domenica 17 novembre 2013

Repubblica 17.11.13
Chi ascolta la voce degli studenti in piazza?
di Nadia Urbinati


Gli studenti universitari venerdì hanno manifestato nelle maggiori città italiane. Come molte altre volte in passato, mettono in campo il diritto di disobbedire e manifestare perché le altre armi della politica sono spuntate e non raggiungono l’obiettivo di far sentire la voce a chi della politica vive, a chi la pratica dentro le istituzioni. Le quali sembrano essere diventate un muro di gomma su cui quel che succede fuori rimbalza, senza produrre effetti. E l’argomento è il solito da anni, ormai: “Non possiamo fare diversamente”. La ragione oggi sta dalla parte dei ragazzi che, stando fuori dalle istituzioni, rivendicano la decisione di scendere in piazza perché manca l’ascolto da parte di chi vive dentro la politica praticata. Le due parti hanno quasi smesso di comunicare: ormai sono due mondi che marciano nell’indifferenza reciproca o, quando cercano di interloquire, si scontrano.
Le forze dell’ordine contro i giovani dimostranti: questi sono i protagonisti di una politica che ha smesso di svolgere la sua funzione di raccordo tra le istituzioni e l’esterno, che ha smobilitato programmi e deciso di immolarsi al linguaggio della necessità. E, interrotto il dialogo, resta la violenza e la criminalizzazione da parte di chi ha il monopolio della violenza stessa. Diceva uno studente: «Non vogliono ascoltarci. Vogliono dire che siamo dei criminali, mentre noi lottiamo solo per il nostro futuro, che non c'è. Io cerco lavoro da sei mesi e non lo trovo. Frequento l'università e faccio fatica a pagarla». Questa è la ragione delle manifestazioni e questi i contenuti che non vogliono essere ascoltati – o l’ascolto non produce altro che la stessa risposta: abbiamo le mani legate dall’Europa, dalle banche, dal mercato. Da tutti. Ma chi ha le mani legate non è sovrano. Se la politica dichiara di non riuscire a farcela porta il peso di una responsabilità, quella di scatenare altre risposte. No. Non è questa la via maestra.
Da diversi anni ascoltiamo la favola della ristrutturazione dell’università e della razionalizzazione della scuola, della costruzione dell’autonomia scolastica, della “funzionalizzazione” dei programmi disciplinari alle esigenze del mercato del lavoro. L’esito è sotto gli occhi di tutti: in pochi anni più del 10 per cento in meno di risorse pubbliche all’istruzione e alla formazione e, insieme, la ridefinizione del significato del “pubblico” per comprendere in esso il privato parificato e, quindi, giustificare l’emorragia dei finanziamenti dalla scuola statale.
Si è anche congegnato di mettere una realtà pubblica contro un’altra: meno soldi alle università per creare pochi e prestigiosi centri di eccellenza. Buona idea se non fosse che quando le risorse sono già poche questa diventa una lotta tra poveri nella quale alcuni pagano di più e altri di meno, e il sistema intero ne soffre. E a pagare tanto è la formazione di base: scuole, primarie e secondarie, e poi l’università (declassata a “liceificazione” rispetto ai centri d’eccellenza). Difficile capire da dove la selezione degli studenti per i centri d’eccellenza peschi, se la formazione di base e universitaria viene penalizzata. Il fatto è che, come Ilvo Diamanti ha più volte sottolineato con dovizia di dati su questo giornale, l’attuale mercato del lavoro italiano oggi premia più chi non ha una laurea che chi ce l’ha. E quindi, se questo mercato del lavoro detta le regole, è prevedibile che ristrutturare la formazione possa significare tagliare le risorse, non usarle in maniera più ordinata e razionale.
Gli studenti non si fanno più ingannare – non credono più alle narrazioni edulcorate di ministri che, da un governo all’altro, stanno, come per un patto scellerato, picconando una delle più importanti ricchezze del paese: la cultura, la scuola pubblica di ogni ordine e grado, l’università e la ricerca. Ai vizi, agli scandali, agli illeciti che hanno gravato sui concorsi e la selezione (segno di una condizione che dilaga in tutti i settori della vita sociale) i ministri, a partire dalla Gelmini, hanno scelto due armi: la burocrazia e i tagli. E l’esito è sotto gli occhi di tutti: risorse impiegate per aumentare le pratiche burocratiche, una scuola pubblica meno qualificata e soprattutto diversamente trattata in ragione dei quartieri, delle città, delle aree del paese, e infine di alcune fasce disciplinari a discapito di altre. Insomma, discriminazione tra cittadini, aree del paese e discipline.
E a questo punto entrano in azione coloro che non credono più nella favola della ripresa dietro l’angolo e dell’impegno del governo per ridare prestigio alla scuola, per investire sulla scuola. “Invertire la marcia” chiedono gli studenti. Che significa impegnare le risorse pubbliche per il futuro del paese e farlo con equità affinché il destino dei giovani non sia predeterminato dal quartiere, dalla famiglia e dalla ragione nella quale sono nati o vivono. La scuola ha la funzione di liberare le energie, non di riconfermare privilegi, magari eliminando preventivamente dalla competizione i molti, così da poter rendere più agevole la corsa al successo di chi dispone di più mezzi. Se la scuola di un paese democratico non riesce a fare questo, chi governa ha fallito. E fallisce anche quando ci trasmette la narrazione dei vincoli europei che bloccano la ripresa, che impediscono le scelte dei governi. Hanno ragione i ragazzi: se la politica rivendica, giustamente, un ruolo guida, deve saper dimostrare di essere capace di coprirlo.

l’Unità 17.11.13
Congresso Pd, la sfida è all’ultimo voto
Oggi si chiude la conta tra gli iscritti. È ancora guerra di cifre tra i comitati Barca: «Voterò ma non per Renzi né per Cuperlo»
Epifani: «Divisioni fisiologiche, non ci saranno ripercussioni»
di Simone Collini


ROMA L’unica cosa certa è che il risultato delle votazioni tra gli iscritti si saprà soltanto domani. Anche le ultime ventiquattr’ore sono state infatti contrassegnate da una guerra di cifre tra il comitato di Renzi e quello di Cuperlo. Sul sito web del sindaco di Firenze compaiono nel tardo pomeriggio questi dati: su 62.062 voti espressi Renzi è al 46,1%, Cuperlo al 37,7%, Civati al 12,9% e Pittella al 3,1%. E mentre il deputato triestino ironizza da Novara sul «conflitto di interessi tra i dati ufficiali e quelli del comitato Renzi», il suo di comitato raccoglie tutti i dati a disposizione dei 1689 congressi di circolo svolti e poco dopo mette online quest’altra griglia di dati: su 55.321 voti espressi Cuperlo è in testa con il 42,4%, davanti a Renzi col 41,9%, Civati col 12,1% e Pittella col 3,6%.
L’accordo siglato nei giorni scorsi dai due fronti, quello cioè di non diffondere dati provvisori prima della chiusura di tutti i congressi di circolo, insomma non ha retto. Segno della tensione che sta caratterizzando questo congresso del Pd, che tra l’altro arriva alle battute finali mentre si consuma la scissione del Pdl e si apre per il governo Letta una fase tutta da decifrare. «Il governo ora a livello matematico ha numeri più contenuti, risicati, ma la maggioranza ci sarà, anche al Senato», dice Cuperlo sottolineando però che non cambia «il profilo e la natura politica» dell’esecutivo, che resta «di eccezionalità, di necessità e di scopo». Nel fronte renziano sono però in molti a sostenere che il patto di governo è stato siglato con il Pdl e che quindi ora il Pd deve verificare se, con chi e per quanto tempo rifondare il patto.
Oggi è l’ultimo giorno utile per far scegliere agli iscritti chi dovrebbe essere il nuovo segretario del partito, anche se la partita decisiva si giocherà domenica 8 dicembre con le primarie aperte. Quale che sia il dato provvisorio più attendibile, se quello diffuso dal comitato Renzi o quello del comitato Cuperlo, la novità che emerge in questo passaggio è che i sondaggi diffusi ancora non molto tempo fa sovrastimavano tutti il consenso per il sindaco di Firenze. Incrociando i dati forniti dai due comitati si vede che Cuperlo sta ottenendo buoni risultati soprattutto nelle grandi città del nord e del centro, da Roma (55% contro il 32% di Renzi) a Bologna (48% a 34%), da Genova (52% a 34%) a Milano (42% a 40%). Renzi va bene nel Mezzogiorno ma starebbe sotto il 50% anche nella sua Firenze (48% contro il 42% di Cuperlo) e non sono molte le città in cui supera questa fatidica soglia (le eccezioni principali sono Siena, col 55% dei consensi, ed Empoli col 71%).
Per fare chiarezza bisogna aspettare domani pomeriggio, quando la commissione Cogresso del Pd diffonderà i dati definitivi dopo che saranno stati certificati dai rappresentanti di tutti e quattro i candidati alla segreteria del Pd. E poi bisognerà aspettare le primarie dell’8 dicembre per vedere se e quanto sarà ampio il divario tra il voto degli iscritti e quello espresso dalla più vasta platea degli elettori del Pd. Intanto però il testa a testa tra Cuperlo e Renzi dice che la partita è aperta. Con due certezze: la sfida potrebbe giocarsi all’ultimo voto e il candidato dei quattro che verrebbe escluso dalle primarie è Pittella.
Civati si muove tra il 10 e il 15% tra gli iscritti, e dovrebbe essere votato anche da Fabrizio Barca, che prima a Livorno ha fatto sapere: «domenica andrò a votare e non voterò né per Renzi, né per Cuperlo». E poi ha aggiunto via twitter che bisogna uscire dal dualismo Renzi-Cuperlo: «Il disturbo bipolare è Renzi vs Cuperlo».
Guglielmo Epifani minimizza le tensioni di questa fase: «È un momento in cui ci si divide per l’elezione del segretario, è fisiologico in democrazia», dice il segretario al Tg1 della sera aggiungendo comunque che «non ci saranno ripercussioni sul partito». Chi le teme è il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, per il quale «l’idea stupida che è sufficiente un uomo solo al comando, ormai può essere sostenuta solo da sciocchi o avventurieri». O da Giorgio Merlo, per il quale non bisogna sottovalutare la spaccatura del Pdl e la scissione di Scelta civica: «Non producono automaticamente la frattura politica nel campo avverso, cioè nel Pd, ad una condizione però, che nel Pd non parta un corso politico che punta a creare il pensiero unico, ad appaltare tutto all’uomo solo al comando, ad emarginare chi la pensa diversamente dal leader e a ridurre drasticamente la pluralità del partito». Questioni su cui si discuterà dal 9 dicembre.

l’Unità 17.11.13
Al circolo di Cuperlo
«Non possiamo piacere a tutti»
Un centinaio di persone nel quartiere romano Trieste-Salario
di Simone Collini


La bandiera del Pd è attaccata col nastro adesivo alla lavagna, giusto di fronte al muro su cui campeggia un bel poster con la scritta: «Progetti che trasformano il mondo». La bandiera se la sono portata dietro, mentre il poster è di casa: pubblicizza il corso di design. Siamo alla Rome university of fine arts, a due passi da quel gioiellino di quartiere romano che è il Coppedè. Si svolge qui il congresso del circolo Pd Trieste-Salario, quello dove è iscritto Gianni Cuperlo. La vera sede è due vie più in là, ma sono neanche venti metri quadri e il centinaio di persone arrivato per ascoltare e intervenire non ci starebbe proprio. Bene così, dice il neopresidente del Pd di Roma Tommaso Giuntella guardando all’alta partecipazione in questa giornata di solo dibattito: «Fino a poche settimane fa ero segretario di circolo, troppe volte mi sono sentito chiedere a che ora si vota che passo?». Qui invece si discute: del partito, del governo, dei circoli che devono conquistare maggiore protagonismo, del Pd che deve incidere maggiormente nelle scelte dell’esecutivo. Dell’Italia si discute, in definitiva. Di com’è e di come dovrebbe essere, per opera del Pd.
«Tutte e quattro le mozioni sono di centrosinistra», dice Ernesto Maria Ruffini presentando la mozione Renzi e puntando a stroncare la lettura cuperliana che dà il sindaco di Firenze come fautore di un Pd che sia la faccia buona della destra: «Abbiamo gli stessi obiettivi, le differenze tra noi riguardano i modi in cui raggiungerli». Ruffini è un avvocato tributarista, amico di Civati ma sostenitore di Renzi dalle primarie dell’anno scorso. «La mia prima tessera è stata quella del Pd. E Renzi rappresenta meglio di altri l’evoluzione del sogno del Lingotto». Dice rispondendo alle accuse del fronte pro-Cuperlo: «Non è un problema di faccia buona o cattiva della destra o della sinistra, è un problema di faccia concreta. Troppe volte abbiamo visto la sinistra rimanere nella pura teoria. E poi non bisogna avere paura di rivolgersi all’esterno. Un partito non è un circolo di amici ma un modo di rivolgersi al Paese, e nel Paese ci sono anche quelli che non votano centrosinistra. Se parliamo solo tra di noi, al momento del voto ci troveremo sempre come una forza minoritaria». Applausi, voci a favore, voci contro.
Giuntella arriva a bordo di una vespa rossa, preceduto dalla polemica sull’opportunità che il presidente del partito romano presenti una delle mozioni in gara. «Se amici e compagni me lo chiedono, vado a raccontare la mia scelta personale. Ma non tifo per l’uno o l’altro. Tifo per il Pd del 9 dicembre». Però, facendo riferimento alle posizioni dei renziani, dice: «Il partito è un soggetto collettivo di parte, che rinuncia all’idea di piacere a tutti. Un conflitto c’è sempre e bisogna scegliere con chi stare. Se vuoi piacere a tutti vuol dire che difendi anche interessi di parte che sono già soddisfatti, a scapito di interessi finora negati. Per questo mi convince la mozione Cuperlo, che mette al centro il lavoro, i diritti civili, la laicità, la solidarietà, che pensa che i sindacati si debbano rinnovare ma non che non debbano esistere più».
Cuperlo viene a votare oggi pomeriggio. Sulla carta è il vincitore, visto che i 186 iscritti che nei giorni scorsi hanno scelto il segretario provinciale hanno dato la loro preferenza a Lionello Cosentino in 91 e a Giuntella in 20 (entrambi sostenitori di Cuperlo), mentre in 44 hanno votato Tobia Zevi (sostenitore di Renzi) e in 21 Lucia Zabatta (vicina a Civati). Ma anche ad ascoltare gli interventi sembra chiaro quale sarà il risultato definitivo (e vai a capire se Cuperlo, che fino all’anno scorso era iscritto al circolo fiorentino Sms Rifredi, dove Sms sta per Società di mutuo soccorso, sapesse in anticipo che questo circolo romano lo avrebbe accolto così bene). L’altra cosa che si fa chiara col procedere del dibattito è che in questa fase in cui si vota per il segretario nazionale il clima rimane controllato. Lo scontro politico non manca, ma è niente rispetto alle polemiche che scoppiano in altri circoli (quello di Castel Giubileo-Settebagni ieri ha chiuso per protesta contro l’iter congressuale). Giuntella dice di non condividere i «venti di pessimismo» soffiati da qualche personalità del Pd (leggi D’Alema nell’intervista a l’Unità) all’idea di una vittoria di Renzi l’8 dicembre. Ma non tutti quelli seduti in quest’aula universitaria sono altrettanto ottimisti.

La Stampa 17.11.13
La soglia di tolleranza del Pd
di Federico Geremicca


Un governo numericamente più debole, una maggioranza politicamente diversa e - sullo sfondo - un fantasma che pare tornare a materializzarsi: l’ultimo tratto di strada del governo-Monti, con Berlusconi che si chiama fuori e il Pd che lascia la sua faccia su provvedimenti dolorosi e impopolari, pagandone poi il prezzo nelle elezioni del febbraio scorso. Uno scenario che i democratici considerano non riproponibile, e dunque si interrogano: proseguire con Letta, e come? Rompere, e quando?
Con una complicazione: l’assenza di un leader e di un gruppo dirigente legittimati a decidere - in un passaggio così delicato - a campagna congressuale in pieno svolgimento.
Ma in casa democratica - e soprattutto nell’area (crescente) di quanti si mostrano sempre più insofferenti rispetto al patto delle larghe intese - si mettono in fila gli elementi, e i timori crescono. Nulla, infatti, è più com’era sei mesi fa, quando il Presidente della Repubblica chiese alle forze politiche un atto di responsabilità di fronte al galoppare della crisi e al crescere dei livelli di disoccupazione. Nulla è più come allora: e tutto quel che è cambiato, purtroppo, sembra cambiato in peggio...
Due dei tre partiti che a fine aprile diedero vita al governo-Letta (Pdl e Scelta Civica) di fatto non esistono più; come in un film già visto, Berlusconi si è sfilato dall’alleanza e si prepara (assieme a Grillo...) a cannoneggiare l’esecutivo a guida Pd; lo stato di tenuta della compagine - per altro vissuta fin dall’inizio come male necessario da larga parte del «popolo di centrosinistra» - è quel che è, con il caso Cancellieri aperto, il caso Alfano pietosamente chiuso, scarsi risultati sul piano dei conti (nulli addirittura su quello delle riforme) e una legge di stabilità che pare la miccia fatta apposta per far saltare l’intera Santabarbara.
Se i dati sono questi, è inevitabile che tra i democratici torni d’attualità un interrogativo già affrontato al tempo (non lontano) della condanna definitiva di Silvio Berlusconi: qual è la «soglia di tolleranza» rispetto alle larghe intese? Qual è il punto, insomma, oltre il quale il Pd non può andare? Non lo fu la condanna definitiva del Cavaliere; non accadde di fronte al pasticcio (per usare un eufemismo) Alfano-Shalabayeva e nemmeno ai diktat Pdl «via l’Imu per tutti o è la crisi»; e se il punto di rottura non fosse nemmeno la difesa del ministro Cancellieri (lo si vedrà presto), può allora esserlo il patatrac di due dei tre partiti della maggioranza e gli sviluppi politici che potrebbe mettere in moto?
Non c’è nessuno in grado di dirlo: ma soprattutto non c’è nessuno in grado di deciderlo. Si sa che Matteo Renzi - dato per vincente alle primarie di dicembre - è tra i sostenitori meno convinti delle larghe intese, incoraggia tiepidamente il governo («dura se fa») e voterebbe volentieri per le dimissioni di Annamaria Cancellieri. Il sindaco di Firenze, insomma, è accompagnato da un sospetto: che una volta conquistato il Pd, potrebbe mandare Letta gambe all’aria, per andare a nuove elezioni, candidarsi premier e provare a vincerle. Ma basta questo per dire che dall’8 dicembre per il governo di Letta la strada si fa ancora più in salita?
Lo si vedrà, ma molti campanelli d’allarme hanno già cominciato a suonare in casa democratica. Che fare di fronte a Berlusconi e Alfano che dicono «ci separiamo ma torneremo assieme per battere il centrosinistra»? Come valutare i sussurri che vedono dietro le scissioni nel Pdl e in Scelta Civica le premesse per la nascita di un «soggetto centrista» che metta assieme - per semplificare - i «filo-governativi» di ogni parte e poi si presenti alle elezioni? E come fronteggiare il rischio-logoramento, cioè un finale di legislatura che ricordi troppo da vicino quello (nefasto) avuto con Mario Monti?
La discussione è aperta, si attende l’elezione del segretario e poi una decisione arriverà. I tempi, infatti, sono quelli che sono: tra qualche giorno si voterà sulla Cancellieri, poi toccherà alla decadenza di Berlusconi (con le prevedibili reazioni del Cavaliere), infine la mina della legge di stabilità. Chi da una parte e dall’altra vuole il voto e la fine delle larghe intese, sa che molte altre occasioni per rompere non ne avrà. Enrico Letta è all’erta: aspetta un dicembre terribile e intanto riflette. Perché star lì a farsi triturare davvero non gli va...

l’Unità 17.11.13
Merlo: «La scissione? Dipende dal futuro segretario»


«La spaccatura del Pdl e la scissione di Scelta Civica non producono automaticamente la frattura politica nel campo avverso, cioè nel Pd. Ad una condizione, però che nel Pd non parta un corso politico che punta a creare il pensiero unico, ad appaltare tutto all'uomo solo al comando, ad emarginare chi la pensa diversamente dal leader e a ridurre drasticamente la pluralità del partito. Se questo dovesse avvenire, la scissione sarebbe inevitabile e persino necessaria».

il Fatto 17.11.13
Al governo e all’opposizione
B. e il gioco delle due carte

Il Caimano lancia Forza Italia ma non azzanna Alfano: “Pronti alla coalizione con i cugini d’Italia”. Ammette di non poter far saltare l’esecutivo, ma dopo la decadenza il suo gruppo mollerà Letta. L’ex delfino non rompe i ponti con il capo. Il Pdl, sdoppiato, conserva le poltrone ministeriali e carica le batterie nel caso di elezioni

il Fatto 17.11.13
Facciamoci del male
La sinistra, B. e la sindrome del “che sarà mai?”
di Furio Colombo


