lunedì 18 novembre 2013

Corriere 18.11.13
Anche Silone tradì Gramsci
Rivelò il suo ruolo ai fascisti. E Togliatti ne usurpò le idee
di Dino Messina


Che cosa rende unica, nella storia del comunismo, la vicenda umana, politica e intellettuale di Antonio Gramsci? L’aver costruito un sistema di pensiero considerato ancora oggi vitale per l’interpretazione della cultura e della politica italiana e occidentale. Un’impresa ancor più importante se si tiene conto che il grande pensatore la realizzò nella solitudine del carcere fascista, tra l’incomprensione e l’ostilità del mondo comunista che avrebbe dovuto essergli amico.
È questo il giudizio che si ricava dalla lettura del nuovo saggio dello storico Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata , appena edito da Marsilio (pagine 257, e 19,50). Canali, studioso noto per la sua dimestichezza con gli archivi, di cui ha dato prova per esempio nelle opere Il delitto Matteotti e Le spie del regime (edite entrambe dal Mulino), mette tutta la sua sapienza documentaria e passione per svelare definitivamente le falsificazioni di cui è stato oggetto il pensatore sardo. Un «santino», nella mitografia costruita da Togliatti, utile per illustrare una storia lineare e senza conflitti del gruppo dirigente del comunismo italiano. Naturalmente, come si racconta da qualche anno, le cose stanno in maniera diversa, e Canali ha il merito di mettere assieme tutti i tasselli anche sulla base di nuove acquisizioni documentali.
Innanzitutto lo studioso smonta la linea di continuità fra Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che già dall’ottobre 1926, poco prima dell’arresto del leader sardo, interpretavano due linee diverse e due modi opposti di intendere il lavoro politico. Canali cita in particolare due lettere a Togliatti in cui Gramsci prende le distanze da un modo di agire burocratico e opportunista e soprattutto esprime una concezione del «centralismo democratico» opposta a quella interpretata da Stalin e dal gruppo dirigente dell’Internazionale comunista. Gramsci è per l’inclusione delle opposizioni, a cominciare da Trockij, e per la costruzione del socialismo che non esclude un passaggio attraverso la «democrazia borghese», gli altri sono per il muro contro muro e l’eliminazione dei dissidenti. È questa l’origine di una divergenza che si acuirà con gli anni, fino a toccare il suo acme con la nota vicenda della lettera di Ruggero Grieco del 29 febbraio 1928, che fece infuriare il leader sardo, ormai prigioniero da un anno e mezzo.
Mentre era ancora aperta l’istruttoria per il processo che avrebbe portato a una condanna di oltre vent’anni ed erano in corso trattative (anche con la mediazione vaticana) per uno scambio di prigionieri tra l’Urss e l’Italia, Grieco mandava una lettera (partita da Vienna per Mosca e da qui spedita in Italia) che non poteva non mettere in allarme il sistema di sorveglianza fascista. Tanto che, nel dicembre 1932, Gramsci arrivò a confidare alla cognata Tania: «Può darsi che chi scrive fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». L’allusione, come viene confermato da documenti e testimonianze successive, è a Togliatti. È questi, secondo Gramsci, il personaggio «meno stupido» che lo aveva danneggiato. Il giudice istruttore Macis, che evidentemente aveva letto anche le lettere inviate da Grieco ad altri dirigenti del Pcd’I in carcere, aveva avvertito il capo comunista che c’era qualcuno fra i suoi amici che aveva interesse a tenerlo dentro.
Nell’intricata vicenda Gramsci, Canali analizza il ruolo avuto dalla famiglia della moglie, Giulia Schucht, ma anche quello dell’economista Piero Sraffa, di cui posticipa di circa un decennio l’adesione al comunismo attribuita dalla vulgata, e la responsabilità di Ignazio Silone nell’arresto di Gramsci. Fu Secondino Tranquilli, alias Ignazio Silone, alias «Silvestri», responsabile della propaganda del Pcd’I e informatore del funzionario di polizia Guido Bellone, a indicare a questi con precisione il ruolo di leader ricoperto da Antonio Gramsci. Il processo si basò fondamentalmente sulle accuse di Bellone.
Ma il filo conduttore del racconto rimane l’ambiguo atteggiamento tenuto verso Gramsci da Togliatti, il quale, in una breve storia dei primi anni di vita del Pcd’I scritta nel 1932 ad uso del Comintern, rievocando il periodo 1923-1926, omise il nome di Gramsci, che era invece in quel periodo il leader riconosciuto del partito.
Dopo la morte del pensatore comunista, avvenuta il 27 aprile 1937, la cognata Tatiana tornò a Mosca con l’intenzione di fare i conti con Togliatti. Il Comintern in effetti istruì un’inchiesta (condotta da Stella Blagoeva) che nel 1940 portò all’allontanamento del «compagno Ercoli» dalle cariche direttive. La sconfitta del fascismo e la necessità di ricostruire il partito in Italia furono la salvezza per Togliatti.
Nel dopoguerra cominciò la gestione dell’eredità intellettuale di Gramsci, che passò attraverso la pubblicazione, con omissioni e destrutturazioni, dell’opera, base preziosa per la teoria della via italiana al socialismo. Un corpus di saggi e testimonianze usato e manipolato anche per costruire la leggenda di «Togliatti erede di Gramsci».

Corriere 18.11.13
Un elettore su quattro non andrà ai gazebo

di Renato Benedetto

MILANO — Quello che conta, certo, è vincere. Ma i candidati alle primarie del Pd hanno anche bene in mente quanto sia importante partecipare: o meglio, la partecipazione alle consultazioni dell’8 dicembre. Perché l’affluenza sarà indice dello stato di salute del Partito democratico e contribuirà a legittimare il successo del vincitore. Non a caso nei giorni scorsi si faceva strada, soprattutto tra i sostenitori di Matteo Renzi, la preoccupazione di gazebo poco affollati.
Tra gli elettori del Pd — secondo un sondaggio condotto da Ispo per il Corriere della Sera — è il 30% a dire che andrà a votare «sicuramente» per le primarie. A cui si affianca un 38% che «probabilmente» lo farà (naturalmente non è detto che, tra questi, tutti parteciperanno). È quasi un elettore democratico su 4 ad affermare con certezza che non andrà ai gazebo l’8 dicembre per scegliere il nuovo segretario (a cui si aggiunge un 7% che probabilmente non voterà). Il numero di quanti staranno a casa, poi, aumenta al 64% considerando l’intero campione intervistato e non solo gli elettori del Pd, dove pensa di votare «sicuramente» il 9% e «probabilmente» il 12%.
E mentre si discute sui risultati delle assise nei circoli, nelle intenzioni di voto per le primarie aperte Matteo Renzi stacca nettamente gli altri candidati: è al 72%. Distante dal 14% del secondo, Gianni Cuperlo (che ha qualche punto in più, il 17%, tra chi andrà sicuramente a votare). Pippo Civati è al 7%. Appena l’1% per Gianni Pittella.

Corriere 18.11.13
Proclami e accuse tra i candidati dem
Oggi il verdetto sul voto nei circoli
Balletto di cifre. I sostenitori di Cuperlo lanciano l’allarme brogli
di Alessandro Trocino


ROMA — I renziani sono sicuri: «Abbiamo vinto». I cuperliani ribattono: «Avete l’ansia da prestazione, la partita è aperta». Ernesto Carbone: «Basta falsità, Renzi è primo». Matteo Orfini: «Renzi non cerchi di cambiare le carte in tavola. Il testa a testa che continuerà nella notte è la testimonianza più vera della vittoria politica di Gianni Cuperlo».
La sfida tra i due candidati avrà un esito ufficiale oggi, con la comunicazione data dal responsabile dell’organizzazione Davide Zoggia, che indicherà i tre ammessi alla fase finale, quella decisiva, con le primarie aperte a tutti gli elettori, l’8 dicembre.
Il balletto dei voti non si ferma fino all’ultimo. Un giochino un po’ stucchevole che fa sostenere ai due comitati di essere in vantaggio nel calcolo, parziale, dei votanti. Il Comitato Renzi spiega che su 153.940 voti scrutinati «Matteo Renzi è al 46%, Gianni Cuperlo al 38,2%, Pippo Civati al 10,5% e Gianni Pittella al 5,3%». Di rimando, il comitato Cuperlo riferisce: «In base ai dati in nostro possesso, raccolti dal territorio, dalle oltre 3.000 assemblee di circolo, dove si sono espressi 132.408 iscritti, Cuperlo ha il 43,9%, Renzi il 42,1%, Civati il 10,8%, Pittella il 3,3%».
Nel partito c’è chi è infastidito da questa pratica bizzarra: la diffusione di dati elettorali da parte non del partito o di un ente terzo e imparziale, ma dagli stessi candidati. Il responsabile organizzazione, Davide Zoggia, si difende: «I dati li comunichiamo alla fine, come da decisione presa all’unanimità. Darli prima, parziali, non avrebbe avuto senso e avrebbe rischiato di influenzare il voto». I due comitati, però, li hanno forniti in abbondanza: «Ma io non posso intervenire su di loro. Teniamo anche presente che sono 7.000 circoli e che i congressi sono gestiti da volontari».
Ma il malumore avanza e da parte dei cuperliani si lancia l’allarme brogli. Orfini non li chiama così, ma è l’unico a lanciare un segnale pubblico, sia pure misurato: «Ci giunge qualche voce di irregolarità sul territorio, a onor del vero molto limitato. Crediamo che sia dovere di tutti vigilare perché tutto si svolga regolarmente». Patrizio Mecacci, coordinatore del Comitato Cuperlo, rilancia: «Su Salerno situazione allarmante». Zoggia considera il fenomeno, per ora, circoscritto: «Ci è giunta solo qualche segnalazione da Messina e da Salerno. Saremo rigorosi, nel caso, ma aspettiamo di verificare». Il renziano Ernesto Carbone ribatte: «Dicano in cosa consistono questi casi, non ha senso un allarme generico».
Renzi, ospite da Fabio Fazio, prova a tranquillizzare il governo: «Intanto sono contento di aver preso i voti del Pd, che non era scontato. Mi piacerebbe tanto giocarmi la partita per il Paese e diventare premier, ma in questo momento non ha senso. C’è una persona del Pd che deve fare alcune cose per il Paese e sarebbe davvero ingiusto mettere davanti le mie ambizioni». A Massimo D’Alema, invece, riserva una battuta velenosa: «C’era un disegno di D’Alema che dice: Renzi vince le primarie, ma tra gli iscritti non ce la fa. D’Alema pensa che se vinciamo noi distruggiamo la sinistra, dimenticando che l’hanno distrutta loro la sinistra. È la prima volta che perde un congresso, lo voglio dire».
Una battuta anche sul Pdl: «Hanno fatto una scissione a tempo determinato. Lupi ha detto che si scindono, però alle elezioni si alleano con Forza Italia. Si lasciano oggi per rimettersi insieme domani, come Ridge e Brooke. Berlusconi mette insieme tutti, una coalizione self service».

l’Unità 18.11.13
Primarie, sfida aperta tra Renzi e Cuperlo
Concluso il voto degli iscritti: scontro sui numeri tra sindaco e sfidante
Oggi i dati ufficiali della commissione congressuale. Civati in pista, Pittella fuori
Il sindaco contro D’Alema: «Dice che se vinco distruggo la sinistra, ma è lui ad averlo fatto»
Il comitato del sindaco di Firenze si dice sicuro della vittoria: «Siamo al 46 per cento»
I sostenitori di Cuperlo replicano ai renziani: «Gianni avanti in tutte le grandi città»
Il deputato triestino: «Lavoriamo tutti per un Pd più forte»
di Osvaldo Sabato


Il voto degli iscritti si è concluso ma continua lo scontro sui numeri tra il comitato Renzi e quello Cuperlo. Tutti e due si danno avanti. Per il sindaco c’è un vantaggio netto: 46,1 a 38,2. Per lo sfidante la vittoria personale è 43,9 a 42,1. Oggi la commissione congressuale dirimerà la contesa e diffonderà i dati ufficiali che daranno il via alla sfida delle primarie. In ogni caso sarà una partita aperta. Al voto dell’8 dicembre dovrebbe partecipare anche Civati, mentre Pittella sembrerebbe escluso.
Sul futuro del governo Letta Matteo Renzi garantisce che non ha disegni segreti per abbatterlo. «Se ha bisogno di 18 mesi per fare delle cose, io dico va bene, ma facciamole». «Ci sono momenti in cui bisogna fare un passo indietro. Mi piacerebbe giocarmi la partita per il Paese. Ma ora c’è un governo in carica e credo che sarebbe ingiusto da parte mia mettere la mia ambizione personale prima di quella del Paese».
Ora però la sua attenzione è anzitutto al congresso. Non mancano frecciatine velenose a Massimo D’Alema. «Pensa che se vinciamo noi distruggiamo la sinistra, dimenticando che l’hanno distrutta loro la sinistra. È la prima volta che D’Alema perde un congresso», aggiunge il sindaco di Firenze, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa.
Per il candidato alla segreteria del Pd le Province devono essere abolite: «non si deve votare nel 2014». Ma il vero problema per Renzi è la drammatica situazione occupazionale. Quanto alla recente scissione nel Pdl ritiene che sia stata fatta «a tempo determinato».
«Lupi ha detto che si scindono però alle elezioni si alleano con Forza Italia dice a Fazio si lasciano oggi per rimettersi insieme domani, come Ridge e Brooke. Berlusconi mette insieme tutti, una coalizione self service». E su Grillo spiega che «più urla e più è segno del suo fallimento. A parte quella che crede alle sirene e a quello con i microchip in testa, che hanno fatto i Cinquestelle? Chi a casa ha votato il M5S forse ora può dire: vediamo se il Pd ha il coraggio di portare a fondo proposte concrete».
Ma perché un non elettore del Pd dovrebbe preferire Renzi segretario Pd anziché fuori? «Intanto sono contento già di aver preso i voti di quelli del Pd, che non era così scontato. Il clima di disaffezione è grande. Il problema non è se fai segretario o qualcosa d’altro: il problema è se prometti delle cose e poi le fai», ribadisce in televisione.
A tenere banco, nel corso della giornata, è sempre la guerra dei numeri con i cuperliani. «Io sono in vantaggio», è la convinzione di Renzi. «Avanti noi», replica Cuperlo, che nel frattempo ringrazia i volontari e i militanti del Pd «che con il loro impegno hanno reso possibile la partecipazione di migliaia di iscritti a questo primo passaggio che porterà alla scelta del candidato alla segreteria nazionale del Partito democratico». Il Pd sottolinea ancora Cuperlo «è un grande partito, l’unico in Italia che fa della partecipazione democratica, del confronto tra iscritti, elettori e cittadini la cifra del suo agire. È stato un momento importante di democrazia. Continuiamo tutti a lavorare con rigore e rispetto reciproco per far sì che da questo percorso, che ci porterà alle primarie dell’8 dicembre, esca un Pd più forte».
I due comitati si rincorrono a colpi di lanci di agenzie, Renzi, ieri prima di partire per Milano per partecipare alla trasmissione di Fazio ha ribadito che «l’Italia non può più aspettare perché ha già perso vent'anni e sta pagando il fallimento di un’intera classe dirigente». Lo ha fatto con un post su Facebook ricordando anche il suo slogan della sua campagna per la segreteria nazionale del Pd. Quel «l’Italia cambia verso» è ormai la sua parola d’ordine. Lo hanno capito bene gli iscritti del circolo fiorentino «Vie Nuove» dove è tesserato il sindaco, votando a larga maggioranza la sua mozione. E proprio in questo circolo che si trova in una storica Casa del popolo e che quando c’era il Pci ospitava una delle più importanti sezioni del partito Renzi si è recato a votare ringranziando poi «i volontari che hanno allestito seggi in tutta Italia».
Ma a Firenze Renzi deve anche registrare la sua sconfitta in Oltrarno, dove a vincere è stato Cuperlo. Non si è trattata di una sorpresa dopo i malumori dei residenti, molti sono iscritti al Pd e si sono riuniti in un comitato contrario alla realizzazione di un parcheggio interrato in piazza del Carmine. Ma il sindaco, in corsa per diventare segretario del Pd, e che ha già fatto sapere che se vince manterrà le due cariche, apre al dialogo convocando un incontro nel suo ufficio di Palazzo Vecchio.
Di incroci fra le vicende cittadine e quelle nazionali in futuro se ne potrebbero vedere altre. Così se l’obiettivo di Renzi è di avere la maggioranza fra gli iscritti, la sfida congressuale è tutta ancora aperta. Anche se curiosamente chi è andato a votare in questa settimane nei circoli per le convenzioni provinciali sono in media la metà di quelli che si erano dati battaglia a livello locale. Ma si sa che la madre di tutte le battaglie per il rottamatore è l’appuntamento con le primarie dell’Immacolata. Anche in questo caso sono i numeri a farla da padrone: secondo un recente sondaggio di Roberto Weber fatto per Agorà se l’8 dicembre andranno a votare 2 milioni di persone le intenzioni di voto danno al sindaco il 53% dei consensi. Ma pur essendo tifoso della Viola in futuro non potrà contare su un aiuto economico del patron di Tod’s Diego della Valle. «Io non la finanzierei'' un'eventuale campagna elettorale di Matteo Renzi. Così Diego Della Valle intervistato da Maria Latella su Sky. «Oggi Ognuno, se ha voglia, per il proprio pezzettino, puo' dare una mano anche concretamente ha fatto notare il presidente di Tod's Non finanzierei una campagna elettorale di un politico in un modo diverso di come possono farlo gli altri cittadini, altrimenti corriamo il rischio che si interpreti male il fatto che non ci sia una vicinanza di ideali ma una vicinanza di interessi».

La Stampa 18.11.13
Scontro Renzi-Cuperlo sulle cifre
Il sindaco: sono in vantaggio. Ma il comitato dello sfidante annuncia il sorpasso: siamo avanti nelle grandi città
di Francesca Schianchi


ROMA «Oggi abbiamo vinto, ma era solo una prequalificazione...». Alle nove di sera Matteo Renzi, nello studio di «Che tempo che fa», con un certo compiacimento si dà vincente nelle votazioni tra gli iscritti che si sono tenute fino a ieri sera. Ma i dati definitivi arriveranno in questi giorni, a mettere fine al balletto di cifre delle scorse ore. Per dieci giorni nei circoli del Partito democratico i tesserati sono stati chiamati a votare il loro candidato segretario. Una «prequalificazione», come la descrive il sindaco di Firenze, «come nel Grande fratello dove vieni nominato», ironizza, visto che questa fase del lungo congresso democratico serve a selezionare i primi tre classificati, gli unici che avranno diritto di correre alle primarie dell’8 dicembre. E, se sia il comitato Cuperlo che quello Renzi sono stati sempre concordi nell’attribuire l’ultima posizione a Gianni Pittella, sul primo classificato hanno continuato a fornire dati diversi fino a ieri sera.
Alle sette, dal quartier generale dell’ex segretario Fgci partiva la notizia di percentuali leggermente superiori per lui («su 132.408 iscritti, Cuperlo ha il 43,9%, Renzi il 42,1%, Civati il 10,8%, Pittella il 3,3%»); poco dopo sul blog del sindaco di Firenze apparivano conteggi invece a lui ben più favorevoli: Renzi al 46,1%, Cuperlo al 38,6%, Civati al 10,2 e Pittella al 5,1, dopo 181.364 voti  scrutinati. «Perché non indicano anche loro circolo per circolo i dati, così vediamo chi ha ragione?», provoca qualcuno dalle parti del sindaco, mentre il responsabile del comitato cuperliano, Patrizio Mecacci, sottolinea che «al momento nelle grandi città come Roma, Milano, Napoli, Genova, Bologna» è avanti il suo candidato. Anche se sembra dare per probabile il secondo posto quando elogia il «risultato straordinario» ottenuto «al di là di come andrà a finire», visto che «doveva essere una passeggiata per Renzi, ma così non è».
Il sindaco già ci crede nei conteggi del suo comitato e, «contento di aver preso i voti di quelli del Pd, che non era così scontato», si toglie la soddisfazione di attaccare D’Alema, «secondo cui io avrei vinto le primarie, ma non tra gli iscritti»: lui, dice velenoso il rottamatore, «ha paura che se vinciamo noi distruggiamo la sinistra, ignorando che l’hanno già fatto loro. È la prima volta che  D’Alema perde un congresso negli ultimi vent’anni», ma «magari stavolta vinciamo le elezioni...».
Così, con i primi risultati di luoghi simbolici (Cuperlo vince alla Bolognina, luogo della svolta che portò alla fine del Pci, e nella roccaforte rossa di Sesto San Giovanni, mentre a Monteveglio, sull’Appennino bolognese, là dove Prodi piantò una pianta di ulivo nel ’95, è Pippo Civati ad arrivare primo) e con ancora qualche coda polemica (a Messina le mozioni Cuperlo e Civati chiederanno l’annullamento di alcuni  circoli, mentre a Salerno Mecacci parla di segnalazioni allarmanti), con tanti ringraziamenti dei candidati a militanti e volontari che hanno permesso l’organizzazione di queste prime fasi, si viaggia verso le tappe future, fino alle primarie conclusive dell’8 dicembre. «Aperte a tutti i cittadini, non c’è bisogno di portare le impronte digitali», scherza Renzi, facendo riferimento alle polemiche dell’anno scorso sulle regole delle primarie. «In un momento in cui tutti si scindono noi andiamo avanti, il Pd dice ai cittadini “venite a dire la vostra”». Con la speranza che, ai gazebo, si presentino in tanti.

il Fatto 18.11.13
L’altro leader
Tiziano (Renzi), segretario tra ex Pci e messe
di Giampiero Calapà


Al suono del campanello Tiziano Renzi appare sulla soglia della casa gialla in cima al poggio, località Torri, Rignano sull’Arno, dove il clan Renzi ha il quartier generale della famiglia e degli affetti. Buongiorno signor Tiziano. “No, Tiziano non c’è, è andato giù in ufficio”.
Eppure sembra proprio lui, non è mai stato troppo sotto i riflettori da quando il figlio è sindaco di Firenze ed eterno aspirante capo del Pd e del governo. A parte una copertina ormai cult di Chi, insieme all’erede. Ma adesso Tiziano, non è solo padre d’arte, è il segretario del circolo Pd di Rignano, eletto due settimane fa senza avversari. Inevitabilmente le cose cambiano, anche perché in questa domenica di novembre, ancora non così fredda neppure qui tra le colline della campagna toscana, il Pd locale di Renzi, Tiziano, deve scegliere tra Renzi, Matteo, Gianni Cuperlo, Giuseppe Civati e Gianni Pittella. “No, Tiziano non c’è”, ripete sulla porta di casa. Lei come si chiama? “Come mi chiamo io? Mi chiamo... Matteo, Matteo Renzi”. Ma no, lei è proprio Tiziano. “Davvero ho rispetto per il vostro lavoro ma... ”. Le avevamo detto per telefono che saremmo venuti a trovarla, ricorda? “Ah... allora voi siete del Fatto Quotidiano”. Facciamo due chiacchiere, ci fa entrare? Un caffè? “Mi dispiace essere sgarbato, ma devo stare quatto quatto”. La porta della casa gialla sul poggio che domina Rignano si richiude. Ma la giornata pubblica di Renzi, Tiziano, comincia dopo pochi minuti. A due, tre chilometri di strada, c’è la messa nello scenario medievale della Pieve di San Leolino. Celebra don Emanuel, prete di queste campagne ma nato nel Madagascar. La messa è cantata e chi è la prima voce? Renzi, Tiziano, seduto al-l’organo si esibisce per la funzione.
UN’ORA DI SACRO e poi a pochi metri di distanza si accende la luce profana nella piccola sede del Partito democratico, due grandi ritratti di Enrico Berlinguer e Aldo Moro alla parete. E anche un manifesto di Pier Luigi Bersani, nessuno di Matteo. Renzi, Tiziano, qui a Rignano ha lottato per una vita nella minoranza della minoranza, nella sinistra democristiana quando la Dc raccoglieva mille voti, appena un terzo di quelli dei nemici del Partito comunista, adesso tutti insieme nello stesso partito a dover scegliere tra Renzi, Matteo, Cuperlo, Civati e Pittella.
Il dibattito del circolo, dopo la presentazione delle mozioni, non è esattamente epico come quello della Cosa di Nanni Moretti. Anzi, il dibattito proprio non c’è e si anticipano le operazioni di voto. Renzi, Matteo, dovrebbe trionfare senza troppe storie. A votare verranno, da qui alla fine, una ottantina di persone, ma ad ascoltare i rappresentanti dei quattro candidati alla segreteria nazionale erano appena in quindici. In più di quaranta, invece, alla messa di don Emanuel cantata da Renzi, Tiziano. Confronto impietoso. Rita Guerrini si fa chiamare ancora “compagna”, conosce Tiziano da una vita e ha visto crescere Matteo. Lei era nel Pci e oggi, in questo piccolo tempio del renzismo, commetterà il sacrilegio di votare per Cuperlo: “Va bene Tiziano segretario qui, anche se ha le stesse idee del figlio. Ma la dimensione nazionale è un’altra cosa, non nascondo che avrei dei problemi con Matteo segretario”. Tiziano è molto aperto, accetta tutte le opinioni, anche quelle contro il figlio, concedono in sezione gli ex comunisti, “solo una cosa non tollera: le bestemmie”. Le operazioni di voto proseguono. I cuperliani sperano in un risultato almeno dignitoso.
Al bar accanto Renzi, Tiziano, si lascia andare a due chiacchiere con gli amici: “Ho sentito Matteo prima, stava giocando alla Play Station col figlio. Poi va da Fabio Fazio. È molto tranquillo, non capisco come fa. Gli stanno facendo di nuovo la guerra. D’Alema è un c... ”. Entra in sezione per votare anche Billy, flautista nella messa cantata poco prima e, soprattutto, ex autista del camper di Renzi, Matteo.

