedono un migliore coordinamento e una visione comune nel processo decisionale. Tuttavia, questi sono semplicemente strumenti per rispondere alle sfide sorte con la crisi economica. La vera questione per l’Europa è lo sviluppo di politiche comuni autentiche. Osservando dall’esterno, si vede quanto è complicato progettare e condurre tali politiche, il che è diventato ancora più difficile a causa del processo di allargamento, che ha ampliato la sfera di interessi in gioco. È qui che si annidano le debolezze.
Vi è ora una sensazione di urgenza che attraversa l’Europa: la popolazione sta invecchiando, la migrazione cambia la società e la disoccupazione sta avendo un effetto devastante sulle generazioni più giovani. Eppure questa è una realtà che i governi e i partiti progressisti non sempre sono in grado di affrontare. Il nuovo millennio ha portato un’ondata di opportunità per l’Europa, che avrebbe potuto valorizzare al meglio i suoi punti di forza. Ma si deve riconoscere che è stata colpevole di miopia di fronte ai nuovi pericoli posti dalla globalizzazione e da un sistema finanziario mondiale senza regole chiare e controlli appropriati.
CRESCITA: LA QUESTIONE MAGGIORE
Nell’affrontare così tante importanti sfide, quale dovrebbe essere la risposta dei partiti progressisti europei? Credo che debba essere chiara e inequivocabile: il loro compito è quello di combattere apertamente i modelli di sviluppo che si basano sulla disuguaglianza. Non è solo questione di considerare se la crescita economica vi sia o meno. Si tratta, piuttosto, di governare la crescita indirizzandola a favore di donne, uomini e famiglie, e a favore dell’ambiente.
In breve, riguarda l’introduzione di politiche incentrate sulla protezione del welfare delle generazioni presenti e future. In Europa il dibattito avviene tra chi sostiene l’austerità e la stabilità finanziaria da un lato, e chi pone la solidarietà in cima all’ordine del giorno dall’altro. I progressisti devono imparare a stare dalla parte della solidarietà e allo stesso tempo perseguire responsabilmente il ritorno alla stabilità finanziaria. Se i progressisti saranno capaci di prendere posizione correttamente e trovare il giusto compromesso nella politica, in particolare prima delle elezioni europee del prossimo anno, la crisi potrebbe rappresentare una nuova opportunità per loro.
UN INTERESSE RECIPROCO
Come cittadina cilena, ritengo che un certo numero di incroci tra il mio paese e l’Europa siano inevitabili. Per quanto riguarda le sue origini culturali ed etniche, il Cile, sotto molti aspetti, ha forti connessioni con l’Europa. Anche noi abbiamo posto importanti pietre miliari, come l’Accordo di Associazione con l’Unione europea, l’accordo bilaterale più completo, di vasta portata e rivolto al futuro mai firmato dal Cile. Perché? Perché è basato sulla reciprocità, sul mutuo interesse e sul rafforzamento delle relazioni tra Cile e UE in tutte le aree, tramite tre pilastri fondamentali: politico, economico e cooperativo. Quindi quando si parla di condizioni per l’accesso al mercato e agli investimenti, si deve anche sottolineare che l’obiettivo principale è la promozione, la diffusione e la difesa dei valori democratici, in particolare il rispetto dei diritti umani, la libertà delle persone e i principi dello stato di diritto. Questo è il fondamento sul quale noi ora vogliamo costruire una società più democratica ed equa.
* Intervento pubblicato su Queries (www. queries-feps.eu), la nuova rivista europea progressista del Foundation for European Progressive Studies.

Corriere 16.11.13
Voto in Cile, i fantasmi dei padri
Bachelet e Matthei: figlie di generali amici divisi dalla dittatura
di Ariel Dorfman


