mercoledì 20 novembre 2013

l’Unità 20.11.13
La tragedia della mia isola
di Paolo Fresu


Continuavo a guardare le immagini in tv ma presto mi sono staccato. Perché al di là degli aggiornamenti c’è un’unica realtà: sono morte delle persone, in un’isola già profondamente martoriata che vive uno dei momenti più difficili della sua storia. Una terra che esprime un’incredibile dicotomia tra come viene vista all’esterno simbolo di bellezza, consumo, leggerezza e la sua realtà del quotidiano. Dicotomia forse più.
Credo che quasi tutti se la possano prendere con il malcostume del mattone nel nostro territorio e certo c’è una responsabilità oggettiva della cementificazione, ma in questo momento vorrei tentare una riflessione più ampia. La Sardegna è una sorta di laboratorio. Da noi nel 2011 si è tenuto il primo referendum sul nucleare, da noi internet è arrivata prima che altrove in Italia. Ma è anche il luogo che nell’immaginario collettivo ha rappresentato la ricchezza favolosa dell’Aga Khan, il luogo pronto a vendersi per poco, e che ha ceduto una delle sue perle come l’isola di Budelli una cosa ridicola, perché il cielo e il mare non sono solo dei politici che l’hanno venduta, sono anche miei. Ciò che accaduto allora è il simbolo di una contraddizione che è tipica della Sardegna, ma non solo sua. La tragedia che l’ha colpita poteva verificarsi in qualsiasi altro luogo non dimentichiamo gli effetti dell’alluvione in Liguria -, perché la nostra isola è l’emblema di un’economia capitalista che vacilla.
E allora potremmo prendercela con il governo o con la Regione, facciamolo pure ma non basta. Dobbiamo ripensare al modo in cui abbiamo vissuto, sapendo che oggi tutto è collegato, e che ad esempio quello che compriamo qui può sconvolgere gli assetti di un altro continente. Quello che voglio dire è che temo ci sia molta colpa di tutti in quanto successo: abbiamo costruito un enorme castello, un altissimo grattacielo, ma senza fondamenta. E ora sta crollando, lasciando danni enormi e una ferita profonda.
Mi chiedo e chiedo, insomma, se non ci siano altre strade per costruire un grattacielo più piccolo, più ospitale e soprattutto funzionale alle nostre vere esigenze. Oggi la nostra società pensa solo in grande ma l’attenzione per se stessi passa da questa alle piccole cose fino al territorio: basta un tombino dimenticato a creare un problema. E se non pensi al tuo territorio, anche nelle sue più piccole pieghe, sapendo che oltretutto le scelte sbagliate ricadono sul tuo vicino, non potrai essere in grado di pensare al resto. Così però le persone muoiono. È come quando un fiume scorre a valle, se si getta una bottiglia a monte non importa se tu non c’entri perché quella bottiglia ti arriverà addosso. È la somma di piccole azioni sbagliate a provocare un’onda enorme. E così mi domando se la pioggia eccezionale caduta sulla Sardegna non abbia avuto per questo conseguenze molto più gravi.
Per essere chiaro: a mio vedere non può esistere l’idea di modificare il Piano paesaggistico regionale e di togliere dei vincoli. Capisco la necessità di creare un’economia che dia sollievo alla fame di lavoro, ma non è sulla cementificazione che dobbiamo puntare. La Sardegna è un paradiso che va preservato, lo dico da persona che gira tutto il mondo e che ha visto le grandi città dai Caraibi alle Mauri-
tius. In un mondo in cui ormai i luoghi tendono a essere tutti uguali quest’isola ha un’identità e delle tradizioni che sono beni da scambiare. Esistono insomma tanti modi per fare un turismo più intelligente e contemporaneo.
Noi ci abbiamo provato con il festival che abbiamo organizzato a Berchidda, il mio paese, a 20 chilometri da Olbia dove incredibilmente non ci sono stati danni: ogni anno qui arrivano 30 mila persone, che creano un indotto da 1,5 milioni, ma il guadagno non è solo economico. Noi investiamo sulle persone, sui giovani che così possono aprirsi al mondo, portando avanti una riflessione sul consumo di energia (siamo stati appena premiati come festival «green» per il nostro ridotto impatto ambientale). Ecco, c’è un economia verde da sviluppare, partendo da quello che possediamo realmente: territorio, identità, tradizioni. Lo facciano i politici, di destra o di sinistra. L’unico che ha provato a arrestare la cementificazione è stato Renato Soru, subito fermato, e si è chiusa una finestra. Le scelte economiche per la Sardegna inoltre non sono mai state in mano ai sardi. E siamo stati anche un po’ codardi, diciamolo: ci hanno imposto industrie e miniere, abbiamo contribuito al benessere dell’Italia e cosa abbiamo avuto in cambio? Forse solo un calcio, siamo davvero l’ultima colonia, e su questo la nostra classe politica non è stata all’altezza. E noi ci siamo accontentati dell’elemosina. Spero allora che quanto accaduto ci spinga almeno a cercare strade di sviluppo diverso. E al governatore Cappellacci chiedo: dia finalmente ai sardi gli strumenti per valorizzare quello che veramente siamo. La nostra storia, la nostra creatività, beni e prodotti locali. È questo di cui abbiamo bisogno, e non altro.
(testo raccolto da Adriana Comaschi)

l’Unità 20.11.13
Un Paese vulnerabile
di Pietro Greco


Quello che si è verificato ieri in Sardegna è stato un evento meteorologico estremo. Intenso e raro, sul Mediterraneo. Lo hanno battezzato ciclone Cleopatra ed è stato causato da un vortice di aria fredda.
Quel vortice si è staccato da una grossa perturbazione proveniente dalle zone artiche e, a contatto con il caldo Mediterraneo, ha fatto sì che si formasse e si scaricasse sulla Sardegna una «bomba d’acqua». Il nome Cleopatra non ha alcun significato scientifico. E «bomba d’acqua» è una pura invenzione giornalistica. Mentre tecnicamente potremmo definire il fenomeno che ha interessato la Sardegna un ciclone: un ciclone extratropicale, per la precisione. Ma la definizione tecnica ci dice poco, perché ogni depressione atmosferica è tecnicamente un ciclone. Dunque dovremmo chiamare ciclone (anzi, ciclone extratropicale) ogni perturbazione che giunge in Italia, che porta con sé vento e pioggia e che è causata dalla bassa pressione. Il che ci aiuta a capire poco quello che è successo ieri sull’isola dove, in alcune zone, sono caduti anche 470 millimetri di acqua a causa di una pressione bassa. Inoltre per ciclone, nell’uso comune, intendiamo ormai i fenomeni meteorologici estremi che si verificano nell’Atlantico (mentre i tifoni sono quelli dell’Indopacifico). In definitiva, dovremmo stabilire una nomenclatura più chiara e precisa per dare un nome chiaro e non ambiguo a questi fenomeni meteorologici estremi che, a quanto pare, vanno aumentando per frequenza e intensità a causa dell’aumento della temperatura media del pianeta.
Ma il problema nominalistico non è che l’indizio dell’impreparazione che abbiamo ad affrontare i cambiamenti climatici, con il previsto aumento, per numero e intensità, dei fenomeni meteorologici estremi. Un aumento che è già in atto.
L’aumento dei fenomeni meteorologici estremi in Italia si trasforma in aumento del rischio idrogeologico a causa della vulnerabilità del Paese. Una vulnerabilità demografica la densità della popolazione è alta e una vulnerabilità orografica: il territorio di quello che Antonio Stoppani chiamava il Bel Paese è montuoso, collinoso e soprattutto fragile. Ma i danni causati dai fenomeni meteorologici estremi non sarebbero così alti se accanto alla frequenza dei fenomeni e alla vulnerabilità dei luoghi non si abbinasse la scarsa percezione del rischio. Facciamo troppo poco per ridurre il rischio idrogeologico e proteggere noi stessi e le nostre cose. Sappiamo che il numero di morti in Sardegna a causa del dissesto idrogeologico è più alto della media nazionale. Ma non abbiamo fatto nulla per cercare di ridurla, quella tragica frequenza statistica. Dunque, non meravigliamoci se una ottantina di terribili tornado negli Stati Uniti nei giorni scorsi abbiano fatto meno vittime di un unico evento meteo, per quanto intenso, in Sardegna.
Evitare che a pagare il prezzo dell’alta vulnerabilità e della bassa percezione del rischio siano persone con la loro vita è un valore in sé. Tuttavia accanto a questo valore che non ha prezzo, cambiare nei fatti la nostra percezione del rischio idrogeologico ne ha anche uno, di valori, economico. Anzi, a ben vedere, si tratta di un doppio valore. Uno è, per così dire, passivo: se investiamo dieci, nel giro di pochi anni, otteniamo trenta o quaranta solo perché evitiamo dei danni, alle persone e alle cose. E i morti, i danni materiali hanno un forte economico.
Ma c’è di più. Se modifichiamo la nostra percezione del rischio e trasformiamo la vulnerabilità demografica e orografica in un’opportunità, possiamo creare lavoro. E lavoro qualificato. Abbiamo un territorio fragile? E allora iniziamo a studiarlo e a utilizzare le migliori tecnologie possibili, materiali e immateriali, per renderlo sempre più adatto a sopportare eventi estremi. Abbiamo una fragile cultura del rischio? E allora mobilitiamo i nostri esperti, ecologi, ingegneri, maestri per rafforzare il territorio; per creare sistemi coordinati di pronto allerta (early warning) e pronta azione.
Si calcola che per la sola messa in sicurezza del territorio occorrano oltre 40 miliardi di euro. E che ce ne vogliano altri per creare una solida cultura del rischio. Troviamo le risorse e attiviamole. Questo è un progetto uno dei migliori e più utili progetti possibili per uscire dal declino avviando un percorso di sviluppo sostenibile che offre lavoro, utile e qualificato. Proviamoci. Lo dobbiamo a coloro che sono morti e ai loro figli. A noi e ai nostri figli.

La Stampa 20.11.13
Ora basta silenzi. Non è stata una fatalità
di Michela Murgia


Davanti a un padre morto affogato abbracciando il figlio di tre anni non si possono scrivere editoriali ponderati. Pensando a un giovane precipitato con l’auto nella voragine di un ponte, o a una famiglia annegata in un seminterrato, non vien fuori altro che rabbia: l’insensatezza di quelle perdite ammutolisce tanto quanto la campagna devastata, i paesi sfollati, i sopravvissuti ospitati in palestre e scuole elementari dove per giorni non si farà lezione.
La Sardegna il silenzio lo sa fare bene da sempre, tanto che è da due giorni che siamo senza parole. Le uniche che abbiamo usato sono state quelle necessarie a riconoscerci vicini, fratelli e solidali. Eppure il bisogno di dire qualcosa in più sulle ragioni di questo disastro nazionale comincia a vincere anche il più sgomento dei silenzi.
Tiene sempre di meno il muro di educata omertà che vorrebbero imporci, come se fosse una prova di buon gusto non parlare di responsabilità delle morti davanti ai morti stessi. «Lasciamo a dopo le polemiche, adesso c’è l’emergenza», dirà chi aveva in carico la responsabilità che l’emergenza non si verificasse. Come se chiedere giustizia sui fatti fosse fare polemica. Come se pretendere risposte fosse un’offesa ai defunti. L’offesa vera davanti a quelle morti è altra: sarebbe affidarsi per l’ennesima volta a un dopo che non arriverà mai, come non è arrivato nelle alluvioni sarde precedenti: disastri ciclici tutt’altro che millenari, al punto che la mia generazione ne ha già viste tre. Quindi stavolta, ci dispiace, ma no: il silenzio beneducato di chi rimanda tutto a dopo non ci sta bene. Li sentiamo già mentre in giacca e cravatta dicono che l’alluvione in Sardegna è stata una terribile fatalità, un evento imponderabile, una disgrazia senza preavviso, una catastrofe fuori da ogni immaginazione, di quelle che accadono una volta ogni mille anni. Lo diranno di sicuro ma non lo dicono sempre? abusando cinicamente della parola «destino» per nascondere dietro quell’alibi la responsabilità di tutte le loro ignavie. Questi signori non lo sanno che il destino è una cosa seria, fuori dalla loro portata, una cosa complessa che richiede di avere la misura del presente, il coraggio di ricordarsi del passato e abbastanza generosità per proiettare i propri sforzi nel futuro. La categoria del destino è quella che ci permette di sognare i figli, di cercare un lavoro, di costruire una casa, piantare un albero, fare un prestito a un amico e amare gli occhi di una donna o di un uomo per tutta la vita o solo per un attimo. Il destino in questi atti è un bene collettivo: non appartiene mai ai singoli, ma sempre alle comunità e vive della consapevolezza che siamo custodi della sorte altrui in qualunque nostro gesto e che quello che accade a ciascuno peserà prima o poi sulla vita di tutti. Il destino non è quindi la pioggia che cade, ma è l’argine invaso dai detriti non sgomberati. Non è il torrente che ingrossa, ma è senz’altro la casa che gli è stata costruita nel letto dove doveva scorrere. Non è il fango che scende a valle, ma di sicuro è la via chiusa tra villette a schiera che gli fa da diga dove non dovevano esserci altro che le braccia aperte della terra, pronte ad assorbire la furia del cielo. Il destino è un progetto con nomi e cognomi e non è cieco né baro: dipende da noi. Chi oggi chiede spiegazioni non è quindi uno sciacallo inopportuno; è il sindaco lasciato solo che non tollera di sentir chiamare casualità il taglio di tutti i fondi per il piano di adeguamento idrogeologico, una decisione scellerata che appena quattro mesi fa ha lasciato i comuni senza i mezzi per curarsi del dissesto della terra. Chi chiede spiegazioni oggi è il geologo che non vuol più permettere che venga chiamata fatalità l’assenza di un piano regionale di protezione civile, anche se la Sardegna ha una legge che glielo impone dal 1989: in questi ventiquattro anni ci sono state molte alluvioni, l’ultima appena cinque anni fa con quattro morti, ma nessuna giunta regionale ha mai trovato il tempo di farlo. Il destino non è il futuro, questo ci piacerebbe dire ai signori con la giacca e la cravatta che lo stanno usando come alibi, però lo costruisce, prevedendolo. Peccato che la prevenzione non porti alcun consenso politico: è risparmio, non spesa, quindi non fa rumore, non procura alcuna audience emotiva, non ripaga nell’urna. La disgrazia invece vale molte cose: fondi in gran quantità, appalti per la ricostruzione e soprattutto occhi chiusi sulle responsabilità, sempre ipocritamente chiesti in nome del rispetto dei morti. I sardi e le sarde, che oggi hanno dato di sé stessi al mondo una prova di solidarietà che avrebbero di certo preferito risparmiarsi, se guardano l’orizzonte forse non vedranno solo le nubi ancora cariche di pioggia, ma anche il tramonto di un modello di sviluppo fondato sul mattone e sulla speculazione. Davanti a questa evidenza, pagata a prezzo carissimo, la comunità di destino che insieme rappresentiamo non può chiedere a sé stessa l’ennesimo silenzio.

Repubblica 20.11.13
Ora non date la colpa al cielo la mia terra è maledetta perché non l’abbiamo difesa
di Gavino Ledda


NON è l’acqua che uccide, ma l’uomo che non difende la terra.
Da quando ho scritto “Padre padrone”, negli anni Settanta, come pastore ho cantato la letizia della terra, sia pure con una lingua come quella italiana che non era del tutto in grado di esprimere questa gioia, tant’è vero che adesso sto rielaborando quel poema con uno spirito e un linguaggio diversi, più liberi. Ecco: con un’impostazione analoga si dovrebbero muovere politici, ingegneri, geologi, architetti. Invece oggi, così come troppo spesso è avvenuto nel recente passato in Sardegna e in altri luoghi, quel canto si è trasformato in pianto di morte. E la stessa questione si ripropone ogni volta che il cielo si deve sfogare: perché il cielo naturalmente ha tutto il diritto di sfogarsi.
L’uomo invece non si decide mai a prendere le misure giuste per salvaguardare la propria terra, l’ambiente naturale. Spesso costruisce le case lungo i fiumi o, come a Olbia, sotto il livello del mare. Non è la prima volta che accade. Cinque anni fa c’è stata la tragedia di Capoterra, vicino a Cagliari, con quattro morti. Ancora prima, nel 2004, c’è stato il disastro di Villagrande Strisaili, in Ogliastra. Ma non è solo l’isola a soffrire. Ovunque, con preoccupante ciclicità, si ripetono sciagure: dalla Liguria al Piemonte e alla Toscana. Bisogna essere meno egoisti. Tutto questo equivale a una forma di mancato rispetto nei riguardi della terra, una madre vivente che deve poter cantare senza costrizioni.
In passato, anche nel mio passato, quando sino a 20 anni stavo nell’ovile, per fortuna non ho assistito alla cementificazione selvaggia. Parlo del periodo tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta. E per capirlo basta pensare che in quell’epoca la strada tra la zona dove portavo le pecore al pascolo, Baddhevrùstana, e il mio paese, Siligo, non era neppure asfaltata. Sì, ho visto bonifiche ben fatte: interventi dell’uomo per aiutare la terra, canalizzazioni e opere di drenaggio che la rispettavano. E allora i boschi erano salvaguardati, protetti. Oggi invece gli alberi non fanno più da freno, non consentono più di evitare gli smottamenti, non contribuiscono alla salvaguardia dei suoli. E tutto questo perché non sicomprende quanto continuiamo a forzare la natura.
Come si fa a pensare che l’acqua debba risalire la montagna e non andare a valle sino al mare? Per quale ragione non si tiene conto dell’esigenza di assecondare la natura quando si fanno opere per l’agricoltura, per l’architettura, per le urbanizzazioni? Perché la gente deve fare come le scimmie e arrampicarsi sugli alberi per salvarsi dall’acqua? Come si fa a vivere in cantine e poi ritenere che non si allagheranno?
Io resto convinto che l’uomo debba dormire nella propria casa, non nel letto dei fiumi o in luoghi soggetti alle forze del mare. E se oggi faccio questi discorsi è solo per evitare che tragedie del genere si ripetano, che si ritorni al solito punto: perché, non mi stanco di riaffermarlo, il cielo non ha colpe. Le responsabilità di queste tragedie che abbiamo sotto gli occhi e che si ripresentano in maniera così ricorrente sono degli uomini. E più precisamente dei politici, che non adottano giusti provvedimenti assecondando la natura, e degli imprenditori, che non si preoccupano del canto della terra perché pensano soltanto a facili arricchimenti. Ma così alla fine tutti noi siamo costretti allutto, al dolore, al pianto.
(testo raccolto da Pier Giorgio Pinna)


il Fatto 20.11.13
Civati contro Renzi: i soldi delle primarie diamoli all’isola


TRA UN TWEET e l’altro, Renzi ha trovato anche il tempo per un botta e risposta a distanza con Pippo Civati sulla Sardegna. Il deputato lombardo ha lanciato l’idea: donare all’isola i 2 euro per le primarie dell’8 dicembre (contributo minimo per ogni votante). “Me lo ha suggerito Valentina Spata (esponente dei giovani Pd Sicilia, ndr) e immediatamente raccolgo e rilancio - ha spiegato Civati dal suo blog - Lo propongo immediatamente agli altri candidati e al segretario Epifani”. Durante la diretta twitter, Renzi ha risposto così: “Idea generosa. Ma il compito prioritario dei partiti non è dare i soldi delle primarie, ma cambiare le leggi e spendere bene i soldi degli italiani”. Poi ha aggiunto: “Il tema non è mettere i 2 euro del Pd, un partito non affronta il problema dell’assistenza mettendo i soldi delle primarie” ma facendo sì che vadano fondi “alle cose necessarie da fare”. Civati ha replicato in serata: “Ribadiamo la correttezza dell’intervento per la Sardegna. Renzi non è informato sul fatto che il Pd ha sostenuto anche l’Emilia durante il terremoto con una campagna di donazioni. Ci manca solo di fare polemica su un’iniziativa benefica che speravamo fosse condivisa da tutti”.

il Fatto  20.11.13
Fisichella, un onorevole in Vaticano
Dal salotto di Vespa ai vertici con Alfano
Così dalla Santa Sede è partita la scissione Pdl
di Beatrice Borromeo


Con la mantella nera e fucsia che sventolava sulle spalle, il pesante crocifisso d’oro al collo e gli occhi avvolti da un’ombra scura, Monsignor Rino Fisichella è entrato quasi per ultimo al funerale del Papa nero, la scorsa primavera a Roma. E anche l’ultimo saluto al divo Giulio, nella basilica di piazza dell’Oro dove gli Andreotti erano di casa, si è trasformato presto in un ritrovo di vecchi amici democristiani. Più interessati a immaginare il futuro che ad abbandonarsi a ricordi e nostalgie. C’era anche Maurizio Lupi, amico fraterno di Fisichella e “capo della sua corrente ai tempi in cui era cappellano di Montecitorio”, ricorda un deputato del Pdl. Lo stesso Lupi che, nei mesi scorsi, era ospite fisso ai vertici organizzati proprio da Fisichella per preparare la scissione nel centrodestra, con la sempre presente regia di Camillo Ruini, ex presidente della Cei. Solo che quei vertici segreti nell’appartamento di Piazza Pio XII, dove ha partecipato anche il vicepremier Angelino Alfano, hanno fatto infuriare Papa Francesco. “Non è una novità se incontro degli amici”, ha sdrammatizzato il monsignore. Una spiegazione non gradita a Bergoglio, che dall’inizio del suo pontificato ha preteso una linea non interventista nelle vicende dei partiti. Tanto più che Fisichella, da quando Benedetto XVI l’ha nominato presidente della Pontificia Accademia per la Vita, non dovrebbe nemmeno avvicinarsi ai palazzi del potere romano. E non è la prima volta, racconta il faccendiere Luigi Bisignani, che l’arcivescovo non resiste alla tentazione di entrare nei giochi: “Con Alfano e il fidatissimo Maurizio Lupi lavorava sodo al dopo Berlusconi anche l’arcivescovo Rino Fisichella. Alcuni incontri riservati con Casini e Lorenzo Cesa si svolsero proprio Oltretevere, in un ufficio nella disponibilità di Fisichella, il quale era molto amareggiato per non essere stato fatto cardinale da Joseph Ratzinger”.
NATO A CODOGNO nel 1951 da una famiglia semplice - madre casalinga e padre benzinaio - Fisichella viene ordinato presbitero nel 1976 e vescovo nel 1998. Quando è cappellano della Camera consolida il suo sodalizio con Lupi, con cui per anni organizza pellegrinaggi dei parlamentari in Terra Santa, “per riscoprire i luoghi della nostra fede” e stringere preziose amicizie. Non tutti, al-l’epoca, l’apprezzano: “S’immischiava sempre. Dopo una discussioni con Casini - ricorda l’onorevole Gianfranco Rotondi - si mise in mezzo: ‘Come si permettono questi due di non seguire le mie direttive?’ disse”. Rotondi, quasi scomunicato per aver proposto i patti civili, racconta: “Oggi il Monsignore dice che incontra tutti, ma all’epoca, quando lo chiamai per chiarirci, mi fece dire che ‘i tempi della Chiesa sono più lunghi si quelli della politica’. É suo il copyright sui disastri centristi di questi ultimi anni”. Ma per la Santa Sede Fisichella resta un asset, non solo nel suo ruolo di mediatore con i politici, ma anche come uomo di punta per attutire gli scandali: è lui che va ad Annozero a difendere la Curia durante una puntata sui preti pedofili, quando in Italia l’argomento era ancora tabù (incassando anche applausi insperati da un pubblico che gli riconosce la sua qualità numero uno: saper ascoltare). “É venuto in trasmissione nei momenti più delicati per la Chiesa, e l’ha fatto con la benedizione dei suoi superiori, dato che sanno quanto è efficace in tv”, racconta Bruno Vespa. Non senza qualche gaffes: come l’ospitata a Porta a Porta con un vistoso orologio d’oro poco in sintonia con la povertà predicata da Papa Bergoglio. La sua voce diventa tra le più autorevoli d’Oltretevere: dal caso Eluana al crocefisso nelle scuole e alle nozze gay, le sue dichiarazioni, a volte durissime, invadono la stampa. Ma non è sempre intransigente, Fisichella: c’è una barzelletta che, nonostante lui stesso venga descritto come un battutista sempre allerta, lo tormenta. Quella raccontata da Berlusconi, dedicata a Rosy Bindi e che si conclude con una bestemmia. “Va contestualizzata” , disse allora: “Non si possono creare burrasche ogni giorno per strumentalizzare situazioni politiche”. É stato “il suo momento più basso”, racconta un vecchio amico. Ma non l’unico: con un ingrovigliato fraseggio, l’arcivescovo riuscì anche a sostenere che Berlusconi aveva diritto alla comunione perché separato da Veronica Lario: “Ora non vive più nel peccato, è tornato a una situazione ex ante”. E se ogni sua posizione sulle questioni ecclesiastiche è ormai nota, poco si sa del Fisichella privato: tranne che “non pranza da 30 anni” - racconta il suo ex assistente - e cena ogni sera sul tavolo che fu di Papa Giovanni Paolo II. Dettaglio di cui ama vantarsi coi commensali.