Repubblica 18.11.13
Il Partito democratico. Guerra di cifre sui voti dei congressi
Il sindaco “Ho vinto". Cuperlo: Falso, siamo testa a testa
Ma nei circoli è guerra di dati. Cuperlo: nostra la vittoria politica
Il sindaco: io avanti di 8 punti. Caos brogli a Salerno
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Matteo Renzi va in tv da Fabio Fazio a dire che ha vinto tra gli iscritti, e che non era così scontato. I sostenitori di Gianni Cuperlo lo smentiscono: «La vittoria politica è nostra, il sindaco non cambi le carte in tavola», ribatte il “giovane turco” Matteo Orfini.
I dati ufficiali delle votazioni nei circoli per i 4 candidati alle primarie del Pd saranno comunicati solo oggi. Fino a ieri notte, tra agenzie, comunicati stampa a telefonate, è andata in scena una guerra di numeri. E di propaganda. Oltre — ancora — alle segnalazioni di irregolarità gravi nel voto: a Salerno il comitato Cuperlo denuncia una situazione «fuori dal controllo democratico», dice di avere le prove dei brogli e chiede ufficialmente l’annullamento della convenzione. A Messina, oltre ai cuperliani c’è anche l’area Civati a pretendere la cancellazione dei «congressi fantasma» che sarebbero stati organizzati dall’onorevole Francantonio Genovese, già padrone delle tessere in Sicilia e da poco convertito all’ala renziana.
Alle 19.30 Matteo Mecacci si mostra positivo: «Il risultato della mozione Cuperlo testimonia la forza della sua proposta politica. Questa è la vera notizia di oggi. Doveva essere una passeggiata per Renzi, ma così non è. La partita è aperta e continueremo ad impegnarci nelle prossime settimane per consolidare il nostro risultato». Sembra un’ammissione di sconfitta, seppur di misura, ma un minuto dopo da quel comitato arrivano dati che danno l’ultimo segretario della Fgci al 43,9 per cento, seguito da Renzi al 42,1, Civati al 10,8 e Pittella al 3,3. Alle 22 e 30, i numeri cambiano e vedono Renzi vincere di pochissimo, con il 42,6 per cento su 197.443 totali, Cuperlo al 42,5, Civati al 10,4 e Pittella al 4,6.
«Basta con le falsità sui dati ribatte il renziano Ernesto Carbone - dopo 181.364 voti scrutinati Renzi è primo col 46,1 per cento, Cuperlo secondo col 38,6, mentre Civati ha il 10,2 e Pittella il 5,1». Parte la gara sul territorio. «Abbiamo vinto nelle grandi città», dicono dalla mozione sostenuta dalla sinistra pd (tra gli altri, D’Alema e giovani turchi). «Siamo saliti vorticosamente in Emilia Romagna, dove alle scorse primarie Bersani avevano stravinto», spiega il coordinatore del comitato “rottamatore” Stefano Bonaccini. E aggiunge: «Rischiamo di perdere di 200 voti perl’effetto Bologna, ma nel resto della regione siamo andati fortissimo » (anche se a Modena è in testa l’avversario). Così, Renzi è il candidato alla segreteria più votato dagli iscritti in Lombardia, ma Cuperlo si piazza al primo posto a Milano (ed è avanti nella roccaforte della sinistra di Sesto San Giovanni). Il dalemiano conquista anche i cuori della Bolognina, la sezione del capoluogo emiliano dove si consumò il drammatico trapasso del Pci di Achille Occhetto, e vince a Roma, anche se Renzi arriva primo in tutto il Lazio, dove supera il 50 per cento. Il sindaco è molto forte nella sua Toscana, e vincerebbe in provincia di Napoli (a Napoli città, però, la vittoria va allo sfidante, e un buon 9 per cento alterzo classificato Pippo Civati, che conquista invece Monteveglio, il paese dell’appennino bolognese dove nel 1995 Romano Prodi piantò simbolicamente un albero di Ulivo).
Vittoria sul filo per Renzi in Europa (lo annuncia soddisfatto il parlamentare europeo franceschiniano David Sassoli), mentre la mozione Cuperlo prevale e Bari. I conteggi continuano forsennati fino all’alba. Quel che è certo, già da adesso, è che la convenzione nazionale degli iscritti di domenica prossima sancirà l’uscita dalla gara dell’ultimo arrivato Gianni Pittella. E che gli altri tre continueranno una battaglia senza esclusione di colpi fino all’8 dicembre (il giorno in cui tutti — iscritti e non — potranno andare ai gazebo, pagare 2 euro e scegliere il loro segretario). Perché mentre Civati si dice tutto sommato soddisfatto, visto lo spiegamento di forze avversario, e presagisce: «Alle vere primarie ci divertiamo», Cuperlo e i suoi continuano a sottolineare che il 40 per cento è un successo straordinario, e che il trionfo di cui parlava Renzi non si è visto. Mentre il sindaco si mostra tranquillo e — con gli attacchi al ministro Cancellieri e a Massimo D’Alema aChe tempo che fa— lancia la volata alla campagna delle prossime tre settimane.

Repubblica 18.11.13
“D’Alema ha distrutto la sinistra se divento segretario rivolto Pd e Paese”
Renzi da Fazio espone il programma: via le Province e il Senato
di Giovanna Casadio


ROMA — Questioni concrete. Come il lavoro. «Che si deve trovare anche se uno non è il figlio di un prefetto...». Allusione al figlio della Cancellieri. Matteo Renzi a tutto campo. In tv a tre settimane dalle primarie, e nella serata in cui ci sono i dati semi definitivi sul voto degli iscritti del Pd, lancia l’offensiva del cambiamento. «Chi non vuole cambiare non voti per me alle primarie... è un appello al contrario». Però su Rai3, a “Che tempo che fa”, assicura lealtà al premier Letta, con qualche prezzo da pagare, perché il Pd è l’azionista di maggioranza del governo e allora «su Imu e non Imu si fa come diciamo noi». Quindi, se il sindaco di Firenze diventerà segretario del partito, ebbene «il segretario democratico e il premier nel 2014 saranno due persone differenti ma andranno d’accordo, perché le cose che si devono fare vanno fatte.
Letta sa perfettamente che se il Pd è forte e non gioca alla bella statuina anche il governo è più forte».
L’ironia sulle belle statutine, e su chi sta in Parlamento a fare niente, è feroce. Il “rottamatore” proclama: non ci saranno sconti per nessuno. «Dobbiamo parlare nel merito delle questioni, non della mia cravatta o della mia pettinatura... ». Su D’Alema è sarcastico: «D’Alema pensa che se vinciamo noi renziani distruggiamo la sinistra, senza pensare che l’hanno già distrutta loro». Una freddura che irrita l’ex premier, supporter di Gianni Cuperlo, lo sfidante di Renzi alle primarie. «È la prima volta da vent’anni D’Alema perde un congresso», rincara. D’altra parte al sindaco di Firenze e ai renziani non è andata giù la campagna dalemiana sul “Renzi estraneo al Pd”. Il partito con Renzi divenuto leader quanto cambierà? Stravolgerà il suo dna? Va rivoltato quasi tutto. Come un calzino da ribaltare è pure il paese. Perciò via le Province («Nel 2014 non si vota più per le Province »); via il Porcellum, l’attuale legge elettorale («Subito riforma elettorale»); e via anche il Senato. «Bisogna ridurre il numero dei parlamentari - insiste - e per farlo si dovrà eliminare il Senato e trasformarlo in una Camera delle Autonomie». Solo così «si supera il concetto di bicameralismo perfetto di cui aveva parlato il costituente e si semplifica: bisogna dividere per due il numero dei parlamentari per moltiplicare per due e biblioteche comunali e asili ». Nel Senato ci saranno i sindaci, i presidenti delle Regioni: nessuno prenderà una doppia indennità.
Ovvio che poi ce n’è per tutti. Per Berlusconi, per i “falchi” e per “le colombe” del fu-Pdl e per la scissione «a tempo determinato », neppure fosse Beautiful. Un caterpillar, Renzi. In quest’altra parte del campo politico, nel fronte del centrosinistra, garantisce rapporti franchi, pur ammettendo la propria ambizione di andare a Palazzo Chigi: «Ci sono momenti in cui bisogna fare un passo indietro, mi piacerebbe giocare la mia partita per il paese, ma in questo momento c'è un governo, sarebbe ingiusto da parte mia anteporre la mia ambizione personale all'interesse comune». Sarà il Veltroni di Prodi? Non lo sarà, però giù a testa bassa, battutacce e sciabolate. Sconvolto per le intercettazioni della Cancellieri? «Molto di più per quelle delle baby squillo». Grillo urla? «Più urla e più ha fallito. Cosa hanno fatto i 5Stelle, a parte quella che crede alle sirene e quello con i microchip in testa dopo essere stati eletti?». Praticamente nulla. E anche lì nel popolo grillino, Renzi conta di pescare consensi.

Repubblica 18.11.13
L’eclissi socialdemocratica è finita. Oppure no?
di Mario Pirani


Mentre sto leggendo il resoconto su un convegno svoltosi a Roma, autogestito da intellettuali di sinistra, con all’odg: “Ripensare una cultura socialista”, mi capita sotto gli occhi anche l’ultimo numero de Le Monde, con una pagina di analisi, intitolata: Partito socialista: come rianimare un astro morto?, dove si legge: «Il Ps non si è mai trovato in una situazione così critica. Tra il 1997 e il 2002, quando Lionel Jospin era primo ministro di un governo cosiddetto di sinistra plurale, il Ps diretto da Francois Hollande volgeva un ruolo di primo piano. Oggi il Ps è ad anni luce dal 1997. Rassomiglia ad un astro morto che non emette più alcun segnale udibile e svolge un’attività ridotta al minimo vitale – confessa uno dei suoi segretari che vuol conservare l’anonimato. Non accade più nulla, non si attende più niente».
Il convegno di Roma non parte così sprofondato in un nichilismo disperato e si alimenta almeno della libertà che i convenuti si sono attribuita, privandosi in partenza di ogni imperio leaderistico. Così ognuno parla secondo i temi che gli stanno a cuore. Reichlin torna ad evocare il “silenzio dei comunisti”, almeno dei sopravvissuti alle varie “bolognine”. Salvatore Biasco, che ha promosso personalmente il dibattito, lo valorizza come una presa d’atto di una frangia di intellettuali decisa a ribellarsi (speriamo non una tantum) al vuoto di interpretazione che annebbia ogni azione o iniziativa della sinistra. Un assenza e un mutismo da cui non ne uscirà facilmente.
Comunque, nello svolgersi numeroso degli interventi, è difficile ricavare un discorso comune, se pur articolato. Individuerei, peraltro, due filoni; l’uno impersonato da Nadia Urbinati, che imputa alle trasformazioni del capitalismo, il grave deterioramento delle qualità della democrazia, anche se la sinistra non è senza colpa, avendo pensato di prendere in mano in prima persona il neoliberismo. Da dove ripartire si chiede la studiosa della Columbia University per ritrovare gli ideali di eguaglianza, senso di sé e dignità delle persone? Anche se a parer nostro discutibile e destinata alla sconfitta, non si può non citare la vibrante chiamata al proscenio delle minoranze culturali e morali, le sole che appaiono disponibili a condurre lotte aperte e dichiarate contro la discriminazione, per la difesa dei beni comuni ed altri valori che sempre secondo la Urbinati si contrappongano al neo liberismo.
Un grande ritorno, che in Italia, purtroppo, non ha mai avuto fortuna, è stato invece largamente sollevato dal convegno (Biasco, Simone, Salvatore Pasquino, Rusconi, ecc.) ed è consistito in un rilancio della socialdemocrazia, non solo come ideale ma come pratica di una militanza rinnovata, sulla linea delle democrazie nordiche, capace di ridare allo Stato la capacità delle scelte. Ecco alcune citazioni: «I meccanismi lasciati al mercato, producono instabilità, diseguaglianze e grave differenziazione di potere che solo il primato della politica potrà contrastare. La società va costruita consapevolmente attraverso riforme e ingegnerie sociali che rimuovano potere e reddito, la social democrazia è una visione che pone come fine dell’azione politica e della mobilitazione popolare l’obiettivo di spostare continuamente in avanti la frontiera della socialità da incorporare nel meccanismo capitalistico ». «Il cittadino socialdemocratico è un cittadino che partecipa perché è convinto che la politica conti. Ma è indotto a ciò da un partito che comunichi cultura sapendo che non è l’unico a farlo ». «Oggi il contenitore che chiamiamo sinistra è quasi vuoto e molto malconcio. Lo scomparto comunista è collassato su sé stesso; quello socialista sta svuotandosi velocemente, come mostra l’andamento delle elezioni in gran parte d’Europa. Ma la fine del socialismo come paradigma dottrinale storico non ha estinto gli ideali di sinistra: il socialismo forse è finito, la sinistra no». Questa frase di Pasquino potrebbe stagliarsi come epigrafe del convegno.

La Stampa 18.11.13
Grillini, veleni e accuse via email
Nel mirino il ruolo di Casaleggio
I dissidenti: troppo potere. E parlano di un nuovo gruppo parlamentare
di Andra Malaguti


Domenica. Bar nel centro di Roma. Un senatore Cinque Stelle mostra il velenoso carteggio via mail tra una serie di colleghi e Claudio Messora, responsabile della Comunicazione del Movimento a Palazzo Madama. Un compagno di viaggio fino a ieri. Il nemico oggi. Ma è Messora l’obiettivo di questo nuovo melodramma di Palazzo, apparentemente destinato a a chiudersi con una scissione subito dopo il V-Day («Lo so, sembriamo Scelta Civica o il Pdl-Forza Italia, fa male ma è così»), o sono le Guide Illuminate Grillo e Casaleggio? «L’obiettivo è evitare che il Movimento si trasformi nell’ennesima esperienza autoritaria», dice il senatore, lasciando cadere le braccia come se fossero improvvisamente attratte dal pavimento. «Legga. Ci vogliono trasformare in un partito come gli altri. Anzi, peggio».
Beve un caffè d’orzo. Poi mostra le mail. Qui non ci sono falchi e colombe. Piuttosto vipere e manguste. Il linguaggio informale e spietatamente franco della posta elettronica rivela le lacerazioni di un universo terremotato. L’ultima scusa per azzuffarsi è la «piattaforma web» alla quale affidare le proposte di legge immaginate dai cittadini. Uno strumento che lo stesso Messora ha definito «poco più di un forum, un mezzo da perfezionare, comunque il primo passo verso una rivoluzione». A chi gli contesta che in questo modo Casaleggio parcellizza la partecipazione degli elettori e controlla direttamente gli interventi sul blog, il Capo della Comunicazione replica: «Le persone di cui voi senatori portate la voce sono (come in ogni partito) i comparabili ai tesserati. La democrazia diretta la fai con chi decide di partecipare attivamente».
Una risposta che scatena la bufera. «Questa è l’idea di democrazia diretta a cui pensano Grillo, Casaleggio e il loro caporale sul campo a spese degli italiani», si lamenta il senatore, mostrando la mail della collega XXX che recita. «Quanti sono gli attivisti certificati? Circa 400.000. Quanto sono gli elettori M5S? Circa 9 milioni. Quanti sono i cittadini interessati dalle leggi proposte e approvate? Oltre 60 milioni». Siamo un Movimento orizzontale o verticale? Immediata la risposta di Messora («XXX ti rendi conto che i dati sugli attivisti certificati risiedono sui server della Casaleggio? Se non usi la piattaforma integrata come credi che una vostra proposta possa trovare legittimazione?») che scatena l’ironia di un altro dissidente. «XXX rassegnati, anche tu non emani la luce». Non è solo la piattaforma ad alimentare il disagio. Anche la scelta di mandare in streaming solo una parte delle riunioni dei cittadini-senatori non convince la minoranza dissidente. «La diretta è Comunicazione, impatta sull’immagine complessiva del Movimento, dunque ricade sotto la giurisdizione non dell’assemblea, ma di Grillo /Casaleggio. Qui rappresentati da me», scrive Messora. Così una senatrice, apparentemente in preda all’angoscia di chi è convinto che la notte durerà per sempre, si ribella. «ALT!!! Leggo cose inaccettabili. GIURISDIZIONE? Claudio sei sicuro di conoscere il significato dei termini che usi? Se sì, mi giunge nuova la notizia di avere una giurisdizione da parte di Grillo (Casaleggio?) o di chiunque su quello che facciamo». E quel Casaleggio tra parentesi è l’emblema del collasso imminente. Inevitabili anche le accuse sul denaro. Un dissidente si sfoga: «Claudio, del tuo trattamento economico e del tuo comportamento parleremo con Casaleggio, complice di tutto ciò», Complice. E un altro: «Ne parleremo anche con gli attivisti, che già si sono accorti delle ingenti spese del gruppo per il tuo alloggio, oltre che della tua diaria e del tuo compenso fuori dal codice di comportamento». Messora non ci sta. Attacca. «Io non ho nulla che non sia trasparente (allega il link con la busta paga), gli attivisti invece si sono accorti dei 1800 euro in un mese e mezzo per abbigliamento e lavanderia e dei 1950 euro di abbigliamento e spese per la campagna elettorale». Siamo agli stracci. C’è chi interviene in difesa del Capo della Comunicazione. E del Guru milanese. «YYY per me stai delirando. Il nostro problema è Messora? Per carità, torniamo in noi».
Troppo tardi. I dissidenti, che a pranzo parlano apertamente di un nuovo gruppo, considerano gli ortodossi più estranei dei pastori del Shael che almeno vedono nei documentari del National Geographic. Ma è più facile rimanere affascinati dagli altri quandolivediintv.Osuunpc.Larealtà è sempre un’altra cosa.

