martedì 19 novembre 2013

l’Unità 19.11.13
Riscossa siciliana
Nel XII secolo l’italiano ha avuto la sua prima grande manifestazione poetica in Sicilia
Si torna a studiare e pubblicare la lingua e la creatività dell’isola
Oggi tre diversi eventi editoriali rendono giustizia ai suoi poeti del ’500 e ’700
di Giulio Ferroni


PROTESA AL CENTRO DEL MEDITERRANEO, LA SICILIA È COME IL CUORE DECENTRATO DELL’EUROPA, APERTA ALL’AFRICA E ALL’ORIENTE: nella sua storia ha visto intrecciarsi le culture, i popoli, le lingue, le immaginazioni più varie ed eterogenee, che hanno tratto alimento dal suo ambiente, dalla sua bellezza e dalla sua desolazione, e insieme lo hanno plasmato nella ricchezza più sontuosa e nella violenza più atroce. In Sicilia la lingua italiana ha avuto la sua prima grande manifestazione poetica, si è provata con le forme della poesia d’amore, in un formidabile connubio tra nord e sud, per iniziativa di un imperatore che veniva dal nord (lo svevo Federico II), tra tracce dei trovatori di Provenza e echi della precedente dominazione araba. Ma pur avendo dato avvio in modo così prestigioso alla nostra letteratura, in una lingua dalla forte caratterizzazione dialettale (i cui testi sono giunti fino a noi in forma toscanizzata), nei secoli successivi la Sicilia letteraria è sembrata a lungo silenziosa, senza lasciare tracce determinanti nella tradizione italiana, fino al formidabile scatto creativo dopo l’unità d’Italia, con quei grandi autori che, da Verga a Consolo, hanno dato la più viva e determinata immagine critica della realtà contemporanea.
Eppure nei lunghi secoli dal Duecento all’Ottocento non è mancato un vivo esercizio della lingua siciliana, una creatività disposta sui più diversi strati sociali, ingiustamente trascurata a livello nazionale. Tre diversi eventi editoriali presentano ora tre casi diversi fra loro, ma collegati dal radicamento nella cultura e nella lingua della Sicilia, negli intrecci che la costituiscono e che ne fanno davvero il cuore di un’Europa proiettata sul Sud del mondo (oggi provato dolorosamente dall’inarrestabile approdo di migranti disperati che attraverso la Sicilia tentano di affacciarsi sul loro sogno di Europa). Il benemerito Centro di studi filologici e linguistici siciliani (alla cui cura si devono già i tre volumi del Meridiano dei Poeti della scuola siciliana, uscito nel 2008) ha pubblicato a cura di Gaetana Maria Rinaldi (scomparsa nel 2012), con presentazione di Costanzo Di Girolamo, l’edizione critica del Libro delle rime siciliane (pp. XLIV-316, euro 35,00), di un singolare poeta del tardo Cinquecento, Antonio Veneziano (1543-1593), la cui vita avventurosa lo portò anche a contatto (come prigioniero dei corsari ad Algeri) col grande Miguel de Cervantes. Alle poche ottave di questo poeta riproposte circa cinquant’anni fa da Leonardo Sciascia si aggiunge ora una ricchissima serie di testi: con una eccezionale varietà di prospettive, dove la lingua siciliana sembra voler prendere superbamente possesso di tutto l’orizzonte immaginario e simbolico del linguaggio amoroso, dalla poesia classica a quella petrarchistica, a schemi e motivi di origine popolare, ecc., in un’accensione senza fine, singolare e coloratissima manifestazione del manierismo cinquecentesco (è un vasto territorio poetico che richiederebbe anche un’accurata annotazione: la Rinaldi l’aveva intrapreso, ma che non è riuscita a portare a termine: qui si dà solo l’edizione dei testi, essenziale premessa per quella futura edizione annotata).
Messo in cattiva luce da Sciascia nel romanzo Il consiglio d’Egitto, ma molto apprezzato ai suoi tempi, perfino fuori d’Italia (da Goethe, tra gli altri), Giovanni Meli (1740-1815), autore di una vastissima produzione in cui il dialetto si dispone in abbandonata cantabilità, secondo quella disposizione musicale che percorre tanta poesia del Settecento, vede l’avvio della la pubblicazione di tutte le sue opere, in 10 volumi, sotto la direzione di Salvo Zarcone, per Nuova Ipsa Editore di Palermo: è già apparso il volume 2, che contiene La Buccolica, con introduzione e commento di Francesca Fedi e traduzione di Michele Purpura (pagine XXXVI-291, euro 25,00). Qui, riallacciandosi all’antico modello pastorale (del siciliano Teocrito), Meli (che era di professione medico) lo arricchisce con un’attenzione di nuovo tipo alla natura, non ignara dell’orizzonte scientifico settecentesco e aperta verso una prospettiva europea (egli sapeva del resto muoversi anche su di una originale linea di comicità, come mostra il suo più noto poema scritto sulle orme di Cervantes, Don Chisciotti e Sanciu Panza, tra quelli più prossimi alla pubblicazione in questa serie editoriale).
Medico palermitano come il Meli era anche Giuseppe Pitrè (1841-1916), il curatore delle raccolta di fiabe tanto apprezzata da Calvino (cha la utilizzò nelle sue Fiabe italiane), cioè Fiabe Novelle e racconti popolari siciliani (apparse la prima volta nel 1875). Etnologo e storico, Pitrè pubblicò una serie vastissima di studi sulla cultura siciliana, raccogliendone senza soste le testimonianze (scriveva perfino nel calesse che lo conduceva alle sue visite di medico), con i 25 volumi della sua Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane: documentazione determinante, prodotta proprio nei primi decenni dell’unità d’Italia, su di un universo popolare e contadino, che allora cominciava a muoversi verso una mutazione che ne avrebbe stravolto radicalmente i caratteri. Davvero ecceionale impresa editoriale, che rimette in circolazione la voce a quell’universo di letteratura orale che senza il lavoro del Pitrè sarebbe andato disperso, è ora quella con cui Donzelli ripubblica le Fiabe del Pitrè (della presentazione al Senato si è parlato su l’Unità del 29 ottobre). È un’edizione «filologica», in 4 volumi che ammontano a circa 2700 pagine (euro 165), curata da uno dei maggiori studiosi delle fiabe, l’americano Jack Zipes: i materiali e gli apparati del Pitrè (con le fiabe nei dialetti di vari centri siciliani) vi sono accompagnati da una chiara ed equilibratissima traduzione delle fiabe curata da Bianca Lazzaro e da ulteriori annotazioni dello stesso Zipes, mentre parallelamente Donzelli pubblica un’altra edizione (intitolata Il pozzo delle meraviglie, pp. XXXIV-804, euro 30,00), con la stessa traduzione di tutte le 300 fiabe e con splendide illustrazione di Fabian Negrin, rivolta al semplice lettore, che così può entrare più agevolmente in quel mondo narrativo. Scorrere questa edizione porta a riconoscere tutta l’importanza della raccolta di Pitrè, anche rispetto ad altre celebri raccolte di fiabe (come quella, risalente al primo Ottocento, dei fratelli Grimm): diversamente dall’abitudine di molti raccoglitori ottocenteschi, il medico siciliano si basò su di una grande fedeltà alla lingua dei narratori semplici ed umili da cui raccoglieva le fiabe, riportando anche i loro nomi: raccolse gran parte delle fiabe nel quartiere di palermitano di Borgo (molti da Agatuzza Messia, che lo aveva allevato da bambino e dalla filatrice Rosa Brusca); e furono circa il 60 per cento quelle narrategli da donne. Ciò permette a Zipes di suggerire la possibilità di «mettere a confronto e paragonare il modo in cui donne e uomini narravano le loro versioni di racconti, leggende e aneddoti ben noti, e dei proverbi che spesso essi includevano». Si tratta di un universo fascinoso, pieno di percorsi in tutte le direzioni, di crudeltà e di libertà, di sogni e di trionfi che si sovrappongono alle penuria, alla miseria, alla quotidiana difficoltà del vivere, tra sopravvivenza e onnipotenza, manipolazioni dei più umili oggetti della dura vita contadina e loro proiezione verso impossibili orizzonti fantastici. Sotto il segno della ripetizione e dell’iterazione si danno gesti che trasformano la realtà, la plasmano secondo il desiderio, seguendo l’immaginazione di sconfinate felicità, riducendo il peso del controllo razionale, scambiando di posto tra facilità e difficoltà, facendosi prendere dalla gioia gratuita della sciocchezza senza conseguenze (come nel caso della popolarissima figura di Giufà): tra materiali che si ritrovano nelle culture più diverse e che rivelano al massimo grado quella situazione di interferenza, di rapporti tra mondi molteplici, che caratterizza la Sicilia, la sua storia e la sua cultura. È un narrare che esibisce continuamente il proprio carattere di finzione, proiettandosi anche verso il gioco metanarrativo, in un continuo stacco tra il proprio spazio e al realtà esterna: proprio tenendo conto di questo, Pitrè mise all’inizio della raccolta un curioso Cuntu di «Si raccunta» («Racconto di «Si racconta»), che è quasi la quintessenza di ogni possibilità metanarrativa. Il senso della finzione allontana d’altra parte il narratore popolare e i suoi ascoltatori da ogni illusoria identificazione con la felicità dei personaggi, come mostrano quelle frequenti battute finali, del tipo, «E rimasero felici e contenti e noi qui senza niente» (o «col male ai denti»).

l’Unità 19.11.13
Renzi vince tra gli iscritti. Cuperlo: la sfida è aperta
Il sindaco ottiene nei circoli il 46, 7, Cuperlo lo segue col 38, 4, dalle primarie escluso Pittella
Polemiche sui congressi disputati a Salerno finiti 2566 a 50 a favore del sindaco di Firenze
Il vincitore: «L’8 dicembre si vota per cambiare l’Italia». Lo sfidante: «Lui non è il nuovo»
di Simone Collini


ROMA Renzi vince tra gli iscritti al Pd incassando il 46,7% dei voti, Cuperlo è secondo con il 38,4%, seguito da Civati col 9,2% e da Pittella, che col 5,7% viene escluso dalla sfida ai gazebo. Questi i dati. Poi ci sono le interpretazioni di queste cifre, le accuse incrociate, le polemiche. E infine ci sono le strategie che metteranno in campo i due principali sfidanti per la battaglia decisiva, quella dell’8 dicembre: alle primarie aperte Renzi dovrà far lievitare in maniera consistente il risultato ottenuto ai congressi di circolo, mentre Cuperlo dovrà non allontanarsi troppo dalla percentuale incassata tra gli iscritti. Come proveranno a riuscirci?
IL 29 SFIDA TELEVISIVA SU SKY
Il sindaco di Firenze insisterà sul tasto del cambiamento, farà tappa nelle città dove il suo avversario ha vinto (già domani sarà a Genova, che insieme a Bologna, Roma, Milano, Napoli, Bari e Palermo ha votato in maggioranza per Cuperlo) e lavorerà perché tra venti giorni vadano a votare ai gazebo quante più persone possibile (tutte le simulazioni effettuate dicono che più è ampia la platea più sale la percentuale di consensi). Il suo sfidante radicalizzerà la propria campagna, marcherà maggiormente i tratti di sinistra e di alternativa alle posizioni renziane, proverà ad aggiudicarsi più passaggi televisivi per farsi conoscere dal vasto pubblico, prima che il 29 su Sky (dagli studi di X Factor) vada in onda la sfida televisiva a tre.
Coerentemente con questa impostazione, Renzi commenta i risultati dei circoli Pd con toni rassicuranti, ringrazia gli altri candidati e tutti quelli che hanno votato, dice che «essere nettamente in testa anche tra gli iscritti è un risultato che in molti non si aspettavano» e che però adesso bisogno lavorare alle primarie «aperte e libere» dell’8 dicembre: «Si vota per cambiare l’Italia.
Se vinciamo, il giorno dopo nulla sarà più come prima».
Cuperlo, oltre a dire che la «partita è aperta» contrariamente a quanto sostenuto fin qui («Per mesi hanno raccontato che il congresso sarebbe stato un plebiscito, una strada asfaltata per Renzi») insiste invece sul fatto che da questo voto esce «l’indicazione di una sinistra viva e vitale» (un modo per dire che «non rappresenta la realtà che Renzi rappresenta una sinistra distrutta da chi c’era prima»), che il dato delle primarie non si discosterà troppo da questo perché iscritti ed elettori del Pd non sono poi due specie totalmente diverse, e assesta una stoccata che anticipa uno degli argomenti su cui più insisterà nei giorni che mancano all’8 dicembre: «L’impianto che Renzi propone non apre una fase nuova, ma riproduce il ventennio che vorremmo lasciarci alle spalle».
DOMENICA IL CONFRONTO DIRETTO
Il primo confronto diretto sarà domenica, alla convenzione nazionale che si riunisce all’Ergife di Roma per comunicare ufficialmente i dati dei congressi di circolo e dare la parola ai tre candidati che si sfideranno alle primarie. La speranza comune tra un po’ tutti gli schieramenti in campo è che quattro giorni di tempo siano sufficienti per mettere a tacere le tante polemiche che ancora ieri infuriavano.
FINO ALL’ULTIMO È GUERRA DI DATI
Al di là dello scontro sui dati che fino all’ultimo ha tenuto occupati il comitato di Renzi e quello di Cuperlo, anche dopo la comunicazione dei risultati da parte di Davide Zoggia le critiche non sono mancate. A suscitare i malumori dei sostenitori di Cuperlo c’è il fatto che il responsabile Organizzazione del Pd abbia conteggiato nel dato finale i voti dei congressi di Salerno (finiti 2566 a 50 in favore di Renzi grazie all’endorsement fatto dal sindaco Vincenzo De Luca) che rappresentano circa l’1% dei votanti totali e su cui invece solleva dubbi di irregolarità il comitato di Cuperlo.
Aspri botta e risposta tra il comitato di Renzi e quello di Cuperlo non mancano neanche sulla percentuale incassata dal sindaco, con i suoi sostenitori che insistono sul fatto che non fosse scontata una sua vittoria ai congressi di circolo, e i sostenitori di Cuperlo che invece calcano la mano sul fatto che mai prima d’ora un candidato segretario si è fermato sotto il 50% di gradimento tra gli iscritti.
E poi c’è «la» polemica che infuria fin dalla mattina, quando Massimo D’Alema, replicando a quanto detto la sera prima da Renzi a «Che tempo che fa», dice ad «Agorà» che il sindaco è un «ignorante» («Vorrei ricordargli che noi le elezioni le abbiamo vinte due volte nel corso di questi anni e abbiamo portato la sinistra italiana per la prima volta nella sua storia al governo del Paese») un «superficiale» non adatto a fare il segretario del più grande partito italiano. Parole che hanno fatto storcere la bocca a diversi sostenitori di Cuperlo, e che ha fatto partire un serrato contrattacco dal fronte renziano.
Tra quanti appoggiano il sindaco viene poi sollevata una questione tesa a dimostrare che non è campata per aria l’accusa che Renzi muove a chi ha guidato il partito in questi anni, quella cioè degli iscritti che hanno votato al congresso del 2009 e quanti hanno votato questa volta. Per la sfida tra Bersani, Franceschini e Marino, quattro anni fa, avevano votato oltre 460 mila tesserati al Pd. A questo giro hanno invece partecipato ai congressi di circolo poco meno di 300 mila, stando a quanto comunicato dal responsabile Organizzazione Zoggia. Una flessione che se da un lato offre un argomento a favore dei renziani, dall’altro fa temere per l’affluenza alle primarie dell’8 dicembre.

l’Unità 19.11.13
Patrizio Mecacci
«Il rinnovamento siamo noi. Renzi avanti grazie ai notabili»
«Chiediamo l’annullamento dei risultati di Salerno, verifiche nella provincia di Roma e contestiamo l’esito di alcuni circoli di Messina»
intervista di Jolanda Bufalini


ROMA Matteo Renzi al 46,7, Gianni Cuperlo al 38,4. Sentiamo cosa ne pensa Patrizio Mecacci, l’uomo dei numeri nel comitato di Gianni Cuperlo che, nei giorni scorsi, dava il testa a testa. Accettate il risultato?
«Noi sappiamo che il voto degli iscritti dà la prevalenza a Matteo Renzi rispetto alla proposta di Gianni Cuperlo ma, in questo risultato, ci sono dati che epsano molto e che grdano allo scandalo. I dati di Salerno a favore di Renzi sono molto alti e danno l’impressione di una partita chiusa e, invece, è aperta. Nella provincia di Roma risultano più votanti che nella stessa Roma, a Tivoli hanno votato 1100 persone».
Quindi contestate lo contestate?
«C’è una evidente sproporzione che contestiamo, vogliamo rispetto per la qualità democratica del partito. Chiediamo l’annullamento del voto a Salerno, perché siamo per una discussione democratica vera e non farlocca». Renzi ha avuto il sosteno di De Luca, si sa che il sindaco di Salerno sposta molti voti, sarebbe stato così quale che fosse la sua scelta sul candidato. Non le pare?
«Ma nell’80% dei casi ci sono state irregolarità, spesso i congressi si sono svolti senza i garanti. C’è il caso di un circolo dove in un primo momento c’erano 240 voti per Cuperlo e, alla fine, c’erano 700 voti per Renzi e zero per Cuperlo. Non solo, contestiamo i risultati a Messina e chiediamo verifiche nella provincia di Roma, a giudicare dai votanti iscritti il partito della provincia di Roma è molto ricco ma dove sono i soldi? Non vedo circoli con i rubinetti d’oro».
Come valuta il voto dei circoli rispetto all’appuntamento delle primarie dell’8 dicembre?
«Il risultato delle grandi città, Milano, Roma Genova, Bari, è la vera e forte cartina al tornasole che crediamo che parli al futuro, non le percentuali bulgare di Renzi che, comunque, lo collocano al di sotto dei consensi della maggioranza degli iscritti. Se questi sono successi...».
Qualcuno risponde che vince chi ha più numeri, non le sembra un’obiezione ragionevole?
«Con il sostegno di Astorre a Roma, Patania a Trapani, La Torre in Puglia, Loiero in Calabria, Genovese a Messina, si può vincere. Ma il rinnovamento non è da quella parte, il rinnovamento lo rappresentiamo noi».
Lei sostiene che 11.000 voti di differenza non sono molti. Francamente, non le sembra un calcolo azzardato?
«Il successo politico della mozione di Cuperlo è evidente. La partita con Renzi è finita con un pareggio, essendo il differenziale dei voti assai dubbio sul piano della legittimità e inesistente se si considera l`articolazione del partito nel territorio nazionale»
I voti delle grandi città valgono di più di quelli della provincia?
«Nella provincia di Roma ci sono stati 3000 voti in più che nell’intero Piemonte, nella provincia di Salerno i votanti sono stati tre volte quelli del Friuli Venezia Giulia. Sono fenomeni di controllo del voto che non vanno bene, si sono misurati rapporti di forze, vicende locali che nulla hanno a che vedere con il progetto del Pd. È sbagliato il regolamento che ha consentito le iscrizioni durante il voto».
Regolamento sbagliato che, però, è stato il frutto di un compromesso
«Frutto di un compromesso, noi ne abbiamo chiesto la sospensione. Quel regolamento ha consentito che il partito fosse in balia di scorribande locali».
Molti sono saliti sul carro del vincitore, non è un fenomeno nuovo.
«Renzi deve comprare un rottamatore molto buono perché Renzi vince proprio grazie a chi è salito sul carro, anzi, lo spinge e lo traina. Non ha vinto con l’innovazione».
Lei è l’uomo, quello che nei giorni scorsi dava il testa a testa fra i due candidati, i calcoli li hanno fatti meglio al comitato di Renzi, non le pare?
«Avevano stime molto, troppo, precise, sapevano i risultati prima che le schede entrassero nelle urne».