Repubblica 20.11.13
La Nuova Destra dei camaleonti
di Barbara Spinelli


DAVANTI a noi, lo spettacolo del berlusconismo che si sfalda. Sorge un nuovo partito, presto sarà chiamato destra normale, e le Larghe Intese paiono rinascere come Afrodite dal mare: più belle e lisce, più legittime; come purificate. Non è così purtroppo. Una destra diversa da quella vista nell’ultimo ventennio ancora non c’è.
Non c’è se per normale intendiamo l’adeguazione allenorme della democrazia, alle sue leggi, alle sue forme costituzionali.
Non è neppure un Termidoro, come fu denominata nel 1794 l’epoca che terminò il Terrore rivoluzionario di Robespierre. In verità certe peculiarità riaffiorano, a cominciare dal fulmineo trasformismo di parecchi fedeli del tiranno: Barras, Tallien, e in primis Fouché, che aveva votato il regicidio, represso nel sangue l’insurrezione di Lione. Anch’egli tramò contro Robespierre. Nel Termidoro sarà ministro della polizia. Furono chiamati camaleonti, e ne esistono molti nel Nuovo centrodestra di Alfano, pur se di minor stazza.
Quel che manca è la caduta di Robespierre. Riottosi, i vassalli di Berlusconi rimangono vassalli. Annunciano il nuovo, ma non escludono patti con l’ex capo e promettono di lottare contro la sua decadenza dal Senato. Le idee che avevano sulla Costituzione, troppo parlamentare e giustizialista, son sempre lì. Piuttosto viene in mente l’8 settembre ’43: Badoglio proclamò un armistizio che apriva agli anglo-americani senza chiudere a Hitler, poi col re fuggì da Roma lasciando che i nazisti occupassero il paese. Tale fu lanazione allo sbando narrata con maestria da Elena Aga Rossi.
Certo in Italia c’è bisogno di una destra normale, il che vuol dire: decente. Vale dunque la pena guardare oltre la nostra aiuola, e vedere come altrove, in simili circostanze, si fece pulizia. Il caso più significativo è la Germania, una democrazia assai attenta alle norme. Lo dimostrò nel 1999-2000, quando scoppiò l’affare dei fondi neri che travolse Helmut Kohl e mise fine alla sua lunga era: 16 anni di cancellierato, 25 di presidenza dei democristiani (Cdu).
Esemplare è innanzitutto la cronologia: gelida, spedita, sbrigativa. Lo scandalo viene alla luce il 4 novembre ’99, sotto il governo Schröder: indagato è il tesoriere Cdu Walther Leisler Kiep, ma Kohl è coinvolto. Il 30 novembre, l’ex Cancelliere ammette l’esistenza di fondi neri. Quattro giorni dopo, Angela Merkel che è segretario generale della Cdu esige sia «fatta chiarezza, rapida e senza omissioni». Passa meno di un mese e i toni si fanno più ruvidi: al canale della Tv pubblica Ard, dice che il partito, se tiene al suo destino, deve uscire dall’impasse «con le proprie forze». Poche ore dopo, il 22 dicembre, esce un suo articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, in cui spiega cosa significhi, per lei, «uscire».
Significa, scrive la Merkel, riconoscere che malcostume, corruzione, non rispetto delle norme sono «una tragedia, per la Democrazia cristiana e per l’intero sistema dei partiti». Le illegalità commesse hanno gravemente danneggiato la Cdu, quale che sia la grandezza di Kohl e il suo contributo all’unità tedesca, all’Europa, al nascere della moneta unica. Non c’è da una parte lo scandalo, e dall’altra l’immagine di Kohl: «le due cose stanno insieme». Risultato: il partito in futuro «deve imparare, con fiducia, a camminare senza il vecchio cavallo di battaglia». Deve imboccare una propria via, «come chi nella pubertà si stacca di casa», anche se il «processo non sarà senza ferite». Si parla di parricidio, tradimento. Ma il partito la sostiene. Nel Brandeburgo, il portavoce della Cdu Möricke chiede «un taglio del cordone ombelicale». Il vice capogruppo parlamentare Friedrich Merz dice: «Sottoscrivo ogni riga dell’articolo della Merkel».
Poco più di un mese: tanto durò fare i conti col passato, e renderne conto. Appena più ci volle perché al capo venisse tolta la carica di presidente onorario della Cdu (18 gennaio 2000), e il partito gli chiedesse di rispondere di qualcosa che veniva vissuto non come un guaio mediatico, ma come tragedia. E Kohl era un mito, specie in Europa. E dopo la sconfitta alle politiche del ’98 la Cdu era in risalita (alle elezioni europee del ’99, alle regionali a Brema, Berlino, in Assia, nella Saar, in regioni chiave dell’ex Germania est): la Merkel lo ricorda nell’articolo. Un reato è un reato, e nulla pesavano i successi alle urne, il curriculum poderoso del leader, le messinscene di una fittiziastabilità. Dirimente era ununico aggettivo, che appannava tutto il resto: l’agire di Kohl era rechtswidrig,contro la legge. Questo era intollerabile, e non fu tollerato.
Ricordiamo che neanche il Watergate fu digerito. Nixon infine fu abbandonato da chi nell’opinione pubblica, nei giornali, nella classe politica, l’aveva sostenuto. Hugh Scott, leader repubblicano al Senato, lette le carte dichiarò che la condotta presidenziale era stata «deplorevole, disgustosa, squallida, e immorale». Fare subito l’inventario del passato, non eludere un giudizio storico-politico netto (sì sì; no no): questo fu per la Merkel rompere con il capo. Se rinacque una destra decente, fu perché la politica fece pulizia da sola, senza attese e rinvii. Gli anticorpi che Sylos Labini giudicò assenti da noi (Repubblica 14-5-02), in Germania esistevano. Prima che intervenissero i magistrati e la Commissione d’inchiesta parlamentare, il partito seppe tagliare, con un gesto secco, il ramo rivelatosi marcio. Nessuno ebbe l’impudenza di dire che Kohl era immunizzato perché ancora in auge, a casa e fuori. Non così igovernisti di Alfano. Nessun inventario, nessun rendiconto del berlusconismo, nessun taglio del cordone ombelicale (ma neanche idee su economia, Europa, politica estera). Se si esclude la difesa del governo di Larghe Intese, l’essenza berlusconiana è preservata. La lotta alla magistratura indipendente prosegue, la decadenza del leader è rifiutata. Che destra normale può nascere in queste condizioni, sempre chenorma significhi norma? Si fa presto a dirsi moderati, se la sovversione da cui ci si separa resta ingiudicata.
Qui è il pericolo che corre l’Italia: che cambino nomi e padroni dei partiti, ma non la cultura dell’illegalità che ci ha ammorbati ben prima che Berlusconi andasse al potere: da quando la P2 pensò, negli anni ’70, ilPiano di rinascita democratica.
Rimane il postulato secondo cui la giustizia non è eguale per tutti, e«il vero potere è in mano ai detentori dei media» (Licio Gelli). Continua la politica riservata a chiuse, immuni oligarchie, ancor oggi protette dalla Chiesa: moltigovernisti sono in Comunione e Liberazione. Tutto è permesso agli oligarchi. Anche le telefonate fatte dalla Cancellieri a amici privati, i Ligresti: telefonate in cui si «mette a disposizione», e 4 volte dichiara «non giusto» (lei che è Guardasigilli) l’arresto appena avvenuto di Salvatore Ligresti e delle figlie per reato di falso in bilancio e manipolazione di mercato (il figlio Paolo, latitante, evita l’incarcerazione). Se il Pd non sfiducia la Cancellieri, si confermerà che il malcostume l’ha senza rimedio contaminato. Che ancora sembra ignorarlo: non tutto quel che è legale, che non è reato, è decente in politica.
È difficilmente immaginabile che la Merkel abbia usato sbadatamente una parola tanto pesante: tragedia. Tragicamente degenera la democrazia quando la legalità è facoltativa. Di fronte a noi sfilano governisti (spesso indagati, spesso ex P2) che abrogano il passato per non mettersi in pericolo.
Le tragedie si superano con la catarsi: una purificazione. E con un giudizio, espresso dall’opinione pubblica che è il Coro. In Italia non sono in vista catarsi, o giudizi: né a destra, né per ora a sinistra. Forzatamente neppure nelle Larghe Intese, e in chi s’ostina a commisurarle con le Grandi Coalizioni tedesche.

l’Unità 20.11.13
Cgil avvia il percorso verso il congresso di maggio 2014
di Massimo Franchi


ROMA Un congresso praticamente unitario aperto agli emendamenti. Diversamente dal precedente, il XVII congresso della Cgil avrà una mozione che rappresenterà praticamente la totalità dei vertici del sindacato. A differenza dell’ultimo congresso, la sinistra interna non presenterà una sua mozione, come fu per La Cgil che vogliamo. La grande novità riguarda però il fatto che questa stessa mozione sarà aperta agli emendamenti. Emendamenti senza limiti che non vengono vissuti come una contrapposizione politica ma come la giusta dialettica interna ad una organizzazione così complessa.
Dopo la riunione di lunedì della commissione Politica, ieri è stato il Direttivo a dare il via libera alla bozza di documento unitario e al percorso congressuale, fissando le date delle varie assise. Il congresso nazionale si terrà dal 6 all’8 maggio. Quasi certamente a Rimini, già sede delle tre precedenti assise, nel 2002, nel 2006 e nel 2010.
A Rimini arriveranno 509 delegati in rappresentanza di tutta la struttura territoriale. Il calendario congressuale prevede lo svolgimento delle assemblee di base dal 7 gennaio al 21 febbraio, dei congressi delle categorie territoriali, delle Camere del lavoro territoriali e metropolitane e delle categorie regionali entro il 15 marzo, dei congressi regionali dal 17 marzo al 29 marzo, dei congressi delle categorie nazionali dal 31 marzo al 17 aprile e, successivamente del congresso nazionale dello Spi, ultimo perché i pensionati sono chiamati a fare le cosiddette «compensazioni».
«FAREMO PARLARE I LAVORATORI»
«La novità del congresso è rappresentato dalla volontà di apertura e di confronto spiega il segretario confederale Vincenzo Scudiere . Terremo assemblee in tutti i luoghi di lavoro, daremo parola a tutti i lavoratori mettendoci in una posizione di ascolto di chi vive questa lunghissima crisi in prima persona». Nel direttivo del 2 dicembre si deciderà il nome della mozione di maggioranza e se Susanna Camusso sarà, come sembra, la prima firmataria. Il documento avrà una premessa politica generale ma, altra grande novità, conterrà la proposta di azioni sindacali concentrandosi su un livello di azione europeo, consono al livello globale delle cause della crisi economica più lunga del dopoguerra. Allo stesso tempo sempre nel Direttivo del 2 dicembre i vari membri nazionali e le varie federazioni presenteranno già i loro emendamenti che saranno discussi in tutte le assemblee a partire da quelle nei luoghi di lavoro. Qualunque lavoratore potrà poi presentare a sua volta emendamenti che verranno votati. I voti verranno sommati e arriveranno al congresso nazionale.
In realtà una seconda mozione ci sarà. A presentarla è la minoranza della Rete 28 aprile guidata da Giorgio Cremaschi. Superato il limite di cinque delegati del Direttivo che l’hanno sottoscritta, la mozione si chiama «Il sindacato è un’altra cosa».

l’Unità 20.11.13
Indesit, tensione e paura si riparte da 1425 esuberi
Dopo la rottura delle trattative il gruppo di Fabriano ripropone il piano originario di tagli e delocalizzazioni
I sindacati accusano l’azienda di aver voluto drammatizzare una situazione già difficile
Uno spiraglio per riaprire il tavolo
di Massimo Franchi


ROMA Il giorno dopo è quello del rammarico. Quindici ore di trattativa ad oltranza, dalle 16 di lunedì alle 7 del mattino di martedì, si sono concluse con la rottura già nell’aria dal pomeriggio con i 300 lavoratori sotto il ministero che continuavano a intonare cori contro l’azienda. E così la vertenza Indesit è tornata praticamente al punto di partenza, quello del 4 giugno scorso: con oltre 1.425 esuberi.La multinazionale degli elettrodomestici di Fabriano farà partire una procedura di mobilità, il licenziamento collettivo di 1.425 lavoratori suddivisi soprattutto negli stabilimenti di Albacina (Fabriano) e Teverola (Caserta), con la Campania ad avere la maggioranza degli esuberi: sono 680, secondo i sindacati. Sei mesi di trattative con i sindacati, scioperi, nuovi piani con meno esuberi: tutto cancellato. L’ad Marco Milani non ha voluto accogliere le richieste dei sindacati che chiedevano di abbassare il numero degli esuberi ai soli 300 che nei prossimi anni avrebbero potuto andare in pensione, dopo il periodo di ammortizzatori sociali. Nonostante differenze di vedute, Fiom, Fim, Uilm e Ugl sono state unite e hanno deciso che la proposta finale di Milani (calo degli esuberi di qualche centinaio e 83 milioni di ulteriori investimenti) era inaccettabile.
L’APPELLO DEL GOVERNO
Il sottosegretario Claudio De Vincenti non manca però di commentare: «C’erano impegni dell’azienda a rafforzare il radicamento italiano e a chiarire la missione produttiva di ognuno degli stabilimenti. Tutto ciò aveva consentito di azzerare gli esuberi, con la disponibilità a ricorrere solo ad ammortizzatori sociali conservativi e ad escludere licenziamenti per almeno 5 anni. Spiace molto che tutto ciò non sia stato apprezzato dai sindacati con un testo condiviso». Gli rispondono Giovanni Sgambati della Uilm: «È stata l’azienda a drammatizzare la situazione creando tensioni ingovernabili» e la Fiom: «È stata l’azienda a rifiutare la nostra proposta unitaria e poi l’aggiornamento della trattativa per tenere altre assemblee».
Ma ora che succederà? Si terranno nuove assemblee (quelle di giovedì scorso a Caserta avevano fatto capire che i lavoratori non avrebbero accettato esuberi, mettendo l’accento sulla cancellazione totale del premio di risultato che per molti lavoratori era di 4mila euro netti l’anno) negli stabilimenti con la quasi certa proclamazione di uno sciopero per combattere la decisione aziendale. Da parte del governo arriva un accorato appello al dialogo. «Il governo spiega De Vincenti sarà attivo, fin dai prossimi giorni, e determinato a creare le condizioni per riprendere il negoziato. A nostro giudizio continuano ad esistere le basi per arrivare all’intesa. Ci auguriamo che le organizzazioni sindacali riconsiderino la situazione e tornino a sedersi di nuovo al tavolo della trattativa per riannodare i fili del ragionamento bruscamente interrotto». Da parte sindacale la Fim Cisl chiede di «riaprire immediatamente il confronto», la Uilm confida nei «75 giorni di tempo (quelli per trovare un accordo prima della procedura di licenziamento, ndr) per cercare una soluzione che scongiuri i licenziamenti e risulti accettabile sia per lavoratori sia per l’azienda», l’Ugl chiede che «prevalga il senso di responsabilità».
Il piano iniziale di Indesit (ora tornato di moda) prevedeva la delocalizzazione delle produzioni a basso valore aggiunto (ma più vendute) all’Est, verso la Polonia e Turchia. Se nella primavera 2012 era toccato alla produzione di lavastoviglie a None (Torino) e nel 2010 a Brembate (Bergamo) e Refrontolo (Treviso), questa volta tocca ai forni da incasso (Fabriano), le lavatrici a carica frontale (Comunanza) e frigoriferi e piani cottura da incasso (Caserta). L’azienda ha stabilimenti in Polonia, Regno Unito, Russia e Turchia per un totale di 16mila addetti di cui ormai solo 4.300 nel nostro Paese. Nella partita hanno pesato poi tremendamente i problemi della famiglia Merloni, proprietaria del gruppo (con il capo famiglia e fondatore Vittorio infermo e il garante nominato dalla famiglia, la moglie Franca, bocciata dal tribunale) e la decisione di dare mandato a Goldman Sachs e all’ad Milani di trovare un’alleanza globale. La decisione ha influito non poco sulla vertenza: l’idea di avere come partner Electrolux o Whirpool, che in Italia stanno già chiudendo stabilimenti, è la prova della voglia di lasciare l’ Italia. E anche se i partner fossero i turchi di Arcelik certo tutelerebbero gli stabilimenti in Turchia. E non in Italia. Come spiega il presidente delle Marche Gian Mario Spacca: «La situazione è resa particolarmente complicata dalla scelta degli azionisti di cercare un partner».

il Fatto 20.11.13
Cancellieri il Colle e Letta asfaltano il Pd: “Lei resta”
Inviato da Napolitano a placare i democratici, il premier chiama Renzi e gli racconta delle pressioni del Colle
Poi grida: “È attacco al governo!”
di Fabrizio d’Esposito


Un paio d’ore a Olbia, poi due telefonate a Renzi, infine il premier corre alla Camera per portare al partito gli ordini di Napolitano: la ministra dei Ligresti va salvata

La monarchia del Napolitanistan salva la ministra della Famiglia Ligresti. Tutto accade molto prima della fatidica assemblea dei deputati del Pd, ieri sera alle nove. Vietato toccare Annamaria Cancellieri. Lei rimane rinchiusa al ministero della Giustizia, per limare il discorso di oggi alla Camera, quando si discuterà la mozione di sfiducia dei grillini. Il lavoro sporco, per la serie “mi chiamo Wolf e risolvo problemi”, lo fanno il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio.
Stavolta, però, per Giorgio Napolitano, “commissario” del Pd da un biennio dopo una vita trascorsa in minoranza nel Pci, lo sforzo è più impegnativo del solito. Dall’altra parte non ci sono Bersani o Epifani. C’è Matteo Renzi, vincitore del primo round per la leadership del partito. A lui, segretario in pectore del Pd, il premier Enrico Letta fa due telefonate. E tutte e due le volte fa la stessa premessa: “Caro Matteo è il presidente che lo chiede, sulla Cancellieri fate un passo indietro”. Lo scudo di Napolitano serve a Letta per fare a sua volta lo scudo della Cancellieri. Renzi obietta, resiste. Il premier, anche a nome del Colle, diventa giustizialista a sua insaputa: “Ma anche per la procura di Torino è innocente”. Per Renzi è l’ammissione, ennesima, che la politica è subordinata alla magistratura. Ribatte: “Enrico ma che c’entra? La questione è politica, io non aspetto i giudici per avere una linea”. Ed è in queste telefonate che matura l’esito del match. Renzi, che poi lo scriverà su Twitter, rilancia: “Caro Enrico allora mettici la faccia. Vai all’assemblea e spiega che questo è un voto di sfiducia contro di te. Fossi in te non lo farei, ma non vedo altre uscite”. Renzi chiede di poter partecipare all’assemblea, ma si sente rispondere che non è deputato. Su un fronte, il premier che supera un altro scoglio e richiude una falla che ha rischiato di far affondare tutto il governo, almeno secondo l’analisi del Colle. Sull’altro, Renzi si intesta la questione morale sulla ministra dei Ligresti e si piega solo di fronte ai numeri del gruppo a Montecitorio, in cui i renziani sono “appena” una cinquantina. Forza cospicua ma non sufficiente a ribaltare gli equilibri. Ma la lezione Cancellieri fa capire a Renzi quale sarà il principale problema nei prossimi mesi, quando guiderà il Pd da segretario con pieni poteri: l’interventismo di Napolitano, a tutto campo e ormai quotidiano, con telefonate a getto continuo. Si lascia scappare anche una battuta, il sindaco di Renzi, che dal Colle è già stato ripreso, in un passato recentissimo, su amnistia e legge elettorale: “Per me Napolitano può fare anche il presidente del Consiglio (qui la perfidia è rivolta soprattutto a Letta, ndr), ma il segretario del Pd sarò io”.
La tregua tra Letta e Renzi per salvare governo e partito si percepisce a Montecitorio che non è ancora buio. La fine è nota. Dopo il caos e le minacce di lunedì, il Pd viene asfaltato ancora una volta dalla dittatura delle larghe intese di Re Giorgio. I renziani, per bocca di Paolo Gentiloni, ex ministro, promettono un ordine del giorno anti-Cancellieri. La mozione di sfiducia di Civati, invece, non sfonda. Il senso di marcia è chiaro. Se anche si dovesse votare, nell’assemblea, oggi tutti si uniformeranno alla linea maggioritaria di Letta e Bersani e Franceschini e D’Alema: no alla sfiducia.
Il premier arriva all’assemblea direttamente dalla Sardegna. L’orario d’inizio viene posticipato, alle ventuno. È lui ad aprire la riunione. La salvezza della Cancellieri è una questione politica: “Questo è un passaggio politico a tutto tondo. Quello che viene chiesto è un voto di sfiducia al governo. Al Pd chiedo un atto di responsabilità”. Il problema non sono le telefonate. Anzi: “La mozione è frutto di una campagna aggressiva molto forte e slegata dal merito. Vi chiedo di considerare la cosa per quello che è: un attacco politico al governo. Mi appello al senso di responsabilità collettivo che è parte di noi. La nostra condivisione unitaria della responsabilità è il punto di tenuta del sistema politico”. La responsabilità rimbalza di intervento in intervento. Parla Cuperlo. “La Cancellieri avrebbe fatto meglio a dimettersi però noi siamo responsabili”. Gentiloni, renziano, prende atto “con rammarico” e responsabilità. Perfino Civati, il movimentista filogrillino, si arrende nel segno della responsabilità: “Sono in disaccordo, ma mi atterrò alla linea”. Il Pd che ha affondato Prodi per il Quirinale si ritrova compatto per salvare la Cancellieri. Contrappasso da unità.

il Fatto 20.11.13
Politica italiana, chi salva chi
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, la Cancellieri salva la Ligresti, Letta salva la Cancellieri, Napolitano salva Letta, e vissero tutti felici e contenti. È questa la storia?
Giacomo

È LA SEQUENZA giusta, ma ci manca un principio e una fine. Il principio si immerge nella parte sconosciuta della vicenda. Perché la Ligresti, perché a quel rischio, e perché tutti si affrettano a dire che va bene così? Infatti, fin dal principio, il dibattito non era se vi fossero reati, ma se vi fosse un serio problema politico, di credibilità, di immagine, in una delle aree più delicate di un governo (il ministero della Giustizia). Il problema non è mai stato se il prefetto Cancellieri fosse sempre stata e restasse una brava persona. Il problema era il gesto gravemente inopportuno che avrebbe richiesto una decisione tempestiva della stessa persona interessata. Posso capire che il presidente del Consiglio non voglia aprire per primo un problema che potrebbe portare smagliature nel suo delicato tessuto di governo. Ma questa è cosa ben diversa dalla sensibilità e dalla responsabilità della persona interessata. E quanto all’apprezzamento del Capo dello Stato, il miglior modo di ringraziare, per il ministro Cancellieri, sarebbe stato di non pesare. La vicenda non va via, e con il solo fatto di non dimettersi, la storia (la Ligresti finalmente libera che fa shopping e il ministro della Giustizia che resta al suo posto ) è destinata a crescere, a costituire un ingombro utile per ogni avversario del governo, presente o futuro, per buone o per cattive ragioni. Come vedete, sto cercando di ragionare dal punto di vista degli interessi di chi vuole fermare il tempo e gli orologi e fare in modo che il governo Letta resti per sempre (o almeno molto più a lungo del possibile). Ma se il progetto è mantenere Letta fermo, al suo posto (un progetto che non ci è stato spiegato, ma di cui dobbiamo prendere atto) perché gravarlo di un fardello così pesante? Fa pensare che, in quel governo, una formula magica richiede che non vi sia mai alcun cambiamento di alcun partecipante, perché la formula è stata calcolata con esattezza e non tollera variazioni. Ma quale formula? E calcolata da chi?