La Stampa 18.11.13
Scontrini, cene e affitto. Gogna sul web per le spese
Su facebook i parlamentari M5S accusati di sprechi E finisce in rissa
di Andra Malaguti


ROMA Sette Novembre, San Prosdocimo. Nel ventre sterminato della divina rete, fa la sua apparizione una nuova decisiva pagina Facebook, battezzata: «Cittadini del M5S Attenti alle Spese dei Propri Parlamentari». Nasce ufficialmente il Comitato di Salute pubblica 2.0. Giacobinismo morbido da terzo millennio. La democrazia orizzontale, dopo l’ingresso nella Bastiglia parlamentare, accende il suo faro sulle spese dei cittadini-rappresentanti. «Mostrateci i conti. Mica ruberemo anche noi?».
Come cani da caccia che inseguono il richiamo di un nido di pernici, i guardiani della morale setacciano gli scontrini, confrontano le note spese, gli affitti, le ricevute dei ristoranti, dei bar, dei pub, dei taxi e dei bed & breakfast. E con la solerzia certosina di chi combatte per una giusta causa, inchiodano gli onorevoli-dipendenti alle proprie responsabilità. «Se trovate discrepanze o spese che non sembrano ragionevoli, chiedete numi all’interessato. Il vostro commento sarà visibile a tutti e non potrà essere cancellato». Rimarrà lì per sempre. Nell’armonica e soffocante neutralità del web.
La prima classifica-gogna, elaborata dal cittadino Carlos Antonio Bustamante Bozzi (nome incidentalmente perfetto per un inquisitore spagnolo), mette in fila i cattivi in questo ordine: prima Federica Dieni (rea di avere rendicontato spese tra marzo, aprile e maggio pari a 24.500 euro), secondo Alessio Tacconi (22.450), terza Marta Grande (22.100), quarto Ivan Catalano (19.300). Avete le tasche bucate o siete furbetti del parlamentino? E qui si apre un nuovo esplosivo capitolo nella complessa storia del Movimento.
Federica Dieni che ha giustificato ogni euro davanti al gruppo alla Camera cancella i commenti. La rete non la perdona. «Quello che hai speso è eccessivo e non in linea con gli standard degli altri. Spiegati per favore». Sembra la voce di Hal 9000.
Anche Tommaso Currò viene sottoposto al bombardamento. «Ma è vero che spendi ottanta euro per un pasto?». Lui risponde male «Deficienti» però risponde. «La mia media è di trenta euro al giorno». Sa che la rabbia non ha giustificazioni, ma questa consapevolezza non lo tranquillizza, anzi, lo irrita ancora di più. «Non dovevo scrivere deficienti. Ho sbagliato. Quando l’ho fatto ero molto giù. Pensavo di lasciare il Movimento. Ero stremato dalla fatica. Però resisto. Sono ancora qui. Mi impegno allo spasimo. E di certo non rubo». Certo, rubare non ruba, ma i caffè li paga un euro o ottanta centesimi? E la pizza è margherita? Il guardiano della morale Luca Granelli, con la sicurezza di uno che ha vissuto un’altra vita prima che esistessero la parola e il dubbio, se la prende con Marta Grande per i dodicimila euro spesi in alloggio in due mesi. Lei lo ignora. Lui la lapida. «La signora ladra ha fatto piazza pulita dei nostri commenti». Allora lei risponde.
«Ho fatto una fideiussione. Non sono soldi spesi, ma congelati». Basta? Non basta mai. Giacomo Anelli mette nel mirino i calabresi: «Oltre a Barbanti e Dieni controllate anche Molinari, che paga la Cassa Avvocati con la diaria». Come la prende il senatore-cittadino Francesco Molinari? Così: «Questa storia è una porcheria. Io, come gli altri, ho rinunciato al trattamento di fine mandato, ma non essendo un lavoratore dipendente non ho qualcuno che paga i contributi per me. Dunque ovviamente pago la Cassa con i miei soldi. Nel frattempo, rischiando di perdere i clienti di vent’anni, ho smesso di esercitare proprio per non avere conflitti d’interesse. Ma ormai qui è un po’ come il terrore durante la rivoluzione francese. E il peggio deve ancora venire». O anche, come disse Lazare Carnot a Louis Saint Just e a Maximilien Robespierre: «Voi siete dei dittatori ridicoli». È il caos o il Nuovo Mondo di Gaia?

l’Unità 18.11.13
Cronache di una democrazia malata
di Michele Ciliberto


Se uno guarda alla situazione dell’Italia in questo momento, ha la sensazione di stare assistendo, come in un laboratorio, a una crisi organica della democrazia e allo sconvolgimento di tutto un sistema politico. Non è cosa di tutti i giorni. Si tratta, in effetti, di fenomeni che vengono da lontano, e che toccano sia destra che la sinistra.
Ma che oggi si configurano con una limpidità e una chiarezza addirittura pedagogiche. Sono anche fenomeni che i classici della democrazia hanno ampiamente discusso e analizzato, senza successo bisogna aggiungere. Non è vero infatti che la storia è maestra di vita: ogni volta si ricomincia da capo.
La democrazia è, senza alcun dubbio, la migliore invenzione degli uomini per la loro organizzazione politica e sociale, ma declina e degenera quando si spezza la relazione tra «governanti» e «governati», con effetti negativi sugli uni e sugli altri. È in queste situazioni che può scattare la rivolta, l’«indignazione», la quale a sua volta può assumere varie forme: nel passato lo scontro aperto, la guerra civile, la rivoluzione; oggi la protesta, il discredito e il disprezzo verso le istituzioni, oppure il silenzio, la stanchezza, il rinchiudersi nelle forme di solitudine proprie dei tempi di crisi della democrazia.
In un Paese come il nostro in cui persiste una cultura, e un bisogno, di partecipazione questa situazione può sfociare anche in una esigenza generica e indistinta, ma radicale, di «novità». A una condizione però: che questa «novità» si presenti nei termini di una rottura netta, come l’affermazione di un «nuovo inizio» che taglia i ponti con il passato liquidando un’intera classe dirigente e, più in generale, tutta una storia. È la cosiddetta «rottamazione»: un termine brutto ma efficace, in grado di esprimere, con la sua violenza lessicale, l’ideologia di cui è figlio.
Il successo, a destra come a sinistra, di posizioni come queste ha solide radici: sgorga infatti dalle visceri della crisi organica della democrazia che stiamo attraversando. Ed è tanto più vasto quanto più essa si presenta in modo generico e indifferenziato: nelle situazioni di crisi è la questione generazionale che diventa, infatti, il contenuto o, almeno, il contenuto più importante, intorno al quale si agglutina il resto. Un solo esempio: oggi la crisi dell’Università viene presentata, anche dai suoi massimi dirigenti, come un problema generazionale. L’affermazione non è certo priva di fondamento ma è al tempo stesso grottesca, come sempre accade quando di fronte a una crisi si parte dagli epifenomeni, pur significativi, e non dalle radici.
Dalle radici occorre invece partire di fronte alle attuali convulsioni della destra e del centro, e anche ai problemi del Pd. Né c’è dubbio che oggi il problema di fondo sia costituito anzitutto dalla crisi organica della nostra democrazia che, in questi giorni, si sta ulteriormente accelerando per l’esplosione e la frantumazione dei capisaldi che, bene o male, hanno retto il nostro sistema politico negli ultimi vent’anni. È finita ormai una lunga storia; né è facile capire come la situazione evolverà, anche perché il destino dell’Italia non è più, e da molto tempo, solo nelle nostre mani.
Alcuni dati però appaiono chiari, sul piano del metodo e del contenuto. Bisogna anzitutto fare una analisi «sistemica»: qui non è in questione la sorte di un singolo partito o di uno schieramento. Si stanno logorando, e a volte spezzando, i vincoli che tengono uniti una nazione. Ed è in questo quadro che vanno situati i fenomeni che una fase di crisi organica della democrazia genera in modo naturale, ma tumultuoso e anche incontrollabile: corruzione, gravi degenerazioni, miserie da una parte; dall’altra un «ribellismo» inteso come bisogno certo indeterminato, tuttavia profondo e generalizzato, a destra e a sinistra di «novità». È un processo che coinvolge tutti gli schieramenti e che sarà destinato a radicalizzarsi ulteriormente se la crisi non verrà affrontata con mezzi adeguati.
Questo sul piano del metodo. Ma si può fare qualche considerazione anche sul piano dei contenuti, considerando la storia degli ultimi anni. Il partito «liquido» e il partito «personale» in modi diversi, ovviamente sfociano in forme autoritarie. È un dato acquisito: per molti aspetti sono facce simmetriche di uno stesso processo di degenerazione della democrazia rappresentativa. Infatti, più si restringono le basi del potere e si indeboliscono i meccanismi di controllo più aumentano i rischi di degenerazioni autoritarie e addirittura dispotiche e più duro e convulso diventa il rapporto tra «dirigenti» e «diretti» . Da questa situazione non si esce mettendo in quarantena la politica, subordinandola alla «tecnica»: al contrario, come abbiamo potuto constatare, per questa via si acuisce e si incancrenisce la crisi della democrazia. Dalla quale non si esce, né si può uscire, senza politica. Senza legami reciproci, senza vincoli, gli individui precipitano in forme di solitudine, di isolamento, di subordinazione: perdono quell’autonomia che è la condizione della loro libertà e, quindi, della democrazia. Oppure, si mettono alla coda di un capo, di un leader che sembra garantire loro, comunque, un elemento di «novità», una rottura con il passato, con la storia precedente, rifiutata come un cumulo di inganni o di errori. Sono entrambe strade senza uscita.
Democrazia vuol dire partecipazione; ma non ci può essere partecipazione senza organizzazione, cioé senza politica. Politica democratica, preciso: perché senza organizzazione non c’è democrazia. Questa è la vera sfida che abbiamo di fronte: in che modo organizzare la partecipazione, nel nuovo millennio, quando si sono esaurite le forme classiche della politica di massa, inventate nel Novecento? E come trasformare in strumenti effettivi di democrazia novità come la rete, capaci di sconvolgere la vita quotidiana di milioni di individui? In che modo intercettare, da sinistra, il nucleo di verità e l’esigenza di cambiamento che è racchiuso nel sentimento di indignazione, nelle forme di ribellismo, nella ideologia della novità e della «rottamazione»? Sono problemi che gli avvenimenti di questi mesi mettono sotto i nostri occhi in modo drammatico e che riguardano tutti, la destra e la sinistra, perché coinvolgono il destino della nostra democrazia, cioè dell’Italia. Sono domande complicate, alle quali non è facile rispondere, ma è su questo limite che dobbiamo camminare se si vuole uscire dalla crisi. Personalmente sono persuaso di tre cose: la prima, che bisogna individuare risposte radicali all’altezza della crisi che stiamo attraversando, perché non è tempo né di «riformismo dall’alto» né di soluzioni politiche e sociali «neocorporative»; la seconda, che sarebbe necessario un «cervello collettivo»; la terza, fondamentale, che dobbiamo imparare la terribile lezione di questo ventennio.

l’Unità 18.11.13
L’offerta politica è cambiata in trent’anni ma il Paese non si è salvato dal declino
La legge elettorale non stabilizza il sistema politico
di Carlo Buttaroni

Presidente Teknè

Per quasi quarant’anni l’offerta politica nel nostro Paese ha avuto come punto di riferimento tre partiti: DC, PCI e PSI. Intorno alle culture che esprimevano, quella cattolica e popolare, quella comunista e quella socialista, ha preso forma il sistema politico del nostro Paese.
Le elezioni politiche del 1987 sono state le ultime a svolgersi con tutti i partiti tradizionali ancora in campo. Da quel momento il quadro dell’offerta politica ha cominciato a mutare in maniera vorticosa, senza trovare più una configurazione stabile.
Nelle elezioni politiche nel 1992 si ravvisano i primi segnali delle trasformazioni che di lì a poco avrebbero cambiato completamente l’offerta politica pre-esistente. Non c’è più il Partito comunista, la cui trasformazione riflette i mutamenti degli equilibri politici mondiali (simboleggiati nella memoria collettiva dalla caduta del muro di Berlino). Alle elezioni si presentano due partiti di sinistra eredi del PCI: il PDS e Rifondazione Comunista, che ottengono, insieme, 8,5 milioni di voti. Ci sono ancora la DC (che perde consensi rispetto a 5 anni prima) e il PSI. Si afferma, per la prima volta, la Lega, verso cui confluiscono 3,4 milioni di voti, provenienti prevalentemente da ex elettori PCI e DC delle aree industriali del Paese.
SECONDA REPUBBLICA
Ma siamo solo all’inizio dei cambiamenti perché, due anni dopo, lo scenario è completamente diverso. Siamo nel 1994. Questa volta, l’epicentro del terremoto è nel “pentapartito”, cioè nella coalizione di forze che ruotano intorno all’alleanza DC e PSI. L’inchiesta “mani pulite”, sviluppatasi nel frattempo, colpisce al cuore i due partiti. Alle elezioni politiche i consensi di DC e PSI scendono a 5,1 milioni di voti, cioè 11,8 milioni in meno delle elezioni precedenti. Ma il ’94 è soprattutto l’anno di Forza Italia, che ottiene 8,1 milioni di voti, in gran parte provenienti da ex elettori democristiani e socialisti. L’altra novità è AN (erede del MSI) che diventa la terza forza politica del Paese e un buon successo lo ottengono sia il PDS che il partito di Mario Segni, ispiratore dei referendum che danno un’impronta bipolare al sistema elettorale italiano. È l’inizio di quella che è stata denominata, seppur impropriamente, seconda Repubblica.
Il sistema politico, però, è destinato ancora a cambiare. È il 1996 e gli italiani sono chiamati di nuovo alle urne. È l’anno di Prodi che vince le elezioni, coalizzando il centrosinistra sotto la bandiera dell’Ulivo. La contabilità elettorale segna un risultato negativo per Forza Italia che perde quasi 400 mila voti, mentre guadagnano consensi sia AN che la Lega. Sul fronte opposto registra un buon risultato Rifondazione Comunista, che cresce di 900 mila voti rispetto a due anni prima.
Passano cinque anni e l’offerta politica registra ancora novità sostanziali. Alle elezioni del 2001 si presenta per la prima (e unica) volta “La Margherita”, all’interno della quale confluiscono i popolari (ex DC) e i “democratici” (la neoformazione ispirata a Romano Prodi). La Margherita raccoglie 5,4 milioni di voti e si afferma come terza forza politica. Nel frattempo il PDS è diventato DS. A vincere le elezioni è Forza Italia, che ottiene 3,2 milioni di voti in più rispetto alle precedenti elezioni, mentre tutti gli altri principali partiti fanno registrare un saldo negativo. I DS scendono di 1,7 milioni di voti, Rifondazione Comunista di 1,3 milioni. Anche a destra l’emorragia è consistente: AN perde 1,4 milioni di voti, La lega 2,3 milioni.
Ma il sistema politico (e gli elettori) non hanno tempo di assestarsi. Nel 2006 per la prima volta si vota con il “porcellum” e alle elezioni non ci sono né la Margherita né i DS ma l’Ulivo, che ottiene 11,6 milioni di voti. Forza Italia, che nel frattempo ha cambiato simbolo, perde 1,9 milioni di voti, a vantaggio di AN e Lega.
Passano altri due anni e cambia ancora l’offerta politica. È il 2008. Questa volta la legge elettorale è la stessa della tornata precedente ma non ci sono più gli stessi partiti. E’ la prima volta, infatti, di PD e PDL. I democratici raccolgono 12,1 milioni di voti, il PDL, nato dall’unione di Forza Italia e AN, ne raccoglie 13,6 milioni.
Le elezioni del 2013 sono storia recente. I cambiamenti dell’offerta, per la prima volta, non derivano da divisioni o confluenze e non hanno “ceppi” politici da cui traggono origine. CI sono sia il PD che il PDL, ma è l’anno del Movimento Cinque Stelle, che ottiene 8,7 milioni di voti, mentre i due principali partiti perdono complessivamente quasi 10 milioni di voti. Il successo di Grillo non ha termini di paragone con il passato. Anche Forza Italia nacque improvvisamente nel ’94 ottenendo uno straordinario risultato, ma sul “ground zero” del pentapartito (Dc, Psi e alleati). Alle elezioni del 2013, il Movimento cinque stelle si fa spazio tra le forze politiche esistenti, nonostante queste siano comunque in campo, e ben attrezzate, con i loro apparati del consenso.
È di questi giorni l’ennesimo cambio nel panorama politico, segnato da un ritorno (quello di Forza Italia) e da una scissione (quella del Nuovo Centrodestra). Vicende che forse chiariscono gli equilibri di governo ma che non dicono nulla di nuovo al sofferente sistema politico italiano.
L’ECONOMIA E POLITICA
Abbiamo tralasciato tutte le vicende che hanno visto il formarsi e lo sciogliersi di una miriade di formazioni politiche minori. Ma è una ricostruzione che evidenzia l’instabilità del nostro sistema politico. E non basterà certo una nuova
legge elettorale a dargli solidità e quegli orizzonti lunghi che oggi mancano alla politica italiana.
Un’instabilità che si riflette negli andamenti economici. Basti pensare che il Pil dell’Italia è cresciuto del 55,7% negli anni sessanta, del 45,2% negli anni Settanta, del 26,9% negli anni Ottanta e del 17% negli anni Novanta. Nel decennio 2000-2010 la crescita è stata appena del 2,5%. Non è la prova ma un indizio che all’aumentare dell’entropia politica, il Paese ha progressivamente peggiorato le proprie performance economiche.
Ciò che è certo, invece, è che la crisi economica ha solo drammaticamente accelerato il declino del Paese, mettendo un segno meno davanti al Pil. La bassa crescita dell’Italia è precedente e si è alimentata, in questi anni, di una politica troppo impegnata a contabilizzare in fretta il consenso e a non fare, o ritardare, quegli investimenti sul futuro che richiedevano cicli di vita più lunghi di una sola tornata elettorale. Oggi paghiamo a caro prezzo questa miopia.

Repubblica 18.11.13
Morto un Pdl se ne fa un altro
di Ilvo Diamanti


OGGI più che mai occorrerebbe andare oltre il Porcellum. Per favorire la formazione di maggioranze coerenti e stabili e rafforzare il legame fra elettori ed eletti. Mentre, oggi più che mai, si assiste allo sfarinarsi dell’intero sistema partitico. A partire dal Centrodestra. Dove il Partito Personale di Silvio Berlusconi, il Pdl, è imploso. La ri-fondazione forzista (20 anni dopo) ha, infatti, prodotto la fondazione di un nuovo soggetto politico.Ncd: il Nuovo centro-destra.
Così, dalla divisione del Pdl, il Popolo di Silvio, sono emersi due popoli. I Berlusconiani Ultrà, guidati da Daniela Santanché, da un lato. I Diversamente Berlusconiani, guidati da Angelino Alfano, dall’altro. Gli uni (sedicenti) duri. Gli altri (sedicenti) moderati. Reciprocamente ostili e distanti. E insofferenti. Eppure entrambi “fedeli” al Capo.
Non fosse davvero aspro e lacerante il conflitto tra le due fazioni, almeno sul piano dei rapporti personali, vi sarebbe da sospettare un gioco delle parti. Fra componenti berlusconiane di lotta e di governo. Destinate, in caso di elezioni, a tornare insieme, come ha previsto lo stesso Berlusconi. Quasi una strategia di marketing e di marchi, come nell’offerta delle reti tv, per raggiungere diversi settori di mercato. Per stare sempre al governo e beneficiando, al tempo stesso, della rendita di opposizione. (Lo ha suggerito Enzo Cipolletta in una nota per l’agenzia InPiù.) D’altronde, il Porcellum spinge a costruire coalizioni ampie, le più ampie possibili, fra soggetti diversi. Più diversi che mai. Così, per vincere le elezioni, si creano alleanze che rendono difficile, in seguito, governare. Come dimostrano le legislature successive all’avvio del Porcellum. Dal 2006 a oggi. Attraversate da tensioni endemiche. Il virus della decomposizione ha contagiato anche la coalizione di centro. Vista la frattura tra Sc e l’Udc. Vista la scissione di Sc, dove alcuni parlamentari, guidati da Mauro, si sono staccati. Per riunirsi, forse, all’Udc. O, forse, ai “diversamente berlusconiani” di Alfano. Allargando, per paradosso, il peso di Berlusconi in Parlamento. Ma anche in prospettiva elettorale.
Sull’altro versante, nel Pd, le primarie non sembrano aver prodotto i benefici effetti di un anno fa. Quest’anno, d’altronde, non si tratta di eleggere il candidato premier della coalizione, ma il segretario del partito. Tuttavia, è difficile per qualsiasi partito, anche il più solido e coeso (e il Pd di questi tempi sicuramente non lo è), “sopravvivere” a oltre un anno di primarie,quasi ininterrotte. Perché le primarie accentuano, necessariamente, le divisioni interne, fra leader e componenti (correnti?). Tanto più se vengono adottati diversi modelli di competizione, che corrispondono a diversi modelli di partito. I congressi, che riflettono le logiche dell’appartenenza e dell’organizzazione “locale” dei vecchi partiti di massa. E le primarie, appunto, che evocano una logica maggioritaria e presidenzialista.
In questo modo, la scelta del segretario e degli organismi dirigenti del Pd rischia di avvenire attraverso spinte dissociative, più che associative. Indebolendo il leader, invece di rafforzarlo. D’altronde, D’Alema ha affermato all’Unità che Renzi non può – e non deve – vincere in modo troppo netto. Perché non deve «pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia».
Da ciò il contrappunto. Il centrodestra, Nuovo e Vecchio, si divide ma, in prospettiva elettorale, sembra in grado di riunirsi e di allargare la sua capacità di attrazione. Potremmo dire: morto un Pdl se ne fa un altro. Mentre il Pd si mobilita per eleggere il nuovo leader. Ma, al tempo stesso, si preoccupa di non rafforzarlo troppo.
Per questo, mai come oggi, sarebbe necessaria una legge elettorale in grado di contrastare la de-composizione in atto. Spingere al bipolarismo, se non al bipartitismo. Legittimare il leader della coalizione. Offrire agli elettori maggiori possibilità e poteri nella scelta degli eletti. I progetti in campo non mancano. Fra tutti: il doppio turno alla francese (proposto, di recente, da Giovanni Sartori insieme a Piero Ignazi e altri politologi); oltre al ritorno al Mattarellum, imperniato sull’uninominale di collegio. (Abolendo, magari, la quota proporzionale.) Si sente, altresì, parlare di ritorno al proporzionale. Un rimedio, come ha sostenuto Roberto D’Alimonte (sull’Espresso), peggiore del male. Tuttavia, dubito che il Parlamento riesca a produrre una nuova legge, diversa dal Porcellum. Anche se costretto dalla Corte Costituzionale, che, d’altronde, non mette in discussione il Porcellum in quanto tale — non potrebbe. Ma la soglia oltre cui fare scattare il premiodi maggioranza, per la coalizione vincente.
D’altronde, le leggi elettorali, nel dopoguerra, sono state “cambiate” solo per via extra-parlamentare, attraverso i referendum popolari (nel 1991 e nel 1993). Oppure con un colpo di mano, come nell’autunno 2005. Quando la maggioranza di Centrodestra, allora al governo, in vista delle elezioni dell’anno seguente, propose e impose, in fretta e furia, il Porcellum. Non per vincere le elezioni: non sarebbe stato possibile. Ma per impedire all’Ulivo di prevalere largamente, come sarebbe avvenuto con il Mattarellum. E, soprattutto, per ostacolare il futuro governo. Perché il Porcellum impone la costruzione di aggregazioni ampie, anzi: le più ampie possibili. Tra partiti e partitini diversi. Più numerosi e diversi possibili. E a tutti, anche ai più piccoli, attribuisce poteri di veto e di ricatto. I listini bloccati, infine, non danno agli elettori possibilità di scelta, ma accentuano il potere dei dirigenti di partito sugli eletti.
Così, è difficile cambiare questa legge. Perché il Porcellum è per tutti il “male minore”. Oggi, infatti, nessun partito è in grado di “vincere” da solo. A destra, sinistra e al centro: sono aumentate le divisioni e i personalismi. Lo stesso M5S, con questa legge, in Parlamento, può condizionare gli altri partiti, “costretti” a governare tutti insieme. Ma può, al tempo stesso, tenere insieme i propri parlamentari. Che, fuori dal M5S, difficilmente verrebbero ri-candidati.
Infine, istituire un nuovo e diverso sistema elettorale, aprirebbe le porte a nuove elezioni, eventualità temuta da tutti. Partiti e parlamentari di ogni schieramento, eletti da pochi mesi e, in maggioranza, alla prima nomina.
Per queste ragioni, nonostante i richiami del Presidente, nonostante i proclami politici e nonostante l’urgenza, ritengo improbabile, per non dire impossibile, che venga approvata una nuova legge elettorale “per via parlamentare”. Perché questi partiti e questo Parlamento sono figli del Porcellum. Come potrebbero uccidere il padre?enerale della Cei. O anche all’arcivescovo di Firenze Betori che potrebbe essere presto trasferito e che non ha mai nascosto una certa avversione nei confronti del sindaco fiorentino, Matteo Renzi, cattolico ma probabile leader del centrosinistra. «E’ chiaro — spiegava qualche mese fa proprio il candidato alla segretaria del Pd — che non sto simpatico all’Arcivescovo». Ed è chiaro che il disegno ruiniano punta a strappare anche una parte consistente dei cattolici del Partito democratico, i suoi dirigenti e anche i suoi elettori, minando le basi originarie del progetto che ha unificato gli ex Ds e gli ex Ppi. Nella consapevolezza che in questa fase la tolda di comando del fronte progressista è proprio occupata da ex popolari come Letta e Renzi, non interessati ad un’operazione neocentrista, e quindi simbolicamente in grado di sgonfiare gli scenari a favore della Nuova unità dei cattolici.
E del resto non è un caso che tra i pilastri della separazione da Berlusconi ci siano quegli esponenti del Pdl che nel 2009 si sono battuti in sintonia con le richieste del mondo ecclesiastico sul caso Englaro. Allora in prima fila spiccavano proprio uomini come Lupi, Quagliariello, Sacconi. Alcuni di loro cattolici dell’ultima ora che hanno abbracciato con vigore la ragioni della Chiesa. «In quei giorni — raccontava qualche mese fa Beppe Pisanu — Sacconi mi diceva “noi cattolici non possiamo cedere sul caso di questa ragazza”. E io gli rispondevo: voi ex socialisti atei in effetti sì che siete cattolici, mica un democristiano come me…».