Il generale Fernando Matthei, ex comandante in capo dell’Aeronautica cilena, si sveglierà la mattina di domenica 17 novembre pregustando questo felice giorno in cui si recherà al seggio ed esprimerà un voto per sua figlia Evelyn come presidente del Cile, un giorno che egli spera non sarà pieno di fantasmi e ricordi sgraditi.
Evelyn Matthei, rappresentante dell’Alleanza di destra che attualmente governa il Paese, ha un disperato bisogno del voto di suo padre. Non solo appare certo che sarà sonoramente sconfitta da Michelle Bachelet, che si candida per Nuova Maggioranza. Infatti, è possibile che l’aggressiva e offuscata Matthei non arrivi neppure a piazzarsi al secondo posto, una disastrosa proiezione che scatenerebbe una crisi mortale tra i conservatori cileni riusciti, solo quattro anni fa, ad eleggere Sebastián Piñera come capo di Stato.
Mi chiedo cosa penserà il generale Matthei, per tredici anni membro della giunta militare che ha mal governato il Cile, quando vedrà la scheda elettorale con il nome Bachelet accanto al proprio cognome. In quel momento ricorderà che c’è un altro generale dell’Aeronautica cilena, suo caro amico e compagno di lunga data, che non sarà in grado di esprimere un voto in queste elezioni? A Fernando Matthei tornerà in mente Alberto Bachelet, padre di Michelle, che non avrà mai l’occasione unica di marcare una scheda per la propria figlia, perché nel marzo del 1974 il generale Bachelet morì di arresto cardiaco indotto dalle torture a cui i suoi colleghi militari l’avevano sottoposto durante i sei mesi successivi al golpe di settembre che spodestò il presidente democraticamente eletto Salvador Allende?
Fernando Matthei era un addetto militare presso l’ambasciata di Londra l’11 settembre 1973 e pertanto non poté fare nulla per aiutare l’amico con cui soleva scambiare dischi di musica classica e parlare nella notte di sport, politica e letteratura. Il mancato intervento di Matthei non poté più essere giustificato, tuttavia, quando egli tornò a Santiago alla fine del 1973 e fu nominato direttore dell’Accademia di guerra dell’Aviazione, precisamente l’edificio dove l’uomo che sua figlia Evelyn chiamava Tío Beto fu imprigionato e morì due mesi più tardi. Sebbene diversi processi e revisioni giudiziarie abbiano stabilito che l’allora colonnello Matthei non avesse alcuna colpevolezza nella morte del generale Alberto Bachelet — l’accesso ai sotterranei in cui il suo compagno d’armi era stato seviziato era vietato a chiunque non eseguisse gli interrogatori — ciò non lo assolve della responsabilità morale.
La figlia di Alberto sarebbe diventata decenni più tardi ministro della Salute e segretario della Difesa nel governo di centrosinistra di Ricardo Lagos, mentre la figlia di Fernando divenne senatrice e poi ministro del Lavoro nell’amministrazione di destra di Sebastián Piñera. Uno studio dei contrasti: la socialista che è diventata presidente del Cile e la conservatrice che aspira a quella presidenza.
Ed è qui che la storia cilena ci offre una svolta del destino ancora più sorprendente. Perché il generale Matthei, scorrendo la scheda con l’elenco dei candidati presidenti il 17 novembre, sicuramente riconoscerà un altro cognome di un altro candidato ancora, Marco Enríquez, il cui padre non sarà a sua volta in grado di votare a queste elezioni perché fu ucciso dalla dittatura.
Marco è figlio di Miguel Enríquez, il leggendario leader del Mir (Movimiento de izquierda revolucionaria) che è stato crivellato di colpi in una strada di Santiago nell’ottobre 1974. Lasciando un figlio dell’età di un anno e mezzo che ora, quasi quarant’anni più tardi, sta recuperando su Evelyn Matthei nei sondaggi. Se Marco può, in effetti, replicare i 20 punti percentuali che ottenne nelle elezioni presidenziali del 2009, riuscirà a spostare la figlia del generale Matthei e confrontarsi con Michelle Bachelet in un potenziale ballottaggio, consentendo al popolo cileno di scegliere tra due candidati progressisti e la loro visione del futuro. È uno scenario improbabile ma non impossibile.
Mi permetto questo perché, di tutti i protagonisti di questa storia, Miguel è quello che conoscevo meglio. Mia moglie Angélica e io eravamo suoi amici, al punto che, anche se non eravamo d’accordo sulla sua teoria della lotta armata come cammino verso la libertà, abbiamo rischiato le nostre vite allo scopo di dare rifugio a lui e ad altri militanti del Mir nella nostra piccola casa di Santiago nel 1970 quando si erano dati alla clandestinità durante l’amministrazione del democristiano Eduardo Frei Montalva.
Cosa direbbe Miguel se potesse vedere suo figlio sostenere la necessità di trasformare e modernizzare il Cile utilizzando strumenti pacifici, se potesse guardare suo figlio rifiutare la violenza nella quale egli stesso credeva fervidamente?
Tanti altri rivoluzionari latinoamericani sopravvissuti alle dittature del passato sono giunti alla conclusione che la democrazia, piuttosto che la camicia di forza dei poveri in cerca della liberazione, è il presupposto essenziale per qualsiasi cambiamento profondo, qualsiasi giustizia permanente.
Mi sarebbe piaciuto aver discusso di queste e di altre questioni, come abbiamo fatto tanto tempo fa quando dormiva a casa nostra a Santiago.
È una conversazione che non avremo mai.
Il regime che Fernando Matthei ha servito con tale cieca fedeltà ha giustiziato Miguel Enríquez a sangue freddo, l’ha ucciso come ha ucciso e fatto sparire migliaia di altri connazionali.
Se c’è, quindi, un pizzico di giustizia divina nella sconfitta che Evelyn sta per soffrire per mano di Michelle, se è meravigliosamente simbolico che la figlia del generale Bachelet dovrebbe trionfare sulla figlia dell’uomo che ha abbandonato suo padre, non sarebbe più che divino e giusto se il figlio del guerrigliero insurrezionale Miguel Enríquez lasciasse fuori gara l’unica candidata a difendere Pinochet? Se il figlio di una delle vittime battesse la bellicosa figlia di uno dei complici di quella politica di sterminio, ciò non suggerirebbe che il Cile ha decisamente voltato le spalle all’eredità di Augusto Pinochet e alla sua dittatura?
Tuttavia, in questa inverosimile storia di fantasmi e di padri, di figli e di colpa, c’è ancora un altro giro di vite storico.
Perché fu quello stesso pavido generale Matthei a far sì che il Cile potesse oggi indire libere elezioni, che sua figlia e la figlia del suo amico Alberto e il figlio del suo nemico Miguel potessero contendersi la presidenza, che fosse il popolo cileno e non le forze armate a decidere il destino del Paese.
La redenzione di Matthei è avvenuta la notte del plebiscito del 1988 che doveva decidere se Pinochet avrebbe mantenuto il potere a tempo indeterminato. Quando Pinochet cercò di negare la sconfitta alle urne e tentò di fare un altro golpe, fu il generale Matthei a bloccare quella manovra.
Mi piacerebbe credere che Fernando Matthei, quella notte del plebiscito, stesse pagando un debito che doveva al suo vecchio amico Alberto, affrontando Pinochet con il valore di cui non aveva dato prova quattordici anni prima, quando non aveva nemmeno osato visitare, per non parlare di consolare, il compagno che veniva torturato a pochi metri di distanza dal suo ufficio presso l’Accademia di guerra.
Ciò nonostante, è un debito che non è ancora stato del tutto regolato. Per il generale Matthei, ora 88enne, c’è ancora un altro gesto di redenzione con cui sarebbe in grado di segnalare silenziosamente il suo vero pentimento e dissipare, forse per sempre, i fantasmi che non lo lasceranno solo.
Sarebbe un gesto semplice, anche se non senza rischi.
Tutto ciò che occorrerebbe è che il generale, quando entrerà nel seggio il prossimo 17 novembre e guarderà la lista dei candidati alla presidenza, tutto ciò che servirebbe — dicevo — sarebbe che il generale Fernando Matthei decidesse chiaramente, intenzionalmente e categoricamente di scegliere il nome di Michelle Bachelet. Forse lui sa che significherebbe il mondo per lei, che il suo Tío Fernando ha dato quel voto, lo ha espresso, perché suo padre Alberto sfortunatamente non può farlo.
(Traduzione italiana di Raffaella Camatel )

il Fatto 16.11.13
Quinta colonna
Populisti e xenofobi sono già a Strasburgo la banda degli eurodeputati anti-Ue
di Andrea Valdambrini