l’Unità 19.11.13
D’Alema al sindaco: ignorante sulla sinistra. Civati: è una manfrina


«La sinistra italiana esprime il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio, la grande maggioranza dei governi regionali e locali. Certo, non ha pienamente vinto le elezioni, ma è pur sempre la prima forza del Paese. Non mi pare che possa essere descritta come una forza che io ho distrutto e che ora attende Renzi per essere resuscitata». È quanto afferma Massimo D’Alema dopo l’attacco rivoltogli da Renzi nella trasmissione “Che tempo che fa”: «D’Alema ha distrutto la sinistra». L’ex premier aggiunge: «C’è un limite oltre il quale la propaganda diventa una deformazione grottesca e offensiva. A ciò ho inteso reagire. In questa disputa, che spero finisca qui, io sono stato aggredito e non l’aggressore».
Parole che hanno provocato un contrattacco da parte dei sostenitori di Renzi, mentre Pippo Civati ha detto: «In realtà D’Alema non veda l’ora di fare l’accordo con Renzi, è tutta una manfrina».
L’uscita dell’ex premier ha suscitato malumori anche tra i sostenitori di Cuperlo, per i quali è sbagliato lanciare messaggi a tinte fosche. D’Alema infatti, pur escludendo l’ipotesi scissione, si è detto preoccupato «del rischio di un abbandono silenzioso»: «Il nostro è un partito plurale, se dovesse somigliare alla Dc dei signori delle tessere, una parte dei nostri iscritti non si sentirebbe più a casa sua».
Il direttore di Europa Stefano Menichini ha commentato con un tweet: «Cuperlo non merita tutto ciò, lui non c’entra con questa ossessione crepuscolare». È comparso un tweet di risposta di Cuperlo: «Sono d’accordo». E poi un altro: «Io sono contro le ossessioni crepuscolari, non contro chi mi sostiene».

il Fatto 19.11.12
Renzi conquista il Pd. Ma Cuperlo: “Non ho perso”
Il suo comitato contesta i dati dei Circoli: “Sono drogati e incongrui”
Da Firenze: “Nulla sarà come prima”
Meno 160mila votanti rispetto al 2009
di Carlo Tecce


L’ultima traccia di Gianni Cuperlo, prima di saggiare la sconfitta nei circoli Pd, era senz’altro colta: “Io sono contro le ossessioni crepuscolari - scriveva su twitter - non contro chi mi sostiene”. E chi l’ha sostenuto è il 38,4 per cento dei tesserati votanti contro il 46,7% di Matteo Renzi, il 9,19% di Pippo Civati e il 6% di Gianni Pittella (escluso dalle primarie).
Il comitato di Cuperlo aggiornava di continuo lo scrutinio e sempre con maggiore entusiasmo: siamo in vantaggio qui, vinciamo lì, sfondiamo là. Poi silenzio. Tocca a un mestissimo Davide Zoggia, conosciuto per bersaniano, comunicare con ufficialità i risultati che definisce “ufficiosi”. O peggio: “Non certificati, non verificati al cento per cento”. Perché mancano Cosenza, Catanzaro, un pezzo di Frosinone e Salerno e provincia sono contestati. La reazione di Cuperlo e compagni è feroce: non accettano il verdetto, protestano. Chiara Geloni, direttrice di Youdem e devota a Bersani, dà una personalissima interpretazione: “Ribadisco: l’unica notizia di oggi è che Matteo Renzi è ampiamente sotto il 50% fra gli iscritti. Continuate pure a sfottere”. Il viceministro Stefano Fassina è per il Geloni-pensiero: “Nonostante l’abnorme vantaggio mediatico e finanziario, nonostante le migrazioni bibliche più o meno stagionate sul carro del presunto vincitore e nonostante un messaggio sempre attento a seguire le mode del tempo, Renzi non ha la maggioranza assoluta degli iscritti del partito”.
E COSÌ la matematica di sinistra passa da “abbiamo non vinto” di Bersani ad “abbiamo non perso” di Cuperlo. Lo stesso discepolo di Massimo D’Alema, trascorse un paio di ore terribili, riappare per correggere l’umore generale: “Un risultato per molti versi straordinario: circa il 40%... La partita è aperta, la strada sembrava asfaltata per Renzi”. La delusione dei cuperliani viene mascherata bene. Perché sul terrazzo che porta verso la sala stampa di Largo del Nazareno, sciaguratamente famoso per il ballo “lo smacchiamo, lo smacchiamo”, i reduci bersaniani sentono odore di vendetta.
Mentre Cuperlo parla ai telegiornali, il comitato bersaglia l’incolpevole Zoggia: “I dati sono drogati da Salerno e incongruenti con quelli che abbiamo noi”. Ma che combinano a Salerno? Il sindaco (e viceministro) Vincenzo De Luca, che accolse Bersani in Municipio e lo invitò a smettere con il sigaro, s’è schierato con Renzi. E lo spazio per il deputato triestino s’è fatto strettissimo, stranamente troppo dicono i suoi. Il tabellino di Salerno città è da goleada: Renzi 2566, Cuperlo 50. A Pagani nemmeno una rete per la bandiera: il fiorentino fa 149 a 0, compresi Pittella e Civati. Zoggia giura che se la conquista salernitana di Renzi fosse eliminata, il 46,7% diventerebbe 45 e il 38,4% sfiorerebbe il 40. I concorrenti ringraziano gli organizzatori e l’organizzatore (Zoggia) ringrazia i volontari, ma la corsa a diventare democratico, tra commissari e sospensioni, s’è tradotta in circa 300.000 “elettori” di congresso rispetto ai quasi 370.000 tesserati di quest’anno. Confronto Bersani-Franceschini, 4 anni fa: militanti dimezzati (erano 800.000, votarono in 462.000), oggi partecipanti in proporzione maggiore. Quella che a sinistra chiamano “base” ha scelto Renzi e Cuperlo, ma soprattutto Bersani e D’Alema, non se l’aspettavano. Renzi esulta: “Nulla sarà come prima dopo l’otto dicembre”.
Ora che il sindaco ha la struttura, lo sfidante di Trieste teme un fallimento per le primarie, domenica 8, Immacolata Concezione. Qualcuno già prega.

il Fatto 19.11.13
Il sindaco vince nel Mezzogiorno e perde quasi tutte le grandi città
di Marco Palombi


Matteo Renzi ha vinto, Gianni Cuperlo ha vinto pure lui – o almeno così dice – e Pippo Civati potrà almeno dare fastidio agli altri due alle primarie dell’8 dicembre: gli iscritti hanno dunque deciso di eliminare dal reality del Pd Gianni Pittella, ultimo arrivato col suo sei per cento dei voti, raccolti quasi tutti al Sud con picchi rilevantissimi tipo il 20 per cento di Napoli. Questo il risultato ufficioso – manca la ratifica degli organi interni – del voto di circa 300mila iscritti democratici in settemila circoli. Il risultato è netto, almeno in termini numerici, ma la sua lettura non è così univoca, come vedremo.
IL SINDACO DEL SUD
A differenza che nelle primarie del 2012 con Bersani, stavolta Renzi è andato bene nel Mezzogiorno: ha vinto in Campania, Puglia, Calabria, perso di poco in Sicilia. Evidentemente il sostegno di personalità importanti – e chiacchierate – della vecchia guardia politica meridionale gli ha giovato: col sindaco rottamatore si sono schierati, infatti, gli ex presidenti di regione Antonio Bassolino e Agazio Loiero, il sindaco di Salerno (e viceministro) Vincenzo De Luca e il deputato napoletano ex Dc Salvatore Piccolo, l’ex senatore siciliano Antonio Papania e il “padrone di Messina” Francantonio Genovese. Buoni risultati - almeno nella provincia di Roma, dove oltre il 70 per cento degli oltre 11mila votanti, affluenza record, ha scelto Renzi – gli ha portato anche il sostegno di Dario Franceschini e della sua Areadem.
RENZI SENZA CITTÀ
Se si escludono la sua Firenze e Torino (dove ha l’appoggio del sindaco Fassino e del suo predecessore Chiamparino), Renzi ha perso nettamente in quasi tutte le grandi città italiane, luogo di insediamento più tradizionale dell’elettorato di sinistra: Milano, Genova, Bologna, Roma, Napoli, Bari sono andate tutte a Gianni Cuperlo, a Palermo l’ex Margherita ha vinto per soli tre voti.
OMBRE A SALERNO
Sul voto nella provincia del viceré Vincenzo De Luca pende ricorso per varie irregolarità: su 12.959 votanti, comunque, 9.225 hanno scelto Renzi. Risultato ragguardevole, ma mai quanto quello di Salerno città, dove il sindaco ha sconfitto Cuperlo per 2.566 voti a cinquanta. Ancora meglio è andata nel vicino Agro nocerino sarnese: ci sono comuni (Angri, No-cera, Pagani) in cui Renzi ha vinto col 100 per cento. Notevole anche l’affluenza: quasi 13mila partecipanti nella provincia di Salerno, neanche ottomila in quella di Bologna, circa novemila in tutto il Piemonte. Anche in caso di annullamento, ha fatto sapere la segreteria Pd, il risultato nazionale è quello: ha vinto Renzi.
L’ENIGMA DEGLI ISCRITTI/1
Il Pd certifica, al momento del congresso, oltre seicentomila iscritti: tenendo conto che alcune zone (Reggio Calabria, Catanzaro, Caserta, Asti, Bolzano e Rovigo) non tengono le assise provinciali, vuol dire che a questi congressi ha votato poco più della metà degli aventi diritto (percentualmente al Sud più che altrove). I tesserati del Pd erano circa 550mila l’anno scorso e solo 240mila poche settimane fa, quando è cominciata la campagna congressuale: calcolando che chi s’è iscritto ora l’ha fatto per votare, significa che molti militanti del partito hanno disertato il congresso.
L’ENIGMA DEGLI ISCRITTI/2
Pippo Civati ha denunciato il caso di Isernia: “535 tesserati nel 2012, 429 tessere risultanti prima del congresso e altre 201 inviate in fase congressuale, per un totale di 630”. Votanti al congresso: “823, quasi 200 in più delle tessere”. Falsità, rispondono gli interessati: gli iscritti sono 1.100, tutto in regola. Si vedrà dopo i ricorsi. Per la cronaca, comunque, nella provincia molisana ha vinto Cuperlo, buon secondo Renzi, mentre Civati è arrivato terzo coi suoi tre voti visto che Pittella ne ha presi solo due.
IL CASO EMILIA ROMAGNA
La regione più piddina – già rossa - d’Italia ha scelto Cuperlo: Renzi però gli è arrivato a un soffio (neanche 400 voti di scarto su 27.509 totali). Il segretario regionale Stefano Bonacini, ex bersaniano ora renziano, avverte gli ex amici: “In un anno i rapporti di forza sono comunque cambiati”.

il Fatto 19.11.13
“Matteo è ignorante” D’Alema e le sue scissioni
L’ex premier contro tutti, rimprovera Bersani e minaccia abbandoni
Anche il suo candidato, però, prende timidamente le distanze
di Giorgio Meletti


Specchio delle mie brame, chi è il più vecchio del reame? ”. Per 45 minuti Massimo D’Alema occupa le frequenze di Raitre e ripete ossessivamente che i rottami del Pd sono loro, quelli che si sono buttati Matteo Renzi. Li nomina uno per uno, i decrepiti opportunisti, con la voce incrinata dal disprezzo: “De Luca, Bassolino, Veltroni, Franceschini, Fassino. Si accodano a lui, tristemente, diciamo, e sono vecchi, vecchissimi, li conosco da 40 anni”.
CE L’HA con tutti, anche con la Repubblica, “giornale renziano militante”, e con l’editore Carlo De Benedetti che, a dispetto della celebre “tessera n. 1” del Pd, nella galleria degli orrori renziani viene affiancato a Flavio Briatore. Lo show mette in imbarazzo lo stesso Gianni Cuperlo. Quando il direttore di Europa, Stefano Menichini, chiosa impietosamente su Twitter: “Insisto, @giannicuperlo non merita tutto ciò, lui non c’entra con questa ossessione crepuscolare”, subito Cuperlo ci mette la firma: “Sono d’accordo”. Sei ore dopo corregge il tiro: “Io sono contro le ossessioni crepuscolari, non contro chi mi sostiene”. Ma ormai la frittata è fatta, D’Alema indirettamente ringrazia con un terrificante “parliamoci chiaro, fino a due tre mesi fa pochissime persone sapevano chi fosse Cuperlo”. E mentre i renziani celebrano la vittoria congressuale, per il campo cuperliano diventa la giornata delle “ossessioni crepuscolari”, che è poi un modo molto elegante di descrivere una polemica da Villa Arzilla. Lo specchio delle sue brame è gentilmente offerto dalla trasmissione Agorà, che gli riserva il trattamento “grande statista”. Niente poltroncina rossa in studio mescolato ad altri parlanti, ma collegamento via satellite dalla sede della Fondazione ItalianiEuropei, che dista dallo studio di Agorà chilometri 14, pari a circa 26 minuti di taxi o auto blu, secondo Google Maps (ma D’Alema “ha da fare”, ripete più volte, ammirato, il conduttore Gerardo Greco). E niente contraddittorio. L’invettiva inizia alle ore 9 precise, e si dipana indisturbata per 18 minuti, poi il giornalista Marcello Sorgi riesce a fare una domanda di dieci secondi (se vince Renzi ci sarà una scissione?), alla quale D’Alema replica copiosamente con il vero messaggio politico: “Il rischio non è una scissione, ma l’abbandono silenzioso della gente di sinistra del partito. E siccome la maggioranza degli iscritti non ha votato Renzi, se vincerà le primarie dell’8 dicembre starà a lui garantire una gestione unitaria del partito” per evitare che il Pd diventi “il campo di battaglia di uno scontro permanente” (“capisci a me”, avrebbe chiosato il raffinato Antonio Di Pietro).
POI ALLE 9,23 è stato concesso al renziano Dario Nardella un breve controcomizio (“Bersani ci ha fatto perdere le elezioni”), e D’Alema pronto ha ricordato che lui al suo ex cavallo vincente gliele ha cantate chiare già durante la campagna elettorale. Alle 9,35 Marco Damilano del-l’Espresso riesce a chiedere dove vede allora la discontinuità tra Cuperlo e Bersani, e D’Alema risponde per le rime: “Cuperlo rappresenta una netta discontinuità con Bersani”. Ecco.
Ma il clou è l’insulto al sindaco di Firenze, in nome del “non porgo l’altra guancia”, e con tanto di citazione di Papa Francesco: “Diffidare dei falsi messia e dei falsi santoni”. Contro il santone di Rignano sarà battaglia “sul territorio, palmo a palmo”: “Non possiamo assomigliare alla peggiore democrazia cristiana”, dice, è già che c’è manda anche un sibillino saluto al governo di Enrico Letta, “a forte connotazione democristiana”. Renzi è “l’uomo dell’establishment del Pd, e vedremo che prezzi dovrà pagare ai signori delle tessere”, e poi “è ignorante, mente, è spiritoso, brillante, ma è superficiale”. Il finale dice tutto. D’Alema corre a occuparsi degli ultimi preparativi del convegnone di ItalianiEuropei sulle infrastrutture, lunedì prossimo a Milano, con un occhio particolare alla rete telefonica che langue per colpa delle scelte degli anni ‘90, alle quali naturalmente D’Alema è, diciamo, estraneo. Come è estraneo al “tardo blairismo di Renzi, l’idea che la sinistra debba nutrirsi di valori liberali, molto di moda negli anni ‘90, poi sono passati vent’anni, c’è stata la crisi del capitalismo selvaggio... “. Tony Blair, questo nome non ci è nuovo. Vent’anni fa, quando era appunto di moda, Renzi era al liceo e D’Alema, segretario del Pds, inneggiava allo “sforzo di una sinistra innovativa che ripensa anche alle forze della solidarietà in una società più aperta: direi una sinistra non statalista”. Poi, col tempo, la memoria si confuse.

il Fatto 19.11.13
Buon risultato per Civati: sfiora il 10 per cento

I dati ufficialili ha comunicati ieri Davide Zoggia, responsabile organizzazione del Pd. Il voto degli iscritti premia Renzi, forte soprattutto al Sud, mentre lo sfidante Cuperlo tiene nelle grandi città. Civati e Pittella sotto il dieci per cento.