il Fatto 18.11.13
L’ambulatorio dei raccomandati
Il 38 per cento ha la spinta. Più di uno su tre
Dalle showgirl a Freccia Alata, ma il paradiso è la politica
Giovanardi ne fa l’elogio: “Ho un ufficio apposta”
di Emiliano Liuzzi


Ci sono quelli che, come il senatore Carlo Giovanardi, arrivano a fare un elogio della spintarella. “Io a Modena”, spiega al Fatto Quotidiano, “ho il mio ambulatorio e più che altro è un ufficio raccomandazioni. Ma non ne vedo lo scandalo. Riesco a dare referenze a chi non ne avrebbe: aiuto il disoccupato e l’eventuale datore di lavoro”. Certo, e mantiene il suo personalissimo bacino elettorale. Non la pensano allo stesso modo le grandi aziende, multinazionali come Ikea e McDonald’s che a causa delle lettere di raccomandazione si trovano sull’orlo di una crisi di nervi. L’Ikea ha risposto pubblicamente all’assessore regionale che mandava le liste da assumere (“facciamo di testa nostra”) e McDonald’s ha risolto la questione con le selezioni di personale in piazza. Come dice al Fatto il direttore delle risorse umane del colosso della ristorazione, Stefano Dedola, esperienze in Galbani, Barilla e da dieci anni manager della multinazionale statunitense. “Per noi la spintarella non esiste. Ci provano, dai politici ai ristoratori, ma abbiamo fatto in modo che non funzioni così: i curricula arrivano on line, le selezioni del personale le facciamo in piazza. Anche perché dobbiamo fare tremila assunzioni nei prossimi tre anni e non abbiamo nessuna voglia di essere additati come quelli che assumono raccomandati. Siccome è già accaduto, salvo poi dover smentire, ci difendiamo dal vizio molto italico con la trasparenza. E cestiniamo la posta riservata alle spintarelle di questo o quello, del potente o dell’amico degli amici”.
Non è esente dalla spintarella l’università. C’è dentro fino al collo, mettiamola così. Un caso su tutti, quello di Maria Rita Lorenzetti, ex presidente Pd della Regione Umbria e allora presidente di Italferr, finita agli arresti per associazione a delinquere e corruzione nell'inchiesta sui lavori del passante Tav di Firenze. Il 3 settembre dello scorso anno Lorenzetti chiama la professoressa Gaia Grossi, ordinaria di Chimica generale all'università di Perugia e suo ex assessore alle Politiche sociali alla Regione Umbria. Comincia così una serrata serie di contatti telefonici. Obiettivo: raccomandare uno studente di Odontoiatria. Giustificazione: deve aprire uno studio a Terni. Il ragazzo deve superare al più presto un esame di patologia generale. E Lorenzetti si prodiga perché questo avvenga senza intoppi e senza troppi se. Ordinaria amministrazione (rossa) almeno dalle parti di Perugia. E non solo, ovviamente: ateneo che cerchi, grande raccomandatore che trovi.
Gaspari, il re d’Abruzzo
Il grande vecchio della raccomandazione in carta bollata portava il nome di Remo Gaspari, zio re', come lo chiamavano in Abruzzo. “Lo facevo per scopi caritatevoli, senza mai nessun guadagno”, raccontò in una delle ultime interviste. Potente lo era: se Pescara ha un aeroporto lo si deve a Gaspari: un volo al giorno, destinazione Roma. Talvolta era lui unico passeggero. Ma parliamo del passato. Come l'ufficio di piazza San Lorenzo in Lucina, regno di Giulio Andreotti, dove smistava curricula e pizzini a favore dei raccomandati. Per non parlare di Bettino Craxi, grande occupatore di Rai e di tutta quella finanza salottiera della Milano che fu: craxiani, talvolta, lo erano interi consigli d'amministrazione. La Rai era craxiana. Lo erano giornalisti di intere redazioni e inviati poi diventati vicedirettori e direttori, anche in epoca berlusconiana.
In tempi strettamente d’attualità c'è il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri che chiama il Dap per accertarsi delle condizioni in carcere di Giulia Ligresti, figlia del suo grande amico Salvatore, agli arresti anche lui. Non è una raccomandazione per farla scarcerare, così dice Cancellieri e conferma il procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli. Non è una telefonata usuale, mettiamola così. E la corsa alla raccomandazione non inizia e finisce qui. Ci sono quelle apparentemente più leggere come l’ufficio dell'Alitalia che lavora un giorno sì e l'altro anche perché questo o quello venga ammesso nel club Freccia Alata, sala d'aspetto vip a Fiumicino. “Non avete idea”, racconta una fonte in Alitalia al Fatto, “delle richieste che arrivano. Ogni giorno ne contiamo almeno una decina, tra scritte e fatte al telefono. Una lista infinita. Amici, fidanzate, amanti più o meno ufficiali. E funziona così da una ventina d'anni”. Tutto per un'ora d'attesa tra i potenti e le celebrità. Magari perché la catena di raccomandazioni si trasferisca anche lì, tra un aereo e l’altro. “Ci sono fior di parlamentari che passano intere giornate qui dentro”, racconta un’hostess di terra.
Spintarelle da larghe intese
Uno spazio, quello dell’attività di pressione, che viaggia anche ai tempi delle larghe intese. Come per Freccia Alata il viaggio verso Vedrò è ambito. Lì, dentro al think tank voluto da Enrico Letta e l'amico di sempre, Filippo Andreatta, grande addetto allo smistamento, abita mezzo governo e non da marzo, ma da molto prima. É lì che è nato l'amore bipartisan tra Francesco Boccia e Nunzia De Girolamo. Amici influenti di Vedrò sono Angelino Alfano, Anna Maria Bernini, Giovanna Melandri, Maurizio Lupi, Marianna Madia, Laura Ravetto e Flavio Tosi. Un incrocio che abbraccia tutto l'arco politico istituzionale. Non propriamente raccomandazioni anche se di attività di lobbying si parla.
Se parliamo di raccomandazioni, invece, vengono in mente Gaspari e Craxi, vero. Ma anche Fini e una pletora di berlusconisti. Berlusconi, appunto. Lui, in tempi recenti, non disdegnava occhio di riguardo anche per questioni molto meno fondamentali: agli atti del processo Tarantini si parla di molte raccomandazioni riguardo la partecipazione delle ragazze ad alcuni programmi televisivi, e persino di quanto accadeva in quei programmi televisivi. Berlusconi a un certo punto si lamenta del fatto che Barbara Guerra sia andata in nomination nel reality show La fattoria. “Mi sono arrabbiato perché… questi… questi delinquenti di autori hanno… adesso sono intervenuto e se la fanno uscire… poi… fanno uno sgarbo a me insomma". Sempre Berlusconi, in alcune intercettazioni, parla al telefono con Belén Rodriguez e le fa sapere di avere fatto pressioni perché fosse scelta per condurre Scherzi a parte. Più complicato il giro strettamente politico e mediatico che aveva stretto Berlusconi. Anche perché era diviso tra amici di bagordi e quelli cresciuti con lui. Memorabile la foto scattata alle Bermuda, nella villa del Cavaliere: c'erano il gruppo dei fedelissimi: Fedele Confalonieri. Adriano Galliani, Marcello Dell'Utri, Carlo Bernasconi. Ognuno portava in dote a Berlusconi uno dei suoi amici degli amici. Il secondo anello, era formato da Gianni Letta, Paolo Bonaiuti, Antonio Tajani. E un gradino più i basso Emilio Fede. Lo stesso Fede (ai tempi della Rai lo chiamavano sciupone l’africano per via delle note spese inviate dalle trasferte in Africa appunto) che ritroveremo ad Arcore, nelle feste con le olgettine. Ma a vario titolo ci sono passati tutti. Re Silvio badava a riempire i format televisivi con le amiche che si alternavano nelle sue serate a tema Bunga Bunga. C'era Nicole Minetti, il clan delle olgettine, l'ape regina, e via via a scendere, fino alle ballerine del Billionaire. Nella prima indagine Vallettopoli finisce anche l'attuale moglie di Briatore, Elisabetta Gregoraci. Durante un'interrogatorio ammette di aver più volte incontrato l'allora portavoce di Gianfranco Fini, Salvatore Sottile, che doveva procurarle ruoli da valletta. Incontri avvenuti alla Farnesina. Restano ammissioni della Gregoraci in fase di interrogatorio, ma nessun reato se non quello di peculato nei confronti di Sottile per l'utilizzo dell'auto blu che serviva a far accompagnare la Gregoraci alla Farnesina.
Belen, Minetti e cognati italici
Parlare di Fini porta alla memoria il caso del cognato più famoso della destra italiana, Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, la signora Fini. Tulliani destinatario di appalti da mamma Rai, oltre che dell'immobile di Montecarlo, aveva un referente a viale Mazzini in Guido Paglia, messo lì, dicevano i maligni, da Fini. Storie che la raccontano lunga sull'Italia della spintarella.
Spintarella che ha cambiato la ragione sociale, un po' per via del berlusconismo, fatto di lustrini e gambe mozzafiato, un po' per via della crisi. Ma che resiste. Bipartisan. Pd come ex Pdl.

il Fatto 18.11.13
Uno su tre ringrazia gli amici


SANTI, POETI, RACCOMANDATI. L’indagine è del 2010 ma ha il pregio di essere a cura dell’Isfol Plus, emanazione del Ministero del Lavoro. Ne emerge che nel 2010, il 30,7% degli occupati ha trovato un impiego grazie alla rete di amicizie e conoscenze e il 7,5% ha fatto affidamento sulla propria rete di contatti professionali. In totale, quindi, oltre il 38% dei lavoratori italiani è occupato grazie al sostegno di qualcuno. Dal 1972 al 1997 la ricerca di lavoro attraverso i canali informali riguardava il 24,4%. Tra il 1997 e il 2003 si passa al 34,5% mentre dopo il 2003 al 35,3%. Un peso ce l’hanno anche le auto-candidature inviate direttamente ai datori di lavoro: 17,7%. Il canale dei concorsi pubblici si è invece ristretto a causa del blocco delle assunzioni e del turn-over. Fino al 1997 accedeva al lavoro tramite questi canali il 29,5%, percentuale che dopo il 2003 è scesa sotto il dieci per cento degli occupati.
UN TERZO DEGLI OCCUPATI
Nel 2010, il 30,7% degli occupati ha trovato un impiego grazie alla rete di amicizie e conoscenze e il 7,5% ha fatto affidamento sulla propria rete di contatti professionali.
NIENTE TURN-OVER Il canale dei concorsi pubblici si è ridotto a causa del blocco delle assunzioni e del turn-over. Fino al 1997 accedeva al lavoro tramite questi canali il 29,5% degli occupati complessivi.

l’Unità 18.11.13
Sulla psicopatologia di Berlusconi
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Una persona che ha un comportamento come quello di Berlusconi può essere definito clinicamente paranoico? Io lo considero tale da oltre 20 anni. Tra l’altro trovo conforto nella testimonianza di una Signora che lo conosce molto bene e scrive: «è malato, curatelo». Sono convinto che soffre di tante manie che a volte diventano deliri.
LUIGI PINGITORE

Direi di no. Il disturbo di Silvio Berlusconi non è un disturbo paranoico nella misura in cui non è strutturato intorno ad un delirio sostenuto da una passione più o meno infondata e non corrisponde ad una perdita di contatto con la realtà. I tratti di personalità esibiti nel corso di questi 20 anni fanno pensare piuttosto ad un disturbo narcisistico di personalità perché Silvio Berlusconi è una persona che ha vissuto a lungo nel culto della sua immagine ed ha creduto in modo perfino ingenuo in chi, traendone vantaggio (i Lavitola) o per puro e semplice innamoramento (i Bondi) ha alimentato il suo bisogno di piacersi e la sua illimitata fiducia in se stesso. È proprio al disturbo narcisistico di personalità, d'altra parte, che si collegano naturalmente la sua tendenza allo svilimento del sesso e della donna che tanta parte ha avuto nel suo declino e la sua tendenza a proiettare sull'altro (il comunista o il magistrato «cattivo») la responsabilità dei suoi insuccessi. Confuso (il discorso sui figli che vivono come gli ebrei nei lager) e in crisi, il Berlusconi instabile di oggi è il bambino ferito dall'offesa di chi non crede più di lui. Quello di cui avrebbe bisogno ed a cui avrebbe diritto è un lavoro terapeutico capace di farlo mettere in contatto con il bambino spaventato che si nasconde dietro l’angoscia dell’adulto.

l’Unità 18.11.13
Migranti
«Io che non sono morto a Lampedusa»
di Costanza Spocci


MOUNIR RACCONTA LA SUA ODISSEA NEL MEDITERRANEO ALLA DERIVA SU UNA BARCA SENZA TIMONE E MOTORE NELLE STESSE ORE MORIVANO I 366 SALPATI DALLA LIBIA

Mounir è affacciato su un parco olandese, dalla sua finestra lancia pezzi di pane ai piccioni che si azzuffano più in basso. Aspetta di sapere se potrà ottenere l’asilo politico. Voleva arrivare in Svezia per raggiungere un amico di Amina, la sua sorella maggiore, ma da Stoccolma gli hanno negato il visto. Amsterdam, per ora, è stata più accogliente.
Ma questa è solo la fine della storia. Una fine insperata quando a 180 miglia dalla costa siciliana Mounir era senza cibo né acqua, su un ex peschereccio malandato con timone e motore fuori uso, insieme ad altre 130 persone troppo spaventate da quel mare nero per permettersi anche solo di dormire. «Per bagnarci le labbra riempivamo le bottiglie di plastica per un quarto di zucchero e per il resto con acqua di mare filtrata con le nostre calze». In quelle stesse ore di inizio ottobre, a poche miglia marine di distanza, altre 366 storie simili a quella di Mounir finivano inghiottite per sempre dall’acqua del Mediterraneo. «Sai qual è la prima cosa che ho fatto non appena sono sbarcato?» racconta Mounir, 28enne siriano di Aleppo, «ho chiamato mia sorella le ho detto di spargere la voce, di sconsigliare a tutti la traversata. Lì nessuno sa che cosa ti aspetta...».
TUTTO INIZIA UN ANNO FA
«Quando sono arrivato in Egitto nel settembre 2012 con la mia famiglia, pensavo che Assad sarebbe caduto nel giro di poco tempo e che saremmo tornati tutti indietro». Ma Assad è ancora al suo posto e anche in Egitto la situazione è cambiata. Dopo il massacro dei sostenitori di Mohammed Morsi ad Rabaa Al Adawiya, il governo egiziano e i media locali hanno accusato di terrorismo l’intera comunità siriana, stigmatizzata come pericoloso nemico da combattere. Da allora i siriani sono oggetto di minacce continue a tal punto da spingere migliaia di loro a scappare dal paese. «Non ce la facevo più, avevo paura e non riuscivo a trovare lavoro», racconta Mounir, «non appena ho avuto l’occasione sono partito». Mounir si ricorda bene quel giorno: «Era il 18 settembre ed ero steso sul divano a casa di un amico a guardare un film. Ad un certo punto è squillato il cellulare. Era Amina, mia sorella: “Il marito di Fatma parte oggi per la Svezia. Muoviti, puoi andare con lui”. Sono corso a casa, ero molto agitato. In un quarto d’ora ho infilato un paio di vestiti nello zaino, ho preso l’iPad e sono saltato su un microbus per Alessandria insieme a Mahmoud». «Sono stata io a spingerlo a partire – racconta ora Amina – con soldi miei messi da parte gli ho pagato il viaggio, mi avevano giurato che non sarebbe stato pericoloso». Da circa un anno, i quartieri di Agamy, Miami e Montaza, a est di Alessandria, sono diventati la nuova little Syria alessandrina. Qui spuntano negozi di siriani un po’ ovunque. Chi fa il pane o chi il formaggio artigianale, chi ha ristoranti che si chiamano “Damasco” o “Ibn al Surya”. È qui che incontrammo Mounir prima della sua traversata. Qui gli intermediari tessono il loro business. «Questi personaggi guadagnano il 10% a migrante. Sono in media 3000 dollari a viaggiatore, 150 passeggeri a tratta e almeno due partenze a settimana». In mezzo a tutto questo viavai, quando Mounir arriva ad Alessandria è disorientato. Ma Mahmoud ha in tasca il contatto di un suo compaesano che si guadagna il pane trafficando persone. «Abbiamo aspettato due notti a casa di quest’uomo. Non ci diceva nulla, né quando saremmo partiti, né da dove. Poi d’un tratto è arrivata una chiamata. L’intermediario ci ha fatto salire su un microbus vicino al tunnel della Strada 45 e ci ha detto di scendere a Ezbet el Rasheed».
La destinazione di Mounir è un quartiere periferico sulla costa est di Alessandria, a pochi chilometri dalla spiaggia di Abo Qyr, uno dei punti da cui partono la maggioranza delle barche cariche di migranti. «Un uomo ci ha condotto in un appartamento di tre stanze in cui erano già stipati una quarantina di siriani, c’era sporco e una puzza terribile. L’attesa è durata diversi giorni. Poi una notte mi sono ritrovato in un pick-up coperto di tappeti» continua «ci ha scaricati nel bel mezzo di un palmeto. Da lì a piedi per mezzora fino ad una spiaggia». Quattro barchette blu a motore li aspettavano: navette per uscire velocemente dalle acque territoriali, con 40 persone di carico massimo ciascuna. «Un peschereccio scalcinato ci ha raggruppato una volta raggiunte le acque internazionali, sarà stato 10 metri per 2, decisamente troppo piccolo per reggere il peso di tutti».
La barca non fa che oscillare. «Dopo diverse ore abbiamo iniziato a protestare. Eravamo stanchi e impauriti, non mi fidavo di chi ci stava guidando. Se avessimo continuato con quella barca fino alla Sicilia saremmo morti tutti di sicuro». Una barca lunga almeno 25 metri, invece, appare all’orizzonte. In piena notte i trafficanti sul peschereccio più piccolo lanciano corde per agganciare le due imbarcazioni, ma le onde le fanno cozzare e la fiancata e la prua del peschereccio di Mounir vengono fatte a pezzi. Quando sale, Mounir intravede subito il capitano della nuova nave. È un egiziano piuttosto grosso, aiutato da una ciurma di 32 persone. Mangiano fagioli e carne in scatola sotto gli occhi dei siriani, il cui pasto invece si limita a un po’ di pane.
La navigazione va avanti per cinque giorni, a 180 miglia dalle coste siciliane il capitano ritrasferisce i passeggeri sul peschereccio più piccolo e malridotto, rimorchiato durante il viaggio. «Se la Guardia Costiera Italiana deve sequestrare un’imbarcazione, che sequestri quella». Quattro egiziani montano con loro, per scoprire poco dopo che il timone non funziona e nemmeno il motore. «Ero in mezzo al mare su un peschereccio che poteva colare a picco da un momento all’altro. Neanche il GPS funzionava. Credo che sia stato il momento più spaventoso della mia vita». I migranti hanno un Thuraya, un telefono satellitare, che il capitano ha lasciato loro in cambio di mille dollari, ma la Guardia Costiera italiana non risponde. I compagni di viaggio e Mounir si armano di cellulari e tablet, utilizzando il poco di batteria che rimane per individuare la loro posizione in mare e trovare una rotta. Quando l’ultimo telefono si spegne, i viaggiatori bruciano vestiti per un’intera notte, con la speranza di attirare l’attenzione delle navi di passaggio, ma invano.
Vanno avanti così per altri tre giorni, senza cibo né acqua. Finalmente due pescherecci italiani vanno in loro soccorso. «Una delle barche si chiamava ‘Napoli’, sono loro che hanno avvisato la Croce Rossa». Dopo quattro ore tutti i 136 migranti e i quattro egiziani sono tratti in salvo sulle coste di Siracusa. Ad aspettarli, la polizia italiana. Giunti al CIE di Siracusa i viaggiatori sanno come comportarsi. «Se vuoi fare richiesta di asilo in Svezia non devi lasciare la tua impronta digitale alla polizia italiana». Siccome nessuno vuole lasciare la propria, nel CIE di Siracusa scoppia il putiferio. Tre siriani finiscono in ospedale per le manganellate. Tutti gli altri sono costretti a lasciare le impronte sotto lo sguardo minaccioso di tre agenti dalle spalle enormi.
«Dopo le impronte e una notte passata con altre centinaia di eritrei e somali al CIE, tre poliziotti mi hanno aperto le porte del centro e mi hanno lasciato andare senza problemi verso nord». Anche se in Svezia non ha potuto richiedere l’asilo, in Olanda gli è andata meglio. «Tutta la mia famiglia è in Egitto, non so se un giorno riusciremo ad essere di nuovo insieme» sospira Mounir.