Bruxelles Nazionalista, xenofoba, spesso antisemita, fortemente euroscettica e non di rado omofoba. Questo il profilo dell’estrema destra che risorge in tempi di crisi profonda del Vecchio continente. Extraparlamentare? Non necessariamente. Se alcuni parlamenti nazionali sbarrano la strada ai piccoli partiti, gli esponenti di movimenti estremisti hanno già un piede nel parlamento europeo di Strasburgo, dove si vota con il sistema è proporzionale. Partiti che si preparano all’ascesa alle prossime europee di fine maggio 2014.
L’ENTENTE CORDIALE tra Marine Le Pen, eurodeputata e leader del Front National dato come primo partito dai sondaggi per le Europee 2014, e Geert Wilders, alla guida dell’olandese Partito della Libertà, è sotto gli occhi di tutti. Ecco di seguito un elenco ragionato di figure meno conosciute (molti dei quali eletti nel 2009) e delle loro affiliazioni nazionali.
Partiamo dalla Francia, dove, se i Le Pen (padre e figlia), hanno entrambi un seggio a Strasburgo, un ruolo di primo piano ricopre anche Bruno Gollnish. Eurodeputato dal 1994, politico di lungo corso nel Fn, lepeniano di ferro. A più riprese accusato di negazionismo e per questo rimosso dall’università di Lione dove insegnava. Nel 2008 il Parlamento europeo gli toglie l’immunità parlamentare a causa di un’accusa per incitamento all’odio razziale. Gollish ricopre ora la carica di presidente dell’ “Alleanza europea dei movimenti nazionalisti”, organizzazione di cui segretario generale è l’italiano Valerio Cignetti della Fiamma Tricolore, e intrattiene ottimi rapporti con il post–fascista British National Party dell’europarlamentare Nick Griffin. Sempre dalla Gran Bretagna è arrivato a Strasburgo Andrew Brons (classe 1947) è uno dei leader storici dell’ultradestra inglese, da giovane membro del partito nazional-socialista inglese.
Tesoriere dell’Alleanza presieduta da Gollnish è l’eurodeputato Bela Kovacs, esponente di Jobbick, partito ungherese apertamente nazionalista, razzista e omofono.
CRIZSTINA MORVAI, altra rappresentante di Jobbick a Strasburgo, è stata accusata di anti-semitismo, mentre il suo collega Csanad Szegedi è ormai noto per lasciato il partito (ma non il seggio) dopo aver riscoperto le sue radici ebraiche.
L’Olanda ha mandato a Strasburgo 4 esponenti dell’ ultranazionalista, antieuropeista e anti-islamico Partito del Popolo di Geert Wilders. Tra di loro, Auke Zijlstra, salito agli onori della cronaca nel 2012, quando difese il sito web del suo partito che invitava simpatizzanti e cittadini a denunciare i comportamenti molesti di migranti est-europei. In Polonia l’estrema destra ha il volto di Legge e Giustizia, partito guidato da Jaroslav Kakzynsky, fratello dell’ex presidente polacco deceduto in un incidente aereo, che oggi ha 6 eurodeputati. Molto discusso il rapporto con la polacca RadioMariya diretta dall’ultraconservatore cattolico padre Tadeusz Rydzyk. L’impero mediatico di Rydzyk (radio, tv e un quotidiano), è stato censurato per anti-semitismo dal Cosiglio d’Europa. A questo si aggiunge anche l’accusa, per gli eurodeputati polacchi - seguiti da lettoni, lituani e italiani - di essere i più ostili ai diritti dei gay in Europa.
Eletto in Romania, Corneliu Vadim Tudor, è un ultranazionalista, già molto vicino a Ceaucescu, che ha fondato il partito “Grande Romania”. A inizio legislatura, nel 2009, Tudor minacciò le dimissioni in solidarietà con il suo ex rivale politico George “Gigi” Becall. Per quanto eletto a Strasburgo, infatti, il miliardario Becall, anche lui nazionalista e proprietario di una squadra di calcio, è stato bloccato dai giudici rumeni. L’accusa quella di aver ordinato ai suoi bodyguard di catturare e minacciare 3 uomini che avevano provato a rubargli l’auto. Dalla vicina Bulgaria arrivano Slavi Binev e Diniter Stoyanov. Per quanto entrambi fuoriusciti dal’ultranazionalista e razzista partito Attack, non se ne sono allontanati troppo. Se il primo ha trascorsi nel traffico di droga e nel racket della prostituzione, Stoyanov (classe 1983), è ricordato per aver attaccato una sua collega eurodeputata ungherese e attivista per i diritti dei Rom inviando una mail in cui invitava ironicamente a “comprare” una giovane moglie Rom di 12 o 13 anni, lamentando che “le più belle possono” costare fino a 5.000 euro.
E la Grecia? Niki Tzavela e Nikolaos Salavrakos a Strasburgo rappresentano il Popular Orthodox Rally. Partito dichiaratamente nazionalista, anti-turco, favorevole alla deportazione degli immigrati e alla dissoluzione dell’Ue. Alba Dorata non pare troppo lontana.