Corriere 20.11.13
Letta costringe il Pd a sostenere Cancellieri
di Dino Martirano


«La sfiducia sarebbe contro il governo» Il premier all’assemblea disinnesca le minacce. Oggi il voto alla Camera In tanti erano per le dimissioni. E Renzi: Enrico? Io non ci metterei la faccia ROMA — Alla Camera si vota alle 13, per appello nominale, sulla mozione di sfiducia individuale presentata dal M5S contro Annamaria Cancellieri, il ministro della Giustizia, finita al centro di un virulento scontro politico a causa delle sue telefonate con i familiari di Salvatore Ligresti (l’imprenditore arrestato a luglio insieme alle figlie per il falso nel bilancio della compagnia Fonsai). Il Guardasigilli — che non è indagata anche se ieri il procuratore di Roma Pignatone, ricevuti gli atti da Torino, ha aperto per competenza un fascicolo senza ipotesi di reato — prenderà la parola al termine di un dibattito presumibilmente molto acceso ma, alla fine, dovrebbe poter contare su quasi tutti i voti della maggioranza delle «larghe intese», al netto però di qualche forte maldipancia all’interno del Pd.
Ieri sera, all’assemblea di gruppo del Pd, il presidente del Consiglio Enrico Letta non ha concesso alternative ai suoi compagni di partito: la mozione di sfiducia contro il ministro Cancellieri «è frutto di una campagna aggressiva molto forte e slegata dal merito. Vi chiedo di considerarla per quello che è: un attacco politico al governo. E la risposta deve esser un atto politico. Un rifiuto».
L’operazione fiducia incondizionata al ministro Cancellieri — preparata e sostenuta dal presidente del Consiglio, in continuo contatto con il Quirinale — non è stata indolore per i democratici visto che Matteo Renzi aveva detto a Enrico Letta che se voleva dettare la linea doveva partecipare all’assemblea pd («e metterci la faccia, ma io non lo farei») prima di accettare di adeguarsi alle decisioni del gruppo: «Il ministro dovrebbe dimettersi... Ma non faremo sgambetti, ci adegueremo», aveva detto il sindaco di Firenze quando ancora non si era capito che il capo del governo (per altro impegnato ieri con la macchina dei soccorsi per l’alluvione in Sardegna) avrebbe partecipato alla assemblea del gruppo. In quelle ore il fuoco di sbarramento dei renziani è stato molto violento: «Se cambia il ministro della Giustizia il governo Letta è più forte», ha teorizzato a metà pomeriggio il segretario in pectore del Pd nella sua «enews». A quel punto, da Palazzo Chigi è iniziata a filtrare la nuova agenda pomeridiana di Letta nella quale di punto in bianco, dopo una visita lampo ad Olbia, era stata inserita la partecipazione del premier all’assemblea del gruppo del Pd. A quel punto, pure tra mille distinguo, c’è stato il segnale che nel Pd tutti aspettavano, da Renzi, a Cuperlo, ad Epifani: «Sì alla fiducia, se la chiede Letta». E così a Pippo Civati (Pd) — che ha provato in tutti i modi a raccogliere le 63 firme necessarie per presentare una mozione di sfiducia del Pd contro la Cancellieri — non è rimasto che dichiarare che così «a perdere è stato il Partito democratico».
Musica per le orecchie dei grillini. Beppe Grillo, sul suo blog, ha scritto che «Letta, Civati e Renzi sono tre cuculi... Che hanno cambiato idea, per meri fini elettorali, sul passo indietro del ministro Cancellieri». Per il M5S, invece, «un ministro della Giustizia che si sia lasciato condizionare nel suo operato dai suoi rapporti con la famiglia Ligresti» porta con sé «un’ombra indelebile». Violenta l’espressione di Renato Brunetta (Forza Italia) sul ministro Cancellieri: «Per Renzi donna cannone da tirare su Letta....», è infatti il titolo apparso sul mattinale del partito poi diffuso su Twitter da Brunetta. Invece Sandro Bondi (Forza Italia) ha puntato le sue critiche sul Colle: «La nota del Quirinale dell’altra sera, alla vigilia di un dibattito parlamentare e in perfetta sintonia con le dichiarazioni dei magistrati sul caso del ministro Cancellieri, è l’espressione più inusuale di un sistema che si regge da tempo su un ruolo di garanzia e di supplenza politica del presidente della Repubblica».

Corriere 20.11.13
I confini del presidente del Consiglio
di Massimo Franco


Matteo Renzi gli aveva consigliato di non metterci la faccia. Enrico Letta ha risposto imponendo tutto il peso del suo ruolo a difesa di Annamaria Cancellieri. E ha portato il Pd sulle sue posizioni. Il sindaco di Firenze può vincere il congresso, ma il presidente del Consiglio ha prevalso nella prima sfida diretta: a conferma che le incursioni del «rottamatore» dovranno fermarsi al confine delle «larghe intese».
Il «sistema palatino» sembra essersi chiuso di fronte al tentativo di destabilizzare la coalizione usando il pretesto del Guardasigilli. I vertici delle istituzioni hanno blindato la Cancellieri in bilico per le telefonate fatte alla famiglia del costruttore Salvatore Ligresti durante la detenzione di una figlia. E così, la prospettiva delle sue dimissioni, date per probabili fino a ieri mattina, forse si è allontanata: anche se non è chiaro se si tratti di un congelamento o di un capitolo chiuso. Il fatto che ieri sera, ai gruppi parlamentari del Pd, sia stato lo stesso premier Enrico Letta a parlare per difenderla, rivela la preoccupazione con la quale il governo segue la vicenda. L’appoggio offerto dal presidente del Consiglio e il sostegno del capo dello Stato nascono sia dall’inesistenza di un’inchiesta penale a carico della titolare della Giustizia, sia da ragioni politiche.
Il governo delle «larghe intese» è troppo debole per sopportare le dimissioni di un ministro-chiave proprio all’indomani della scissione del Pdl di Silvio Berlusconi e di Scelta civica di Mario Monti; e mentre i Democratici si avviano al congresso di dicembre con un Matteo Renzi deciso a incalzare la coalizione in ogni circostanza. Anche sul caso Cancellieri, il candidato favorito alla segreteria del Pd ha invocato le dimissioni. Ha sfidato per l’ennesima volta Enrico Letta, consigliandogli di «non mettere la faccia» nella difesa del Guardasigilli. Insomma, ha usato una vicenda imbarazzante come un altro frammento per costruirsi un’identità opposta a quella di chi sostiene le «larghe intese». Più che ottenere le dimissioni del ministro, Renzi voleva incassare il dividendo di una critica frontale a quello che definisce con una punta di sarcasmo «politicamente corretto»; e mettere il premier e il Quirinale di fronte all’ennesimo bivio.
Sa che Napolitano è il garante di un assetto politico che lui invece contesta e punta a scardinare e comunque a logorare. La difesa della Cancellieri ribadita anche dal centrodestra in nome del garantismo rafforza, di rimbalzo, il profilo di Renzi. E gli offre un potenziale vantaggio in un Pd che vuole la decadenza di Berlusconi da senatore; e al congresso misurerà i suoi istinti antigovernativi non tanto nei confronti di Letta ma della maggioranza che presiede. Dopo quanto è successo, il sindaco di Firenze ha gioco facile nel teorizzare che, qualunque riforma il ministro farà, «sconterà un giudizio diffidente» dell’opinione pubblica. Ma Renzi sa che le diffidenze e i malumori sulla Cancellieri sono destinati a ripercuotersi su palazzo Chigi e Quirinale, presentati come difensori di uno status quo contro il quale chiama a raccolta il «suo» Pd: non quello degli eletti ma degli elettori.
La richiesta di un voto del gruppo parlamentare alla fine della riunione di ieri sera risponde alla logica di una conta che mostri un partito spaccato fra «buoni» e «cattivi»; e dunque riveli le crepe che il caso Cancellieri ha allargato. «Faremo staccare dalle poltrone i loschi personaggi del Pd», promette il sindaco con l’occhio al «popolo delle primarie». C’è da chiedersi se questa strategia porti ad un ricompattamento su basi completamente nuove, o se possa diventare l’anticamera di una scissione. «Quando ho perso non sono scappato», ricorda correttamente Renzi, riferendosi alle primarie in cui vinse Pier Luigi Bersani. «E non credo che avverrà se vinco io». Il modo in cui sta plasmando la propria candidatura, d’altronde, rivela per intero la debolezza della nomenklatura precedente
Ma accentua anche l’idea di un potere verticale e personale. E soprattutto non nasconde una strategia tesa a delegittimare il presidente del Consiglio: in particolare ora che l’asse con il vicepremier Angelino Alfano è rafforzato dalla rottura con Silvio Berlusconi. Renzi teme il consolidamento della «nuova maggioranza» affiorata durante la fiducia del 2 ottobre, e ufficializzata dalla scissione del Pdl: ha paura che catalizzi tentazioni centriste e favorisca una riforma elettorale di tipo proporzionale. Ieri sera Letta ha chiesto ai deputati «una risposta politica» a quello che ritiene «un attacco politico» slegato dal merito. Insomma, un gesto di fiducia per arginare l’offensiva del sindaco, pronto ad attaccare «le larghe intese Cavaliere-Grillo» sul sistema di voto ma in piena sintonia col Movimento 5 Stelle sulle dimissioni della Cancellieri. Nonostante le sue rassicurazioni, cresce il dubbio che il «rottamatore» finisca per provocare una crisi. In quel caso, a dicembre non gli cadrebbe in mano solo un Pd frollato dalla sua terapia d’urto, ma anche un governo ammaccato da difficoltà oggettive e dalle sue continue spallate.

Repubblica 20.11.13
Lo psicodramma dei democratici “L’assemblea è stata un tutti contro tutti”
di Goffredo De Marchis


IL GRAN rifiuto di Gugliemo Epifani. «Non guardate me. Io la faccia non ce la metto. Sono solo un traghettatore». Il tentativo disperato di Dario Franceschini con Annamaria Cancellieri per ottenere le sue dimissioni.
«HO PROVATO a lavorare sull’abbandono volontario del ministro ma c’è l’ostacolo del presidente della Repubblica», confida il titolare dei Rapporti con il Parlamento ai suoi fedelissimi. Alla fine, con un Pd dilaniato dalle manovre congressuali e dai dubbi sul comportamento del ministro della Giustizia, tocca a Enrico Letta giocarsi, ancora una volta, la partita in solitudine. Mettendo in gioco se stesso. «Votare la sfiducia alla Cancellieri significa sfiduciare me e il mio governo. Vado io a parlare alla riunione dei deputati».
È solo la conclusione di una giornata lunghissima. Telefonate di chiarimento, colloqui tesi, sospetti trasversali, questo è il clima nel Partito democratico. C’èuna rabbia profonda che s’insinua nel Pd per le manovre vere o presunte che ne stanno modificando il profilo, la sua classe dirigente. Gianni Cuperlo rompe gli argini e lancia la sua campagna contro Renzi. «Lui fa il furbo fuori da qui. Annuncia documenti via twitter ma non si confronta mai nelle sedi del partito. Poi, ci sono ministri come Franceschini e Delrio che chiedono al Pd di difendere il governo ma sostengono al congresso un candidato che tutti i giorni terremota il governo. Basta con questo giochetto».
Uno psicodramma che nemmeno l’impegno diretto del premier riesce a condurre verso un lieto fine. Finisce con una fragile tregua all’assemblea dei deputati che si svolge durante un temporale. Nessuno sa dire se supererà le 24 ore. «Ormai è tutti contro tutti. Sembra Rollerball. La Cancellieri è un problema, ma il punto è che non sappiamo quale sarà il futuro del Pd e dell’esecutivo», dice un ministro che solitamente sta lontano dalla mischia. Cuperlo riunisce i suoi deputati qualche minuto prima dell’assemblea del gruppo. Molti chiedono un voto «altrimenti Renzi ci frega. Ingoia la comunicazione di Letta ma da domani ricomincia a bombardare noi e il governo». Il renziano Ernesto Carbone, il primo a chiedere le dimissioni della Cancellieri dopo la pubblicazione delle intercettazioni, punta il dito contro i «pierini» bersaniani e dalemiani. «Sono sicuro che al momento del voto sulla mozione di sfiducia alcuni di loro lasceranno l’aula, senza contare che Civati farà casino. Allora se Letta ci chiede un passo indietro, sia chiaro, dobbiamo farlo tutti». Il nodo, sempre di più in vista dell’8 dicembre data delle primarie, è il rapporto tra Matteo Renzi e Enrico Letta, ovvero tra il futuro segretario e l’esecutivo.
Il presidente del Consiglio chiama il sindaco nel pomeriggio. Gli annuncia la sua decisione di presentarsi davanti ai deputati. «Sbagli Enrico. Sbagli a difendere ancora il ministro. Dovresti essere il primo a sollecitare le sue dimissioni», dice Renzi. «Non è possibile — risponde Letta — e chiederò la fiducia su di me, sul mio governo. Mi sembra folle che il Pd si spacchi proprio nel momento in cui a spaccarsi sono quelli dell’altro campo». Sulla fiducia, Renzi alza le mani, si arrende. Ha ottenuto il massimo in fondo. Sta con la base dei democratici e fa in modo che a esporsiin modo acrobatico sia Letta. Politicamente e fisicamente. I conti si faranno dopo. Dopo il 9 dicembre.
Il sindaco è convinto che la storia non finisca qua. Dalla poltrona di segretario del Pd potrà subito ottenere un rimpasto della squadra governativa. Il match con la Cancellieri (e con Napolitano, soprattutto con Napolitano) è rimandato di pochi giorni. Il tempo breve di una campagna già vinta secondo i sondaggi. E il rimpasto che molti vogliono aprire dopo l’8 dicembre potrebbe vedere il cambio della Cancellieri e di Alfano. Dunque, Letta perderà la battaglia combattuta sul fronte del caso kazako e della vicenda Ligresti. La Cancellieri già così, con la quasi totalità del Partito democratico schierata per le dimissioni, appare un ministro, più che indebolito, dimezzato. Il suo piano carceri pronto da un mese, per dire, giace in un cassetto sotterrato dalle polemiche sulle telefonate con la famiglia Ligresi. Quando l’Interno e la Giustizia saranno caselle libere, il neo-segretario avrà voce in capitolo sulla sostituzione. E c’è da scommettere che non si accontenterà più di avere due ministri nella compagine democratica. Avrà altri nomi per rafforzare la presenza renziana in un rimpasto che coinvolgerà tutti i dicasteri e non sarà un passaggio facile per Letta.
Ma già adesso il confronto si fa più aspro. I risultati degli iscritti non lasciano margini a Cuperlo e Pippo Civati: bisogna alzare lavoce ed essere molto più aggressivi. Ci andrà di mezzo l’esecutivo e non sempre Letta potrà essere in prima fila a proteggerlo con il suo corpo. La violenza dell’attacco di Cuperlo a Franceschini e Delrio dimostra che sta cadendo il velo sulla difesa delle larghe intese. Il rush finale verso l’8 dicembre comporterà un coinvolgimento dell’esecutivo e non in senso positivo. Il confronto televisivo tra i tre candidati (dovrebbe essere il 29 novembre) si giocherà molto sul futuro della Grande coalizione. E i tre candidati faranno a gara nello sconfessare la costruzione messa in piedi da Letta e dal presidente della Repubblica. «L’assunzione di responsabilità collettiva sul caso Cancellieri», come la chiama Alfredo D’Attorre, cuperliano, non è detto che sarà stabile e duratura. I passaggi congressuali sono troppo delicati. Il prossimo scoglio sarà la decisione della Consulta sulla legge elettorale. È una tappa su cui, di nuovo, i candidati alla segreteria dovranno esercitarsi prendendo le distanze dalle cautele governative. Per oggi, Letta ha salvato la Cancellieri e se stesso. Ma domani è un altro giorno e l’assemblea dei deputati ha detto che non sarà facile.

Repubblica 20.11.13
La battaglia sul caso del ministro della Giustizia evidenzia lo scontro che si profila all’interno del Pd
Parte il duello tra Enrico e Matteo due eredi della Balena Bianca nella lunga corsa alla premiership
di Filippo Ceccarelli


IN ASSENZA di voti, di conteggi, di vincitori e di vinti, la chiacchiera politica non disdegna interrogativi tanto vani quanto pretestuosi nella loro acuminata malizia. E dunque: se Renzi si fosse trovato al posto di Letta a Palazzo Chigi, avrebbe chiesto al ministro Cancellieri di farsi da parte?
E se invece fosse toccato a Letta di conquistare il Pd, avrebbe il giorno stesso innalzato il livello di guerriglia permanente contro un premier del suo stesso partito?
In altri termini — e qui la questione si fa più complessa — è il ruolo o l’ambizione a determinare i comportamenti? Comunque se ne vedranno delle belle, oppure delle brutte, in ogni caso se ne vedranno e anzi già da ieri se ne sono cominciate a vedere, tra Renzi e Letta, i due galletti del pollaio democratico.
Chi si appassiona ai bestiari del Pdl, falchi, colombe, eccetera, sappia che la tradizione della Dc, la Balena bianca, era ben ricca di animali, galli e capponi appunto, somari, ronzini e cavalli di razza. Ma se invece dell’immaginario della zoologia, si preferisce misurare i due su quello certo meno primordiale dell’utensileria, è bene sapere che Letta si è proclamato alfiere del cacciavite, mentre Renzi ha pubblicamente rivendicato il trapano.
Nulla dice che i due strumenti siano, oltre che entrambi utili, specialmente incompatibili. Ma trattandosi di una faccenda di potere, la sempre meno strisciante rivalità fra il presidente e il sindaco pare destinata a riempire le cronache oltre ogni ragionevole aspettativa. Ma con l’aggravante che ora l’uno ora l’altro, cresciuti alla gran scuola dello scudo crociato, faranno di tutto per dissimularla, a costo di sfidare non solo la verità, ma anche il buon senso.
Su questo esiste già una vasta letteratura che con qualche scrupolo si riporta qui nella sua più spudorata ambiguità, mozziconi d’ipocrisia tipo: «Niente paura, io tifo Enrico»; come pure: «Io eMatteo? Non riusciranno a metterci contro». Ieri, per dire, Matteo ha anche avuto il cuore di sostenere che la caduta, meglio la cacciata di Cancellieri renderebbe il governo «più forte, non più debole». Ma la temeraria valutazione fa il paio con quella espressa qualche settimana fa negli Usa da Enrico, secondo cui «una forte leadership del Pd non lede il governo, ma pensi che gli giovi».
Beati loro. E beata anche l’inutile sequela di patti che Letta e Renzi, animati da spirito costruttivo e buona volontà, avrebbero via via siglato in luoghi quotidiani od impervi, dinanzi a una schiacciatina come in cima alla torre di Palazzo Vecchio.
In realtà una certa praticaccia del comando, e quindi anche delle umane debolezze, porta a considerare che l’uno vuole restare al governo a tutti i costi, e a questo non sempre nobilissimo scopo dedica ogni (anche) inconfessabile sforzo; mentre l’altro scalpita a più non posso, inseguendo i suoi sogni smisurati e intanto coglie qualsiasi (anche) sensata occasione — dai tentennamenti sulla decadenza di Berlusconi alla legge elettorale, dall’Imu all’amnistia, dall’affare Shalabayeva a quello Cancellieri — per mettere i bastoni fra le ruote a Palazzo Chigi.
Perché è lì che vuole andare lui, e spedendo Letta «in Europa», come si sente dire di un astronauta da lanciare in orbita. Tra parentesi, a luglio il presidente del Consiglio si è messo in comunicazione con l’astronauta Parmitano e si è offerto: «Se c’è posto, vengo lassù anch’io». Ma poi, come si sa, è rimasto a Roma, ha «messo la faccia» e «offerto il petto» a favore di Alfano e tante altre belle cose.
La dinamica insomma è abbastanza chiara; il congresso e le primarie di un Pd ormai ridotto a uno straccio paiono il classico diversivo, o al massimo uno specchietto per allodole. Chi è stato alla Leopolda ha capito che Renzi non punta al partito, ma all’Italia. Ieri ha affrontato tali e tanti argomenti (Sardegna, difesa del suolo, lavoro, scuola, Europa, Bce, patto di stabilità, terra dei fuochi, Imu alla Chiesa, omofobia, Porcellum) da prefigurare un vero e proprio programma di governo. Come concessione pop si è prenotato un posto di conduttore tv; ai più colti ha dedicato una citazione (la solita) di Talleyrand; per i più ispirati, tramite Steve Jobs, si prodotto in un richiamo alla pazzia, si spera dimentico dello sventurato luogo comune berlusconiano.
Letta se n’è stato zitto per tutto il giorno. Poi ha parlato e non si è votato. La chiacchiera politica èben lungi dallo spegnersi.