l’Unità 18.11.13
Carceri, sinistra senza anima
di Luigi Manconi


Vito Manciaracina, 78 anni, condannato in via definitiva all’ergastolo, detenuto presso il Centro clinico del carcere di Bari, affetto da paralisi degli arti inferiori, epilessia e demenza senile. Il 7 novembre scorso, la Procura della Repubblica ha chiesto il rigetto dell’istanza di sospensione della pena.
Così come la richiesta alternativa di poterlo trasferire in un’idonea struttura sanitaria. Brian Gaetano Bottigliero, 25 anni, condannato in primo grado a nove anni di reclusione, detenuto nel carcere romano di Regina Coeli. Nel gennaio scorso gli viene diagnosticata un’insufficienza renale cronica. In attesa di un trapianto di rene, è sottoposto a dialisi tre volte alla settimana. Le richieste di termine o quantomeno di attenuazione delle misure cautelari, sono state rigettate dal magistrato competente perché sussisterebbe a suo carico un «pericolo di fuga». Vincenzo Di Sarno, 35 anni, condannato in via definitiva, detenuto nel carcere napoletano di Poggioreale, affetto da un tumore al midollo spinale. Gli è stata rigettata l’istanza di scarcerazione per incompatibilità con lo stato detentivo.
Le tre vicende qui sintetizzate, che gridano vendetta davanti a Dio e agli uomini, rappresentano altrettanti casi di stridente e crudele incompatibilità tra condizione patologica e reclusione in cella. E si tratta di vicende che, secondo un’opinione diffusa, dovrebbero rappresentare plasticamente quella «disparità nel trattamento» dei detenuti che il caso di Giulia Ligresti avrebbe evidenziato. Le cose non stanno propriamente così. E, infatti, su quelle tre storie di sofferenza e agonia in stato di privazione della libertà qualcuno ha presentato interrogazioni in Parlamento, ha sollecitato l’attenzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, della magistratura di sorveglianza e dei tribunali e ha informato il ministero della Giustizia. Qualcuno, appunto, solo qualcuno. Eppure sono tre settimane almeno che l’intera polemica sul «caso Ligresti-Cancellieri» ruota intorno alla presunta Ingiustizia Assoluta di un interessamento istituzionale che privilegerebbe solo ed esclusivamente i detenuti «eccellenti» e quelli che vantano importanti relazioni familiari o sociali. Io so che il ministero della Giustizia e il suo attuale titolare, ma anche quello precedente, Paola Severino, in decine e decine di casi non si sono comportati affatto così: e hanno mostrato sollecitudine e hanno operato attivamente a favore di detenuti anonimi, privi di risorse materiali e immateriali, di avvocati e di tutele. Ma su questo già ha risposto e, se crede, risponderà ancora Annamaria Cancellieri. Qui mi preme evidenziare altro. Ovvero il fatto che, se la Ligresti ha ricevuto l’attenzione del ministro e, a seguire, del sistema dell’informazione e del Parlamento, Manciaracina, Bottigliero e Di Sarno sono stati ignorati da tutti. E, insieme a loro, sono stati ignorati decine e decine di detenuti che patiscono condizioni assai simili. Per quanto riguarda l’informazione, a parte questo giornale, il Sole 24 Ore, il Manifesto, il Tempo, un articolo del Fatto e il settimanale Tempi, a quelle vite che si spengono in carcere è stata dedicata appena qualche riga nelle pagine locali di alcuni quotidiani. E dai quasi mille parlamentari mi scuso anticipatamente in caso d'errore solo una o due interrogazioni. Nessuna, sempre che non mi sbagli, è stata presentata da uno tra i moltissimi deputati e senatori che hanno pensato fosse brillante forse addirittura esilarante ripetere ad libitum la genialissima battuta sui «fortunati» che dispongono del telefonino del ministro. E nemmeno hanno presentato agguerritissime interrogazioni o hanno compiuto penetranti visite ispettive tutti quei parlamentari così tanto, ma così tanto «di sinistra», e così tanto, ma così tanto «dalla parte dei cittadini». E ovviamente non uno (ma bastava anche mezzo) di quei fichissimi super-garantisti che spuntano come funghi a destra. Si è palesata in tal modo, e fino in fondo, l’ipocrisia un po’ oscena di tante parole udite nelle scorse settimane: a conferma del fatto che la pretesa battaglia egualitaria contro i privilegi di Giulia Ligresti dissimulava una assai diversa, e meno rispettabile, pulsione. Non una richiesta di eguaglianza che portasse l’anonimo detenuto, in caso di grave patologia, a ottenere quel trattamento che la legge prevede per lui come per Giulia Ligresti, bensì il livellamento anche di quest’ultima verso l’azzeramento delle garanzie e dei diritti. Per lei come per tutti i Vito Manciaracina d’Italia (per non parlare di quelli che, a loro disdoro, oltre che detenuti sono addirittura stranieri).
Post scriptum.
Sono decisamente un uomo all’antica. Lo deduco, tra l’altro, dallo stupore che mi coglie nell’apprendere che un connotato di forte identità di una componente del Partito democratico, quella che si vorrebbe di sinistra (ahi, quanti delitti si commettono in tuo nome), sarebbe rappresentato dalla richiesta imperiosa di dimissioni di Annamaria Cancellieri. Tale richiesta, va da sé, verrebbe fatta in nome della «legalità». Che, poi, un comportamento ritenuto tanto scorretto da richiedere le dimissioni di un ministro, riguardi una detenuta riconosciuta incompatibile e «legalmente» scarcerata, sembra irrilevante; e che, ancora, il ministro sotto accusa sia quello che, forse, più ha fatto per modificare il nostro infernale sistema penitenziario, alla sinistra del Pd sembra interessare poco o punto. Ha ben altro a cui pensare.

il Fatto 18.11.13
Dati im
pietosi
In prigione solo il 13% lavora

Carlo Mazzerbo, direttore del carcere di Gorgona, lo ripete spesso: soltanto il 13 per cento dei detenuti italiani lavora. Le conseguenze sono pesanti: avvilimento, perdita di speranza e di capacità che sarebbero invece essenziali al momento del ritorno alla libertà.
La popolazione carceraria oggi è di 65.891 persone. Un numero assolutamente eccessivo rispetto a quello che potrebbe essere ospitato nelle nostre carceri. Ma invece di costruire nuove strutture, di rendere umane le esistenti, di fare ricorso a pene alternative, si aspetta che la situazione arrivi al-l’emergenza per adottare provvedimenti tampone: come l’indulto del 2006, ultimo di una lunga serie. Risultato: dopo sette anni la situazione è tornata come prima. E c’è chi sollecita amnistia e indulto.
L’Italia, però, è agli ultimi posti delle classifiche europee per numero di detenuti per abitanti, dietro soltanto alla Germania. Siamo distanti anni luce da quello che accade negli Stati Uniti. Secondo uno studio del Dipartimento di Giustizia Usa del 2006, oltre sette milioni di americani erano in carcere o sottoposti a una qualche forma di vigilanza. Una persona su 32, un primato non soltanto moderno, ma in tutta la storia. Non se la passano molto meglio Cina e Russia. Gli esempi positivi vengono dal nord Europa: la Norvegia ha il minor numero di detenuti. La Svezia nel 2013 ha chiuso quattro carceri. La soluzione: un ampio ricorso a pene alternative, effettivamente scontate. Il carcere spesso non è necessario. Non protegge la comunità e non rieduca il detenuto.

il Fatto 18.11-13
Gorgona
Detenuti con una speranza
L’isola e il sogno di un carcere umano
di Fabrizio d’Esposito


Gorgona è un’isoletta. Ma anche un’idea, una speranza. Gorgona, appena due chilometri quadrati, a diciotto miglia marine dalla costa toscana, è la Costituzione che vive, che non giace lettera morta. Dall’articolo 27 della nostra Carta: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quando Carlo Mazzerbo sbarcò lì per la prima volta visse emozioni contrastanti. Dolci. Violente. “Il profilo di un volto femminile adagiato sull’orizzonte. Sì, Gorgona vista dal mare piatto del mattino sotto un sole equatoriale sembra una bella addormentata”. Il vento di terra, cioè il grecale, però fa brutte sorprese: “Coliamo a picco tra mezzi sorrisi e un po’ di apprensione, anche se siamo a poche decine di metri dalla riva e sappiamo nuotare. Mi preoccupa soprattutto il destino della barca, che immagino costosa, e sono in ansia per il detenuto, umiliato dal fallimento”.
  Carlo Mazzerbo è stato ed è il direttore del carcere di Gorgona. Prima per tre lustri, dal 1989 al 2004, poi per altri due anni, dal 2008 al 2010, “in missione”. Di nuovo, infine, dall’ottobre scorso. Impegno condiviso con la direzione della casa circondariale di Massa Marittima. “Posso dirmi orgoglioso: nei due chilometri quadrati dell’isola più piccola ma più verde e bella dell’Arcipelago toscano, l’articolo 27 della Costituzione, le disposizioni sul lavoro e lo spirito della Riforma del 1975 sono stati applicati, mentre ritardi e inadempienze pesavano e pesano ancora come una condanna senza appello”. A Gorgona si basa tutto sul lavoro. Poi ci sono la cultura e lo sport e la musica. Cinquanta detenuti, un tempo erano 120, che coltivano la terra, allevano mucche e maiale, producono vino, giocano a calcio, suonano, studiano. Un altro esperimento vincente è stato il laboratorio di acquacoltura. Mazzerbo ha raccolto la sua esperienza unica, fatta anche di sconfitte (suicidi, evasioni, finanche due omicidi), in un libro scritto con il giornalista Gregorio Catalano: Ne vale la pena. Gorgona, una storia di detenzione, lavoro e riscatto (Nutrimenti, 189 pagine, 16 euro). Un racconto in prima persona, a cuore aperto, aperto come il carcere-modello di Gorgona. La natura al posto delle sbarre.
NE VALE LA PENA . Gioco di parole che in questa Italia dove le carceri sono da buttare, i detenuti solo corpi da rinchiudere e amnistia e indulto sono la panacea per vuotarle ciclicamente, gioco di parole, dicevamo, che serve a scolpire un dato spietato. Racconta ancora, Mazzerbo: “Oggi la popolazione carceraria è di 65.891 unità, con ventimila eccedenze, trentamila secondo Antigone, l’associazione che si occupa con sensibilità e attenzione dei problemi penitenziari. Ebbene, appena il tredici per cento lavora, il resto trascorre venti ore in cella senza poter svolgere alcuna attività. E torna a delinquere solo il venti per cento di chi viene affidato ai servizi”. “Appena il tredici per cento”: un altro modo per violare la nostra Costituzione. L’articolo 27. Questione di mentalità, di pregiudizi, di risorse. “Nei ministeri, non solo quello della Giustizia, e negli organismi di polizia sopravvive una visione repressiva, legata anche a limiti culturali, un atteggiamento cieco, controproducente, nei confronti della popolazione carceraria”.
Il direttore di Gorgona ribalta questo schema. È un siciliano di Catania. Un “dirigente democratico”, come si diceva un tempo, che suscita diffidenze e sospetti per le sue letture comuniste. Sull’isoletta approda che è trentenne. Il carcere aperto è già un gioiellino. Merito del predecessore Bonucci , che però è geloso della sua creatura ed evita contatti con la terraferma. Autarchia. Mazzerbo, con l’aiuto di Niccolò Amato, allora capo dell’amministrazione penitenziaria, cerca di “aprirsi al mondo”. Le difficoltà sono politiche e burocratiche, ovviamente, ma la passione e la costanza fanno miracoli. Impensabili. Tipo il Tg Galeotto, “il nostro piccolo capolavoro”. I detenuti in video, su un’emittente locale della costa toscana. Ogni giovedì sera. “Toccanti e sempre sinceri gli interventi dei detenuti. Uno spiega così la differenza tra un carcere chiuso e la nostra esperienza: ‘Quasi tutti gli istituti sono solo contenitori di carne umana: quando ce n’è troppa, viene spostata come un pacco in un altro recipiente’”. A Gorgona i detenuti sono uomini. Coi loro delitti e i loro sbagli, ma pur sempre uomini. Il riscatto è un processo lento, faticoso, paziente. I dettagli sono decisivi. “Accogliamo detenuti con condanne pesanti, ma solo quelli con un fine pena non superiore ai dieci anni, insomma chi con la buona condotta e le norme su permessi e semilibertà abbia una prospettiva non lontanissima di vita all’esterno. Perché se sai di dover marcire in cella per quasi tutto il resto dei tuoi giorni, a che serve lavorare? Per regolamento, niente tossicodipendenti, appartenenti alla criminalità organizzata, mafiosi”.
A Gorgona vivono anche cinque “civili”: zia Cesarina e zia Irma, la signora Luisa, il pescatore Gigi e la moglie Marisa. Un altro risultato fantastico è una band di “guardie e ladri”. I Dentro: “Ascolto da casa, sulla collinetta di fronte, a poche centinaia di metri in linea d’aria, la musica che si diffonde nell’isola. Sembra di vivere uno di quei racconti pieni di colore immersi nel realismo magico di Gabriel Garcia Marquez”. La storia dei Dentro è la storia di Oscar Fochetti, chitarrista. Un ragazzo romano di borgata, orfano. Concorso in rapina e omicidio. Per Mazzerbo umanità non vuol dire permissività. Ma scambio e voglia di aiutare e aiutarsi. Oscar è irreprensibile. Poi, però, riprende a bere. Con i primi permessi ha scoperto che fuori non ha più nulla. Al cappellano confida: “Il mio mondo non c’è più, anche la mia ragazza non se l’è sentita di aspettare e mi ha lasciato”.
È QUESTA L’INCOGNITA oltre l’orizzonte, verso la costa. Il mondo. E Gorgona è troppo avanti rispetto alla realtà. “Una sera Oscar decide di farla finita”. Beve. Coma etilico. Muore a 34 anni. La storia di Giorgio è diversa. Spaccio. Prende la licenza media. Fa l’economo di Gorgona. È bravissimo. Ottiene la libertà condizionale. Lavorerà nella ditta del fratello. Il giorno più bello cade di martedì, con il passaggio della nave. Ma Giorgio rimane. Dice al direttore: “Non partirò prima di aver smaltito l’arretrato. Vede, non mi è stata mai concessa tanta fiducia, qui ho imparato che va sempre ripagata. Cosa vuole che siano due o tre giorni?”. A Gorgona è l’utopia che si realizza. “Giorgio è la vittoria di chi non vede il carcere solo come punizione. Il giorno della partenza lo faccio salire con le sue poche cose sulla jeep e lo accompagno al porto. Ci abbracciamo, sono più emozionato di lui, mentre si imbarca piango”.

La Stampa 18.11.13
All’Angelus
Il Papa: “Non fatevi ingannare da santoni e falsi salvatori”
Bergoglio: vogliono attirare a sè soprattutto i giovani
L’arcivescovo Scola si unisce all’appello: «C’è chi approfitta del malessere diffuso»
13 milioni sono gli italiani che ogni anno si rivolgono al mondo dell’occulto. Nel 2011 erano 12 milioni, nel 2001 erano 10 milion
6,5 miliardi è il giro di affari generato dall’occultismo in Italia La cifra è arrotondata per difetto: quasi tutte le prestazioni sono in nero
di Giacomo Galeazzi


CITTÀ DEL VATICANO «Non lasciatevi ingannare dai santoni». In pieno boom dell’occultismo (13 milioni di italiani si rivolgono ai maghi, +30 in un decennio: 155mila operatori dell’occulto, giro d’affari di 6,5 miliardi nel 2013) Francesco lancia un accorato «invito al discernimento» perché «ci sono falsi salvatori che tentano di sostituirsi a Gesù».
All’Angelus il Papa mette in guardia dai «leader di questo mondo, santoni, stregoni, personaggi che vogliono attirare a sé le menti e i cuori, specialmente dei giovani». E raccomanda: «Non andate dietro a loro, non bisogna lasciarsi ingannare dai falsi messia né farsi paralizzare dalla paura». Gli antidoti sono «la testimonianza e la perseveranza». L’insegnamento di Gesù «è sempre attuale, anche per noi che viviamo nel XXI secolo», con la sua sollecitazione a «non lasciarsi ingannare da quanti verranno agitando falsamente il nome di Dio». In queste situazioni serve «il discernimento, virtù cristiana che fa capire dove è lo Spirito del Signore e dove è il cattivo spirito». Perciò Francesco esorta i fedeli a non avere paura di fronte a nessuna prova della vita: «Guerre, rivoluzioni, calamità naturali, epidemie, persecuzioni». La fede in Cristo «libera dal fatalismo e da false visioni apocalittiche», e assicura che «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» perché «siamo totalmente nelle mani di Dio.
Bergoglio invoca «speranza e pazienza». Nonostante i disordini e le sciagure che turbano il mondo, «il disegno di bontà e di misericordia di Dio si compirà». Tuona contro l’occultismo anche l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola: «Siamo esposti al rischio della seduzione e dell’inganno da parte di falsi profeti che approfittano del malessere diffuso e della confusione generale per divulgare le loro dottrine fallaci». Quindi «anche i cristiani devono essere vigilanti». Infatti «chi opera contro Dio si fa sempre più vittima di una potenza ingannevole che seduce e conduce fino al rifiuto dell’abbraccio della verità, giungendo così alla perdizione». E «la condanna di Dio non fa altro che ratificare l’atteggiamento colpevole di chi non si lascia abbracciare dalla verità».
Con il monito a fare attenzione a «santoni e falsi salvatori», Francesco «ha attualizzato le parole di Gesù nel Vangelo e le ha calate con parole chiare nella realtà di oggi, sempre più afflitta da santoni, maghi, occultisti, mercenari dello spirito che approfittano della buona fede e delle difficoltà della gente, veri e propri criminali che sfruttando una parvenza di religiosità finiscono per rovinare la vita a tante persone», commenta don Aldo Buonaiuto, responsabile del servizio anti-sette della comunità Giovanni XXIII: «Tanti falsi maestri offrono a caro prezzo le loro presunte soluzioni ai problemi delle persone. Il fenomeno è più esteso di quanto non si pensi comunemente, non c’è provincia italiana che ne sia esente». E «adesso si stanno affermando le micro-sette, composte da non più di 20 persone, gruppi egemonizzati da un leader che si propone come mago, guaritore o veggente: il Pontefice sottolinea un tema preoccupante e inquietante».

La Stampa 18.11.13
«Francesco è preoccupato: sa che 3 italiani su 10 vanno dai maghi»
3 domande a Massimo Introvigne sociologo
di Gia Gal.


ROMA Massimo Introvigne, sociologo, è fondatore del Centro Studi sulle Nuove Religioni. Perché questo monito?
«Il Papa parla spesso di soprannaturale e del demonio. Ieri ha anche fatto distribuire la corona del rosario che ricorda la rivelazione privata di Santa Faustina Kowalska. Evidentemente sa che il 30% degli italiani si rivolge ai maghi, quindi si preoccupa di distinguere il soprannaturale cattolico da quello non cattolico».
Se lo aspettava?
«Bergoglio non si fa ingabbiare dalla superata distinzione tra progressisti e conservatori: recupera la religiosità popolare di cui già in Argentina era devoto. E raccomanda di non prendere tutto per buono».
Da cosa nasce l’invettiva?
«Già in un’omelia a Santa Marta il Papa aveva avvertito che non ci salvano né maghi né tarocchi, ma Gesù. E ripete che bisogna sempre vigilare contro l’inganno del demonio. Non si può seguire la vittoria di Gesù sul male “a metà” e non si può confondere, relativizzare la verità nella lotta contro il demonio».
[GIA. GAL.]

Corriere 18.11.13
Il papa e gli italiani. Un re da “Ancien Régme”
risponde Sergio Romano


IL PAPA E GLI ITALIANI UN RE DA «ANCIEN RÉGIME» Mi sembra che sia veramente esagerato lo spazio dedicato dai media al papa. Il nostro Paese non ha una religione di Stato e quella cattolica, sebbene sia della maggioranza della popolazione, non interessa a tutti. I mezzi di comunicazione sembrano non capire che il papa parla al suo gregge che può scegliere la stampa e la tv dedicata al tema. Di più, l’adesione giornalistica entusiasta alle posizioni del papa, il sottolineare la sua posizione sui migranti, gli anziani, la compassione per gli omosessuali, cose che fanno da tempo parte dei valori occidentali, sembrano voler escludere gli italiani che hanno una diversa concezione della vita. L’identificare il papa — e il cattolicesimo – così tanto con l’italianità buona, accredita i cittadini non cattolici come cattivi italiani. E questo non è accettabile in uno Stato liberale.
Tiziana Ficacci

Desidero esprimere la mia opinione su questo pontificato senza volere venir meno al rispetto dovuto a papa Bergoglio. Osservo il suo attivismo, ascolto le sue parole e il tutto risulta stucchevole, forse dovuto anche alla presenza straripante sui mezzi di comunicazione, ai laudatores e alla piaggeria dei più. In tutto ciò si distinguono gli italiani, poiché l’Europa e il mondo non riservano lo stesso interesse a ciò che dice e fa il Pontefice, e dimostrano così un atteggiamento più laico ed equilibrato. Se non toccasse la suscettibilità di cattolici e di qualche laico devoto, direi che l’entusiasmo delle folle oceaniche, le parole e i gesti clamorosi, rimandano a un vero culto della personalità. Il Pontefice non dovrebbe temere tutto ciò?
Antonio Ferrin

Cari lettori,
Parecchi anni fa ebbi un lunga conversazione con un rosminiano francese, noto intellettuale, autore di libri che avevano suscitato interesse anche in ambienti non particolarmente religiosi. Quando gli chiesi che cosa pensasse della cultura cattolica italiana, mi rispose che «gli italiani hanno la fede». Voleva dire che nel cattolicesimo italiano, a differenza di quanto accade in altri Paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Germania), l’ingenuità e la spontaneità prevalgono sulla speculazione intellettuale e sulla riflessione teologica. Può darsi che in quelle parole vi fosse un po’ di arrogante compiacimento gallico ed è possibile che oggi, dopo la crescente secolarizzazione degli ultimi decenni, il mio interlocutore rosminiano non direbbe le stesse cose.
Sembra evidente, tuttavia, che anche oggi, nonostante tutto, il papa goda in Italia di una percezione particolare. Non è soltanto un leader spirituale. È anche, soprattutto a Roma, una specie di sovrano d’Ancien Régime. La sua ascesa al trono suscita sempre attese e speranze. Tutti gli avvenimenti della sua giornata vengono resi noti da una sorta di «Gazzetta di corte». Tutte le sue apparizioni in pubblico sembrano meritevoli di essere raccontate e descritte, anche quando non aggiungono molto a ciò che già sapevamo. Il pontefice romano è ancora per molti aspetti l’equivalente moderno di quei “re taumaturgici” a cui la tradizione popolare attribuiva una sorta di potere terapeutico. Può accadere che la Chiesa e lo stesso papa cerchino di prendere le distanze da questo potenziale «culto della personalità». Ma se Francesco, come i suoi predecessori, appare alla finestra dell’Angelus, piazza San Pietro si riempie; e una piazza continuamente piena è sempre, per i mezzi d’informazione, un imbattibile indice di popolarità. Aggiungo, cari lettori, un altro fattore che contribuisce a spiegare l’importanza del papa nella società delle penisola: la sua popolarità è sempre inversamente proporzionale a quella della classe politica italiana.