il Fatto 16.11.13
Cina dal volto umano Meno lager, più figli
Il partito comunista cambia le forme del regime
Chiuderanno i campi di lavoro dove sono rinchiusi molti oppositori e dopo 35 anni abolisce l’0bbligo per ridurre la natalità
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino. Li hanno chiamati gulag, laogai e laojiao. Il loro nome è cambiato nel tempo ma la sostanza è rimasta. Campi di lavoro, o meglio, di rieducazione attraverso il lavoro, dove si può essere confinati per quattro anni per i più diversi motivi. E senza processo. Bene, la Repubblica popolare cinese li abolirà.
È FORSE QUESTA la notizia più importante che esce dal documento conclusivo rilasciato tre giorni dopo la chiusura del terzo plenum. Una riunione a porte chiuse durata quattro giorni che ha posto le basi per il prossimo decennio cinese.
“Dobbiamo avere il coraggio e la convinzione necessari a rinnovarci” si legge nelle dichiarazioni del presidente Xi Jinping che accompagnano il documento. È ambizioso, vuole tenere assieme il rinnovamento economico, il miglioramento sociale e lo sviluppo patriottico della nazione.
La Cina, inoltre, ammorbidirà la cosiddetta politica del figlio unico, ridurrà “passo dopo passo” i crimini soggetti alla pena capitale e lavorerà per impedire che le confessioni vengano estorte attraverso torture e abusi fisici.
Per mesi gli analisti hanno discusso sulla direzione economico finanziaria che avrebbe preso il Paese, ma nessuno si aspettava che in un colpo solo venissero riformate politiche controverse le cui soluzioni sono state rimandate per anni.
Si pone limite alla pianificazione famigliare che dal 1979 avrebbe portato a 336 milioni di aborti e a milioni di donne forzatamente sterilizzate. Presto le coppie potranno avere due figli se uno dei due partner è figlio unico.
E ANCORA, non si conosce la tempistica, ma “verranno aboliti” gli inumani campi di lavoro introdotti nel 1957 per confinare i “controrivoluzionari” e i colpevoli di reati minori e diventati poi lo strumento per liberarsi senza processo di prostitute, tossicodipendenti, petizionisti, dissidenti e appartenenti a sette religiose illegali.
Nonché di personaggi scomodi del calibro del dissidente Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace 2010.
L’ultima valutazione del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni unite è del 2009. Riporta di 190mila persone rinchiuse in circa 320 campi. Ma i veri numeri rimangono segreti.
Come segreti sono i numeri delle pene capitali eseguite in Cina che Amnesty International stima siano migliaia ogni anno. Anche i reati soggetti a questa pena si andranno via via sfoltendo. E con essi, si spera, il traffico illegale di organi espiantati ai condannati.
Insomma, la nuovissima Cina è appena entrata Consiglio dell’Onu per i diritti umani e sembra voler percorrere questa strada alla sua maniera, “testando le pietre per guadare il fiume”.

La Stampa 16.11.13
Pechino, cade il tabù del figlio unico
Il Plenum allenta la legge e ammette nuove eccezioni. Stop ai campi di lavoro, limiti alla pena di morte
di Ilaria Maria Sala

qui

Repubblica 16.11.13
La storia
Da 35 anni un tributo di sangue che ora lascia un Paese di vecchi
di Renata Pisu


GIÀ correva voce, già si sperava che la politica del figlio unico sarebbe stata abbandonata quando milioni di coppie formate da figli unici, sarebbero giunte all’età in cui si pensa di mettere su famiglia. Così è stato, almeno per loro il divieto a mettere al mondo più di un figlio è venuto meno e, in pratica, la misura si estenderà anche alle coppie non formate da figli unici che sono tantissime, più di quante i pianificatori statali avessero mai previsto. Infatti, nessuna legge è mai stata tanto invisa come questa che colpiva nella sua più intima trama il tessuto della società cinese e negava il diritto a perpetuarsi giudicato inalienabile anche da chi di diritti ne aveva assai pochi. Sono così nati illegalmente milioni di bambini chiamati “neri”, oggi diventate persone nere non iscritte all’anagrafe, fantasmi che si aggirano negli interstizi di un mondo che per modernizzarsi ha pagato il prezzo più alto, quello della propria carne e del proprio sangue. Sono forse quaranta i milioni di bambine mai nate, altrettanti se non di più i maschi sacrificati in modo crudele. Come ciò avvenisse ce lo racconta in “Le Rane” Mo Yan, premio Nobel per la letteratura: una donna al nono mese di gravidanza vien fatta abortire poche ore prima del parto perché se il bambino venisse alla luce naturalmente e emettesse anche un solo vagito, dovrebbe essere considerato un cittadino e eliminarlo sarebbe un omicidio, ma se lo si strappa dal ventre di una madre colpevole di aver già messo al mondo un altro figlio, allora si agisce secondo la legge.
Oggi che viene abbandonata la politica tanto osteggiata del figlio unico che è stata imposta con severe sanzioni, ci si domanda se sia servita anche solo parzialmente a frenare la crescita della popolazione, una questione che in Cina si pose quando a metà dell’Ottocento si raggiunsero i 420 milioni di abitanti, sette volte più di quella che in passato aveva assicurato l’equilibrio. Mao però di controllo delle nascite non voleva neanche sentir parlare. Scriveva: è un bene che la Cina sia così popolata…le persone che nascono non sono bocche da sfamare, sono anche nuove braccia per il lavoro.
Che dire, era una sua opinione e chi la osteggiò come il demografo Ma Yinchu fu messo alla gogna come seguace di Malthus e fu una delle prime vittime della Rivoluzione culturale. Poi vi fu la virata, divenne impellente controllare la crescita della popolazione e fu allora, nel 1978, che la Cina adottò una politica tanto restrittiva che avrebbe dovuto portarla, intorno al 2100, a una decrescita felice della popolazione stabilizzata sui 700 milioni di abitanti. Sarà mai possibile?
Oggi come oggi, chi ha voluto giocare all’apprendista stregone suscitando forze che mai l’uomo aveva di propria volontà evocato lasciando invece fare alla natura, si trova a dover fare i conti con una realtà sociale stravolta che forse non aveva messo in conto. Maschi che superano di numero le femmine, cosicché sono molti coloro destinati a non trovare moglie, a meno che non la comprino. Fiorisce infatti il mercato delle ragazze da marito, spesso rapite nelle loro provincie natali e messe all’asta lontanissimo da casa. Anziani lasciati senza nessuna assistenza dai loro figli unici mentre un tempo era nell’ambito della famiglia che ci si prendeva cura delle loro esigenze. Ma, si dice in Cina: «Siamo il primo paese che è diventato vecchio prima di diventare ricco». Una virtù, quella confuciana della pietà filiale, che sta scomparendo per forza di cose mentre i figli unici danno fondo a tutte le risorse familiari convinti come sono che il mondo gli appartenga, viziati e coccolati da quattro nonni tutti per loro. Ancora, bambini prima eora giovani uomini e donne di serie A, quelli pianificati, senza sorelle e senza fratelli. Bambini e adulti di serie B che non hanno accesso a nessun privilegio, spesso migranti clandestini nelle grandi città. E infine l’impoverimento di tutta una terminologia familiare che rendeva stabile e gerarchicamente organizzato l’universo della famiglia, dove ci si rivolgeva ai congiunti con un ventaglio di termini di rispetto e di affetto: fratello maggiore, fratello minore, zia sorella della madre distinta da zia come sorella del padre, e così il nonno materno si chiama diversamente da quello paterno, con i cugini e le cugine poi non si rischia di confondersi perché tanti sono i gradi di parentela tanti i termini usati. La lingua si impoverisce come si impoverisce la ragnatela degli affetti in un paese che si è avviato a modo suo sulla strada di una non ancora non raggiunta modernità.