La Stampa 19.11.13
“Non temo i pasdaran e gli avvelenatori di pozzi”
Colloquio con il sindaco di Firenze: “Chi perde resta come ho fatto io l’anno scorso”
Dopo aver perso tutte le elezioni, per la prima volta dopo vent’anni D’Alema perde un congresso
“Pensa che se vinco distruggo la sinistra, ma l’ha già fatto lui”
I veleni “Voglio vedere cosa inventeranno quando prenderò il 60% alle primarie”
Il governo “Può andare avanti oltre il 2014 se fa le riforme: io sono giovane, non ho fretta”
Massimo D’Alema su Renzi: “Oltre ad avere poche idee, è superficiale e ignorante. E mente. La sinistra non può essere descritta come una forza distrutta che lui resusciterà”
di Federico Geremicca


Ore 20,45, lunedì sera. Dopo una giornata dura e nervosa, Matteo Renzi è finalmente a casa. L’umore è quello di chi crede di aver superato l’ostacolo più difficile, il voto degli iscritti al Pd: «Diciamo le cose come stanno annota: hanno perso la partita: adesso è davvero chiusa». Ma descriverlo in questa serata come un leader sereno e guascone, sarebbe un errore. Il sindaco li chiama “i pasdaran”; o anche “gli avvelenatori di pozzi”. Rivela: «I trattativisti ci chiamano e ci dicono: “ok, avete vinto ma ora calma e prudenza,  non pompate il risultato”. E noi, mi creda, faremmo precisamente questo: ma i pasdaran...».
Già, i pasdaran: quelli che ora dicono che la segreteria Renzi potrebbe essere un problema, che molte persone potrebbero non sentirsi rappresentate e andare via, che il sindaco di Firenze in fondo non è stato votato da più del 50% degli iscritti al Pd e che la sua legittimazione, dunque, è quel che è. Un tam tam allarmante, e due nomi su tutti: D’Alema e Fassina, perfetti esemplari di pasdaran. «Massimo dice Renzi ha scommesso tutto sulla mia sconfitta: mi attacca con qualunque argomento, ha organizzato e continua a organizzare la resistenza. Ma avete visto che toni, però? “Combatteremo palmo a palmo”... La rete lo ha preso in giro: “Ma che fa D’Alema, il vietcong?”. Fassina, invece, è un altro discorso: fa semplicemente ragionamenti stupidi». La polemica del viceministro, insomma, non nasconderebbe secondi fini: mentre D’Alema, avrebbe confidato Renzi ai suoi, «ha il problema di capire se farà di nuovo o no il capolista alle Europee».
Tre settimane di fuoco, da qui all’8 di dicembre: è questo quel che il sindaco di Firenze ora si aspetta in vista dell’atto finale della sua sfida. Tre settimane delicate, «da percorrere da segretario in pectore», dice, sminando il campo dalle insidie maggiori. In testa a tutte, naturalmente, questa storia che Massimo D’Alema ripete ormai da settimane: che alcuni (molti? pochi?) potrebbero andarsene, che il Pd rischia davvero la scissione. Matteo Renzi non ci crede, ma non per questo sottovaluta la minaccia.
«Sì, ora vorrebbero avvelenare i pozzi dice -, buttarla in caciara. Ma questo è un partito in cui chi perde resta. Io persi con Bersani, ma sono rimasto nel Pd e ho seguito la linea che ci indicava il segretario. Tanti dicono che dopo la sconfitta del 2 dicembre feci il discorso più bello della mia carriera politica. Già, può essere... Ma prima di tutto chiamai il segretario per riconoscere la sconfitta e dirgli “Pierluigi ti sarò leale”: Cuperlo, per ora, a me telefonate non ne ha fatte...».
Un po’ d’amarezza, che non riesce a cacciar via però la soddisfazione per il risultato ottenuto. Ancora un paio di mesi fa, infatti, Matteo Renzi era considerato quasi una sorta di corpo estraneo rispetto al Pd, uno che faceva l’occhiolino al centrodestra, un “berluschino” amico di Flavio Briatore e frequentatore degli show di Maria De Filippi. «E invece ho vinto tra gli iscritti al Pd, evento che pareva impossibile ammette -. I sostenitori di Cuperlo hanno passato il primo mese di campagna a dire che nei circoli avrebbero vinto loro. Poi hanno capito. E si sono preoccupati...».
Non è che Renzi, al contrario, la vedesse tutta in discesa. A metà ottobre, a Bari, nel giorno del lancio della sua candidatura, lo stesso sindaco confessava: «Come andrà nei circoli non lo so: o un pochino avanti io o un pochino avanti lui». Ora che è più sereno dice: «Fanno polemiche intorno al mio 46% tra gli
iscritti? Facciano. Quando avrò ottenuto il 60% tra gli elettori delle primarie voglio vedere cosa s’inventeranno...».
Anche lui, del resto, si inventerà qualcosa. Anzi, ha già cominciato. Spiega: «L’8 dicembre io non voglio un voto su una persona, voglio un voto su delle idee. E se vinco, voglio un mandato pieno su quelle idee. Leggo che ci sono preoccupazioni circa il fatto che avrei intenzione di far cadere il governo: ripeto, è falso. Per me Letta può andare avanti oltre il 2014, a condizione che il suo governo faccia». Faccia cosa? Renzi la chiama “la lista della spesa”: «Una nuova legge elettorale, la fine del bicameralismo, l’abolizione delle province, un piano per il lavoro ai giovani, la sburocratizzazione della pubblica amministrazione...». Tanto, forse troppo per un governo la cui maggioranza va sciogliendosi in mille rivoli.
«Io non ho fretta ripete Renzi ho 38 anni, posso aspettare...». Ma è difficile immaginare la sua come una “segreteria d’attesa”. Si pensi a quel che ancora ripete sul caso-Cancellieri: «Che rimanga al suo posto è una follia. Quel che sta emergendo l’ha delegittimata: restare dove sta sarebbe un danno anche per lei». Dopodiché, la linea è chiara: «Se il segretario si affiderà alle valutazioni del gruppo della Camera, noi saremo molto duri; ma se invece ci indicherà una via, la seguiremo: qualunque essa sia». Un Renzi che diventa obbediente e remissivo? Mah... Piuttosto un Renzi che sta per diventare segretario. E che domani vorrebbe esser seguito e ascoltato come lui oggi segue e ascolta l’attuale segretario...

La Stampa 19.11.13
Moderati
Contro la sinistra c’è un cartello
di Ellisabetta Gualmini


Non c’è nulla in comune tra lo strappo di Gianfranco Fini dal Pdl e la scissione lanciata da Alfano. Berlusconi ha cambiato il finale della rottura con l’erede designato e, invece di andare allo scontro frontale, ha preso tutti in contropiede. Ha rinculato preparandosi a un rilancio. Non ha rinnegato il figlio ingrato ma ha invece lasciato apertissima la porta per una futura alleanza elettorale.
Non ha rotto, ma ha tenuto dentro tutti: chi rimane, chi forse non sta più e chi non è mai stato (Lega) nella strana maggioranza, i governativi e gli antigovernativi, chi non vede l’ora di far rotolare il governo e chi spera ancora nella grande riforma costituzionale, chi vuole riprovarci con le primarie e chi si affida solo al leader maximo. Tutti pronti per tornare uniti nel cartello dei moderati contro le sinistre, non appena verrà il momento di ripresentarsi davanti agli elettori. Un cartello pigliatutto che facilmente si allungherà centimetro dopo centimetro verso il centro dopo l’uscita da Scelta Civica dei «cattolici» guidati da Mario Mauro.
In questo modo Berlusconi lascia che i governativi puntellino il governo, scrollandosi di dosso la responsabilità per una sua eventuale caduta. Anche se Forza Italia passerà all’opposizione, i numeri per Letta saranno garantiti. E, dall’opposizione, il Cavaliere potrà incalzare con maggiore vigore il suo popolo, giocando fino in fondo la partita populista verso i delusi dall’approccio incrementale della grande coalizione. Verso i moltissimi che non ne possono più dei «professionisti della politica» e di una politica lenta «che non decide mai». Potrà fare le pulci a Letta, sui provvedimenti economici e non solo, lasciando ai diversamente berlusconiani l’onore delle seggiole e l’onere di sostenerlo. Mentre il Pd continuerà a soffrire la contraddizione tra le alte aspirazioni riformiste declamate nelle mozioni congressuali e la pratica del compromesso permanente.
Il proto-cartello dei moderati, prima ancora che premessa per una futura alleanza elettorale, è peraltro un necessario accorgimento per tenere insieme le giunte comunali e regionali a cui nessuno dei partner, per ragioni varie, può rinunciare. Dopotutto anche il centrodestra ha una struttura territoriale da manutenere e serbatoi di voti da preservare.
L’unica incognita, in questo quadro, è la tempistica. A un certo punto Berlusconi non potrà che giocare il tutto per tutto, provando ancora una volta a vincere le elezioni. Sa che per farlo o darlo a intendere avrà bisogno di una coalizione di taglia larga, come nel 2001 in cui stravinse e nel 2006 in cui perse per poco. Mettendo insieme, per l’appunto, «tutti i moderati contro le sinistre» e cavalcando ancora una volta il mito della rimonta all’ultimo minuto. A quel punto gli stracci non voleranno più. Nessuna «testa di rapa», nessun «stalinista», nessun «estremista». Non si sbraca più, si ritorna in famiglia.
Certo, Berlusconi sta per uscire dall’arena parlamentare e anagraficamente è nella fase finale della sua esperienza politica, ma potrebbe ancora al prossimo giro essere il grande manovratore grazie a un accordo, forse già in atto, con Alfano, giocando su un mix di modernizzazione (forse le primarie magari tra Fitto, Alfano e Tosi) e di operazione nostalgia (il ritorno a Forza Italia e il richiamo imperituro alla lotta per la libertà). Con una federazione-ombrello tra partiti piccoletti che sommati insieme fanno la differenza.
In queste condizioni il centrosinistra non può dormire sonni tranquilli. Anzi, non può permettersi nessun tipo di errore. Matteo Renzi, da ieri vincitore indiscusso tra gli iscritti, ha davanti una sfida bella grossa. La spinta propulsiva della rottamazione e di una leadership fuori dai giochi a questo punto si è consumata. Dal 9 dicembre, dovrà dimostrare che insieme a una buona dose di contagioso entusiasmo, ha pure una strategia, una squadra e una coalizione. Se dovesse a un certo punto farsi largo il dubbio che il ricambio di cui è portabandiera è messo nelle mani di dilettanti allo sbaraglio o di politici arciconsumati disposti a tutto pur di salire sul carro, che non è in grado di dirigere un’orchestra altrettanto articolata, il «cartello dei moderati», che ora appare la ridotta del leader al tramonto, potrebbe rivelarsi l’ennesimo colpo vincente del Cavaliere. Nel Pd, d’altro canto, ci sarà sicuramente qualcuno pronto a dargli una mano.

l’Unità 19.11.13
Boss, finanzieri e calcio dietro agli affari dei Camilliani
Nell’indagine sulle manovre di padre Salvatore spuntano legami con la criminalità organizzata. Il ruolo del commercialista Taddeo
di Angela Camuso


C’è un filo che collega i torbidi affari dei padri Camilliani, amministratori di ospedali sparsi in tutto il mondo, al fallimento di alcuni importanti cliniche italiane gestite da ordini religiosi quali il San Raffaele di Milano, il San Carlo di Nancy e l’Istituto Dermatologico dell’Immacolata (Idi). È quanto emerge dagli ultimi sviluppi delle due indagini, una figlia dell’altra, coordinate dal pm Giuseppe Cascini della Dda di Roma, che indagando all’origine su un grosso investimento di capitali da parte della ’ndrangheta in attività commerciali a Roma, ha scoperto una rete fitta di relazioni che vede coinvolti mafiosi, parlamentari, massoneria deviata, manager del calcio e della sanità, esponenti delle forze dell’ordine e funzionari corrotti, religiosi e bancari.
Uomo chiave di un sistema a cui fanno da sfondo appalti truccati e mazzette, trasferimenti di capitali all’estero e drenaggio di fondi pubblici destinati ai nosocomi convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale, è il faccendiere Paolo Oliverio, già protagonista ombra di vecchi grossi scandali nazionali (il caso Sme e la P3, da cui è uscito indenne) e in questi giorni tornato alla ribalta delle cronache per la vicenda che ha coinvolto l’ex numero uno dell’Ordine religioso dei Camilliani di cui Oliverio era diventato il braccio destro: padre Renato Salvatore, accusato di aver organizzato il giorno della sua rielezione, insieme a Oliviero e due finanzieri corrotti, il rapimento di due preti che egli sapeva avrebbero votato contro la sua riconferma.
Ieri si è tenuta a piazzale Clodio l’udienza del tribunale del Riesame che dovrà decidere sulla scarcerazione di padre Salvatore e dei due finanzieri infedeli e in quest’occasione è trapelata la notizia che nell’ambito della stessa indagine sono stati perquisiti l’ufficio ai Parioli e l’abitazione di Paolo Taddeo, uno dei più noti commercialisti della capitale che fino a un anno fa ha ricoperto il ruolo di presidente del collegio sindacale organo di autocontrollo di quattro aziende ospedaliere poi fallite tra cui appunto il San Raffaele, l’Idi e il San Carlo. A Taddeo, indagato per riciclaggio, le Fiamme Gialle hanno sequestrato pratiche per centinaia di ricorsi tributari. Il commercialista aveva, su incarico dei consigli di amministrazione delle rispettive aziende sanitarie, il compito di fare da revisore dei conti. L’indagato ha nominato suo difensore Gianantonio Minghelli, avvocato romano storicamente legato a Licio Gelli nonché inquisito negli anni 70, ma poi prosciolto, perché ritenuto un riciclatore di denaro del clan dei Marsigliesi in quel periodo autori di feroci sequestri di persona.
Sulla base di quali elementi gli in-quirenti contestano al commercialista Taddeo il reato di riciclaggio non è ancora noto, essendo l’inchiesta coperta da segreto. Il suo coinvolgimento, tuttavia, è significativo anche alla luce degli inquietanti rapporti di malaffare che la Guardia di Finanza in questi ultimi mesi ha documentato intercettando e pedinando il faccendiere Oliviero, nominato da padre Salvatore, a ottobre del 2012, procuratore speciale dell’ente che amministra tutti gli ospedali dei Camilliani in Campania e in Sicilia. Agli atti del fascicolo del pm Cascini ci sono ad esempio i rapporti tra il faccendiere dei Camilliani ed Ernesto Diotallevi, il boss della banda della Magliana nonché storicamente legato a Cosa Nostra, che di recente ha venduto a Oliverio immobili per centinaia di migliaia di euro. Oggetto delle informative del Gico pure «i contatti tra Oliverio e uomini politici si legge in una nota delle Fiamme Gialle dello scorso 18 luglio e in particolare con l’onorevole Alessandro Pagano ( ex deputato Pdl, n.d.r.), aventi ad oggetto per un verso la realizzazione di un progetto oncologico tra l’Ismett e l’ospedale di Casoria ( struttura dei Camilliani ) e per altro verso l’assunzione presso l’ospedale di Casoria della figlia dell’on. Pagano, Federica Maria». Nelle carte pure il nome del Presidente della Lazio Claudio Lotito. Oliverio e Alessandro De Marco, uno dei finanzieri arrestati per il sequestro dei due sacerdoti, secondo gli inquirenti si stavano attivando per portare a termine l’acquisizione, «attraverso prestanome, da parte di Claudio Lotito, della San Benedettese, operazione vietata dalle norme federali in quanto Lotito è già proprietario di un’altra società sportiva».
Il tribunale della Libertà si è riservato di decidere sulla scarcerazione degli imputati per il rapimento dei due Camilliani. Padre Salvatore, difeso dall’avvocato Parla, ha preso le distanze dal faccendiere Oliverio, sostenendo di avere soltanto affidato a lui, che credeva un finanziere appartenente ai servizi segreti, il risanamento delle casse dell’Ordine, dopo che era stato scoperto un buco per diversi milioni di euro. La difesa di Mario Norgini e Alessandro De Marco, rappresentata dagli avvocati Davide e Mario De Caprio, hanno contestato il capo d’imputazione: secondo i legali non si è trattato di un sequestro di persona ma di un abuso di ufficio.

il Fatto 19.11.13
Forza Nuova: “Migranti criminali, via di qua”
A Pozzallo dopo la manifestazione di piazza c’è chi reagisce alle offese
di Veronica Tomassini


Ragusa Su cala Brigantina, i neri guardano verso la cima del molo, fissando i cumuli di alghe putride o un punto qualsiasi che sfugga le grate del Cpo (Centro di prima ospitalità). I capannoni sporgono a lato del porto, costruiti apposta per loro, i neri. L’interregno sorge a ridosso del cantiere navale, accanto al piazzale dei Tir che aspettano di ripartire con il catamarano, per Malta. Questi sono i neri che fanno paura, che hanno cagionato la veemenza e le invettive degli irriducibili di Forza Nuova.
GLI ADEPTI di Forza Nuova a Pozzallo saranno tre quattro al massimo, il quartiere generale disponeva da Ragusa, città storicamente di estrema destra. É il presidio di Ragusa ad aver deciso sul corteo tristissimo, 70 militanti appena, il sabato sera, radunando quel che hanno potuto; sul palco i capipopolo hanno ringhiato a una platea interdetta, qualcuno tra i passanti giura di aver udito promettere con parole definitive: “sono criminali, stupratori, se ne tornassero a casa”. I neri non c’erano, i neri sono anche siriani, pochi oramai, con gli occhi chiari e i capelli ambrati. Ma sono neri comunque. Nei capannoni rimangono i gambiani perlopiù, scivolano da un Cara all’altro, da un Cpo all’altro, prove di equilibrio, non hanno perfezionato la tempra, sono giovani, ragazzini spesso, hanno incassato il trauma, si ammalano presto e nessuno se ne accorge, la loro malattia si chiama spaesamento.
Nel cortile del Cpo, i ragazzi giocano al pallone, le camionette blindate della polizia sono sentinelle taciturne, i panni sono stesi sui muri di cinta, infilati tra le grate, una specie di zoo dove si compie l’esperimento empirico più inutile e audace, la consumazione di un’identità, di una razza. A Pozzallo le rivoluzioni si esauriscono ogni mezzo secolo, e occorre il sacrificio di un outsider, necessitano persecuzioni e liberazioni, tradimenti e resurrezioni. Come è stato un tempo per il trascinatore, il socialista, l’insegnante carismatico, il partigiano inchiodato alla schizofrenia e all’ignominia, Rino Giuffrida, il pozzallese che rompeva le righe, ecco chi era.
La storia torna con i medesimi tradimenti, i medesimi perseguitati: Enzo Inì ha intitolato il suo caffè a Rino Giuffrida. E in quel caffè si spiega la medesima vicenda di riscatto, non solo perché Enzo Inì ha affermato se stesso, la propria identità di omosessuale in un paese tremendamente conservatore, il caffè è diventato il luogo del melting pot, la sostanza stessa dei neri dei capannoni. Il cambiamento accade a piccole dosi, spiega Enzo, seduto al tavolo del suo caffè, indicando una sala in special modo, la sala del cerchio, dove i ragazzi del Cpo e del paese possono perfezionare i loro talenti. Un giorno si presentò Ybrahim, veniva dal nulla dei capannoni, era agitato: sto impazzendo, sto impazzendo, ripeteva, battendosi il petto.
YBRAHIM ERA un musicista, aveva smarrito la conta dei giorni, nel centro sorvegliato dalla polizia. Sentiva voci disumane lacerare le sue tempie, il suo naufragio non lo mollava mai. Cominciò a frequentare il caffè, seguiva i corsi di batteria, di teatro, di lingua, la rivoluzione per Enzo Inì ancora una volta ebbe il sapore della salvezza. Non è mai facile fare le rivoluzioni. Quando i ragazzini dei capannoni – i neri - tornavano a essere ragazzi e basta, in quel caffè-bottega di giovani pacifisti, la loro identità scivolava via di nuovo dentro un Cara, nel purgatorio dei profughi, per non uscirne mai veramente. Davanti ai capannoni, il siriano Abdosbahi saluta i compagni con una mano sul petto. Scrive sul palmo: 120. Sono 120 giorni di campo, dice in arabo. Viene da Dar’a. I suoi occhi sembrano vetro. Anche lui è nero.