il Fatto 20.11.13
Pippo Civati Candidato alla segreteria
“Partito confuso, Matteo è stato fermo”
di Gianni Barbacetto

qui

l’Unità 20.11.13
Renzi: non avrò vice e non pagherò dazi
Prima a «Vanity», poi su twitter: «Non temo scissioni: perché uno dovrebbe scappare se vinco io?»
di Maria Zegarelli


Per ora punta alla segreteria del Pd, poi a Palazzo Chigi, ma una volta lasciata la politica «mi piacerebbe insegnare, oppure diventare conduttore televisivo, che so... I politici devono sapere che non sono in missione per conto di Dio». Matteo Renzi parla in un’intervista su Vanity Fair, poi nel pomeriggio via twitter «Matteo risponde» in maniche di camicia, volando sui tasti, e a guardarlo tornano in mente prima la frase al vetriolo di Massimo D’Alema, «ci serve un segretario non un bravo dattilografo» e subito dopo il famoso film di Régis Roinsard, «tutti pazzi per Rose».
Risposte articolate per il settimanale, veloci per twitter perché lì i caratteri sono 140 non uno di più e allora «così non c’entra, meglio in quest’altro modo». Ma bastano per rendere il senso di quello che sarà il Pd secondo Matteo. Se sarà segretario manderà in soffitta la figura del «vice» perché «non servono incarichi di consolazione ma un modello di partito diverso. Altrimenti il giochino è che io metto tizio o caio vice-segretario per tenerlo buono». E a chi gli chiede se dopo l’8 dicembre dovrà pagare dazi alla vecchia guardia che lo sostiene risponde che no, non accadrà, «accetto scommesse». Vania vuol sapere che sarà dei «tipi loschi» che frequentano il Pd. Renzi prova ad argomentare ma i caratteri sforano, «mamma mia l’ho fatta troppo lunga», allora sintetizza: «Li facciamo sloggiare». Stop. Si passa alla prossima domanda.
Girerà il partito e il Paese come un calzino, questo lo ha già anticipato, non farà sconti e non pagherà dazio e nessuno. Se teme scissioni? Affatto. «Perché uno dovrebbe andare via? Perché uno dovrebbe lasciare la comunità solo perché vince un’altra persona? Io quando ho perso sono rimasto dov’ero, non sono scappato. Non penso che qualcuno se ne vada, siamo un partito democratico dove si discute e si decide ma non si scappa» argomenta invece il sindaco nella sua Enews settimanale. Parla il giorno dopo i risultati della consultazione interna, dopo aver incassato il 46 e più di consensi anche tra gli iscritti e aver così dimostrato che corpo estraneo non è. Poteva andar meglio? Forse, ma il sindaco adesso mostra soddisfazione: «Che bello il risultato del voto degli iscritti».
Dalla E-news a twitter il sindaco molto «social» ne ha per tutti e ad un certo punto si chiede come mai nessuno sollevi la questione Cancellieri. Questione di minuti, arriva il quesito. Il senso è chiaro ma è meglio ribadirlo: caro Enrico Letta ci devi mettere la faccia, andare alla riunione del gruppo e dire che garantisci tu. O che chiedi la fiducia sulla ministra. «Ma fossi in lui non lo farei». E Letta sa che semmai dovessero venir fuori altre novità sulla Guardasigilli e i suoi rapporti con la famiglia Ligresti nei giorni degli arresti, be’ allora da Firenze il siluro sarà pronto.
Ed è questo il senso della battaglia politica che si sta consumando in queste ore dentro il Pd. Matteo contro Enrico sul caso Cancellieri. Quando diventerà segretario chissà quante volte capiterà ancora che Matteo incalzi Enrico sull’agenda politica. Dalla legge elettorale, «meglio il Mattarellum» che tenersi il Porcellum e speriamo che la pratica della riforma approdi alla Camera, «sarebbe la cosa migliore», alle tasse e le riforme. «Dopo», dopo l’8 dicembre, sarà il pd a dettare l’agenda e non a subirla. Le sue priorità da numero uno del Nazareno saranno: «Lavoro, educazione e quindi scuola, università, ricerca, cultura e Europa», che si tradurranno in tre atti del Pd, «tre proposte al governo». Oltre alla legge elettorale e al dimezzamento del numero dei politici, naturalmente, i suoi cavalli di battaglia di sempre. Altra questione, altra «battaglia culturale» da condurre nella pancia del partito: il garantismo. Non si è colpevoli solo perché si è ricevuto un avviso di garanzia, «un Paese civile, un Paese che cambia verso, è un Paese in cui non basta un’informazione di garanzia per condannare una persona».
Domanda via twitter su Imu (che non c’è più) e Chiesa. Risposta: «Sì all’Imu per gli alberghi gestiti dai religiosi, no agli edifici della Caritas che fanno welfare». Risposta su Vanity Fair sui voti da conquistare alle prossime elezioni: «A me interessa anche il voto di chi ha scelto Lega o Berlusconi per una vita... Il non prendere il voto degli altri, alla fine cosa ha portato? Alle larghe intese». Quindi, basta puzza sotto il naso, pratica sempre in voga nella sinistra italiana durante il ventennio berlusconiano.
E mentre Renzi risponde in diretta alle domande, il fake di Gianni Cuperlo se la gode. Organizza in contemporanea una contro-programmazione: #HadettoDAlema.. che vai a fare la spesa all’Esselunga invece che alla Coop. Confermi?” E ancora: #HadettoDAlema che a scuola rubavi la merenda ai compagni di sinistra. Confermi?”.
Le domande vere, invece, riguardano l’Europa, la Bce, la Fiat, gli stipendi d’oro. Carne viva e sanguinante nel Paese. Si alla Bce come banca centrale europea, dice l’aspirante segretario, ma no alla politica europea nelle mani dei burocrati. Rivedere l’intero sistema di retribuzione dei premi e taglio degli stipendi per i manager pubblici «secondo una regola olivettiana: si può prendere al massimo dieci volte quello che prende l’ultimo lavoratore». Pippo Civati prova a chiamarlo al telefono. Nessuna risposta. Meglio un cinguettio: «Ti ho chiamato, ma forse eri su Twitter. Se hai un minuto, mi richiami prima di discussione su caso Cancellieri?». Tutti pazzi per twitter.
Matteo Renzi FOTO LAPRESSE

il Fatto 20.11.13
Renzi: “Non voglio vice” Ma fa il pieno con i ras
Il rottamatore vince le primarie tra gli iscritti con i voti dei capibastone
Boom newlla città di Salerno: 97, 1 per cento
Ma su Twitter svicola
di Luca De Carolis


Il primo tempo l’ha vinto il fu rottamatore, e non era scontato. Ma viene da chiedersi a quale prezzo: soprattutto se vorrà dilagare l’otto dicembre, quando gazebo e circoli saranno aperti a tutti i cittadini. Matteo Renzi ha vinto la prima fase delle primarie del Pd, quella riservata agli iscritti, e via Twitter annuncia già che non farà prigionieri: “Non ci sarà un vicesegretario. Non servono incarichi di consolazione, ma un modello di partito diverso”. Per poi promettere: “Non pagherò dazi alla vecchia politica, accetto scommesse”. I dati diffusi da San-t’Andrea delle Fratte (ancora non definitivi) parlano di oltre 310 mila votanti. Renzi è primo con il 46,7 per cento, davanti a Gianni Cuperlo (38,4 per cento), Giuseppe Civati (9,2) e Gianni Pittella, che con il suo 5,7 non accede alla seconda fase (dovrebbe convergere su Renzi). Il sindaco di Firenze ha vinto in 14 regioni su 20, sfondando anche al Sud, dove nella sfida con Bersani per la premiership del 2012 aveva pagato dazio.
UN CAMBIO di verso, per citare lo slogan della sua campagna, su cui ha inciso parecchio il sostegno dei ras locali. Caso esemplare, la Campania, dove l’anno scorso Bersani lo aveva più che doppiato. Questa volta Renzi ha fatto incetta di voti: il 52 per cento, a fronte del 33 di Cuperlo. Un boom, nella regione con il maggior numero di votanti: 53 mila, il doppio dell’Emilia Romagna. Insomma, al sindaco che prometteva tabula rasa di tutti i dinosauri dem sono serviti, eccome, i voti e le lodi pubbliche di “giovincelli” come il sindaco di Salerno e sottosegretario alle Infrastrutture, Vincenzo De Luca, e l’ex primo cittadino di Napoli, Antonio Bassolino. Proprio la Salerno dell’eterno De Luca è la città più renziana d’Italia, con il 97,12 per cento per il sindaco fiorentino (fonte, il Pd locale). Nel dettaglio: Renzi ha preso 2566 voti, Cuperlo 50. Il comitato Cuperlo ha presentato ricorso al partito nazionale contro il risultato, ancora sub judice, e protestato ad altissima voce. C’è chi dà per imminente l’apertura di un fascicolo in procura sul caso. Si passa in Sicilia, e si trovano altri renziani nuovissimi. Certo, c’è Enna, dove Mirello Crisafulli ha portato in dote a Cuperlo il suo dominio bulgaro. Ma c’è anche Messina, dove il luogotenente siciliano di Renzi, Davide Faraone, ha accettato l’intesa su un unico candidato alla segreteria provinciale, Basilio Rodolfo. Soluzione benedetta dal deputato Francantonio Genovese: signore delle preferenze, indagato per associazione a delinquere per peculato e truffa, finalizzati al conseguimento di erogazioni pubbliche. Nell’isola Renzi ha perso: ma rispetto al 2012 ha guadagnato parecchi punti. Ha vinto invece in Puglia, dove si è convertito al renzismo persino Nicola Latorre, ex dalemiano di stretta osservanza. E dove i congressi sono stati agitati (a Lecce hanno dovuto mandare un commissario). Ma tanti notabili hanno scelto Renzi anche al Nord. Per esempio a Torino, dove Renzi ha vinto di diversi punti su Cuperlo.
UN SUCCESSO anche della filiera formata dal sindaco attuale Piero Fassino, e dal suo predecessore Sergio Chiamparino, da qualche giorno indagato per abuso in atti di ufficio. Con queste cifre legittimo porsi domande , anche in prospettiva otto dicembre. In Sicilia, per dire, tanti del Pdl si sono già reinventati renziani: dal sindaco di Agrigento Marco Zambuto all’ex vicecapogruppo a Palermo, Stefania Munafò. Che ne pensa Renzi? Finora la risposta facsimile era: “Sul carro non si sale, si spinge”. Ieri, nella diretta Twitter, molti l’hanno pungolato: “L’appoggio di personaggi discutibili nel Pd non le provoca imbarazzo?”. E Renzi è andato in slalom: “Io vado avanti per la mia strada”. Poi, rassicurazione: “Pd o non Pd, i loschi li facciamo sloggiare, lo prometto”. Sullo sfondo, l’ombra scissione: “Quando ho perso non sono scappato e non credo avverrà se vinco io. Siamo un partito democratico, dove si discute e si decide ma non si scappa”. Al limite si tratta.

il Fatto 20.11.13
Renzi e i suoi, ragazzotti yankee fuoriusciti dalle catacombe
di Alessandro Robecchi


C’è un problemino mica da ridere con i leader vincenti. Ed è rappresentato dai seguaci entusiasti dei leader vincenti. Ora, la faccenda si presenta annosa e di difficile soluzione, tipo l’uovo e la gallina, per intenderci. Sarà meglio Grillo o i grillini? Meglio un leader populista per sua stessa ammissione o certi suoi zelantissimi seguaci? È una dura battaglia. Meglio Renzi o certi arditi renziani che sembrano pronti al salto nel cerchio di fuoco col coltello tra i denti? Anche qui, partita aperta.
Giù il cappello al vincitore, in ogni caso. Con una buona maggioranza anche tra gli iscritti al partito, Renzi si prende il Pd a pieno titolo. Giro di campo, bacio accademico, eccetera eccetera. Ma proprio nel giorno della consacrazione, ecco qualche tono un po’ sopra le righe dai suoi tifosi. Si sa, la curva è la curva, dagli ultras non ci si aspetta che agitino il galateo invece della bandiera. Però c’è un grandinare di livore che lascia perplessi. “Ora fate gli scatoloni!”, dicono beffardi alla leadership uscente. “Ci credo solo quandolivedo!”,ribattequalcuno.Epoigiù col repertorio noto: via il vecchiume, via i cattivi che arriviamo noi buoni. Via quelli che hanno distrutto il partito, ora ci siamo noi che lo facciamo vincere! Eccetera eccetera. Si capisce l’entusiasmo, ma un pochino, forse, anche no. I toni sono quelli degli schiavi liberati, dei primi cristiani che escono dalle catacombe e guardano il sole, comprensibilmente entusiasti e burbanzosi. Un filmone americano, dove i poveri ragazzotti yankee liberati dai terribili campi vietcong non vedono l’ora di imbracciare il mitra per fare giustiziae ripristinare i giusti valori. Ecco, amigos, calma. Renzi non è esattamente un reietto confinato in un campo di lavoro cinese che finalmente si libera dal giogo della dittatura. È il sindaco di una grande città, prima era il presidente di una grande provincia.
Il suo inner circle (scusate la parolaccia: vuol dire il suo entourage più stretto) è composto da amministratori, politici di lungo corso, presidenti di enti, finanzieri, imprenditori più o meno illuminati. Ha un correntone di oltre quaranta deputati dato in impetuosa crescita. Insomma, abbastanza confortevoli, come catacombe. Si aggiunga che ad alcuni dei suoi più zelanti interpreti capita di pisciare fuori dal vaso, tipo il finanziere Davide Serra che (testuale alla Leopolda) dice di sentirsi italiano di serie B, mentre i pensionati a mille euro al mese sarebbero italiani privilegiati di serie A. O la senatrice Nadia Ginetti che invoca come modello Margaret Thatcher (e perché non Reagan? Perché non Bush padre e figlio?). Dunque, detto che tutto è giusto e regolare e persino prevedibile, e che il Pd da domani si chiamerà Renzi, suggerirei una ragionevole limatura di toni e parole, perché si rischia di somigliare pericolosamente ai craxisti della prima ora, quelli che si atteggiavano a schiavi liberati da chissà quale oppressione, destinati a costruire un luminoso, arrogantello e vendicativo futuro (poi s’è visto, tra l’altro...). Insomma, calma e gesso. Essere decisionisti è una gran bella cosa, ma dipende da cosa si decide. Cacciare i dinosauri è una gran bella cosa, purché chi li caccia non somigli a un più feroce, veloce, vorace e giovanile velociraptor. Insomma, saper vincere è importante come e più di saper perdere. Sicuramente Renzi lo sa. Se riuscisse a spiegare a certi suoi zelantissimi seguaci che battere Cuperlo, D’Alema ed Epifani non è come abbattere Bokassa sarebbe cosa buona e giusta.

l’Unità 20.11.13
Cuperlo: la sinistra non si fa rottamare
L’offensiva parte dai temi del lavoro: «Il Pd stia dalla parte di chi paga di più la crisi, non ha tutele, porta il peso della disuguaglianza»
E a Renzi: da che parte stai?
di Simone Collini


Da che parte stai? È su questa domanda che Gianni Cuperlo incalzerà Renzi da qui alle primarie: attaccando il sindaco per gli apprezzamenti alla legge Fornero, per l’offensiva al sindacato, per l’amicizia col finanziere Davide Serra, per le ricette economiche e sul mondo del lavoro troppo simili a quelle neoliberiste che già si sono dimostrate dannose sia dal punto di vista monetario che sociale.
Dopo che il congresso tra gli iscritti è finito con la vittoria di Renzi 46,7% a 38,4%, Cuperlo ora ha come obiettivo quello di evitare che il favorito prenda il volo alle primarie. E la strategia pianificata ruota tutta attorno a una parola: sinistra. Nei giorni che mancano all’8 dicembre, lo sfidante del sindaco lavorerà per polarizzare il confronto, radicalizzando le posizioni e caratterizzandosi come l’alternativa a Renzi, insistendo sul fatto che il Pd deve difendere gli interessi dei più deboli e non mostrarsi equidistante tra posizioni che sono necessariamente in conflitto.
«Non possiamo piacere a tutti», è il concetto su cui insiste nei colloqui di questi giorni, citando come esempio negativo le candidature alle elezioni del 2008 «di un operaio della Thyssen e di un falco di Federmeccanica»: «Il Pd deve rappresentare chi sta pagando di più la crisi, chi non ha tutele, chi porta il peso della disuguaglianza sociale». In una parola, deve essere di «sinistra», perché «senza la sinistra il Pd non è». E l’ottimismo sulla «partita del tutto aperta» deriva dal fatto che dal voto tra gli iscritti, dice Cuperlo, esce una sinistra «viva e vitale» che non scomparirà dopo l’appuntamento ai gazebo.
Il primo confronto diretto con Renzi sarà alla convenzione nazionale del Pd, in programma domenica all’Ergife di Roma, e poi ci sarà la sfida televisiva, con anche Pippo Civati, il 27 su Sky (dagli studi di X Factor). Cuperlo (che ieri ha chiamato il premier Letta per parlare del dramma che ha colpito la Sardegna) è convinto che in questi giorni il suo messaggio potrà raggiungere un pubblico più vasto di quello a cui si è potuto rivolgere finora, e che anche l’8 dicembre potrebbero essere smentiti i tanti sondaggi comparsi in queste settimane. «La mia mozione ha ottenuto tra gli iscritti al Pd un risultato importante, imprevisto, per certi versi clamoroso», dice il giorno dopo la comunicazione dei dati registrati nei circoli. «Questo congresso era stato descritto per Renzi come una autostrada con un esito e una destinazione già segnati ricorda parlando a Uno mattina a luglio mi davano al 2%, a settembre al 14%, basta guardare i giornali e sondaggi delle scorse settimane, e invece è stato un testa a testa».
Il 38,4% comunicato l’altro giorno dal responsabile Organizzazione Davide Zoggia potrebbe essere rivisto al rialzo una volta che si chiuderà la polemica sui congressi della provincia di Salerno e di altre zone dove Renzi ha ottenuto risultati “bulgari” (non a caso il sito web del Pd dà ancora i dati comunicati lunedì come «provvisori»). Dice Cuperlo: «Il 40% dei consensi, alla fine i numeri saranno questi, ci dice che c’è spazio per una sinistra che sappia fare del rinnovamento e del cambiamento la chiave della sua azione». E la vittoria di Renzi? Lo sfidante del sindaco guarda il risultato del voto tra gli iscritti da un altro punto di vista: «Per la prima volta il candidato che partiva favorito alle primarie del Pd non arriva al 50%. La nostra proposta vince nelle grandi città, a Roma, a Milano, a Bari, a Genova, a Bologna, a Napoli, solo per citarne qualcuna: sono le aree dove si concentra il voto di opinione». Un tipo di voto che peserà quando un più vasto elettorato andrà ai gazebo, l’8 dicembre. Radicalizzare lo scontro è la carta che Cuperlo intende giocare per impedire a Renzi la volata. E un assaggio lo dà subito: «Io mi auguro che si discuta di cose concrete dice attaccando le ultime uscite del sindaco di Firenze e non è accettabile che si descriva una sinistra, che oggi esprime, ad esempio, le più alte cariche istituzionali, come distrutta e perdente. Non è così».
Anche la prima iniziativa messa in agenda il giorno dopo la comunicazione del voto tra gli iscritti dà l’idea di quella che sarà la campagna di Cuperlo, da qui alle primarie, e di quali saranno i temi su cui più insisterà: un incontro nella sede del Pd con un gruppo di esodati, a cui segue una conferenza stampa insieme al presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano per presentare una serie di proposte riguardanti il lavoro giovanile e il sistema pensionistico. «Abbiamo impostato la campagna sulla concretezza e continueremo su questa linea fino all’8 dicembre perché è giusto confrontarsi facendo emergere le differenze», spiega il candidato alla segreteria. E se il suo avversario si è lanciato nella sfida politica nazionale, ormai qualche anno fa, cavalcando la parola «rottamazione», Cuperlo indica la necessità di un percorso inverso dicendo che bisogna «recuperare parole rottamate». In testa c’è «piena e buona occupazione». «Dobbiamo chiudere la pagina vergognosa degli esodati e affrontare il dramma della povertà». Le ricette che propone parlano di maggiore flessibilità per l’accesso alle pensioni, di concentrare la riduzione del cuneo fiscale sui redditi medio-bassi, del rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e del fondo per i contratti di solidarietà, di estensione degli ammortizzatori per tutti i lavori, di definizione dell’equo compenso. Ed è su questo terreno che vuole giocare la partita con Renzi.