A quanto pare è accaduto qualcosa di strano, pericoloso, forse di mostruoso a sinistra. Sentite: “Una metamorfosi psicologica prima ancora che ideologica ha condotto la sinistra ad albergare in sé un sentimento di purezza morale, capace di erigere un muro fra sé e l’avversario. E ci fa vedere come questa pretesa di superiorità, che confonde l’etica e la politica come in un gioco delle tre carte, non può che avere trasformato la sinistra in una grande forza conservatrice, custode di valori nobili ma immutabili nel tempo, indiscutibili, impermeabili al cambiamento. Questa catastrofe intellettuale della superiorità ha trovato impulso finale con l’avvento di Berlusconi. Noto con piacere che entra nella lunga lista dei sintomi di questa specie di malattia mentale collettiva anche il verbo ‘resistere’ svuotato di ogni credibilità da un uso davvero dissennato. (...) La più profonda verità morale che si possa cavare dagli ultimi vent’anni è che Berlusconi è sostenibilissimo. Di certo, perlomeno, non fa parte di quella melassa di opinioni, buoni sentimenti e inani risentimenti prodotta da un ambiente intellettuale talmente separato dal mondo da essersi persuaso di vivere sotto il tallone di una dittatura”.
HO CITATO Emanuele Trevi, che recensisce Francesco Piccolo (il Corriere della Sera, 28 ottobre 2013) che ha scritto un libro, molto citato e molto lodato che si intitola Il desiderio di essere come tutti (Einaudi). “Tutti”, ci spiega il saggio-romanzo di Piccolo, sono coloro che non si fasciano la testa per Berlusconi. Voglio essere preciso. La recensione è cattiva (non una cattiva recensione; cattivo, aggressivo, sprezzante è il sentimento). Il libro è lieve, elogia la spensieratezza, è molto ben scritto, ma con un curioso intreccio tra “lasciatemi in pace” e “purezza”, dove la “purezza” è la pretesa di superiorità della sinistra. Superiorità su che cosa? Le origini della ricchezza di Berlusconi? Gli amici di Berlusconi? I reati di Berlusconi? Le vanterie private di Berlusconi? Qui mancano dettagli che sarebbero preziosi. Comunque, letto da uno svedese, Berlusconi, in questo libro, è simpatico, apre e riempie di luce la Reggia di Caserta (così l’autore ricorda la prima apparizione del leader), induce una ragazza, davanti al televisore acceso della notte elettorale e in mezzo alla folla vociante di “menagrami e moralisti” (le parole sono di Trevi, nella recensione, ma il senso è nel libro di Piccolo) a dire, forte, allegra, sorseggiando il suo vino “va bene, che sarà mai, Berlusconi ha vinto le elezioni e governerà, cosa può succedere?”. Seguendo la narrazione, avete l'impressione che in mezzo alle scenate isteriche e collettive di una sinistra “la cui principale occupazione è stata sempre quella di tracciare confini”, stesse formandosi un piccolo gruppo sereno di persone normali che, Berlusconi o non Berlusconi (che sarà mai), sceglie la vita, la felicità. Il fatto è che quasi all’istante tutto ciò che restava della sinistra si è schierata con la ragazza “che sarà mai”. Posso testimoniarlo, avendo partecipato a tre legislature: Ero fra i contaminati dalla “purezza”, perché i reati di Berlusconi e il suo prevalere con truffa, evasione, rapporti oscuri (le contiguità e convivenze mai spiegate) compravendita di giudici e senatori, non mi piacevano. E mi è subito stato detto – prima con bonarietà, e poi con severa esclusione da ogni discorso a nome del gruppo Pds, poi Ds, poi Pd – di smetterla con l’antiberlusconismo viscerale, ovvero ogni “attacco manicheo” ai nostri avversari che, dopo tutto avevano vinto. La frase chiave del Pds, Ds, Pd (ovvero dei gruppi parlamentari di cui facevo parte) è stata subito “Che sarà mai?” nella nuova e più severa versione: “Non lo vedi che lui ha catturato lo spirito della modernità e voi (menagrami e moralisti) la menate ancora con questa storia della superiorità morale?”. Quando dirigevo l’Unità (2001-2005) ricevevo una lettera al giorno di autorevoli personaggi che erano stati nella direzione politica prima del Pds, ed erano nella direzione politica dopo la nascita del Pd, con frasi pedagogicamente severe come questa: “Sentir parlare di regime mi fa venire l’orticaria”. Tutto il resto sull’umore delle gerarchie Pd, irritate da ogni sintomo di opposizione e decise a convivere serenamente con il “regime”, lo trovate nel libro di Francesco Piccolo, da pag. 159 a pag. 261. Gli argomenti, non la storia, che nel libro di Piccolo è gradevole. Ma gli argomenti me li sono sentiti ripetere quasi alla lettera per un intero periodo di direzione dell’Unità (che evidentemente appariva troppo aggressiva) e per tre legislature. Adesso capisco che il libro di Piccolo è il manifesto della maggioranza di ciò che al momento puoi chiamare, per convenzione (almeno in Parlamento), tutta la sinistra.
Due eventi guastano un po’ la festa Piccolo-Trevi, improvvisata per non dover sentire, neppure da lontano e senza microfono, le voci, ormai in disuso, di “menagrami e moralisti”. Uno è l’insistenza con cui Stefano Meni-chini, direttore di Europa, vuole sapere chi e come ha organizzato da un momento all’altro l’aggregazione detta “grandi intese” al punto da mettere in scena, compatti, i 101 che abbattono Prodi (che sarà mai) e aprono la strada al governo Letta-Alfano, ovvero Pd-Berlusconi.
L’altra è il grido del presidente della Repubblica che, il giorno della visita del Papa, manda un messaggio, che rivela il peso di una grande tensione. Grida “Dialogo, dialogo, dialogo”, rifacendo, non so se con intenzione, in versione opposta, l’esortazione del procuratore Borrelli di Milano che concluse il suo discorso di commiato con le parole (tanto irrise da Trevi) “Resistere, resistere, resistere”. Tutto ciò per dire che – tranne Francesco Piccolo e il suo recensore Trevi – “tutti” non sono felici, benché sollevati dalla “superiorità” e dalla “purezza” e, finalmente, alleati di Berlusconi. I leader Pd lottano tra loro (ma ai piani bassi), i militanti sfollano. E gli altri, che si credevano di sinistra, sono incerti, confusi, ribelli senza causa, senza lavoro e senza partito. Si sentono abbandonati in strada come i cani di Ferragosto.

Repubblica 17.11.13
Due giorni intensi che non potrò dimenticare
di Eugenio Scalfari


LA SCISSIONE del Pdl e la nascita di quella che noi chiamiamo la destra repubblicana rappresenta una novità di grandissimo rilievo nel panorama della politica non soltanto italiana ma anche europea.
Il governo Letta ne esce rafforzato perché scompare la presenza di Berlusconi e del berlusconismo dalla maggioranza. La prima conseguenza riguarda l'essenza stessa del governo Letta-Alfano. Finora infatti si trattava d’una situazione di necessità anche se, con l'ipocrisia che a volte è politicamente indispensabile, molti si ostinavano a chiamarlo di “grandi intese”. Ma dopo la scissione Letta-Alfano consente anche quelle intese per realizzare le riforme e gli interventi che la crisi europea richiede.
I partiti che ora compongono la nuova maggioranza senza Berlusconi debbono tener conto di questa novità e comportarsi di conseguenza. Soprattutto il Pd che ora è la maggiore forza politica non solo alla Camera ma anche al Senato.
Non mi diffonderò più a lungo su questo tema del quale da tempo il nostro giornale auspicava la realizzazione. In un futuro ancora lontano anche in Italia una destra moderata e liberale disputerà il potere con una sinistra liberal-socialista; ma nel frattempo entrambe sono impegnate insieme per riformare lo Stato e l'assetto europeo all'insegna del lavoro e dello sviluppo economico.
* * *
Ora però il tema di questo articolo sarà un altro.
Accadono a volte per puro caso delle giornate particolarmente intense, punteggiate da incontri che ti emozionano e ti suscitano una scia di ricordi e di pensieri che dal passato si riflettono sul presente e disegnano un ancora incerto futuro.
A me è accaduto tra giovedì e venerdì, a Roma prima e poi a Milano.
A Roma giovedì mattina ero, insieme a molte altre persone, al Quirinale dove si è svolto l’incontro ufficiale, ma in parte anche riservato, tra il presidente Napolitano e papa Francesco. Non si è parlato certo di teologia, ma di politica, in pubblico e in privato.
Il Concordato – del quale Napolitano ha ricordato l’inserimento nella nostra Costituzione che fu opera dell’Assemblea Costituente con il voto favorevole della Dc e del Pci e quello contrario dei socialisti, del Partito d’azione e dei liberali – assicura la leale collaborazione tra lo Stato (laico per definizione) e la Chiesa cattolica nelle loro due distinte sfere della politica e della religione.
Questa situazione dura dal 1947 ma c’è da qualche mese un’importante novità: la Chiesa non prenderà più iniziative “parapolitiche” né tramite la Segreteria di Stato vaticana né attraverso la Conferenza episcopale italiana.
Di fatto questo non era mai accaduto per secoli e secoli, anche dopo la caduta del potere temporale verificatasi il 20 settembre del 1870 con la conquista di Roma da parte dei bersaglieri. Il potere temporale era rinato sotto altre spoglie.
Ora Francesco ha messo il fermo. La Chiesa predica il Vangelo ed esorta all’amore del prossimo; questo e solo questo è il suo compito, in Italia come nel resto del mondo. Un compito molto impegnativo che servirà (dovrebbe servire) anche alla politica per attuare con i propri strumenti la stessa visione: solidarietà, tutela dei diritti, rispetto dei doveri, libertà e giustizia.
La libertà riguarda anche la Chiesa di Francesco che ha teorizzato in varie occasioni la libertà di coscienza dei cristiani come di tutti gli altri uomini e la loro libera scelta tra quello che ciascuno di loro ritiene sia il Bene e quello che ritiene sia il Male. E portando avanti il Vaticano II ha deciso di dialogare con la cultura moderna.
Tutte queste questioni estremamente significative hanno echeggiato nelle sale del Quirinale e così si spiega l’amarissima constatazione di Napolitano che, di fronte a queste mete da perseguire, ha denunciato la situazione politica italiana, ammorbata da spirito di parte, interessi di gruppi e diffusione di veleni.
Ne abbiamo purtroppo conferma tutti i giorni e lì, nelle sale d’un palazzo che fu sede prima dei Papi, poi dei Re d’Italia e infine dei presidenti della Repubblica, erano presenti i vertici del governo, del Parlamento, dei partiti e delle gerarchie della Chiesa. Papa e Presidente hanno dato testimonianza del cammino ancora da compiere e della loro decisione di stimolarne con gli strumenti a loro disposizione il completamento.
Personalmente ne sono uscito assai confortato. * * * Milano è città assai diversa da Roma. Ci ho vissuto a lungo negli anni Cinquanta e poi l’ho sempre assiduamente frequentata. Ne fui consigliere comunale dal ’60 al ’63 e deputato dal ’68 al ’72; ma a Milano ci sono sempre state le redazioni dell’Espresso (dal 1955) e diRepubblica (dal 1976).
Venerdì scorso ho avuto modo d’incontrare nel corso di una cena in piedi una quantità di amici d’un tempo e di rievocare con loro la Milano di allora.
Qual era la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta? Quella della ricostruzione e poi del «miracolo italiano » nelle sue classi dirigenti politiche ed economiche? Chi erano gli esponenti di quei partiti, di quei sindacati, di quel capitalismo e di quella classe operaia? C’erano parecchi dei loro figli a quella cena dell’altro ieri: la figlia di Bruno Visentini, il figlio di Carlo Draghi, il figlio di Raffaele Mattioli, Maurizio, il figlio di La Malfa, la figlia di Aldo Crespi, la moglie e i figli di Franco Cingano. Io conoscevo i padri, ma poi ho incontrato anche loro e ne sono diventato amico. Sono i vantaggi, per mia fortuna, d’una lunga vita.
Adesso (lo dico tra parentesi) mi preparo a ritirarmi su una panchina del Pincio come mi ha consigliato Beppe Grillo, ma la data non l’ho ancora decisa e Grillo dovrà pazientare ancora un poco.
I cardini del capitalismo milanese d’allora, che forniva al paese gran parte della sua visione degli interessi ma anche dei valori d’una borghesia agiata e al tempo stesso colta, erano una singolare mescolanza d’imprenditori, banchieri e uomini politici e se dovessi indicarne il personaggio più rappresentativo di quella mescolanza farei il nome di Mattioli.
Era abruzzese di nascita, aveva esordito come segretario di Toeplitz; aveva assistito alla crisi bancaria del ’32 e poi aveva preso il posto di amministratore delegato. Era stato il rifondatore della Comit (si chiamava così la Banca commerciale italiana) che era diventata con lui la più importante in Italia e una delle più importanti in Europa.
Ma Mattioli finanziava anche l’editore Riccardi che pubblicava in una splendida collana i classici della letteratura italiana; finanziava anche l’Istituto di studi storici fondato a Napoli da Benedetto Croce, dal quale uscirono personaggi come Omodeo, Calogero, Salvatorelli, Romeo, De Capraris. Era amico di Sraffa, emigrato durante il fascismo a Cambridge e depositario per molti anni delle carte di Gramsci e del suo testamento.
La sera, terminato il lavoro, Mattioli teneva salotto nel suo studio alla Comit in piazza della Scala. Durava un paio d’ore e gli ospiti abituali erano Adolfo Tino che era stato uno dei dirigenti del Partito d’azione durante la Resistenza e che fu poi presidente di Mediobanca; Franco Cingano che era uno dei massimi dirigenti della Comit di cui poi diventò amministratore delegato; Leo Valiani. Ugo La Malfa e Bruno Visentini frequentavano il salotto Mattioli quando venivano da Roma a Milano e altrettanto faceva Elena Croce, figlia di don Benedetto, ed Elio Vittorini.
Mattioli a quell’epoca somigliava a Maurice Chevalier, l’attore francese. O almeno così pareva a me e un giorno glielo dissi. Lui si schermì ma da allora mi volle più bene di prima.
Ma in quegli stessi anni il capitalismo milanese era anche rappresentato da Leopoldo Pirelli, dai giovani membri della famiglia Bassetti, da Vincenzo Sozzani e soprattutto da Cuccia (Mediobanca) e Rondelli (Credito italiano).
Ricordo ancora che uno degli obiettivi di La Malfa, anzi il senso stesso della sua vita, era quello di cambiare la sinistra e il capitalismo. Li conosceva bene tutti e due, anzi era con un piede in una e un piede nell’altro. Lo stesso, nel suo medesimo Partito repubblicano, era l’obiettivo di Visentini e tutti e due videro con speranza e poi con giubilo l’arrivo di Berlinguer alla guida del Partito comunista.
Questo era allora il capitalismo, soprattutto nella sua proiezione bancaria ma non soltanto, e la sinistra riformatrice che aveva Gobetti e i fratelli Rosselli nel suo Dna ma si era anche nutrita del pensiero liberale di Croce e di Luigi Einaudi. Non dimentichiamoci che quest’ultimo fu il primo governatore della Banca d’Italia dopo la caduta del fascismo, poi ministro del Bilancio con De Gasperi e infine primo presidente della Repubblica.
Napolitano, militante e poi dirigente del Pci, deriva direttamente dalla cultura di Croce e di Einaudi. Adesso queste cose sembrano assurdità, ma allora la realtà era quella e fu quella a fare dell’Italia una democrazia e del capitalismo un sistema che apprezzava e sosteneva lo Stato sociale, il welfare e l’economia sociale di mercato.
Poi dalla fine dei Sessanta in giù, la situazione è cambiata, la partitocrazia ha occupato le istituzioni, una piccola parte della sinistra ha inclinato verso il terrorismo, mentre un’altra parte si è corrotta insieme al ventre molle della Dc e il capitalismo ha cambiato natura. Invece di costruire imprese, le ha dissanguate. Il capitalismo reale ha ceduto il posto alla finanza speculativa. I legami tra affari e politica non furono più culturali ma corruttivi e intanto il popolo sovrano diventava “gente”, folla emotiva, materiale umano disponibile per i demagoghi e gli avventurieri.
Questo è purtroppo il paese. L’incontro con i discendenti del periodo migliore del Novecento mi ha al tempo stesso dato conforto e profonda tristezza, sperando che i figli emulino i padri ma disperando che riescano a educare la gente e farle riscoprire il popolo sovrano che è tutt’altra cosa.
Vorrei tanto che i giovani s’innamorassero di quest’idea ma se continuano a preferire l’avventura e gli avventurieri, allora non saremo più una nave ma una zattera con quel che ne segue.
* * *
Poi, prima di ripartire per Roma, la sera sono andato con mia moglie allo spettacolo di Nicoletta Braschi al teatro Parenti. Il programma era un testo di Samuel Beckett intitolato “Giorni felici”. Nicoletta è una grande attrice di teatro, il testo da lei recitato è terribile ma splendido nella sua terribilità. Poi abbiamo cenato insieme a lei e a suo marito Roberto Benigni, con Franco Marcoaldi e Nadia Fusini.
Una volta scrissi che Benigni, quando Napolitano se ne andrà anche lui sulla panchina del Pincio come auspica Grillo, potrebbe benissimo andare al Quirinale.
Naturalmente era una battuta ma la cultura di Roberto e di Nicoletta è tremendamente seria e quello che pensa e come ama il nostro paese Benigni è esattamente quello che penso ed amo anch’io. Non siamo molti ma, come dice Beckett, la vita è fatta di poche cose. L’importante sarebbe di saperle scegliere e spero che questo avvenga.

il Fatto 17.11.13
Io, vendoliano pentito chiedo scusa a papà
di  Francesco Calabrese


Sono un tarantino, figlio di un ex dipendente Italsider, in seguito Ilva. Ho vissuto a lungo lontano dalla mia città, prima in Germania (17 anni) e poi in provincia di Varese. Vorrei dire a Vendola che, da emigrato, ho implorato i miei genitori a recarsi alle urne per votarlo al governo della Puglia, ovvero a votare il cambiamento, la trasparenza, la buona politica, contro lo scetticismo di mio padre che mi dava del “povero illuso”. Dopo aver ascoltato l’intercettazione telefonica - contornata da grasse e fragorose risate, in un clima di cordialità e intimità con l’ing. Archinà - ma soprattutto memore del suo fantastico modo di pontificare sul solidarismo, pacifismo e ambientalismo alle vongole, vorrei chiedere scusa ai miei genitori. Dovrebbe dimettersi immediatamente dalla carica di governatore e chiedere scusa. Ma so che non lo farà, che non proverà vergogna, non avrà rimorsi nella sua “candida” coscienza. Allora non ci resta che aspettare che il tempo lo consegni all’oblio dei politicanti.

il Fatto 17.11.13
Forza Nuova
Pozzallo, l’onda d’odio contro i profughi
di Veronica Tomassini


Ragusa Da quel che appare sembra un paese che digrigna i denti davanti all’evidenza di un collasso. Pozzallo crolla. Sono troppi 700 immigrati per il paese, persino per il sindaco Luigi Ammatuna che ha promesso al Prefetto di Ragusa la sua testa entro fine novembre. O mette a posto le cose, ha riferito al prefetto Annunziato Vardè, o consegnerà la sua fascia tricolore, ha detto in conferenza stampa qualche giorno fa.
“CRESCE LA RABBIA tra la gente di Pozzallo”, si legge in un comunicato stampa (firmato da Forza Nuova) pubblicato su Vox news, secondo cui il paese propone una levata di scudi “contro la violenza dei sedicenti profughi”. Già quel “sedicenti” è un’istigazione al crimine in linea generale. Ma tanto è. Ieri Forza Nuova ha radunato i suoi adepti, erano 70, nell’anfiteatro “Pietre Nere”, roba da rabbrividire solo a sentirlo nominare. E sono arrivati da Catania, da Ragusa, persino da Roma, militanti esaltati da un preludio di sommossa. La locandina utilizzata è un cult – consentiteci il termine – della xenofobia, l’offesa della razza (manifesto della propaganda fascista), un nero violenta una donna bianca e su scritto: potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia, difendila. Difendersi dai neri del capannone è il monito implicito che sibila tra un militante e l’altro, tra un indigeno ignaro e spaventato e l’altro, tra un’opinione pubblica manipolata dall’informazione e l’altra meno innocente.
Una settimana fa, i giornali locali titolano la violenza carnale subita da una giovane donna del luogo, nella villa comunale. I giornali raccontano i particolari: i seviziatori sono quattro immigrati. La caccia è aperta. Forza Nuova ci va a nozze. Un paio di giorni e la notizia viene smentita, nessuna violenza sulla donna, non ci sono immigrati di mezzo, si tratta di una rissa tra tossicodipendenti, gente del posto, italiani. Un mese prima, un giornalista di Pozzallo riferisce di un tentativo di rapina sempre per mano di “immigrato” in casa di un’anziana, episodio mai confermato da alcuna denuncia, nulla si sa dell’identità della donna. Esiste questa donna? Forza Nuova entra a gamba tesa e in una nota dichiara le ragioni del corteo : “Le ultime notizie che arrivano da Pozzallo – l’aggressione a due fidanzati all’interno della villa comunale ad opera di quattro ospiti del Cps – confermano puntualmente le nostre facili previsioni”. Peccato che il crimine sia stato ampiamente sconfessato. Rimane il corteo e la rabbia ribadita a più riprese nel comunicato. Il sindaco è abbastanza scocciato più che altro per gli anticipi che la sua giunta deve prevedere in bilancio alla voce immigrati. I 700 del capannone sul lungomare del Porto sono affari del Comune. Non hanno soldi. Così la situazione scivola - mese dopo mese - verso un risentimento sordo, ora destinato ai “neri” ora all’isolamento in cui il sindaco dice di trovarsi da un pezzo. Gli sbarchi portano ancora neri, quelli che tolgono le cose agli indigeni, ad esempio le palestre, così rivendicano da Forza Nuova.
ORA IN PALESTRA ci dormono i neri, il Palazzetto dello Sport adesso è la casa dei neri. I neri fanno il bagno nudi. É accaduto d’estate: i ragazzi del centro sfiniti dal caldo si sono tuffati in mare. I moralisti si riscoprono tanti e indignati oltremodo, per tutti il fatto diventa un crimine all’incirca: atti osceni in luogo pubblico. Stamane una contromanifestazione antirazzista attraverserà il paese. Ma, la caccia al-l’uomo è aperta.

il Fatto 17.11.13
Far West Latina. La mangiatoia dal cuore nero
L’ex Littoria, fondata da Mussolini 81 anni fa, è il crocevia di mille interessi
Dal “Sistema Fondi”, il comune che Berlusconi non volle sciogliere per mafia, alla società di Mariarosaria Rossi, l’accompagnatrice di Silvio
Nel capoluogo senza eroi ma pieno di suv, l’orgoglio locale è la squadra di calcio che gioca in B
di Antonello Caporale