il Fatto 19.11.13
L’Europa degli schiavi da Rosarno all’Olanda
di Maurizio Chierici


NON È VERO che l’Italia mediterranea è lontana dalla civiltà dell’Europa perbene. Ma è vero che l’Europa attenta alle quote latte e inflessibile sulle carceri disumane a volte si distrae. Quando il lavoro incrocia i rispettabili interessi del mercato, Nord o Sud impongono agli stessi principi perché le braccia non sono persone, solo macchine che devono sopravvivere per tirare il lavoro, altrimenti gli affari vanno male. In apparenza Rosarno (Calabria) e Osdorp (sobborgo di Amsterdam) non hanno niente in comune se non gli schiavi da sfruttare fino all’ultimo sospiro. A Rosarno raccolgono le arance dopo essere passati da un mare all’altro appena l’ultimo pomodoro pugliese brilla nelle vetrine della Padania. Schiavi mobili. In Olanda raccolgono tulipani, asfaltano strade, ripuliscono i Boeing della Klm, spazzini tra un volo e l’altro. Arrivano da Praga e dalla Polonia vestiti come vestono i profughi in fuga da un dramma che si chiama miseria. I forzati di Rosarno affogano nella melma di accampamenti disperati. David Seymour e i fotografi della Magnum accorsi nel 1945 per raccontare le abitudini degli italiani con l’asino in cucina, mai avrebbero immaginato il degrado dell’ottava potenza industriale del mondo 60 anni dopo il sospiro della Liberazione. Anche la parola schiavo diventa impropria: indica una gerarchia sociale che non comprende gli animali da soma. Il degrado di Rosarno è il ritornello che rimbalza nelle cronache da un anno all’a l t ro. Proteste, solidarietà di volontari coraggiosi e dal cuore d’oro, signora Kyenge che allarga le braccia col rincrescimento del ministro senza portafoglio: non sa cosa fare anche perché lo scandalo, diciamo la verità, è una vecchia notizia.
DIGNITÀ umiliata che la Borsa non vuole immaginare. Eppure le arance vengono puntualmente raccolte e distribuite dalle mafie dei commerci mentre migliaia di esseri umani sopportano l’inferno. Sopportano padroni che preferiscono pagare a cottimo. Dall’alba alla notte per 25 euro dai quali devono tirar via il trasporto con i pulmini e le percentuali dei caporali. Bisogna dire che lo sfruttamento olandese rispetta l’ordine della cultura protestante. Altra eleganza. I bagni non sono buche scavate attorno alle tende e la notte non si stendono come a Rosarno su terrapieni di sassi che impediscono alla pioggia di infilarsi sotto la coperta dei giacigli improvvisati. I 100 mila schiavi di Amsterdam dormono uno sopra l’altro nei cubi di garages stretti come lager. Le regole dell’Europa delle banche lo proibirebbe, ma non si può aver tutto e le regole chiudono un occhio anche perché le casse Klm e i municipi che mantengono le strade suonano come tamburi: quasi vuoti. L’Alitalia lo sa. Purtroppo il lusso di dormire nei garages costa caro: ogni lavoratore a contratto stagionale paga 150 euro la settimana quando guadagna 5 euro l’ora. Per mettere da parte qualcosa si arrangia con gli straordinari: 10,12 ore al giorno. A dire il vero il contratto prevede 68 euro la settimana ma nessuno spiega come mai l’affitto del letto raddoppia e il riposo settimanale e i giorni di vacanza cancellati, senza contare le paghe che arrivano in ritardo con buste più leggere dei patti stabiliti. Chi protesta con l’agenzia Werk & Ik che li ha reclutati (giro d’affari 12 milioni l’anno) si sente rispondere: “Allora ti rimandiamo a casa”. Sono giorni complicati per gli indaffaratissimi parlamentari europei: fra un po’ si vota. Ma se hanno un minuto libero possono dare un’occhiata agli schiavi 2000. Per carità, senza impegno, tanto per essere informati.

il Fatto 19.11.13
La fiera delle armi nel mare dei migranti
di Antonio Mazzeo


Nel Mediterraneo l’Italia fa la guerra ai migranti. Non dichiarata, certo, ma di guerra indubbiamente si tratta. Perché le strategie, gli attori, gli strumenti, le alleanze e le modalità d’intervento sono quelli di tutte le guerre. E causano morte. Quel mare non è il luogo dei contatti, delle contaminazioni, delle solidarietà, né un ponte di intercultura e pace. È il lago-frontiera, noi qua, loro là, un muro d’acqua invalicabile, dove vige la regola del più forte e del più armato. Un’area marittima di conflitti, stragi, naufragi causati, respingimenti, riconsegne e deportazioni manu militari. A chi scampa ai marosi e ai mitragliamenti delle unità navali nordafricane (pagate con i soldi italiani) spetta l’umiliazione delle schedature, delle foto segnaletiche e degli interrogatori a bordo di fregate lanciamissili e navi anfibie e da sbarco. Qualcuno ha storto il naso per il nome “Operazione Mare Nostrum”. Si è detto che c’era una caduta di stile, un voler scimmiottare i fasti dell’impero romano. In verità esso risponde perfettamente al senso della messinscena ipermuscolare delle forze armate italiane. Mare Mostrum, è la migliore vetrina del complesso militare-industriale-finanziario di casa nostra: aerei, elicotteri, missili, unità navali, sommergibili, cannoni che aspiriamo a vendere ai paesi Nato e ai regimi partner della sponda Sud del Mediterraneo. Sistemi d’arma che nulla hanno a che fare con quello che in linguaggio militare si chiama “Search and Rescue”, ricerca e soccorso in mare.

il Fatto 19.11.13
Genova G(, 15mila euro per la Diaz

L'aggressione subita alla scuola Diaz da un partecipante al G8 di Genova del luglio 2001 vale 15.500 euro. Lo ha stabilito il tribunale civile di Genova nei confronti di un manifestante tedesco. La sentenza, prima nel suo genere, è stata pronunciata dal giudice Paolo Gibelli. LaPresse

il Fatto 19.11.13
Puglia. Bufera sul presidente
Ilva, la telefonata e quei buchi nell’autodifesa di Vendola
Il governatore vuole dimostrare che ha sempre avuto una linea dura contro i Riva, ma la sua versione è piena di omissioni
di Sandra Amurri


Quella telefonata non cancella né rappresenta quanto accaduto in Puglia”, dice Nichi Vendola a proposito dell’audio dell’intercettazione di una sua telefonata con Girolamo Archinà, l’uomo della famiglia Riva per i rapporti con la stampa e la politica, rivelata dal fatto-  quotidiano.it . La “confidenza (con Archinà, ndr) è legata al raggiungimento di obiettivi virtuosi, in particolare la salvaguardia dei posti di lavoro”, spiega il governatore della Puglia sul sito di Sel ed elenca gli atti della Regione nei confronti dell’Ilva. Toni confidenziali abituali, si direbbe a leggere cosa disse Vendola alla rivista Il Ponte edita dall’Ilva nel novembre 2010: “Chiesi a Riva se fosse credente, perché al centro della nostra conversazione ci sarebbe stato il diritto alla vita. Credo che dalla durezza di quei primi incontri sia nata la stima reciproca che c’è oggi”. Queste le nostre risposte alla “sua” “verità storica”.
Diossina La Regione approva la legge antidiossina e per la prima volta viene applicata una norma pionieristica che fissa valori limite stringenti all’emissione di diossina.
Quella legge, inutilmente proposta un anno prima da Peacelink e Legambiente, viene approvata nel dicembre del 2008 dopo che a Taranto si era svolta una manifestazione di 20mila persone che chiedevano limiti alla diossina. Ma non è mai stato realizzato il campionamento in continuo per controllare 24 ore su 24 le emissioni.
Il registro Nel 2008 viene istituito in Puglia il registro Tumori.
Nel 2008 ci fu la delibera regionale che ne prevedeva l’istituzione, ma è divenuto operativo e accreditato secondo le regole scientifiche dell’Airtum (Associazione italiana registro tumori) dopo 5 anni, dopo le inchieste della magistratura e le manifestazioni. Il registro è aggiornato al 2008. Per il 2009 mancano centinaia di dati.
Il pascolo Nel 2010 in base ai dati dei monitoraggi la Regione ordina il divieto di pascolo a 20 chilometri dall’Ilva.
Il divieto scattò nel 2008 su denuncia di PeaceLink. Se non ci fosse stata l’apertura di un’inchiesta, l’ordinanza sarebbe arrivata? E perché la Regione non ha fatto un’indagine per certificare la provenienza della diossina e non l’ha segnalata all’autorità giudiziaria?
Benzo(a) pirene A giugno l’Arpa produce una relazione sul superamento dei valori limite di benzo(a) pirene e il sindaco impone all’azienda di rientrare nei valori limite.
Ma i limiti sul benzo(a) pirene (secondo l’Oms causa di gravi mutazioni genetiche) attivi dal 1999 in Italia, imponevano 1 ng/mc. Perché dal 1999 al 2010 la Regione non ha fatto rispettare quel valore previsto dal dm 25 novembre 1994 poi ribadito dal Dlgs 391/1999? La Regione avrebbe dovuto realizzare sistemi di monitoraggio permanenti per controllare che il benzo(a) pirene non superasse 1 ng/mc. Vendola accerta la violazione dei limiti ma non attua la legge che prevedeva la riduzione della fonte inquinante, individuata nella cokeria dell’Ilva dalla relazione Arpa del 4 giugno 2010. La legge regionale sul benzo(a) pirene, presentata come all’avaguardia, prevede che nel caso di sforamento l’impianto debba rientrare sotto il limite “nel più breve tempo possibile”. Manca un termine perentorio. Fu proprio la relazione Arpa, che individua l’Ilva come fonte inquinante del benzo(a) pirene al 98 per cento con la sua cokeria, a mettere in allarme l’uomo dei Riva, Girolamo Archinà, che si rivolge a Vendola, il quale a sua volta chiama il direttore scientifico dell’Arpa Massimo Blonda. Il capo dell’Arpa Giorgio Assennato dice ad Archinà (intercettato): “Girolamo, sono molto incazzato! La dovete smettere di comportarvi così, di andare dal presidente (Vendola, ndr) a dire che siete vittime di una persecuzione dell’Arpa. Vendola questa mattina ha convocato Massimo Blonda e gli ha rimproverato di essere persona senza palle”. A fine maggio 2010 i cittadini e le associazioni ambientaliste avevano già chiesto al sindaco un’ordinanza per fermare la cokeria. Il sindaco la scriverà dopo il 15 luglio, dopo i dati Arpa relativi ai primi 5 mesi del 2010 che denunciano lo sforamento del 300 per cento del benzo(a) pirene. Ordinanza di cui il sindaco discute con Archinà al telefono e che verrà bocciata dal Tar.
Danno sanitario Approvazione della legge che introduce la valutazione del danno sanitario. Una rivoluzione copernicana: al centro del sistema non più la fabbrica fordista, ma l’uomo e la qualità della sua esistenza.
La legge sul danno sanitario, approvata per di evitare il sequestro degli impianti responsabili dei danni alla salute, è stata varata solo dopo lo scoppio dell'emergenza. Vendola non ha mai realizzato l’indagine epidemiologica, fondamentale per evidenziare la relazione tra inquinamento e mortalità e mettere l’Ilva di fronte alle proprie responsabilità. Nonostante tre lettere di sollecito dei Verdi di Angelo Bonelli e 7mila firme di cittadini nel 2010.
Emissioni Obbligo per l’azienda di rendere accessibili i sistemi di monitoraggio in continuo delle emissioni in atmosfera.
Le centraline furono installate con grande ritardo, violando i tempi previsti dall’Aia. Ancora oggi i sistemi di monitoraggio DOAS e LIDAR non funzionano e non forniscono i dati in continuo delle sostanze cancerogene.
Mappe Approvato a ottobre 2013 un progetto per la costruzione di mappe geo-referenziate di contaminazione ambientale e uno studio sul-l’esposizione a metalli in soggetti in età evolutiva
É avvenuto solo a seguito dell'iniziativa degli ambientalisti, come le analisi sul piombo nel sangue dei bambini i cui dati sono stati presentati dalla dottoressa Annamaria Moschetti di Medici per l'ambiente.
Aia La Regione impone che nell’Aia ministeriale ci siano alcune prescrizioni...
Vendola non dice che ha firmato l'Aia della Prestigiacomo, luglio 2011. Aia oggi oggetto dell'inchiesta della magistratura: non prevedeva la copertura dei Parchi Minerali, causa dell'inquinamento da polveri in tutta la città e in particolare nel quartiere Tamburi. E non vietava il pericoloso Pet-coke. Veniva perfino aumentata la capacità produttiva a 15milioni di tonnellate annue (+50%). La Regione non ha verificato l'assenza nello stabilimento del sistema di raccolta separata e trattamento delle acque di prima pioggia, prerequisito di legge per concedere autorizzazioni alla produzione.

il Fatto 19.11.13
Vendola: “Ho sempre risposto ”. Ma non è vero
di Francesco Casula


Non mi sono sottratto alle domande dei giornalisti, anche su questioni che sono oggetto di apprezzamento da parte dell'autorità giudiziaria. Penso rientri nel mio dovere di uomo pubblico”. Il post di Nichi Vendola sul blog dell’Huffin  gtonpost.it   comincia così. Inizia dimenticando di ricordare che proprio ilfattoquotidiano.it   lo ha inseguito telefonicamente per l’intero pomeriggio precedente alla pubblicazione della telefonata nella quale il governatore di Puglia ride con Girolamo Archinà, l’ex dirigente Ilva accusato di essere la longa manus dei Riva, per lo “scatto felino” con il quale questi è riuscito a strappare il microfono a un giornalista che poneva domande sui tumori all’ex patron del-l’Ilva Emilio Riva.
PER TUTTO IL POMERIGGIO abbiamo provato a chiamare Vendola, in più persone, per chiedergli la sua versione. Non abbiamo avuto risposta. Nessuno ci ha richiamati. Nemmeno le persone del suo staff, che pure abbiamo provato a interpellare. Ma potrebbe essere stato un caso. Non è un caso invece che Vendola nei giorni successivi abbia preferito affidare la sua replica a Repubblica Tv e al proprio blog invece che confrontarsi con i cronisti del Fatto. Il governatore parla di “una conversazione intercettata, montata in modo suggestivo” ma non spiega che c’è di suggestivo in una telefonata pubblicata integralmente nella stessa pagina. Forse il video dello scatto felino che serve a spiegare ai lettori la “scenette fantastica” che fa ridere il leader di Sel e il suo capo di gabinetto per un quarto d’ora? Oppure i testi che servono a chiarire chi sono i protagonisti della telefonata e in quale periodo storico questa avviene? La telefonata nuda e cruda, comunque, era pubblicata nella stessa pagina, qualche centimetro più in basso proprio perché ciascuno potesse farsi una sua opinione anche senza gli elementi di informazione aggiunti per una maggiore chiarezza.
VENDOLA PUNTA il dito contro “una musica che fa il suo effetto”: senza musica la sua risata avrebbe indignato meno? “La colpa di avere colloquiato con chi rappresenta la mia controparte”, scrive il governatore. Nessuno ha manifestato sgomento per l’esistenza di quella telefonata, solo per il suo contenuto. È la risata con l’uomo accusato di occuparsi degli affari sporchi dei Riva ad aver colpito, non il fatto che ci sia un contatto telefonico tra il presidente della giunta regionale e il responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva. “Affronterò questa umiliazione – aggiunge il leader di Sel - con il coraggio della verità, anche perché sento il dovere di spiegare che 'governare' significa mettere in equilibrio interessi rilevanti, che qualche volta si contrappongono e tendono a escludersi”. Avrebbe potuto spiegarlo anche al Fatto rispondendo al telefono.
Vendola ribadisce di voler chiarire presto ai giudici “cui spetta di fare ogni domanda e ai quali va dato atto di essere stati gli unici a rompere - credo definitivamente - la solitudine” in cui è stato costretto a lavorare per cambiare il futuro di Taranto. Eppure, nonostante il tempo trascorso dal 30 ottobre, giorno in cui gli è stato notificato l’avviso di conclusione indagini, fino a ieri non era giunta negli uffici dei pubblici ministeri alcuna richiesta di farsi ascoltare.

IL BLOG ”Sull'Ilva tentano di uccidermi ma non mi rassegno”, è il titolo del post di Nichi Vendola sul suo blog nel sito Huffington Post. L’obiettivo della polemica è il Fatto Quotidiano Ansa

l’Unità 19.11.13
Camila conquista i cileni
Eletta al Congresso, il Cile sceglie i giovani
Leader delle proteste studentesche del 2011 è stata eletta a 25 anni con il 44% di preferenze sotto il simbolo del partito comunista cileno
Bachelet al ballottaggio
di Roberto Arduini


Il Cile ha scelto Camila e i giovani. La leader delle proteste studentesche del 2011 è stata eletta al Congresso con il 44% di preferenze per il partito comunista cileno. Ha 25 anni e appena un mese fa ha avuto una figlia Adela. Michelle Bachelet al ballottaggio.