Repubblica 18.11.13
L’ultima sorpresa di Francesco: una scatoletta contenente un rosario e un’immaginetta sacra. “Non fatevi ingannare dai santoni”
“Voglio consigliare a tutti un farmaco speciale” Il Papa fa distribuire in piazza la “misericordina”
di aolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO — «Adesso vorrei consigliarvi una medicina, ma non è che il Papa fa il farmacista... ». Un Papa che distribuiva una «medicina dell’anima » non lo si era mai visto. Eppure, questo ieri ha fatto Francesco, al termine dell’Angelus in piazza San Pietro.
Sotto il palazzo apostolico, la folla di fedeli lo ha ascoltato delucidare il contenuto di una piccola scatola precedentemente distribuita, appunto la cosiddetta «medicina spirituale “Misericordina” », da usare «come prevenzione contro i falsi salvatori, i santoni, i maghi e gli stregoni, i leader del mondo», ha detto Francesco. E ancora: «Non dimenticatevi di prenderla perché fa bene al cuore, all'anima, a tutta la vita». Tutti i Papi hanno invitato a pregare. Ma la frequenza con cui Francesco invitai fedeli alla preghiera è unica. Ieri il Papa ha voluto che tutta la piazza avesse in mano la “Misericordina”, una piccola confezione prodotta dalla casa editrice polacca Widawnictwo sw Stanislawa, contenente i «rimedi contro i mali dell’anima»: un rosario, un’immaginetta della Divina Misericordia, un “bugiardino” con posologia e istruzioni d’uso. «Sitratta di una medicina spirituale», ha spiegato il pontefice. Dicono le istruzioni per l’uso che «la somministrazione prevede la recita della Coroncina alla Divina Misericordia promossa da santa Faustina Kowalska, la religiosa polacca tanto cara a Giovanni Paolo II». E ancora: «Non si riscontrano effetti imprevisti e controindicazioni. I santi sacramenti favoriscono l’efficacia del medicinale. Prima di usare il farmaco si consiglia di rivolgersi a un sacerdote per ulteriori informazioni».
Spiegano le istruzioni che il “medicinale” porta «misericordia nell’anima, avvertita con una diffusa tranquillità del cuore. La sua efficacia è garantita dalle parole di Gesù. Viene applicato quando si desidera la conversione dei peccatori, si sente il bisogno di aiuto, manca la forza per combattere le tentazioni, non si riesce a perdonare qualcuno, si desidera la misericordia per un uomo moribondo e si vuole adorare Dio per tutte le grazie ricevute. Può essere applicato, sia dai bambini sia dagli adulti, tutte le volte che se ne avverte il bisogno». L’iniziativa è stata suggerita al Papa dal polacco monsignor Konrad Krajevski, elemosiniere pontificio per volere di Jorge Mario Bergoglio. Prima di diventare elemosiniere Krajevski lavorava già in Vaticano. Quando rincasava la sera passava sotto i portici di via della Conciliazione per aiutare i senza tetto che abitualmente trascorrono lì la notte. Il Papa l’ha saputo e l’ha scelto come elemosiniere.

Repubblica 18.11.13
Quei vertici in Vaticano con i ministri alfaniani per preparare la scissione del Pdl
Monsignor Fisichella e la regia di Ruini
di Claudio Tito


L’APPUNTAMENTO era fissato sempre nello stesso luogo. Un appartamento nei pressi di Piazza Pio XII, Vaticano. Gli incontri ripetuti nel tempo. E da settembre con cadenza molto più serrata. Un gruppo centrale di ministri e rappresentanti del centrodestra e del centro non cambiava mai. A loro si aggiungevano alternativamente altri esponenti del mondo politico,ma mai di sinistra.
NESSUNO del Pd. Ed è proprio lì che è maturata la scelta di arrivare alla frattura dentro il Pdl: gli alfaniani da una parte e i berlusconiani dall’altra. «I cattolici da una parte, i laici dall’altra», ripetevano.
A organizzare le riunioni era Monsignor Fisichella, ex cappellano di Montecitorio ed ora titolare del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Gli ospiti erano stabilmente tre membri del governo Letta: i due pidiellini Angelino Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello; e l’ex montiano Mario Mauro. In almeno una occasione si è unito anche il vicepresidente del consiglio Angelino Alfano.
L’obiettivo: provare a ricostruire l’unità politica dei cattolici. O meglio, era lo slogan utilizzato, «restituire una nuova unità politica dei credenti». Porre fine insomma alla fase degli ultimi venti anni in cui i cattolici impegnati nelle istituzioni potessero essere disseminati nei vari partiti — dalla sinistra alla destra — per unirsi sui singoli temi. Riunire quindi gli esponenti “credenti” del centrodestra deberlusconizzato e il gruppo “centrista” di Scelta civica, quello che fa riferimento a Mauro, appunto, e anche all’Udc di Casini. E magari attrarre i cristiani che si trovano in questa fase anche nel Partito Democratico e che non gradiscono l’ascesa di Matteo Renzi e l’iscrizione al Pse. Insomma il sogno spesso invocato di una rinascita in piccolo — e ancora embrionale — di quella che fu la Democrazia Cristiana.
Dietro gli incontri a Piazza Pio XII, però, non c’era solo Monsignor Fisichella. Come spesso è accaduto in questi anni, un ruolo determinante l’ha avuto Camillo Ruini. L’ex presidente della Cei ha da tempo preso atto della fine politica di Silvio Berlusconi ed è convinto che si possa costruire un nuovo soggetto politico che interpreti in forme nuove il cattolicesimo in politica. Il messaggio lanciato ai quattro ministri era infatti sempre il medesimo: «Dare vita ad un contenitore svincolato dai due poli principali, e sicuramente non alleato con il centrosinistra». In attesa che l’eredità elettorale del Cavaliere, quel blocco socialee di voti custodito a Palazzo Grazioli, cada come un frutto maturo all’interno del nuovo soggetto politico. «Perché ricordatevi che se anche il Cavaliere è finito — avvertiva l’ex Vicario di Roma e ora Presidente del comitato scientifico della Fondazione Joseph Ratzinger — i voti ce l’ha». Eppure con il ministro degli Interni ed ex delfino di Berlusconi e’ stato piu’ che incoraggiante. Attraverso Fisichella gli ha fatto pervenire un messaggio esplicito: «Le sue intenzioni sono positive, vada avanti».
L’operazione guidata dunque da Ruini e dall’ex cappelano della Camera ha però provocato più di un dissidio all’interno delle sale ovattate di San Pietro. Soprattutto non ha ricevuto l’avallo della Segreteria di Stato. Anzi, molti sospettano che la Conferenza episcopale, guidata da un altro ruiniano come Bagnasco, si sia mossa approfittando dell’assenza del successore di Bertone al vertice della Curia. Pietro Parolin, infatti, sebbene nominato da tempo, si insedierà a Roma concretamente solo oggi. E pur stando a Padova non avrebbe gradito l’interferenza di una parte della Cei nei fatti della politica italiana. Anche perché Papa Bergoglio, fin dall’inizio del suo pontificato, ha sempre spiegato di volersi attenere ad una linea di “non intervento” nelle questioni dei partiti lasciando spazio al protagonismo dei laici.
Non è un caso che solo una parte dei vescovi italiani abbia assecondato i progetti “ruiniani”. Le più attive in questo senso sono state le diocesi del “Triangolo del nord”: Milano-Genova-Venezia.Tutte e tre guidate da esponenti vicini a Don Camillo: Bagnasco, appunto, a Genova, Scola a Milano e Moraglia a Venezia. E tra le associazioni cattoliche di base è stata soprattutto Comunione e Liberazione, di cui sono esponenti di spicco proprio i ministri Lupi e Mauro (e alcuni scissionisti come Formigoni), e Rinnovamento nello Spirito Santo a promuovere l’operazione a favore del Nuovo Centrodestra. Il resto della galassia cattolica è rimasta in attesa, forse anche consapevole che alcuni equilibri all’interno della Conferenza episcopale appaiono “congelati” ma non “confermati”. Basti pensare alla semplice “proroga” concessa a Monsignor Crociata, segretario generale della Cei. O anche all’arcivescovo di Firenze Betori che potrebbe essere presto trasferito e che non ha mai nascosto una certa avversione nei confronti del sindaco fiorentino, Matteo Renzi, cattolico ma probabile leader del centrosinistra. «E’ chiaro — spiegava qualche mese fa proprio il candidato alla segretaria del Pd — che non sto simpatico all’Arcivescovo». Ed è chiaro che il disegno ruiniano punta a strappare anche una parte consistente dei cattolici del Partito democratico, i suoi dirigenti e anche i suoi elettori, minando le basi originarie del progetto che ha unificato gli ex Ds e gli ex Ppi. Nella consapevolezza che in questa fase la tolda di comando del fronte progressista è proprio occupata da ex popolari come Letta e Renzi, non interessati ad un’operazione neocentrista, e quindi simbolicamente in grado di sgonfiare gli scenari a favore della Nuova unità dei cattolici.
E del resto non è un caso che tra i pilastri della separazione da Berlusconi ci siano quegli esponenti del Pdl che nel 2009 si sono battuti in sintonia con le richieste del mondo ecclesiastico sul caso Englaro. Allora in prima fila spiccavano proprio uomini come Lupi, Quagliariello, Sacconi. Alcuni di loro cattolici dell’ultima ora che hanno abbracciato con vigore la ragioni della Chiesa. «In quei giorni — raccontava qualche mese fa Beppe Pisanu — Sacconi mi diceva “noi cattolici non possiamo cedere sul caso di questa ragazza”. E io gli rispondevo: voi ex socialisti atei in effetti sì che siete cattolici, mica un democristiano come me…».

La Stampa 18.11.13
Ipocrisie, ritardi e ideologie
così l’aborto continua a dividere
Ma le posizioni innovative del Pontefice scompaginano anche il fronte cattolico
La filosofa laica «Siamo cambiati tutti E dobbiamo riconoscere che la legge non esaurisce il dilemma morale»
Il politico cristiano «Il Pontefice è come Madre Teresa, va a cercare gli ultimi. E il bimbo non nato è l’essere più piccolo e povero»
di Mariella Gramaglia


Trentacinque anni dopo l’approvazione della 194 tutte le donne incinte osservano, ecografia dopo ecografia, un embrione che diventa feto. Trentacinque anni dopo i neonatologi suggeriscono la “canguro terapia” fra le braccia della mamma per tentare di tenere in vita una creatura di ventitré settimane. Trentacinque anni dopo custodiamo cuccioli non umani con una tenerezza inedita. Trentacinque anni dopo un papa chiamato Francesco ha stretto a sé un bambino anancefalo, ma ha anche detto di fronte alle scelte più intime della vita «chi sono io per giudicare?». Un papa che ha voluto sottolineare lo strazio dell’aborto terapeutico e l’eroismo dell’accoglienza di un figlio sofferente, ma ha preferito tacere sulle scelte delle donne nella prima fase di gravidanza, adducendo il motivo che già molto la Chiesa ne ha parlato.
Claudia Mancina, filosofa laica docente di Etica alla Sapienza di Roma, membro del comitato nazionale di bioetica, la pensa così: «Io ho cominciato a riflettere su queste cose molti anni fa (Oltre il femminismo. Il Mulino. 2002); siamo cambiati tutti, le donne, i laici. Percepiamo il feto in modo diverso anche per motivi sociali. I bambini sono tanto pochi e preziosi. Credo che parlare di aborto terapeutico dopo i 90 giorni sia un’ipocrisia che nasconde una difficoltà di legiferare. Io posso essere favorevole solo in caso di malformazioni veramente molto gravi. Non ne traggo conclusioni legislative, non metto in discussione i principi della legge, ma il principio giuridico non esaurisce la dimensione morale e psicologica».
Dell’Ru 486 che pensa? «La polemica contro il farmaco mi sembra del tutto infondata. Qualsiasi persona di buon senso dovrebbe preferire che l’interruzione di gravidanza avvenga in una fase precoce».
Papa Francesco cosa cambia? «E’ un cambiamento di atteggiamento, non dottrinale e la Chiesa ha tutto il diritto di mantenere le sue posizioni; non le cambierà perché sono queste le questioni su cui si fonda il suo potere sulle coscienze. Tuttavia se la compassione e la comprensione inducessero a un dibattito civile e non a un atteggiamento terroristico sarebbe un bel passo avanti».
Sul fronte opposto Carlo Casini, fondatore del Movimento per la vita, parlamentare di lungo corso, si considera più un militante che un politico o un intellettuale. Ha da poco inventato, insieme a Militia Christi e ad altre organizzazioni cattoliche una nuova iniziativa transnazionale. Si chiama “Uno di noi” (www.oneofus.eu). Me la faccio raccontare: «In base all’articolo 11 del trattato di Lisbona, se si raccolgono un milione di firme in almeno sette stati, si ha il potere di indicare alla commissione europea e al parlamento un atto legislativo. Insomma, tipo le nostre leggi di iniziativa popolare. Noi non diciamo una parola sulla sovranità dei singoli stati, ma chiediamo che l’Unione non finanzi la ricerca sugli embrioni, né le organizzazioni non governative che propagandano l’aborto. Siamo orgogliosi: con 1.400.000 firme abbiamo raggiunto il quorum in 15 nazioni, più del doppio della soglia richiesta, dunque siamo in grado di influenzare la legislazione. Non solo nei paesi cattolici, ma anche in quelli ortodossi e protestanti. Pensi che l’Olanda è la prima».
Ma da noi l’aborto diminuisce di continuo. «Deve calcolare anche le pillole del giorno dopo e di cinque giorni dopo. C’è comunque un’alterazione dell’endometrio. Così gli aborti aumentano di 400.00 unità. Io sono fiero dei 130.000 bambini che il mio movimento ha salvato dal 1990 a oggi».
Di questo Papa cosa pensa? «E’ come madre Teresa, va a cercare gli ultimi degli ultimi. E l’essere più piccolo e più povero é il bambino non nato».
Vittoria Tola, responsabile nazionale dell’Unione donne d’Italia non ci sta all’idea che i cattolici siano militanti più inossidabili delle femministe: «Siamo in pista ogni giorno a battagliare perché i reparti non chiudano, facciamo anche le denunce penali per interruzione di pubblico servizio. No, il Movimento per la vita non è cambiato; a Modena facciamo i picchetti contro i “pregatori” che insultano le donne quando entrano in ospedale. Quello che non sopportano è l’autodeterminazione. A difenderla, però, siamo in tante: i collettivi delle studentesse, le case delle donne, le consulte regionali, le ragazze dell’università. Le più giovani sono quelle più convinte dell’Ru 486».
E Mercedes Bo, genovese, vicepresidente dell’Aied nazionale: «Io sono una di quelle della prima ora. Mi ricordo ancora una donna del Sud che venne da me in consultorio. Aveva sette figli ed era al ventisettesimo aborto clandestino. Sono ancora oggi stupefatta che fosse riuscita a contarli tutti. E’ da tre o quattro anni che non vedo più tornare le donne al centro dell’Aied per la seconda interruzione. Ormai in Liguria usiamo l’Ru 486 il 25 per cento delle volte e le immigrate, che a Genova città avevano sfiorato il 50 per cento per cento degli interventi, ormai si adeguano ai nostri comportamenti. E’ l’opinione pubblica giovanile che è cambiata: più tormentata, più attraversata dai sensi di colpa».
Rosetta Papa, da trent’anni nella sanità Campana e autrice di La ragazza con il piercing al naso (Albatros, 2012), un caldo reportage sulle sue esperienze con le donne, ride quando le dico che la Federico II mi è sembrata un orologio svizzero: «Siamo la regione delle mamme bambine, quella con più donne in età fertile e meno consultori, quella del 61 per cento di cesarei, molti senza ragione. I consultori che dovevano orientare le persone più fragili nei quartieri sono dei banali ambulatori ginecologi».
Insomma, come sempre, il mare non bagna Napoli? «Le racconto una storiella. Un giorno una mia paziente mi disse: ‘Dottoressa mi piacerebbe tanto fare all’amore sotto la doccia’. E io: ‘Beh fallo, che male c’è?’. ‘E’ che non ho la doccia!’. Ecco lo Stato è come la doccia, per i poveri di qui non c’è mai. La fantasia e la buona volontà non bastano».
(3. Fine)

Repubblica 18.11.13
L’assalto dei nazionalisti all’Europa
di Timothy Garton Ash


CONCLUSE le elezioni tedesche, Germania e Francia lanceranno una grande iniziativa per salvare il progetto europeo dando vita, nel centenario del 1914, a un positivo contraltare alla leadership debole e confusa che portò l’Europa a scivolare nella prima guerra mondiale. Prima delle elezioni europee del maggio prossimo l’azione risoluta e l’eloquenza stimolante della coppia franco-tedesca respingeranno l’avanzata dei partiti anti-Ue in molti paesi europei.
Ve lo sognate, cari filoeuropei, ve lo sognate. Tornate con i piedi per terra. Prima di natale non avremo neppure il nuovo governo tedesco. Nei negoziati per la coalizione tedesca che dovrebbero in teoria concludersi la settimana prossima, gli affari europei vengono trattati in un sottogruppo del gruppo di lavoro sulle tematiche finanziarie denominato “regolamentazione bancaria, Europa, Euro”. Per tutti e tre i partiti in lizza, la Cdu di Angela Merkel, la bavarese Csu e l’opposizione socialdemocratica, i temi scottanti riguardano la politica interna. L’introduzione del salario minimo garantito, la politica energetica, la doppia cittadinanza, il proposto pedaggio autostradale – tutti ritenuti più importanti del futuro del continente.
I politici tedeschi sanno come vendere i propri partiti agli elettori in vista dei futuri appuntamenti alle urne. La maggior parte dei tedeschi che si accingono allo shopping natalizio non avverte la morsa della crisi dell’euro.
La disoccupazione giovanile in Germania si attesta attorno all’8 per cento, contro il 56% della Spagna. È difficile dare l’idea di quanto la crisi europea appaia lontana e non impellente all’uomo della strada a Berlino. A differenza della sua controparte madrilena, uscendo dalla metropolitana non trova fetidi cumuli di immondizia ammassati in strada.
La politica europea del futuro governo tedesco sarà il prodotto di compromessi tra tre dipartimenti di Stato – la cancelleria federale, predominante, il ministero delle finanze e il ministero degli esteri, che saranno divisi tra cristiano e socialdemocratici. La potenza europea suo malgrado leader dovrà scendere ad ulteriori compromessi con la Francia, che ha opinioni diverse su molte questioni decisive. La Francia ha inoltre un presidente debole, Francois Hollande, che non riesce ad attuare riforme nel suo Paese, figuriamoci se può contribuire a quelle altrui. La coppia franco-tedesca, attempata e sempre meno paritaria, che ha celebrato a gennaio delle nozze d’oro in tono minore e in cui a portare i pantaloni ormai è definitivamente la moglie tedesca, dovrà tener conto degli interessi di partner stimati come la Polonia, nonché delle proposte avanzate dalle istituzioni europee.
E da questa orchestra dissonante dovrebbe levarsi lo squillo di tromba che sbaraglierà gli scettici di ogni paese e mobiliterà gli europei in favore dell’Ue? Ridicolo.
Come parziale conseguenza, questa campagna elettorale europea si preannuncia la più interessante dalla prima elezione diretta del Parlamento europeo nel 1979 – perché in tutta Europa è presente una straordinaria varietà di partiti di protesta nazionalisti. Vengono definiti con scarsa fantasia “populisti”, ma questo termine ombrello non ne coglie le diversità. Con la dovuta mancanza di rispetto per l’Indipendence Party britannico e la tedesca Allianz für Deutschland contraria all’euro, è sbagliatissimo accomunarli ai neofascisti di Alba dorata in Grecia, dello Jobbik ungherese o del Fronte Nazionale francese. Lo stesso vale per i nazionalisti catalani, per non parlare del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo in Italia, che non potrebbe discostarsi maggiormente dall’estrema destra. Più vicini alla politica xenofoba del Fronte Nazionale Francese ma con molteplici varianti nazionali e sub-nazionali sono i raggruppamenti come il Vlaams Belang in Belgio, i finlandesi Finnici (fino a poco fa Veri Finnici) , il Partito Popolare danese e i cosiddetti partiti per la Libertà in Austria e in Olanda.
La settimana scorsa due dei leader più abili di queste compagini, Marine le Pen del Fronte Nazionale Francese e Geert Wilders del Partito per la Libertà olandese si sono impegnati a cercare di creare un fronte comune. Dopo un corteggiamento in primavera, a pranzo nell’elegante ristorante La Grande Cascade al Bois de Boulogne, questa strana coppia la scorsa settimana ha dato vita all’equivalente di una danza nuziale a L’Aia. «Oggi inizia la liberazione dall’elite europea, il mostro di Bruxelles», tuonava Wilders. «I partiti patriottici », aggiungeva la Pen, intendono «restituire la libertà alla nostra gente», che non vuole essere «costretta a sottoporre i bilanci alla direttrice». A Vienna quattro altri gruppi, – il Partito della Libertà austriaco, I Democratici svedesi, la Lega Nord italiana e il Vlaams Belang – hanno mosso con Marine cauti passi di valzer.
Mi meraviglierà se questi partiti non otterranno buoni risultati alle elezioni europee. Non vedo nulla da parte delle attuali leadership a Berlino, Parigi o Bruxelles (lasciamo perdere Londra) che possa verosimilmente ribaltare una grande cascade di voti. Dietro il 10/25% attribuito in genere a questi partiti nei sondaggi si cela un diffuso scontento popolare alimentato dalla disoccupazione, dall’austerity e dalla burocrazia di Bruxelles che continua a vomitare regolamenti sulle caratteristiche tecniche degli aspirapolvere e su quanta acqua si può usare per lo sciacquone. Uno dei candidati cristiano democratici tedeschi al parlamento europeo mi dice che le tesi contrarie all’euro e a Bruxelles sostenuteda Allianz für Deutschland sono condivise da alcuni degli attivisti locali del suo partito.
Sono pronto a lottare contro le Pen, Wilders, Jobbik e la loro genia. Ma in presenza di questa leadership europea divisa, lenta, insipida, non mi faccio illusioni che riusciremo a fermare la cascata. Se la mia sensazione è giusta, cosa succederà?
Dato che l’elemento che unisce la maggior parte di questi partiti è il nazionalismo, potranno trovarsi in difficoltà a condividere programmi che vadano oltre la comune avversione nei confronti dell’Ue. Se avranno una forte rappresentanza in seno al Parlamento europeo, l’effetto immediato sarà quello di compattare i tradizionali raggruppamenti socialisti, conservatori e liberali. Avremo così una esplicita “grande coalizione” a Berlino, e una analoga, implicita, a Bruxelles. Il problema delle grandi coalizioni è che dal momento che i partiti tradizionali, centristi, portano il peso della responsabilità di governo, lo spazio dell’opposizione si spalanca ai partiti di protesta. D’altro canto il successo stesso degli anti-partiti potrebbe finalmente mobilitare una giovane generazione europea alla difesa di conquiste date per scontate. Non sarà un 1914, ma a distanza di cent’anni l’Europa vivrà nuovamente tempi interessanti.
www.timothygartonash.com Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 18.11.13
Linea dura su eurobond e debito Berlino, la Spd si piega alla Merkel
Tensione alle stelle con Draghi: “Danneggia irisparmiatori tedeschi”
di Andrea Tarquini