Repubblica 20.11.13
I cuperliani contro il sindaco De Luca
Bufera a Salerno “A Matteo un voto ogni 15 secondi”
di Roberto Fucillo


NAPOLI — Un voto ogni 15 secondi. È il caso limite fra quelli denunciati dal comitato Cuperlo. Riguarda uno dei circoli di Salerno città: 1401 voti a Renzi, 33 a tutti gli altri; sei ore di apertura delle urne, dalle 15 alle 21; risultato: un votante sbrigato ogni 15 secondi. Con casi come questo la seconda città campana è diventata ufficialmente il fronte della guerra congressuale del Pd. Tanto che il ricorso dei cuperliani, che chiedono l’annullamento dell’intero verbale provinciale, verrà discusso oggi dalla commissione di garanzia nazionale. Mentre a Salerno negli ambienti del partito si teme anche l’apertura di un fascicolo in Procura.
Non è contestabile in sè il successo di Renzi, che in Campania raccoglie il 51,8 per cento, seconda prestazione assoluta dopo il 53,6 delle Marche. Ma il «granaio» salernitano non è roba da poco: quasi 13mila votanti, pari a circa il 4 per cento dell’intero corpo votante nazionale. E nel capoluogo i voti superano quota 2600. Rapportata ai voti conseguiti dal Pd per la Camera nel febbraio scorso, la statistica cittadina corrisponde all’11,25 per cento e quella provinciale al 9,5. La media nazionale dei votanti delle primarie rispetto alle politiche è invece del 3,6 per cento.
Insomma, a Salerno si vota tre volte di più che nel resto del paese. E il risultato è sempre bulgaro. Perché, come ricorda su Facebook lo stesso sindaco del capoluogo, il viceministro Enzo De Luca, a Salerno nel 2009 Bersani prese il 71 per cento, e ora Renzi è al 71,3. «Allora?», chiede provocatoriamente De Luca, come a voler dire che non c’è scandalo, non è cambiato nulla, il Pd è sempre quello, il suo. Finchè ha scelto Bersani non c’è stato problema per l’ex segretario. Ora tocca a Renzi: 71,4 per cento in provincia, addirittura 97,1 in città.
La sortita di De Luca suscita commenti degli internauti sul sito non privi di sarcasmo. C’è chi domanda: «Pure lei è diventato renziano? Trasformismo a 360 gradi». E chi rileva: «Vuol dire che al posto del giaguaro bisogna smacchiare il gattopardo». Ma De Luca non arretra: «C’è qualche lamentela, ma l’unico vero motivo di contestazione è il mancato gradimento del voto, e non sembra un argomento». E, proprio come un Renzi del sud, lui ormai ha l’intero establishment nazionale nel mirino: «L’avete visto Zoggia che comunicava i dati? Era vestito come un raccoglitore di funghi. Servono altre spiegazioni?».


il Fatto 20.11.13
Dal V-Day ai dissidenti, il guaio soldi per i 5 stelle
Il flop in Basilicata (9 per cento) e i preparativi per l’evento di Genova
Parlamentari assenti e colletta a rilento
I ribelli accusati di “castite”
di Paola Zanca


Succede”. Lo diceva Beppe Grillo, cinque giorni fa, dai palchi di Potenza e Matera. Intendeva dire che sì, può succedere il miracolo. Ma per ora, il massimo successo, è quello di aver eletto due consiglieri in Basilicata. La lista Cinque Stelle si ferma al 9 per cento, i voti al candidato presidente Piernicola Pedicini arrivano al 13. E sul blog di Beppe, stavolta, nemmeno una riga. Lascia parlare alcuni deputati e senatori, che ripetono la teoria già elaborata per le regionali in Trentino Alto Adige (gli eletti furono 3): non si possono paragonare le elezioni locali alle politiche. “Ci sarà sempre una parte di cittadini che andrà a votare per interessi personali e clienterali”, dice la lucana Mirella Liuzzi. Angelo Tofalo festeggia: “Siamo entrati! In soli 4 anni siamo entrati anche in Basilicata!”. “Al netto delle colpe e degli errori che tutti noi possiamo fare - chiude Giuseppe D’Ambrosio - le analisi tragiche sono completamente errate”.
IL PROBLEMA è l’astensionismo, quel 53 per cento di elettori che non si è presentato alle urne. Presumibilmente, in parte sono persone che alle politiche di febbraio votarono il Movimento (che arrivò al 24 per cento) e che stavolta sono rimaste a casa. “Indubbiamente è una vittoria del sistema, della macchina”, dice il senatore Maurizio Buccarella. Ma forse è anche negli ingranaggi dei Cinque Stelle che qualche cosa si è inceppato.
Grillo, venerdì scorso in Basilicata, era accompagnato da una ventina di parlamentari. Metà di loro, fanno parte di quello che gli altri eletti non esitano a chiamare “il cerchio magico”. Sono quelli ammessi a partecipare al corso di comunicazione televisiva, quelli invitati a sedere al tavolo di Grillo quando capita a Roma, quelli che anche domenica prossima, primo dicembre, potranno avvicinarsi al microfono del V-day di Genova. Sarà quella la grande prova dei numeri, al di là degli ultimi deludenti risultati elettorali. Hanno scelto piazza della Vittoria, a Genova. È più grande di San Giovanni a Roma, ma l’hanno fatto apposta perché vogliono dimostrare che possono “riempire la piazza più grande d’Italia”. Capienza stimata, un milione di persone. Dallo staff giurano che preoccupazione per i pullman in arrivo non ce n’è. Piuttosto, ammettono, sono i soldi che scarseggiano. Era stato chiesto ai parlamentari un contributo di circa 100 euro a testa, ma la risposta è stata no: preferiscono darli alle manifestazioni sul territorio, spiegano, senza celare un po’ di risentimento perchè a molti di loro, l’invito per Genova, non è mai arrivato. Si è aperta una sottoscrizione sul blog: ma la raccolta fondi è ferma a 200 mila euro. Si pensava di raccoglierne almeno centomila in più, assicurando che eventuali rimanenze (San Giovanni costò 52 mila euro) sarebbero state usate per le prossime Europee. Cifre lontanissime, comunque, dalle somme raccolte a febbraio, quando le donazioni sfiorarono gli 800 mila euro. Per questo, ieri, il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, ha lanciato il suo appello: “Ho fatto la mia donazione per il V-3DAY come le volte scorse. Abbiamo già raccolto 200.000 euro e mancano ancora 10 giorni. Raggiungerò Genova in pullman con gli attivisti. Ci vediamo in piazza il primo dicembre Chi non viene è un ‘grillino’!”.
AL MOVIMENTO i soldi servono, anche perché hanno rifiutato i 42 milioni di euro dei rimborsi elettorali e restituito la parte di diaria non spesa. Presto ci sarà il secondo Restitution day: al primo (a luglio) è stato reso allo Stato un milione e mezzo di euro. Stavolta non è detto che si raggiunga la stessa cifra. C’è di nuovo malumore, sui soldi. E le nuove voci di scissione al Senato (dovrebbe arrivare un documento dei ribelli) vengono attribuite alla scadenza imminente. Riccardo Fraccaro accusa i colleghi malpancisti di “casti-te”. Francesco Campanella replica: “È mai possibile che alcune persone riescono a ragionare solo in euro?”. Eppure c’è già - a cominciare dalla dissidente Laura Bignami - chi ha detto che il prossimo bonifico lo destinerà ad altre associazioni. La scadenza è martedì.

Repubblica 20.11.13
I grillini contrari a nuovi stanziamenti per la fondazione Di Vagno: “E se poi usano i soldi per convegni su Craxi?”
Premio alla memoria del Matteotti del sud
Stop dei 5Stelle: “Via la parola socialista”
di Concetto Vecchio


ROMA — Giuseppe Di Vagno, il Matteotti del Sud, freddato da sicari fascisti nel 1921? Meglio non specificare che era socialista. E la parola socialismo forse è il caso di sostituirla con la seguente perifrasi «cultura sociale, economica, ambientale». Quando i due emendamenti, a firma Movimento 5Stelle, arrivano sul tavolo della Commissione cultura della Camera, dove in questi giorni si discute della proposta di legge che istituisce un premio in onore del martire antifascista, i commissari fanno un balzo sulla sedia. «Li pubblichiamo su Facebook, così gli italiani sanno di che pasta siete fatti», li affronta un componente. «Modifiche che gridano vendetta» salta su il proponente, Marco Di Lello, socialista eletto nelle file del Pd. E ci va giù pesante: «Evidentemente i germi del fascismo sonopresenti anche nel nostro Parlamento: solo degli ignoranti possono disconoscere il livello della Fondazione Di Vagno. Due anni fa, per il novantesimo anniversario della morte, alla cerimonia presenziò il presidente Napolitano».
Il titolo della legge recita: «Istituzione del “Premio biennale di ricerca Giuseppe Di Vagno” e disposizioni per il potenziamento della biblioteca e dell’archivio storico della Fondazione Di Vagno per la conservazione della memoria del deputato socialista assassinato il 25 settembre 1921». Ecco, i grillini hanno presentato un altro emendamento che propone di sopprimere le parole «per la conservazione della memoria del deputato socialista assassinato il 25 settembre 1921», cancellando ogni riferimento storico-politico.
Che senso ha? Il capogruppo del Movimento, Luigi Gallo, 36 anni, meridionale come Di Vagno, insegnante in un istituto professionale di Portici, prima che l’onda dell’antipolitica lo catapultasse tra i banchi di Montecitorio, non nasconde il suo imbarazzo: «Vede, con questi premi si parte da un fine nobile e si finisce semprenella deriva dello spreco di denaro pubblico. Siamo contrari a dotare la Fondazione di 100mila euro, visto che ne riceve già 25mila dal ministero, in secondo luogo non è giusto istituire un premio di 40mila euro: gli emendamenti hanno finalità ostruzionistica,non vogliamo riscrivere la storia, né infangare la memoria di Di Vagno».
Ma è esattamente questo il punto: una battaglia contro gli sprechi diventa un insulto alla storia d’Italia. Puntualizza Di Lello. «Non vogliamo offrire alibi a queste persone, si può discutere dell’entità del fondo, prevedere dei saggi esterni nella giuria, ma quei i fondi servono: per la biblioteca e la catalogazione dei testi e per offrire delle borse di studio a giovani ricercatori impegnati nella tutela della memoria storica». Allora, incalzato, Gallo aggiunge altri due motivi di contrarietà: il presidente della Fondazione ebbe guai con la giustizia, «ne uscì solo grazie alla prescrizione». E poi, stoccata finale, «che ne sappiamo se i soldi saranno utilizzati per iniziative sulla storia del Psi, tipo un convegno su Craxi?».

l’Unità 20.11.13
Napolitano, auguri alla «quercia» Ingrao
Il messaggio del Capo dello Stato allo storico esponente della sinistra che compie 99 anni e che gli scrisse dopo il reincarico
Tra i due un rapporto affettuoso e dialettico
di Marcella Ciarnelli


Scambio di parole affettuose tra due grandi vecchi della sinistra italiana che la loro vita politica l’hanno tutta vissuta dalla stessa parte ma senza rinunciare mai al confronto e alle loro idee, anche contrapposte.
Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che ha accettato di restare al suo posto nell’interesse di un Paese in evidente difficoltà, ha scritto a Pietro Ingrao che si avvia a compiere 99 anni, una età che da tempo gli ha fatto lasciare la prima linea della politica ma che non lo ha fatto rinunciare a «volere la luna».
«A te penso come magnifica quercia sempre vicina ai tuoi cari e a quanti come me ti vogliono bene» ha scritto Giorgio a Pietro mandandogli «un abbraccio e un augurio affettuoso» nel messaggio con cui il Capo dello Stato ha deciso, il 21 ottobre scorso, di ringraziare per le due pubblicazioni «tratte dal meritorio lavoro di Alberto Olivetti e Maria Luisa Boccia», i curatori della Collana Carte di Ingrao, l’iniziativa editoriale di Crs ed Edisse i cui primi titoli sono Lezioni per Pietro Ingrao e La Tipo e la notte.
Le prime due pubblicazioni sono state compilate attingendo al ricco archivio di Ingrao, custodito a Roma presso il Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato, e contengono scritti del principale protagonista ma anche dei suoi interlocutori e corrispondenti.
Il messaggio del Capo dello Stato allo storico esponente della sinistra che compie 99 anni e che gli scrisse dopo il reincarico Tra i due un rapporto affettuoso e dialettico
Il presidente ha scritto. Ingrao, molto contento per l’affettuoso messaggio, ha risposto ringraziando per l’attenzione colui con il quale, nei lunghi anni di militanza nel Pci, non aveva avuto rapporti facili. Ma con cui aveva condiviso l’impegno di una generazione che ha dato un contributo determinate ad un pezzo importante della storia democra-
tica del Paese. L’uno, Ingrao, il padre della sinistra comunista; l’altro, Napolitano, l’erede di Giorgio Amendola, il leader dell’ala moderata e riformista.
Nei mesi scorsi c’era stato un altro messaggio. Questa volta a scriverlo fu Pietro Ingrao che nelle ore convulse del dopo voto, nel momento in cui la politica dovette piegarsi alla evidente incapacità a individuare il successore di Napolitano e dovette chiedergli di restare, non rinunciò a mandare al presidente che restava al suo posto un telegramma di auguri e di incoraggiamento. Accettare il nuovo incarico come un’altra prova dell’impegno e della fatica che chi crede davvero nella politica non rinuncia mai a portare avanti.

il Fatto 20.11.13
Vendola, gran consiglio contro il Fatto: “Hanno montato tutto”
Puglia, assemblea regionale dopo le intercettazioni in cui il governatore rideva con il factotum dell’Ilva
L’opposizione non presenta la sfiducia. Lui: “Telefonata ritoccata”
di Antonio Massari


Non è tanto l’attacco di Nichi Vendola a stupire. Non – almeno – quanto la pochezza delle argomentazioni che ieri hanno tenuto in ostaggio per circa 8 ore il consiglio regionale pugliese. Un consiglio regionale straordinario, indetto dopo le polemiche suscitate dalla pubblicazione, su ilfattoquotidiano.it  , dell’intercettazione tra Vendola e il dirigente dell’Ilva Girolamo Archinà. Vendola si presenta con un pamphlet di 23 pagine più un centinaio di allegati – il suo discorso – che leggerà riga per riga. Poi nell’intervento conclusivo accusa: “La telefonata pubblicata sul web è stata montata: le parti finali sono state spostate all’inizio e il tempo della mia risata è stato allungato”. Certo, la telefonata è stata montata, ma soltanto per renderla più fruibile agli ascoltatori. Ma non è stato manipolato né enfatizzato alcun silenzio. Non è stata allungata alcuna risata. Se non bastasse, ilfattoquo  tidiano.it   ha pubblicato - nella stessa pagina - l’intercettazione integrale: invitando i lettori ad ascoltarla. Vendola però omette questi “dettagli”. E nessuno – né dell’opposizione, né della maggioranza – intende ricordarglieli. Anzi. Anche Michele Losappio - capogruppo di Sel - dimentica un paio di dettagli fondamentali, nel suo discorso di 20 minuti, quando al termine parla del “ruolo della stampa”: lo scoop de ilfattoquotidia  no.it   si trasforma, nel suo vocabolario, in una “una cosa organizzata da estremisti grillini”.
FORSE, dato il suo linguaggio, dovrebbe interrogarsi su se stesso: sul ruolo della politica nei confronti della stampa libera. E non solo: dovrebbe ricordare che, in seguito alle nostre inchieste sul Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, in un post ha invitato a non comprare più il Fatto perché è scritto da “falsi amici”. Se questo è il taglio della discussione, dai banchi della maggioranza, la sostanza non cambia quando parla l’opposizione. Mai – in ben 8 ore di interventi – s’è discusso del tema centrale che, grazie all’intercettazione pubblicata da ilfat  toquotidiano.it  , il consiglio regionale avrebbe dovuto porre al centro del dibattito: la questione politica legata alle parole di Vendola. È opportuna – politicamente – la sua confidenza con il dirigente Ilva Nicola Archinà? È opportuno – politicamente – il suo tono confidenziale? Sono opportune – politicamente – le risate con Archinà, che aveva “s c i ppato” il microfono a un giornalista che, doverosamente, chiedeva ai Riva di rispondere sull’incidenza dell’Ilva nei tumori a Taranto? L’unico a dare una risposta politica è stato l’assessore al lavoro Leo Caroli: “Le relazioni industriali sono fatte di relazioni umane, che si realizzano anche con telefonate di questo tipo, per inseguire gli interlocutori, portarli a un dibattito e raggiungere l’obiettivo”. Si può non essere d’accordo, certo, ma Caroli ha discusso l’unico vero tema da discutere. Invece la sfiancante seduta s’è dilungata su ben altro: il pamphlet di 23 pagine (più un centinaio di allegati) per dimostrare il corretto ed efficace operato della sua giunta dal 2005 a oggi. L’accusa – senza nominarli – ad alcuni ambientalisti: “legati solo alla loro bandiera”. Vendola si dice vittima di una “b o l-la diffamatoria”. E se risulta un “gigante” è anche per i “nani” che gli siedono attorno: passano le ore ma non si capisce il senso di un consiglio regionale in cui l’opposizione non presenta una mozione di sfiducia e la maggioranza non si conta (votando la fiducia). Resta un rosario di interventi surreali: Francesco Damone, del Gruppo misto, parla addirittura di “intercettazione estorta mentre vige ancora il segreto istruttorio. Oggi Vendola capisce quanto sia grave, per un uomo politico, subire un’i ntercettazione. Non sarà il Fatto a uccidere la democrazia per i suoi interessi. Non può essere un pm a mettere in ginocchio le istituzioni”. Giammarco Surico, Pdl: “La storia di un uomo non può dipendere solo da un’intercettazione telefonica. So che Vendola era angosciato dalla questione ambientale e occupazionale”. Salvatore Negro Udc: “Rispetto all’atto di togliere un microfono a un giornalista, ognuno può avere un atteggiamento diverso (il consigliere mostra solidarietà al giornalista, ndr) ma siamo al gossip giudiziario dell’informazione, all’uso delle intercettazioni per proporre nuovi salvatori della Patria”. Donato Pellegrino gruppo Misto: “Se si ascoltassero le telefonate di ciascuno di noi quante volte si dovrebbero chiedere le dimissioni? La verità è che Vendola, il “rivoluzionario gentile”, s’è misurato con la realtà, con gli Archinà di turno, è la sua maturazione, una maturazione che porta turbamenti. Non apprezzare questo percorso significa fare politica in modo dozzinale”. C’è persino chi parla di “metodo Boffo” o chi, come Michele Mazzarano (Pd) spiega all’opposizione: “Con il processo alla telefonata non andrete molto lontano: andrà lontano Bonelli o Grillo. Sul piano politico, non si deve andare verso un processo alla telefonata, ma giudicare i progetti politici”. Invito inutile giacché è lo stesso Antonio Scianaro del Pdl a sgomberare il campo dai dubbi: “Non voglio inseguire né le telefonate, né Bonelli, né Grillo: qui non sono necessarie scuse, ma azioni, per risolvere la questione tarantina”.
QUINDI VENDOLA riprende la parola per spiegare che se rideva, in quella telefonata, era solo per la sudditanza che Archinà mostrava nei confronti dei Riva. Ecco. Quando i giganti si confrontano con i nani finisce che cambiano aspetto perché, com’è noto, i nani si circondano di ballerine.

il Fatto 20.11.13
L’inchiesta
Archinà, Manna e gli uomini di Nichi
di Sandra Amurri


Le quasi 500 carte dell’ordinanza dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari consegnate ai 53 indagati, compreso Vendola, e le migliaia di file tra sms e telefonate appare regalano la fotografia del sistema messo in piedi dall’ex operaio assurto a dirigente tuttofare dell’Ilva Girolamo Archinà che si reggeva sulla benevolenza di politici nazionali e non, esponenti istituzionali, sindacalisti, giornalisti e sacerdoti. Onofrio Introna, socialista storico passato a Sel, attuale presidente del consiglio regionale, la vigilia di Pasqua scrive ad Archinà per fargli gli auguri e a seguire: “Ringrazio per il prezioso sostegno alla mia rielezione”.
SIAMO ALLE ELEZIONI regionali del 2010 per Archinà un filo prezioso per tessere la sua tela. Archinà si incontra con Michele Losappio, attuale capogruppo di Sel, ex assessore all’ambiente nel primo governo Vendola. Non gli va giù lo spot che descrive l’Ilva causa di tutti i mali di Taranto, scelto da Alfredo Cervellera di Sel per la campagna elettorale. Poi Cervellera gli invia due sms elettorali: “Ti ringrazio di tutto ciò che hai fatto e farai per me con affetto Alfredo Cervellera” e “domenica 28 e lunedi 29 vota e fai votare Vendola, il suo Partito Sel con Vendola e se vuoi invita famigliari e conoscenti a scrivere sul rigo Cervellera”. Vendola vince e nomina assessore all'ambiente il magistrato Lorenzo Nicastro e ad Archinà non piace e se ne lamenta al telefono con il deputato del Pd Ludovico Vico. L’indomani tocca a Losappio “sono preoccupato dell’incarico a Nicastro” in quanto è dell’Idv che a Taranto hanno un “pazzo” che rema contro l’Ilva. Losappio lo rassicura promettendogli che da fuori della giunta seguirà tutto come se ne facesse parte e Archinà lo ricambia con la sua speranza che venga eletto presidente della Commissione Ambiente. Losappio risponde che si vedrà e aggiunge che il solo che può fornirgli garanzie è il Presidente Nichi. Prima di terminare la densa conversazione degna di due che dovrebbero essere dalla parte opposta della barricata, Archinà dice a Losappio che è necessaria una regia nascosta. A cui Losappio risponde che occorre dire a Vendola che il problema non è solo dell’ambiente ma anche lavoro, occupazione e sviluppo”. Tralasciando un piccolo particolare: il tributo di morti pagato dalla città. A fine settembre, sempre Losappio spiega ad Archinà il disegno di legge sul benzo(a)pirene, premurandosi di dirgli che le modifiche che avrebbe voluto apportare alla proposta non sono passate. Loro cinguettavano e i tarantini continuavano a essere avvelenati dal benzio(a)pirene – secondo l'OMS genotossico e causa di gravi mutazioni genetiche – che per il 98% proveniva dalla cokeria dell’Ilva. Come stabilito dalla relazione dell’Arpa del 4 giugno 2010. Uno sgarbo da dover far pagare al direttore dell’Arpa Giorgio Assennato, il grande assente alla conferenza stampa di presentazione del monitoraggio. Di fronte a un dato così agghiacciante che anche gli enti locali rassicuravano sarebbe rientrato nei limiti nel 2012, gli ambientalisti fanno un esposto in Procura. Scrive la Gip Patrizia Todisco nell’ordinanza, luglio 2012, “Già in precedenza i vertici Ilva avevano presagito che la questione delle emissioni di benzio(a)pirene avrebbe potuto potenzialmente nuocere allo stabilimento. Eloquente la conversazione (5/05/2010) allorquando l’Archinà contattava Francesco Manna capo di gabinetto della Regione affinché intervenisse su Antonicelli (l’allora dirigente all’ambiente della Regione) e Assennato sollecitandoli ad instaurare il predetto tavolo tecnico sul benzio(a)pirene. L’avvocato Manna aderendo chiaramente alla richiesta dell’Archinà replicava che già in precedenza era intervenuto dicendo di stare calmi”. Francesco Manna, indagato, aveva mostrato a Vendola il video di Archinà che strappa il microfono al giornalista: “non posso riprendersi dalla risate” nel-l’aver visto quello “scatto felino... col mio capo di gabinetto siamo rimasti molto colpiti...” Lo stesso Manna al quale Archinà il 6 luglio 2010 spedisce l’avviso giudiziario recapitato all’ingegnere Luigi Capogrosso, ex direttore dell’Ilva, con scritto: “Gentile, ciò che temevo si è verificato grazie adArpaPuglia e al sindaco di Taranto. Mi chiedo a che serve essere leali e collaborativi? Ti saluto cordialmente”. Manna: “Ho dato copia dell’allegato al presidente. Un abbraccio”. Ora capo di Gabinetto è David Pellegrino, anche lui indagato, marito della giornalista dell’Ansa Paola Laforgia, presidente dell’ordine dei giornalisti Puglia che ha ignorato il caso Abbate, il giornalista di Blustar, al cui microfono uscendo dal consiglio Vendola ha detto: “Non ho riso di lei ma di Archinà che appariva come un maggiordomo zelante o Ridolini... comunque lui era l’unica colomba con cui si poteva parlare”. Pensa se fosse stato un falco.

il Fatto 20.11.13
Ilva, i 700 milioni dei Riva nascosti nell’isola di Jersey


CI SAREBBERO 700 milioni di euro nascosti nel paradiso fiscale dell’Isola di Jersey (nel Canale della Manica). Lo ha rivelato due giorni fa la trasmissione Report, diretta da Milena Gabanelli. I soldi, secondo la trasmissione, sarebbero riconducibili alla famiglia dei Riva, la stessa a cui la Guardia di finanza ha sequestrato nei mesi scorsi, 2 miliardi di euro, schermati in 4 società delle isole Cayman e protetti in 8 trust gestiti da Usb. La puntata racconta anche le fasi più importanti dell’inchiesta, aggiungendo un ulteriore dettaglio: il guadagno fatto sulla vendita e sullo smaltimento del catrame unito con scorie della fabbricazione Ilva che poi sarebbe finito sulle strade italiane. Vengono raccontati anche i finanziamenti ai politici da parte dei Riva. Tra questi Bersani nel 2006 ha ricevuto 50 mila euro da Federacciai. Oltre ai 98 mila euro ricevuti da due società dei Riva come rivelato mesi fa da Il Fatto Quotidiano .