Non confondere mai l’insolito con l'impossibile. Non scambiare mai Latina con una città. Centro di raccolta e smistamento di dialetti locali, è il punto geografico dove veneti e friulani, emiliani e marchigiani, seguiti dai napoletani, calabresi, siciliani, rumeni e infine albanesi sono confluiti e poi si sono espansi: chi a nord; chi a sud dell’Agro. I primi per bonificare le paludi e trovare il modo di sfamarsi negli anni del Duce, quegli altri, immigrati della seconda e della terza ondata, per affinare l’arte di far soldi, alcuni di essi con la spiccata propensione di ridurre in un clic (qui inteso nel suono del tamburo di una pistola) il tempo della provvista.
Il potere dei boss, il fantasma del Duce
Latina ha solo 81 anni, conta 120 mila abitanti, è di ferma e indiscutibile indole fascista (l’amatissima Littoria!), ma di facili costumi. La giovincella è infatti assai viziosa e in questo spicchio laziale arato dai coloni, ma trascurato dalla stampa e dalla tv, si produce la più estesa e malandrina farcitura di criminalità organizzata, delinquenza finanziaria e devianza politica. Una ragnatela di boss scompone la gerarchia sociale e a volte si sovrappone al ceto dirigente rendendo incerto il confine tra mondo legale e illegale. Walter Veltroni, quando lesse le pagine d’accusa della locale prefettura sul “sistema Fondi”, il Comune come sede dello snodo cruciale della politica pontina, ebbe un soprassalto. Non si aspettava che nei dintorni di Sabaudia, dove lui e tanti vip romani trovavano e trovano le meravigliose dune ad attenderli nel weekend, si fosse sviluppato un club di altissimo malaffare. “Il livello di commistione, l’intensità dell’intreccio tra criminalità e politica, tra clan e vita quotidiana è tale che le famiglie della ‘ndrangheta, della camorra, ma anche pezzi di Cosa Nostra arrivati nel-l’Agro Pontino negli anni Settanta perché mandati al confino controllano tutto, dalle pompe funebri agli appalti, dal Mof, il mercato dell’ortofrutta più grande d’Europa, alle concessioni urbanistiche in aree con varianti vantaggiose”. Fondi, per farvi capire, è l’unico municipio italiano su cui si sono abbattute 500 pagine di accuse torride e circostanziate da parte di un prefetto della Repubblica, senza che il governo sia riuscito a trovare un modo per cogliere l’invito a scioglierlo. Il ministro dell’Interno dell’epoca, l’integerrimo Bobo Maroni, quello che la propaganda della Lega avrebbe poi definito come il più duro ministro di Polizia, al cospetto della città di Fondi si presentò in versione coniglio, producendo il solito fenomeno gassoso della politica: bollicine al posto dei fatti. Pur di non turbare il senatore Claudio Fazzone, dominus del Pdl e dell’Agro, iniziò a cincischiare, traccheggiare, trasformare il diritto nel rovescio. E Fondi non fu espugnata dalla polizia, a conferma che in qualche modo la classe non è acqua. Resta la domanda su come sia potuta divenire il crocevia di interessi criminali, punto d'incrocio tra i diversi kit regionali del malaffare: le famiglie dei Casalesi e quelle ‘ndranghetiste dei Tripodo. Resistono perciò le allusioni, le velature sull'ambiguità del ceto politico, sulle amicizie e la forza di questo senatore Fazzone (noto per essere stato in tempi lontani autista di Nicola Mancino) che tutto può. La Polverini, quando volle scalare la Regione, dovette chiedere voti a lui e li ottenne. In un fantastico comizio in quella terra, riuscì a non dire una parola sulla mafia. Si presentò col suo sorriso imbelle e raccolse sorridendo quel che Fazzone le aveva garantito. Fazzone, il ras delle tessere, l’onnipotente delle clientele. Chiacchieratissimo, è finito sotto processo per le sue corrispondenze epistolari: non erano lettere d’amore, ma professionali segnalazioni di clienti in attesa di sfamarsi. Lui, orgoglioso: “Tirate fuori le prove e poi parlerete”. Il Fatto Quotidiano nei giorni scorsi le ha tirate fuori le prove, cioè le lettere. Fanno parte di una fitta corrispondenza con il dirigente dell’Asl Benito Battigaglia. È tutto un “caro Benito”, un prestampato dove solo i nomi dei raccomandati e le funzioni specificate mutano. Fazzone è così, ma Armando Cusani, la nuova stella del firmamento del centrodestra, è un gradino meglio. Presidente della Provincia di Latina, già sindaco di Sperlonga, un futuro in Parlamento assicurato, è appena stato sospeso dalle funzioni: due condanne di troppo (abuso d’ufficio e concorso in abuso), per un totale di tre anni e due mesi in primo grado, hanno costretto l’attuale, prudentissimo prefetto a firmare il decreto di sospensione. Cusani, che al pari di Berlusconi sente il peso della persecuzione e del generale malanimo delle Istituzioni nei suoi confronti, ha rappresentato, nella più fedele filosofia del capo supremo, le proprie perplessità: “Quello emesso è un provvedimento esorbitante e grave. La legge Severino va valutata caso per caso”. Capito? Cusani, inarrivabile: “Non bisogna fare di tutta un'erba un fascio”. Poi, sempre più acuto: “C’è stata una mancanza di attenzione e sensibilità... Quando mi sono candidato non c’era la legge, che quindi non può essere retroattiva”. Un perfetto clone di Silvio, un berluscao meravigliao.
Gli affari d’oro della “badante” del Cavaliere
Quando poi la politica si fa anche imprenditrice, i migliori scendono in campo. C’è la società dell’assessore provinciale e quella del parlamentare, in questo caso di una figura femminile conosciutissima dagli italiani. Mariarosaria Rossi, la signora minuta, dai capelli lunghi e biondi che sorregge il Cavalier Berlusconi standogli accanto in ogni inquadratura e in ogni suo atto, pubblico ma soprattutto privato. Immortale una sua frase intercettata nel periodo delle cene eleganti di Arcore: “Ancora bunga bunga? Ah no, io allora vado a dormì”. Donna di grande impatto (“Il mistero è scoprire quanto porto di reggiseno”) e per questo ritenuta da Silvio una presenza “anticongiunturale”, è cosciente della sua forza espressiva: “Il mio lato B è anche meglio del petto. Oddio e mo’ chi lo sente a Cicchitto? ”. Mariarosaria, 41enne di Piedimonte Matese (Caserta), è dunque stata soprannominata “la badante” per le funzioni di accompagnatrice che svolge egregiamente. La signora è stata una delle poche a seguire il presidente persino nel diverso ramo del Parlamento. Era deputata, ma oggi è senatrice, a conferma dell'assoluta intimità col Capo (“un uomo privo di vizi”, ha riferito sotto giuramento agli straniti giudici del bunga bunga). A Latina la Rossi è presente con una società, la Euroservice (sede a Piedimonte Matese), che si è aggiudicata l’appalto del servizio di recupero crediti di Acqualatina, un casermone clientelare che gestisce l’acqua nell'Agro Pontino. La gara (valore 1,5 milioni di euro) è stata una passeggiata. Due ditte soltanto, scrive Latina Oggi, hanno fatto pervenire un’offerta (fatto curioso, ma non inconsueto: in almeno altri due appalti della stessa società le ditte in competizione, con tutta la fame del lavoro, non superavano il numero di due...) ma una di esse è stata esclusa per vizi di forma. Quindi una soltanto al traguardo, proprio quella di cui è socia la badante. Evviva! Le sembianze di una cupola politica che regola e controlla appaiono quindi nitide, e le figure di riferimento che si scorgono nelle tenebre pontine sono tre. Di Fazzone abbiamo detto, di Cusani pure. Resta Michele Forte, da Formia, altro centro nevralgico di potere e di voti. Forte è il patriarca di una famiglia dedita al bene comune e dunque incatenata alle poltrone. È stato senatore, è stato sindaco di Formia mentre suo figlio Aldo era assessore regionale. Ora, in regime di decompressione da stress, papà Michele è solo presidente del consiglio provinciale. Nella veste ha commentato le dichiarazioni del pentito Carmine Schiavone, ex boss dei Casalesi, sui rifiuti tossici interrati dalla mala in provincia di Latina. “Schiavone è un comandante di merda”, ha detto irato papà Michele. Nella città di Forte risiede Ernesto Bardellino, fratello di Antonio, morto nel ‘98, nome d’oro dei Casalesi.
La febbre del pallone, la domenica tutti allo stadio
Ma la Pontina non è solo la strada dei vizi e Latina non è unicamente il capoluogo dei predatori. In questi mesi sta attraversando uno stupendo momento di gloria. È il calcio, ancora il calcio, a entusiasmare e produrre un clima di orgoglio e rivincita. Finalmente l’Italia sta imparando a conoscerla: adesso che è in Serie B e si fa rispettare, e il suo centrocampo è tetragono, la difesa bardata sulle fasce da due mastini, un attacco vivo e voglioso di far gol, Latina riscopre una fede in se stessa che solo Mussolini aveva saputo mostrare così limpida, piena, indiscutibile. Siamo tutti nel pallone, e infatti anche la politica scende in campo. Pasquale Maietta, deputato di Fratelli d’Italia, è il vicepresidente del club posseduto da una imprenditrice, Paola Cavicchi.
Latina – larga come una donna di Botero – è un manifesto vivo dell’architettura futurista (inarrivabile il Palazzo delle Poste), e della devozione al Duce (il possente palazzo M ne è il segno). È piatta come un biliardo, ma nessuno va in bici. Esistono solo i Suv. Che si concentrano (c’è il più alto rapporto di auto/abitante, 74 su 100), si incolonnano verso piazza del Popolo, sgommano e strepitano per non perdere l’appuntamento con l’happy hour: l’Aperol, le tartine... Con le auto c’è anche un traffico indiscutibile di soldi. “Viviamo al di sopra dei nostri mezzi”, commenta Graziella Di Mambro, vicedirettrice di Latina Oggi, il quotidiano della città. Dell’usura e nell’usura lo sviluppo sostenibile, e anche la rappresentazione cinematografica che la inchioda al suo vizio d’origine. Paolo Sorrentino ha scelto proprio la Pontina per girare il suo Amico di famiglia, e il protagonista principale, Geremia de Geremei, nell’eccellente interpretazione di Giacomo Rizzo, è l'usuraio perfetto, figlio d’arte, il “Cuoredoro” romantico ma spietato. Non confondere mai l’insolito con l’impossibile era la frase che promosse il film e che avete letto all'inizio dell'articolo. Più di uno slogan un perfetto, circostanziato faro sull'urbe. Latina non ha un dolce tipico, né un suo dialetto. Non c’è l'autostrada e manca un eroe. Si deve accontentare di Tiziano Ferro, cantante dalla indubitabile forza espressiva. Poi niente. Se proprio si deve si arriva (però con un salto all'ingiù) alle curve di Manuela Arcuri, soubrette in chiara fase calante, o a quelle di Debora Salvalaggio, in gara per Miss Italia. Tutto qua. “Tutto qua un corno. Non mi piace che Latina venga dipinta come il luogo dei fetenti, la fogna d'Italia. La città sta nel medesimo gorgo di tutte le altre, ha le sue vanità, le sue debolezze, le sue porcherie, ma anche il suo lavoro, la sua storia, la sua grande bonifica. Fino a due anni fa sostenevo che noi fossimo più coglioni e criminali degli altri. Oggi invece dico: non più della media del Paese. Certo, vennero a colonizzarla non i migliori ma i peggiori, o i figli dei peggiori, i più disgraziati e poveri. Braccia da fatica non menti che illuminassero il pensiero di noialtri. Però resta un fatto: Latina ha una sua vitalità persino intellettuale, e una radice che in qualche modo parla al Paese”. Antonio Pennacchi, l’autore di Canale Mussolini, non s’arrende all'evidenza: “Certo, è l’unico Comune a non avere l’assessorato alla Cultura. Però... ”. Però è anche vero che malgrado i Suv, la biblioteca comunale, l’unica, è assai frequentata e Feltrinelli ha fatto un buon affare ad aprire qui una sua libreria. “La mia città è brutta da vicino ma bella da lontano”, dice Chiara, fuggita a Roma. “La giudicavo insopportabile invece è solo un po' noiosa. Ma alzi la mano chi conosce una provincia che non s’annoia”.
(2 - Continua)

l’Unità 17.11.13
Grosse koalition
Grande freddo al congresso Spd
Malumori nelle file del partito, la leadership confermata di misura
Cancellato il veto su future alleanze con la Linke
La base sarà chiamata a esprimersi sul governo con Merkel
di Paolo Soldini


Alle prossime elezioni federali, nel 2017, i socialdemocratici potrebbero proporre un’alleanza di governo rosso-rosso-verde, formata cioè dalla Spd, dai Verdi e dalla Linke, il partito della sinistra radicale. Una decisione che è anche il segno delle grosse difficoltà del negoziato con la Cancelliera per la formazione di un governo di coalizione. Con una risoluzione approvata dal congresso di Lipsia, che si è concluso ieri, è stato rimosso infatti il «non possumus» opposto ufficialmente dagli organismi dirigenti socialdemocratici a ogni ipotesi di alleanza con la Linke a livello nazionale. La caduta del veto non è solo un fatto formale: dalla discussione nel congresso è venuta alla luce una diffusa tendenza a considerare la cucitura di un rapporto politico tra i due partiti di sinistra come una prospettiva realistica e praticabile, anche senza aspettare i quattro anni fino alle prossime elezioni nazionali. Oggi come oggi, amministrazioni in cui la Spd e la Linke governano insieme esistono soltanto a livello comunale e nel Land del Brandeburgo, mentre in due Länder (Berlino e la Sassonia-Anhalt) sono esistiti governi rosso-verdi di minoranza appoggiati dall’esterno dalla sinistra. Ma a livello nazionale i socialdemocratici hanno sempre definito il proprio atteggiamento con il partito che consideravano politicamente non frequentabile perché erede del vecchio apparato politico della Ddr e segnato da forme di estremismo radicale in termini di chiusura: bisognava cercare di mantenere la Linke sotto il quorum del 5% per evitare che eleggesse parlamentari e, al massimo, fare opera di proselitismo per «recuperare» i suoi iscritti e i suoi elettori alla sinistra democratica.
La risoluzione approvata a maggioranza dai delegati al congresso riconosce invece piena legittimità democratica al partito alla sinistra della Spd. Le differenze riguardano soltanto i programmi.
«FAMIGLIA SOCIALISTA»
Anche i dirigenti della Linke, da parte loro, sono più che disponibili a normalizzare i rapporti e anzi si riconoscono nella «famiglia socialista» visto che, come ha dichiarato la copresidente del partito Katja Kipping, «fra i due partiti socialdemocratici» esiste una sana concorrenza politica e bisognerebbe ora mettersi al lavoro «ad alto livello» per cercare un’intesa su una serie di temi come l’equità salariale, la riforma delle pensioni, la rinuncia di principio all’uso della forza nelle controversie internazionali e il bando alla vendita di armi. Già all’indomani delle elezioni del 22 settembre Bernd Riexinger, l’altro copresidente federale del partito, aveva proposto a Spd e Verdi di approfittare della maggioranza dei seggi che i tre partiti di sinistra hanno al Bundestag (320 contro i 311 di Cdu e Csu) per approvare una legge sul salario minimo garantito, formando di fatto una sorta di coalizione parlamentare.
La proposta era stata fatta cadere dai Verdi e dai socialdemocratici, impegnati, questi ultimi, nei negoziati con Cdu e Csu per la formazione di una grosse Koalition, ma ora potrebbe essere ripresa. Da molti esponenti socialdemocratici, infatti, sono venute nelle ultime ore raccomandazioni a non fissare la linea politica del partito esclusivamente sulle trattative con Angela Merkel e Alexander Dorbrindt, il segretario generale dei cristiano-sociali di Horst Seehofer che è considerato un po’ il «mastino» delle posizioni conservatrici e dal quale, come ha sottolineato il capo della Spd della Turingia Christoph Matschie riassumendo il pensiero di molti esponenti del partito, «ci dividono molte più cose» che dalla Linke.
È abbastanza scontato che dietro alle dichiarate disponibilità di molti dirigenti socialdemocratici al dialogo con la sinistra si nasconda anche l’intenzione di esercitare, così, una pressione sui partiti democristiani per spingerli, con lo spauracchio di essere messi in minoranza da una (per ora improbabile) alleanza di sinistra, ad essere più morbidi nelle difficili trattative in corso per la grosse Koalition. Il negoziato, in effetti, sta andando avanti con grandi difficoltà, il che rende la prospettiva dell’intesa con Frau Merkel ancora più indigesta al corpo del partito. Lo si è visto al congresso, dove il presidente del partito Sigmar Gabriel e gli altri dirigenti favorevoli all’alleanza con Cdu e Csu sono stati rieletti con un minimo storico di voti, mentre un ottimo successo lo ha avuto il capo del partito dell’Assia Thorsten Schäfer-Gümbel, che per la formazione del governo nel suo Land sta cercando l’intesa proprio con la Linke.

il Fatto 17.11.13
Germania, politica all’italiana. Solo rinvii e tutti scontenti
Spd pungola il Centrodestra: “Cari conservatori, ora tocca a voi”
di Mattia Eccheli


Berlino In Germania, come in Italia, si sta facendo largo la politica del rinvio: i temi più delicati delle trattative di coalizione sono stati rimandati dai gruppi al vertice. Dopo un mese di confronti ufficiali sono tutti delusi. Ieri finalmente la cancelliera tedesca Angela ha detto di essere pronta a cedere alle richieste della Spd sul salario minimo per ottenere il via libera alla Grande coalizione di governo. Nel corso di una manifestazione dei giovani della Cdu, venerdì sera, la Merkel ha dichiarato che la richiesta del Partito socialdemocratico per un salario minimo di 8,50 euro all’ora “giocherà un ruolo” in futuro, riconoscendo di fatto che, senza questo “cedimento”, l’Unione cristiano democratico non riuscirebbe a dare vita ad una coalizione di governo. Intanto, da Lipsia, dove è in corso il congresso della Spd, il presidente dei socialdemocratici, Sigmar Gabriel, ha ammonito: “Ora, tocca a voi decidere, cari conservatori”. A conferma di come la Cdu dia per scontata l’introduzione del salario minimo, il capogruppo del partito, Volker Kauder, in un’intervista alla Bild am Sonntag, ha avvertito che “la crescita e l’occupazione non dovranno soffrire” per questa misura. E ha sottolineato che sarebbe saggio introdurre il salario minimo in modo graduale nell’ex Germania del-l’Est, dove il costo del lavoro è più basso e la disoccupazione più alta, per evitare di mettere a rischio i posti di lavoro. Questo tira e molla “all’italiana” ha le sue conseguenze. Negli ultimi sondaggi, i potenziali alleati del nuovo esecutivo hanno perso un punto ciascuno. A vantaggio della sinistra radicale (Linke) e di AfD, il movimento antieuro rimasto fuori dal Bundestag per una manciata di voti. Il malcontento è diffuso anche tra gli iscritti alla Spd che l’altro giorno hanno riconfermato i vertici del partito.
   IL CAMMINO verso la nascita della terza große Koalition dopo quelle del 1966-69 e 2005-09 è legata alla soluzione di questi punti. Il voto del 22 settembre aveva consegnato alla storia un panorama complesso con la bocciatura dei liberali, una maggioranza quasi assoluta per Cdu/Csu e una sottintesa richiesta del cancellierato ad una Angela Merkel più orientata verso equità e sociale. I Cristiano democratici temono provvedimenti che intacchino gli equilibri della Germania, dove si registrano uno dei più bassi tassi di disoccupazione di sempre ed esportazioni da primato. E così nicchiano su tutto: dal salario minimo (la Spd chiede 8,5 euro l’ora a livello federale) al referendum su tematiche europee, dalla doppia cittadinanza fino al pedaggio. Per non parlare dell’aumento delle tasse per i più ricchi, il vessillo socialdemocratico. Dopo un mese di incontri nessun partito può dire di aver realmente fatto un passo avanti nelle trattative. L’unico punto sul quale sembra esserci un’intesa è il blocco del “caro affitti”. Anche per calmierare i prezzi dell’energia elettrica sono tutti d’accordo, ma sui soggetti cui presentare il conto ci sono divergenze notevoli. In ballo ci sono piani e progetti per almeno 50 miliardi di euro a fronte di entrate fiscali superiori a 600 ed un indebitamento da 2122 miliardi che lievita al ritmo di 1.556 euro al secondo. Merkel deve attenersi allo stesso rigore che esige dal resto dei paesi dell’Unione, anche se questo penalizza la domanda interna, capitolo per il quale è sotto inchiesta. La Spd ha nel frattempo sdoganato la Linke. Senza successo, i socialdemocratici avevano sperato per anni di riuscire a “ghettizzare” il movimento e prosciugarne il bacino di voti (l'ex Ddr). Adesso hanno preso atto che i comunisti sono una realtà quasi a doppia cifra. Ipotizzare un'intesa a sinistra può servire per esercitare pressione su Cdu/Csu.

l’Unità 17.11.13
La figlia del golpista e del perseguitato, il Cile oggi sceglie
di Francesca D’Ulisse


Nell’anno in cui si ricorda il 40° anniversario del golpe di Augusto Pinochet è ancora quel passato che torna ad affacciarsi nella competizione elettorale. Si vota oggi e sui 9 candidati in pista sono due donne dalla storia tanto diversa a disputarsi la carica di capo dello Stato e del governo del Cile. La candidata della coalizione della destra Alianza por el cambio, Evelyn Matthei, è stata ministra del Lavoro e della Sicurezza sociale nel governo del presidente Sebatian Piñera fino a quando, nel luglio del 2013, a sorpresa, è stata candidata alla massima carica dello Stato dopo la rinuncia, per una forte depressione, di Pablo Longueira, vincitore delle primarie dello scorso 30 giugno. Figlia del generale Fernando Matthei, ministro della Sanità, comandante in capo della forza aerea e membro della giunta militare di Augusto Pinochet, Evelyn ha trascorso la sua adolescenza nelle migliori scuole e università del Cile. Una volta entrata in politica nelle file del centro destra non ha esitato a appoggiare il «sì» al plebiscito sull’eventuale proseguimento del regime militare pinochettista. Da qui una carriera nel legislativo, sempre accanto all’attuale presidente.
Opposto il profilo politico e umano della candidata di Nueva Mayoria, la coalizione che ha sostituito la Concertación por la Democracia integrandola con alcuni gruppi minori e con il Partito comunista. Michelle Bachelet ha un passato segnato dalla dittatura. Figlia del generale Alberto Bachelet, torturato e ucciso durante gli anni di Pinochet, Michelle è stata arrestata e torturata a Villa Grimaldi, il più famoso centro di detenzione cileno. Rientrata in patria soltanto nel 1980, dopo l’esilio nell’allora Repubblica democratica tedesca, la candidata progressista è separata in un Paese dove la legge sul divorzio è relativamente recente, e agnostica, in contro tendenza con la tradizione cattolica sudamericana; è un medico pediatra e madre «single» di tre figli avuti da due uomini diversi. Nominata da Ricardo Lagos, tra il 2000 e il 2004, prima ministra della Sanità e poi della Difesa, diventa Presidente subito dopo. Dal 2006 al 2010,si trova a gestire il Paese nella fase cruciale della crisi economico-finanziaria. Il Cile non subisce contraccolpi grazie alle politiche anticicliche messe in campo dal suo governo e a una gestione macroeconomica responsabile. Con i superavit dovuti alla domanda cinese e asiatica imposta le politiche sociali: la Presidente decide di non tagliare la spesa sociale, anzi, di confermare tutti gli impegni presi su pensioni (raddoppio delle pensioni minime, per esempio), istruzione, sanità e edilizia pubblica. Bachelet se la prende con gli istituti della governance finanziaria internazionale che, a suo avviso, in quegli anni «continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite».
Tutta questa mole di lavoro non impedisce che torni la destra a governare il Paese. Bachelet lascia il Cile a seguito della nomina a Segretario generale di UN Women, si tiene fuori dalla politica attiva, rifiuta qualsiasi invito che la porti nell’agone politico domestico, non pronuncia mai una parola contro il governo di Piñera. Al contrario, si cala perfettamente nell’incarico internazionale, viaggia per il mondo, incontra donne a tutte le latitudini e, in patria, consolida il suo prestigio tanto da tornare a «grande richiesta» nel 2013 per disputare e vincere le primarie di coalizione di giugno e mettere una seria ipoteca sulla rielezione: è lei la grande favorita di oggi.
Quanto più diversi possibile anche i programmi di governo con cui le due candidate chiedono il voto. Il programma della Matthei è assolutamente in continuità con il governo dell’attuale Presidente. L’ortodossia della crescita prima di tutto e l’ideologia neoliberista permeano ogni pagina dello scarno programma elettorale. Il Cile continua ad andare bene nonostante una leggera contrazione della domanda asiatica di commodities: quindi perché cambiare modello? Più robusto e sostanzioso il manifesto politico della Bachelet dove a dominare la trasformazione profonda che il Paese necessita è il tema della lotta alle disuguaglianze. L’idea di fondo è che sia arrivato il momento per operare quelle trasformazioni radicali che consentano al Cile di essere non soltanto uno dei modelli di crescita del continente ma un simbolo dello sviluppo con equità, inclusione sociale e sostenibilità ambientale. Un Cile per tutti, insomma: perché «non c’è sostenibilità politica né economica se non si combattono le disuguaglianze».
*Coordinatore dipartimento esteri PD