il Fatto 16.11.13
Le atrocità del nazismo
Le furie di Hitler feroci e indifferenti
Le ragazze “normali” che uccidevano gli ebrei nei campi per non valere meno degli uomini
di Silvia Truzzi


Una decina d’anni fa Adelphi pubblicò Lasciami andare madre, di Helga Schneider. Una testimonianza struggente e indimenticabile per chi l’ha incrociata perché racconta la tragedia di una bimba abbandonata a quattro anni dalla madre. La donna lasciò la famiglia per arruolarsi nelle SS e divenne a Birkenau una feroce assassina, mai redenta: “Verso di lei provo un rancore tenace, ma temo di non avere ancora rinunciato a trovare in lei qualcosa che si salva. Di qui il dubbio: è stata davvero spietata come dice o si mostra irriducibile perché io la possa odiare, liberandomi dell’incubo? ”.
Nel 1939 in Germania c’erano 40 milioni di donne. Un terzo era attivamente impegnato in qualche organizzazione nazionalsocialista, e il numero d’iscritte al partito aumentò regolarmente fino al termine del conflitto. Ce lo racconta Wendy Lower, storica americana, in un interessantissimo saggio appena uscito per Rizzoli. Il libro s’intitola Le furie di Hitler, ma non si occupa delle kapo: “Mentre gli atti delle guardie femminili nei lager sono stati oggetto di un accurato esame da parte di giornalisti e studiosi, molto meno si sa delle donne che occupavano ruoli più tradizionali, che non erano state addestrate a essere crudeli, ma che per caso o per un piano preciso avevano finito per servire le politiche criminali del regime”.
MAESTRE, infermiere, interpreti, casalinghe: erano le donne nei territori orientali, dove fu commessa gran parte dei peggiori crimini del Reich. “Alle più ambiziose veniva offerta da parte dell’emergente impero nazista la possibilità di far carriera al-l’estero”. Su questa, estesa e attiva, partecipazione al regime mancano studi e pubblicazioni. Ci hanno raccontato di Gertrud Scholtz-Klink (la donna più influente del partito nazista), conosciamo i crimini di Irma Grese e Ilse Koch (due tra le più spietate guardie femminili nei campi), ma di tutto il resto sappiamo troppo poco. Perché? Scrive la Lower: “Gli studi sull’Olocausto concordano sul fatto che i sistemi che rendono possibile l’omicidio di massa non funzionerebbero senza un’ampia partecipazione della società, e ciò nonostante quasi tutte le storie dell’Olocausto lasciano fuori metà di coloro che popolavano quella società, come se la storia delle donne avvenisse da qualche altra parte. È un approccio illogico e un’omissione sconcertante”.
È forse una delle poche situazioni in cui il pregiudizio maschilista ha favorito le donne. L’autrice racconta che esaminando gli atti delle inchieste del Dopoguerra, si è resa conto di quante donne erano state chiamate a testimoniare. Tantissime tra loro lo avevano fatto di buon grado, con naturalezza e sincerità, perché “i pubblici ministeri erano più interessati ai crimini commessi dai loro mariti e colleghi maschi”.
Ma loro, di fronte agli orrori, come avevano reagito? “Quasi tutte con indifferenza”.
Erna Petri fu condannata per aver torturato e ammazzato ebrei. Al processo le chiesero come aveva potuto uccidere dei bambini ebrei, che fino a poco prima aveva nutrito, lei che era anche una mamma. “Volevo dimostrare di non essere meno di un uomo”.

l’Unità 16.11.13
Ötzi e Fantötzi
Storia semiseria della mummia dei ghiacci e dei suoi discendenti
di Franco Rollo