BERLINO — Cresce la tensione politica nella prima potenza europea. Una scelta contro gli eurobond auspicati da Parigi, Roma e Madrid sembra concordata come conditio sine qua nondella nascita di una grosse Koalition. In cambio del sì alla linea dura di Angela Merkel in politica europea, la Spd ottiene il salario minimo e la doppia cittadinanza per i migranti. Ma i prossimi giorni di trattativa saranno difficilissimi: dal 12 al 16 dicembre, quando l’accordo di coalizione sarà pronto, si terrà la consultazione interna nel Partito socialdemocratico. Un “no” della base alle larghe intese con la Cancelliera getterebbe la Germania e l’Europa intera nell’incertezza d’un vuoto di potere a Berlino. Le tensioni si esprimono anche in nuovi, duri attacchi a Mario Draghi: con la sua politica di tassi bassi, scrivevano ieri unanimi i maggiori media – da
Welt am Sonntag allaFrankfurter – il governatore della Banca centrale europea manda in rovina le speranze di guadagno dei risparmiatori tedeschi.
Atmosfera pesante a Berlino ma anche tra Berlino e l’Europa.L’accordo bipartisan sul no agli eurobond è stato annunciato dal capogruppo parlamentare democristiano, Volker Kauder, in un’intervista a Bild am Sonntag.
«Nella politica europea è stato già chiarito al tavolo che la Cancelliera potrà proseguire la sua politica. Cioè niente eurobond, niente messa in comune dei debiti sovrani dei singoli Stati membri dell’eurozona».
È una concessione di prima importanza, scelta ignorando i partiti amici di sinistra europei, quella che la Spd dà ad Angela Merkel. Ma con la base in rivolta dopo il pessimo risultato elettorale del 22 settembre, il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel vede la priorità in successi nella politica sociale e interna e nell’integrazione dei migranti. Verrà dunque il salario minimo garantito di 8,50 euro l’ora, e verrà il diritto alla doppia cittadinanza. «Io non firmerò un accordo di governo in cui non siano scritti questi punti», aveva detto Gabriel nel suo discorso di chiusura del congresso Spd a Lipsia. Merkel ha subito colto la palla al balzo accettando. In cambio del no agli eurobond, appunto. La scelta del vertice Spd contraddice le richieste del presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, per «una Germania forte che aiuti i deboli a rafforzarsi».
Difficoltà di negoziato e rischi di un suo fallimento comunque restano da non sottovalutare. La Cdu-Csu è irritata dal segnale del congresso di Lipsia alla Linke (sinistra radicale), di accordi possibili dalle prossime elezioni politiche (2017), lo sdoganamento dei postcomunisti definito «una bomba a orologeria » da Der Spiegel. Nel vertice Spd, intanto, cresce il timore di un no dei militanti alla grosse Koalition. «Temo molto che il vertice concluda un accordo con Merkel e la base poi lo sconfessi », dice alla Frankfurter Michael Roth, leader socialdemocratico in Assia. Per Hans-Peter Bartels, capo del partito a Kiel, il referendum tra militanti sul sì o no alle larghe intese «è un potenziale karakiri: se vince il no sarebbe pericoloso non solo per il partito ma per il Paese». Negoziati tra Merkel e i Verdi, o nuove elezioni sarebbero un rischio per l’Europa intera. Anche su questo sfondo, aumenta l’ostilità contro la politica di Draghi. Tra lui e il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, il gelo è secondo gli osservatori a unpunto di non ritorno.

l’Unità 18.11.13
La Cina che invecchia cambia la politica dei figli unici
Le riforme annunciate puntano a rafforzare la stabilità sociale
Ma servono anche a bilanciare squilibri demografici pericolosi
di Gabriel Bertinetto


Un filo logico e programmatico unisce le riforme varate al terzo plenum del Comitato centrale comunista cinese. L’attenuazione del divieto d’avere più di un figlio, la diminuzione dei reati passibili di pena capitale, la chiusura dei laojiao (i campi di rieducazione attraverso il lavoro forzato) non derivano solo da una tardiva e parziale conversione al rispetto dei diritti umani. Sono anche misure funzionali a un progetto di sviluppo che prevede di estendere ulteriormente lo spazio del mercato e dell’iniziativa privata nell’economia senza intaccare il monopolio del potere da parte del partito unico.
I leader di Pechino credono che la dicotomia fra pluralismo economico e assolutismo politico regga solo in presenza di un consenso sociale sufficientemente solido. Sanno quanto sia diffuso il malcontento e cercano di rimuoverne le cause. Intervengono soprattutto contro situazioni ereditate dal passato, che oltre a irritare o indignare i cittadini possono agire addirittura come freni ad una crescita razionale.
Esemplare il caso della legge sul figlio unico. Varata ala fine degli anni settanta per contenere il boom delle nascite in condizioni di generale miseria, ha alterato gli equilibri generazionali al punto che oggi i cinesi con più di 65 anni di età sono l’11.3% rispetto ai connazionali di età compresa fra i 15 ed i 64. Se restassero in vigore gli attuali divieti, nel 2050 quella percentuale, che indica il rapporto fra pensionati e popolazione in età lavorativa, giungerebbe a sfiorare il 42%.
Economicamente insostenibile, così come la sproporzionata prevalenza numerica maschile è incompatibile con una razionale distribuzione demografica. Nel 1980, appena dopo il varo della legge sul figlio unico, c’erano 106,7 uomini ogni cento donne. La cifra oggi è salita a 108. Senza interventi correttivi, entro il 2020 l’altra metà del cielo si troverebbe con 24 milioni di membri in meno rispetto al sesso concorrente. La cultura misogina che impregna ancora buona parte della società cinese, fa sì che, costretti a mettere al mondo non più di una creatura, i genitori optino spesso per l’aborto se il feto è femmina, sperando che il concepimento successivo sia maschile.
L’ARMONIA SOCIALE
Parzialmente esenti dalle restrizioni demografiche sono già da tempo i contadini e le minoranze etniche. La novità annunciata riguarda le aree urbane. Non una liberalizzazione completa. L’autorizzazione alla doppia procreazione vale solo se almeno uno dei due genitori è figlio unico.
Un passo avanti comunque, l’allentamento di un vincolo particolarmente mal accetto a gran parte dei residenti in città. Viene avviato, non a caso, mentre il potere centrale insiste sulla necessità di accelerare il processo di urbanizzazione in un Paese dove poco meno della metà della popolazione vive ancora nelle campagne. Ed è una misura coerente con la cornice di «armonia sociale» su cui i leader cinesi insistevano già ai tempi della presidenza Hu Jintao.
Da questo punto di vista il subentro di Xi Jinping alla guida della Repubblica popolare mostra segni di forte continuità con la gestione precedente. Anzi, una delle innovazioni sancite al plenum della settimana scorsa, seppure poco pubblicizzata, è la creazione di un Ufficio per il coordinamento della sicurezza nazionale. L’organismo dovrà presiedere a tutte le iniziative atte a promuovere la «stabilità» sociale. Non è un organo di polizia, ed anzi il capo della polizia per la prima volta non è più membro del Politburo.
A quanto sembra di capire questo nuovo istituto vigilerà sul contrasto globale alle attività antigovernative. Pare che nelle sue competenze rientri un più vasto compito di supervisione e integrazione delle scelte per aggredire non solo gli effetti ma le radici della protesta popolare. Che è salita di intensità e di frequenza sia nelle fabbriche, dove la crescita tecnologica e produttiva ha portato condizioni di lavoro durissime e minime tutele sindacali, sia nei centri abitati dove la requisizione di case e terreni calpesta troppo spesso i diritti degli espropriati.

La Stampa 18.11.13
Israele e Riad temono l’accordo e lavorano ai piani d’attacco
Sauditi pronti a concedere il proprio spazio aereo ai jet
di Maurizio Molinari


Lo spazio aereo saudita come trampolino per l’attacco israeliano al nucleare iraniano: ad alzare il velo sull’avanzamento della convergenza strategica fra Riad e Gerusalemme è il «Sunday Times» mentre da Washington filtrano dettagli su un coinvolgimento anche degli Emirati Arabi. Sarebbe il re saudita Abdullah ad aver autorizzato i militari ad offrire a Israele lo spazio aereo per accorciare la rotta dei caccia verso gli impianti nucleari. È un piano aiutato dalla geografia: Israele e Arabia Saudita si «guardano» a cavallo del Golfo di Aqaba e a dividerli sulla terraferma è la Giordania, alleata di entrambi. L’autorizzazione di Riad riguarderebbe, per il quotidiano britannico, sorvoli di jet, impiego di droni, uso delle cisterne per i rifornimenti e ricorso ad elicotteri per il recupero dall’Iran di piloti abbattuti. Sono indiscrezioni che disegnano una cooperazione israelo-saudita forse con tacito avallo di Amman assai avanzata.
Le missioni di «estrazione e soccorso» in particolare implicano il posizionamento di unità di emergenza a ridosso della zona di operazioni e ciò implica che Riad conceda a Gerusalemme con cui non ha relazioni diplomatiche l’accesso a proprie basi. Simon Henderson, responsabile degli studi sul Golfo al «Washington Institute», aggiunge due dettagli. Primo: «Esiste una cooperazione di basso profilo fra Emirati Arabi e Israele» che estende ad altri Paesi del Golfo la strategia saudita e può consentire di avere più punti di entrata in Iran.
LA STAMPA
Secondo: «L’accelerazione saudita è frutto del disappunto per il mancato intervento Usa in Siria». Riad, secondo Henderson, legge la volontà Usa di compromesso con Teheran sul nucleare come una conferma della decisione di non attaccare Assad, arrivando a concludere che Washington sta «cambiando atteggiamento» verso l’asse Iran-Siria avversario dei Paesi sunniti. É una tesi che deve molto al principe Bandar bin Sultan, ex ambasciatore a Washington e capo dell’intelligence. «La volontà saudita di cooperare all’attacco all’Iran – spiega Henderson – segue la scelta di Riad di avere in Siria un alleato diverso dagli Usa nell’addestrare i ribelli sunniti, puntando su Pakistan e Francia».
Si tratta di un riposizionamento di Riad che Jon Alterman, direttore del Medio Oriente al Centro di studi strategici internazionali (Csis), spiega con «il timore che le politiche Usa stiano portando ad un dominio dell’Iran sul Golfo che è da sempre l’incubo peggiore». «I sauditi vogliono fermare l’Iran adesso concorda Bernard Haykel, arabista della Princeton University perché temono che non facendolo saranno costretti a combattere gli sciiti in casa». Per il «Sunday Times» potrebbe essere l’accordo a Ginevra sull’Iran ad accelerare i preparativi israelosauditi. Da qui le parole di Netanyahu alla «Cnn»: «Se arabi e Israele in Medio Oriente dicono cose simili significa che sta succedendo qualcosa».

Corriere 18.11.13
Kennedy? Non è stato un grande presidente
di Sergio Romano


Quante biografie sono state dedicate a John Fitzgerald Kennedy? Quante tenebrose teorie sulla responsabilità della sua morte sono state scritte o filmate? Quanti rimpianti sono stati pronunciati su tutto ciò che il giovane presidente avrebbe «indubbiamente» realizzato se la sua vita non fosse stata stroncata nel fiore degli anni?

I missili, le parole, gli spari Cosa resta di un mito Eloquente, uomo d’azione. Ma non un grande presidente Quante vie e piazze, quanti parchi, viali e luoghi pubblici sono intitolati, nelle Americhe, in Europa e nel mondo, al nome di John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti? Quanti capi di Stato e di governo, principi e sovrani giunsero a Washington, negli ultimi giorni di novembre del 1963, per essere presenti ai suoi funerali? Quante biografie sono state dedicate alla sua persona? Quante tenebrose teorie sulla responsabilità della sua morte sono state scritte o filmate? Quanti rimpianti sono stati pronunciati su tutto ciò che il giovane presidente avrebbe «indubbiamente» realizzato se la sua vita non fosse stata stroncata nel fiore degli anni? Sono queste le domande che avremmo fatto enfaticamente al lettore scrivendo l’ennesimo elogio del giovane presidente nel primo e nel secondo decennale della morte.
Oggi, a cinquant’anni dall’attentato di Dallas, quelle domande sembrano a molti intollerabilmente retoriche. Una recente indagine del New York Times segnala che il tono dei manuali di storia delle scuole americane è alquanto cambiato, che l’immagine di Kennedy, dall’inizio degli anni Ottanta, si è progressivamente appannata e che le domande a cui gli storici cercano oggi di rispondere sono altre. Quale fu la responsabilità di Kennedy nella tentata invasione di Cuba dell’aprile 1961? Fu giusto attribuire l’installazione di missili sovietici nell’isola di Fidel Castro soprattutto alla politica aggressiva e spericolata di Nikita Kruscev? Quale parte ebbe Kennedy nel coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam? Fu Kennedy o il suo successore, Lyndon Johnson, il liberatore dei neri dallo schiavismo di fatto a cui erano ancora soggetti, soprattutto in alcuni Stati del Sud? Fu Kennedy o Johnson il padre di Medicare e Medicaid (i programmi sanitari per gli anziani e i poveri), l’architetto della Great Society vale a dire della maggiore rivoluzione sociale degli Stati Uniti dopo il New Deal? Queste domande irriverenti appartengono alla «legge del pendolo» che regola da sempre i flussi e riflussi degli studi storici. Quanto maggiori sono i meriti attribuiti a un grande personaggio storico, tanto maggiori saranno i dubbi e le riserve con cui verrà, prima o dopo, rivisto e corretto. Il moto del pendolo è ancora più accentuato in un’epoca in cui pochi avvenimenti sfuggono alle tendenze revisioniste.
Nel caso di Kennedy conviene partire dalla sua campagna per le elezioni presidenziali. Oltre a giocare la carta generazionale della sua età e della sua accattivante oratoria giovanile, Kennedy non fece nulla per spegnere i fuochi della Guerra Fredda. Accusò il presidente Eisenhower di avere permesso l’esistenza di un divario (in inglese gap) sfavorevole all’America, fra l’arsenale militare sovietico e quello degli Stati Uniti. Non era vero. In un libro recente apparso a Bologna presso il Mulino («La Guerra Fredda, storia di un mondo in bilico »), uno storico americano, John L. Harper, ricorda che nel febbraio del 1961, quando Kennedy era da poche settimane alla Casa Bianca, i tecnici americani sperimentarono il Minuteman, un missile balistico intercontinentale di cui sarebbero stati installati 1.000 esemplari fra il 1962 e il 1965. Candidamente il nuovo segretario di Stato alla Difesa, Robert McNamara, ammise che il gap non esisteva. Non avrebbe potuto esprimersi diversamente in una situazione in cui gli Stati Uniti erano già in grado di minacciare il territorio sovietico con le loro basi missilistiche in Italia e in Turchia.
Sulla questione cubana, durante la campagna elettorale, Kennedy era stato altrettanto aggressivo. In un momento in cui la vittoria di Fidel Castro a Cuba appariva intollerabile alla maggioranza degli americani, il giovane candidato, come ricorda Harper, aveva accusato il suo oppositore nella corsa per la Casa Bianca, Richard Nixon, vicepresidente di Eisenhower, di non avere dato prova di sufficiente fermezza. È possibile che il progetto di una invasione dell’isola, con una forza di esuli cubani addestrati dalla Cia in America centrale, sia stato comunicato a Kennedy soltanto dopo il suo ingresso alla Casa Bianca. Ma era in sintonia con i propositi della sua campagna elettorale e non venne rinviato o cancellato. Quando l’invasione fallì, Kennedy ebbe il merito di negare ai bellicosi generali del Pentagono l’intervento dell’Aeronautica militare americana. Ma era inevitabile che la sua responsabilità fosse, per la dirigenza sovietica, evidente. È questo il quadro in cui occorre collocare la decisione dell’Urss di installare nell’isola i propri missili. Non sarebbero stati molto più lontani dalle coste della Florida di quanto quelli americani nel Mediterraneo fossero lontani dalle coste sovietiche del Mar Nero.
Durante la crisi, mentre le navi sovietiche e quelle americane si fronteggiavano nell’Atlantico, Kennedy e il fratello Robert furono prudenti e seppero sottrarsi alle pressioni di chi avrebbe voluto cogliere l’occasione per una spedizione punitiva contro le basi cubane. Ma anche in questo caso il pregiudizio favorevole dell’opinione pubblica occidentale finì per regalare al giovane presidente il merito di una vittoria che non gli apparteneva. Kruscev rinunciò all’istallazione di missili sovietici in basi cubane, ma ottenne dagli Stati Uniti due fondamentali concessioni: l’impegno ad astenersi da altri tentativi d’invadere Cuba (ve n’erano stati quattro fra il 1906 e il 1933, per non parlare della base di Guántanamo, aperta durante la Seconda guerra mondiale, ancora oggi americana) e, in una fase successiva, il ritiro dei missili americani stanziati in Turchia e in Italia.
Il capitolo più discusso e contestato è quello del Vietnam. In un film del 1991 («JFK», in italiano «Un caso ancora aperto»), il regista Oliver Stone lasciò intendere che all’origine dell’assassinio del presidente vi fosse un complotto ordito dalla mafia, dai servizi d’intelligence, da parte della forze armate, dal complesso militare-industriale e dallo stesso vicepresidente Lyndon Johnson: tutti decisi a eliminare un uomo che voleva tagliare le unghie ai falchi della politica americana e a impedire che gli Stati Uniti diventassero prigionieri della trappola vietnamita. Credo che un tale esercizio di fantapolitica non convinca nemmeno i più entusiasti fedeli del culto di Kennedy. In realtà il presidente, come ricorda lo studio di Harper, aveva finanziato le forze armate del Vietnam del Sud, aveva portato a circa 12.000 il numero dei consiglieri militari presenti nel Paese, aveva inviato 300 elicotteri. E aveva autorizzato la Cia a organizzare e finanziare il colpo di Stato contro il governo di Ngo Dinh Diem.
Quanto al programma per i diritti umani e civili non esistono dubbi: il merito spetta pressoché interamente alla presidenza di Lyndon Johnson. Ma uno storico britannico, Simon Schama, ha scritto recentemente sul Financial Times che Kennedy ebbe certamente il merito di pronunciare un memorabile discorso, l’11 giugno 1963, dopo la contestata ammissione di due studenti neri nell’Università dell’Alabama, in cui disse: «Nonostante tutte le sue speranze e tutti i suoi motivi d’orgoglio, questa nazione non sarà interamente libera finché tutti i suoi cittadini non saranno liberi». Schama si chiede se in quel discorso programmatico vi fosse più retorica che azione, ma osserva che vi sono spesso in casi in cui la retorica è un necessario presupposto dell’azione. Forse dopo trent’anni di critiche e revisioni, il pendolo di Kennedy ricomincerà a oscillare nell’altra direzione . 

l’Unità 18.11.13
Don Chisciotte e la filosofia
Il personaggio di Cervantes come chiave di lettura
La «via Mediterranea» delle dottrine teoriche e speculative in Spagna passa anche dalla poetica del cavaliere errante
di Gaspare Polizzi


NEL GIOCO DELLE CONTRAPPOSIZIONI BINARIE, L’OPPOSIZIONE TRA FILOSOFIA ANALITICA E FILOSOFIA CONTINENTALE HA AVUTO GRANDE FORTUNA, SOPRATTUTTO PER ACCREDITARE LA TRADIZIONE DOMINANTE NEL SECONDO ‘900: la filosofia analitica di lingua inglese. Del tutto trascurata è stata invece la «via mediterranea» alla filosofia, riconoscibile nelle culture di lingua italiana, spagnola e portoghese.
All’indagine sulla filosofia di lingua spagnola e portoghese, diffusa anche in America Latina, si dedica da tempo Giuseppe Cacciatore, ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Napoli. Fondatore della Rivista di Filosofia iberica e ibero-americana Rocinante (così Don Chisciotte chiamò il suo cavallo) e condirettore della rivista «Cultura Latinoamericana», Cacciatore ha pubblicato vari scritti sul tema, compreso un volume in spagnolo: El búho y el condor. Ensavos en torno a la filosofía hispano-americana (Editorial Planeta, 2011).
Il primo nodo di riflessione offerto dalla filosofia spagnola consiste dell'interrogazione ininterrotta intorno a Cervantes e al Don Chisciotte. Carlos Fuentes scrive a proposito di Cervantes e di Colombo: «Nessuno dei due immaginò di essere sbarcato nei nuovi continenti dello spazio l’America -, e della finzione il romanzo moderno». Detto altrimenti, pur ignari, Colombo e Cervantes ci indirizzano verso la modernità.
IL PRIMO ROMANZO MODERNO
È questo un tratto unico della filosofia spagnola, che pone al centro della ricerca il primo romanzo moderno. Neppure in Italia, dove la commistione tra filosofia e tradizione letteraria è sempre stata molto forte, a partire da Dante, Machiavelli e Leopardi, si riconosce in un'opera letteraria un momento fondativo della cultura filosofica. Da Miguel de Unamuno a José Ortega y Gasset, da Américo Castro a María Zambrano, al ricordato Fuentes, la riflessione sul Don Chisciotte attraversa la filosofia spagnola del Novecento, assumendo una rilevanza europea.
Il primo capitolo del libro si sofferma su questo carattere «donchisciottesco» della filosofia spagnola, sulla via verso la modernità segnata da una dialettica tra realtà e metafora declinata nei modi più diversi, che conduce a una «filosofia della ragione poetica». Interrogarsi sul Don Chisciotte, pubblicato nel 1605-15, ma iniziato a scrivere a Messina nel 1571, significa anche chiedersi quale positiva contraddizione abbia permesso di accedere al romanzo moderno in una condizione di decadenza quale appare quella della Spagna della Controriforma, alla fine del Siglo de Oro. Dalla decadenza, notava Zambrano, «nasce la grande avventura creativa della letteratura moderna». E non è inutile il raffronto con la cultura del Rinascimento italiano, esplosa nel 1492, con l’inizio delle guerre per la spartizione dell’Italia. Diversamente, oggi declino sociale e culturale sono più strettamente connessi.
Nell'opera di Cervantes, con i suoi legami sotterranei con l’arabo dei moriscos, espulsi dalla Spagna nel 1609, è presente una dimensione tragica che dipende dall'inesistente corrispondenza fra cose e parole: le vicende cavalleresche diventano parole vuote, ma Don Chisciotte, nella sua «pazzia» (locura), non se ne accorge, fa emergere l'istinto, l'ignoto, il sogno. La follia e la fantasia danno luogo nella filosofia spagnola a quella «ragione poetica» che non può non colpire uno studioso di lunga lena del nostro Vico e della sua «sapienza poetica», che dedica l’appendice del libro a un confronto tra Vico e Ortega.
Non ci può forse aiutare ancora la «zattera della cultura» che Ortega lancia al naufrago del nostro tempo di crisi, richiedendogli un prospettivismo vitale e postulando «come suo concetto guida il senso del limite» e «come metodo conoscitivo la coscienza della storicità della contingenza temporale e la sua traducibilità nel linguaggio narrativo della storia»? La filosofia della crisi segna la cultura spagnola e mediterranea, ma anche quello storicismo critico-problematico che Cacciatore da più di quarant’anni descrive, innanzitutto tramite Wilhelm Dilthey (discusso in questo libro in rapporto al filosofo basco Xavier Zubiri).
Ancor più ci è vicina la Zambrano, così segnata dai grandi drammi del '900 (totalitarismo, guerra, esilio), letti in una dimensione poetica di genere. Zambrano ricerca una «storia vera» che sorga «soltanto dalla coscienza, attraverso la perplessità e la confusione». Anche questo ci insegna la filosofia spagnola, nel solco di un «pensiero mediterraneo» che faremmo bene a riconoscere nel suo valore, in questi nostri tempi tormentati dalla crisi della democrazia.

l’Unità 18.11.13
Doris Lessing, la rossa
È morta ieri la scrittrice premio Nobel
La sua opera segnò la strada di tante donne
di Enrico Palandri


Nata in Iran nel 1919 e cresciuta in Zimbabwe (all'epoca Rhodesia), dove è ambientato il suo primo romanzo «L'erba canta», l’autrice ha vissuto a Londra per oltre mezzo secolo. Tra i suoi titoli più celebri, il romanzo «Il taccuino d'oro», da molti considerato un classico della letteratura femminista