Un’istruzione «gratuita e di qualità». Se non sarà questo il Cile di domani, dovrà comunque fare i conti con questa parola d’ordine. Perché se c’è un dato certo nella vittoria rimandata di Michelle Bachelet è che uno dei suoi punti cardine saranno le riforme della scuola e dell’università. Dalle urne esce infatti l’indicazione che proprio l’istruzione è materia di grande malcontento. E non è un caso che siano stati eletti tutti i leader del movimento studentesco cileno che aveva organizzato le imponenti manifestazioni del 2011. La promessa di questi giovani leader era quella di mandare a casa i vecchi politici e cambiare il Paese. Per il momento hanno conquistato un posto al Congresso.
RICAMBIO GENERAZIONALE
L’affermazione che colpisce di più è quella di Camila Vallejo, ex presidente della Federazione degli Universitari Cattolici (Feuc). La giovane, 25 anni, è andata a votare con la figlia Adela, di poco più di un mese, neanche la gravidanza l’ha fermata. Candidata tra le fila del Partito comunista cileno, ha ottenuto il 43,66% delle preferenze nel popoloso distretto della Florida. «Festeggiamo il trionfo nelle vie de La Florida!», ha scritto la neodeputata su Twitter. Studentessa di Geografia, a poco a poco si è trasformata da timida militante della Gioventù Comunista nel nuovo volto della protesta sociale del Paese. Nel 2011, Vallejo guidò la protesta degli studenti contro il presidente conservatore Sebastian Piñera per ottenere un accesso più libero e meno costoso all’istruzione secondaria. Da ritrosa adolescente, Camila è diventata interprete e portavoce del malcontento sociale, della piazza che si è andata via via infiammandosi per reclamare riforme all’istruzione, pari opportunità per i giovani del Paese, nuove misure per i lavoratori, ma soprattutto cambiamenti strutturali alla democrazia. Molti fra i suoi ex colleghi l’hanno ora accusata di aver tradito la militanza per aver dato il suo appoggio a Bachelet tanto che da agosto la Corte Suprema le ha assegnato una scorta.
Ora Michelle Bachelet dovrà tener conto delle istanze portate avanti dalla neodeputata e dal piccolo partito comunista che, con un passo storico, dopo 40 anni passati all’opposizione, da quando alla Moneda sedeva Salvador Allende, ha ieri detto sì al sostegno al nuovo governo dominato dalla formazione Nueva Mayoria che riunisce anche socialisti e democristiani. Al suo interno, c’è anche una netta divisione generazionale tra vecchi e giovani. Bachelet ha favorito questi ultimi, promettendo un aumento delle tasse per raccogliere 8 miliardi di dollari da destinare all’istruzione, e di rendere gratuiti i corsi universitari nel giro di sei anni.
le urne hanno premiato l’ex presidente della Federazione degli Universitari Cattolici (Feuc) Giorgio Jackson di Revolución Democrática che ha vinto a Santiago con il 47,27%, Gabriel Boric di Izquierda Autónoma, eletto con il 25,66% nella provincia di Magallanes, e il segretario generale della Gioventù Comunista, Karol Cariola, nel quartiere Recoleta Santiago, che ha avuto il 39,58%.
Quest’ultima, 26 anni, anche lei ex presidente della Feuc e candidata comunista, ha spiegato che il voto segna una tappa di ricambio generazionale «perché dopo 20 anni di democrazia, ai giovani non è stata data una opportunità di leadership». «Eppure siamo stati protagonisti nel promuovere i profondi cambiamenti che sono necessari per l’educazione, ma anche per sanità, diritti del lavoro e pensioni e abbiamo generato un sollevamento che ha segnato un’apertura di coscienza nel nostro Paese».
Nonostante la netta affermazione dell’ex presidente socialista alle elezioni, il Cile dovrà tornare alle urne il prossimo 15 dicembre. Bachelet, già presidente dal 2006 al 2010, ha vinto il primo turno con il 47% dei voti e per appena tre punti, non è divenuta presidente. Al ballottaggio andrà la sfidante conservatrice Evelyn Matthei, che ha ottenuto il 25% delle preferenze, che ha ottenuto più di quanto le era stato accreditato dai sondaggi (14%). Una «vittoria amara» per la Bachelet, dunque, come ha scritto il quotidiano della capitale El Mercurio, dopo 4 anni di lontananza dalla scena politica, e una «sconfitta dolce» per la Matthei. Il ballottaggio, però, «dovrebbe essere comunque una formalità per la Bachelet». «Oggi iniziamo l’ultima fase della campagna elettorale con la grande soddisfazione di aver vinto le elezioni presidenziali e parlamentari», ha detto Bachelet. «Otterremo un’altra vittoria schiacciante», ha continuato. «Guardiamo al secondo turno come una grande opportunità».

La Stampa 19.11.13
Il Cile di Camila dalle lotte di piazza al Parlamento
Gli ex studenti riportano i comunisti al potere
di Filippo Fiorini


Nella festa elettorale del centrosinistra cileno, fatta di sorrisi per la vittoria di Michelle Bachelet, ma anche di braccia allargate perché l’ex presidente non ce l’ha fatta al primo turno (ballottaggio il 15 dicembre), qualcuno ha celebrato più degli altri. Sono stati i giovani candidati del movimento studentesco, che negli ultimi due anni ha scosso le piazze nazionali, e i cui leader hanno contribuito al ritorno nel gruppo di maggioranza del Partito comunista, per la prima volta dai tempi di Allende.
Con 4 candidati eletti hanno ottenuto un’importante risposta dai cittadini, a cui si è aggiunta un’istantanea fama internazionale, soprattutto grazie alla presenza nella squadra di Camila Vallejo. La giovane comunista ex presidente della federazione studentesca (Fech) ha in parte dismesso il look trasandato con cui molti hanno imparato a conoscerla durante le proteste, ma non ha certo perso quel fascino che tanti ha conquistato, che alcuni le rinfacciano e che lei dice di vivere con un certo disagio.
Ex studente di geografia, occhi verdi e piercing al naso, lo scorso 6 ottobre Camila è diventata mamma e domenica è andata a votare con la piccola Adela in braccio. Qualche ora dopo, quando ormai si profilava la vittoria col 46,7% dei voti Camila ha salutato i suoi elettori nel modesto sobborgo di La Florida, a sud-ovest della capitale, scusandosi per il ritardo, perché «c’era una creatura da alimentare». Poi, ha promesso che in Parlamento sarà «la voce dei lavoratori e degli studenti».
In quelle stesse ore, un altro suo ex compagno di militanza stappava una bottiglia di spumante con i suoi sostenitori. Classe 1987, Giorgio Jackson ha un anno in più di Camila, vive in un appartamento in affitto con quattro amici e ha accompagnato la mamma a votare. Candidato in uno dei distretti più importanti del Cile, quello di Santiago Centro, ha preso il 48% delle preferenze, uno dei migliori in assoluto.
Con lui e Camila, andranno alla Camera anche  l’indipendente Gabriel Boric e la comunista Karol Cariola, tutti ex capi studenteschi che faranno parte di una coalizione aumenta la propria maggioranza da 57 a 67 deputati su 120, e acquista un senatore in più, arrivando a 21 su 38.
Tuttavia, proprio il loro ingresso nel gruppo di Nueva Mayoria è stato uno degli aspetti più controversi di questo successo alle urne. Da un lato, i grandi partiti hanno spianato la strada ai giovani, ritirando in alcuni casi potenziali candidati concorrenti. Dall’altro, potrebbero finire con l’imporre troppo spesso la disciplina, in virtù di una ragion di Stato che a loro andrebbe stretta.
Due anni fa, Camila diceva che Bachelet «tradiva gli studenti», cercando un accordo con il governo di Piñera per fermare le manifestazioni. Oggi, molti universitari si sentono traditi da lei e la Fech non l’ha nemmeno appoggiata. La sfida, per queste giovani promesse del nuovo Cile, sarà la riforma dell’educazione, in cui dovrà entrare per forza quella scuola pubblica e gratuita per cui hanno tanto lottato.

Repubblica 19.11.13
Camila e i suoi “fratelli” il Cile si affida agli studenti
Con la Vallejo, in Parlamento altri leader universitari
di Omero Ciai


SE LE architravi del sistema di Pinochet in Cile, dalla legge elettorale che premia una destra, consistente ma comunque minoritaria; all’istruzione, classista e privata; fino alla sanità o alle regole del mercato del lavoro, saranno eliminate, sarà soprattutto merito loro: dei magnifici quattro ex leader degli studenti, la celebrata Camila Vallejo e suoi “fratelli”, che domenica hanno conquistato con largo margine di vantaggio nelle loro circoscrizioni un seggio in Parlamento.
E’ la loro agenda politica, quella delle lotte studentesche del 2011, che si è imposta anche nella campagna presidenziale di Michelle Bachelet, la leader socialista che con il 46,8% dei suffragi andrà al ballottaggio tra un mese, il 15 dicembre, contro la candidata del centrodestra, Evelyn Matthei, che ha ottenuto un disastroso 25%. E la loro agenda, fabbricata nei lunghi mesi delle marce studentesche che demolirono l’immagine del presidente Piñera, il primo esponente di destra a vincere un’elezione democratica dagli anni della dittatura, mira a cancellare quel che resta deidogmi dei “Chicago Boys” di Milton Friedman che, sospinti da Kissinger, usarono il Cile di Pinochet come laboratorio politico e sociale delle loro tesi iperliberiste. Congegni che in quasi 25 anni di democrazia il vecchio centrosinistra (socialisti, radicali e dc) s’è guardato bene dallo smantellare e non ha mai messo al centro della discussione pubblica finché decine di migliaia di ragazzini non hanno invaso le piazze in nome del diritto allo studio e dell’Università pubblica.
Tutti e quattro i personaggi principali di quella rivolta sbarcano alla Camera. Camila Vallejo, il volto più noto, 25 anni, mamma da un mese — la destra ha polemizzato per la sua scelta di andare a votare tenendo in braccio la neonata — ha stravinto (43,7%) nel quartiere popolare la Florida della capitale Santiago. Giorgio Jackson, 26 anni, ex leader dell’Università cattolica, ha fatto anche meglio: 48,1% nella circoscrizione di Santiago centro, la stessa del presidente Piñera. Karol Cariola, braccio destro di Camila, cresciuta a Concepcion ha ottenuto il seggio a Santiago con il 34,5. L’ultimo è Gabriel Boric, successore di Camila come segretario generale degli universitari. Camila milita nel partito comunista, Karol è la segretaria generale della “Jota”, la federazione giovanile del Pcch. Jackson e Boric sono indipendenti. Ma tre su quattro arrivano in Parlamento grazie alla lucidità della “gorda”, la «cicciona» —come amici e nemici chiamano la Bachelet — che tornando in Cile dopo quattro anni trascorsi all’agenzia dell’Onu per le donne ha capito com’era cambiato il vento e ha lottato col suo partito e con la coalizione per includere nell’offerta elettorale i giovanotti, marcando a sinistra il suo nuovo programma.
Riforma costituzionale, riforma tributaria, riforma dell’istruzione. Come ha spiegato allaBbcil politologo cileno Cristobal Bellolio: «Il trionfo dei rappresentanti dei movimenti sociali è il dato più significativo di queste elezioni parlamentari ». Michelle, loro mentore, dovrà attendere la metà di dicembre per battere Evelyn Matthei, la sua compagna di giochi infantili nelle caserme dell’aeronautica cilena. I magnifici quattro invece hanno già festeggiato domenica notte nelle vie della capitale.


l’Unità 19.11.13
Shock in Belgio: «Schediamo i neonati con il dna
Il procuratore generale di Anversa: «Dobbiamo proteggere i cittadini, la sicurezza ha un prezzo»
di Sonia Renzini


Usare la genetica per combattere la criminalità.
La proposta clamorosa è del procuratore generale di Anversa Yves Liegeois che sabato scorso ha messo nero su bianco la sua ricetta per risolvere casi di criminali in futuro: registrare il Dna di tutti i nuovi nati in Belgio nonché di coloro che sono nati all’estero ma entrano nel Paese.
Lo scopo è quello di creare una banca genetica sulla falsariga di quelle esistenti per reati gravi come l’omicidio e lo stupro, per i quali campioni di Dna sono già stati memorizzati in file che contengono 28mila nomi. Oppure come quella che sarà costituita nel 2014 riguardo agli autori di rapine violente. O, ancora come il file che conta 34mila dati genetici prelevati dalle scene del
crimine. Insomma, usare la genetica come uno strumento di polizia non è affatto una novità e pare basti da sola a suggerire il 15% delle piste possibili da seguire per la soluzione di un reato.
Ebbene, per Liegeois si tratta semplicemente di estendere il sistema attuale anche ai neonati e pace se questo va a scapito di qualche diritto in materia di tutela della privacy, la sicurezza vale bene qualche sacrificio. In fondo, sostiene il procuratore, il medico di famiglia ha già la cartella personale dei propri pazienti con tutti i dati che lo riguardano e in futuro le impronte digitali compariranno sulla carta di identità elettronica, dunque non c’è poi così tanto da scandalizzarsi, il principio è lo stesso.
«Lo dico senza ridere ha detto il procuratore al quotidiano De Standaard dobbiamo avere il coraggio di pensare a come i cittadini in futuro saranno protetti. Sarebbe un grande passo avanti per semplificare le indagini sui reati criminali. Chiaramente per far ciò sono necessari dei rigidi criteri legislativi che concedano la raccolta di tali dati. La nostra legge è andata troppo in là per quel che riguarda la tutela della privacy».
POLEMICHE
Immediate le polemiche, anche se la proposta shock non manca di avere fautori. A favore i sindacati di polizia supportati da un sondaggio condotto su internet domenica scorsa che ha rivelato come il 60% degli intervistati fiamminghi ritenga l’idea «interessante».
Di tutt’altra opinione la Commissione nazionale sulla privacy che punta il dito sull’assenza di un quadro giuridico che renda la proposta attuabile. Senza contare l’obiezione avanzata da alcuni giuristi secondo i quali la generalizzazione effettuata dal procuratore è preoccupante perché implica che ogni neonato sia un potenziale criminale.
Il mondo politico nicchia e preferisce tacere. Invece l’Istituto nazionale sulla criminalità ipotizza che anziché utilizzare un software per memorizzare i dati di tutti i bambini del regno sarebbe più opportuno per la lotta alla criminalità sottoporre ai test gli adulti. Potrebbe essere una strada alternativa percorribile, se non fosse che un test costa 40 euro e il bilancio della giustizia è già notoriamente insufficiente, fanno sapere persone informate.
Insomma, a parte i problemi di ordine etico, a complicare le cose ci pensano i soldi che non ci sono o sono troppo pochi.
Dunque per ora si tratta di teoria, come è teorica l’altra proposta, sempre del procuratore di Anversa, di aumentare il numero delle videocamere di sorveglianza nei luoghi pubblici, in modo da agevolare la risoluzione di controversie in materia di incidenti stradali, ma anche di casi di stupro.
«Viviamo già in una società che controlla un sacco di cose», è la replica secca di chi vede nella strategia di Liègeois un mero attacco alla privacy. La polemica continua.

l’Unità 19.11.13
Spari a Liberation, un ferito Caccia all’uomo a Parigi
Grave un fotografo, sparatoria anche alla Defense. L’aggressore venerdì scorso aveva fatto irruzione in una tv
L’Eliseo: «Attacco a libertà di stampa»
di Luca Sebastiani


Quella di ieri è stata una giornata di terrore a Parigi, una giornata di ordinaria follia. Prima gli spari e il ferimento di un uomo al quotidiano Libération, poi i colpi sparati a vuoto dall’altra parte della città, alla Defense, infine il sequestro di un automobilista costretto sotto la minaccia di un fucile e di bombe a mano a condurre il presunto responsabile delle sparatorie fino agli Champs Elysées, prima che quest’ultimo imboccasse l’entrata della metropolitana e facesse perdere le proprie tracce. Per tutto la giornata la città ha vissuto in diretta sui social network e attraverso i media, i falsi allarmi e le notizie convulse, una caccia all’uomo che ha mobilitato un impressionate dispositivo di sicurezza ma che finora non ha portato all’individuazione del responsabile. Dell’uomo sono state diffuse immagini sfocate, un vago identikit e soprattutto non è stato possibile stabilire nessun movente attendibile. Gesto di un folle? Operazione organizzata? Con quali finalità?
In mattinata, quando con un tweet dalla redazione di Libération è stata diffusa la notizia di una sparatoria nella hall del giornale, si è subito pensato all’attacco programmato contro l’informazione. Poco dopo le dieci, un uomo presumibilmente europeo, tra i trenta e i quarant’anni, con i capelli rasati e con in dosso un parka verde chiaro, è entrato al piano terra del giornale e senza pronunciare parola o rivendicare alcunché ha aperto il fuoco sparando due colpi a caso con un fucile a pompa. Qualche secondo in tutto, non di più, che sono valsi il ferimento grave del primo malcapitato, un assistente fotografo di 33 anni che si trovava al giornale per un shooting di Next, la rivista di Libé. Colpito al torace il giovane è rimasto a terra e soccorso dall’ambulanza è stato ricoverato in rianimazione. La sua vita è in pericolo.
Il gesto è stato immediatamente collegato con un altro fatto analogo, avvenuto venerdì scorso a BfmTv, a sud ovest della capitale, e passato fino a ieri abbastanza in sordina. Quella mattina, presumibilmente lo stesso uomo, era infatti entrato nei locali d’ingresso della tivù e aveva puntato il fucile contro un redattore senza però sparare. Anche in questo caso non più di venti secondi, l’uomo aveva fatto cadere due proiettili, aveva assicurato che la «prossima volta» non avrebbe sbagliato e si era dileguato correndo.
Ieri al quotidiano della gauche, subito dopo la sparatoria si sono recati il ministro dell’Interno Manuel Valls, la ministra della Cultura Aurelie Filippetti e il sindaco della capitale Bertrand Delanoe per portare la solidarietà del governo e denunciare «l’inaccettabile attacco portato alla libertà di stampa». Di questo tenore sono state tutte le dichiarazioni dell’arco politico, dai socialisti ai gollisti, da Marine Le Pen al presidente Hollande in visita ufficiale in Medio Oriente.
Ma è di un attacco alla stampa libera che si è trattato? Oppure il gesto isolato di uno squilibrato? Un paio d’ore dopo, verso mezzogiorno, mentre la polizia dispiegava un sistema di sicurezza rafforzato presso l’ingresso di tutte le redazioni parigine, e il direttore di Libération a fianco di Valls si inquietava sullo stato della società «se giornali e media devono trasformarsi in bunker», dall’altra parte della città, al quartiere finanziario della Defense, un uomo sparava dei colpi davanti alla sede della Société Générale. Stesso uomo? Fatti da collegare? Per qualche ora il dubbio è restato,
ma poi che si potesse trattare dello stesso responsabile del ferimento a Libération, lo aveva suggerito il racconto alla polizia di un automobilista sequestrato nei pressi della Defense da un individuo armato di fucile e bombe a mano che prima di scomparire nella metro si era fatto condurre agli Champs Elysées sotto la minaccia delle armi. Lo stesso testimone avrebbe raccontato che l’uomo è uscito di prigione.
Mentre un elicottero ha cominciato a sorvolare la zona, per tutta la città sono stati disposte postazioni di blocco e la vigilanza alzata al massimo livello. Prima che si rivelasse un falso allarme, all’inizio del pomeriggio una segnalazione aveva portato alla chiusura per sicurezza del palazzo di Radio France, vicino agli Champs Elysées, e per cercare di arginare l’allarmismo verso le cinque il procuratore di Parigi ha tenuto una conferenza stampa per fare un punto sulla situazione con i media. François Molins ha dovuto però restare molto cauto e ammettere che la polizia non disponeva di elementi sufficienti per poter scartare alcuna pista. Nessuna traccia particolare, nessun movente con una certa evidenza. Il procuratore non potuto far altro che mostrare qualche immagine sfocata catturata da qualche telecamera di sorveglianza e rendere pubblico un numero per le segnalazioni. Niente di più.