l’Unità 20.11.13
L’educazione sessuale dei bambini
di Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Esiste un vademecum dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dal titolo «Standard di Educazione Sessuale in Europa» che consiglia di trasmettere ai bambini da 0 ai 4 anni informazioni sulla masturbazione, dai 4 ai 6 sull’amore omosessuale, tra i 6 e i 9 su mestruazioni ed eiaculazione, tra 9 e 12 su esperienze sessuali non protette. Infine tra 12 e 15 su maternità indesiderata, mettendoli in guardia su l’influenza della religione nelle loro decisioni.
MARIO PULIMANTI
Dare informazioni fin dalle elementari sulla sessualità è davvero sufficiente a fornire una «educazione sessuale»? Guardando al problema da un altro punto di vista: hanno sufficienti nozioni su questi temi le ragazzine che vendono prestazioni sessuali a 14 anni ed i ragazzini che le pagano? Quello di cui ci sarebbe bisogno accanto a quella fondate sull’anatomia e sulla fisiologia del
sistema riproduttivo e a quella sacrosanta dedicata all’omosessualità e alla naturalezza del suo manifestarsi non sarebbe piuttosto un’educazione sessuale capace di tenere conto dei sentimenti che in condizioni normali precedono, accompagnano e seguono l’esercizio della sessualità? I romanzi di Emily Bronte o di Jane Austen, la Recherche di Proust e I promessi sposi non hanno nulla di utile da insegnare in proposito? Considerarla fuori dalle sue naturali cornici di ordine affettivo ed emozionale non è un modo di tradire la ricerca, a mio avviso del tutto naturale, fra la fisicità e il bisogno di essere scelti e riconosciuti da un altro significativo che noi riconosciamo e scegliamo. Giulietta e Romeo sono più sani delle adolescenti messe in difficoltà da traumi più o meno gravi. Che vanno aiutate nel bisogno che hanno di ritrovare una qualche forma di rapporto armonico con se stesse. Con il loro desiderio e con i loro bisogni più profondi. Molto più reali di quelli che esibiscono. In superficie.

l’Unità 20.11.13
Siamo noi adulti gli orchi dei piccoli
Stasera su Rai 1 il film tv di Pupi Avati dedicato all’infanzia negata
di Luigi Cancrini


Si intitola «Il bambino cattivo» e viene trasmesso nella giornata che celebra
i diritti dei fanciulli e degli adolescenti. Racconta
il dramma di Brando alle prese con il divorzio dei genitori e con una solitudine che gli lacera l’anima

IL FILM DI PUPI AVATI CHE VA IN ONDA QUESTA SERA SU RAI 1 DIMOSTRA IN MODO ESTREMAMENTE CHIARO LA FUNZIONEche la Rai intesa come servizio pubblico può svolgere a favore del Paese. Gli input culturali che Il bambino cattivo propone ad un grande pubblico frastornato dai pregiudizi e dalle discussioni strumentali sulle difficoltà delle famiglie e dei bambini infelici sono estremamente positivi, infatti, proprio dal punto di vista dei valori cui si ispirano. Permettendo un incontro niente affatto casuale fra l’intuizione del poeta che sta dietro la macchina da presa e i progressi fatti dalla pratica terapeutica e dalla ricerca scientifica in questi ultimi decenni in tema di infanzia infelice. Da Bowlby e Winnicott in poi.
L’’idea fondamentale cui ci si ispira nel film e cui ci si dovrebbe sempre ispirare quando ci si confronta con questo tipo di situazioni è quella relativa alla centralità del bambino. Dimenticata spesso sui media e nell’immaginario collettivo, dove ad essere sottolineati sono soprattutto i diritti dei genitori, la difficoltà del bambino che vive all’interno di una famiglia incapace di dargli l’affetto e la tranquillità di cui ha bisogno per crescere viene messa in primo piano fin dalle prime sequenze del film in cui il litigio violento fra i genitori viene seguito attraverso gli occhi spaventati e tristi di Brando (uno straordinario Leonardo Della Bianca).
È nel momento in cui si riflettono in quegli occhi e nella stanchezza docile del bambino che i comportamenti scomposti degli adulti (un disperante Luigi Lo Cascio ed una angosciata Donatella Finocchiaro) si rivelano in tutta la loro sostanziale assurdità e in tutta la loro incredibile crudeltà. Di fronte ad un bambino di cui nessuno dei due riesce più ad accorgersi dall’interno di una vera e propria «guerra dei Roses».
Conseguenza diretta del primo, il secondo messaggio riguarda i provvedimenti che devono essere assunti in questo tipo di situazioni. Sottrarre il bambino ai veleni e alla violenza scomposta di un litigio irrimediabile è prima di tutto un dovere dei servizi che dei minori in difficoltà si occupano ed è qui, a mio avviso, che il film in modo particolarmente riuscito rompe con il pregiudizio relativo alle Case Famiglia: presentando il luogo in cui Brando viene accompagnato come un posto accogliente e sicuro invece che come il punto d’arrivo di una violenza che «strappa» (come ai giornali piace spesso titolare) il bambino ai suoi genitori. Spazio reale e accogliente in cui Brando può guardare, sostenuto da adulti affettuosi e mai invadenti, la «casetta rossa» in cui, riluttante e spaventato, finalmente arriva è lo spazio ideale per una riflessione accurata su quello che gli sta accadendo intorno e per una elaborazione sana del trauma (del lutto) con cui la vita lo sta confrontando. Proponendo un problema importante a chi guarda sulla necessità di lavorare perché una possibilità di questo tipo (ed a questo livello: un livello che ancora non c’è sempre) sia offerta a tutti i bambini che ne hanno bisogno. Superando la retorica degli (sugli) «istituti» e valorizzando il lavoro di chi ogni giorno, in quelle piccole strutture, ai bambini infelici dedica il suo tempo, la sua professionalità e la sua capacità di accogliere la loro angoscia.
Terzo ed ultimo messaggio di un film che andrebbe proposto come materiale di studio e di riflessione per tutti quelli che si occupano di affido e/o di adozioni è quello che riguarda l’incontro di Brando con i due adulti che al Tribunale e alla Casa Famiglia si rivolgono per trovare il bambino che ha bisogno di loro e di cui loro hanno bisogno. In modo purtroppo drammaticamente diverso da quello che accade in tante adozioni frettolose e destinate poi a problemi (e, spesso, a fallimenti) più o meno drammatici, l’intuito del poeta dietro la macchina da presa coglie qui con incredibile precisione la complessità delle emozioni suscitate nel bambino infelice dalla proposta di due genitori che si offrono per prendere il posto dei suoi. Attivando il suo conflitto di lealtà (tradotto nel film in una fuga dalla casa famiglia, alla ricerca della madre) nei confronti di quelli che non ce l’hanno fatta ad occuparsi di lui e di cui lui ricorda tuttavia anche il tempo di un amore comunque ricevuto e dato. Affrontando la diffidenza naturale, poi, del bambino ferito nei confronti di adulti che potrebbero deluderlo di nuovo e di cui a lungo non comprende bene se vogliono lui o un bambino qualunque destinato a colmare il vuoto del figlio che hanno perso (nel film) o sognato (in tante altre situazioni). Ma proponendosi soprattutto come adulti in grado di accettare l’idea che sia lui a dare i tempi di un contatto e di un avvicinamento che deve essere vissuto come una scelta. Da costruire lentamente. Con dolcezza. Accettando fino in fondo la paura che ad essa si collega.
Il messaggio che voglio dare, mi diceva Pupi Avati all’inizio di questo lavoro cui io e mia moglie Francesca abbiamo cercato di dare il contributo di un’esperienza maturata con il Comune di Roma nel Centro Aiuto al Bambino Maltrattato e Famiglia, è il messaggio di chi crede nel fatto che all’infelicità del bambino si possa porre rimedio. Ascoltandola. Accogliendola. Cercando con lui delle soluzioni. C’è in tutti i bambini e in particolare nei bambini infelici un potenziale di cambiamento straordinario e giusta o un po’ più giusta è solo una società, in cui un insieme di servizi e di persone si dimostrano in grado di assicurarne il rispetto e lo sviluppo.

l’Unità 20.11.13
Da dove viene la storia
Quel ragazzino di Cittadella trascinato via dai poliziotti


In occasione della Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che ricorre oggi, la Rai presenta questa sera alle ore 21.10 (RaiUno), «Il bambino cattivo», un tv movie diretto da Pupi Avati che dà voce a ciò che può vivere un bambino quando viene abbandonato dalla sua famiglia; quando, con quel peso psicologico, si trova ad attraversare il percorso protettivo predisposto dalle Istituzioni; quando incontra, dopo paura e diffidenza, genitori adottivi che possono amarlo come nessuno aveva fatto prima. Quel bambino si chiama Brando, ha 11 anni e una famiglia che sta per disgregarsi. I genitori, entrambi professori universitari, sono in conflitto da anni e lui sta nel mezzo: strumentalizzato come
testimone di ciò che accade, tirato ora da una parte ora dall’altra; coinvolto nei litigi e nelle recriminazioni senza che abbia la forza per difendersi.
Il regista bolognese ha raccontato che ha iniziato a scrivere il soggetto del film quando lesse sui giornali la notizia del bambino di Cittadella trascinato via dai poliziotti mentre la mamma lo accompagnava a scuola. La scelta dei protagonisti è caduta su Luigi Lo Cascio e Donatella Finocchiaro, genitori in crisi, e il piccolo Leonardo Della Bianca che interpreta Brando, il protagonista della vicenda. Tra gli altri attori, Erica Blanc, Isabella Aldovini, Eleonora Sergio, Augusto Zucchi, e la pertecipazione di Pino Quartullo.

il Fatto 20.11.13
La guerra Ue-Mosca per avere l’Ucraina
La nuova Cortina. Tra pochi giorni Kiev sceglierà se puntare all’ingresso nell’Unione o affidarsi alla Russia
Ma i costi per entrambi saranno comunque molto elevati
di Gianpaolo Caselli


Il destino e il dramma storico dell’Ucraina è già tutto contenuto nel suo nome: Ucraina significa infatti “confine”. Per lunghi periodi l’Ucraina non è esistita come Stato indipendente, contesa fra la Russia e il regno polacco-lituano. L’Ucraina diviene indipendente nel 1991, dopo l’implosione sovietica, e viene sottoposta alle contrastanti pressioni provenienti dalla Russia e, in sostituzione della Polonia, dalla Unione europea. Russia e Unione europea hanno manifestato l’intenzione di estendere la loro egemonia sulla Ucraina e tale contesa si è sviluppata negli anni Duemila, passando attraverso fallite rivoluzioni arancioni, guerra dei prezzi del gas, offerte sia europee che russe di allacciare più stretti rapporti economici e politici.
Queste pressioni vedranno un’ulteriore impennata il 27 e il 28 novembre a Vilnius in Lituania, in occasione del meeting sulla “Eastern Partnership” in cui si deciderà se istituire una prima forma di integrazione commerciale e politica fra Ue e Ucraina, primo passo per una futura integrazione totale nella Ue. L’altra scelta possibile per l’Ucraina è aderire al-l’unione doganale e zona di libero scambio fra Russia, Bielorussia, e Kazakistan, in cui probabilmente confluiranno anche Armenia, Tajikistan e Kyrgyzstan, creando una zona economica euroasiatica.
La classe dirigente ucraina sembrava aver deciso per la scelta europea, provocando la reazione russa che si è manifestata la scorsa estate in varie forme: sul piano economico con il blocco delle forniture energetiche e una diminuzione degli scambi commerciali, fino al blocco dell'importazione di cioccolata dall’Ucraina per presunte ragioni sanitarie. La Russia ha ventilato l’ipotesi di istituire passaporti fra i due Paesi nonostante fra di essi esista da secoli libera circolazione.
Queste reazioni russe avevano compattato la classe dirigente ucraina, spingendola verso l’opzione europea che poi bloccata dalla richiesta tassativa da parte della Ue di liberare Yulia Tymoshenko, detenuta nelle prigione ucraine dopo un processo per niente chiaro e avversaria politica dell’attuale presidente ucraino Yanukovich che non sembra gradire l’eventualità di trovare la Tymoshenko come avversaria alle presidenziali 2015.
Fin dall’indipendenza, negli ultimi 22 anni, l’economia ucraina ha avuto il tasso di crescita più basso della regione, molto inferiore a quello russo, polacco e turco ed è di gran lunga meno sviluppata. Il reddito pro capite ucraino è stato in termini nominali nel 2012 di 3.866 dollari, da confrontarsi con 6.685 dollari della Bielorussia, 14.037 dollari della Russia, 12.707 della Polonia e 10.666 della Turchia. Gli ultimi quattro trimestri hanno avuto una crescita negativa e il futuro è ostaggio dei profondi squilibri del-l’economia ucraina. I punti critici sono rappresentati soprattutto dal deficit statale, quest’anno intorno al 6%, e dal deficit in conto corrente che sarà presumibilmente del 7%. Il rendimento dei buoni del Tesoro ucraini a dieci anni è del 10 per cento, segno che i mercati considerano preoccupante lo stato delle finanze pubbliche del Paese. Le riserve in valuta straniera che due anni fa ammontavano a 38 miliardi di dollari, sono ora circa 21 miliardi di dollari, sufficienti per due mesi di importazioni, ma non per ripagare i prestiti in valuta estera precedentemente contratti.
È solo geopolitica
Se questo è lo stato della economia ucraina, tenendo conto della sua arretratezza segnalata dal basso reddito pro capite e dalla sua specializzazione produttiva (agricoltura, acciaio e semilavorati), non si capisce lo stato di tensione fra Russia e Unione europea per attrarre l’Ucraina nella propria sfera di influenza. L’Ucraina non rappresenta un ricco mercato di sbocco per le esportazioni europee, né un luogo attraente per gli investimenti europei dato il poco evoluto sistema giuridico, politico e istituzionale. Se l’Ucraina opterà il 27-28 di novembre a Vilnius per l’integrazione commerciale e politica con l’Europa, la Ue dovrà mettere in conto rilevanti aiuti finanziari a favore dell’Ucraina, tanto maggiori nel caso in cui la Russia dovesse, come probabile, iniziare una guerra commerciale. E senza dubbio gli elettorati europei non gradirebbero dover aiutare finanziariamente Kiev nell’attuale momento di crisi. Lo stesso vale per la Russia che ha problemi economici rilevanti, alle prese con una modernisazia che sembra non iniziare mai; anche Mosca dovrebbe sussidiare ampiamente l’economia ucraina prima di poterla integrare nella sua unione doganale e di libero scambio. Le ragioni dell’attuale tensione fra Russia e Ue vanno ricercate nelle crescenti incomprensioni sia sul piano economico che su quello della politica estera e sulla interpretazione dei rispettivi interessi. Le due debolezze sempre più si respingono e confliggono. Invece di risolvere insieme il problema ucraino, l’Unione europea, spinta in gran parte dalla Polonia in chiave anti-russa, nostalgica del passato splendore polacco-lituano, cerca un’illusoria influenza a Est. Mentre la Russia persegue in modo moderno qualche vecchio sogno imperiale che non potrà mai più realizzarsi.
* professore di Economia politica all’Università di Modena e Reggio Emilia

La Stampa 20.11.13
Gli Usa vedono vicino l’accordo con Teheran
E Kerry taglia fuori Israele
di Maurizio Molinari


Benjamin Netanyahu imputa a Barack Obama la volontà di siglare un «pessimo accordo» con l’Iran e la Casa Bianca accusa tutti coloro che si oppongono a un compromesso sul nucleare di voler «marciare verso la guerra». Se a ciò si aggiunge il monito di John Kerry a Gerusalemme di «non sabotare gli sforzi negoziali a Ginevra» e l’irritazione israeliana per non essere più aggiornati da Washington sugli sviluppi negoziali è facile dedurre perché la crisi fra i tradizionali alleati viene considerata da analisti e politologi come «la peggiore degli ultimi 30 anni».
«È la disputa bilaterale più seria osserva Robert Satloff, direttore del Washington Institute dalla lite fra Reagan e Begin nel 1982 sulla fornitura degli aerei radar Awacs ai sauditi». Il «Washington Post» riassume in un editoriale gli umori prevalenti: «C’è una profonda divergenza fra l’interesse nazionale americano e israeliano». A definire quello degli Stati Uniti è la volontà di Obama di «raggiungere un accordo per allontanare il più possibile un intervento militare» mentre Israele ritiene che «un cattivo accordo consentirà all’Iran di raggiungere l’atomica portando alla guerra».
Da qui la scelta di Yuval Steinitz, ministro israeliano degli Affari Strategici, di «auspicare a Ginevra un accordo come la Libia, non come la Nord Corea» ovvero simile allo smantellamento integrale del programma nucleare accettato da Gheddafi nel 2003 piuttosto che ai ripetuti fallimenti americani di impedire a Pyongyang di raggiungere la bomba. Il riferimento alla Nord Corea non è casuale perché Gerusalemme teme che senza smantellare l’impianto di Arak gli iraniani riusciranno a produrre plutonio, arrivando alla bomba seguendo la strada già percorsa da Pyongyang e, prima, da Islamabad. Ma si tratta di obiezioni che sulla Casa Bianca pesano meno degli incoraggiamenti di Zbignew Brzezinski e Brent Scowcroft, ex consiglieri della sicurezza di Jimmy Carter e George Bush padre, secondo cui «perdere l’opportunità dell’accordo a Ginevra significa nuocere alla non-proliferazione e aumentare la possibilità di una guerra».
I disaccordi fra Obama e Netanyahu sono tre. Primo: sul piano strategico Israele teme che un accordo senza lo stop all’arricchimento dell’uranio vanifichi le risoluzioni Onu che lo prevedono. Secondo: sul piano tattico la riduzione delle sanzioni stimata in circa 20 miliardi di dollari annuali fa temere a Israele che Teheran abbia risorse sufficienti per arrivare alla bomba. Terzo: sul piano operativo l’irritazione di Israele, e delle associazioni ebraiche americane, è nell’essere stati tenuti all’oscuro dei contatti segreti Usa-Iran che hanno preparato il terreno a Ginevra.
A tale proposito, fonti israeliane indicano in Valerie Jarrett, consigliera di Barack e amica di Michelle, la protagonista dei colloqui con gli inviati di Hassan Rohani avvenuti in un Paese nel Golfo. L’unico binario bilaterale che sembra continuare a funzionare è quello della Difesa: a fine mese si svolgerà nel Negev una esercitazione con 100 jet con piloti dei due Paesi, assieme a polacchi, greci e italiani, simulando duelli aerei e attacchi al ruolo che evocano proprio lo scenario di un intervento contro gli impianti iraniani.

La Stampa 20.11.13
Il testimone della Shoah che nessuno volle ascoltare
Jan Karski nel ’43 cercò invano di far capire al mondo la tragedia degli ebrei
Tradotto il suo libro, 70 anni dopo
di Umberto Gentiloni


L’incontro con Roosvelt
«Fui costretto a precisare che non si trattava di “persecuzioni” ma di uno sterminio sistematico»

Entrato nel 1939 nella Resistenza tiene i contatti tra la struttura segreta dello Stato polacco e i rappresentanti del governo esiliati a Londra. Una figura emblematica Jan Karski, simbolo dell’opposizione al nazismo, voce di denuncia sul destino degli ebrei polacchi, sulle atrocità che aveva visto con i propri occhi negli anni del secondo conflitto mondiale: combattente, messaggero, perseguitato, testimone inascoltato, simbolo della incomunicabilità o della colpevole indifferenza. La mia testimonianza davanti al mondo (appena uscito da Adelphi, pp. 513, € 32) è un testo prezioso, finalmente (è il caso di dirlo, a quasi 70 anni dalla prima edizione) tradotto in italiano, curato con rigore filologico da Luca Bernardini. Un volume fondamentale che andrebbe inserito nei percorsi di formazione e preparazione ai viaggi della memoria delle nostre scuole e università che hanno come destinazione luoghi del territorio polacco.
La parabola biografica di Karski scuote le coscienze, accompagna il lettore sin dalle prime pagine nell’universo più profondo della guerra, nelle sue dinamiche senza appello lungo i confini dei comportamenti individuali, degli spazi di scelta possibili, della sofferta consapevolezza di un cammino senza ritorno. Karski ha trentanove anni quando la Polonia viene invasa dall’aggressione nazista. La sua opzione non ammette esitazioni: vuole combattere, chiede con insistenza di entrare nelle file della Resistenza. Con il coraggio di chi sente di militare dalla parte giusta diventa protagonista di missioni audaci, mette a repentaglio la propria incolumità, cerca di andare in prima linea dove è convinto che si decidano le sorti della guerra. Identificato e catturato dalla Gestapo viene sottoposto a torture efferate in un carcere militare, tenta di farla finita, ma alla fine ne viene fuori con una fuga rocambolesca. Era riuscito a penetrare all’interno del ghetto di Varsavia e si era spinto fino al cuore della soluzione finale, dentro il perimetro del campo di sterminio di Belzec.
Parole da un incontro con il gruppo dirigente del movimento clandestino: «Era una serata da incubo, ma vi aleggiava un senso di oppressiva, insopportabile realtà estraneo a qualsiasi incubo. Sedevo su una vecchia poltrona rotta, cui mancava un piede, rimpiazzato da due mattoni messi uno sull’altro. Temevo che se mi fossi agitato troppo sarei caduto per terra. Vi rimanevo inchiodato, incapace di proferire parola, mentre quella tempesta di sentimenti mi travolgeva». I suoi interlocutori non si fanno pregare vanno al sodo: «Moriremo tutti. Magari qualcuno riuscirà a salvarsi, ma tre milioni di ebrei polacchi sono condannati. Lo sono anche altri, portati qui da tutta Europa». Karski ascolta incredulo l’argomento che fa più male: «I tedeschi non intendono asservirci, come hanno fatto con i polacchi e con altri popoli. Vogliono liquidarci. Tutti. Ci corre una bella differenza. È questo che la gente non capisce, e che noi non riusciamo a far capire. A Londra, a Washington, a New York credono che gli ebrei esagerino, che siano in preda a una crisi isterica».
Un atto di accusa e, al tempo stesso un’ammissione d’impotenza. Il messaggero registra nella sua mente e inizia un pellegrinaggio disperato alla ricerca dei grandi della Terra. Uscito dalla Polonia si rivolge alle potenze alleate, arriva fino alla Casa Bianca con un mandato preciso. La mattina del 28 luglio 1943 un lungo colloquio con Roosevelt: «Le domande del Presidente erano pertinenti, dettagliate e centrate sui punti più importanti. Fui costretto a precisare, con esempi concreti, che non si trattava di “persecuzioni”, ma dello sterminio sistematico dell’intera popolazione ebraica».
Il finale purtroppo è noto. Jan Karski scrive le sue memorie, prima edizione 1944, titolo Story of a Secret State, e anche il percorso del volume, delle sue successive edizioni e revisioni dell’autore, diventa una storia nella storia. Si trasferisce negli Stati Uniti insegnando Scienze politiche presso la Georgetown University di Washington. Tenta di voltare pagina fino a quando Claude Lanzmann lo rende protagonista del suo Shoah (1985) in una sofferta intervista di otto ore che riapre ferite e interrogativi sull’indifferenza degli alleati. Muore nel 2000. Marek Edelman, sopravvissuto all’insurrezione del ghetto di Varsavia, partecipa alla messa funebre. Sulla targa che accompagna il monumento in suo onore, all’esterno del consolato polacco a Manhattan, a due passi dalla Morgan Library, si legge: «Il primo a informare gli alleati dell’Olocausto quando ci sarebbe stato forse il tempo per impedirlo».