UN GIORNO IL RAGIONIER FANTOZZI RICEVE UNA LETTERA SU CARTA INTESTATA DELL’UNIVERSITÀ TAL DEI TALI DOVE GLI SI COMUNICA CHE ANALISI GENETICHE APPROFONDITE HANNO APPURATO LA SUA PARENTELA COL FAMOSO ÖTZI, LA MUMMIA DEI GHIACCI DI 5000 ANNI FA. Fantozzi, ora Fantötzi, carica sull’auto la moglie Pina, cui ha sottratto la sdrucita pelliccia, l’inquietante figlia Mariangela e le porta al Museo Archeologico dell’Alto Adige a Bolzano per rendere omaggio al bis-bisnonno attraverso il finestrino della cella frigorifera dove la mummia è conservata.
Potrebbe essere la trama di un nuovo episodio della serie Fantozzi, Fantötzi, appunto, ma è la realtà, nomi a parte. Vediamo cosa è successo.
Agli inizi del mese di ottobre, nella sezione di genetica di Forensic Science International, esce una ricerca compiuta da un gruppo di genetisti forensi dell’Università di Innsbruck dove, tra l’altro, si segnala l’identificazione, attraverso il Dna, di 19 abitanti del Tirolo austriaco che condividono con l’Uomo del Similaun una particolare tipologia del cromosoma Y («aplogruppo» G-L91) che si eredita per linea maschile. Gli autori dello studio, che hanno fatto uno screening genetico di 3700 donatori di sangue di sesso maschile, interpretano il dato come la conferma dell’ipotesi che una popolazione preistorica, i cui uomini erano portatori di quel particolare aplogruppo (Ötzi era uno dei tanti) si sarebbe insediata nelle vallate tirolesi migliaia di anni fa; ancora oggi restano le tracce di quella antica colonizzazione.
Il 10 ottobre, in un comunicato dell’Apa (Austria Presse Agentur) il linguaggio più che misurato e scientifico della comunicazione su Forensic Science International lascia il posto alla notizia sensazionale che in Tirolo sono stati ritrovati i parenti o meglio i discendenti di Ötzi. I mezzi di informazione si allineano rapidamente e in maniera massiccia all’agenzia viennese. Il climax viene raggiunto con le interviste ad un occhialuto manager svizzero di 56 anni, tale Simon Gerber, presentato al pubblico come bis-bisnipote dell’Uomo del Similaun. Gerber, convintissimo della propria discendenza dalla mummia, giustifica con questo legame di sangue la sensazione di malessere che prova quando si trova in città fra tra le macchine. È appena il caso di accennare al fatto che il manager svizzero non rientra tra i soggetti sottoposti a screening dall’università di Innsbruck che, va ad onore degli autori della ricerca, sono rimasti coperti dal più rigoroso anonimato; da ciò che dice capiamo che si è sottoposto autonomamente ad accertamenti genetici che hanno, si presume inaspettatamente, rivelato la sua somiglianza genetica con la mummia. Come il risultato dei test che, per ovvie ragioni, sarebbe dovuto rimanere riservato, sia finito in pasto ai media, è motivo di qualche perplessità.
Mentre la faccenda della discendenza maschile di Ötzi scivola nel grottesco, quella che, almeno per ora, resiste validamente a strumentalizzazioni mediatiche di sorta è l’ascendenza femminile (madre, nonna, bisnonna ecc.), legata al Dna mitocondriale.
Luca Ermini, in questi giorni all’università di Camerino per un ciclo di conferenze sull’evoluzione molecolare, ha avuto un ruolo fondamentale nel lungo lavoro di decrittazione della sequenza mitocondriale di Ötzi, completato nel 2008. Col lavoro sul Dna mitocondriale, Ermini ha conseguito il dottorato di ricerca, cui sono seguite posizioni all’università di Newcastle e all’Institute of Cancer Research di Londra. Lavora ora al Geo-Genetics Laboratory dell’Università di Copenhagen come titolare di una prestigiosa borsa Marie Curie della Comunità Europea.
«Quello delle antenate femminili dell’Uomo dei Ghiacci è un vero mistero -,conferma tutt’oggi con quasi quarantamila sequenze mitocondriali complete immesse nelle banche dati – precisa – non se ne trova una che corrisponda esattamente a quella che Ötzi ha ereditato dalle sue antenate. Si deve pertanto trattare di una linea genetica poco diffusa nella popolazione antica, che potrebbe essere andata persa accidentalmente nei cinquemila anni trascorsi». In cima alla genealogia femminile dell’Uomo del Similaun c’è una donna nel cui Dna mitocondriale sono avvenute le mutazioni che lo hanno reso unico. Di lei non sappiamo nulla. Vissuta forse nel neolitico o prima, alla fine del paleolitico superiore, possiamo solo fantasticare su questa «Grande Madre» e figurarcela con le fattezze strabordanti di una venere preistorica, magari proprio la famosa Venere di Willendorf, conservata al Naturhistorisches Museum di Vienna, anche se sappiamo che, in questo modo, ci abbandoniamo un po’ anche noi al sensazionalismo.

l’Unità 16.11.13
Budinich, il realista visionario
Si è spento giovedì il fisico che ha trasformato Trieste nel centro italiano a maggiore intensità di ricerca e sviluppo
di Pietro Greco