La Stampa 19.11.13
L’Spd ha ceduto, Merkel senza limiti
di Gian Enrico Rusconi


La Grande Coalizione che si sta preparando in Germania è costruita su un pesante scambio politico.
La socialdemocrazia infatti intende occuparsi esclusivamente della politica sociale interna, mentre la democrazia cristiana di Angela Merkel continuerà a gestire la politica finanziaria, economica e i rapporti con l’Europa come prima. Il collegamento dei due aspetti politica interna e politica europea funziona però a senso unico. Infatti soltanto grazie alla «politica del rigore» verso l’Europa sarà possibile la generosa politica sociale interna.
L’adesione incondizionata della socialdemocrazia alla linea Merkel e lo scambio politico che la sottende preannunciano che non ci sarà spazio per una incisiva politica europea che sia sotto il segno della solidarietà. Ma oggi in Germania chi parla di «solidarietà per l’Europa» viene zittito e rimproverato di difendere «l’Europa dei debiti». L’Europa degli altri. Gli elettori tedeschi socialdemocratici compresi sono convinti di dover stare in guardia da popoli europei spendaccioni, inefficienti, inaffidabili.
Non so se la classe dirigente socialdemocratica la pensa davvero così. Qualche tenue voce discorde si sente. Ma certamente il gruppo dirigente non ha fatto molto per spiegare al suo elettorato che le cose in Europa non stanno esattamente così. I tedeschi non sono semplicemente i più bravi. Ma alla fine l’unica preoccupazione della Spd ora è quella di riguadagnare il consenso interno perduto evitando di pensare ad una politica europea più impegnativa e lungimirante. Una politica dello struzzo.
Non c’è dubbio che il programma sociale proposto dalla Spd sia di grande rilievo (salario minimo, sostegni familiari, pensione di solidarietà, aiuti ai ceti economicamente più deboli, nuova politica energetica, doppia cittadinanza per i migranti ecc.) ma la sua attuazione è strettamente vincolata al mantenimento dell’attuale linea del governo Merkel, intransigente verso gli altri partner europei, a cominciare da quelli in difficoltà. In particolare viene respinta qualunque misura che alteri l’attuale equilibrio economico-finanziario tra i partner di cui oggettivamente gode la Germania. In altre parole: no agli eurobond, no a qualunque forma più o meno mascherata di mutualità dei debiti sovrani dei Stati dell’eurozona, riforma del sistema bancario soltanto secondo i criteri tedeschi e critica ormai aperta alla Bce di Mario Draghi, che per l’occasione è tornato ad essere chiamato «l’italiano». Ma non pare che i dirigenti Spd (con buona pace di Martin Schulz, presidente dell’europarlamento) abbiano idee molto diverse. O si impegnino a farle valere.
Enrico Letta giorni fa al Congresso della Spd a Lipsia è stato abile a dire che «l’Italia non è e non vuole essere un Paese assistito»; «l’Italia ce la fa da sola, ed è per questo che ora può chiedere con forza una svolta dell’Europa sulla crescita». E’ quanto volevano sentire i socialdemocratici, tanto più che elegantemente il presidente del consiglio aveva taciuto su quello che i tedeschi oggi non vogliono sentire: le critiche loro rivolte per gli squilibri prodotti dal surplus delle loro esportazioni. Peccato che Letta, appena tornato in Italia, abbia dovuto subire la doccia fredda delle critiche di Bruxelles, il suo governo sia incappato in una serie di crisi di varia natura che agli occhi tedeschi confermano la permanente «inaffidabilità» dell’Italia politica. L’effetto Lipsia è già scomparso.
Con il precipitare di una crisi tanto inattesa quanto ingovernabile, molti tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano alla Germania di fare qualcosa che contraddice la lettera e lo spirito dei Trattati dell’Unione consensualmente sottoscritti. Sono convinti di avere saputo reagire meglio di altri alla crisi, esclusivamente per meriti propri, proponendosi quindi come modello da imitare e invitando i partner europei a fare i loro «compiti a casa». Sentono minacciata la loro ritrovata sovranità nazionale, che ritenevano d’avere messo in sicurezza dentro a un’Europa orientata secondo l’immagine ideale che essi se ne erano fatta. Adesso si sentono ingiustamente circondati da ostilità. La tentazione di «fare da soli» sta diventando forte, ma sinora è rimossa.
Con quali argomenti si può criticare questo atteggiamento, senza disconoscerne gli aspetti di verità? Con un solo argomento: ricordando che l’Europa è stata costruita e funziona sulla interdipendenza tra i membri che non può essere automaticamente determinata dai mercati o affidata a norme consensualmente stabilite in congiunture molto diverse, norme che ora si rivelano inadeguate allo scopo. Non mi risulta che gli uffici studi della Spd abbiano prodotto o quanto meno dato rilevanza pubblica e pubblicistica ad analisi che sviluppano
questa tesi. (Salvo qualche generica evocazione di un nuovo piano Marshall non meglio precisato). In breve non mi pare che i socialdemocratici tedeschi posseggano una solida visione politica ed economica europea, che sia non dico alternativa ma significativamente autonoma rispetto a quella merkeliana. Una visione che tenga conto anche delle considerazioni fatte da analisti e commentatori internazionali, senza alcun pregiudizio antitedesco, che spiegano come e perché la situazione di interdipendenza oggettiva tra le economie europee ha subito in questi ultimi anni distorsioni che hanno favorito l’economia tedesca a svantaggio di altre. No, non è questione di «arroganza» o «egemonia» teutonica. Si tratta di prendere sul serio il fatto che l’interdipendenza delle economie e dei loro meccanismi, su cui è stata costruita l’Europa, esige oggi di essere governata in modo diverso. Non senza o addirittura contro i tedeschi, ma insieme a loro.
Ma al momento attuale l’intransigenza della Germania sulle proprie posizioni acquisite, l’impressionante immobilismo della Francia, l’impotenza e l’inefficienza dell’Italia e l’atteggiamento solo fiscal-burocratico di Bruxelles stanno creando le premesse perché il prossimo Parlamento europeo si riempia di nemici dell’euro e dell’Europa e venga di fatto paralizzato. Se neppure questa fosca prospettiva è in grado di dare uno scossone ai responsabili politici europei, l’Europa che abbiamo sognato si approssima alla sua fine.

il Fatto 19.11.13
Trova le differenze
Blair diventa ricco (dopo il mandato)
di Caterina Soffici


Londra Tony Blair guadagna 2.700 sterline al minuto (tremila e rotti euro) per tenere conferenze. L’ultima performance è un discorso di un’ora a Dubai sull’Expo universale del 2020, che gli è stato pagato 156mila sterline (180mila euro). È accaduto la settimana scorsa, ha volato su un aereo privato detto ormai Blair Force One, perché pare che si sposti per il globo solo a bordo di questo esclusivo jet. Ha dormito in una suite da 7mila euro a notte con moglie e sei persone al seguito.
Leggere una notizia del genere e pensare: ecco, tutto il mondo è paese. Sembrano la trasferte intercontinentali di Formigoni. Sette persone al seguito, che scandalo. Un hotel da nababbi, orrore. La solita casta, anche in Inghilterra sono ladroni come in Italia.
Questa è la prima reazione. Ma è una reazione sbagliata. Sbagliatissima. Tony Blair, come Schroeder o Bill Clinton, si sono creati una seconda vita DOPO la politica. Blair è diventato ricchissimo DOPO che ha lasciato Downing Street. Secondo le cifre pubblicate dai giornali inglesi, l’ex cerbiatto laburista grazie alla sua attività di consigliere e guru internazionale ha guadagnato 50 milioni di sterline. Il bengodi è arrivato quando non è più stato nelle stanze del potere. Quando era primo ministro, Blair si lamentava che guadagnava troppo poco e aveva difficoltà a far quadrare i bilanci familiari, con quattro figli a carico, le scuole, il mutuo eccetera. Per dare l’idea: il premier britannico guadagna 142mila sterline l’anno lorde (150mila euro) e abbiamo visto che un manager di Stato italiano ne intasca 650mila, i più pagati d’Europa. Quando era premier non usava aerei di Stato: gli sarebbe piaciuto (il ragazzo era ambizioso già all’epoca), ma la sua richiesta era stata bocciata perché troppo dispendioso e a Westminster si va per “servire” il paese, non per usarlo.
Questa è la differenza e non è da poco. La casta nostrana è composta di tali pezzenti che si vendono per un’aragosta e una bottiglia di champagne, i simboli cafoni della ricchezza e del potere. I politici nostrani arraffano a man bassa finché sono al potere, perché sanno di essere delle nullità e nessuno li pagherà mai per avere un loro consiglio, per parlare di un tema internazionale o per tenere una conferenza sulle strategie di business a Dubai.
LA CASTA si fa i suoi convegnetti e le sue conferenzine pagate dallo sponsor, in genere la banca o la fondazione del-l’amico, se la cantano e se la suonano tra di loro, senza lasciare una traccia o un segno che non sia un conto da pagare al ristorante.
Potrebbe lasciare perplessi che uno come Blair usi le informazioni e i contatti di quando era uno degli uomini più potenti del mondo in modo così spregiudicato. Si potrebbe aprire una discussione, su questo. Ma di certo non sta rubando. E di certo se lo chiamano e lo pagano quelle cifre per spiegare come organizzare un’Expo a Dubai nel 2020 o per avere il suo parere sul futuro del mercato del gas, le sue parole hanno un valore.
Da noi stanno attaccati alle poltrone con le unghie e i denti perché un DOPO non c’è. Sono eterni e non si dimettono mai perché non hanno un mestiere, non sanno niente, non valgono niente e non ci sarà mai nessuno disposto a pagarli neppure un centesimo per un consiglio. Rubacchiano e vivacchiano, perché non sono in grado di fare altro.

l’Unità 19.11.13
Strage cancellata
La storia della corazzata «Roma» e dei suoi uomini mandati al massacro
L’ennesima vendetta nazista contro gli italiani «traditori badogliani» che dovevano essere comunque «puniti»
Fu colpita dagli aerei tedeschi nel mare della Sardegna il 9 settembre
del 1943 mentre l’equipaggio andava a consegnarsi nelle mani degli alleati e i Savoia erano in fuga
di Wladimiro Settimelli


I resti della grande nave da guerra sono stati ritrovati molti mesi or sono dal piccolo robot «Pluto»

ROMA GIÙ, NEL BUIO ANGOSCIOSO DI 1200 METRI DI PROFONDITÀ, I RESTI DELLA GRANDE NAVE DA GUERRA SONO STATI RITROVATI, molti mesi or sono, da un piccolo robot chiamato «Pluto». Ritrovati dopo settanta anni. E proprio nel mare dell’Asinara dove la corazzata «Roma», colpita a morte dagli aerei tedeschi, si era spezzata in due sotto l’esplosione di alcune bombe radioguidate, trascinando nei gorghi 1.391 marinai, ufficiali e l’ammiraglio di squadra Carlo Bergamini, comandante delle forze navali da battaglia italiane.
Un disastro immane, una strage e l’ennesima vendetta nazista contro gli italiani «traditori badogliani» che dovevano essere comunque «puniti». Poi, come si sa, verranno le stragi dei soldati a Cefalonia, quelle in Grecia, in Jugoslavia e in Albania.
La «Roma», nave ammiraglia della flotta italiana, colò a picco proprio nei giorni della proclamazione dell’armistizio con gli alleati ed esattamente il 9 settembre 1943, mentre Vittorio Emanuele III, Badoglio e tutto lo Stato Maggiore, si affollavano, in fuga, sulle banchine di Ortona a Mare per imbarcarsi su nave «Baionetta», diretta a Brindisi, già saldamente in mano agli alleati. Insomma, la grande fuga del Re, della regina, del principe Umberto e tanti generali, mentre nella Capitale si combatteva ancora a Porta San Paolo.
Non so perché, ma la storia della corazzata «Roma» e di tutte le altre navi della flotta italiana salpate da La Spezia, su ordine di «Supermarina», per consegnarsi agli alleati, come previsto dagli accordi di Cassibile, negli anni è sempre stata raccontata male, tra incertezze e molte contraddizioni. Non solo: le celebrazioni in ricordo di quei ragazzi spazzati via in modo terribile per colpa della folle guerra mussoliniana, si sono sempre svolte un po’ in tono minore, sia a livello di governo, ma anche di giornali e televisione. Come se quei poveri morti fossero figli di un Dio minore. La Marina non c’entra perché si è impegnata davvero a fondo nelle ricerche della nave «Roma», con l’ingegner Guido Gay e il suo robot. Lo stesso che il 9 settembre scorso, nel Golfo dell’Asinara, ha posto, nei pressi di uno dei grandi cannoni della corazzata, a 1200 metri di profondità, una targa ricordo in marmo. Ed è stata di nuovo una impresa notevole. La targa era stata consegnata a Gay dal Capo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Giuseppe de Giorgi e dall’ammiraglio Gualtiero Mattesi.
COLPITA E AFFONDATA
Il padre del robot «Pluto», l’ingegner Gay, a sua volta, era stato già insignito, nel giugno scorso, della medaglia d’argento al merito, proprio per aver ritrovato la grande nave in fondo al mare. Altre celebrazioni si erano svolte, nell’anniversario della tragedia, a Sanremo, a Ischia, a Brindisi e in altre basi della Marina militare.
Ma vediamola più da vicino la storia della «Roma» e del suo affondamento. Ovviamente, bisogna rifarsi ai racconti dei superstiti, pubblicati in diversi libri. Quello più autentico e drammatico è stato scritto dall’allora guardiamarina Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, per l’editore Mursia, pubblicato nel 1996. Il titolo è una presa di posizione netta e chiara. Eccolo: Per l’onore dei Savoia – 1943-1944 da un superstite della corazzata Roma.
La corazzata «Roma» era stata progettata dal generale Pugliese e costruita dai Cantieri Riuniti dell’Adriatico. Era larga 32 metri e lunga 240 e pesava 44mila tonnellate. Era stata consegnata alla Marina il 14 giugno del 1942 e tutti la consideravano il «gioiello» della flotta e la nave più moderna a disposizione per la guerra in alto mare. Purtroppo rimase in servizio soltanto quindici mesi.
Nella confusione generale, a La Spezia, l’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante di tutte le unità da guerra italiane, aveva parlato agli ufficiali e alle ore 22 dell’8 settembre aveva annunciato l’armistizio. Per la grande nave, tutto cominciò alle ore 3 del 9 settembre, proprio mentre gli alleati sbarcavano a Salerno.
Secondo gli accordi di resa, l’intera flotta doveva dirigersi verso Malta per consegnarsi agli alleati. La Maddalena (gli italiani si stavano dirigendo in quel porto), infatti, era già occupata dai tedeschi. Tutte le navi, obbedendo agli ordini arrivati dalla Capitale, presero dunque il largo. C’erano la «Roma», altre due corazzate, un folto gruppo di incrociatori e una decina di cacciatorpediniere. Il convoglio era davvero gigantesco e le navi procedevano a 22 nodi, in una notte di mare calmo e con la luna. In quel momento si trovavano ad una ventina di chilometri dalle coste occidentali della Corsica.
Intanto a La Spezia, all’alba, l’ammiraglio tedesco Meendsen Bohiken, aveva avvertito Berlino che la flotta italiana era partita per consegnarsi al nemico. Dalla capitale tedesca risposero che avrebbero immediatamente preparato la «spedizione punitiva 1943», così la battezzarono.
La flotta, intanto, a mezzogiorno del 9 settembre, era in vista delle Bocche di Bonifacio, ma poi aveva deviato verso l’Asinara. A Berlino, comunque, non avevano perso tempo, ed era subito partito l’ordine di colpire le navi italiane. Quindici bimotori tedeschi si erano allora levati in volo dalla base di Istres, in Francia, e dopo un’ora avevano raggiunto le navi italiane cominciando subito a sganciare bombe. Erano le terribili Fx 1400 radiocomandate, del peso di 1400 chili. Di quelle, per intenderci, che non potevano in alcun modo mancare l’obiettivo.
Alle 15,45 la «Roma» era stata colpita in pieno. Subito dopo, un’altra bomba, era penetrata nel deposito delle munizioni della corazzata ammiraglia, provocando una strage: il grande torrione di comando era finito in mille pezzi e ovunque erano scoppiarti grandi incendi. Centinaia di marinai erano stati colpiti, uccisi o feriti in modo orribile. Il racconto di Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, nel libro Per l’onore dei Savoia, non risparmia dettagli terrificanti. Molti suoi amici e colleghi, ricorda con commozione e dolore, correvano sui ponti perdendo brandelli di pelle. Altri senza braccia tentavano di gettarsi in mare, altri ancora, con ustioni devastanti, per pura pietà e per tentare di alleviare il dolore, venivano cosparsi con «qualcosa di grasso» e cioè con semplice brillantina perché non c’era di meglio. Un altro ufficiale moribondo urlava, disperato, il nome della moglie in continuazione e poi aveva aggiunto: «Noi abbiamo distrutto l’Italia, tocca a voi ragazzi ricostruirla» e di colpo si era azzittito.
Intanto, tra quelli che erano riusciti a gettarsi in mare e ad aggrapparsi alle zattere di soccorso ormai stracariche, si stavano scatenando vere e proprie battaglie a colpi di remi per non far salire altri superstiti, con il rischio che le zattere si rovesciassero. In quell’inferno di dolore e di terrore, gli aerei tedeschi continuavano a bombardare e mitragliare.
Alle 16,12, la «Roma» si era girata su un fianco capovolgendosi e spezzandosi in due tronconi. Poi, il grande tuffo nelle profondità marine, trascinando giù morti, feriti e chi ancora correva disperato sui ponti in cerca di scampo.
Per tanti uomini e per tante persone in divisa, una strage terribile. E per i superstiti ammutoliti che cercavano di tenersi a galla, un dolore immane e l’angoscia di non farcela. Dal resto della flotta erano partiti subito i soccorsi, ma altre navi erano già state colpite e, in quel tratto di mare, ormai, non c’era che il caos.
Molte di quelle navi raggiungeranno poi Malta e si consegneranno agli alleati. Altre, si rifugeranno alle Baleari cariche di feriti. Un paio di comandanti, nel porto spagnolo di Mahòn, si autoaffonderanno per non arrendersi.