Corriere 17.11.13
Bachelet II e i comunisti
Un’alleanza rossa per il Cile Il ritorno della presidenta. Con l’appoggio degli studenti

di Rocco Cotroneo

DE JANEIRO — I sondaggi, senza margini di dubbio, danno per certo il ritorno di Michelle Bachelet alla presidenza del Cile. Si vota oggi — insieme al rinnovo per la Camera e metà Senato — e non dovrebbe servire un secondo turno. Perché è molto alto il margine di vantaggio della candidata di centrosinistra che già governò il Cile tra il 2006 e il 2010. A Evelyn Matthei, la principale avversaria che rappresenta la destra, non dovrebbero andare nemmeno il 15 per cento dei suffragi. Il resto è diviso tra altri sette candidati, senza nessuna chance.
Giochi fatti e sguardo al futuro. Tranne gli ultimi quattro anni, il centrosinistra ha sempre governato il Cile post-dittatura, e ora si prepara al gran ritorno, dipinto di nuovo. L’alleanza Dc-socialisti si chiamava Concertación ed è stata ribattezzata Nueva Mayoria. Ha aperto a sinistra, ai comunisti, che rientrerebbero nell’area di governo per la prima volta dopo gli anni Settanta, dai tempi di Salvador Allende. Seppure con un peso assai limitato. Nel 2010 la Bachelet riconsegnò il governo con una ottima immagine dal punto di vista personale, ma lasciando insoddisfatti molti suoi elettori. Aveva osato poco, la sua storia personale bella e coraggiosa non era stata sufficiente a incidere nella società ereditata dagli anni del liberismo sfrenato. Il Cile della crescita economica senza fine, ma ancora ingiusto e classista.
Sia lei che Sebastian Piñera, il presidente uscente, si sono trovati per esempio ad affrontare il più indomabile movimento studentesco del nuovo millennio. I ragazzi che a centinaia di migliaia lottano per cancellare l’università pubblica voluta da Pinochet, dove tutti pagano salato per studiare e i più poveri sono costretti a indebitarsi per anni. Stavolta la Bachelet giura che la riforma della scuola e dell’università verrà fatta. I ragazzi le danno credito. Cinque tra i leader studenteschi si candidano al Parlamento, tra i quali Camila Vallejo nelle file comuniste: qualche anno fa la sua immagine fece il giro del mondo. Altri retaggi del passato da smantellare, promette la candidata socialista, sono nel sistema fiscale, troppo poco progressivo e generoso con le imprese, e in molti passaggi della Costituzione, che è ancora quella voluta dai militari. Niente bacchetta magica, però: la Bachelet dice che per arrivare all’università gratuita ci vorranno almeno sei anni. Quanto alla riforma costituzionale tutto dipenderà dalla maggioranza che si formerà in Parlamento. «Un Chile de todos» è lo slogan della campagna.
La destra, in evidente crisi di uomini e idee, ammonisce contro il pericolo di una svolta a sinistra che metta a repentaglio il miracolo cileno. Quel Paese stabile che cresce sempre almeno del 4 per cento all’anno, ha la più ampia apertura a merci e capitali dell’America Latina, i conti in ordine, l’inflazione bassa e un tasso di disoccupazione sotto il 7 per cento. Ma la maggioranza uscente ha un problema di leadership. Prima della candidatura Matthei sono caduti altri due candidati: uno per scandali, l’altro per esaurimento nervoso. E poi c’è il fallimento di Piñera. L’imprenditore miliardario che ha ceduto tutto per servire il suo Paese esce di scena con una popolarità molto bassa.
Società pragmatica, quella cilena si è quasi dimenticata durante la campagna la straordinaria vicenda umana delle due contendenti. Entrambe figlie di generali e amiche da bambine: il padre della Bachelet muore dopo le torture per essersi opposto al golpe, quello della Matthei è il capo dell’accademia dove il collega è detenuto. Poi diventa un pezzo grosso del regime, ministro e comandante dell’aeronautica. Se n’è parlato solo una volta durante la contesa, il giorno di una commemorazione, e mai nei dibattiti televisivi.

Corriere 17.11.13
Un Sos lanciato contro il razzismo
Virus che colpisce anche la Francia
di Stefano Montefiori


La ministra della Giustizia francese Christiane Taubira, nata in Guyana, negli ultimi giorni è stata oggetto di indecenti attacchi razzisti, dalla copertina del settimanale di estrema destra Minute che l’ha dipinta come una scimmia con banana (le idiozie contro la ministra italiana Cécile Kyenge hanno fatto scuola), a una battuta simile di una consigliera comunale Ump (centrodestra), a un esponente del Front National (poi espulso) che ha detto di preferirla «sugli alberi piuttosto che al governo», fino a insulti vari di anonimi passanti.
La scorta di Taubira è stata rafforzata, lei dice che non sporgerà denuncia: «Incasso, ma tutto questo è violento per i miei figli». Il punto è anche capire se si tratti di un caso isolato o meno. La Francia è un Paese razzista?
Marine Le Pen dice che «è il Paese meno razzista del mondo», ma alcuni indicatori sono meno rassicuranti. Se prendiamo l’ultimo sondaggio della Commissione dei diritti dell’uomo (Cncdh), il 7% degli intervistati si dichiara «piuttosto razzista» , il 22% «un po’», il 25% «non tanto». Solo il 44% è«per niente razzista», una cifra in calo rispetto agli anni precedenti. E due su tre pensano che «certi comportamenti possono talvolta giustificare reazioni razziste».
Un razzismo strisciante e nascosto a lungo, ereditato dal periodo coloniale e rintuzzato anche grazie alla grande mobilitazione di «Sos Racisme» negli anni Ottanta, sta venendo gagliardamente allo scoperto. Il nuovo conformismo del politicamente scorretto, esibito in tv per esempio dalla coppia di opinionisti Naulleau-Zemmour, ha contribuito a «liberare la parola», e anche questi sono i risultati. Chi non flirta con la postura alla moda è «adepto del pensiero unico», «benpensante» o «radical chic».
Non importa. Bene fanno i tanti intellettuali e non — Marie Darrieussecq, Bernard-Henri Lévy, Yann Moix, Christine Angot fra gli altri — a mobilitarsi in difesa di Christiane Taubira, oggi su Le Monde e in un dibattito pubblico. La lotta — anche culturale — contro il razzismo sembrava diventata un rito banale e superfluo. I fatti di questi giorni dimostrano il contrario.

Repubblica 17.11.13
La Pussy Riot e il filosofo lettere dal carcere di Putin “Il capitalismo ci fa schiavi”
La corrispondenza tra la leader Nadia e Slavoj Zizek


MOSCA — «Caro Slavoj, ricordati che io scrivo da un carcere di un paese dove vige un sistema feudale». Nadia Tolokonnikova, la più colta, la più ribelle, e di fatto la leader naturale delle Pussy Riot, chiudeva così l'ultima lettera a una star della cultura mondiale, il filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Zizek. Era il 13 luglio e Nadia era ancora ospite della colonia femminile IK 14 della paludosa Mordovia dove scontava insieme alla sua compagna Maria Aljokhina una condanna a due anni per aver osato cantare sull'altare della cattedrale di Mosca una canzoncina anti-Putin. A settembre, dopo la sua ennesima protesta contro i sistemi di detenzione e dopo uno sciopero della fame che l'ha ridotta in precarie condizioni di salute, è letteralmente scomparsa. Per quasi un mese le autorità penitenziariehanno negato di sapere dove fosse finita, impedito ogni corrispondenza, vietate le visite del marito e perfino degli avvocati. Nadia è riapparsa solo l'8 novembre, il giorno dopo il suo ventiquattresimo compleanno, nel carcere punitivo di Nizhnij Igash nella Siberia centrale. Questo almeno a leggere i documenti ufficiali che confermano il trasferimento “per motivi di ordine disciplinare”. Potrà riprendere la corrispondenza tra Nadia e il professore? Gli avvocati non ci sperano molto. Lei la considera fondamentale. Studentessa di filosofia, cerca nella lettura un senso alla sua posizione di ribelle contro un sistema troppo più forte di lei: «Non si preoccupi di raccontarmi le sue teorie mentre io sto vivendo concretamente la sofferenza. Proprio nelle sue teorie io cerco una strada per crescere ancora».
(n.l.)

Spero che in prigione tu riesca a leggere
CARA Nadezhda, spero che in carcere tu sia riuscita ad organizzare la tua vita attorno a dei piccoli rituali che la rendano tollerabile, e che abbia tempo per leggere. Riporto qui di seguito ciò che penso riguardo alla tua difficile situazione. A proposito dei radicali, il saggista politico americano John Jay Chapman scrisse nel 1900 che “in realtà dicono sempre la stessa cosa. Non cambiano: tutti gli altri cambiano. Vengono accusati delle colpe più improbabili: di egoismo e smania di potere, di indifferenza nei confronti delle sorti della loro causa, di fanatismo, di banalità, di mancanza di senso dell’umorismo e di irriverenza. In realtà, però, toccano un tasto sensibile. Ed è a questo che si deve il grande potere dei radicali più tenaci. All’apparenza nessuno li segue, e tuttavia tutti hanno fiducia in loro”. Non è forse un’accurata descrizione dell’effetto prodotto dalle esibizioni delle Pussy Riot? Sembra che le gente non vi segua, ma sotto sotto credono in voi.
Dalla crisi del 2008 nei Paesi occidentali questa sfiducia nella democrazia ha iniziato a prendere piede. E se fosse giustificata? Nell’Europa occidentale le élite al potere sanno sempre meno come governare. Basti vedere in che modo l’Europa sta affrontando il problema della Grecia. Non c’è da sorprendersi dunque se le Pussy Riot provocano in tutti noi un senso di disagio: voi non fingete di avere delle risposte rapide o facili, e ci dite che nemmeno chi è al potere ne ha. Ecco perché la vostra tenacia è così importante. Hegel scrisse che aver visto Napoleone a Jena era stato come vedere lo Spirito del Mondo a cavallo. Analogamente, voi non siete altro che la nostra consapevolezza critica, rinchiusa in carcere.
Slavoj Zizek 2 gennaio 2013

Caro Slavoj, nell’autunno del 2012, quando ancora ero in attesa di processo e mi trovavo in carcere a Mosca insieme ad altri attivisti delle Pussy Riot, ti feci visita. In sogno, naturalmente. Capisco ciò dici riguardo ai cavalli, allo Spirito del Mondo, alla dabbenaggine e alla mancanza di rispetto. Le Pussy Riot hanno dimostrato in effetti di appartenere a una forza che ha come obiettivo la critica, la creatività, la co-creazione, la sperimentazione e la realizzazione di iniziative immancabilmente provocatorie. Prendendo a prestito la definizione di Nietzsche, siamo figlie di Dioniso che navigano all’interno di una botte senza riconoscere alcuna autorità. Siamo i ribelli che invocano la tempesta, e crediamo che la verità possa essere trovata solo in una ricerca senza fine. Se lo “Spirito del Mondo” ti sfiora, non aspettarti che il suo tocco sia indolore. Nella vita di coloro che come bambini credono al trionfo della verità sulle menzogne,al momento giusto accadrà sempreun miracolo.
Nadezda Tolokonnikov 23 febbraio 2013

Quei maghi della finanza che stanno sbagliando tutto
Cara Nadezhda, fai bene a mettere in dubbio l’idea che gli “esperti” vicini al potere siano in grado di prendere delle decisioni. Gli esperti sono, per definizione, servi di chi è al potere: non pensano davvero, ma si limitano ad applicare la propria conoscenza ai problemi indicati da coloro che sono al potere (come fare per ripristinare la stabilità? Come sedare delle proteste?). I capitalisti di oggi, i cosiddetti “maghi della finanza”, sono realmente degli esperti? O sono semplicemente dei ragazzini sciocchi che giocano con il nostro denaro e il nostro destino? Il filosofo deleuziano Brian Massumi afferma che il capitalismo ha già superato la logica della normalità totalizzante per adottare quella dell’eccesso imprevedibile: “Più è vario, addirittura imprevedibile, e meglio è. La normalità comincia a perdere d’influenza. Le regolarità si allentano. Questo allentarsi della normalità si iscrive nella dinamica del capitalismo”.
Slavoj Zizek 4 aprile 2013

Sono una che accetta le sfide questa esperienza mi fa crescere
Caro Slavoj, il capitalismo moderno ha davvero soppiantato la logica delle norme totalizzanti? O piuttosto è intenzionato a farci credere di aver superato la logica delle strutture gerarchiche e della normalizzazione? Il capitalismo moderno deve dimostrarsi flessibile, addirittura eccentrico. Tutto mira a colpire le emozioni del consumatore. Il capitalismo moderno cerca di convincerci di essere mosso da principi di libera creatività, di sviluppo infinito e infinitavarietà. Sorvola sul suo altro aspetto, in modo da occultare il fatto che milioni di persone sono ridotte in schiavitù da una legge di produzione onnipotente e incredibilmente stabile. Noi intendiamo smascherare questa menzogna.
Non dovresti preoccupati di esporre delle montature teoriche mentre io “sopporto delle vere avversità”. Apprezzo le sfide. Sono genuinamente curiosa: come affronterò questa situazione? E come posso trasformarla in un’esperienza produttiva per me e le mie compagne? Trovo spunti di ispirazione; contribuisce alla mia crescita personale.
Nadezda Tolokonnikov 16 aprile 2013

La protesta in tutta Europa che i leader non hanno capito
Cara Nadezhda, sono le folli dinamiche del capitalismo globale a rendere così difficile e frustrante l’opporre aquesto una resistenza efficace. Pensa alla grande ondata di proteste che nel 2001 si diffusero in Europa, dalla Grecia alla Spagna, a Londra, a Parigi. Benché fossero prive di una piattaforma politica comune, la miseria e lo scontento dei dimostranti si trasformarono in un grande atto di mobilitazione collettiva. Eppure quelle proteste non furono che un gesto puramente negativo di rifiuto e una richiesta altrettanto astratta di giustizia, e non riuscirono a tradurre tale richiesta in un programma politico concreto.
Cosa si può fare in una situazione in cui le manifestazioni, le proteste e persino le elezioni democratiche non producono alcun effetto? Le esibizioni delle Pussy Riot non possono essere ridotte a delle semplici provocazioni sovversive. Dietro alle dinamiche delle loro iniziative vi è la stabilità di una ferma posizione etica e politica. Dimostra a migliaia di persone che il cinismo opportunistico non è l’unica opzione, e che esiste ancora una causa comune per la quale valga la pena combattere.
Slavoj Zizek 10 giugno 2013

La mia rabbia verso lo “zar” ma il tempo ci darà ragione
Caro Slavoj, nella mia ultima lettera, non solo non ho spiegato con sufficiente chiarezza le diverse modalità con cui il “capitalismo globale” agisce in Europa e negli Usa, da un lato, e in Russia dall’altro. Tuttavia, alcuni eventi recenti in Russia – il processo ad Alexei Navalny, l’approvazione di leggi anticostituzionali che limitano la libertà – mi hanno fatto infuriare. L’ultima volta che ho provato una rabbia simile fu nel 2011, quando Putin dichiarò che si sarebbe candidato alla presidenza per un terzo mandato. La mia rabbia e la determinazione portarono alla nascita delle Pussy Riot. Cosa succederà adesso? Lo dirà il tempo.
I governi dell’Europa e degli Usa collaborano come se nulla fosse con la Russia, malgrado questa imponga delle leggi medievali e arresti i politici dell’opposizione. Se le nazioni che importano petrolio e gas dalla Russia avessero smesso di acquistarne, dimostrando così il coraggio delle proprie convinzioni, avrebbero assestato un durissimo colpo alla Russia di Putin, dipendente com’è dalle materie prime. Anche il boicottaggio delle Olimpiadi invernali di Sochi del 2014 sarebbe un gesto etico.
Eppure eccomi qui, in carcere, a scontare una condanna, mentre i dieci individui che controllano i principali settori dell’economia sono i più stretti amici di Putin. Con alcuni di loro ha condiviso gli studi, con altri lo sport, altri ancora sono ex colleghi del Kgb. Non è forse questo un sistema sociale che si è boccato? Non è forse un sistema feudale?
Nadezda Tolokonnikov 13 luglio 2103
(Traduzione Marzia Porta)
Il carteggio integrale in edicola su Micromega in edicola il 28 novembre

l’Unità 17.11.13
La città delle donne. Un villaggio matriarcale senza guerre e violenze
Esiste: è nella Cina meridionale
Il reportage del medico argentino Ricardo Coler che ha trascorso un periodo con la comunità dei Mosuo scoprendo un piccolo Eden
di Valeria Viganò


VIVIAMO QUI, IN ITALIA, EUROPA E ORMAI QUASI TUTTO IL RESTO DEL MONDO, IN UNA SOCIETÀ MALATISSIMA, MALANDATA, CORROTTA, INGIUSTA E INEGUALE. Viviamo a dodicimila all’ora, in tensione, ansiosi e preoccupati. Corriamo invece di camminare, rincorriamo costantemente mete vere e fittizie. Siamo schiavi della nostra immagine. Accumuliamo beni, perdiamo beni, siamo costantemente aggressivi, subiamo vari tipi di poteri visibili o subdolamente soggiacenti che inducono alla rabbia, alla ribellione e alla depressione. E la realtà, per niente democratica, scatena una violenza da tempi storicamente bui. Non troviamo soluzioni, impacchettati e imprigionati, nonostante il pensiero generico o speculativo corra a fiumi in cerca di un’uscita. La misoginia è instillata come veleno mortale, gli abusi e la prevaricazione sono atti di una costanza disarmante. Cerchiamo pertugi che facciano prendere boccate d’aria non malsana, ma quelle boccate che servirebbero a darci tregua ci consentono solo di imparare a stare in un’apnea forzata per più tempo. Resistiamo affaticati, cresciamo i figli in un’infinita corsa ad ostacoli, tentiamo di sconfiggere il tempo, rimandando vecchiaia e morte, procrastinando i segni degli anni. Provati e stanchi.
Ma se invece di trovare spiragli minimi per sopravvivere, spalancassimo la porta?
Farlo da soli è un atto di coraggio individualista o al massimo scovato in esigui gruppi di persone che la pensano allo stesso modo. Ci viene allora in aiuto uno splendido libro edito da nottetempo, Il regno delle donne (pp.211, euro 15,50), che non analizza lo status quo, non propone correttivi e palliativi, e non tenta di convincerci o farci sposare una nuova teoria. Semplicemente racconta di un viaggio in un luogo sperduto e quasi inaccessibile a 2500 metri, nella Cina meridionale, in mezzo alle montagne himalayane. L’autore è un medico e scrittore argentino, Ricardo Coler, curioso e perenne viaggiatore in altre culture che, come ogni vero viaggiatore, non esprime giudizi e accoglie anche l’incomprensibile.
IMPRONTA TIBETANA
Nella provincia dello Yunnan, sulle rive del Lago Lugo, vive un popolo di più di 25.000 persone, a forte impronta tibetana per religione, tratti somatici e ambiente geografico. Ciò che rende i Mosuo unici è la loro struttura sociale a base completamente matriarcale. Ritenere che una società matriarcale sia un semplice ribaltamento del potere dagli uomini alle donne è una semplificazione arbitraria e miope. E Coler lo dimostra. Il viaggio per arrivare al Lago Lugo è faticoso e interminabile, su strade pericolose, ma alla fine ecco aprirsi una sorta di Eden. Coler scopre prestissimo i segni inequivocabili di un ordine diverso delle cose. Ma si addentra lentamente, con profondo rispetto e onestà, in un sistema sociale completamente nuovo. Scopre una ad una le diversità di un modo di vivere che ha regole semplici e che tutti, dalla tenera età fino alla vecchiaia, ottemperano naturalmente. Con l’aiuto di un traduttore, anche lui ignaro e sorpreso e alquanto diffidente, incontra le donne e gli uomini Mosuo, condivide le giornate, i pasti, vince le ritrosie, ascolta, domanda. Scopriamo con lui che il matriarcato si basa su differenze fondanti rispetto al patriarcato. È vero, sono le donne che decidono. A un loro richiamo gli uomini scattano come molle, e adempiono ai lavori pesanti o fanno i traghettatori lungo le sponde del lago o vanno a comprare animali da soma. Ma hanno anche molto tempo libero che passano a giocare a mahjong. Le donne lavorano i campi e cucinano, senza lesinare la fatica. Il capovolgimento dei ruoli non sarebbe sufficiente se non si innestasse in un tessuto familiare che prevede che tutti i membri abitino la casa e non la lascino per creare nuovi nuclei, perché il matrimonio non esiste. Avete presente quella istituzione che genera promesse, chiusura, gelosia, accaparramento, unicità che poi svanisce in pochi anni e diventa galera? L’amore per i Mosuo è un’altra cosa e corrisponde alle vere qualità del sentimento. Anche alla sua transitorietà, ciò che rimane per sempre è infatti il nucleo in cui si nasce.
Coler indaga sulla sessualità discorrendo con le donne e gli uomini, e constata che è più che mai una libera espressione dell’attrazione. Molto libera. Gli incontri avvengono quando la ragazza lo decide. L’uomo che viene fatto entrare nell’alcova, appende il cappello alla porta. Segno che è lui il prescelto. Può essere per una notte o protrarsi per un lasso di tempo indefinito. Ma mai i due innamorati andranno a vivere insieme. I figli che nasceranno mai vivranno al di fuori della famiglia della matriarca. La conclusione è che la figura del padre non esiste, a dispetto di tutte le teorie che scrutano l’influenza e l’importanza del ruolo paterno nella nostra società. Il risultato è che tra i Mosuo non c’è la violenza né la prevaricazione maschile (o femminile), non ci sono atti illegali e al primo accenno di aggressività basta un intervento della matriarca per riportare tutto all’ordine. Coler sottolinea che questo avviene grazie a una solidarietà tra donne inscalfibile, fatta di aiuto reciproco, grandi chiacchiere, vita in comune. Il possesso amoroso non esiste, al pari dell’esclusività. Quando due innamorati, e non una coppia, si separano, lo fanno morbidamente, accettando la decisione del partner senza recriminazioni. Leggendolo, non si può fare a meno di pensare a tutti quegli uomini che, non sopportando che le compagne li lascino, le perseguitano e le uccidono. È possibile quindi che ciò non accada, e l’esempio dei Mosuo ci conferma quanto la violenza maschile sia culturale all’interno di un contesto distorto basato su una forma sociale profondamente misogina e diseguale che possiede valori sbagliati e non vitali. Il ripensamento, confrontandoci con la società matriarcale dei Mosuo, è imprescindibile, non sono le nostre leggi a dover cambiare ma le fondamenta tutte, a partire da una femminilizzazione del vivere, perchè come afferma un Mosuano, «stare in mano alle donne è stare nelle mani migliori».
Quando la Cina decise che questo piccolo popolo montano doveva uniformarsi nei modi e nei costumi alle regole del resto del paese e cambiare il proprio matriarcato, arrivarono i soldati a obbligare i Mosuo a sposarsi, fare figli, costituire famiglie tradizionali. Per un po’ furono assecondati dalla popolazione, ma appena l’esercito se ne andò, tutti ritornarono al più congeniale matriarcato.
Un esempio di resistenza passiva propria di una cultura con radici fortissime e condivise e non violenta. Ora il governo centrale cinese sta costruendo una strada per collegare il lago e la sua provincia ad altre province limitrofe. È la grande minaccia che incombe, perché, paradossalmente, laddove esiste la comunicazione, la mescolanza produce mutamento talvolta irreparabile. Sembra un concetto conservativo, ma spesso la contaminazione produce squilibri e scontri, non rispetta le peculiarità, invade con modelli che martellano e si impongono come esemplari. La torsione capitalista nelle economie emergenti, Cina e India, ne è un esempio. Invece di essere un’opportunità e un’alternativa, il matriarcato Mosuo rischia di venire cancellato e soffocato da errori economici e sociali che si perpetuano da secoli attraverso il patriarcato autoritario e cieco. Oserei dire che leggere Il Regno delle donne e rifletterci attentamente sia un piccolo atto di rivoluzione, una presa di coscienza, e una prova inconfutabile e reale di come sia davvero possibile un cambiamento di ciò che siamo diventati e della vita che facciamo, illusi, adulati, premiati nella nostra presunta superiorità. In verità siamo solo insostenibili e odiosi esseri umani.