È MORTO PAOLO BUDINICH, IL FISICO il visionario che ha restituito un’anima a Trieste. Dando un contributo straordinario, addirittura decisivo, a trasformare una «città marinara», che era stata il più grande porto dell’impero austro-ungarico, e che poi aveva un periodo drammatico di declino e di conflitti, in una «città cognitiva», il centro italiano a maggiore intensità di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. Trieste che aveva perduto la sua anima marinara ne ha così acquisita un’altra, scientifica.
Nato nel 1916 a Lussino, un’isola della Croazia dove la famiglia aveva riparato per evitare i pericoli della prima guerra mondiale, Paolo Budinich si era laureato in fisica alla Normale di Pisa nel 1939. Aveva poi attraversato avventurosamente la seconda guerra mondiale. Ritornato a Trieste ed entrato come docente nell’università, ha iniziato a lavorare da fisico e da visionario. Ovvero da persona che ha uno sguardo lungo, capace di guardare lontano.
Dopo la seconda guerra mondiale, la breve ma tragica occupazione dell’esercito di Tito e il governo alleato, Trieste è tornata all’Italia con profonde ferite e nessun ruolo. Almeno, nessun ruolo degno del passato. Budinich ha pensato fosse suo compito di uomo di scienza contribuire alla rinascita della città. Siamo una città ponte, sosteneva. Non solo tra Est e Ovest. Ma anche tra Nord e Sud del mondo. E se negli anni ’50 la comunicazione tra l’Occidente e l’Oriente era pressoché impedita dalla cortina di ferro, il passaggio dal nord al sud del mondo era tutto da esplorare. La scienza poteva proporsi come un ponte solido e utile.
I giovani dei paesi del Terzo Mondo (così si chiamava allora) non hanno la possibilità di studiare la fisica ad alto livello nel loro paese. O emigrano e non tornano più o rinunciano. Creiamo un centro di fisica teorica a Trieste dove offrire una terza opportunità: formarsi al massimo livello e poi tornare a casa per creare, con la scienza, le condizioni per lo sviluppo.
Nacque così, all’inizio degli anni Sessanta, il Centro internazionale di fisica teorica: il primo al mondo su cui ha sventolato la bandiera delle Nazioni Unite. Budinich ebbe anche l’intuizione di chiamare a dirigerlo un fisico teorico pakistano, Abdus Salam, che di lì a poco avrebbe ottenuto il premio Nobel. Il primo scienziato islamico laureato a Stoccolma. Trieste divenne nota in tutto il mondo.
L’azione di Budinich non si è fermata lì. Un a paio di decenni dopo ha creato e, in un primo tempo, diretto la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa), la scuola di eccellenza che è stata la prima in Italia a istituire corsi di post-laurea e a rilasciare un diploma di PhD. Budinich ha poi contribuito più di ogni altro a creare sul Carso, alle porte di Trieste, l’Area Science Park, il parco scientifico e tecnologico più grande d’Italia, che ospita numerosi centri di ricerca e laboratori, tra cui il Sincrotrone e il Centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologia (Icgeb), il primo centro delle Nazioni Unite che si occupa di biologia e che ha tre teste: a Trieste, a Nuova Delhi in India e a Città del Capo, in Sud Africa. Con queste strutture e altro ancora quel «generatore di creatività», come lo ha definito il collega Erio Tosatti, Budinich ha dato il massimo e decisivo contributo a creare il «sistema Trieste»: una rete di centri, laboratori e istituti che hanno fatto del capoluogo giuliano la città a maggiore intensità scientifica del nostro paese e tra le prime d’Europa.
Ultimo ma non ultimo, Budinich ha contribuito anche a far maturare, a Trieste e in Italia, una cultura della comunicazione della scienza. Pensava che quella scientifica per essere vincente e contribuire allo sviluppo di un paese e delle persone che lo abitano deve essere diffusa. Per questo ha creato il primo science centre italiano (L’Immaginario Scientifico) e il primo Master in comunicazione della scienza del paese (alla Sissa, in collaborazione con il giornalista Franco Prattico). Probabilmente nessuno scienziato italiano ha mai fatto tanto per la sua città.
Paolo Budinich è morto giovedì notte all’età di quasi 97 anni. Stava lavorando alla realizzazione di una rete di università in Africa, capace di formare i giovani del continente nero con standard elevatissimi. Convinto com’era che per sottrarre i popoli alla povertà e al sottosviluppo non occorra regalare loro il pesce, ma dargli una canna da pesca e insegnare loro a pescare. E convinto com’era che, nell’era della conoscenza, la migliore canna da pesca è quella della scienza.

Corriere 16.11.13
L’innamoramento e la domanda a cui Lucrezio non sa rispondere
di Eva Cantarella


La questione non è mai stata risolta: perché ci innamoriamo? Perché ci innamoriamo proprio di quella persona, e non di un’altra che magari, teoricamente, potrebbe essere molto più adatta a noi? Periodicamente della questione vengono riproposte le spiegazioni più disparate e poiché il problema non è nuovo, a dire la loro in materia sono stati anche i romani. A uno dei quali, Lucrezio, si deve una interessante teoria. Per chi non lo ricordasse, Lucrezio, vissuto nella prima metà del primo secolo a.C., poeta e filosofo, scrisse un poema didattico intitolo De rerum natura , nel quale, per dimostrare la falsità dei timori dovuti alla credenza superstiziosa degli interventi divini sulle vite umane, si rifaceva alle teorie di Epicuro. Il mondo, spiegava Lucrezio, è regolato da leggi meccaniche di natura; l’anima è mortale, scompare con la morte del corpo; e il piacere (venendo al nostro tema) altro non è che la soddisfazione di trasferire il proprio seme nel corpo di un’altra persona, il cui fascino ha provocato la formazione e l’accumulo del seme stesso: «Chi è colpito dalle frecce di Venere — dunque — è attratto da chi lo ha colpito, e aspira a unirsi a lui». Al di là (ovviamente) dalla sua attendibilità, una teoria per alcuni versi apprezzabile: indiscutibilmente, infatti, non contiene la minima traccia omofoba (anzi, il fanciullo, nell’ordine, viene prima della donne).. Ma rimane un dubbio: le donne, che non hanno seme, non si innamorano mai? Non hanno mai voglia di fare l’ amore?

Repubblica 16.11.13
Simone Weil
Mistica o eretica? L’ultimo processo
di Marco Vannini