il Fatto 19.11.13
Il tempo, la storia e le scelte virtuali della Rai
di Fulvio Abbate


Il tempo e la storia è un programma suicida. Dall’intento davvero ciclopico nel quotidiano del pubblico vissuto nazionale: convincere i singoli cittadini dell’esistenza di una memoria epocale, collettiva. Poco importa che inquadri il dirigibile di Umberto Nobile o piuttosto la pilotina che portò Mussolini a largo delle coste siciliane al tempo della “linea del bagnasciuga”.
Mai titolo fu più evidente nel Paese che un po’ di lustri fa si dilettava ancora a collezionare figurine che inquadravano, appunto, i volti che la Storia l’avevano appunto fatta, da Garibaldi a Luigi Rizzo con il suo Mas 15, da Col-leoni ai partigiani in armi nelle valli del Nord.
Il tempo e la storia, infatti, è realizzato da Rai Educational. Massimo Bernardini, l’uomo di Tv Talk, sempre su Rai3, il nostro frontman. Raccontare la complessa storia dell’uomo, così almeno recita la “Magna Charta” della Cosa. Quanto al lasso di tempo da prendere in considerazione, Bernardini e i suoi autori non badano a spese: dalla storia antica a quella medievale, dalla storia moderna al primo e secondo ‘900. Più gli storici presenti in studio che, come ufficiali di collegamento con i trascorsi, cercheranno di fare chiaro nel pozzo artesiano della già tanto dismessa memoria storica, Alessandro Barbero, Mauro Canali, Franco Cardini, Isabelle Chabot, Giovanni De Luna, Ernesto Galli Della Loggia, Emilio Gentile, Francesco Perfetti, Giovanni Sabbatucci e Lucio Villari, fra gli altri.
ADESSO, COME in un ideale cinegiornale Luce, sarà bene precisare i tratti visivi più evidenti di quest’ultima offerta formativa del Bernardini. Lo studio, innanzitutto. Puramente virtuale, dove ogni contrafforte o corazzata risponde all’illusione della videografica. Mi dirai: soltanto così c’è modo di ospitare al cospetto del conduttore, metti, gli elefanti di Annibale, no? Sarà pur vero, ma l’effetto virtuale non agevola la sensazione del tempo, anzi, trasforma lo stato di vetustà delle pergamene, dei documenti in una sorta di videogioco, in una playstation ulteriore. Garibaldi con la medesima faccia di Max Headroom, insomma. Che fatica, per l’altrove anatomopatologo della televisione Massimo Bernardini, districarsi dunque tra gli spezzoni di Mastroianni con la tunica porpora di “Scipione detto anche l’Africano”, o con Alessandro Barbero come in un remake del “Calendario del giorno dopo”, con la sua musica preserale, e ancora sempre lui, Cesare Caio Massimo Ottaviano Benito Bartolomeo Bernardini pronto a spiegare che perfino tra le trincee del-l’Inno di Mameli si nasconde traccia di Scipio col suo elmo, e chissà se tu c’eri mai arrivato da solo. E poi la voce di Carlo Mazzarella che riecheggia dalla Redipuglia delle Teche, magari insieme agli incunaboli d’animazione di Topolino che incrocia l’impresa coloniale italiana, “Io ti saluto e vado in Abissinia, cara Virginia…”, così il grammofono, e allora non resta che sognare un trionfo d’ascolti alla faccia di un popolo di smemorati di storia. In attesa che il sogno di un format intitolato Zero Share faccia giustizia sommaria di tutto.

Corriere 19.11.13
Quando l’Italia divenne razzista Dalle leggi antisemite alla cattiva coscienza del dopoguerra
di Aldo Cazzullo


R acconta Norberto Bobbio che durante la guerra a Padova, dove allora insegnava, nel bar che era solito frequentare apparve un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei: «“Adesso strappo quel cartello”, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?».
Nel dopoguerra, per lungo tempo, l’inclinazione all’autoassoluzione da parte degli italiani, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del Paese, attraverso la raffigurazione del regime fascista come dittatura da «operetta», ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali fossero state disapprovate dai più e non fossero mai state davvero applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace. Così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola, con oltre 7.500 vittime. È molto diversa la conclusione cui giunge la ricerca di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolata Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), che esce oggi in libreria, proprio nei giorni in cui cade il 75° anniversario della promulgazione dei provvedimenti antiebraici.
I due autori hanno scandagliato le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf sullo «spirito pubblico», oltre agli atti e alla corrispondenza dei burocrati locali e ai diari e alle lettere dei protagonisti dell’epoca. Il risultato è una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano. Una sequela di documenti, prese di posizione, episodi razzisti, che definitivamente oscura quel mito degli «italiani brava gente» in cui per tanti decenni ci siamo riconosciuti per non fare i conti con le pagine nere della nostra storia.
Dal caleidoscopio delle reazioni della popolazione nel periodo 1938-1943, analizzato da Avagliano e Palmieri in pagine emozionanti, che colpiscono e indignano, risulta che gli italiani di «razza ariana» assistettero o presero parte all’antisemitismo di Stato in vario modo: quali persecutori, propagandisti, teorici, complici, delatori, profittatori, spettatori più o meno indifferenti (la categoria dei bystanders , per utilizzare l’espressione di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah) e, in misura minoritaria, come oppositori o solidali (in alcuni casi potremmo dire Giusti).
Soprattutto all’inizio, il tema delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista tra il settembre e il novembre del 1938, non suscitò grandi passioni né forti dissensi. La cifra prevalente, guardando alla maggioranza della popolazione, fu senz’altro l’indifferenza. Ma, come scrivono i due autori, «il “non vedo, non sento e non parlo” praticato dalla maggioranza degli italiani non si può però valutare con il metro semplicistico della pusillanimità. Al dunque esso si tramutò in connivenza e adesione di fatto, poiché contribuì a realizzare l’obiettivo della persecuzione, vale a dire l’isolamento, la separazione e l’esclusione degli ebrei dal resto della società». Dopo una fase iniziale nella quale non mancarono dubbi, incomprensioni e critiche, sia pure sottovoce, che videro protagonisti diversi antifascisti (in particolare gli esuli in Francia), parte del clero e dei cattolici (tradizionalmente divisi tra una corrente filogiudaica e una antisemita) e le classi meno abbienti o meno istruite, il consenso verso la politica razziale del regime crebbe progressivamente presso tutti gli strati sociali e anche nel mondo cattolico di base.
In particolare il sentimento antigiudaico fece registrare un consistente incremento nei primi due anni di guerra, nei quali la propaganda fascista sull’ebreo «nemico dell’Italia» attecchì anche tra i ceti popolari, con diversi episodi di violenza fisica o verbale (ebrei picchiati, sinagoghe incendiate o distrutte, scritte e volantini di minaccia). Uno scenario che iniziò a mutare solo tra il 1942 e il 1943, quando il disastro bellico, le forti difficoltà economiche e la crisi del fascismo provocarono la messa in discussione di tutti gli architravi della politica del regime.
La grande cultura italiana del tempo reagì alle leggi razziali in preda a quella che Concetto Marchesi, nel gennaio 1945, sul primo numero di «Rinascita», definirà «libidine di assentimento». Fu quasi del tutto assente, tranne poche eccezioni (Benedetto Croce, Arturo Toscanini, l’economista Attilio Cabiati), una protesta visibile degli intellettuali. Anche gli editori, con la lodevole eccezione dei Laterza, epurarono i testi degli autori ebrei senza opporre resistenza. Avagliano e Palmieri pubblicano le lettere di giubilo inviate a Mussolini: «Caro Duce, il popolo italiano attende con spasimo atroce che venga definitivamente eliminata la stirpe ebraica dal sacro suolo della Patria», scrive a Mussolini un anonimo studente universitario. Aggiungendo: «In nome di tutti i nostri morti abbi il coraggio di imitare Hitler alla lettera e sino alla fine. eia! eia! eia! alalà!!!». Anche buona parte della burocrazia si distinse per la solerzia e la rigidità nell’applicazione delle misure razziali, spesso anticipandone o aggravandone gli effetti. «Potete intanto stare tranquillo — scrive ad esempio il podestà di un comune molisano scelto come località d’internamento al questore di Campobasso — che sappiamo con chi abbiamo a che fare, con gli ebrei! Razza maledetta». Nel settore economico, non mancarono i casi di sciacallaggio, di opportunismo, di speculazione, da parte di commercianti, industriali, imprenditori. Il veleno dell’antisemitismo, iniettato nel corpo della società italiana dalla virulenta propaganda fascista, colpì perfino i bambini, come attestano i numerosi episodi documentati nel libro.
Anche la Chiesa, dopo l’iniziale opposizione di papa Pio XI alla politica razzista del regime (e in particolare al divieto di matrimoni misti), mise il silenziatore alle critiche alle leggi razziali e anzi diversi cardinali o esponenti religiosi, come padre Agostino Gemelli, sposarono le misure antisemite del fascismo.
I percorsi della solidarietà furono limitati: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, senza approfittare della situazione, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende ed esercizi commerciali, altri ancora scrissero lettere al re, al duce e a personaggi influenti del regime per chiedere una qualche forma di clemenza e mitigazione della persecuzione in favore di amici o conoscenti ebrei. Qualche parola di conforto — di «calda e piena manifestazione di solidarietà» e di «giustizia umana», come si legge in alcune lettere di perseguitati — fu comunicata a livello individuale e privato, possibilmente lontano da sguardi indiscreti. E ancora doveva arrivare la vergogna di Salò.

Corriere 19.11.13
Le voci dei padri tra le righe di un distacco
di Roberta Scorranese

Pochi amori sono più difficili di quelli in cui l’oggetto amoroso non è né ostile né prono, bensì è sfuggente. Mimetico, instabile, indefinibile. E affiora così l’universo del figli da una serie di romanzi usciti di recente in cui, dall’altra parte, c’è una voce maschile sempre più appassionata: quella del padre.
Da Antonio Scurati a Michele Serra, la narrativa italiana degli ultimi mesi ha proposto sguardi ora inermi ora struggenti ora coraggiosi sul tema della paternità. Bookcity ospita diverse discussioni e incontri sull’argomento. Cominciando dal romanzo più interessante, quello di Antonio Scurati: Il padre infedele (libro Bompiani, con il quale lo scrittore riceverà, il 23 novembre, il premio Montblanc). Se il tessuto sul quale si snoda è in realtà la crisi di una coppia dopo l’arrivo di un figlio, il racconto, lentamente, va a fecondare il vero problema, quello dell’indicibile, incommensurabile, tesissimo amore di un padre che, proprio mentre confessa la propria infedeltà coniugale, marchia a fuoco l’assoluta fedeltà verso la figlia. Una sorta di «tenaglia» che molti uomini ben conoscono (ed è per questo che il libro risulta forte, personale, autentico, al di là dell’autobiografia, in fondo letterariamente irrilevante). Perché, annota lo scrittore, «essere mariti e mogli vuol dire essere padri e madri». E l’inciso, che da solo racconta l’inutilità di essere al tempo stesso mariti e padri perfetti: «La felicità ad ogni costo ci aveva rovinati».
Altro fronte quello di Michele Serra che, con il suo Gli sdraiati (Feltrinelli, se ne parla il 23, all’Istituto dei ciechi, nell’incontro «I padri sbagliano sempre»), assiste disarmato all’apatia crescente degli adolescenti, a quel «non rispondere», a quel ripiegarsi in impenetrabili universi semi-autistici, iper tecnologici. E com’è dolce quell’«amore papà» mentre non si capacita che il figlio preferisca il chiuso della stanza alla bellezza del mondo fuori. Non è incomprensione, è l’arrendevolezza di un uomo lungimirante che riesce a cogliere le mutazioni sociali.
È così e basta. E quella paura di non saper dire le cose, di non spiegarsi, attanaglia anche (qui con una doppia voce, padre e figlia) il racconto di Daniele Bresciani, Ti volevo dire (romanzo Rizzoli di cui l’autore parlerà il 22, alle 10.30, alla libreria Rizzoli in Galleria, nell’ambito di Bookcity): la storia di Viola, ragazzina che un giorno si alza e scopre che il padre non si sveglia più. Da allora, un «mutismo selettivo» si impossessa di lei, costringendola a un dialogo interiore con la figura paterna. Tenerissimo, come lo era stato l’indimenticabile Nati due volte (Mondadori), il libro che Giuseppe Pontiggia aveva imbastito sull’esperienza di avere un figlio disabile.
E come lo è Una notte ho sognato che parlavi. Così ho imparato a fare il padre di mio figlio autistico (Mondadori), il libro in cui Gianluca Nicoletti ha raccontato il proprio microcosmo condiviso con Tommy, dolce e riccioluto, «attratto più dagli oggetti che dalle persone», come lo ha definito un medico.
Eccola la paternità moderna, divisa tra la ricerca delle parole e la consapevolezza che ce ne sono poche, che forse è meglio osservare i figli a distanza, imparando la cosa più difficile per un genitore, di ieri e di oggi: il distacco affettuoso.

Repubblica 19.11.13
Il Piccolo Principe e la volpe, storia di una favola cambiata
Pubblicato da Gallimard il manoscritto originale con bozze e variazioni
di Anais Ginori


PARIGI C’è voluto del tempo prima che il Piccolo Principe incontrasse la volpe. Antoine de Saint-Exupéry ha aggiunto solo alla fine della stesura questo episodio, diventato poi fondamentale nel libro. È quel che rivela la pubblicazione integrale del manoscritto del Piccolo Principe, che Gallimard propone ora in una versione inedita ed elegantemente rilegata. Nell’ampio volume sono riprodotti i 141 fogli di testo e i 35 di disegni, tutti su “onionskin paper”, una qualità di carta sottilissima con la calligrafia dell’autore a matita e china.
È la prima volta che il manoscritto di Saint-Exupéry, conservato alla Morgan Library di New York, torna in Francia, almeno in un libro facsimile. Lo scrittore francese aveva infatti donato le sue bozze a Silvia Hamilton-Reinhardt nel 1943, pochi giorni prima di partire nel Nord Africa. Da allora sono sempre rimaste negli Stati Uniti. Un patrimonio letterario prezioso che adesso permette di comprendere quanto e come la struttura narrativa della favola sia cambiata più volte. Tra i fogli si notano dubbi e aggiunte. Saint-Exupéry ha esitato a lungo sui pianeti che il Piccolo Principe avrebbe visitato prima di arrivare sulla Terra. In una prima stesura sono citati quattro pianeti e non sei. Il pianeta del protagonista si chiama dapprima A612, poi ACB316 e infine B612. Il dialogo con l’aviatore cambia più volte posizione all’interno del racconto. Saint-Exupéry aveva immaginato anche altri incontri, poi scomparsi nella versione definitiva: con un mercante di manovelle che imita il rumore dei terremoti, con un inventore di oggetti elettrici che ha costruito una macchina per rinfrescare l’aria, giocare con i birilli, fumare. Su altri fogli si vede la bozza di un dialogo con un cruciverbista.
Nel corso delle diverse versioni, Saint-Exupéry ha anche tolto alcuni riferimenti biografici sull’aviazione o su Manhattan, dove l’autore ha concepito il libro. L’astronomo turco all’inizio era inizialmente un «olandese miope ». Alcuni momenti clou della favola sono stati riscritti più volte. Il deludente incontro con gli uomini doveva avvenire dopo l’episodio della montagna, e dunque prima dell’incontro con la rosa e la volpe. Saint-Exupéry ha anche inserito formule di cortesia. «Mi disegni una pecora?», diventa: «Mi disegni, per favore, una pecora?». Vengono cancellati dettagli. Per esempio l’idea che il Piccolo Principe «beve latte caldo» al mattino. È solo verso la fine della stesura che appare la volpe che con la sua richiesta — “addomesticami” — farà scoprire al protagonista il valore dell’amicizia. Nel manoscritto si scopre così che anche il dialogo con la volpe è stato molto rilavorato. All’inizio diceva: «Ciò che è essenziale, non si vede». Una formula molto più banale di quella poi corretta e diventata simbolo del libro: «Si vede bene solo col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

Repubblica 19.11.13
Aiuto, l’italiano è diventato una lingua low cost
Esce oggi “Anche meno”, il nuovo libro di Stefano Bartezzaghi
di Antonio Dipollina