l’Unità 17.11.13
Francesco Ghezzi l’odissea crudele di un anarchico
In un libro la storia di un antimilitarista accusato ingiustamente di terrorismo e morto in un gulag
di Graziella Falconi


IL 13 GENNAIO 1943 SU ORDINE DEL NKVD, IL COMMISSARIATO DELLE GRANDI PURGHE, FRANCESCO GHEZZI VIENE CONDANNATO ALLA FUCILAZIONE, ACCUSATO DI ORGANIZZAZIONE ANTISOVIETICA. Il condannato, tuttavia, era già morto nel gulag di Vorkuta il 3 agosto 1942. Come c’era capitato a Mosca, il brianzolo Francesco? Egli discende da una famiglia di contadini poveri, 14/15figli a testa, trasferitisi in una tumultuosa Milano di fine XIX secolo, quella del generale Bava Beccaris che, dopo aver fatto sparare sui manifestanti, sciolse, oltre alla Camera del lavoro, tutte le associazioni democratiche e progressiste. Gli anni in cui nella neonata nazione italiana i prefetti reprimono sanguinosamente le lotte per l’emancipazione equiparandole alla sovversione. Gli anarchici, non numerosi, divisi in organizzativisti e anarcoindividualisti, si dedicavano con piccole bombe qua e là a scuotere dall’apatia le masse operaie, rese inattive, a loro parere, dalla direzione riformista del neonato partito socialista. L’anarco individualista è l’ultimo esemplare di una stagione romantica; ridondanti non meno della borghesia, essi reclamano la missione religiosa di «istillare nell’istinto di ogni individuo il germe della verità e dell’indipendenza», la libertà «all’infuori e contro ogni società».
Francesco è ancora un ragazzino quando, con doloroso stupore della sua famiglia, incomincia a frequentare ambienti anarchici e socialisti, il cui leader, Benito Mussolini, è guardato con sospetto dal papà, Giulio, tanto più quando la prima guerra mondiale favorisce a Milano un intenso rapporto unitario tra socialisti e anarchici. Francesco nel movimento anarchico stringe un’amicizia profonda con altri due giovani, Ugo Fedeli e Pietro Buzzi, i quali, chiamati alla armi nel 1917, come lui disertano, rifiutando di sparare ai fratelli austriaci. Disponibili alla violenza solo per la rivoluzione sociale. Alto, magro, bello e naturalmente elegante, Ghezzi fugge in Svizzera. Ma, come scrive spiritosamente il nipote Carlo Ghezzi autore del libro e della ricerca Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia (pp.124, euro 10,00, Zero in condotta) «anche in un paese neutrale è difficile fare dell’antimilitarismo», e infatti nel maggio 1918 Francesco viene arrestato insieme ai suoi due amici e ad altri 120 per le bombe di Zurigo e, in quanto anarchico, espulso. Rientra in Italia grazie all’amnistia concessa da Francesco Saverio Nitti nel 1919, giusto in tempo per incrociare il biennio rosso, ossia quella drammatica quotidianeità che farà considerare «migliore una fine pericolosa che un pericolo senza fine». Alle 22,40 del 23 marzo 1921 scoppia la bomba al Kursaal Diana di Milano: 21 morti e 80 feriti. Destinata non ai poveri orchestrali, o al pubblico, ma al criminologo Giovanni Gasti, che si supponeva abitasse in una pensione lì a fianco, ma che nel frattempo aveva cambiato domicilio. Ghezzi e i suoi amici furono subito incolpati e i tre fuggirono prima in Svizzera poi a Berlino e quindi a Mosca. Poi i veri colpevoli saltarono fuori. Sono due giovani mantovani e un operaio milanese che, arrestati, confessano l’attentato e lo sconfessano «come atto senza criterio di giustizia e senza utilità per alcuno». La posizione di Francesco, latitante, è quindi stralciata dal processo della strage e nel 1923 la grande patria socialista gli offre una dacia a Yalta con un giardino e,finalmente, un paio d’anni di risposo. Ma nel 1924 è di nuovo imputato a Milano per il Diana. Una storia italiana, che richiama la strage di Piazza Fontana. Al fiero anarchico, però, non erano bastati i guai italiani, voleva addirittura riformare il regime sovietico! Arrestato nel 1928, con l’accusa di essere una spia, condannato a dieci anni di carcere duro e poi al confino di Astrakan.
Carlo Ghezzi, sindacalista Cgil, ha ricostruito la storia con freddezza e precisione, attento a frugare tra le nebbia in cui s’è perso questo suo zio, accennando con grande pudore al pathos a lungo sofferto dalla sua famiglia.

l’Unità 17.11.13
Rai Scienza, un coro di sì
«Occorre una rivoluzione culturale per far passare certi messaggi. E la tv, mezzo di massa, può aiutarci»
Il ministro Carrozza favorevole al canale: «Aiuterebbe i più giovani»
di Luca Del Frà


Le donne scendono in campo per Rai Scienza, un canale della tv pubblica dedicato alla ricerca: il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, la neo senatrice a vita Elena Cattaneo e la deputata Ilaria Capua, che grazie alle loro ricerche sono divenute famose nel mondo, appoggiano la campagna de l’Unità.
Scienziate prestate alla politica che spiegano dal punto di vista di chi ogni giorno è in prima linea l’utilità di un canale televisivo del servizio pubblico dedicato alla scienza, agli scienziati, alle loro Storia e alle loro storie. Accanto a loro Rossella Panarese, ideatrice e curatrice di Radio 3 Scienza, dà lo sguardo di chi da anni porta questi argomenti in onda ogni giorno.
«Sarei molto felice di assistere alla nascita di un canale Rai dedicato interamente alla Scienza – esordisce senza mezze misure Carrozza –, perché sono certa che potrebbe aiutare soprattutto le giovani generazioni a conoscere meglio il mondo che le circonda, a scoprire quanto l’Italia ha dato in passato e continua a dare in termini di scoperte scientifiche fondamentali».
L’EMOZIONE DEL MICROSCOPIO
L’immagine italiana infatti non è particolarmente lusinghiera da questo punto di vista: «Lo testimoniano anche diversi studi internazionali –non nasconde il ministro–: nel nostro Paese la cultura scientifica non è molto diffusa e spesso i nostri ragazzi registrano deficit in scienza e matematica rispetto ai loro coetanei europei. Invece, e il canale Rai Scienza potrebbe dimostrarlo, la scienza e la tecnologia possono ancora far sognare i giovani e i meno giovani».
Alle parole del ministro fa eco con entusiasmo Cattaneo, figura di punta nelle ricerche sulle cellule staminali: «Sarebbe una cosa straordinaria – spiega – ma se deve nascere un canale dedicato dovrà avere connotati alti e non rifugiarsi in quelle trasmissioni sui misteri, le magie, i miracoli e le stranezze. E non bisogna avere paura dell’audience, la scienza è divertente: datemi un teatro con 10mila posti e poi vediamo!» In che senso è divertente? «Potrei citare come mi tremavano le mani quando depositavo i vetrini sotto il microscopio quando era alle prove finali della mia ricerca sulle staminali e la malattia di Huntington, oppure la ricerca di Shinya Yamanaka sulla riprogrammazione cellulare che nessuno credeva possibile e lui l’ha dimostrata, o il nostro Giovanni Bignami che per anni ha studiato una stella che si giurava non ci fosse e invece c’era davvero e l’ha chiamata Geminga (che si pronuncia come in lombardo «Gh’ è minga», cioè non c’è mica Ndr) , ma forse il caso più bello è quello di Giacomo Rizzolatti, che a 72 anni non ha mai smesso di studiare e ha presentato un progetto di ricerca allo European Reserch Council sui neuroni a specchio che è stato finanziato con 2 milioni di euro. Nella scoperta c’è sempre qualcosa di avventuroso, lo scienziato è come nel deserto e pensa: sono fuori strada oppure al confine del nuovo».
Cattaneo ha pubblicato vari articoli sul rapporto non esaltante tra politica e scienza nel nostro paese, come garantire indipendenza a un canale scientifico: «Senza indipendenza e libertà di pensiero non c’è scienza. Al contrario gli scienziati potranno spiegare le loro ricerche, per esempio perché non è vero che le staminali embrionali sono inutili come qualcuno dice, oppure chiarire perché la sperimentazione sugli animali è necessaria e quanto facciamo per ridurla al minimo e alleviare le loro sofferenze».
Che vantaggio trarrebbero i cittadini da un canale tematico di questo tipo? «Lo spirito critico e la tolleranza: pochi sanno quanto il metodo scientifico obblighi a ragionare su se stessi e sul proprio operato: ogni volta che fai una ipotesi, tu per primo cerchi di smontarla in ogni modo, andando contro le tue idee. Quando pubblichi i risultati, qualsiasi scienziato nel mondo è autorizzato a smontarli e mostrare l’errore. Niente opinioni o supposizioni, ma dati, fatti e attenzione alle critiche: tutte cose che in Italia spesso mancano e mi permetto di dire che questa mancanza è parte importante nei problemi che il Paese si trova ad affrontare. La scienza è soprattutto un modo di vita che insegna a essere più tolleranti e autocritici: porta a una crescita civile».
Vicepresidente della VII Commissione cultura alla Camera, Ilaria Capua è una biologa virologa che ha raggiunto importanti risultati scientifici, ma soprattutto ha sfidato il sistema con la decisione di depositare la sequenza genetica di un ceppo africano di influenza su un sito open source a disposizione dell’intera comunità scientifica: «Occorre una rivoluzione culturale e la televisione ne può essere parte –spiega–: uno dei problemi che l’Unione Europea ci pone è proprio sui modelli culturali che trasmettiamo. Lo scienziato da noi piace ai bambini, ma già nell’adolescenza assume la figura dello sfigato, che non trova lavoro né soldi per le sue ricerche, quando al contrario proprio gli scienziati italiani stanno dando un forte contributo al progresso scientifico». E la televisione può essere utile in questo senso: «L’italiano si informa con la televisione, libri e internet sono ancora minoritari, e dunque ecco perché sono favorevole a un canale dedicato alla scienza. Le nuove generazioni devo imparare a essere all’altezza di quello che succede nel mondo, ad accettarne le sfide: ricordiamoci che nei Paesi dove l’economia è arretrata o sta arretrando c’è scarso interesse nella scienza. L’importante è essere divertenti e considerare la grande bellezza della scienza, la suggestione che può trasmettere». E lei come lo immaginerebbe un programma scientifico? «Partirei dalle immagini: ci sono foto di corpi celesti lontani milioni di anni luce che assomigliano agli ingrandimenti di lieviti, microbi, esseri unicellulari. L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si toccano nella visione e magari anche nella televisione».
Tutto il potere agli scienziati a Rai Scienza? Affidare direttamente a loro l’ideazione dei programmi, assistendoli da un punto di vista tecnico, potrebbe essere un modo per colmare l’enorme ritardo accumulato dal nostro paese nel settore scienza e televisione. Quest’anno Rossella Panarese festeggia i dieci anni di Radio 3 Scienza, un traguardo importante per una trasmissione quotidiana. Gli chiediamo, è possibile fare scienza e audience? «Assolutamente sì, la nostra trasmissione è tra le prime 5 a essere scaricata in pod cast di tutto il sito di Radio 3, una ammiraglia della Rai. Questo ci onora e unitamente alle mail e agli sms che arrivano ci dice anche che il pubblico delle trasmissioni scientifiche è fedele, attento e visto che spesso ti corregge se ti sfugge qualcosa, dunque è anche esigente. Ma ci sono altri segnali positivi sul pubblico interessato alla scienza, come i Festival che riscuotono sempre un notevole successo». Voi che spesso li seguite, come è il contatto diretto con il pubblico? «Molto utile e interessante, spinge a creare un linguaggio che sa raccontare, ma con rigore, e anche a creare un dialogo». E gli scienziati, soprattutto quelli italiani, sono pronti a questo dialogo sui mezzi di comunicazione di massa? «Prima di Radio 3 Scienza già mi occupavo degli stessi argomenti ma senza cadenza quotidiana: gli scienziati in questi 20 anni sono molto cambiati, hanno capito l’importanza della comunicazione, ci tengono e ci sono molti esempi di veri comunicatori».

l’Unità 17.11.13
La campagna de «l’Unità» che trova così tanti consensi


Il 17 ottobre l’Unità ha iniziato una campagna per la creazione di un canale tv dedicato a temi scientifici nel servizio pubblico: Rai Scienza. La nuova campagna faceva seguito a un’analoga iniziativa presa questa estate e che partiva da una idea di Franco Scaglia, presidente del Teatro di Roma, in favore di Rai Teatro, una rete dedicata allo spettacolo da vivo nata lo scorso settembre, a coronamento della nostra campagna. A spingerci in queste iniziative è l’idea di una tv che sia soprattutto servizio pubblico, come di statuto dovrebbe essere la Rai. Il momento è favorevole poiché la Rai, investita da una crisi di risorse, deve ridisegnare i suoi canali satellitari: la scienza e il teatro spesso sono assai meno onerosi delle star del piccolo schermo e molto più importanti. In questi giorni la campagna per Rai Scienza è stata ripresa anche dal Sole 24 ore (senza però citarci), ma è comunque positivo perché dimostra l’importanza dell’iniziativa, e perché siamo convinti che l’attenzione per la cultura, la scienza, lo spettacolo dovrebbero essere di tutti. Sono già intervenuti l’astrofisico Giovanni Bignami che ci ha scritto incoraggiandoci e suggerendo per il canale il nome molto efficace di Rai Conoscenza -, lo storico della scienza Giulio Giorello 3e il matematico di fama internazionale Ciro Ciliberto.

Corriere 17.11.13
Rivoluzione russa
Quando un imperatore diventa persona non grata
risponde Sergio Romano


Ho letto nel libro La zarina Alessandra, di Carolly Erickson, che — in seguito alla rivoluzione russa — dopo un primo parere favorevole del governo inglese a ospitare i Romanov sul suolo britannico, esso, su ordine di re Giorgio V, aveva cambiato opinione sulla questione, perché il re temeva lo scoppio di una rivolta della sinistra anche in Inghilterra. Ora vengo alla domanda: è davvero possibile che la presenza della famiglia imperiale russa potesse far esplodere una rivolta della sinistra inglese?
Luca Pellacani

Caro Pellacani,
Le risponderò indirettamente ricordando un episodio italo-russo. Quando l’Austria, nel 1908, decise di annettere la Bosnia Erzegovina, Italia e Russia furono, anche se in misura diversa, i Paesi maggiormente preoccupati dalla politica imperiale dello Stato asburgico nei Balcani. L’Italia era membro della Triplice e quindi alleata dell’Austria-Ungheria, ma decise di dare un segnale di malumore a Vienna invitando Nicola II in Italia. Vittorio Emanuele III e Giolitti, allora presidente del Consiglio, avrebbero ringraziato lo zar per la prontezza e la generosità con cui una nave russa, un anno prima, aveva dato assistenza ai sopravvissuti del terribile terremoto di Messina. La regina Elena, educata nel collegio Smolnyj di Pietroburgo, avrebbe riallacciato i rapporti con una famiglia a cui era legata da un vincolo di parentela (due sorelle avevano sposato due granduchi). I due ministri degli Esteri avrebbero parlato delle questioni in cui ciascuno dei due Paesi poteva essere utile all’altro.
Ma non appena la notizia dell’incontro divenne pubblica, il governo italiano dovette constatare che la visita di Nicola II in Italia avrebbe suscitato un’ondata di manifestazioni e di scioperi, se non addirittura di attentati. Socialisti e anarchici sarebbero scesi in piazza per denunciare quello che era, agli occhi di molti democratici europei, il regime più reazionario d’Europa. Fu deciso che la visita, anziché a Roma, si sarebbe svolta nella residenza reale di Racconigi. Nel suo blog (Il Laboratorio), Roberto Coaloa, scrittore e docente dell’Università di Milano, ricorda che Nicola II entrò in Italia dalla frontiera francese e che le autorità italiane, per i 130 chilometri che separano Bardonecchia da Racconigi, presidiarono il territorio con 11.000 soldati. «Le strade adiacenti furono sbarrate con tronchi d’albero; pattuglie di cavalleria perlustravano i campi e c’erano picchetti armati ad ogni casello e sotto ogni ponte». Sembra che Giolitti avesse ammonito i prefetti di Cuneo e Torino: «Se si fosse udito soltanto un fischio nelle vicinanze di Racconigi» sarebbero stati destituiti.
Nella Grande guerra le democrazie occidentali e l’autocrazia zarista avevano molti interessi in comune e furono indotte dalle circostanze a combattere insieme contro gli Imperi Centrali. Ma gli ambienti progressisti della Francia, della Gran Bretagna e dell’Italia non smisero mai di manifestare malumore e tirarono un sospiro di sollievo soltanto quando lo zar, dopo la rivoluzione del febbraio 1917, fu costretto ad abdicare. Per qualche mese Parigi, Londra e Roma sperarono che la Repubblica russa sarebbe stata più compatibile con le finalità democratiche che gli Alleati dichiaravano di perseguire. Fu questa la ragione per cui la presenza della famiglia imperiale russa in Gran Bretagna non sarebbe stata gradita, in quel momento, al governo di Londra .