«Io credo in Dio, nella Trinità, nell’Incarnazione, nella Redenzione, nell’Eucarestia, negli insegnamenti dell’Evangelo»: così Simone Weil iniziava la sua professione di fede nel cosiddetto Dernier texte, scritto londinese degli ultimi mesi di vita. In Inghilterra, ove si era recata per partecipare alla Resistenza antinazista di France Combattante, morì infatti, a soli trentaquattro anni, il 24 agosto 1943. Questo settantesimo anniversario viene celebrato oggi a Firenze con un convegno sul tema “Simone Weil: la fede al limite”. Nella città toscana la scrittrice francese trascorse giorni di grande letizia nel corso del suo viaggio in Italia del 1937, vi si sentì come a casa sua, tanto da scrivere, un po’ seriamente e un po’ scherzosamente, che doveva esservi già stata in una vita precedente.
La Weil si confrontò con il cristianesimo con tutta la radicalità richiesta dalla cultura del nostro tempo, e per questo la chiesa, che pure la ha in parte utilizzata a scopo apologetico, ha finora sostanzialmente evitato di fare i conti con lei. Ciò è tanto più evidente negli ultimi decenni, quando si è cercato di recidere le radici greche del cristianesimo, intendendo riportarlo alla sua presunta origine biblica: la scrittrice francese, che pure era di famiglia ebrea, non concede infatti nessun credito a questa tesi e difende, invece, la “fonte greca”, che per lei significa l’essenza razionale, cioè universale, del cristianesimo. Giustamente perciò Levinas poteva dire che, in quanto rifiutava il mito della elezione divina di Israele, la Weil era “pagana” — ovvero, in termini più neutrali, ellenica. Questo è anche uno degli aspetti che Sabina Moser affronta nel suo recenteIl “credo” di Simone Weil (Le Lettere, Firenze 2013), ove esamina in dettaglio quel Dernier texte che è il testamento spirituale della scrittrice francese.
Il punto di partenza sta comunque nel fatto che per la Weil la fede non è quel lume (lumen fidei) che illumina qualcos’altro, che sarebbe poi la verità, ma è la luce (lux, non lumen) stessa, giacché, in quanto movimento di tutta l’intelligenza verso l’assoluto, essa non comunica saperi, peraltro illusori, ma è essa stessa un sapere — sapere non di altro, ma conoscenza dello spirito nello spirito.
Il contenuto della fede è il suo stesso atto, che è essenzialmente distacco, negazione: fare il vuoto di ogni preteso sapere, rifiutare il consenso a ciò che assoluto non è. La fede non è una credenza: l’atto di fede come credenza è un atto di menzogna, di invenzione, frutto di quella immaginazione che ha il fine di «colmare i vuoti, dai quali potrebbe giungere la grazia», ovvero difendere l’egoismo, l’amore di se stessi. Simone combatte perciò questo concetto di fede come immaginazione, e ugualmente la teologia come invenzione: nel Vangelo, scrive, non c’è una teologia, ma una concezione della vita umana. Gesù chiede infatti ai suoi discepoli un radicale cambiamento, una conversione, riconoscendo la malizia essenziale della propria psiche, che tutto sottomette ai propri fini (questo il vero senso del “peccato origina-le”!): la rinuncia a se stesso, questo, e niente altro, è l’insegnamento evangelico.
Il cristianesimo della Weil è perciò tragico, centrato sulla croce, simbolo della morte dell’egoità, tanto che — ella scrive — si potrebbe anche fare a meno della resurrezione. È un cristianesimo ben lontano da quello, ottimistico, che parla di affettuosi “disegni di Dio” verso l’uomo — una menzogna, questa, offensiva del
malheur, della infelicità, della sventura,insopprimibile dalla condizione umana.
Con il suo concetto di “decreazione”, spogliamento dell’egoità, la Weil si inserisce così a pieno titolo nella grande mistica, tanto d’occidente quanto d’oriente. Non a caso riconobbe nella tradizione dell’India, nelle sue Scritture, dalla Bhagavad Gita ai testi buddisti, lo stesso insegnamento del vangelo: quello del distacco assoluto — distacco dall’io come da Dio. Per un verso, infatti, «è il peccato in me a dire “io”. Tutto ciò che iofaccio è cattivo, senza eccezione, compreso il bene, perché io è cattivo. Io sono tutto. Ma questo io è Dio e non è un io». Per un altro verso, specularmente, «dobbiamo spogliare Dio della sua divinità per amarlo, perché se si va a Dio senza svuotarlo della sua divinità, si tratta allora di Yahweh o Allah» —cioè di due idoli.
Se questa duplice, ma in realtà semplice, operazione viene compiuta, tutto appare uno, tutto appare buono, con quel senso di realtà, presenza, gioia, che mostra l’eterno nel presente. Che il reale sia tutto quanto buono e bene, è un pensiero che accomuna la Weil alla grande tradizione mistico-filosofica, dal primo filosofo del logos, Eraclito, a Eckhart a Spinoza, che scriveva essere il pensiero del male proprio solo degli iniqui, ovvero di coloro che hanno in mente se stessi e non Dio. Infatti, anche per Simone, «Il reale è per il pensiero umano la stessa cosa che il bene. Questo il senso misterioso della frase: Dio esiste». Il pensiero del male, ovvero il non pensiero, nasce sempre dall’attaccamento, dal desiderio, che «non è altro se non l’insufficienza nel sentimento della realtà. Dal momento in cui si sa che qualcosa è reale, non ci si può più attaccare ad esso», ed è allora, con la fine dell’attaccamento, che finisce anche il pensiero del male e si ottiene davvero la libertà.
Simone contesta infatti la comune illusione della libertà, del libero arbitrio, giacché l’universo è tutto quanto sottomesso alla necessità, e l’uomo non fa eccezione, per cui «l’illusione dell’orgoglio, le sfide, le rivolte, tutto ciò non sono che fenomeni rigorosamente determinati quanto la rifrazione della luce». La Bhagavad Gita recita: «Colui che pensa: Sono io che agisco, costui ha la mente fuorviata dal senso dell’ego », e Simone conferma: «Dire “io sono libero” è una contraddizione, perché a dire “io” è proprio ciò che non è libero inme». Ciò che è libero è infatti ciò che non è più lo “io” e il “mio”, ma Dio stesso, fondo e sostanza dell’anima.
Da qui anche la critica weiliana al concetto di persona, tanto caro a certa cultura cattolica. A chi rilevava come l’antichità non avesse nozione del rispetto dovuto alla persona, Simone fa notare con sarcasmo che ciò è vero, ma non perché non avesse acquisito ancora una nozione così basilare, ma perché «pensava con troppa chiarezza per una concezione così confusa ». E lo stesso vale per espressioni come “realizzazione della persona”, “diritti della persona”: la persona si “realizza” solo quando il prestigio sociale la gonfia; la sua realizzazione non ha a che fare col sacro, ma con la sua falsa imitazione prodotta dal collettivo. Quanto al diritto, poi, esso non ha alcun legame con l’amore, ma è legato, invece, allo “spirito di mercanteggiamento”, che governa il mondo del commercio: «Non è possibile immaginarsi san Francesco che parla di diritto».
Il cristianesimo weiliano è dunque per molti aspetti “inattuale”: quella di Simone fu davvero una fede “al limite”. Pensiamo comunque che verificare questo limite sia oggi un dovere cui non può sottrarsi intelligenza alcuna, religiosa o laica che sia.