Oggi a Torino
A «Jan Karski, il testimone inascoltato» è dedicata la giornata di studi in programma oggi a Torino, presso la Fondazione Camis de Fonseca (via Pietro Micca 15), a partire dalle ore 10. Sui temi della resistenza al nazismo e della distruzione degli ebrei in Europa nel silenzio degli Stati democratici interverranno Luca Bernardini, curatore per Adelphi di La mia testimonianza davanti al mondo di Karski, Ugo Volli, Anna Raffetto, Elisabetta Massera, David Meghnagi, Livia Line e Zuzanna Schnepf-Kolacz.

Repubblica 20.11.13
Cosa rimane del mito JFK nell’America di Obama
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON TRAFITTO per sempre dallo spillo di Lee Harvey Oswald come una incantevole farfalla amazzonica inchiodata alle pareti di un museo, John Fitzgerald Kennedy vola immobile da mezzo secolo nella fissità luminosa del suo mito. Più di settantamila libri in ogni lingua, centocinquanta dei quali pubblicati soltanto quest’anno nella frenesia commerciale del cinquantenario, hanno cercato di raccontarlo e di spiegarlo, di demolirlo e di strappargli le ali, ma come tutti i miti anche quello di JFK e del suo castello incantato è qualcosa che, non essendo mai esistita, esisterà per sempre.
Mai prima di lui nella storia del Nuovo Mondo, e mai come per lui, la profezia del drammaturgo greco Menandro, ripresa da Giacomo Leopardi, “Muor giovane colui ch’al cielo è caro”, si è rivelata vera. “Jack”, come era chiamato in famiglia, era stato il più giovane presidente americano mai eletto, e sarebbe stato il più giovane a essere assassinato, ad appena 46 anni.
ED è da qui, dal culto immortale e universale della giovinezza, che soltanto la morte può rendere davvero eterna, che un viaggio nel mito di Kennedy deve necessariamente partire.
Se Jack fosse ancora vivo oggi, avrebbe novantasei anni. La legge del tempo avrebbe devastato quel volto da ragazzaccio irlandese col ciuffo nel vento di Hyannis Port e corrotto quella mente rapida e ironica capace di battute indimenticabili come il suo giudizio sardonico sulla presidenza: «La paga non è granché, ma non ci sono mai problemi di parcheggio e si può andare a lavorare a piedi». Basterà ricordare la lunghissima e triste agonia di Ronald Reagan, il “Kennedy della Destra”, disperso per cinque anni nel labirinto dell’Alzheimer per capire quale crudele privilegio la sua fine fulminea sia stata.
Immaginare un JFK vecchio, ridotto alla partecipazione a funerali altrui e a spot di beneficenza è impossibile. Un secondo mandato, se anche fosse riuscito a farsi rieleggere nel 1964, vittoria niente affatto scontata, lo avrebbe risucchiato nella pania della “maledizione del secondo giro” e avrebbe probabilmente intaccato la magica polverina sulle ali della farfalla. Troppi, e troppo grandi, erano i problemi che quei suoi primi mille giorni avevano rinviato, dalla cancrena di un Vietnam dove lui aveva autorizzato l’assassinio del presidente in carica Diem, ai diritti civili che bollivano irrisolti sotto il suo pragmatismo moderato, per pensare che Jack sarebbe uscito dalla Casa Bianca nel 1969 nello splendore degli abiti nuovi dell’imperatore.
Non era soltanto la sua giovinezza, ad avere incantato un mondo che aveva provato un brivido di ammirazione e di invidia per l’avvento di JFK alla presidenza. Kennedy era la giovinezza dell’America 1960, l’apogeo di una superiorità materiale e morale degli Stati Uniti d’America che finalmente trovava la propria icona favolosamente telegenica dopo quell’Eisenhower, figlio della carta stampata e della radio. Quando fu ucciso, la generazione dei figli della guerra era diventata adolescente, i loro padri e madri avevano l’età del nuovo presidente e nella sua sonora incoscienza, nella sua retorica che aveva dato volto alla televisione neonata, anche i sovietici avevano intravisto, dopo il brivido dell’olocausto nucleare per Cuba, l’ipotesi di una coesistenza arcigna. Era un incosciente, dicevano gli avversari, un millantatore. Quando annunciò lo sbarco sulla Luna, non soltanto non esistevano progetti per l’operazione, ma neppure i sistemi di guida, i metalli per costruire e pilotare quei razzi.
Si volle credere, per i quasi mille giorni del suo percorso, che finalmente la guerra, e la sua eredità, fossero finite, che le follie maccartiste si fossero consumate per sempre, che l’America bianca, puritana e protestante avesse “passato la torcia” al prodotto della più disperata fra le migrazioni europee, quella cattolica irlandese. Che un soffio di quell’Europa umiliata e distrutta da se stessa nel trentennio fra le due guerre suicide si fosse trasmesso anche ai conquistatori-liberatori, attraverso non soltanto Jack, ma attraverso Jackie, Jacqueline Bouvier, il suo sangue francese, il suo gusto per l’eurochic, i (finti) tailleur Chanel, la cura nell’arredamento, dopo decenni di dignitose first lady in abiti da sermone domenicale e gentiluomini in redingote o giubbotto da generale a riposo. Avremmo scoperto soltanto decenni dopo, quali verità nascondesse la coppia perfettina, il velista scarmigliato e la madamina impeccabile sotto il “cap” da cavallerizza. Non si sapeva, anche se lo si intuiva, che quella “Norma Jean” ciucca fradicia che miagolava «Happy B’day Missser Pesident» era stata l’amante sua e del fratello, inun torbido triangolo. I giornalisti, chiusi nel complice maschilismo del tempo, ignoravano, segretamente approvavano, sicuramente invidiavano, le gare a inseguimento attorno alle scrivanie della Casa Bianca per acchiappare “Fiddle” e “Faddle”, le due segretarie che fingevano di sfuggirgli. Erano taciuti gli amori con Judith Campbell, la pupa di Cosa Nostra, un po’ amante e un po’ corriere fra JFK e Sam Giancana, il padrino di Chicago che tanto si era adoperato per fargli battere Nixon nel novembre 1960, facendo meritare alla metropoli su lago il celebre slogan del: «Venite a a Chicago, la città dove potete votare anche da morti».
Chi credette, come Seymour Hersh nel suo “Il lato oscuro di Camelot” o Robert Dallek nella “Presidenza incompiuta”, di sbriciolare la farfalla inchiodata non aveva capito che non era la santità ascetica, ma l’umanità crocefissa dai proiettili di Dallas il motore della leggenda. Le sordide rivelazioni, le confessioni di fanciulle che avevano sacrificato entusiasticamente il fiore della propria purezza per Jack, i misteri sul suicidio di Norma Jean Marilyn Monroe, la complicità spregiudicata di Jackie — anticipatrice di Hillary quasi 40 anni dopo con il suo Bill Clinton — avrebbero alimentato, non spento, quella fiaccola che brucia sulla tomba di famiglia ad Arlington.
I misteri sulla vita e sulla morte di John F Kennedy sono diventati il carburante che tiene viva la fiamma sulla quale, il 22 novembre, anche Obama andrà a pregare, sapendo che un presidente afro non sarebbe stato possibile se mezzo secolo prima il monopolio dei bianchi protestanti anglo non fosse stato spezzato da Jack l’Irlandese. Lo aveva capito benissimo Ronald Reagan, che oggi contende a Kennedy il primato nella popolarità postuma e che ammirava, e studiava, il predecessore trucidato, soprattutto nella sua capacità di infondere ottimismo.
Tutto, anche il martirio del fratello Bobby nel 1968, il disastro di Ted nelle paludi di Chappaquiddick con la morte di una innocente segretaria, la fine del bambino accanto al feretro, di John John, inabissato con la moglie e la cognata nella acque dell’Atlantico con il proprio aereo ormai in vista delle tende bianche di Hyannisport, avrebbe acceso i colori sulle ali della farfalla inchiodata che avrebbe continuato a volare. Forse non sapremo mai fino in fondo chi, e perché, e se, qualcuno abbia ordito una cospirazione per ucciderlo a Dallas e non è detto che la verità finale sia nei 1.170 documenti secretati fino al 2017 che il successore — o la successora — di Obama potrà, ma non dovrà, pubblicare.
Ma si può sperare che un lembo di mistero rimanga sempre, come quelle nebbie di pianura che resistono anche al sole, per coprire come un sudario quello che davvero morì il 22 novembre del 1963 affinché potesse vivere ancora: l’American Dream, il sogno di un’America che non c’è più, e per questo rimpiangiamo.

Corriere 20.11.13
Se l’eredità del Sessantotto è un parricidio impossibile
di Luca Mastrantonio


È da decenni che, ciclicamente, si mette sotto accusa l’egemonia dei sessantottini. È lecito, dunque, sostenere che si tratti di un’egemonia forte, ancora radicata, nonostante i suoi protagonisti stiano invecchiando (come tutti, il Cavaliere non ha l’esclusiva).
Riccardo Puglisi, sul Corriere della Sera di ieri, ha parlato di «gerontocrazia sessantottina» per sottolineare l’identità anagrafica di una parte importante della classe dirigente tuttora al potere (politico e mediatico), che da sinistra ha ispirato — o comunque ottenuto, anche per altri della stessa generazione — diritti e tutele che oggi sono negati ai più giovani; una gerontocrazia difficilmente compatibile con la meritocrazia, per le battaglie combattute in nome dell’egualitarismo.
L’espressione può suonare sgradevole a quanti credono che essere dei babyboomers (nati durante il boom , tra il 1945 e il 1964) significhi essere forever youn g, sempre baby, magari perché godono delle babypensioni, istituite all’inizio degli anni 70 (e non è una pensione baby quella di Toni Negri? Con poche sedute in Parlamento, il leader della sinistra extraparlamentare classe 1933, anticipatore del ‘68, si è garantito il vitalizio ) . Parlare di «gerontocrazia sessantottina» può suonare sgradevole, per restare a sinistra, a quanti si considerano «ragazzi» del «secolo scorso», come si presentavano vezzosamente, solo qualche anno fa, Fausto Bertinotti e Rossana Rossanda nei rispettivi libri di memorie.
Ma è un dato di fatto. Come il debito pubblico intestato soprattutto alle generazioni più giovani, gli squilibri previdenziali a favore di chi gode di pensioni retributive, pagate da chi, magari, non ne avrà una (contributiva) decente.
Su Twitter si è risentita Giovanna Nuvoletti, autrice dell’Era del cinghiale rosso (Fazi) libro con cui celebrava l’Ultima spiaggia di Capalbio, il bagno preferito dai radical chic (frequentato assieme al marito Claudio Petruccioli, ex presidente Rai): «Ho 71 anni, sono agghiacciante?», ha scritto scandalizzata dall’osservazione di chi segnalava (come «agghiacciante») il divario crescente di reddito tra i babyboomers da una parte e Generazione X (nati tra i 60 e gli 80) e Millennials (tra gli 80 e il 2000) dall’altra.
Il direttore del «Post» Luca Sofri (classe 1964, il padre Adriano è del 1942) sostiene su Twitter che scrivere nel 2013 un pezzo contro i sessantottini che occupano le poltrone «offende le molte persone che non occupano un bel niente». Resta il dubbio se le molte persone siano altri babyboomers meno fortunati o meno fortunati figli dei babyboomers.
Per fugare dubbi più strutturali, bisognerebbe fare i conti con il vero grande rimosso della società italiana di oggi: il parricidio. Chi ha fatto il Sessantotto è andato al potere uccidendo metaforicamente la figura paterna, cioè l’autorità, sostituendola con la propria. Ma questa eredità della sinistra «rivoluzionaria», oggi, è praticamente inservibile; se non addirittura castrante, perché chi ha vissuto o cavalcato i cambiamenti del Sessantotto (come Umberto Eco, classe ‘32 e Massimo Cacciari, classe ‘44) magari invita pure i giovani a ribellarsi, a commettere un «sano parricidio».
Impossibile, però, perché farlo significa eseguire un ordine del padre. Rispettare il principio di autorità.

Corriere 20.11.13
L’Europa tradita dagli intellettuali è minacciata da banalità e cinismo
Vargas Llosa: state diventando come i sudamericani di una volta
intervista di Andrea Nicastro


MADRID — «L’Europa si è sudamericanizzata». «È diventata terra di populismi e irresponsabilità». Non per un qualche golpe militare, ma per la rinuncia alla propria intelligenza. «La cultura si è fatta spettacolo, si è banalizzata, ha perso la capacità di risvegliare lo spirito critico essenziale in democrazia». Nel vecchio continente «l’Italia è tra i malati più gravi». «Da voi la crisi non è solo economica, è anche morale, di Stato. E la colpa è di Silvio Berlusconi che, con il suo carisma e la simpatia, è capace di affossare ogni tentativo di rinascita».
Come un pendolo, da 50 anni, Mario Vargas Llosa si muove tra America Latina ed Europa. Quando arrivò per la prima volta nel vecchio continente, era un ragazzo con il senso d’inferiorità del cittadino delle repubbliche a sovranità limitata, spaccate da tremenda povertà e oltraggiosa ricchezza. Passò dall’infatuazione per Fidel Castro all’ammirazione per Margaret Thatcher. Negli anni Ottanta, scrittore affermato e uomo maturo, era ormai diventato una mosca bianca tra gli intellettuali del Cono Sur . Gli stava stretta l’idea che per gli americani «di sotto» fossero possibili solo due regimi: la dittatura militare o il marxismo. Divenne uno dei pochi a pensare che privatizzazioni ed economia di mercato fossero la cosa giusta da fare, nonostante la giungla, gli indios e i tropici. Divenne la voce alternativa a Gabriel García Márquez, che, al contrario, restava ancorato alla fede nel modello cubano. Non era una posizione facile quella di Vargas Llosa. Nel 1990 si candidò alle elezioni presidenziali del Perù per un cartello di partiti di destra e il fallimento fu clamoroso. Nel 1994 la Biennale di Venezia non lo volle in giuria perché «al soldo della Cia» e «amico delle dittature». Altri tempi.
Oggi, Vargas Llosa parla con l’autorità del Premio Nobel con il «Corriere» e il «Mundo» sulla crisi europea e il suo ultimo libro, L’eroe discreto (Einaudi), che ne è in qualche modo la nemesi. E, orgoglioso della crescita economica e democratica latinoamericana, attacca, sempre da destra, l’Europa e soprattutto l’Italia.
Vargas Llosa, sotto la sua casa di Madrid ci sono montagne di spazzatura per lo sciopero dei netturbini. La sua porta è blindata per paura dei ladri. Di questi tempi l’Europa assomiglia più al Sudamerica che all’oasi di benessere cui eravamo abituati.
«È vero, l’Europa si è sudamericanizzata, ma curiosamente l’America Latina si è europeizzata. Una volta peruviani, colombiani, centro americani sgomitavano per venire a lavorare qui. Ora sono moltissimi gli europei, spagnoli in testa, che si cercano un futuro nel Cono Sur».
È finita l’età dell’oro europea?
«No, l’Europa non morirà. È solida, andrà avanti. Certe previsioni terroristiche sono ingiustificate. Certo, non si tornerà a vivere come prima, anche perché prima non potevamo permettercelo, però basterà una drastica marcia indietro e, purtroppo, il pagamento di un alto prezzo per gli errori commessi».
Quali errori?
«L’Europa ha accantonato le proprie idee per applicare ricette sudamericane. Populismo, corruzione, sprechi, vivere al di sopra delle proprie possibilità, cinismo nei confronti della politica, sono caratteristiche del sottosviluppo, eppure hanno avuto il sopravvento in molti Paesi europei. Non tutti, per fortuna. Quelli virtuosi, come la Germania, non hanno sofferto la crisi».
Perché è successo?
«Credo sia un problema culturale. Spendere più di ciò che si guadagna è un’irresponsabilità figlia del populismo, che, a sua volta, significa sacrificare il futuro per il presente. Invece di cercare la causa nel mondo esterno, l’Europa farebbe bene a capire come ha incubato il male che ora la strangola. Indebitarsi in maniera totalmente irresponsabile non è gratis».
Italia e Spagna più di altri.
«Però, mentre la Spagna mi sembra abbia toccato il fondo e cominci a risalire grazie a riforme coraggiose, l’Italia non esce dalla sindrome Berlusconi che sta ancora lì, è la pietra che affonda il Paese. Perché la culla della civiltà occidentale sia politicamente tanto immatura, capace di scegliere sempre l’opzione peggiore, è difficile da capire. Però non è un caso unico. Qual è il Paese più colto dell’Ameria Latina? È l’Argentina, eppure politicamente fa piangere, è una specie di Italia dell’emisfero sud. Lo diceva Camus: la persona più intelligente in un campo può essere la più inetta nell’altro».
In altri tempi gli intellettuali sarebbero riusciti a farsi sentire?
«A volte è meglio che stiano zitti. Si pensi a ciò che dicevano durante la guerra fredda. Difendevano mostruosità, regimi che commettevano le più grandi atrocità della storia, Stalin e Mao. Non intellettuali d’infimo rango, ma di altissimo livello. In Francia Jean-Paul Sartre diceva che “tutti gli anticomunisti sono dei cani” o che “in Urss la libertà di critica è totale”. Non molto diverso da ciò che sosteneva Alberto Moravia, o il guru degli intellettuali italiani, Elio Vittorini, che negò addirittura la pubblicazione al Gattopardo , dicendo che non era conveniente politicamente. C’è una grande responsabilità di quegli intellettuali».
Nel suo discorso per l’accettazione del Nobel, lei però ha parlato di spettacolarizzazione della cultura, non di politicizzazione.
«La banalità ha contribuito molto alla crisi. Se la cultura è solo intrattenimento, perde la capacità di instillare spirito critico. In quel vuoto si installa il cinismo. Se tutto il mondo ruba, nessuno si sente ladro. Se tutti sono corrotti, nessuno si giudica corrotto. Società libere hanno bisogno di spirito critico, di gente che creda di poter cambiare per il meglio e si impegni a farlo».
Lei sta per ricevere il XII Premio internazionale di giornalismo di «El Mundo», ma anche l’informazione è in crisi.
«Se i giornali vivranno o moriranno dipende da noi. Non c’è una legge di natura. Il problema è la domanda crescente di pettegolezzi e frivolezze a cui è difficile resistere, pena il fallimento economico. Anche i media più seri aprono le pagine alle sciocchezze. Pare un peccato veniale, ma fa moltissimo danno, perché se la gente si adagia, si perdono gli anticorpi verso i corrotti e finisce che i ladri risultano simpatici, guasconi che ce la fanno. Proprio come Berlusconi, che è carismatico e simpaticissimo, ma guardate il danno che ha fatto all’Italia».
Il suo ultimo romanzo, «L’eroe discreto», ha per protagonista un peruviano che resiste alla mafia. Ha messo sulla pagina il riscatto morale del Sudamerica, mentre l’Europa si confonde?
«La realtà ha smentito la mitologia dell’anticapitalismo sudamericano, secondo il quale gli indios volevano continuare a vivere nei loro campi a proprietà collettiva in una società idealmente marxista. Invece gli indios sono gente normale, che vuole buone scuole per i figli, ospedali, acqua potabile. Felicito, il mio protagonista, mi è stato ispirato da un vero peruviano, che ha pubblicato una lettera alla mafia dicendo che non avrebbe mai pagato il pizzo. Come il mio piccolo Felicito è quell’imprenditore basco che si ribellò all’Eta, o Roberto Saviano, che ha descritto la camorra e ora è minacciato. C’è una riserva morale ovunque. Speriamo basti» .

Corriere 20.11.13
Chiara d’Assisi Povera ma libera
di Emanuele Trevi


È un «elogio della disobbedienza», più che una biografia vera e propria, il bel libro che Dacia Maraini ( nella foto ) ha dedicato a Chiara di Assisi . Ciò che preme alla scrittrice è la possibilità di meditare su una forza di volontà così tenace da sovvertire regole che possono apparire indiscutibili. Fino a un certo punto, la ribellione di Chiara è la diretta conseguenza di quella di san Francesco, il suo grande modello. Ma il «piccolo cuore illuminista» della Maraini, ammesso il fatto, segue un’altra pista, relegando il legame con Francesco sullo sfondo e considerando Chiara alla stregua di un’artista che imprime alla materia della sua vita una forma originale e inimitabile.
È un cammino verso la più totale libertà che si fonda su uno sconcertante paradosso: con la durezza della sua vita, Chiara costruisce una prigione ancora più dura di quella condivisa da ogni donna del tredicesimo secolo. Ma nella clausura di San Damiano, assieme alle sue sorelle, la sua esistenza è effettivamente inviolabile. Si allentano contemporaneamente i lacci oppressivi del maschile, e della proprietà. La povertà volontaria è definita da Chiara, con uno di quegli aggettivi talmente illuminanti da sostituire interi trattati, «altissima»: come il tappeto magico delle fiabe, consente di librarsi al di sopra della miseria di ciò che è stabilito, che subiamo senza sapere perché. Come per Francesco, per Chiara il significato profondo della povertà è la libertà di inventare il proprio destino.
Con questo libro, che per metà è un epistolario con una misteriosa interlocutrice, e per metà un diario, Dacia Maraini ha aggiunto un prezioso tassello al suo femminismo, tanto più convincente quanto più estraneo alle sirene dell’astrazione, filosofica o ancora peggio politica. Ragionando da scrittrice, è convinta che le idee, anche le più giuste, devono passare per la cruna dell’ago dell’individuo, e lì, in quel dato corpo e in quella mente, prendere quella particolare fisionomia individuale, quell’inconfondibile deformazione che le rende credibili.
È proprio questo, in fin dei conti, il contributo originale che la letteratura aggiunge agli altri saperi umani. E del resto, che senso avrebbe per la Maraini fare a gara con testi storici come quelli insuperabili di una Chiara Frugoni, o con le interpretazioni di filologi come Giovanni Pozzi ? Non c’è cosa più insopportabile del dilettantismo dello scrittore che, ammassato un certo numero di notizie dai libri «seri», si lancia in discutibili e inutili variazioni sul tema. Anche la Maraini, ovviamente, ha letto molti libri su Chiara e sui suoi tempi. Leggere, confessa a un certo punto, è la gioia suprema della sua vita.
Ma se si azzarda ad affrontare un argomento come questo, non dimentica mai che il suo tipo di conoscenza del mondo si fonda sull’aleatorio, sull’imprevedibile, sull’intuizione momentanea. Sarebbe sciocco pensare che la letteratura sia «superiore» ad altri tipi di discorso sul mondo. Più semplicemente, la letteratura è quel tipo di discorso all’interno del quale, parlando di Chiara d’Assisi, il fatto di sognarla ha lo stesso valore dei libri letti su di lei. E a proposito di questi ultimi, si sa che per uno scrittore anche la scelta delle sue fonti, quando si avventura nel buio del passato, deve essere condotta con un certo spirito di finezza. Ebbene, nell’oceano bibliografico che si è trovata di fronte, la Maraini, ha scelto quello che più si addiceva al suo racconto. Si tratta degli atti del processo di canonizzazione iniziato all’indomani della morte di Chiara, avvenuta nel 1253. È un documento umanamente, oltre che storicamente, preziosissimo, perché contiene la testimonianza diretta delle monache che hanno vissuto giorno dopo giorno insieme alla santa, condividendone gli stenti e la felicità. Ma c’è di meglio: di queste testimonianze non si conosce l’originale latino, ma una bellissima traduzione del Cinquecento fatta da un’altra monaca di clausura. È una lingua bellissima, che più che italiana andrebbe semplicemente definita umbra.
La Maraini non si limita a citare estesamente questo sconosciuto capolavoro, ma lo intarsia nel suo proprio modo di scrivere con grandissima sapienza artistica, facendosi contaminare da quella lingua antica, aspra e infallibile nel nominare le cose, che siano i «sarmenti di vigna» che riempiono il pagliericcio di Chiara o l’anima «sensa macula» della santa, che si inoltra «nella clarità de la eterna luce».