Corriere 17.11.13
«I registi? Tutti misogini»
Rossana Rossanda: ammiro Fellini, Ford, Hitchcock ma dive come la Dietrich sono una fantasia maschile
di Rossana Rossanda


Il senso «politico» di un film, come di ogni narrazione, dipende in gran parte dal contesto in cui si sviluppa. La produzione americana corrente negli anni Cinquanta, con eroine in gran parte emancipate, con i seni prorompenti e lacrime illimitate, proponeva creature «libere» sotto l’aspetto della legge e dei soldi, ma soggette a un assai tradizionale codice familiare sessuale. Perfino le trasgressioni della deliziosa Hepburn stanno dentro i suoi confini, più avanti vanno alcuni Lubitsch. Resto in guardia perché anche io ne sono stata preda da ragazzina: il «sogno d’amore» analizzato da Lea Melandri è attaccaticcio. Recentemente ho sussultato rivedendo Rebecca, la prima moglie , memore che un tempo mi appassionai per Joan Fontaine e quel lumacone di Laurence Olivier; oggi vorrei che alla sua terza rispostaccia la poverina, invece di tormentarsi, gli avesse mollato una sberla. Qui siamo su un confine minato. Tutta l’ammirazione per Hitchcock non mi impedisce di scorgere il sadismo della coppia Kelly-Stewart nella Finestra sul cortile . Forse siamo alquanto sadici tutti, felici se possiamo catturare e fin mandare a morte il prossimo nel plauso generale.
Se definiamo «inconscio collettivo» alcune pulsioni selvagge, le passioni in senso spinoziano «patite», dobbiamo riconoscere che il cinema vi gioca a fondo, impattando su di noi per il peggio e, più raramente, per il meglio. Nessuna comunicazione è altrettanto potente sulle viscere, nessuna altrettanto suggestiva quindi anche strumento «politico», direttamente o indirettamente, in modo esplicito o insinuante. Cosa che induce a riflettere su quel che definiamo «spontaneo» e «popolare». In verità il cinema rispecchia ma suggerisce, come è proprio dell’immagine, meno capace della parola di scavare in profondità e inoltrarsi nella astrazione, ma imbattibile sotto il profilo emotivo. Alla fine della lunga conversazione con Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, la mia riflessione sul comunicare si è fatta più complessa: non so se sia avvenuto lo stesso ai due miei compagni. La riflessione è quel che resta ai vecchi, mentre essi hanno la fortuna — che si misura tardi — di non esserlo ancora.
Da queste basi si è diramato il nostro scambio di idee e di giudizi. Dopo un’intesa totale sul primo film russo, specie Ejzenštejn (anche se un po’ forzato, mi pare, sul piano della storia e problematica della rivoluzione fino agli anni Trenta) siamo andati differenziandoci su alcuni accenti. Non adoravo Riso amaro , ma non ho considerato liberatoria la Nouvelle Vague: da che cosa ci avrebbe liberati se non dal faticoso «impegno»? Ammiro l’eleganza di Antonioni ma non mi affascina, mi interessa di più Pasolini, malgrado il suo vagheggiare età dell’oro primarie e contadine, che ha fatto strage nelle giovani menti degli anni Ottanta e Novanta, come nei Settanta erano state vampirizzate dalla fabbrica. Resto una figlia dell’epoca industriale. Diversamente dai miei due esperti, ho grande simpatia per Fellini, perché poi ci sono i gusti e le fantasie e gli amarcord di ciascuno. Pasolini era schietto, scorticato e commovente quanto Fellini affabulatore, controllato e ironico; di rado una produzione traduce del tutto la persona. Ho preferito di molto i «realisti» italiani alla stagione prebellica francese, per non parlare di quella postbellica oltrealpina verso la quale sono sicuramente ingiusta. E poi ci sono i (per me) piacevoli ma, pare, assolutamente secondari film inglesi e c’è l’universo americano, che ci seduce come nessun altro anche quando se ne scorge una mediocre tessitura ideologica. In verità il cinema non è soltanto un prodotto del Novecento, ma degli Stati Uniti, anche se con grandi lampi qua e là nel mondo, perché frutto di un meticciato culturale che si coagula a Hollywood, approdo di italiani, ebrei, austriaci, tedeschi e inglesi che vi riparano provenendo da tutte le parti. Essi lo hanno colorato assai diversamente da quel che consideriamo la medietà americana, che è un prodotto complicato sotto la vernice individualista e liberista, che ha conquistato l’egemonia mondiale ben prima della mondializzazione.
Ma non senza fratture e luci: è come se il cinema americano si rapprendesse da varie cucine e spezie, e l’Europa desse il meglio da una certa distanza. Naturalmente Mariuccia e Roberto e io abbiamo un occhio diverso; amiamo incondizionatamente e assieme alcuni grandi come, oltre ai fondatori, gli evergreen Ford e Lubitsch, ieri gli Orson Welles e gli Anthony Mann, oggi il pur sovrabbondante Scorsese. Li vedo e rivedo con gaudio (non finisco mai di rivedere, ogni volta scoprendo questo o quello). Ma diffido grandemente della produzione — spesso gradevole — che ci inondò negli anni Cinquanta, abile esercizio di vero e proprio imperialismo estetico e culturale.
La zuffa fra noi tre si verifica però sul dopo, potremmo farci a pezzi su quelle che giudico inclinazioni alla favola, tipo Guerre stellari , su di esse sono intollerante. Non succede soltanto a Ciotta e Silvestri né con il cinema, c’è in vari campi una pressione a rimuovere il rigore razionale e la complessità della storia a favore di un piacevolmente semplificatorio fantastico. La «mia» lotta di classe, che mi dà ragione di molte cose, viene appiattita in un continuum della psiche umana.
È vero che dell’alienazione operaia, proprio perché tale, non c’è molto da dire e la parabola dei socialismi reali è stata fatale alle sue lotte. Ma l’operazione in corso da trent’anni non è innocente: perfino la presa d’atto del degrado cui l’industrialismo ha sottoposto la natura, è piegata all’incriminazione del movimento operaio, colpevole di «sviluppismo», velleità sciagurata e necessariamente autoritaria di liberarsi dalla proprietà. Più attraente è il ribellismo, anche se finisce male — volete mettere James Dean con, che so, un qualunque Michael Collins — per non dire degli impressionanti androidi, jedi e avatar, semplicisti fantasmi liberati da una tecnologia scatenata? Sfuggono al diluvio ogni tanto alcune produzioni indipendenti, in genere venate di sarcasmo o malinconia, dagli autori poco noti o personaggi a parte come Woody Allen o i meno accattivanti fratelli Coen e altri. Sui quali in genere tutti e tre concordiamo, come sul già sulfureo Clint Eastwood, che amiamo quali che siano le sciocchezze che gli succeda di fare come testimonial politico. Un film si giudica dal film, non accorciamo le distanze fra piani di esperienza. Il cinema, insisto, ne incrocia moltissimi e, felicemente, non li assorbe uno nell’altro, l’ibridazione resta evidente.
Sempre nella conversazione, nel rileggerla e modificarla, Mariuccia e Roberto mi hanno fatto scoprire interi paesaggi sconosciuti, come il Giappone degli anni Venti, che si è aggiunto a meraviglie più tardive, delle quali sapevo un poco, pochissimo: Ozu, naturalmente Kurosawa e prima Mizoguchi. Dell’India sapevo soltanto di Satyajit Ray, mentre di Corea e Iran, come di tutti i cosiddetti paesi terzi, quasi niente, salvo un regista (Kiarostami) e i due o tre titoli sorprendenti che ogni anno sforano il muro occidentale. Ben poco ne approda nella grande distribuzione, restando zona di caccia appunto degli addetti ai lavori. Mi sono chiesta anzi più di una volta se per Mariuccia e Roberto valeva la pena di parlare con una annosa e arrogante comunista, tipica spettatrice di quel che viene distribuito, e per il resto ignorante come una talpa.
Naturalmente Mariuccia e io abbiamo sfiorato l’immagine della donna, di cui il cinema funziona da insuperabile modello. Mariuccia adora le bellissime e cattive da esso coltivate, la pistola puntata sull’uomo di turno, incantato raggirato e un po’ stupido, vedi perfino come si racconta un grande, Orson Welles, nella Signora di Shanghai . Roberto mi ha messa alle corde con alcune sconosciute femministe americane; ma resto di marmo. La diva mi appare sempre un sogno di lui, soggezione al suo fantasma, anche quando qualche splendida malvagia ne trae vendetta. Il cinema è maschio, sedotto e misogino, perpetuo von Sternberg di fronte a Marlene. Le rare Thelma e Louise si liberano per pochi giorni e tirate per i capelli ma finiranno inesorabilmente spiaccicate nel Grand Canyon.

Corriere La Lettura 17.11.13
Dopo il comunismo, stanno tramontando il mito della globalizzazione e il culto della rete
Ma l’ideale di un’ottima forma di governo è un fattore di stimlo per ogni impresa umana
Il nocciolo da salvare nel falò delle utopie
di Umberto Curi


Nell’edizione definitiva dell’opera di Thomas More intitolata De optimo reipublicae statu, deque nova insula Utopia , pubblicata nel 1518, si leggono alcuni versi che ben sintetizzano il contenuto e le finalità del testo. «Gli antichi mi chiamarono Utopia per il mio isolamento; adesso sono emula della Repubblica di Platone, e forse la supero (...), sicché a buon diritto merito di essere chiamata Eutopia ». Fin dall’exergo del libro, dunque, si coglie subito l’originaria e costitutiva ambivalenza del nome scelto. Da un lato, infatti, l’etimologia greca ou-topos («non-luogo») starebbe a indicare che quell’isola, sede di un’ottima forma di Stato, semplicemente è un’isola che non c’è . Dall’altro lato, se ci si richiama invece all’etimologia eu-topos («buon luogo»), si dovrebbe concludere che, per quanto remota e forse inaccessibile, l’isola esiste e coincide con un «luogo» che per antonomasia può definirsi «buono».
Quanto poco estrinseca o occasionale fosse la duplicità ravvisabile nel titolo risulta altresì confermato dalla nomenclatura dei luoghi e dei personaggi. Anidro , letteralmente «senz’acqua», è il fiume che la attraversa. Ademo , «privo di popolo», è chiamato il principe che la governa. Amauroto , «senza gloria», «mancante di luce», è il nome della capitale di Utopia . L’insistente iterazione dell’alfa privativa ci fa capire fino a che punto l’umanista More non si fosse «sbagliato», nominando Utopia quell’isola (come pedantemente all’epoca gli fu contestato, osservando che l’ou- agisce con valore negativo come prefisso a verbi, ma non a sostantivi, per i quali invece la stessa funzione è esercitata dall’a- privativa).
La scelta di quel nome obbedisce dunque a un proposito esplicito, che potrebbe essere sintetizzato nei termini seguenti. Quella forma di governo, nella quale compiutamente si attuano non solo gli interessi, ma anche le aspirazioni e le speranze dei cittadini, quella che dunque pienamente e senza residui realizza ciò che ci si attende dalla politica, è un «luogo» che da un lato è eu- , e dunque è intrinsecamente «buono», ma insieme dall’altro è ou- , un «non-luogo», un sogno irrealizzabile.
Sono intuitive, oltre che particolarmente importanti, le implicazioni sul terreno politico, oltre che sul piano teorico, della duplicità alla quale si è fatto fin qui riferimento. Nella misura in cui si ritenga che l’ottima forma di governo, ancorché difficile da raggiungere, pur tuttavia sussista, si potrà ragionevolmente proporsi di realizzarla, o almeno di approssimarsi ad essa quanto più possibile. Mentre ove si consideri che essa non si trovi «in nessun luogo», il «senso» stesso della politica, le sue finalità generali e i suoi obiettivi non potranno che risultarne fortemente ridimensionati.
Nel mondo antico, l’esempio concettualmente più vicino all’isola descritta da More, e da lui esplicitamente citato nell’opera, è il dialogo che Platone dedica allo Stato, la Repubblica . L’interpretazione di gran lunga prevalente (e sostanzialmente fuorviante), propone di leggere lo scritto platonico come delineazione di un presunto Stato ideale. È vero piuttosto il contrario. Come è confermato dal riferimento ad altri testi coevi o immediatamente successivi (il Protagora e il Politico , soprattutto), il filosofo rileva una strutturale e irrimediabile «malattia» dello Stato, conseguente a quella grande catastrofe cosmica che ha ribaltato il corso degli eventi fisici e biologici. A seguito di quella metabolé , gli uomini si trovano ora a vivere in un mondo in cui tutto gira alla rovescia, anche perché Dio non agisce più come pastore del mondo. Per consentirci di sopravvivere, pur non potendoci più considerare «gregge divino», a noi sono stati concessi alcuni strumenti imperfetti — primi fra tutti la politica e altre «tecniche» — utili a evitare l’estinzione del genere umano. In questo scenario, l’ottima forma di governo resta davvero una utopia , un «non luogo», come semplice «memoria» di una condizione originaria dalla quale siamo «caduti», ma alla quale non potremo comunque ritornare. Già in Platone, dunque, affiora il significato prevalente, col quale il termine utopia ritorna nella tradizione del pensiero politico europeo.
Coerentemente con la dichiarata ambivalenza della nozione di More, in particolare negli ultimi cinque secoli, l’utopia è stata intesa da un lato come eccedenza, come «misura» dell’inadeguatezza dello stato presente, mai compiutamente riconducibile a un modello astratto, e dall’altro come una sorta di ideale regolativo, capace di orientare la costruzione delle forme politiche concrete.
L’Ottocento resta il secolo delle grandi utopie, prima fra tutte quella marxista. Con una peculiarità che può funzionare anche come parziale spiegazione del fallimento del progetto comunista. Nei sistemi politici che hanno tratto spunto dalle pagine del Capitale si dissolve la duplicità insita nella formulazione iniziale. Lo Stato perfetto non è anche un «non luogo», come tale inattingibile. È semplicemente un «buon luogo», quella forma compiuta a cui non manca nulla, che è ragionevolmente possibile tradurre nella pratica.
Inseguendo l’ideale di una giustizia sociale concretamente realizzabile su questa terra, il comunismo ha finito per dar vita alle espressioni di ingiustizia radicale e stridente. D’altra parte, non si può dire che abbiano avuto sorte migliore quelle che avrebbero dovuto essere le alternative all’idolatrica convinzione, implicita nel comunismo, di una giustizia perfettamente realizzata. La globalizzazione stessa, originariamente intesa come estensione all’intero pianeta del benessere economico, si è rivelata alla prova dei fatti generatrice di storture e iniquità. La tanto incensata utopia digitale, la nuova religione della Rete, proposta come strumento infallibile per l’instaurazione di una autentica democrazia, come accesso orizzontale di tutti i cittadini al processo decisionale, sempre più si manifesta come agente di nuovi processi di ristratificazione sociale. Mentre non si è ancora spenta l’eco del tracollo dell’utopia comunista, già si intravede il fallimento delle utopie che avrebbero dovuto rimpiazzarla.
Nel Protagora di Platone, interpretando in maniera originale il mito di Prometeo, si indica quale sacrilegio il tentativo del Titano ribelle di donare agli uomini dike , la giustizia, la cui dimora è presso Zeus. Della vicenda teorica e storica delle utopie resta tuttavia un insegnamento incancellabile, che dovrebbe agire come monito anche nella situazione attuale. La politica non può che custodire un nocciolo di utopia, di ricerca di un’«ottima forma», perché questo è un ingrediente imprescindibile, un fattore di stimolo, di ogni importante impresa umana. Ma senza mai dimenticare che dike abita presso Zeus.

Corriere La Lettura 17.11.13
L’ultimo sfregio alla valle di Malala
Sessant’anni di missione italiana, mille pubblicazioni, un museo appena riaperto
Ma a giugno gli archeologi torneranno a Roma: fondi finiti. E i talebani rialzano la voce
di Francesco Battistini


Sparategli. Arrampicatevi sulle loro facce. Fate dei fori e metteteci l’esplosivo. E copritele di rifiuti, rovinatele… C’è una remota regione del Pakistan, lo Swat, dove i mullah più estremisti coltivano ogni tanto la loro principale ossessione: le statue dei Buddha. E prima ancora d’insultare la giovane Malala che chiedeva solo d’andare a scuola (se ne stia in Inghilterra ad aspettare il Nobel e non torni mai più dalle nostre parti!...), ben prima d’alzare gli osanna al nuovo capo talebano Fazlullah, chiamato Mullah Radio per il vezzo d’arringare la valle in onde Fm (il «nostro figlio prediletto» che a Malala ha fatto sparare, possa riportare l’emirato in tutto il Pakistan!...), càpita che qualche fanatico se la prenda pure con le pietre sacrileghe. Con gli stucchi dei templi brahmanici. Con le meraviglie della tradizione Gandhara.
Questo non è il Mali, beninteso, e i Taliban non sono potenti come a Bamiyan: un piano sistematico di devastazione non si vede. Però questa è la terrasanta di chi crede che il Buddha si sia incarnato, che le sue ceneri siano nascoste chissà dove in qualche stupa, e Mullah Radio non ci dorme la notte: insopportabili quelle cupole, così dominanti; inaccettabili quei monasteri, così appariscenti. Lordare, dunque. E dissacrare. E picconare. Far capire che c’è un solo dio. I fedeli hanno provveduto: oggi la distruzione è ben visibile, scrive il giornale pakistano «Express Tribune», e un po’ per l’usura del clima, molto di più per il vandalismo, decine di capolavori scolpiti nella roccia si stanno consumando. E come Malala, portano per sempre i segni dello sfregio.
Scavare e salvare le pietre non è mai stato facile, nello Swat. Da sessant’anni lo fanno gl’italiani: vi arrivarono nel 1955 con il grande orientalista Giuseppe Tucci, vi aprirono la più longeva missione archeologica di questa parte d’Asia. Hanno scoperto gioielli come la parete istoriata di Gogdara I (1600 a.C.), le mura dell’antica Bazira d’Alessandro Magno, dissotterrato i più belli tra le centinaia di monumenti buddhisti, restituito al culto la terza più antica moschea del Pakistan, recuperato duecento incisioni rupestri, e poi tombe, manufatti, le origini della nostra cultura indoeuropea… La rivista americana «Archaeology» considera l’area di Barikot, dove Allah s’è sostituito alla secolare tradizione buddhista, fra i dieci siti più affascinanti e insieme più pericolosi del mondo.
Verde nei monti e verde d’Islam, la valle era «una specie di Svizzera» per la regina Elisabetta che la visitò e ne rimase incantata. «Giardino», significava il suo antico nome Uddiyana, e «un giardino dell’Eden» la descrive nostalgica la piccola Malala, nella sua autobiografia: fiumi di trote, montagne candide, frutteti, giacimenti di smeraldi, qua e là le statue e i resti di civiltà andate… «Questo è il paradiso d’ogni archeologo», si disse anche Luca Maria Olivieri, ventiseienne romano fresco di laurea, quando venne a lavorarci e decise di non andarsene più. Oggi Olivieri ha 51 anni ed è il capo della missione italiana. I talebani hanno interrotto i suoi lavori nel 2007, per tre anni, i più duri: «Lasciammo lo Swat e non pensavamo che sarebbe stata così lunga. Pochi giorni dopo la nostra partenza, l’11 settembre, spararono colpi d’arma automatica contro il volto del Buddha di Jahanabad. Poi s’arrampicarono sul rilievo rupestre e vi praticarono alcuni fori, che furono riempiti di esplosivo. Alcune cariche distrussero il volto, altre rimasero inesplose, lasciando la gigantesca immagine mutilata del viso…».
Olivieri è potuto tornare, i restauri pattugliati dall’esercito pakistano. In silenzio, ha ricominciato a lavorare e adesso non gli piace che si parli troppo delle difficoltà. Davanti a un caffè, in un albergo d’Islamabad, ironizza sulla scontata icona dell’archeologo-eroe: «Curiosamente, l’attenzione dei media per il nostro lavoro è aumentata da quando nello Swat si parla di Malala: cominciate con domande vaghe sull’archeologia, e poi finite a chiedere dei talebani…». Discorso inevitabile: nello Swat c’è anche il Museo archeologico che il Tucci fondò cinquant’anni fa. Mezzo distrutto dal terremoto del 2005, è stato indirettamente colpito nel febbraio 2008 da una bomba firmata Mullah Radio, settanta morti. Rimasto chiuso durante l’emirato islamico proclamato in tutta la vallata, bloccati gli scavi, il museo ha salvato le sculture dell’epoca Gandhara e islamica e solo pochi giorni fa, l’11 novembre, ristrutturato su disegno degli architetti Ivano Marati e Candida Vassallo, è stato finalmente riaperto fra qualche batticuore: cerimonia con l’ambasciatore Adriano Chiodi Cianfarani, messaggio del presidente Napolitano, consegna al governo provinciale, immagini sulla Cnn.
«Tutti i reperti — spiega Olivieri a “la Lettura” — sono stati riportati al loro posto. Questo museo è la memoria della nostra presenza qui: c’è perfino l’originale d’una Fiat Campagnola che Tucci usava per esplorare la valle…». Come la prenderanno i talebani, questa storia del museo, non si sa. Si sa però come la prenderanno gl’italiani. Al solito: sbaraccando la missione. Quasi sessant’anni di lavoro, mille pubblicazioni scientifiche (il 90 per cento in inglese), a giugno si chiuderà tutto. L’ha deciso nel 2012 il governo Monti con la liquidazione dell’Isiao, l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, e la spending review s’è rivelata più ostica di Mullah Radio: addio a Tucci, allo Swat, agli scavi. Finora, i due milioni d’euro per finanziare l’operazione museo s’erano trovati con un accordo tra la Cooperazione e il governo d’Islamabad, che aveva rinegoziato il suo debito con l’Italia, collocato guide turistiche e guardiani, dato lavoro alle famiglie dell’intera zona. In realtà, fa i conti Olivieri, «adesso basterebbero 9 mila euro l’anno almeno per mantenere la sede, i custodi e i restauratori locali, i depositi di materiali, altri 25 mila per salvaguardare la moschea, Udegram, i siti buddhisti di Gumbat e Amluk-dara, l’area di Barikot, Bazira... Per gli scavi, chiaro, occorrono finanziamenti ad hoc». Altrimenti, avanti coi tombaroli: «Basta vedere i cataloghi delle case d’asta di tutto il mondo, per capire l’impatto del mercato illegale d’opere gandhariche: temo che si tornerà allo scavo clandestino...».
Quod non fecerunt Taliban … «La fine della missione è la perdita d’una posizione faticosamente creata e mantenuta, anche nei momenti più difficili. Per chiudere, ci vuole poco. Per creare rapporti, fiducia e prestigio, servono decenni. Chiudere significa solo sradicarsi e tornare da dove siamo venuti sessant’anni fa. Che dire? Altri continueranno quel che noi non potremo più fare: sarà il nome dell’Italia a perdere posizione, una volta ancora». E la voce di Mullah Radio a ritrovare le sue frequenze.

Corriere La Lettura 17.11.13
Paul Dirac , il Trotzkij della fisica teorica
Esce in Italia da Indiana un’antologia dello scienziato britannico che scoprì l’antimateria Sposò, nel nome della bellezza, la meccanica quantistica con la relatività. Il Nobel nel 1933
di Giulio Giorello


«I l matematico partecipa a un gioco di cui inventa le regole, mentre il fisico partecipa a un gioco le cui regole sono fornite dalla Natura; ma con il passare del tempo diventa sempre più evidente che le regole che il matematico trova interessanti sono quelle stesse che la Natura ha scelto». Così, sul finire degli anni Trenta del secolo scorso, Paul Adrien Maurice Dirac riformulava l’intuizione di Galileo per cui il mondo è un libro «scritto in caratteri geometrici». Curiosamente, in un momento in cui spesso si lamenta la mancanza di coraggio dell’editoria italiana, è proprio nel nostro Paese che, per la prima volta al mondo, esce un’antologia degli scritti in cui il grande fisico britannico affronta il tema del ruolo della matematica nella scoperta scientifica. Il curatore, Vincenzo Barone, professore di Fisica teorica all’Università del Piemonte orientale, fa propria la battuta che Dirac vergò su una lavagna a Mosca il 3 ottobre 1956: «Le leggi della fisica devono essere dotate di bellezza matematica». E non a caso è stato scelto come titolo del volume La bellezza come metodo. Saggi e riflessioni su fisica e matematica (Indiana editore).
Ma se ai tempi di Galileo era Dio a garantire delle buone intenzioni della Natura, Dirac nel periodo della sua maggiore creatività (Nobel per la fisica nel 1933) era più affascinato dalle conquiste sociali del materialismo dialettico sovietico che dalle sottigliezze della teologia, e si guardava bene dallo scandagliare la mente dell’Onnipotente. Uno dei suoi più maliziosi colleghi, il viennese Wolfgang Pauli (anch’egli insignito del Nobel, ma solo nel 1945), soleva dire che «il primo comandamento della religione di Dirac recitava: non c’è alcun Dio, ma Dirac è il suo profeta». Con il passare degli anni Dirac avrebbe a modo suo riconosciuto un ruolo a Dio nell’universo: quello di «un matematico di altissimo livello». Forse la provocazione di Pauli non sarebbe del tutto dispiaciuta a quel genio taciturno, solitario e introverso — per alcuni al limite dell’autismo — che sconcertava gli uditori alla fine di una lezione con osservazioni come questa: «Qualcuno ha una domanda?» «Sì, io. Non ho capito l’ultimo passaggio». «Questa non è domanda; è una constatazione».
Del resto, pare che persino Albert Einstein e Niels Bohr trovassero tanto incomprensibile il suo carattere quanto splendida la sua matematica. Eccentrico tra gli eccentrici, segnato da una tragica storia familiare, appassionato di Chopin e Topolino, timido con le donne, almeno sino al grande amore con Margit (Manci), insofferente dell’arroganza dei politici sia del «mondo libero» che dell’Urss stalinista, scettico sulla possibilità di comunicare a parole buoni sentimenti, Dirac doveva aggrapparsi al suo ideale estetico come a «una roccia che può sopravvivere a ogni tempesta». Come in un dipinto di Raffaello o di Rembrandt, ogni efficace descrizione della realtà fisica deve avere quei caratteri di unità, necessità e semplicità che già nel Settecento, secondo il filosofo irlandese Francis Hutcheson, caratterizzavano i teoremi matematici dotati di bellezza, come osserva ancora Barone (si veda il suo L’ordine del mondo . Le simmetrie in fisica da Aristotele a Higgs , Bollati Boringhieri).
Certo, l’ideale estetico può variare, ma per Dirac la bellezza è sempre rivoluzionaria, nella scienza ancor più che nell’arte. La matematica, per poter essere utilizzata nell’indagine del mondo fisico deve «spostare continuamente i propri fondamenti e diventare sempre più astratta». Questo processo, che probabilmente non avrà mai fine, rivela orizzonti sempre più lontani dalla superficie delle apparenze, così che la stessa crescita della conoscenza della natura sembra affidata «a un’incessante modificazione dei principi che stanno alla base della matematica pura». Vinta la ritrosia dell’innovatore che si trova a sfidare la costellazione dei pregiudizi stabiliti, e imbrigliati i suoi stessi demoni interiori, Dirac doveva rivelarsi «il Trotzkij della fisica teorica», come lo ha definito il suo maggior biografo Graham Farmelo (L’uomo più strano del mondo. Vita segreta di Paul Dirac, il genio dei quanti , Raffaello Cortina): Dirac aveva fatto della propria mente «un autentico dispositivo per ipotizzare leggi in grado di spiegare le osservazioni empiriche», e in particolare se ne era servito «per combinare un matrimonio improbabile tra la meccanica quantistica e la teoria della relatività di Einstein nella forma di una bella equazione che descrivesse l’elettrone» (1928). Per poi, pur senza alcuna indicazione sperimentale che glielo suggerisse, ricorrere a quella stessa equazione per predire l’esistenza dell’antimateria: particelle dotate della stessa massa di quelle ordinarie, ma di carica opposta (1931).
Oggi congetturiamo che ciò che era comparso all’inizio del Big Bang sarebbe stato composto in parti uguali di materia e antimateria; solo più tardi la materia a noi più familiare avrebbe prevalso. Dirac «è stato il primo a intravvedere l’altra metà dell’universo primordiale, e tutto ciò solo tramite la forza del ragionamento». Le conferme sperimentali sarebbero venute solo un anno dopo, quando l’americano Carl Anderson constatò che nei raggi cosmici era presente una particella con le caratteristiche predette dalla teoria di Dirac, che battezzò «positrone». Adesso sappiamo che persino noi esseri umani conteniamo dell’antimateria, e che quella prima antiparticella può salvarci la vita, come dimostra l’impiego clinico della Pet (ovvero tomografia a emissione, appunto, di positroni)!
Questo radicale ripensamento della struttura della realtà e della nostra esistenza inevitabilmente rimanda a quella «meraviglia» — una miscela di «speranze e paure», come recita il titolo di uno (1969) dei saggi raccolti in La bellezza come metodo — che per gli antichi era la molla dell’interrogazione filosofica. Eppure, confessava Dirac in un’intervista rilasciata nel 1962 ad Alberto Cavallari per il «Corriere della Sera» (raccolta l’anno successivo nel volume L’Europa intelligente , Rizzoli), «quando ho anticipato la scoperta dell’antimateria, e quindi dell’antimondo, tutti hanno parlato di filosofia. Ma io non l’ho cercata questa filosofia. Sono stato costretto ad accettarne l’esistenza dalla matematica».