DI DORIS LESSING, MORTA IERI A 94 ANNI, GLI INGLESI CITANO SEMPRE LA BATTUTA CON CUI HA ACCOLTO LA NOTIZIA DEL NOBEL NEL 2007. «CHRIST!», un po’seccata. Ha poi ulteriormente sottolineato la sprezzatura per l’onore conferitole dicendo che, non potendoglielo dare da morta glielo avevano dato a 88 anni, e altri commenti simili. Il discorso tenuto a Stoccolma si intitolava On not winning the Nobel Prize. Sul non vincere il premio Nobel.
Certo fanno più simpatia le risposte di questo genere, eccentriche e sarcastiche, che non gli inchini commossi di chi, sentendosi profondamente meritorio, ringrazia pomposamente trasformando il mondo in uno specchio dell’ottima opinione che si ha di sé. Viene in mente la splendida battuta di Leo Longanesi: i premi non basta non vincerli, bisogna non meritarli. Altrimenti gli scrittori non sono altro che bravi scolaretti, pronti a mettersi in fila per un bel voto dato dalla maestra.
Nel caso di Doris Lessing però la faccenda è più lunga e complicata. Nella sua biografia si mescolano motivi e itinerari intellettuali che ne fanno una incarnazione faticosa di quello che Londra è stata nel dopoguerra, qualcosa di davvero diverso da un bravo scolaretto.
Nata Tayler nel 1919 a Kemanshah, in Iran, da un ufficiale inglese che aveva subito svariate amputazioni durante la prima guerra mondiale, si trasferì in Rodesia (l'attuale Zimbabwe) nel 1925. Sua madre sognava una vita da colono, ma la famiglia non era sufficientemente ricca, dagli ettari e ettari di terra acquistati non si riuscì mai a ricavare una rendita sufficiente per trasformare il territorio in veri campi agricoli.
Qui ci sono già i primi nodi tematici del suo lavoro: un femminismo che lei rifiuterà di sostenere, pur diventandone un simbolo soprattutto con The Golden Notebook (Il taccuino d'oro, 1964), ma che ha fin dall’inizio un personalissimo rovello, e cioè che la madre non sia davvero la vittima e anzi, la relazione conflittuale
con lei sia una delle basi della propria femminilità. Tanto che, nel respingere il femminismo, arriverà in occasione di una conferenza a dire semplicemente: è ora che le donne la smettano di tormentare gli uomini!
Ispirati a questi anni saranno I racconti africani, pubblicati nel 51 (un anno dopo il suo primo libro, The grass is singing, 1950). L’educazione della Lessing era stata piuttosto approssimativa: aveva lasciato il convento di suore ad Harare a soli 14 anni. Dopo un primo matrimonio, da cui erano nati due figli, con Frank Wisdom (un nome davvero parlante che se non fosse reale potrebbe venire da uno dei suoi romanzi e si potrebbe tradurre Franco Verità), E dopo alcuni lavori piuttosto occasionali, sposerà Gottfried Lessing, un tedesco dell’Est incontrato al Left Book Club, un club di lettori di sinistra. Da lui avrà un altro figlio, Peter, ma divorzierà di nuovo per venire a Londra nel '49. Gottfried Lessing diventerà l'ambasciatore della Ddr in Uganda e sarà ucciso nel ’79, durante la ribellione contro Dada Amin.
Doris Lessing arriva costretta a partire per le sue posizioni contro l’Apartheid e per il disarmo nucleare. Queste esperienze drammatiche formano il materiale di una prima fase della sua produzione letteraria, definita come gli anni comunisti, che si chiude come per tanti altri comunisti europei a metà degli anni ’50.
Se non si riconosce l’intensa componente ideologica della prima parte della sua vita, la distanza che lei prenderà dalle ideologie dagli anni sessanta in poi potrebbe risultare snobistica o pretestuosa. Aveva visto Hitler, Mussolini, Stalin, i loro sistemi politici e i loro discorsi crollare. Credere nelle loro riedizioni, spesso parodiche, sessantottine, era impossibile. Quando arriva a Londra è così pronta al passaggio che ne farà un’autrice di una nuova epoca.
Mentre molte sue coetanee sono infatti troppo digiune di veri conflitti politici per essere vaccinate dalle ideologie che si diffondono tra i giovani, la Lessing è in grado di fare un passaggio, verso il fantastico ma soprattutto verso la letteratura, che la pone avanti, o piuttosto «dopo» il rumore di quegli anni. La vediamo nelle fotografie alle manifestazioni antinucleari con Vanessa Redgrave, John Osborne o John Berger, ma la sua scrittura, sebbene imbevuta delle maniere del realismo sociale dell’ambiente in cui è cresciuta, è adesso intessuta di motivazioni contraddittorie, non così facilmente ascrivibile a nessun campo. Dall’infanzia orientale recupera un interesse per il sufismo, in generale per un’attenzione mistica alla realtà, e per la fantascienza.
Negli anni ’80, quando era ormai famosissima: per dimostrare la chiusura degli editori inglesi inviò al proprio editore un romanzo firmato con lo pseudonimo di Jane Somers. Il libro venne rifiutato e alla fine acquistato da un altro editore, Michael Joseph e in America da Knopf. Doris Lessing pubblicò due libri con questo pseudonimo e alcuni anni dopo li ripubblicò insieme sotto il proprio nome con il titolo I diari di Jane Somers.
L’aspetto più convincente, nonostante la sprezzatura della Lessing stessa per il femminismo, è la costruzione dei personaggi femminili nei suoi romanzi. Ricchi di riferimenti a condizioni economiche e sociali molto familiari ai londinesi, in altre parole molto realistici, la personalità delle protagoniste è fortemente autonoma, indipendente dagli uomini e dagli altri in generale. Spesso sono donne che nascono nella crisi matrimoniale e si realizzano nella separazione dal marito.
Questo per la Lessing era avvenuto nei primi due matrimoni della sua vita, in Africa. A Londra lei era nata come scrittrice e rinata come persona. Inevitabilmente la sua scrittura segnava una strada per molte. Quanto poi lei abbia respinto, tentato di prendere le distanze dalle generalizzazioni ideologiche delle sue seguaci, in fondo descrive un mondo di diversi rapporti tra i sessi che, al di là della sua auto-percezione, aveva indubbiamente aiutato a definire.

La Stampa TuttoLibri 16.11.13
Carlo Augusto Viano
“La coscienza? Maneggiarla con prudenza”
di Maurizio Assalto

qui

l’Unità 18.11.13
Ieri, oggi e domani
Ma cos’è il tempo? Ce lo spiega l’arte


«Il tempo» di Menena Cottin ( pp. 24, euro 10, Gallucci): non è facile spiegare ai più piccoli che cosa mai sia il tempo; come scorra più lentamente o più velocemente... dipende!
Così, Cottin, artista concettuale formatasi in Venezuela e a NY, prova a raccontare, attraverso accostamenti semplici e immagini suggestive, questo fenomeno astratto e intangibile, questa «catena di istanti che si susseguono all’infinito». Sfogliando dal sotto in su il libro, formato orizzontale, fra frammenti colorati d’arancio che passano lungo la strettoia di una clessidra, si scoprono il prima e il poi, il passato e il presente e anche quel futuro che non sempre è previsto.

il Fatto 18.11.13
Le pagine strappate di Dino Campana
di Adele Marini


Di Dino Campana e della travagliata vicenda del suo unico libro i Canti orfici si è discusso e scritto molto. Campana, il nostro poeta maledetto, ebbe una vita molto tormentata: fu una prima volta ricoverato nel frenocomio di Imola per squilibri psichici, poi dal 1907 fu nomade prima in Europa a Basilea fu imprigionato per rissa poi in Argentina, dove lavorò come bracciante, e di nuovo in Europa, in Belgio. Nella breve parentesi fra gli anni dal 1912 al 1916 si concentra tutta l’attività letteraria di Campana, prima del suo definitivo ricovero nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, presso Firenze, dove morirà nel 1932. Il manoscritto dei Canti orfici fu smarrito dopo che Campana l’aveva affidato ai due redattori di Lacerba, Giovanni Papini e Ardengo Soffici, con la speranza che venisse pubblicato nella rivista fiorentina. Dopo vani tentativi di tornare in possesso del manoscritto da quelli che il poeta chiamerà i due “sciacalli fiorentini” egli riscrive a memoria il libro che pubblicherà a proprie spese presso l’editore Ravagli di Marradi nel 1914. Il tormentato rapporto fra Campana ed il suo libro resterà sempre segnato dalla perdita del manoscritto. Il poeta non riuscirà mai a considerare questa sua opera del tutto compiuta e intimamente sua. Si narra che nel retrobottega del libraio Gonnelli, strappasse le pagine del libro prima di venderlo, assecondando gli umori e le simpatie del momento. Soprattutto si accanirà sulla pagina con la dedica a Guglielmo II, “Imperatore dei germani”. Oggi capita di trovare in commercio copie molto rare del libro in cui viene dichiarata la mancanza di alcune pagine. Il valore di una copia in buono stato può raggiungere 8000 euro.

il Fatto 18.11.13
David, gigante più grande di Golia
Copiato, venduto, ridotto in gabbia
David, di Michelangelo Buonarroti, Galleria dell’Accademia di Firenze
di Tomaso Montanari


Uno. Uno solo. E colossale: un gigante. Come quelli che si leggevano nelle storie degli antichi, se erano vere.
Ci avevano provato lungo un secolo intero, senza riuscirci. E non in astratto: quel pezzo di marmo era arrivato a Firenze proprio a quello scopo, quarant'anni prima. Ma niente: l'avevano mezzo rovinato, senza riuscire a tirarci fuori nulla.
Poi arriva lui: Michelangelo. Avrà sì e no venticinque anni: fallirà come tutti, dicono i fiorentini. Sempre gli stessi.
E invece no. Lui ci riesce. E da quel marmo sciancato salta fuori il Gigante. L'uno per eccellenza: l'uno unico. La singola figura umana più perfetta che mai fosse stata concepita. La forza, la potenza, la giustizia fatte corpo. Un corpo. Uno solo.
È David, che guarda lontano, verso Golia: senza paura, con la fionda pronta, e gli occhi fissi in quelli del gigante filisteo. È un'arte nuova: moderna. Che guarda fino a noi. È un'idea dell'uomo così sovrumana da metter quasi paura.
Tanto perfetto che si decise di non issarlo sulle guglie del Duomo (per una delle quali era nato), ma di metterlo in Piazza. E lo decise una commissione eccezionale, dove sedevano tipetti come Botticelli, Filippino Lippi, Perugino, Leonardo: il Gigante aveva vinto anche l'invidia.
Sopravvissuto ai fulmini e alle sommosse popolari, l'unica battaglia che ha perso è stata quella con il tempo. E così nel 1873 il Gigante fu fatto prigioniero, e trasportato in un Museo. E l'Uno subì l'onta di diventare due, anzi tre. Una copia di marmo fu messa in Piazza, una di bronzo al Piazzale dedicato a Michelangelo.
E lui in gabbia: come al circo, o al luna park. Buono per far pagare i biglietti ai turisti. Peggio: serve per vendere il prosciutto crudo, con sotto scritto «prodotto toscano». Per stamparlo sui grembiuli da cucina. Per moltiplicarne il pisello su milioni di cartoline per cretini perfetti. Per accapigliarsi sul fiume di quattrini che produce.
Per farci le cene intorno, tutti eleganti, col calice di bollicine in mano e il sorriso da dementi. Ed eccolo circondato di tavoli imbanditi: peggio che in catene.
È così che ha perso la sua forza, quell'unico Gigante. Perfino la sua dignità, ha perso.
Non riesce più a difendere la Piazza e il Palazzo Vecchio: sarà per questo che laddove regnava la Florentina Libertas, la libertà di Firenze, oggi si celebra il dominio del Dio Mercato. E lui sta in gabbia: venghino, signori, venghino.
Ma è impossibile pensare che un giorno, magari tra mille, quella fionda inzierà a girare, quei muscoli prenderanno a muoversi. Quel giorno, non ci sarà Golia che tenga.

Corriere 18.11.13
Tolnay e gli enigmi di Michelangelo
di Giorgio Pressburger


Il nobiluomo ungherese Charles de Tolnay visse nella casa di Michelangelo, a Firenze, per 15 anni. Anzi la diresse, organizzando iniziative d’ogni genere. Era un grande intenditore d’arte, ma soprattutto conosceva profondamente Michelangelo, su cui scrisse cinque enormi volumi e altre pubblicazioni meno ampie. In quella casa dal fascino irresistibile abitava e lavorava. Ma prima aveva vissuto, lasciata l’Ungheria, a Vienna, a Francoforte, a Heidelberg, a Parigi, a Roma e soprattutto negli Stati Uniti, di cui divenne cittadino. Era finito in America per sfuggire al nazismo, lui, non ebreo.
Che emozione fu per me, nel 1968, entrare nella casa di Michelangelo e trovarvi un centroeuropeo, un connazionale! Di fronte al giovane visitatore si mostrò sicuro di sé, gioviale e affabile. Viveva nella casa in cui per cinque secoli aveva abitato la famiglia Buonarroti (non l’artista stesso), contenente raccolte d’arte e di documenti importanti. In quell’occasione Tolnay ci parlò a lungo di Pieter Bruegel il Vecchio, di cui era uno specialista, e ci raccontò dell’alluvione dell’Arno di due anni prima, da cui aveva salvato preziosi materiali di studio. A un certo punto chiese scusa e si ritirò a lavorare.
Come mai si trovava lì? Nel 1922, anno della sua prima visita a Roma, l’allora ventitreenne Tolnay venne folgorato dalla visione degli affreschi sulla volta della Cappella Sistina e da quel momento dedicò sei decenni allo studio di Michelangelo. Tra le sue intuizioni c’era anche la spiegazione di una particolarità delle lunette della volta: lì la pittura era fatta con colori molto più scuri rispetto al resto. Attribuiva questo a una simbologia: al fatto cioè che ai bordi la pittura della volta rappresentava il mondo antecedente all’avvento di Cristo, quindi doveva essere per forza oscuro. Invece il resto della rappresentazione diventava man mano sempre più luminoso.
Tolnay morì a Firenze nel 1981. Era appena cominciato il restauro della Cappella Sistina, che segnò anche l’inizio del suo dramma postumo. Perché quattro anni più tardi, nel 1985, al termine del restauro delle lunette, fu evidente che i colori di quel mondo primordiale erano freschi, sgargianti, intensi. Tolnay non aveva considerato che attraverso le finestre, sempre aperte per via della ventilazione necessaria in quella parte della volta, era entrata la sporcizia dei tubi di scappamento delle macchine, danneggiando la pittura delle lunette. Invece pare che le cose stessero proprio così. Ma Tolnay non poteva più contestare questa tesi, era morto da dieci anni. Al suo posto lo fecero alcuni studiosi: nacque una discussione interminabile, ancora oggi non del tutto sopita. Per il momento il grande ungherese appare battuto.
Questo è il destino di molte idee, quasi di tutte. Il sapere umano non è mai definitivo. Divora sempre le proprie conquiste per farne delle nuove. Comunque la presenza nel mondo di uomini che riflettono, indagano, istruiscono, come ha fatto Charles de Tolnay, è un grande tesoro a cui non si può rinunciare. 

La Stampa 18.11.13
Gurlitt reclama i capolavori confiscati in casa sua
“Ma quale tesoro di Hitler. Quei quadri sono miei”


MONACO Cornelius Gurlitt, l’uomo nel cui appartamento di Monaco di Baviera sono stati scoperti due settimane fa oltre 1.400 quadri, tra cui capolavori sconosciuti di Matisse, Klee, Picasso e espressionisti tedeschi, afferma di essere il legittimo proprietario di quelle straordinarie opere, di non volerle cedere e di essere determinato a lottare per riaverle. I «suoi»quadriglimancanoe «devono tornare a casa». Quanto a suo padre «non è mai stato un nazista». L’ottantenne ha spiegato le sue ragioni in una lunga intervista a «Der
Spiegel». Gurlitt racconta che suo padre, mercante d’arte dal passato travagliato sotto il nazismo, aveva acquistato queste opere legalmente. Il giornalista del settimanale tedesco lo descrive come un uomo rimasto intrappolato nel passato, quasi privo del contatto con la realtà e che non capisce molto di quello che gli sta accadendo. Gurlitt si è detto scioccato dall’attenzione di cui è oggetto: «Non sono Boris Becker, che cosa voglio da me questepersone?».«Volevosolo vivere con i miei quadri», ha detto. L’eccezionale ritrovamento rappresenta un tesoro sensazionale, stimato in 1,35 miliardi di dollari.

Repubblica 18.11.13
Intervista a Michael Barber ex consulente per l’istruzione di Tony Blair che è a capo di un progetto editoriale per cambiare l’insegnamento
La Scuola del futuro
“Così trasformiamo l’informazione in conoscenza”
intervista di Enrico Franceschini


LONDRA Chiedere di più. Si intitola così, Asking more, il libro pubblicato in questi giorni a Londra che si appresta a cambiare la scuola del 21esimo secolo. Lo cura sir Michael Barber, artefice della riforma dell’istruzione di Tony Blair, oggi responsabile del progetto con cui la Pearson, gigante dell’editoria scolastica e accademica mondiale (oltre che proprietaria del Financial Times e dell’Economist), propone una grande riforma globale dell’insegnamento. A chi “chiedere di più”? Alle nuove tecnologie della rivoluzione digitale, a se stessi attraverso un metodo personalizzato di rigorose verifiche, agli altri tramite un apprendimento collaborativo, da lavoro di squadra, risponde Barber, delineando gli orizzonti del passaggio dal tradizionale insegnamento “verticale”, insegnante-allievo, a un insegnamento “orizzontale” che coinvolge agenti, fonti e piattaforme differenti.
Sir Barber, lei fu l’architetto della riforma dell’istruzione di Blair, a fine anni ’90: quali erano gli obiettivi?
«Migliorare l’alfabetizzazione e risollevare scuole che non sapevano più insegnare. Era un misto di maggior sostegno e maggiore pressione, attraverso ispezioni e controlli più assidui e precisi».
Sebbene non sia trascorsa nemmeno una generazione, ora lei delinea una nuova riforma dell’insegnamento su scala mondiale: perché ne sente il bisogno?
«Perché è una naturale evoluzione di quella prima riforma, una nuova tappa che non riguarda più solo scuole e università britanniche, date le dimensioni della Pearson, ma tutto il pianeta. Significa prestare attenzione non solo a ciò che si insegna, ma al risultato di ciò che si insegna, all’efficacia dell’apprendimento, ai suoi effetti nella vita di chi studia».
E come si misurano efficacia e risultati?
«Non esiste un solo strumento per misurarli. Se devi imparare l’inglese, cerchiamo di verificare che uso concreto ne viene fatto. Se devi apprendere un mestiere, che sia l’ingegnere o il designer, guardiamo alle opportunità che ti offre quello che hai studiato. Tenendo presente che l’istruzione è un prodotto particolare: funziona solo se lo usi in modo appropriato. È come un medicinale: la sua efficacia dipende da come lo applichi, se prendi una pillola tre volte al giorno come prescrive il medico. La scuola può condurti a un certo livello di apprendimento, ma molto dipende dal dialogo che si stabilisce tra insegnanti e studenti, fra studenti e studenti, tra studenti e le innumerevoli piattaforme di apprendimento che vengono offerte oggi dalla rivoluzione digitale ».
Dove ci porterà l’e-learning, l’apprendimento digitale?
«La rivoluzione digitale consente di trovare più nozioni, più velocemente. Ma è molto più di questo. Finora se facevamo un test per misurare il grado di alfabetizzazione di una scuola o di uno studente, dovevamo aspettare mesi per conoscerne i risultati. Ora possiamo misurarne i risultati giorno per giorno, quasi ora per ora. Possiamo scoprire subito se uno studente rimane indietro e intervenire in tempo cambiando sistema per dargli l’appoggio di cui ha bisogno».
Al centro di tutto rimane l’insegnante in carne e ossa?
«Sì, ma con finalità nuove. Finora si puntava sul rapporto verticale e subordinato tra insegnante e allievo. Oggi l’insegnante deve creare le circostanze per permettere agli allievi di imparare anche gliuni dagli altri, e da altre fonti, esperienze e piattaforme. L’insegnante del 21esimo secolo deve essere una guida, l’attivatore di un processo di apprendimento orizzontale».
E lo studente del 21esimo secolo cosa deve imparare?
«La conoscenza, per imparare non solo “cosa”, ma pure “come”, che si tratti di letteratura, matematica, storia, filosofia, scienze, ovvero imparare a come usare quello che ha studiato. Poi deve sviluppare le sue capacità intrapersonali, cioè la deduzione, la logica, la creatività, ma anche a come usarle rapidamente e sotto pressione. Quindi deve sviluppare le capacità interpersonali, come collaborare con altri, il team work insomma, da applicare nell’ambito della scuola ma poi in futuro anche nella famiglia, nel lavoro e nella società. Infine deve apprendere una quarta capacità, quella che ti porta ad avere un insieme di valori etici, quanto mai necessari in un mondo multietnico, multireligioso, multirazziale».
Sul web si può studiare praticamente gratis, gran parte delle nozioni e dei corsi non sono a pagamento. Ma qualcuno deve pur pagare per produrli. Chi?
«La rivoluzione digitale ci ha portati in una nuova frontiera di cui nessuno conosce i confini definitivi. Il problema di chi paga per l’e-learning è simile a quello di chi paga per l’informazione online, per i siti Internet dei giornali. La pubblicità, le donazioni, un sistema di micro-pagamenti? La mia impressione è che andiamo verso un mondo in cui molti contenuti saranno gratuiti, ma bisognerà pagare per i servizi, cioè per chi ti dà qualcosa in più del contenuto puro. Qualche anno fa, mentre vivevo a Bologna dove mia moglie studiava cinematografia, passammo una sera a discutere dei Fratelli Karamazovcon altri studenti. Non ricordavamo il no- dei protagonisti e con Google e Wikipedia li abbiamo trovati in un attimo. Ma per capire Dostoeveskij occorrono strumenti che Google da solo non può dare».
Un altro concetto del suo libro è il lifelong learning: studiare tutta la vita.
«Oggi è molto difficile trovare lavoro, anche se hai i migliori requisiti possibili. Ma fra 10 anni quei requisiti non basteranno più. Recentemente a Londra un tassista mi raccontava che insegna a suo figlio il test di conoscenza delle strade della città, per garantire un posto da tassista anche lui. Gli ho fatto presente che in California si danno già licenze per auto senza pilota: un giorno i tassisti non serviranno più. Noi tutti dobbiamo continuamente apprendere, senza fermarci mai».
Tutto cambia, dunque, e in un certo senso niente cambia: quando nel ’97 chiesero a Blair, nella sua prima campagna elettorale, quali sarebbero state le tre priorità del suo governo, rispose con una battuta diventata emblematica: l’istruzione, l’istruzione e l’istruzione.
«Valeva allora per la Gran Bretagna, oggi vale per il mondo globalizzato. I leader politici cominciano a capire ovunque che l’istruzione è la chiave: non solo per risolvere il problema dell’occupazione, ma per avere una società sana, civile, omogenea e democratica. Dalla scuola dipende tutto»