Il libro precedente era Come dire. Quello attuale èAnche meno. Se sia un nuovo passo verso l’abisso di perdizione del linguaggio dei nostri tempi lui, Stefano Bartezzaghi, non lo svela. E a domanda precisa c’è caso che risponda proprio con il titolo medesimo. Anche meno( Mondadori, da oggi in libreria) reca un sottotitolo di quelli folgoranti, “Viaggio nell’italiano low cost” dove, va da sé, il giocoliere di parole non si nega la doppia accezione e lascia a ognuno la decisione finale di scegliere se quell’italiano ha a che fare soltanto con la lingua di casa nostra oppure se indica il tutto, l’italiano essere umano o quel che ne resta.
Che è successo in pochi anni? La premessa è semplice – quanto raffinatissima in molti snodi di lettura – accerchiati e sovrastati di parole,parlano e soprattutto scrivono tutti, la reazione del povero essere mortale che rivendica storicamente sobrietà e voglia di divertirsi diventa quella: “Anche meno”. Grondano di parole ormai fuori controllo anche i treni (un annuncio dietro l’altro dagli altoparlanti), debordano i luoghi della Rete – Twitter in primis – anni fa non scriveva nessuno o quasi, oggi scrivono tutti: il risultato è appunto un linguaggio finale davvero a basso prezzo, quanto rivelatore del mondo, della natura umana, della voglia progressiva di annullamento in qualsiasi cosa ci faccia sentire vivi.
E appena la disanima si fa un po’ seriosa, eccola lì la frase da opporre: appunto “Anche meno”, tormentone peraltro recente, pronto a essere sostituito da quello successivo che da qualche parte sta per nascere. E anche qui, la tentazione irresistibile di giocarci sopra: “Anche meno” come afferra subito qualsiasi affezionato di parole, diventa anche un agitare proprio le anche, uno sculettamento di se stessi da usare nelle forme di espressione (di-meno le anche: e in anticipo anche sultwerking reso famoso da Miley Cyrus) e nel modo di comunicare, ovunque.
Parlano e scrivono tutti, e allora, dice Bartezzaghi, o ci si difende reagendo male e chiudendosi da qualche parte, o ci si mette disincanto e si cerca di viverci dentro per quanto si può. Esempio massimo, appunto Twitter, che è al tempo stesso bettola infrequentabile ma anche luogo di approdi felici, a saper cercare e saltare nei posti giusti. Un luogo, Twitter, dove uno degli sport principali è quello di correggere – preferibilmente in maniera violenta – l’altro, di attaccarlo in qualche modo e attenderne la reazione: anche e proprio sul linguaggio, sugli errori che si commettono – Le correzioni di Franzen, a quel punto, entrano a pieno titolo nel trattato. Deprecando quello che viene definito “Grammar Nazi”, ovvero la ricerca occhiuta e la censura feroce degli errori altrui quando si parla o si scrive, ignorando sempre i propri, e invitando a prenderla più leggera e a impegnare fatica in cose migliori.
E da qui, poi, l’ampia trattazione si lancia senza paura e con il consueto piglio alla Bartezzaghi nel mare magnum degli esempi, dei luoghi della parola, siano il talkshow politico, oppure di nuovo Twitter o ancora, che rimpianti, le scritte sui muri. Elenchi e scempiaggini, castronerie sublimi elencate a dimostrare quanto sia low il low cost, ma quanto sia anche altamente consigliabile, a saperci entrare. Che genio nascosto e inconsapevole ha potuto scrivere su quel muro: “Io con te/4 metri sopra il cielo/perché a 3 metri/stanno molta gente”? È il capitolo che parla dell’amore, anzi dell’Ammòre, e di come il low cost in questione tratti via muri e social network le eterne questioni che riguardano il sentimento supremo. Fino a scoprire che nessuno batterà mai quello che voleva davvero darsi un tono d’Oltralpe e sul marciapiede di fronte alla casa della ragazza tanto desiderata ha vergato con la vernice un definitivo “Ge Tem”.
Facile, l’amore. Facile? Per niente, e allora la politica, per dire? In quella che diventa presto pagina dopo pagina una cavalcata irresistibile niente viene lasciato in disparte, a partire dalla sopraffina analisi dei meccanismi del talk show e dagli exploit più clamorosi dei politici da diporto linguistico, le metafore di Bersani, oppure il Di Pietro che dice «Il mio gruppo si scilipotizza» ma bertoldescamente un minuto dopo è lui medesimo, Di Pietro, ad annunciare che sta per dare una grande notizia: «Ma prima godetevi la pubblicità».
Gergo, abitudini fallaci, modi di dire, sfondoni clamorosi, gaffe, la fotografia collettiva è impietosa – o magari intrisa di pietas - divisa in capitoli in cui si ride alle lacrime nonché l’esatto contrario. Elenchi di nefandezze – ma trattate come spiegato, con la leggerezza necessaria e acume totale – per cui, ad esempio, a mettere insieme la perfetta scena da incubo da sfondo italiano attuale dobbiamo immaginarci un gruppo di Archistar che si attovagliano per un’Apericena e si perplimono discutendo su dove sta andando a finire la Blogosfera.
Passa, tra le pagine, l’epopea del “piuttosto che”, mentre per una volta, segno dei tempi?, anche il Bartezzaghi si lascia un po’ andare e va a cogliere dinamiche strepitose nell’evoluzione del turpiloquio, quello ormai normalizzato e quello invece da trattare sempre un po’ dicendo e un po’ no: fermo restando che come ha detto qualcuno, un paese che non riesce a mettersi d’accordo in maniera unitaria sulla valenza effettiva dell’espressione “Sticazzi”, probabilmente non ha davvero futuro. O se ce l’ha, è fatto appunto in una maniera molto simile a quanto viene delineato nell’“Anche meno”, mai come stavolta anche implorazione vera e propria.
IL LIBRO Anche meno di Stefano Bartezzaghi (Mondadori pagg. 208 euro 17)

Repubblica 19.11.13
Con la globalizzazione il mondo è diventato più piccolo e “l’altro” è spesso tra noi
Ma alcuni esploratori “romantici” vogliono tornare a viaggiare
Gli ultimi antropologi
Quelli che non hanno smesso di cercare i “tristi tropici”
di Marino Niola

«Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?». In questa provocazione di Gregory Bateson, celebre autore diVerso un’ecologia della mente, è contenuta la grande sfida dell’antropologia. Riuscire a dirci qualcosa sul filo che tiene uniti e separati uomo e natura. E ogni uomo agli altri uomini. Senza lasciare sempre l’ultima parola alle neuroscienze. Erano queste le domande dell’antropologia d’antan, giovane e piena di belle speranze. Poi con la maturità è venuto meno lo slancio degli inizi. E si sono ridimensionate ambizioni e interrogazioni dei padri fondatori. Quelli che andavano a cercare le risposte ai confini del mondo. A scoprire qualcosa di sé e della propria cultura in civiltà diverse dalla nostra. Echi remoti di un’umanità comune. Come Bronislaw Malinowski, che al tempo della prima guerra mondiale vive per anni nelle isole Trobriand mettendosi nei panni dei nativi e inventa l’osservazione partecipante. Come il giovanissimo Claude Lévi-Strauss che, negli anni Trenta, compie il suo viaggio iniziatico tra gli Indios del Brasile centrale. Trasformando la missione dell’etnologo in una critica radicale dell’Occidente coloniale e dei suoi valori. Perché una ricerca etnografica, diceva l’autore diTristi Tropici, non è semplicemente «una professione come un’altra, con la differenza che l’ufficio o il laboratorio distano alcune migliaia di chilometri da casa», ma una vera e propria uscita da sé per riconoscersi in altri sé. Sono gli anni in cui lo stesso Bateson va a cercare nella trance sacra dei Balinesi, posseduti dagli dèi, una chiave per comprendere le malattie mentali della nostra società.
Poi l’antropologia ha cominciato a guardare sempre più vicino, soprattutto da quando il mondo è diventato così piccolo da fare apparire il viaggio quasi superfluo. Anche perché l’altro ci è arrivato sotto casa. E così ha perso poco a poco il respiro ideale e teorico necessari per affrontare le questioni ultime. E si è trasformata in disciplina di servizio. Immigrazione, cooperazione con i paesi terzi, volontariato, processi di governance. Sono questi i nuovi terreni di studio e di azione che l’hanno resa «una professione come un’altra». Acquistando forse in utile ciò che perdeva certamente in fascino.
Eppure l’apertura romantica e avventurosa verso l’altro, che ha fatto grande e popolare l’antropologia fino agli anni Settanta, non ha mai smesso di far battere il cuore dei ricercatori. Hacontinuato a scorrere come un fiume carsico nelle viscere delle scienze umane. E sta riaffiorando alla grande negli ultimi anni. Grazie soprattutto a molti giovani che inaugurano una nuova stagione esotica della ricerca. Recuperando, in piena globalizzazione, la missione originaria di coscienza critica dell’etnocentrismo occidentale.
Ecco i nomi. Adriano Favole, professore a Torino, autore di importanti ricerche nelle isole dei Mari del Sud, quelle che ispirarono a Rousseau e Diderot il mito del buon selvaggio. Futuna, Vanuatu e la Nuova Caledonia. Paradisi del primitivismo. Anche se ormai i villaggi dei celebri cacciatori di teste kanaki, che tanto impressionarono il capitano Cook, hanno ceduto il posto a capolavori di architettura contemporanea, come il centro culturale Jean-Marie Tjibaou di Nouméa, progettato da Renzo Piano e ispirato alle forme e alle consuetudini dell’abitare locale. Non meno esotico il terreno di Chiara Pussetti, dottore di ricerca a Torino e adesso ricercatrice a Lisbona, che lavora sui riti di possessione femminile a Bubaque, la più grande delle Bijagó, isole gettate come dadi nell’Oceano Atlantico al largo della Guinea Bissau, dove scimmie, lamantini, antilopi striate, coccodrilli e ippopotami d’acqua salata convivono nelle lagune tra le foreste di mangrovia, in uno scenario di mare e di costa degno di Joseph Conrad.
E se il viaggio verso terre lontane è da sempre il nocciolo duro della formazione dell’antropologo, Matteo Aria ne è il manifesto vivente. Navigatore, skipper ed etnologo, Aria — laurea a Pisa e dottorato a Napoli — è uno specialista delle Isole del Vento. Tahiti e Moorea, nel cuore di quella Polinesia che divenne patria elettiva di artisti come Paul Gauguin e Jacques Boullaire. In fuga da se stessi e dalla propria civiltà.
Altrettanto originale è il lavoro di Claudio Sopranzetti, laureato alla Sapienza e PhD a Harvard, autore di una raffinata indagine-inchiesta a Bangkok sulle rivolte del popolo dei mototaxisti, gli unici a sapersi muovere a occhi chiusi nel labirinto inestricabile della megalopoli asiatica che cambia forma ogni giorno sotto i piedi degli abitanti. Il suo libroRed Journeys è stato giudicato negli Usa il miglior libro di antropologia urbana del 2012. Non è da meno Francesco Ronzon, estetologo-etnologo, che è disceso nel mistero tenebroso della magia di Haiti, per studiare i risvolti politici dei riti voodoo nello scenario drammatico del dopoterremoto che ha colpito l’isola caraibica.
E,last but not least,la trentenne Gaia Cottino, addottorata alla Sapienza, che non ha resistito al mito polinesiano, ma ha scelto di guardarlo con gli occhi del presente. Il suo libro,Il peso del corpo, è dedicato alla guerra delle taglie che gli isolani delle Tonga, dove essere grassi è bello, combattono contro l’Occidente. Che tenta di imporre i suoi parametri estetici e medici in base ai quali i tongani risultano tutti brutti e obesi. Bisognosi della nostra industria farmaceutica.
Insomma in questi cervelli “made in Italy” in cerca di futuro è scoppiata di nuovo quell’inquieta fame di mondo che Einstein chiamava heilige Neugier,santa curiosità. Preziosa soprattutto nei momenti di crisi, quando c’è bisogno di nuove idee. Lo ha capito bene l’esercito italiano che ha appena lanciato unacall for jobsagli antropologi italiani di ultima generazione. Per farne la task force della conoscenza dell’umanità di domani.

Repubblica 19.11.13
Il convegno
Rina Durante e il tarantismo

LECCE — Si conclude oggi il convegno nazionale di studi per ricordare la figura e l’opera di Rina Durante, scrittrice e giornalista salentina scomparsa a Lecce nel 2004, tra le più grandi appassionate della ricerca folklorica e antropologica sul tarantismo. L’evento, organizzato dall’Ateneo del Salento, si è svolto tra Lecce, Calimera e Melendugno, paese natale della scrittrice, e ha coinvolto numerosi critici letterari e studiosi come Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande, Antonio Lucio Giannone, Massimo Melillo e Sergio Spina. Ultimo appuntamento della rassegna stasera a Calimera, con proiezioni e testimonianze su Rina Durante, oltre a un concerto di pizzica e musica popolare con Daniele Durante, Emanuele Licci, Enza Pagliara e Luigi Lezzi.

Repubblica 19.11.13
Sartre e il ’68
Rossana Rossanda ha raccolto le interviste realizzate negli anni sul “Manifesto”
Con il filosofo dell’esistenzialismo, incontrato nel 1969, ragiona sul Maggio francese
di Rossana Rossanda


Dagli avvenimenti di maggio in Francia, e in genere dalle lotte recenti è uscita una critica ai partiti che ne investe non soltanto le scelte ma la struttura. Ne vengono messe in causa non soltanto le degenerazioni (per esempio la burocratizzazione), ma la stessa natura, il concetto di organizzazione politica, di partito. Questa polemica non è stata fruttuosa. In genere ha condotto il movimento a forme di impotenza, tanto da indurlo oggi alla tendenza inversa, cioè a riscoprire in una sua originale purezza la teoria leninista del partito, e ripeterla. [...] «In fondo ho tentato di dimostrare che il partito è per rapporto alla massa una realtà necessaria, perché la massa in sé, non possiede neppure una spontaneità. In sé, la massa resta seriale. Inversamente, però, appena il partito diventa istituzione, è — salvo in circostanze eccezionali — reazionario rispetto a ciò che esso stesso sollecita o crea, cioè il gruppo in fusione. In altre parole, il dilemma: spontaneità/partito è un falso problema. [...] Ciò detto, cosa rappresenta il partito rispetto alla serie? Certamente un bene, perché impedisce di cadere nella serializzazione completa. I membri di un partito comunista resterebbero anch’essi individuiisolati e serializzati, in contiguità l’uno con l’altro, se il partito non li costituisse in gruppo attraverso un legame organico, che permette al comunista di Milano di essere in rapporto con un altro lavoratore comunista di qualsiasi altro Paese. Inoltre, è grazie al partito che si formano nel corso della lotta molti gruppi, perché il partito facilita la comunicazione. Tuttavia rispetto al gruppo in fusione che esso stesso ha contribuito a creare, il partito si trova, di regola, nella duplice condizione di doverlo o assorbire, o rinnegare. Rispetto al gruppo, la cui strutturazione non va mai oltre una sorta di patto reciproco, il partito è molto più fortemente strutturato. Un gruppo si forma a caldo, per esempio, attorno a un obiettivo — “bisogna prendere la Bastiglia, andiamo”; e subito dopo l’azione, i suoi componenti si ritrovano inquieti l’uno rispetto all’altro e cercano di stabilire, nella loro libertà, un legame che sostituisca il legame immediato che era creato dall’azione, cioè una sorta di patto o giuramento, il quale a sua volta tende a costituire un embrione di una serie, a stabilire fra loro un rapporto di contiguità, reificato. È quel che sostengo in Fraternité et terreur.Il gruppo non va oltre. Il partito invece cresce come un insieme di istituzioni, quindi come un sistema chiuso, appesantito, tendenzialmente sclerotizzato. [...] In quanto istituzione, un partito ha un pensiero istituzionalizzato — cioè qualche cosa che si allontana da un pensiero sulla realtà — per riflettere soprattutto la sua propria organizzazione, un ideologismo insomma. Sul suo schema si incanala, deformandosi, anche l’esperienza di lotta; viceversa, il gruppo in fusione pensa l’esperienza così come si presenta, senza mediazione istituzionale. Così il pensiero di un gruppo quando si pensava in grande può essere vago, impossibile da teorizzare, fastidioso — com’erano le idee degli studenti nel 1968 — ma rappresenta un grado di riflessione più vera, perché nessuna istituzione fa da filtro tra l’esperienza e la riflessione sull’esperienza. [...]»
Lei afferma, dunque, che il vero luogo della coscienza rivoluzionaria non sono né la classe nella sua immediatezza, né il partito, ma la lotta. Che il partito vive fintanto che è strumento di lotta, mentre, appena diventa istituzione, scambia i mezzi per il fine e diventa fine a sé stesso; d’altra parte la classe non avrebbe coscienza di sé finché non si costituisce in gruppo, e non può costituirsi in gruppo se non in quanto esprime un progetto politico. La contraddizione che lei mette in evidenza può forse risolversi soltanto se si tenta di andare oltre un’impostazione generale del problema e lo si cala nell’immediatezza delle singole situazioni. Insomma non sembra possibile una soluzione metastorica. Vanno piuttosto individuate le condizioni oggettive in cui volta a volta questo dilemma possa trovare una soluzione. Per questo occorrono, a nostro avviso, due condizioni, la prima delle quali è che la classe superi il livello della serialità per diventare effettivamente e interamente soggetto di azione collettiva, capace di egemonia… «Questa è una condizione impossibile, la classe operaia non può mai esprimersi interamente, come soggetto politico attivo: ci saranno sempre zone o regioni o frange, che per ragioni storiche di sviluppo resteranno serializzate, massificate, estranee auna presa di coscienza. Un residuo c’è sempre. È ora molto in uso la generalizzazione del concetto di coscienza di classe e di lotta di classe come elementi preesistenti, a priori rispetto alla lotta. A priori non c’è che lo stato oggettivo di sfruttamento della classe. La coscienza nasce soltanto nella lotta; la lotta di classe esiste solo in quanto ci siano luoghi dove effettivamente si combatte. È vero che il proletariato porta in sé la morte della borghesia, è vero che il sistema capitalistico è minato da contraddizioni strutturali e antagoniste; ma questo non comporta necessariamente l’esistenza di una coscienza di classe o di una lotta di classe. Perché ci sia coscienza e lotta occorre che qualcuno si batta. [...] Nel maggio, partiti e sindacati non solo non erano al potere, ma non svolsero un ruolo neppur paragonabile. L’elemento che unificò la lotta è qualche cosa che, secondo me, viene da lontano: è un’idea che ci viene dal Vietnam e che gli studenti hanno espresso nella formula “l’imagination au pouvoir”. In altre parole, il campo del possibile è molto più vasto di quel che le classi dominanti ci hanno abituato a credere. Chi avrebbe creduto che un popolo di 14 milioni di contadini poteva tenere testa alla più grande potenza industriale e militare del mondo? Eppure è stato così. Il Vietnam ci ha insegnato che il campo del possibile è enorme, che non bisogna rassegnarsi. Questa è stata la molla della rivolta studentesca e gli operai l’hanno capito. Nella manifestazione in comune del 13 maggio questa idea è diventata, d’improvviso, dominante. Se qualche migliaio di ragazzi occupa le facoltà e tiene in scacco il governo, perché non lo possiamo fare anche noi? Così, dopo il 13 maggio e sulla base di un modello che in quel momento veniva loro dall’esterno, gli operai sono scesi in sciopero e hanno occupato le fabbriche. L’elemento che li mobilitò e unificò non fu una piattaforma rivendicativa: questa venne dopo, a giustificazione dello sciopero, e certo non ne mancavano i motivi. Ma è interessante che le rivendicazioni siano venute dopo, quando le fabbriche eranogià state occupate».

IL LIBRO Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento di Rossana Rossanda (Einaudi, pagg. 241, euro 17,50)