Corriere La Lettura 17.11.13
L’ordinaria violenza alla dignità dell’uomo
La mancanza di lavoro, le difficoltà della famiglia, le incomprensioni a scuola:
lo psichiatra Eugenio Borgna riflette sulle nuove forme di disagio all’interno della società
di Cinzia Fiori


La psichiatria è una disciplina di confine, sospesa tra un’origine scientifica, filiazione del sapere medico, e la vocazione agli strumenti delle scienze umane. L’imponente lavoro che Eugenio Borgna è andato realizzando in 83 anni di vita si articola perciò in diversi ambiti. Direttore emerito di psichiatria all’ospedale Maggiore di Novara, è stato dal 1963 primario e poi direttore dell’ospedale psichiatrico, dove ha attuato una rivoluzione istituzionale simile a quella che Franco Basaglia conduceva a Gorizia e poi a Trieste. La scioltezza saggistica, che è venuta delineandosi nei suoi libri degli anni Duemila, aperti al dialogo con il grande pubblico, ha alle spalle quasi cinquant’anni di lezioni universitarie, convegni, seminari e tanta pubblicistica scientifica. Ora, dopo Elogio della depressione e Di armonia risuona la follia , esce La dignità ferita (Feltrinelli) , un tema sul quale Borgna riflette da vent’anni a partire da quel che accadde nella Germania nazista dove, con la connivenza della psichiatria, vennero individuate e perseguitate persone, i malati psichici, considerate non degne di vivere.
Pur nell’impossibilità di fare paragoni con quei tempi d’obbrobrio, non si può non domandarsi se la nostra dignità sia ancora in pericolo. «Sopravvive il pregiudizio nei confronti di chi soffre di problemi psicologici — risponde Borgna a “la Lettura”—. Sono persone guardate con inquietudine e sospetto, partendo dalla tesi che si sia normali soltanto se non si provino ansia, tristezza, nostalgia, angoscia. Sentimenti visti come patologici, ma anche portatori di una sensibilità umana che apre i cuori. Eppure, chi soffra di problematiche psicologiche, chi sia ospitato, anche solo per qualche giorno, in un servizio di psichiatria, magari per una depressione, tanto diffusa di questi tempi, ancora oggi quella persona viene stigmatizzata come qualcuno da cui è meglio stare lontani. Questo accade anche per via di una certa freddezza con cui si guarda alle conquiste della psichiatria basagliana, che hanno portato l’Italia al primato scientifico e culturale rispetto agli altri Paesi, spingendo la disciplina verso frontiere più umane e aperte alla speranza. Il dolore della sofferenza psichica è paragonabile soltanto a quello di chi ravvisa un’esperienza oncologica eppure rimane socialmente non riconosciuto, non accettato, non aiutato».
Ma il dolore può essere considerato un’esperienza dotata di senso anche al di fuori di un orizzonte religioso? «Distinguiamo, per un momento, sia pur artificialmente, il dolore del corpo da quello dell’anima. Dapprincipio la neurofisiologia considerava inutile il dolore del corpo perché, alla guarigione, viene rapidamente dimenticato. Nel caso del dolore dell’animo, si può guarire, ma l’avere sofferto non passa mai. Nelle ore del patimento entriamo in contatto con la nostra vita interiore, con esperienze emotive altrimenti non percorribili. Le tracce che restano ci trasformano. Rilke ha detto che soltanto quando la sofferenza psichica ci colpisce possiamo cogliere in noi risorse potenzialmente creatrici. Non c’è conoscenza né esperienza creativa senza sofferenza. Il fisico sfugge a lasciti così profondi. Ma corpo e mente non sono separati, come si è scoperto. Ogni malattia organica, specie se grave o protratta, ha risonanze nella vita psichica, perché, per dirla con Gadamer, entriamo in contatto con la nostra fragilità. È una conoscenza che ci aiuta a comprendere meglio le nostre attitudini interiori, scopriamo sentimenti, emozioni e magari anche problemi che altrimenti non avemmo mai potuto cogliere e sondare».
Dolorosa e purtroppo frequente è la condizione di chi viene estromesso dal lavoro. Il professore non nega che i disoccupati possano, e di frequente, riportare ferite alla dignità, che il sentirsi inutili, perché improduttivi, metta in una condizione di disuguaglianza indotta. Ma ritiene limitativo considerare la dignità legata al lavoro, come avviene nella nostra Costituzione. Preferisce riferirsi a quella tedesca, dove è scritto che lo Stato deve proteggere e tutelare la dignità di ogni individuo. «La dignità è un valore assoluto e universale. Intenderla in questo senso significa comprendere in essa la mancanza di lavoro, ma anche non dimenticare che ci sono ferite inferte alla dignità sul luogo di lavoro o in famiglie in cui tutti lavorano. Certi suicidi nascono dalla percezione che le persone più sensibili hanno delle ferite alla propria dignità, le patiscono più le donne degli uomini, più gli adolescenti degli adulti e nascono nell’ambito di rapporti umani che trascurano i fondamenti di una vita di relazione fatta di ascolto, gentilezza e pazienza».
Ineludibile, a questo punto, la domanda su che cosa sia e dove risieda la dignità. «È l’esigenza che ciascuno di noi ha di essere riconosciuto, rispettato, se possibile interpretato nei gesti, nei comportamenti e nelle parole. Ci sono dignità assolute: ogni persona ha gli stessi diritti e gli stessi doveri. Qualunque sia il nostro livello di intelligenza, il nostro problema o la malattia che alberga in noi, la dignità esige che noi si venga considerati, accettati e che ci vengano prestate le cure necessarie esattamente come a chi vive un’esistenza normale o addirittura risplendente di fama. Se calpestiamo qualcuno, ne calpestiamo l’interiorità e la soggettività che sono il nocciolo essenziale di ogni forma di dignità. Parlerei di una macrodignità, la più visibile, quella che venne ferita in Germania durante il nazismo e torna ad essere ferita oggi nelle tratte della morte in partenza dall’Africa. E la distinguerei dalla microdignità, meno visibile e perciò oggi più facilmente trascurata e ferita con conseguenze drammatiche. Esige, per esempio, questa dignità, che si sia rispettati nei propri sentimenti e nelle proprie emozioni da parte delle istituzioni o di chi nella vita ordinaria ha ruoli di comando e che a chiunque, compreso un mendicante che ci chieda qualcosa, si risponda cercando di evitare il distanziamento e il pregiudizio perché la nostra indifferenza, distruttività, incapacità di ascolto non provochino ferite evitabili e per questo più odiose».
Eugenio Borgna propone nei confronti dei migranti giunti qui un particolare tipo di ascolto. Per questo nel libro prospetta il tema dell’ignoto, lo stesso ignoto in cui sono immerse le nostre esistenze e che noi preferiamo rimuovere. «Possiamo trascorrere una vita scivolando sulla superficie delle esperienze che facciamo, delle emozioni e dei sentimenti che le accompagnano. Queste forme sbrigative di esistenza considerano anche con dolore l’esperienza di chi è caricato sui vascelli della morte. È ovvio che si sia sensibili alla scelta tra vivere e morire. Ma c’è un secondo modo di vivere che è accompagnato da un’attenzione più partecipe. Che cosa sappiamo di queste persone, ignote a noi quanto noi lo siamo per loro? Proviamo a pensare all’esperienza del tempo interiore, come esperiranno le ore della traversata? In che misura l’angoscia si tempererà con una speranza? E la nostalgia, quando e quanto morde? Si tratta di provare a comprendere che cosa si muova nella vita interiore nostra e degli altri, soltanto allora, per dirla con un bellissimo libro di Hoffmannsthal, l’ignoto appare».
La psichiatria, sostiene Borgna, realizza appieno se stessa se svolge anche un ruolo preventivo. La scuola, dice, è in prima linea. «Non si può essere insegnanti se non si hanno attitudini psicologiche. Invece i criteri di selezione continuano a basarsi sul nozionismo. Il livello di formazione emozionale dei professori dovrebbe essere la premessa, occorre pathos anche per trasmettere conoscenza. Senza una preparazione psicologica è impossibile entrare in contatto con le emozioni degli alunni: dietro agli atteggiamenti anche più sfrontati, si nasconde spesso una disperata esigenza di aiuto. Ultimamente, a scuola come in famiglia si scambia la timidezza per un handicap anziché trasformarla in risorsa. E questo ha ripercussioni anche nelle relazioni tra compagni. Alcuni suicidi adolescenti nascono da piccole ferite alla dignità che scorrono lungo binari carsici e riemergono pericolose. Gli insegnanti o curano o fanno male, non è possibile l’aurea mediocritas in questo ambito».

Corriere La Lettura 17.11.13
Quel Cézanne è solo mio
Gauguin, Renoir, van Gogh, Picasso, Giacometti & C. la galleria dei capolavori che rischiano di sparire per sempre
di Paolo Valentino


Il signor Ryoei Saito acquistò il Ritratto del dottor Gachet di Vincent Van Gogh il 15 maggio 1990 all’asta primaverile di Christie’s a New York per la cifra di 82,5 milioni di dollari, la più alta mai spesa fino a quel momento per un’opera d’arte. Due giorni dopo l’industriale giapponese, che per pagare avrebbe usato un prestito bancario garantito dal suo impero immobiliare, fece un altro colpo, questa volta da Sotheby’s, assicurandosi per 78,1 milioni di dollari anche Au Moulin de la Galette di Pierre Auguste Renoir. I quadri vennero spediti in Giappone, dove, avvolti nel cotone e deposti in speciali scatole a chiusura ermetica, vennero trasferiti in un deposito di massima sicurezza. Quasi un anno dopo, in una celebre conferenza stampa, Saito rivelò al mondo di essere lui l’acquirente dei due capolavori impressionisti. E fra le altre cose, disse che li amava a tal punto da voler essere cremato insieme a loro dopo la sua morte.
Il signor Saito, non prima di essere stato condannato per concussione, è morto nel 1996. Da allora nessuno ha più visto, né avuto notizie verificabili dei due dipinti. Sono centinaia le opere d’arte, soprattutto impressioniste e moderne, letteralmente scomparse dalla pubblica vista dopo l’acquisto da parte di privati. Parliamo di grandi capolavori, patrimonio della cultura universale, non più rintracciabili e mai più riapparsi sia pur brevemente in alcuna mostra o allestimento. È una schiera sicuramente destinata a ingrossarsi, dopo le aste newyorkesi della scorsa settimana che hanno battuto centinaia di opere, totalizzato incassi nell’ordine di miliardi di dollari: rivedremo mai più, per esempio, la scultura Testa di Diego di Alberto Giacometti, venduta alla cifra record di 50 milioni di dollari? E più in generale, potranno mai milioni di persone nel mondo provare nuovamente l’emozione di osservare dal vivo le tante opere di Picasso, Monet, Cézanne, Gauguin e Kandinskij che popolano questo virtuale museo dei desaparecidos?
Non sono solo interrogativi retorici. Da quando, nel maggio 2004, sempre da Sotheby’s a New York, un anonimo offerente comprò per 104,2 milioni di dollari il Garcon à la pipe , straordinaria tela di Pablo Picasso del periodo blu, nessuno ne ha più saputo nulla. Lo ha comprato Guido Barilla, come vogliono i rumor del mercato, alimentati anche dal silenzio dell’interessato? Ed è stato lo stesso industriale emiliano, come vuole un’altra voce ricorrente, ad acquistare proprio da Saito o dai creditori dopo la sua caduta anche il Ritratto del dottor Gachet ? Identificare l’acquirente è un punto in fondo marginale. Qui interessa soprattutto cercare di capire se rivedremo mai queste opere e se la loro alienazione non ci renda tutti più poveri.
Un dilemma che si complica, diventando più complesso e quasi irrisolvibile per le troppe torsioni storiche e morali, di fronte all’incredibile ritrovamento a Monaco di Baviera degli oltre 1.500 capolavori del Novecento, in buona parte probabilmente sottratti dai nazisti agli originari proprietari o svenduti forzatamente da famiglie ebraiche in fuga, assiepati nell’appartamento di un ottuagenario. Saranno mai restituiti agli eredi? E stanno facendo abbastanza le autorità tedesche per rintracciarli, ovvero puntano segretamente ad acquisirne quanti più possibile per i loro musei? E non sarebbe in fondo una perdita per la collettività se, restituiti, finissero per essere venduti e sparissero anche loro, questa volta per sempre, dalla visione del pubblico? Quando nel 2006 uno dei quadri della serie di Ludwig Kirchner, Scene di strada berlinese , venne restituito dal Brücke Museum agli eredi legittimi, fu subito messo all’asta, battuto per 38 milioni di dollari, e nessuno lo vide più.
Eppure, secondo molti esperti, l’arte non sparisce mai per sempre. «Quello del capolavoro scomparso è un mito. A meno che non sia stato distrutto, incenerito come vagheggiava Saito, prima o poi ricompare», dice Nicholas MacLean, dell’omonima galleria londinese. Quando muore un collezionista, spiega, gli eredi devono dapprima vendere per pagare le tasse di successione e non sempre passano attraverso le aste, che danno il massimo di pubblicità. È possibile, in altre parole, che il Dottor Gachet sia passato discretamente per trattativa diretta da un collezionista privato a un altro: «Prima o poi qualcuno deciderà di metterlo in mostra, magari in un museo che si è costruito da sé». Chi deve sapere comunque sa.
C’è una gara discreta e feroce in corso nel modo dei collezionisti per assicurarsi la collezione di Marc Rich, il finanziere americano condannato per evasione fiscale e poi graziato nel 2001 da Bill Clinton, di cui era stato grande finanziatore. Rich è morto qualche mese fa, lasciandosi dietro uno scrigno pieno, fra le altre, di opere di Picasso, Braque, Mirò, Léger. La trattativa è condotta da suo genero, Kenny Schachter, anche lui collezionista, che avrebbe ricevuto offerte da una mezza dozzina di paperoni da ogni parte del mondo: almeno loro sanno dove sono le opere e probabilmente anche dov’è e chi possiede il Dottor Gachet e Au Moulin de la Galette . E forse non dovremmo preoccuparci troppo, se è vero che una nuova classe di collezionisti, piena di soldi e con tanta voglia di mostrare e mostrarsi, si sta affacciando sul mercato dei grandi capolavori.
Saranno anche nouveaux riches , ma non serve sottilizzare. È il caso della famiglia reale del Qatar, forse in questa fase il maggior acquirente di opere d’arte del pianeta. L’anno scorso avrebbe acquistato privatamente I giocatori di carte di Cezanne, pagandoli 250 milioni di dollari, all’epoca nuovo record mondiale. Per il momento il quadro è come in immersione. Ma l’emiro ha già avanzati piani per un nuovo museo, dopo quello realizzato per l’arte islamica. E allora, con Cézanne, potrebbero riemergere anche i Picasso, i Rothko e i Pollock in suo possesso.
In qualche caso, l’amore per l’arte viene messo al servizio di scopi politici: in Georgia il miliardario e attuale primo ministro Bidzina Ivanishvili ha detto di voler costruire a Tbilisi un museo in stile Guggenheim. Le opere, le colleziona da tempo. Un anno fa, risolvendo un mistero che durava da anni, rivelò di essere stato lui ad aver acquistato nel 2006, attraverso un intermediario, Dora Maar col gatto, la tela dipinta da Picasso nel 1941, pagandola 95,2 milioni di dollari. Sparita al momento, probabilmente potremo andare ad ammirarla nel Caucaso. Guerre permettendo.

Corriere Salute 17.11.13
Gli stili emozionali ora si possono anche misurare
di Danilo Di Diodoro


Lo stile emozionale è il modo più o meno stabile con il quale un individuo risponde alle diverse esperienze della vita. Lo propone Richard Davidson, professore di psicologia e psichiatria alla University of Wisconsin-Madison, autore, con Sharon Begley, del libro “La vita emotiva del cervello” (Ponte alle Grazie, 2013).
L’originalità dell’approccio risiede nel prendere in esame il versante affettivo delle neuroscienze: infatti, per ogni stile emozionale individuato, sono precisati specifici circuiti cerebrali.
Di stili emozionali Davidson ne ha individuati sei diversi: «La resilienza », spiega, «misura la lentezza o la rapidità con cui ci riprendiamo dalle avversità». È un elemento psicologico del quale si è poco consapevoli. Raramente ci si rende conto di trascinarsi dietro emozioni conseguenti a un’esperienza, sia essa positiva o negativa. Il test di laboratorio per valutare il tempo di resilienza è basato sul riflesso di ammiccamento delle palpebre. Dopo un’esperienza negativa, c’è la tendenza ad ammiccare con maggiore frequenza, e il fenomeno persiste fino a che quell’esperienza non è stata interiormente risolta.
Poi c’è la cosiddetta prospettiva , capacità di conservare le proprie emozioni nel tempo. Fortunato chi tende a conservare emozioni positive, ma purtroppo esiste anche chi è un campione nel tenersi stretto emozioni negative, ad esempio di stampo depressivo. In laboratorio sono stati individuati specifici circuiti cerebrali che si attivano e restano vivi finché sono in corso emozioni positive.
Un altro stile emozionale è l’intuito sociale: riuscire a cogliere quegli indizi non verbali che permettono di capire intenzioni e stati d’animo degli altri. Chi ha questo intuito, in laboratorio risulta capace di attivare una specifica parte della corteccia visiva e l’amigdala.
L’autoconsapevolezza ha invece a che fare con la capacità di leggersi dentro. E riuscire a leggere le proprie emozioni è la base per l’empatia, il mettersi nei panni degli altri. «In laboratorio», dice Davidson, «un metodo che utilizziamo per misurare la sensibilità delle persone ai segnali fisiologici interni è la valutazione della capacità di percepire il proprio battito cardiaco».
Riconoscere che un certo comportamento è appropriato in una situazione e non lo è in un’altra è invece definita la sensibilità al contesto , in larga parte intuitiva. Il riscontro neurobiologico di questo stile emozionale si fa con la Risonanza magnetica funzionale, esplorando la zona dell’ippocampo, che secondo Davidson sembra avere un ruolo nella comprensione del contesto.
Infine c’è l’attenzione , la capacità di restare concentrati. Abilità cognitiva, ma con un versante emozionale: infatti, ciascuno ha una soglia di distraibilità a seconda del contenuto emotivo dello stimolo che arriva. «In laboratorio», spiega Davidson, «partiamo da un fenomeno percettivo che prende il nome di attentional blink , letteralmente ammiccamento dell’attenzione : quando uno stimolo cattura la nostra attenzione, nella frazione di secondo seguente non siamo in grado di avvertire altri stimoli. Esiste un semplice test per misurare la durata di questo brevissimo intervallo di cecità o sordità temporanea agli stimoli».