Il libro «Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza» di Dacia Maraini (Rizzoli, pp. 254, e 17,50) verrà presentato a Bookcity il 24 novembre, ore 11, al Piccolo Teatro Grassi, via Rovello 2, Milano. Con Corrado Augias e Mauro Suttora.

Corriere 20.11.13
L’universo della solitudine
A Lugano sabato 23 una giornata di studi sul tema
L’arte oscura dell’isolamento tra emarginazione sociale, creatività e coscienza civica
di Roberta Scorranese


Forse non esiste una solitudine più dolorosa della derisione: isolamento, lontananza da un mondo «altro» che ride, vergogna. Struggimento, questo, racchiuso in un «debole omino calpestato», come lo definì Majakovskij: Charlie Chaplin nel film «Il circo» (1928), dove interpreta un vagabondo che si ritrova, suo malgrado, a fare il goffo illusionista, incarnando uno dei soggetti preferiti da Federico Fellini proprio perché cristallizzazione della solitudine moderna: il pagliaccio triste.
È proprio questo Chaplin uno dei protagonisti di «L’uomo è solo?», prima giornata del ciclo di conferenze «Visioni in dialogo», sabato a Lugano — il successivo appuntamento, sul tema della «folla», è previsto per l’aprile 2014. Perché si discuterà di cinema, arte, scienza, giurisprudenza. Ed è proprio nel cinema classico che il critico francese Nguyen Trong Binh individua una singolare forma di solitudine: «Il personaggio del vagabondo di Chaplin ha ispirato i registi fino alla fine degli anni Quaranta. È l’eroe solo, lo sguardo del singolo», dice.
Gli antieroi successivi (dai detective stropicciati nati dalla scuola dei duri fino al mimo Baptiste, protagonista di quel capolavoro della solitudine sentimentale che è «Les Enfants du Paradis», di Marcel Carné), in tanti riconosceranno questo debito nei confronti di Charlot. Sì, perché il secolo scorso ha canonizzato una forma di solitudine che coincide con l’arte stessa. A Lugano ne parlerà il fotografo tedesco Thomas Ruff, uno che rappresenta volti giganteschi, «isole» umane estrapolate dalla folla, che richiamano, letteralmente, «Un volto nella folla», film di Elia Kazan che, nel 1957, metteva in scena un’altra, modernissima, forma di solitudine: l’uomo comune che si ritrova a conquistare una vasta popolarità (non fama: popolarità) grazie ad atteggiamenti demagogici. Scoprirà, alla fine, che il populismo è una raffinata forma di isolamento.
«Non a caso — prosegue Binh — che oggi, nel cinema, siano proprio le donne registe a interrogarsi sulla solitudine, quelle che per lungo tempo sono rimaste isolate». Il critico parlerà di «Lezioni di piano», il film con cui Jane Campion ci ha raccontato la segregazione di una donna che parla con la musica. Come sola è Maya-Jessica Chastain, che in «Zero Dark Thirty» di Kathryn Bigelow fronteggia i pregiudizi dell’intelligence (maschia) americana e cattura Osama bin Laden.
La critica d’arte Bice Curiger, nell’incontro di Lugano (introdotto da Marco Franciolli e moderato da Elena Volpato), insisterà sull’isolamento dell’artista come scelta estetica, dalle fughe verso l’Atelier du Midi sognate da Van Gogh fino alla barriera insonorizzata dell’utopia scelta da Joseph Beuys. Torna così quella tensione che attanagliava Rainer Maria Rilke all’inizio del secolo scorso. Quando, nel 1902, incontrò Auguste Rodin, il maestro gli disse una cosa che per lui sarà fondamentale: «Il faut travailler». Era una lezione sottilissima: bisogna lavorare e ancora lavorare, investire tutte le energie nella creazione, isolarsi dalle passioni. Isolarsi e basta.
Di qui (come ricorda Tzvetan Todorov ne La bellezza salverà il mondo , tradotto da Garzanti) la crescente tensione lirica di Rilke, nutrita di una solitudine appassionata (che meraviglia le lettere alla moglie Clara, intense proprio perché lontane), fertile, prolifica. È dunque questo il senso più profondo dell’emarginazione? Un astrarsi da tutto il resto per restituire poesia purissima?
O è forse la solitudine vera è la coscienza che gli altri esistono, come spiegherà l’archeologo Salvatore Settis? Quello di Settis è uno degli sguardi più originali sull’argomento: «Rifletterò sul concetto di bene comune — dice —. Quanto siamo consapevoli del fatto che le generazioni di oggi sono legate a quelle di domani, oltre che a quelle di ieri?». L’uomo non è solo, quindi, perché legato a doppio filo al mondo di ieri e a quello di domani, in una continuità che richiede, prima di tutto, responsabilità. «Nella difesa dell’ambiente e del paesaggio — chiosa il professore, già direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa — e purtroppo siamo costretti a parlarne proprio in queste ore in cui la Sardegna conta i danni del maltempo. Credo che sia necessario un patto non scritto tra generazioni, in modo da de-estetizzare il paesaggio, privilegiando l’aspetto etico». Come dire: un tratto di costa deve essere preservato dalle costruzioni non perché è bello (per alcuni può esserlo, per altri no) ma perché è buono , ha valore a sé.
L’uomo, dunque (come spiegherà il biologo e filosofo Telmo Pievani), è solo, sì, per definizione ma vive di una solitudine sempre più ramificata, popolata. Affollata?
«Le pont de l’Europe» del pittore francese Gustave Caillebotte (1848 -1894).

Corriere 20.11.13
Chiediamo un solo gemito alle stelle per rendere più dolce il nostro destino
di Guido Cernetti


Potrei dire che, all’infuori delle psicologie e delle esperienze individuali, la solitudine umana è un oggetto indicibile. Si può porla come illimitata e metterla in dubbio, segnalarla negli elenchi delle specifiche malinconie o cancellarla dall’essere. C’è chi l’ha provata e la prova — sia o no fantasma — a un grado altissimo, fino alla totale insopportabilità (madrina di suicidi); c’è chi l’ama, la loda e la vive perfettamente, e chi ne è banalmente atterrito e si aggrappa a qualsiasi sporgenza del soccorso per scongiurarla.
Antropologicamente, per quanto se ne possa pensare in astratto e nei limiti delle conoscenze, l’uomo è un vivente solo e un morituro solo. Gli Dei si sono incarnati perché lo fosse un po’ meno, ma la Sapienza si è opposta alla perpetuità di questa seducente illusione.
Tra i lupi, il tipo (raro) hominarius (noto come lupo mannaro), essendo il licantropo scarsamente attirato dalla vita cittadina, è un emblema della solitudine, animale e umana congiunte. Perseguitato, ma esemplare. Un poeta che meriterebbe letture e spettacoli pubblici, perché è stato un rivelatore dell’essere, il greco Giorgio Seferis, dice nel poema Una parola sull’estate (1936) di cui traduco qui in prosa un distico: «Siamo tornati; tutte le nostre partenze sono ritorni alla Solitudine (monaxiá): e c’è un pugno di terra, nelle mani vuote». MONAXIÁ, monaxiá... Non è per amore di filologia soltanto che questa parola da una manata d’anni mi lavora la mente.
Va ricordata la sentenze dei quaderni intimi di Anton Pavlovic Cechov: «Se temete la solitudine non sposatevi». Un caso di solitudine impressionante è narrata nel suo libro su Pirandello da Matteo Collura; l’abbandono, quando prese il Nobel nel 1934, dell’amatissima Marta Abba, che rimase a Roma e neppure, se ben ricordo, gli scrisse un telegramma sostenitore. Pirandello l’amò fino alla fine. Monaxiá è il sigillo della letteratura e il pane delle carceri amorose.
«Solitudine infinita»: una nota di due parole è lo specchio di un’intera vita. (Oswald Spengler, A me stesso , Adelphi 1993). L’assoluto della solitudine in una società opulenta, libera passabilmente (Germania prima del 1914) di un uomo di genio. Troppo disprezzo è una condanna a vita. La stanza di Spengler è da lui vista come una prigione: «... I mobili sogghignano. Dentro non c’è nessuno. Non conoscere nessuno da frequentare, una donna, un artista o un commerciante. Troppo stupidi». Via via che i genii si fanno rari, o diventano troppo numerosi secondo le pagine dei giornali e gli spezzoni televisivi, diminuiranno, c’è da crederlo, le estensioni immaginarie, extraorbitali, di solitudine.
Che cosa fanno quei giganteschi, ultrapotenti e crudamente impotenti ordigni di radiotelescopi che frugano frugano frugano l’infinito dei mondi al di là di questo strapopolato pianeta? Vanno in caccia di segnali minimi, a distanze raggiungibili solo dall’ipotesi astrofisica, di solitudini parallele , di un grido di vivente, di un S.O.S. emesso da una confortevole disperazione umana. Vanno in cerca di molto meno di quel cercava disperatamente Spengler a pochi metri dalla sua stanza, che erano anime, sognatori, bacini di pensiero vivificatore; l’occhio che fruga senza posa e ascolta l’agonia delle Supernovae si acconterebbe di un rutto che rompesse quegli ossessivi silenzi di stelle ingoiate dal drago dei Buchi Neri. Di un rutto, non della Divina Commedia o della filosofia di Schopenhauer, o di altra musica di Beethoven! Per annunciare trionfalmente a questi sette miliardi di abitatori di un pianeta che ignorano l’entità del loro essere soli, di aver trovato, a miliardi di Anni Luce, un anima che soffre, in vista di un incontro alla Spielberg. «Con tutta questa tenebra intorno a me mi sento meno solo»: così si consola, ascoltando il nastro che gli rimanda la propria voce, il Krapp del Last tape di Sam Beckett.

Corriere 20.11.13
Ma è impossibile ignorare il gruppo
di Telmo Pievani


L’uomo egoista? No, sa cooperare soltanto nella propria comunità Nell’evoluzione non siamo mai stati soli, per due ragioni. La prima è che fino a poche decine di migliaia di anni fa sono vissute sulla Terra, coabitando talvolta negli stessi territori, diverse forme umane. Ci sono stati molti modi di essere «sapiens» e il nostro è soltanto l’ultimo sopravvissuto, quello di maggior successo demografico e culturale. Proveniamo insomma da una storia plurale, da un albero ramificato.
La seconda ragione è che l’intelligenza sociale è oggi ritenuta la caratteristica adattativa cruciale per l’evoluzione di Homo sapiens, la specie parlante per eccellenza. Solo api, formiche, vespe e termiti rivaleggiano con noi in fatto di socialità, cooperazione, divisione del lavoro in comunità. Rispetto a questi affascinanti insetti, noi mammiferi bipedi abbiamo pianificazione, previsione delle mosse altrui, giudizio morale. Ma soprattutto, approfittiamo dei vantaggi di una modificazione nei ritmi di sviluppo che ha allungato i periodi dell’infanzia e dell’adolescenza, cioè proprio il tempo dell’apprendimento sociale, dell’imitazione, del gioco.
Ne consegue che la nostra mente di scimmie bambine viene letteralmente plasmata, dopo la nascita, dalle interazioni sociali e dall’educazione. Le neuroscienze scoprono in questi anni che il nostro cervello è scolpito (non in astratto, ma nella sua fisiologia) dalle relazioni con gli altri: grazie alle capacità di «simulazione interna», comprendiamo le azioni, le intenzioni e le emozioni degli altri facendole risuonare nella nostra testa. Ma è soprattutto l’etologia contemporanea a mostrare come l’evoluzione in piccoli gruppi abbia caratterizzato la nostra storia naturale di primati.
Gli studiosi del comportamento osservano spiccate attitudini pro-sociali ed empatiche nei nostri parenti più stretti, finora sottostimate. Per Frans de Waal e altri, negli scimpanzé e in altri primati intravediamo forse addirittura i mattoni di base della moralità umana e del senso di giustizia, qualità che emergono dal basso e non sono calate dalle altezze di eterei principi.
Con Homo sapiens queste predisposizioni solidaristiche assumono connotati di certo inediti, ma non vi è più una frattura netta, nemmeno in fatto di senso morale, fra noi e gli altri animali. Con ciò non dobbiamo tuttavia pensare di essere «buoni per natura», come una volta si diceva che eravamo cattivi per natura. Queste oscillazioni fra pessimismo e ottimismo, nel dipingere la natura umana, sono troppo semplici. Lo si nota proprio dagli studi evoluzionistici sulla socialità e dal cosiddetto «paradosso dell’altruismo».
Se l’evoluzione procede per selezione di varianti individuali egoistiche, perché la natura è così piena di cooperazione e di altruismo, in particolare nella specie umana? Chi fa i propri interessi, magari approfittando della generosità degli altri componenti del suo gruppo (come l’evasore fiscale, per esempio), dovrebbe avere un grande vantaggio in termini darwiniani. E invece il battitore libero viene punito e non prevale: perché? La teoria più in voga oggi sostiene che la cooperazione umana nasce come adattamento di gruppo, in un contesto di competizione con altri gruppi. L’individuo rinuncia in parte al proprio egoismo per rafforzare la comunità (che contiene spesso anche i suoi parenti), anche se a scapito di un’istintiva diffidenza verso chi è «altro da noi».
In questa dialettica fra «dentro il gruppo» (il nostro prossimo) e «fuori dal gruppo» (l’estraneo) potrebbero risiedere alcune motivazioni profonde dell’ambivalente comportamento sociale umano, dibattuto tra conformismi sociali e paura della diversità. Se è così, forse non siamo né buoni né cattivi per natura, ma ambigui: capaci di solidarietà e altruismo all’interno del gruppo che ci protegge; pronti al conflitto nei confronti di chi non fa parte del nostro «noi». Potremmo definire questo retaggio in modo paradossale: una solitudine di gruppo.

Repubblica 20.11.13
Dopo il caso Datagate, torna la domanda: dove finisce il diritto di essere informati?
Dall’Economist a Le Monde alla Bbc, ecco il futuro del giornalismo globale
Ai confini della notizia
Perché la libertà di stampa non può piegarsi alla sicurezza
di Enrico Franceschini


LONDRA Una battaglia per difendere libertà e democrazia oppure un favore ai terroristi che ora staranno più attenti a come comunicano tra di loro? Le rivelazioni di Edward Snowden, la “talpa” della National Security Agency americana, sulle intercettazioni di massa di email e telefonate in tutto il mondo, spesso con la collaborazione dei servizi segreti britannici, suscitano opposte reazioni. I governi di Washington e di Londra accusano Snowden, e i giornali che pubblicano i suoi documenti, di “aiutare il nemico”, come hanno detto i capi dello spionaggio di Sua Maestà in una testimonianza senza precedenti in diretta tivù alla camera dei Comuni. Altri governi, a Berlino, a Parigi, a Brasilia, si infuriano, chiedono spiegazioni, minacciano rappresaglie. Il “Datagate”, com’è stato soprannominato, rivela l’esistenza di un Grande Fratello orwelliano che spia nelle nostre vite, controllando perfino il telefonino di Angela Merkel, oppure è soltanto una necessaria risposta delle nuove tecnologie digitali a quanto è sempre avvenuto in nome della sicurezza nazionale? Il “Reuters Institute for the Study of Journalism” dell’università di Oxford ha chiamato a discuterne Sylvie Kauffmann, direttore editoriale di Le Monde, John Micklethwait, direttore dell’Economist, Chris Patten, presidente della Bbc Trust, Michael Parks, ex direttore del Los Angeles Times, e IainMathewson, ex diplomatico del Foreign Office britannico. Tema: il giornalismo responsabile e la sicurezza nazionale nell’era di Big Data. «Tra libertà e sicurezza, dopo quello che è successo, tendo a privilegiare la libertà», è la conclusione a cui è giunto il direttore dell’Economist, condivisa dai più. Ecco una sintesi della discussione, moderata da John Lloyd, nel suo ruolo di direttore del Centro Studi sul Giornalismo di Oxford.
Mathewson: «Le spie spiano, ma lo fanno con l’approvazione e sotto ilcontrollo dei loro governi. Nessuno che io conosca nei servizi segreti britannici aspira a trasformare il pianeta in una sorta di Germania Est digitalizzata dove tutti sanno tutto di tutti. E trovo ingenuo sostenere che un direttore di giornale sia in grado di giudicare se un materiale riservato può essere o meno pubblicato, senza mettere a rischio fonti e vite umane. Per me il Guardian, il New York Times, Le Monde e altri giornali hanno fatto male a pubblicare le rivelazioni di Snowden».
Parks: «Nella mia carriera di giornalista ho appreso un sacco di segreti e ne ho rivelato la maggior parte. Credo che i segreti siano pubblicabili, e che un direttore sappia farlo con la cautela necessaria. Certo, Google sa di me un sacco di cose e finora non me ne sono preoccupato troppo. Certo, la Cia spiava i leader sovietici durante la Guerra Fredda. Ma perché sorvegliare il cellulare della Merkel? Perché intercettare centinaia di milioni di comunicazioni? La mia impressione è che siamo di fronte a un sistema che ha perso ogni controllo: le spie non spiano più solo quello di cui hanno bisogno, ma tutto quello che possono».
Kauffmann: «Le spie hanno segreti, i giornalisti li rivelano: tutto qui. Ci sono dei limiti a quanto si può rivelare, ma facciamo due mestieri diversi e servono entrambi a una democrazia. Tutte le rivelazioni cheLe Mondeha fatto in passato in Francia, dal caso Rainbow Warrior alle intercettazioni di Mitterrand a quelle di Sarkozy, hanno inizialmente suscitato critiche, ma sono poi risultate utili. Era giusto pubblicare le rivelazioni di Wikileaks e ora quelle di Snowden? Rispondo senza esitazione di sì. Anche per Wikileaks all’inizio ci hanno detto che avremmo messo in pericolo vite, compromesso operazioni anti-terrorismo, ma niente del genere è poi avvenuto, altrimenti ce lo avrebbero rinfacciato. E le dimensioni del Datagate sono tali da sollevare dei dubbi sulla sua legalità. Come minimo, ci hanno indotto ad aprire una discussione anche più ampia, su Big Data, l’enorme ammontare delle informazioni che sono controllate dai giganti del web».
Micklethwait: «Non è sempre facile tracciare un confine tra libertà e sicurezza. Dopo l’attacco all’America dell’11 settembre, è stato dato generalmente più peso alla sicurezza. E nelle proteste di certi governi, come quello francese, per lo spionaggio americano, vedo un buon grado di ipocrisia: il vero motivo della rabbia era non essere riusciti a piazzare loro le cimici meglio degli americani. Ma oggi io comincio a dare più peso alla libertà. All’Economist abbiamo appena fatto una copertina su tutto ciò che Google sa di noi, sull’invasione della privacy consentita dal web. Quanto al programma di spionaggio elettronico americano, da quanto è emerso, mi sembra chiaro che non c’erano abbastanza controlli politici e ce ne dovrebbero essere molti di più per operazioni di questo genere. Peraltro, se un agente di basso grado come Snowden poteva disporre di così tante informazioni, significa che nel sistema c’è qualcosa che non va. Per conto mio, appoggio in pieno la decisione del Guardian e di altri giornali di pubblicare quei materiali».
Kauffmann: «Una cosa è certa: quei segreti erano conosciuti da quasi un milione di persone nell’intelligence americana. Prima o poi, qualcuno li avrebbe tirati fuori. Se non fosse stato Snowden, sarebbe stato un altro. Un grande giornale sta molto attento a come pubblica un materiale simile, ma se fosse finito in mano a qualche blog indipendente o a qualche altra fonte, sarebbe potuto uscire grezzo, così com’era, e allora sì il rischio di un danno alla sicurezza sarebbe stato maggiore».
Micklethwait: «Pubblicare o no? È come scegliere tra due mali: da un lato, il rischio di aiutare i terroristi a nascondersi meglio, di far loro sapere in che modo vengono spiati. Dall’altro, il rischio che la nostra società non sia più libera come vorremmo. Non esiste una risposta perfetta, è prendere o lasciare. Io credo però che i terroristi sapessero anche prima che lo spionaggio controlla telefonini ed email, e prendessero le loro precauzioni. Non si tratta di abolire questo tipo di spionaggio, ma di decidere insieme fino a che punto si può spingere, di distinguere tra il cellulare di un membro di Al Qaeda e quello della Merkel, e di creare un sistema di controlli adeguato. Trovare un ago in un pagliaio è complicato, sarebbe strano se lo Stato non provasse a farlo quando può farlo Google. Ma bisogna vigilare sugli abusi».
Kauffmann: «E non ci sono solo gli abusi commessi dallo spionaggio, dagli stati. Noi tutti viviamo in un mondo nuovo. Immaginate se un giorno andate a cercare lavoro e il vostro potenziale datore può sapere tutto di voi entrando sulla vostra pagina di Facebook. Vi piacerebbe? A me no. E penso che il Datagate ci farà riflettere anche su questo».
Patten: «A proposito della Merkel, non mi meraviglia che la Germania l’abbia presa così male. La Merkel è nata in Germania Orientale, sa cos’era la vita sotto la Stasi, giustamente sia lei che i suoi compatrioti sono particolarmente sensibili alle intercettazioni. E nel dibattito libertà/sicurezza, vorrei ricordare la lezione che noi britannici abbiamo appreso durante il conflitto in Irlanda del Nord: ogni volta che abbiamo ristretto la libertà in nome della sicurezza, abbiamo creato più sostegno alla violenza e ci siamo ritrovati meno sicuri di prima».
Parks: «La mia regola, come direttore di giornale, è che io non lavoro per difendere i servizi segreti, non lavoro per difendere il mio governo, lavoro per difendere il popolo americano. Questo è quello che deve fare un giornalista».