Corriere Salute 17.11.13
I tanti tasselli della personalità
di Danilo Di Diodoro


Per poter comprendere appieno che cosa sono gli stili emozionali individuati da Davidson, è opportuno distinguerli da altre definizioni che indicano i modi di essere. «L’unità emotiva più piccola e sfuggente è uno stato emozionale », dice il ricercatore. «In genere ha una durata di pochi secondi e tende a essere innescato da un’esperienza: la gioia che provate di fronte al collage che vostro figlio ha preparato per la festa della mamma, il senso di realizzazione che avvertite quando portate a termine un importante progetto professionale, la rabbia che vi assale perché sarete costretti a lavorare nel fine settimana, la tristezza che vi coglie quando vostra figlia è l’unica della sua classe a non essere stata invitata a una festa. Gli stati emozionali possono anche nascere da un’attività puramente mentale, come sognare a occhi aperti, guardare dentro se stessi o immaginare il futuro. Ma indipendentemente dal fatto che siano attivati da esperienze reali o mentali, gli stati emozionali tendono a svanire per lasciare spazio agli stati che sorgeranno in seguito». Possono invece durare minuti, ore e anche fino ad alcuni giorni gli stati d’animo , che alle volte sono indicati anche con il termine umore . Un cattivo umore può perdurare per giorni, anche quando ormai è trascorso molto tempo dall’evento che può averlo indotto. Il gruppo di ricerca di Davidson descrive poi con il termine tratto emozionale , un tratto permanente del modo di essere, come quando una persona è costantemente scontrosa o irascibile, a prescindere da quelli che sono gli eventi della sua vita. «Ad esempio consideriamo scontroso qualcuno che sembra perennemente irritato», dice Davidson, «e irascibile qualcuno che ce l’ha sempre col mondo intero».
Secondo il ricercatore americano, gli stili emozionali da lui individuati sono anche decisamente diversi da quella che viene definita personalità . «Questo termine è un modo molto più familiare di descrivere le persone», chiarisce, «ma non ha un ruolo basilare come gli stili emozionali, né ha un fondamento in meccanismi neurologici identificabili. La personalità è costituita da un insieme di qualità di alto livello che comprendono stati e stili emozionali specifici». Quindi, ad esempio, una persona definita amabile avrà tratti emozionali che la rendono premurosa, amichevole e generosa, ciascuno dei quali è a sua volta il prodotto dei diversi aspetti di stili emozionali che possono essere ricondotti a precise “firme” di carattere neurofisiologico.

Repubblica 17.11.13
Il dialogo tra scienza e fede nei numeri di Paul Erdös
di Piergiorgio Odifreddi


Quest’anno si è celebrato il centenario della nascita di Paul Erdös, il matematico più prolifico dello scorso secolo, e un tipicoesempio di “genio e sregolatezza”. Erdös è passato alla storia anche a causa della sua prolificità scientifica, che gli ha permesso di intessere una rete di relazioni nella quale sono catturati praticamente tutti i matematici che non hanno sempre e solo lavorato in isolamento.
L’idea è di assegnare un numero a ciascuno di essi, incominciando da Erdös stesso, al quale si assegna il numero 0. Il numero 1 viene assegnato a tutti coloro che hanno scritto almeno unapubblicazione con lui. Il numero 2, a coloro che hanno scritto almeno una pubblicazione con qualcuno che ha numero 1. E così via.
Si pensa che ciascun matematico che ha scritto almeno una pubblicazione con qualcuno sia collegabile a Erdös attraverso un numero finito.
Io, ad esempio, ho scritto una volta un articolo con un matematico che ha scritto un articolo con un matematico che ha scritto un articolo con Erdös: dunque, il mio grado di separazione da lui è 3.
Poiché la scorsa settimana ho pubblicato un libro con Benedetto XVI, ora anche l’ex Papa ha unnumero di Erdös: cioè, 4. E poiché Francesco ha scritto un’enciclica a quattro mani con il suo predecessore, anche l’attuale Papa ha un numero di Erdös: cioè, 5. E tutti i loro coautori passati e futuri acquistano, o acquisteranno, pure loro un numero di Erdös.
Se non altro, il nostro libro ha dunque avuto almeno questo “storico” effetto: di legare concretamente fra loro i matematici da un lato, e i papi, i teologi e i preti dall’altro. Un bell’esempio del dialogo tra scienza e fede, nel miglior spirito del Cortile dei Gentili voluto da Ratzinger stesso.

Repubblica 17.11.13
L’America, la democrazia, la vis polemica: parla il grande politologo
Giovanni Sartori
“Le cose hanno superato il mio pessimismo sono triste e stanco di tutta questa ottusità”
intervista di Antonio Gnoli


Poco distante da Campo de’ Fiori abitano Giovanni Sartori e sua moglie Isabella Gherardi. Da poco sono sposi. L’anello nuziale del professore adorna una mano venosa e fragile. Isabella è un’artista. Il professore è ancora un po’ debilitato da una polmonite. Non ha però l’aria stanca. È, se si può usare una parola rara di questi tempi, felice. Ma anche incazzoso. Mentre conversiamo sorseggia un bicchiere di bianco: «Sono lucido, ma è come se i ricordi non stiano sempre nell’ordine giusto. E poi...». E poi? «Le gambe sono molli. Mi fa rabbia. Sono stato un camminatore infaticabile, uno sportivo negli anni in cui potevo consentirmelo».
Quali anni?
«Le racconto una cosa buffa. Nel periodo del culto del littorio fui incaricato di organizzare la squadra toscana di salto con gli sci. Non avevo mai visto un trampolino e non può immaginare la vertigine che si prova sul punto alto da cui si lanciano gli sciatori e la paura che li attanaglia. Con alcuni non c’era verso di mandarli giù. Del resto, nonostante i miei improvvisati consigli, un paio di loro finirono con lo sfracellarsi, rompendosi una gamba o una spalla. E lì, su quella pista dell’Abetone, compresi che il comando senza un’adeguata tecnica, senza una visione pertinente, difficilmente porta al successo».
Come ha vissuto gli anni del fascismo?
«Fino al 1937, con un popolo diviso fra scetticismo e adesione, il regime non somigliava per niente al suo “gemello” tedesco. La fine invece fu dura e terribile. Ricordo le squadre nere della Repubblica di Salò: rastrellavano, torturavano e ammazzavano. A quel tempo fui richiamato alle armi e mi guardai bene dal presentarmi. Sapevo che se venivo preso sarei stato da disertore fucilato. Come accadde a due miei amici. Ero terrorizzato».
E cosa fece?
«Per un certo periodo riparai in una villa in campagna. Poi i tedeschi cominciarono a rastrellare quella zona. Fuggii attraverso i campi rientrando a Firenze. Giunto in città, mi nascosi per alcuni mesi nella casa di uno zio. Restai lì, senza quasi mai uscire dalla stanza. I giorni passavano lenti fino a quando scoprii che in casa c’era una biblioteca rifornita di testi filosofici. Soprattutto Croce e Gentile. E naturalmente Hegel. Non avendo di meglio, li lessi tutti. Fu così che a vent’anni ebbi la mia iniziazione filosofica».
Parteggiava più per Croce o per Gentile?
«Per nessuno dei due. Mi sembrava che le mie idee andassero in tutt’altra direzione. Però Gentile scriveva in un italiano bellissimo».
È curioso. In fondo è ciò che si attribuisce a Croce.
«L’italiano di Croce è più barocco, uno stile più rotondo. Dopo il 1944 lo conobbi abbastanza bene: era un uomo, dietro l’apparente bonomia, non privo di una certa crudeltà mentale».
Conobbe anche Gentile?
«Lo avevo intravisto che ero ragazzo. Non posso dire di averlo conosciuto. Restai però colpito dal suo omicidio».
Che cosa provò?
«Mi sembrò una cosa assurda e crudele. Lo trucidarono non lontano da casa sua, alle pendici della strada per Fiesole. Era stato sì fascista, ma il suo comportamento concreto fu generoso verso molti ebrei che aiutò a far scappare e verso parecchi intellettuali antifascisti. Tanto è vero che ancora oggi nessuno ha avuto il coraggio di attribuirsene la responsabilità. Andai alle sue esequie in Santa Croce. Fu un impulso che avrei potuto pagare gravemente».
Perché?
«Ero, credo, il solo giovane in quella chiesa deserta. Ma dietro diverse colonne c’erano agenti in borghese che mi spiavano con sospetto. A un certo punto, all’uscita, fui fermato da uno di loro. Pensava che fossi un partigiano. Gli spiegai che non aveva senso e che in realtà ero lì per rendere omaggio a un uomo che avevo stimato».
E che le avrebbe, indirettamente, consentito di iniziare la sua carriera accademica.
«Mi laureai nel 1946 in Scienze politiche e sociali. E poi ho vivacchiato per alcuni anni, come poteva accadere allora in un’Italia che ancora non si capiva bene dove andasse. Nel 1950, per un colpo di fortuna — il caso ha sempre giocato un grande ruolo nella mia vita — divenni professore di Storia della filosofia e insegnai la materia fino al 1956».
Le piaceva?
«La filosofia non era nelle mie ambizioni. Quella italiana, poi, mi appariva astrusa e vecchia. Mi interessava la logica che l’idealismo aveva distrutto. Fu una scelta culturale favorita dai vari soggiorni americani. Il primo dei quali, una borsa di post-dottorato nel 1949, mi dischiuse il mondo della scienza politica. Mi agevolò il fatto che ero quasi bilingue».
Come aveva appreso il suo inglese?
«I miei, da bambino, mi presero una nanny inglese e l’estate venivo spedito in Inghilterra».
Famiglia borghese, dunque?
«Sì, decisamente. Mio padre dirigeva il lanificio di Stia, non lontano da Arezzo, che ora è diventato un museo dell’arte della lana. Non ci ho mai più messo piede. Mi fa soffrire questo posto dove ho trascorso buona parte dell’infanzia».
Cosa la turba?
«È un grumo legato alla memoria di mio padre. Durante la guerra, mentre tutti scapparono via, lui restò lì per provare a difendere la sua fabbrica e i 450 operai che vi lavoravano».
E ci riuscì?
«Riuscì a dissuadere i tedeschi che volevano far saltare l’intero edificio. Alla fine distrussero solo i macchinari. Mio padre ne soffrì enormemente. Quella che lui aveva creato a Stia era una piccola comunità, dove tutti si conoscevano e si rispettavano».
Non ha mai pensato di seguire le orme paterne?
«Non sarei stato adatto. Non ho un buon carattere. E i cappotti preferisco indossarli più che produrli».
E il suo carattere l’ha ostacolata nell’insegnamento universitario?
«Direi di no, anzi, proprio durante gli anni della contestazione, quando ero preside al Cesare Alfieri, la durezza con cui trattavo il movimento studentesco ha fatto sì che la mia fosse una delle poche, se non l’unica, università che funzionava. Il prezzo che ho pagato fu un forte logoramento personale che mi convinse ad andarmene».
In America?
«Ricevetti un’offerta prestigiosa dall’Università di Stanford in
California. California. Contemporaneamente, ne ebbi una anche da Oxford che però sul piano economico prevedeva un’offerta bassina».
«Mi pare fossero ottomila sterline l’anno. Andai a Stanford nella migliore facoltà di Scienze politiche di tutta l’America. C’erano le menti più brillanti».
«No, credo che insegnasse ad Harvard. Però tenne da noi una lezione e decisi di andare a sentirlo. Era un pessimo parlatore. A un certo punto voltai la testa e vidi che mezzo uditorio dormiva. Però era un liberal di grande intelligenza, con una reputazione meritata. Non mi ha mai convinto la suama riconosco che quel testo fa parte della storia del pensiero. Qualcosa deve a Isaiah Berlin, che lui frequentò a Oxford».
«Sì. Ho appena ricevuto un premio dedicato al suo nome. La prima volta che lo vidi fu a Londra. Andai a sentire un suo Non capii una parola e la cosa mi mortificò. Dopotutto ero bilingue! La verità è che parlava come una mitragliatrice e sospetto che ciò dipendesse dalla sua intelligenza rapida, così veloce che le parole non sempre ce la facevano a seguire il passo del pensiero. Siamo stati a lungo amici. Mi capitava a volte di andare a trovarlo nella sua bella casa di Oxford. Peccato che ora non possa più viaggiare».
«Ogni tanto penso alla mia bella casa di New York, che ho conservato e che mi sono goduto. La comprai grazie anche a quello che guadagnai con lo stipendio degli anni in cui sono stato professore alla Columbia. Poi, cosa vuole, a Manhattan mi legavano i primi viaggi avventurosi fatti in transatlantico. Ero sul Saturnia quando fummo investiti da una spaventosa burrasca che durò tre o quattro giorni. Tutti i passeggeri sembravano dei morti viventi. Solo due conservarono il loro aspetto umano».
«Sì. E l’altro era Salvador Dalì, che credo andasse negli Stati Uniti per incontrare Walt Disney. Tutte le mattine passeggiavamo sul ponte coperto e più alto della nave. Quando la prua si inabissava, venivamo sfiorati da qualche schizzo. Sembrava una sfida tra due sopravvissuti. Camminavamo avanti e indietro. E ogni volta che ci incrociavamo, senza parlarci, lui si levava il cappello e io facevo un leggero inchino. Arrivammo a New York con tre giorni di ritardo. È una città che ho adorato e che mi ha offerto moltissimo».
«La bellezza e i privilegi che derivavano dal mio insegnamento. Avevo tutti i pennacchi e i dobloni del potere».
«Finché ne ho, non sono importanti. Mi piace vivere comodamente. È chiaro che se mi venissero a mancare, sarei un po’ inquieto. L’età che ho raggiunto non mi consentirebbe di ricominciare. Diciamo che mi è andata bene. Ho perfino conosciuto e frequentato tre Presidenti ».
Chi erano?
«Jimmy Carter, un maniaco della precisione. Noiosissimo. Ronald Reagan, di cui sono stato amico. Era di una rozzezza assoluta, ma dotato di un senso comune straordinario. Sapeva per istinto cosa andasse fatto o no. La moglie Nancy consultava spesso i chiromanti e Ronald, nonostante facesse di testa sua, aveva tra le fonti di informazioni anche un manipolo di maghi. Bush senior lo conobbi quando era vicepresidente. Di lui dicevano che era un eterno secondo. In realtà, conosceva come pochi la macchina militare ed economica».
Cos’è il potere?
«Far fare a un altro quello che altrimenti, di sua iniziativa, non farebbe».
E la democrazia, alla quale lei ha dedicato la sua vita di studioso?
«Mi sta ancora bene la distinzione che Berlin faceva tra democrazia negativa e positiva».
Traduca
«La democrazia negativa è quella che difende l’individuo dai soprusi del potere, è l’habeas La democrazia positiva travolge se stessa perché scavalca le strutture costituzionali e a un certo momento diventa demagogia populistica. La gente ha perso le capacità astrattive. Capisce solo quello che vede. È la deriva televisiva, con le sue deformazioni e omissioni».
È il passaggio dall’homo sapiens all’homo videns.
«Sull’argomento ho scritto un libro che è stato anche un successo internazionale. Ci siamo ridotti a questo: se di una cosa non abbiamo l’immagine, quella cosa non esiste».
Si sente deluso per come sono andate le cose?
Le cose hanno superato il mio pessimismo
E il suo tratto pestifero cosa suggerisce?
«Che c’è di peggio al mondo. Non mi sono mai vergognato di essere stato duro e critico. E non credo che dovrò renderne conto lassù».
Il suo rapporto con la fede?
«Niente di particolare. Salvo il fatto di ritenere la Chiesa responsabile, con il suo avallo alla proliferazione incontrollata, di una delle possibili cause della catastrofe del mondo».
E la fede individuale?
«Non sono credente, né religioso. Ma neppure un mangiapreti. Ci sono pretini di campagna straordinari. Sono favorevole alla piccola chiesa e contrario alla casta, cioè alla curia».
Viviamo cambiamenti epocali?
«Quelli a cui assistiamo sono certamente nuovi. Abbiamo abolito le guerre, ma oggi la salvezza si gioca sulla difesa climatica. Guardi cosa è accaduto nelle Filippine con i tifoni che corrono a velocità superiori ai 350 chilometri all’ora!».
La rattrista l’ottusità con cui si affrontano certi problemi?
«Mi rattrista e mi stanca. Ed è una stanchezza aggravata, a livello personale, da due polmoniti e tre mesi di antibiotici. Ospedalizzato due volte. L’età non aiuta».
Come l’ha presa, intendo la polmonite?
«Virale. Da più di trent’anni ho un enfisema, ma non mi ha mai dato noia. Ora sono sempre a casa e assumo ossigeno la notte».
Dorme Bene?
«Dormo poco e con l’ausilio dei sonniferi. È la vecchiaia».
Cosa le provoca?
«Sorpresa, non mi aspettavo di arrivare a questa veneranda età. Ho la fortuna di aver trovato una compagna straordinaria che amo e che ho sposato».
Non la spaventa la differenza d’età?
«Semmai la considero un privilegio. Anche in questo sono stato fortunato».

LA BIOGRAFIA
Giovanni Sartori (Firenze, 13 maggio 1924) è uno dei più famosi politologi italiani.
È professore emerito presso la Columbia University di New York e l’Università di Firenze

Repubblica 17.11.13
L’albero magico e la madre “lussuriosa”
Il grande incantesimo di Segantini
di Melania Mazzucco


Ilibri mediocri generano film magnifici, i capolavori della letteratura film mediocri. È un luogo comune del cinema, e neanche sempre vero. Però anche in pittura testi modestissimi hanno ispirato opere importanti. È il caso deLe cattive madri (oIl nirvana delle lussuriose) di Segantini. Rappresenta il culmine della fase simbolista della sua arte. Nei primi dodici anni di attività, Segantini aveva infatti aderito al naturalismo, nel solco verista della tradizione lombarda, e aveva dipinto paesaggi urbani, stamberghe visitate dalla fame e dalla difterite, coltivatori di bachi da seta, contadini, zampognari, pastori, vacche, vitelli, pollame, cavalli e soprattutto pecore. Nella seconda fase, seguendo una traiettoria simile a quella di Giovanni Pascoli, poeta coetaneo e fratello d’anima, abbandonò l’epopea umile della vita rurale e si orientò sulla lirica cosmica.
Persa nell’abbacinante vastità di una landa alpina, una donna, bella come una statua di marmo, è impigliata coi capelli ai rami di un albero. Il candore della neve la imbozzola in una gelida solitudine. L’albero è secco, tutto è immobile, cristallizzato. Nessun soccorso in vista: la foresta di alberi scheletriti prosegue sullo sfondo e una chiostra di monti sigilla l’orizzonte. È un mondo rarefatto e spettrale, come sotto un incantesimo maligno. Dal ramo però fioritrasportavasce una testa di bimbo. È un albero magico — che racchiude un essere vivente, come il cespuglio di Polidoro o quello che parla a Dante con la voce di Pier delle Vigne. L’albero non è morto come sembra: lo abita un neonato. Con le labbra succhia il seno della donna. Lei si contorce. Il suo corpo ripete la forma altrettanto contorta dell’albero, generando un movimento contrario, un’onda gravida che s’incurva verso sinistra.
Segantini aveva vissuto l’infanzia diseredata di un orfano dickensiano — nutrito dall’assistenza pubblica, poi affidato alla sorellastra operaia, vagabondo nei bassifondi di Milano e infine rinchiuso in riformatorio a imparare il mestiere del ciabattino. Ignorava grammatica e sintassi. Ciò non gli impedì di formarsi, col tempo, una cultura letteraria ed estetica e di appassionarsi a Nietzsche e Schopenhauer: la sua massima aspirazione divenne quella di farsi filosofo, profeta e martire (in un autoritratto si dipinse nei panni del Cristo Mortodi Mantegna). Ma il vangelo che voleva predicare come messia era quello di un’arte spiritualista, capace di soppiantare la funzione sacra della religione. I letterati apprezzarono la metamorfosi. Nella scrittrice Neera trovò l’interlocutrice ideale, e fu lei a consigliargli di scrivere la sua autobiografia — che dopo la sua morte alimentò la sua leggenda. Segantini, che aveva abbandonato Milano e la corruzione della metropoli per ritirarsi nella purezza delle montagne svizzere (prima in un villaggio dei Grigioni, poi in Engadina), leggeva molto. Rimase folgorato dal poema Pangiavahli, oNirvana: lo tradusse in due quadri, e poi lo ripropose anche in forma di graffito.
Nel 1889 Nirvana fu spacciato come traduzione dell’antica saga vedica di Maironpanda. Ma Segantini lo sapeva frutto dell’inquieto talento di Luigi Illica, più noto come librettista di Mascagni, Giordano e Puccini. Era dedicato alle “male madri”. Ora il tema della maternità incalzava da anni Segantini, che aveva saputo trasfigurare la nostalgia della madre dell’orfano in un’ossessione artistica. Uno dei suoi dipinti più celebri,Le due madri, del 1889, stabilisce un sintetico parallelismo fra la madre donna e la madre vacca (una accompagnata dal neonato, l’altra dal vitellino), a significare che quella di dare la vita e prendersi cura della prole è la missione che la natura ha assegnato alla femmina, al di là della specie.
Nel Nirvana, invece, si era imbattuto nella sua antagonista: la donna che rifiuta la maternità. Perché infanticida, abortista, o solo malthusiana — come all’epoca si denigrava la donna che usava precauzioni contraccettive per non restare incinta, separando così l’atto sessuale dalla procreazione. Segantini, padre felice di quattro bambini, trovava questa figura perturbante. Il poema narrava nei 24 versi finali la punizione delle “lussuriose”, condannate a vagare nella tormenta del silenzio, «in vallea livida per ghiacci eterni / dove non ramo inverda o fiore sbocci». Il Castigo delle lussuriose, che raffigura questi versi, dipinto nel 1891, fu mostrato all’Esposizione Internazionale di Berlino. Benché il trentino Segantini fosse già apprezzato in Germania e nel Nord Europa, il quadro non piacque: gli si rimproverò di dipingere il fantastico con realismo. Ma il fiasco accrebbe l’interesse di Segantini per il poema, la cui lettura lo in uno stato di intima inquietudine: attrazione e repulsione si alternavano, confondendolo. Nel 1894 creò il secondo ‘pannello’ del dittico — questo. In Italia fu stroncato come «astruseria simbolica», ma a Vienna trovò un ammiratore appassionato nell’imperatore Francesco Giuseppe (e poi negli artisti della Secessione).
L’inferno delle lussuriose può infatti trasformarsi in un purgatorio qualora la donna ascolti il richiamo del suo grembo e accetti il ruolo ch’è suo dovere e destino. Ed è questo l’istante che Segantini dipinge: il ramo prende vita, il bimbo succhia il latte, la donna acconsente, la spinta impressa dal corpo libera dall’albero la madre perdonata e redenta. Il poema è detestabile, i versi brutti, la morale reazionaria e per ogni donna crudele. Eppure Le cattive madri è il capolavoro di Segantini. Forse solo la morte precoce a 41 anni gli impedì di crearne un altro, ma tant’è. L’immagine semplificata è di una rara potenza; la pennellata a lunghi filamenti di colore diviso ordisce un tessuto di materia serica come la neve; la costellazione simbolica (la natura, la madre, la luce, l’albero) riscatta la rozzezza della fonte e acquista risonanze universali; l’equilibrio delle proporzioni e degli elementi (la figura, il paesaggio) è perfetto. Inoltre la composizione bilanciata anticipa le sinuosità del liberty: moltaart nouveau del ‘900 è già in embrione su questa tela. L’immagine alimenta l’ambiguità che la parola ignora (la donna subisce la maternità o la accetta volentieri?): tace il giudizio e affida il senso all’occhio dello spettatore. Le cattive madrièun quadro da guardare senza sonoro — comeun film muto.

L’OPERA Le cattive madri (1894) olio su tela, 105 x 200 cm Kunsthistorisches Museum Vienna